Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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SCUOLOPOLI
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELL’IGNORANZA
OSSIA, IL SAPERE DELL’ASINO
www.controtuttelemafie.it – www.telewebitalia.eu
“L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati. L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie. La raccomandazione nel pubblico impiego è la negazione della meritocrazia e dell'efficienza, oltre ad essere un reato impunito e sottaciuto, dato che sono gli stessi raccomandati ad occuparsene. Cultura e scienza in mani improprie. Le scuole non mi invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese.
Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi.
Sia libera ogni attività economica, professionale, sociale, culturale e religiosa. Il sistema scolastico o universitario assicuri l'adeguata competenza, senza vincoli professionali di Albi, Ordini, Collegi, ecc. Il libero mercato garantirà il merito. Le scuole o le università siano rappresentate da un preside o un rettore eletti dagli studenti o dai genitori dei minori. Il preside o il rettore nomini i suoi collaboratori, rispondendo delle loro azioni".
di Antonio Giangrande
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
SCUOLOPOLI.
LAUREATI E ANALFABETI ?!?!?
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
MORTE A SCUOLA. FALLIMENTI E SUICIDI.
VIOLENZA A SCUOLA.
L’ITALIA DELL’ILLEGALITA’. MINORI DEI 14 ANNI ACCOMPAGNATI A SCUOLA: LO IMPONE LA LEGGE.
FOTO DI CLASSE? ADDIO!
A SCUOLA LIBRI FAZIOSI E SINISTRI.
CONCORSI, INSEGNAMENTO ED IMPUNITA’.
LA CAZZATA DELLA DOCENZA SENZA LAUREA.
DOCENZA: CHI TANTO; CHI NIENTE. DOCENTI PRECARI O CON IL DOPPIO LAVORO (ILLEGITTIMO).
LA SCUOLA DA ROTTAMARE.
IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).
LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.
LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.
VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.
IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.
CERVELLI IN FUGA.
ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.
ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.
LA SCUOLA AL FRONTE.
ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.
L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!
ADDIO AL CONGIUNTIVO.
LA DEMERITOCRAZIA.
QUALE FUTURO PER I LAUREATI?
I BAMBINI PRIGIONIERI DEGLI ADULTI INDOTTRINATORI IDIOTI.
LA GRANDE FUGA DALL'UNIVERSITÀ.
L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
LAUREATI: PRECOCI O FUORI CORSO?
IGNORANTI E LAUREATI. COLPA DELLA SCUOLA? APPELLO DEI GENITORI: NON BOCCIATE I NOSTRI FIGLI.
...E PROMOZIONE PER TUTTI SIA!
TITOLATI SI’, TITOLATI NO!
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
ISTITUZIONI IN CONFLITTO. LA GUERRA TRA GENITORI ED INSEGNANTI.
CHI GIUDICA CHI?
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
GITE: L'INCUBO DEI VIAGGI DI ISTRUZIONE.
SCUOLA: ROBA DI SINISTRA CHE SFORNA STUDENTI ANALFABETI.
CAMBIARE LA SCUOLA? IMPOSSIBILE!
I COMUNISTI NON SI MANGIANO I BAMBINI: SI MANGIANO TUTTA LA SCUOLA!
OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.
BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.
LAICITA' A SCUOLA: A FAVORE DELL'ISLAM E CONTRO LE TRADIZIONI CRISTIANE.
LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.
GENERAZIONI DI IGNORANTI. L'ABBANDONO SCOLASTICO.
MENO STUDENTI E PIU' PROF DI RELIGIONE.
"LA BUONA SCUOLA" TRA ECCELLENZE E ASSENTEISMO.
SCUOLA E SUPPLENZA. GUERRA TRA POVERI. PUNTEGGIO E GRADUATORIE: TRUFFA O PREGIUDIZIO RAZZISTA?
CHI INSEGNA A CHI. "L'HA DETTO LA TELEVISIONE": MA NON E' VERO.
L'ITALIA CHE COPIA.
IL TEST INVALSI E IL FENOMENO DEL "CHEATING" (INGANNO).
TEST INVALSI INUTILE E LA SCUOLA A COLORI.
CONCORSOPOLI. I BARONI REGNANO ALL'UNIVERSITA'.
GLI INCAPACI INSEGNANO.
IL PARADOSSO. RICERCATORI UNIVERSITARI BOCCIATI ALL’ABILITAZIONE MA COSTRETTI AD INSEGNARE.
INSEGNANTI EBBRI. SCATTA L’ALCOOL TEST PER I DOCENTI.
DISCRIMINARE I NORMALI. GAY POWER: IL POTERE AI DIVERSI.
PEDOFILIA, SUICIDI, BULLI, STUPRI E PROSTITUZIONE. LA SCUOLA DISEDUCATRICE.
IL BUSINESS A NERO DELLE RIPETIZIONI ALLE LEZIONI PRIVATE.
I FURBETTI DELLE BORSE DI STUDIO.
LA BUFALA DEI VOTI AL SUD DATI CON MANICA LARGA. PARLIAMO DEL BONUS MATURITA’: UN MODO PER FOTTERE GLI STUDENTI MERIDIONALI.
MERITOCRAZIA. IN UN ALTRO MONDO, FORSE. UNIVERSITA’. COSI’ SI ACCEDE AL NUMERO CHIUSO. L’APOTEOSI DELL’INETTITUDINE E DELL’INCAPACITA’.
PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.
PARLIAMO DEI PROBLEMI DELLA SCUOLA, DELLA SCUOLA SENZA CONTROLLO E DELL’ASSEGNAZIONE DELLE CATTEDRE. GIUSTO PER DIRE: CHI INSEGNA A CHI?
PARLIAMO DEL CONCORSO PUBBLICO PER DIVENTARE DOCENTI.
INSEGNANTI E DIRIGENTI SCOLASTICI (PRESIDI), CONCORSO COL TRUCCO.
PARLIAMO DI INSEGNANTI DI SOSTEGNO AI DISABILI.
QUANDO I PROF VANNO IN TILT.
QUANDO I MINISTRI VANNO IN TILT.
MATURI O ABILITATI?
MA CHE MATURITA' E’ QUESTA?
L’ITALIA DEI COPIONI.
PARLIAMO DI DISPARITA’ DI TRATTAMENTO DEGLI STUDENTI.
L’ITALIA DELL’ANARCHIA. MALEDUCAZIONE ED INEDUCAZIONE. I PROFESSORI SOTTO L’ASSEDIO DEI GENITORI SINDACALISTI DEI FIGLI.
LA CORPORAZIONE DEGLI OCCUPANTI DELLE SCUOLE.
LA SCUOLA SIAMO NOI. MALFATTORI E BARONI.
“SCUOLA IN CHIARO”: ALLA RICERCA DEL LUOGO COMUNE.
PARLIAMO DI LIBRI: I FURBETTI DEI TESTI SCOLASTICI.
PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.
PARLIAMO DELL’ITALIA DELL’ISTRUZIONE TRUCCATA.
PARLIAMO DI UNIVERSITA'.
PARLIAMO DI SCUOLA.
PARLIAMO DELL’ITALIA DELLA DISCRIMINAZIONE SCOLASTICA.
PARLIAMO DELL'ITALIA DEI LAUREATI CHE NON SANNO SCRIVERE.
PARLIAMO DEI PROFESSORI CHE SANNO MENO DEGLI ALLIEVI.
PARLIAMO DELLE TRACCE E DEI TEST MINISTERIALI SBAGLIATI PER GLI ESAMI DI STATO.
PARLIAMO DEGLI ESAMI UNIVERSITARI.
PARLIAMO DEL PLAGIO ACCADEMICO.
PARLIAMO DEI CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI.
PARLIAMO DEGLI ALTRI CONCORSI SCOLASTICI TRUCCATI.
PARLIAMO DELLE LAUREE FACILI.
PARLIAMO DEI DIPLOMI FACILI.
PARLIAMO DELLA VALUTAZIONE NAZIONALE TRUCCATA.
PARLIAMO DI SICUREZZA NELLE SCUOLE.
AMIANTO: LA MORTE DEI PROFESSORI.
PARLIAMO DELLE RIFORME CHE NESSUNO VUOLE.
PARLIAMO DELL'OSTRACISMO DEI MEDIOCRI CONTRO I GENI.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!
In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che fossimo.
La generazione Wikipedia è ignorante. E vota politici ignoranti. Viviamo in un mondo in cui i problemi non sono mai stati così complessi. Ma il mondo dei social e di Wikipedia, con una conoscenza illimitata a portata di click, pensa che le soluzioni siano sempre e comunque semplici. E se i problemi non si risolvono, è sempre colpa di qualche complotto, scrive Francesco Francio Mazza il 19 Maggio 2018 su "L'Inkiesta". Se è vero che a Roma sono arrivati i barbari - come ha scritto in settimana il Financial Times - è vero anche che 17 milioni di barbari li hanno invitati, spedendogli un invito tramite scheda elettorale lo scorso 4 marzo. Esattamente come, in buona parte dell’Occidente, altre decine di milioni di barbari hanno affidato ad altri condottieri improbabili - capitanati da un certo Donald Trump – la gestione della cosa pubblica, senza essere minimamente turbati né dalla rozzezza della forma né dalla radicalità della sostanza. Continuare a scandalizzarsi come cicisbei serve a poco, se non a ribadire per l’ennesima volta la totale marginalità del ruolo giocato oggi dall’informazione mainstream. Più utile sarebbe cominciare a chiedersi come mai, ad ogni latitudine e a prescindere da ogni circostanza locale, nel secondo decennio del Ventunesimo Secolo la gente abbia preso ad andare a votare con lo spirito dei dirottatori degli aerei e l’unico minimo comune denominatore ideologico sembra la volontà di scatenare, ogni volta, un’ondata di caos. Un buon modo per cominciare, per esempio, è chiedersi che cosa abbiano in comune gli elettori del costruttore newyorkese Donald Trump con quelli di Giggino Di Maio da Pomigliano. E basta un rapido giro sui social per capire che a tenerli insieme c’è un evidente paradosso: in un mondo dove si spediscono auto elettriche su Marte che si guidano da sole e i problemi, a prescindere dalla tematica, non sono mai stati così complessi, “i barbari” pensano che le soluzioni siano semplici, talmente semplici da poter essere espresse e condivise in un paio di commenti su Facebook. Il welfare è alle corde perché gli Stati nazionali hanno finito i soldi? Nella Silicon Valley, ogni giorno, i cervelli migliori del pianeta ragionano su come buttare fuori dal mercato del lavoro un’intera categoria professionale? E che problema c’è? Basta gridare “reddito di cittadinanza!” o “make America great again” e passa la paura, almeno fino alla prossima tornata elettorale. E’ in atto un’ondata migratoria senza precedenti, conseguenza del modello di sviluppo asimmetrico messo in atto dal capitalismo negli ultimi due secoli? Basta un “Ruspaaa!”, magari usata per tirare su un bel muro al confine con il Messico, e si mettono le cose a posto. Il welfare è alle corde perché gli Stati nazionali hanno finito i soldi? Nella Silicon Valley, ogni giorno, i cervelli migliori del pianeta ragionano su come buttare fuori dal mercato del lavoro un’intera categoria professionale? E che problema c’è? Basta gridare “reddito di cittadinanza!” o “make America great again” e passa la paura, almeno fino alla prossima tornata elettorale. Allargando il campo, si osserva come questo fenomeno non riguardi solo l’arena della propaganda politica ma ogni settore del pubblico dibattito. Qualunque sia la problematica, non importa se frivola o serissima, buona parte del caro vecchio CMR - Ceto Medio Riflessivo - si è trasformato in un esercito di terribili UCLS - Uomini Con La Soluzione - che non mancano di esprimerla ad ogni pausa pranzo, spiattellandola sul social di riferimento avendo cura a non far cadere le briciole del panino sulla tastiera. Si pensi – per esempio - alle mamme anti-vaccini, che pur non avendo alcuna competenza scientifica si inerpicano quotidianamente in appassionati J’accuse contro i misfatti delle multinazionali farmaceutiche. O a quelli che, sempre più spesso, rifiutano le cure offerte dalla medicina tradizionale per buttarsi tra le braccia di guri e paraguri che asseriscono di curare il cancro coi centrifugati di verdura. Citare tabelle, dati o pareri di esperti autorevoli è completamente inutile e spesso genera effetti contrari: non c’è nulla come la figura del “professorone” per mandare fuori di testa un UCLS che si rispetti. Si perché, rifiutando ogni criterio di competenza, l’UCLS è convinto di giocarsela alla pari con chiunque su qualsiasi tema, sia che parli col suo portinaio del rigore dubbio per la Juve sia che discuta di robotica con Elon Musk. Sono questi gli effetti, anch’essi paradossali, dell’età dei social e di Wikipedia. La disponibilità immediata di informazioni a vantaggio di chiunque non ha portato, come si credeva, a un generale accrescimento della cultura e della capacità critica. Al contrario, da un lato – grazie al meccanismo delle bolle – ha favorito il conformismo e la chiusura intellettuale, dall’altro ha reso disponibile non una conoscenza diffusa ma una nociva infarinatura un tanto al kilo, generatrice di quel celebre fraintendimento noto in psicologia come “Dunning-Kruger effect”: meno hai conoscenze specifiche su una materia, più sopravvaluti le tue competenze, perché non ti rendi conto di quanto, in realtà, è complessa tale materia. In altre parole: credi che i problemi siano facili, che a complicarli siano i “professoroni” sulla base di chissà quali oscuri interessi e, di conseguenza, che le soluzioni sarebbero lì, a portata di mano, se solo lo si volesse davvero. Sono questi gli effetti, anch’essi paradossali, dell’età dei social e di Wikipedia. La disponibilità immediata di informazioni a vantaggio di chiunque non ha portato, come si credeva, a un generale accrescimento della cultura e della capacità critica. Al contrario, ha favorito il conformismo e la chiusura intellettuale e ha reso disponibile non una conoscenza diffusa ma una nociva infarinatura un tanto al kilo. Può sembrare un fenomeno innaturale ma si tratta invece di un comportamento comprensibilissimo. Il particolarismo esasperato del mondo moderno, che finisce per non avere, al suo interno, più nulla di umano, produce negli individui un senso di impotenza, un sentimento di emarginazione, ed è logico che in molti non vedano l’ora di gettarsi al seguito di pifferai capaci di rassicurarli, di dire loro che è stato solo un brutto sogno e che presto le cose torneranno come prima, con il posto fisso garantito, la pensione alta, l’immigrato a casa e al juke box Gianni Morandi che si fa mandare dalla mamma. Il problema – e qui sta la tragedia – è che questi pifferai, in ogni ambito, non sono mai “neutri” ma hanno i loro interessi, proprio come quei professoroni che gli eserciti mondiali di UCLS odiano. La pseudo-ricerca scientifica riportata dal sito web fighetto secondo cui l’avocado protegge dal cancro serve a gonfiare il prezzo dell’avocado stesso, e ad alimentare un’economia di cibo fighetto il cui effetto collaterale – ben lungi dal proteggere dal cancro – è distruggere le economie dei Paesi in via di sviluppo (contribuendo a peggiorare i problemi che determinano le migrazioni di massa). Proprio come il paraguru che lancia anatemi contro la chemioterapia e poi chiede qualche centinaia di euro per una boccetta di “miracolosa” acqua fresca, o il conferenziere terrapiattista che vende il suo libro di farneticazioni sul banchetto all’uscita. Del resto, basta guardare la nomenclatura appuntata da Donald Trump, o i nomi dei ministri che Di Maio inoltrò via email a Mattarella prima delle elezioni, così come quelli circolati per guidare il nascente governo giallo- verde. Nel primo caso, un ammasso di burocrati di seconda fila comandati da un paio di anziani generali; nel secondo, un governo Monti comprato alla Lidl. Pensare che siano questi coloro che scardineranno “le élites” per fare esclusivamente gli interessi di quegli “ultimi” tra i quali hanno fatto il pieno di voti è chiaramente una pia illusione, a cui però tutti gli UCLS sono cascati. A cambiare veramente, insomma, è la disponibilità della “generazione Wikipedia” a farsi strumentalizzare, e a non vedere l’ora di correre dietro al prossimo pifferaio: più sporco, più rozzo, più terra-terra del precedente. Peccato che prima o poi arriverà il momento della definitiva disillusione, della presa di coscienza che nessun pifferaio potrà guarirci il cancro con l’avocado o farci andare indietro nel tempo a quando si era tutti più “great” e soprattutto più giovani. Nella nostra Hamelin, il Novecento non tornerà mai più. Più che rabbia, c’è da aver paura a pensare cosa potrà accadere allora.
Italiani, da 150 anni tra i più ignoranti d’Europa. Le classifiche, impietose, ci dipingono come uno dei Paesi più ignoranti d’Europa. E noi stessi ci siamo abituati a definirci come tali. Ma l’Italia è davvero il Paese degli ignoranti. Il saggio di Antonio Sgobba prova a fare un po’ di chiarezza (o a complicarci le idee), scrive Antonio Sgobba l'1 Aprile 2018 su "L'Inkiesta". Questo è il primo articolo di una collaborazione tra Linkiesta e il Saggiatore, storica casa editrice milanese, di cui ogni settimana pubblicheremo l’estratto di un libro, non necessariamente una novità editoriale, che in qualche modo si lega all’attualità dei sette giorni appena trascorsi. Per il primo episodio di questa collaborazione abbiamo scelto il saggio di Antonio Sgobba dal titolo “Il paradosso dell'ignoranza da Socrate a Google” (Il Saggiatore, 2017), un’indagine sull’infinita possibilità di sfumature che colorano il concetto di «ignoranza», tra cavalieri che lottano contro gli ignoranti e ignoranti che diventano i signori del mondo. Buona lettura! Ogni anno l’Ipsos Mori diffonde il suo Index of Ignorance, rilevazione statistica in grado di indicarci il paese più ignorante del mondo: al fine di individuare questa terra di selvaggi, un campione di circa undicimila intervistati di ogni nazionalità viene sottoposto a una serie di domande. Per esempio: qual è la percentuale di occupati del tuo paese? Qual è l’aspettativa di vita? Qual è la percentuale di ragazze tra i 17 e i 19 anni che partoriscono ogni anno? Quanti sono gli immigrati? Quest’anno il tasso di omicidi è salito o sceso? Sapete qual è stata nel 2014 la popolazione con il maggior numero di risposte sbagliate? Tranquilli, non è una domanda del test. Risposta: l’Italia. Gli italiani credevano che nel loro paese i disoccupati fossero il 49 per cento. Erano il 12. Che gli over 65 fossero il 48 per cento. Erano il 21. Che gli immigrati fossero il 30 per cento. Erano il 7. Che le ragazze madri fossero il 17 per cento. Erano lo 0,5. Nella classifica mondiale battevamo tutti. Precedendo, nell’ordine, Stati Uniti, Corea del Sud, Polonia, Ungheria, Francia, Canada; quelli messi meglio erano invece gli svedesi. All’uscita della notizia, il 2 novembre 2014, suonavano le campane a morto per la conoscenza in Italia. Sulla prima pagina del principale quotidiano nazionale si poteva leggere il seguente commento: «Sappiamo proprio poco dell’Italia». Nelle pagine interne il titolo ribadiva: «Quell’indice dell’ignoranza primato senza gloria». Scriveva l’editorialista: «La politica – che pure dovrebbe conoscere la situazione – non si premura di ripetere i dati corretti. Usa la nostra ignoranza, invece». Che cosa hanno fatto politici e cittadini italiani dopo la diffusione di questo dato? Probabilmente la stessa reazione seguita all’appello del maestro Tedesco: una collettiva alzata di spalle. Eppure, l’ignoranza in Italia dovrebbe essere un problema sentito, come conferma anche una rapida ricerca bibliografica: Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia; Ignoranti. L’Italia che non sa, l’Italia che non va; L’età dell’ignoranza; Il costo dell’ignoranza; Alfabeti d’Italia. La lotta contro l’ignoranza nell’Italia unita; L’Italia dell’ignoranza. Crisi della scuola e declino del paese. Sono solo alcuni degli ultimi titoli sull’argomento, apparsi in libreria tra il 2011 e il fatidico 2014. Sembrerebbe proprio che l’Italia in questi anni abbia avuto a che fare con «una vera e propria emergenza», come dicono i giornali quando non c’è nulla né di vero né di proprio. Non sono stati sufficienti centocinquant’anni per risolvere questa emergenza. Poco dopo l’Unità d’Italia, lo storico meridionalista Pasquale Villari ammoniva: "bisogna che l’Italia cominci col persuadersi che v’è nel seno della Nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza". Apriamo per esempio uno di questi saggi, Ignoranti. Sin dalle prime pagine, l’autore non lascia spazio a dubbi: «Vecchi e nuovi analfabeti affollano dunque l’Italia. Sono da considerare analfabeti non per l’incapacità totale di leggere e scrivere, ma per la mediocre capacità di esprimersi e il ridotto bagaglio di conoscenze». Ci sono i dati a confermarlo: «L’Italia è un paese sistematicamente in coda nelle classi che europee o mondiali sul livello di istruzione. Che, dati alla mano, studia poco. Che disprezza con inflessibile continuità la scuola, l’università, la ricerca. Che stenta ad arricchire il proprio sapere». Non ci sono molte speranze in un paese così; leggiamo nell’ultima pagina: «L’Italia ignorante non è l’Italia che può prendere slancio. Non contrasta le diseguaglianze, non favorisce l’avanzamento sociale». Gli ignoranti italiani ostacolano il progresso e la redistribuzione. Nell’Età dell’ignoranza si citano indagini internazionali sulle competenze che la vita contemporanea impone ai cittadini (la capacità di leggere e comprendere un testo, per esempio): «L’Italia è ultima tra i paesi partecipanti, con un punteggio di 229 su 500, contro i 290 punti della Norvegia». Non è una tendenza che riguarda solo un paese: «Il mondo diventa sempre più confuso, incomprensibile, violento, in una parola ignorante». Troviamo analisi di tenore simile in Senza sapere, il cui autore scrive: «I dati ci descrivono un’Italia priva di conoscenze e di competenze, un paese “senza sapere”. Siamo talmente ignoranti da non comprendere per no quanto sia grave e pericoloso il nostro livello di ignoranza, e da non correre ai ripari. Ciò che inquieta di più è che anche i nostri governanti [...] non sembrano occuparsi o preoccuparsi [sic] del problema, non rendendosi conto del prezzo che quotidianamente l’intera società italiana è costretta a pagare per i guasti provocati dall’ignoranza». E non dimentichiamo che, secondo tutti questi studi, «ignorante» è sinonimo di «confuso, incomprensibile, violento» e che l’ignoranza è il «nemico più grande». L’Italia ignorante non è l’Italia che può prendere slancio. Non contrasta le diseguaglianze, non favorisce l’avanzamento sociale. Non sono stati sufficienti centocinquant’anni per risolvere questa emergenza. Ma se un fenomeno dura almeno un secolo e mezzo, lo possiamo definire davvero un’emergenza? No: «Sarebbe però sbagliato ritenere che l’ignoranza che oggi ci circonda sia un segno del degrado in cui la società italiana è precipitata: forse è vero anche questo, ma non bisogna dimenticare che le origini del fenomeno sono profonde e vengono da lontano». Poco dopo l’Unità d’Italia, lo storico meridionalista Pasquale Villari ammoniva: Bisogna che l’Italia cominci col persuadersi che v’è nel seno della Nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza. Era il 1866, e queste parole potrebbero persino aver ispirato Tedesco. Allo stesso modo, gli autori degli ultimi saggi sul tema avrebbero tutti potuto iscriversi alla Lega fondata dal maestro. Potremmo quasi farne un motto: italiani, ignoranti colossali dal 1861. Al primo censimento della sua storia la popolazione vantava un tasso di analfabetismo al 74 per cento. Oggi l’analfabetismo assoluto è praticamente scomparso, però «lo sviluppo della società italiana è ancora frenato da un basso livello di istruzione e da un pesante tasso di analfabetismo funzionale». Tutte le analisi di questo tenore riportano pagine e pagine di dati sull’istruzione: «Molte indagini confermano questo “allarme ignoranza”, sia per quanto riguarda i giovani e gli studenti che per quanto riguarda la popolazione adulta». Ma davvero gli italiani non se ne sono accorti? Non continuano a sentirselo ripetere da più di centocinquant’anni? Se ancora non avessero compreso, qui non saremmo di fronte semplicemente a un popolo di ignoranti, ma a generazioni e generazioni di scolari particolarmente duri di comprendonio. È possibile? Come si spiega una tale concentrazione di ultimi della classe nella stessa area geografica per un tempo così prolungato? Ogni anno l’Ipsos Mori diffonde il suo Index of Ignorance, rilevazione statistica in grado di indicarci il paese più ignorante del mondo. Sapete qual è stata nel 2014 la popolazione con il maggior numero di risposte sbagliate? Tranquilli, non è una domanda del test. Risposta: l’Italia. Gli italiani credevano che nel loro paese i disoccupati fossero il 49 per cento. Erano il 12. Che gli over 65 fossero il 48 per cento. Erano il 21. Che gli immigrati fossero il 30 per cento. Erano il 7. Che le ragazze madri fossero il 17 per cento. Erano lo 0,5. Chi ignora è digiuno di tutto, viene dalla Mecca o dalla Luna, è all’oscuro, non sa, non ha la più vaga, la benché minima, la più pallida, la più lontana idea. Cade dal pero o dalle nuvole. Fa l’indiano o l’inglese o l’albanese; fa il tonto, l’ingenuo, il dormi. Insomma fa finta di niente, orecchie da mercante, non prende in considerazione, non considera nemmeno, non ascolta, se ne frega, alza le spalle, se ne infischia. Evita, aggira, svicola domande e argomenti. Al massimo risponde o va a spanne, a lume di naso. Non vuol vedere, fa lo struzzo, mente a se stesso, si mette le fette di prosciutto sugli occhi, ha o procede con il paraocchi, vive fuori dal mondo, sta col capo nel sacco, ha le (quadruple) fette di salame sugli occhi, se proprio non ha gli occhi e le orecchie foderate di prosciutto. E non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Modi di dire: Beata ignoranza. La nebbia, la notte, le tenebre, il velo dell’ignoranza. Ecco, quando parliamo di ignoranza, ne parliamo così. Ma se volessimo capirci qualcosa in più? La descrizione delle costellazioni linguistiche che si raccolgono attorno alla parola non basta per farci un’idea della natura dell’ignoranza, forse abbiamo bisogno di qualche spiegazione aggiuntiva. Abbiamo bisogno di una definizione.
Vediamo che cosa dice il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro alla voce «Ignoranza». Vengono indicati tre significati: Il non conoscere o il conoscere molto poco, in modo insufficiente una materia, un argomento o ciò che riguarda la propria professione, la proprietà e simili: i. dei regolamenti, la legge non ammette i.; in questo campo confesso la mia i.; beata, santa i!, inconsapevolezza di chi, all’oscuro di fatti o situazioni, vive sereno senza apprensioni o dubbi. Mancanza di istruzione, di cultura: i. di usa, combattere l’i. Scortesia, villania.
Contrari: Conoscenza, consapevolezza, esperienza. Cultura, educazione, istruzione, sapienza. Educazione.
In sintesi l’ignoranza può essere tre cose: Non conoscere. Mancanza di istruzione. Scortesia.
Articoli, ricerche e saggi visti finora sembrano avere a cuore soprattutto il secondo significato: quando si definisce l’Italia «un paese ignorante», si parla soprattutto di un deficit di istruzione e cultura. Curiosamente il senso primario del termine passa quasi in secondo piano. Nelle polemiche sull’ignoranza viene messa al centro non la generica mancanza di conoscenza, bensì la mancanza di competenze in ambiti specifici.
Siamo un Paese di ignoranti. Ed è questo il primo problema dell’Italia. Il rapporto sulla conoscenza in Italia dell’Istat è una fotografia talmente brutale dei nostri problemi con cultura e sapere da lasciare sconfortati. Bisognerebbe prenderne atto e ripartire da lì, ma a quanto pare preferiamo far finta che il problema non esista, scrive Francesco Cancellato il 24 Febbraio 2018 su "L'Inkiesta". Se aveste una sola scelta, se vi chiedessero qual è IL problema dell’Italia, uno solo, cosa rispondereste? Pensateci bene. Probabilmente il molti parlerebbero di tasse e burocrazia, altrettanti di mafia e corruzione, qualcun altro punterebbe il dito sugli stranieri o sull’Europa, qualcun altro ancora direbbe la disoccupazione. Nessuno - o pochissimi, perlomeno - parlerebbero di scuola, formazione e conoscenza. Eppure è proprio lì che sta il problema dei problemi, quello che genera tutti gli altri: che siamo un Paese che non produce conoscenza, che non trasmette conoscenza e che non sa che farsene di quella che ha. E delle due, una: o non ce ne rendiamo conto. O, peggio, ce ne vergogniamo talmente tanto da negarlo. Lo diciamo partendo da un dato empirico abbastanza incontrovertibile. Che siamo tra i pochi Paesi al mondo, forse l’unica tra le economie sviluppate, che non considera il sapere e la conoscenza come valore aggiunto, ma che al contrario fa sfoggio della sua ignoranza, che irride i “professoroni” e i giovani che se ne vanno all’estero. L’unico che durante la più feroce crisi economica che abbia mai passato, decide di tagliare le poste di bilancio dedicate all’istruzione cinque volte più - il 10%, contro una media di tagli del 2% - di quanto non l’abbia fatto per tutti gli altri capitoli di spesa. L’unico in cui gli investimenti a doppia cifra finiscono in tutti i capitoli di spesa possibili tranne in quello della ricerca e della formazione, cui se va bene toccano le briciole. Siamo ultimi in Europa - ultimi, lo ripetiamo - per percentuale di popolazione dai 25 ai 64 anni con in mano un titolo di studio terziario, vale a dire almeno una laurea, l’unico in cui i laureati sono il meno del 20% della popolazione. Dietro la Grecia e la Romania. In quest’ottica, il Rapporto sulla Conoscenza 2018 dell’ISTAT è una specie di museo degli orrori, che mette in scena quarant’anni almeno di politiche scellerate, di malagestione e incuria. Di sopravvalutazione del nostro sistema formativo - che ancora ci ostiniamo a ritenere il migliore di tutti, nonostante i disastri nei test di valutazione comparati Pisa dell’OCSE. Di tutti i dati ne abbiamo scelti quattro, che raccontano meglio di qualunque altro come siamo messi. Il primo: siamo ultimi in Europa - ultimi, lo ripetiamo - per percentuale di popolazione dai 25 ai 64 anni con in mano un titolo di studio terziario, vale a dire almeno una laurea, l’unico in cui i laureati sono il meno del 20% della popolazione. Dietro la Grecia e la Romania. Dietro agli Stati Uniti e il Regno Unito, Paesi in cui alla laurea ci è arrivato il 46% della popolazione. Ripetete insieme a noi: il problema delle imprese italiane si chiama Europa, si chiama globalizzazione. E cercate di non ridere, mentre lo dite. O di non piangere. Se la domanda è scarsa - secondo punto - l’offerta lo è ancora di più: i laureati in Italia non li vuole nessuno, perché abbiamo un sistema produttivo che non sa che farsene. E che se li assume li demansiona. Anche qui, due dati: l’Italia è l’unico paese tra i grandi d’Europa ad aver visto decrescere, negli ultimi dieci anni, gli occupati in posti ad alta specializzazione. Uno di quelli in cui le professioni a media alta qualifica non arrivano nemmeno a coprire il 40% dei posti disponibili. Gli stranieri ci rubano il lavoro? La Slovacchia ci ruba le imprese? No, a rubarcelo è la nostra ignoranza. Il terzo dato è quello relativo alle risorse umane impiegate nella scienza e nella tecnologia, che ci posiziona al terzultimo posto, davanti alle sole Romania e Slovacchia. Curioso, no? Ci raccontiamo ogni due per tre che viviamo nell’era digitale, nel tecnocene e poi, ops, non siamo in grado né di formare addetti in questi ambiti, né di orientare gli studenti in quella direzione? Applausi. E il bello è che ce ne vantiamo pure, scrivendo sui programmi elettorali che la scuola non deve formare al lavoro, che giammai lo sterco del diavolo contamini il sacro monte del sapere. Sarà, ma intanto - quarto dato - la scuola ha smesso di essere un ascensore sociale, come per altro ha raccontato il vicedirettore del Corriere della Sera Federico Fubini nel suo ultimo libro “La maestra e la camorrista” (Mondadori Strade Blu, 2018). Fa specie e orrore vedere che per diamo tra le famiglie con più laureati, se i genitori lo sono. E uno di quelli con meno studenti universitari, se i genitori non lo sono stati. Ergo: quei pochi ragazzi che laureiamo qua in Italia rappresentano nella stragrande maggioranza dei casi uno strato sociale che già era ricco o benestante. E poi venite a parlarci di bomba sociale, per colpa di quattro sfigati fascisti. Un piccolo suggerimento: i venti miliardi all’anno che volete buttare per abolire la Legge Fornero o per il reddito di cittadinanza, buttateli nella scuola, una volta in Parlamento. Fatelo per innovare corsi e materiali didattici, per far crescere la formazione lungo l’arco della vita, per adattare programmi e metodologie al presente, per fare del sistema scolastico italiano un’eccellenza mondiale per la preparazione degli studenti. Poi vedete se le cose non cambiano davvero.
Italiani bocciati in economia: i più ignoranti di tutta Europa. Siamo il popolo che ha le maggiori difficoltà a risparmiare, a rispettare un budget e a comprendere temi finanziari I motivi? Bassa scolarità ed età media alta, scrive Marco Cobianchi, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale". L'ignoranza è una gran brutta cosa, e a noi italiani, in questo campo, non ci batte davvero nessuno. La bassa scolarità, la percentuale di abbandono scolastico, la bassissima percentuale di laureati non hanno riflessi sono sulla struttura sociale e sulla capacità di innovazione del Paese, ma anche sulla conoscenza delle più elementari regole economiche e finanziarie. Detta in parole povere: noi italiani di economia non ci capiamo assolutamente nulla. Anche per questo politici improvvisati ci possono raccontare qualsiasi immaginifica frottola (e noi ci crediamo) e anche per questo avventurosi finanzieri ci possono turlupinare con promesse immaginifiche (e noi ci crediamo) e anche per questo banche spegiudicate riescono a infinocchiare i risparmiatori vendendogli prodotti rischiosissimi spacciandoli come sicuri. Come è successo. Basterebbe questo per rendersi conto dell'arretratezza economica degli italiani, ma se non basta ci sono i numeri, quelli elaborati dal sito di datajournalism Truenumbers.it. Partiamo dalla scolarizzazione (perché tutto, come sempre, parte da lì). La percentuale di italiani in età lavorativa che hanno un qualsiasi tipo di laurea sono il 18%, quasi la metà della media europea. Abbastanza incredibile, oggettivamente. Ha meno laureati di noi, in percentuale sulla popolazione, solamente il Messico, tra i Paesi dell'Ocse. I laureati triennali sono, per esempio, il 4% della popolazione mentre sono il triplo in Germania e più del doppio in Francia. Da qui discende il fatto che se qualcuno si azzarda a fare un test sulle conoscenze economico finanziarie degli italiani e li mette a confronto con quelle degli altre nazioni, noi crolliamo. Lo ha fatto l'Infe, l'International Network for Financial Education. I risultati sono stati pubblicati dalla Banca d'Italia. E sono sconfortanti. I parametri presi a riferimento sono tre (gli stessi indicati nei grafici di queste pagine): la competenza, che valuta la capacità di calcolare semplici interessi; il comportamento, che valuta, ad esempio, la capacità di rispettare un budget, e l'attitudine, che riguarda, per esempio, la capacità di riuscire a risparmiare. Beh, sarà umiliante dirlo, ma sommando i punteggi l'Italia risulta essere penultima tra i Paesi considerati superata, in negativo, solo dall'Arabia Saudita. Nel parametro «Competenza» abbiamo raggiunto il punteggio di 3,5 (su 7 a disposizione). Nessuno ha fatto peggio, nemmeno l'Arabia Saudita. Una possibile spiegazione è che gli italiani sono un popolo anziano, la maggior parte vive in piccoli centri dove vivono molti pensionati. Per verificare se sono questi i motivi per i quali, complessivamente, gli italiani sono poco acculturati finanziariamente, si è proceduto a «normalizzare» il campione, ovvero: si sono prese persone con le stesse caratteristiche socio-demografiche e le si sono confrontate. E... niente: siamo in fondo anche se si prendono i dati normalizzati. Lo stesso gruppo omogeneo composto da italiani messo a confronto con i tedeschi perdono clamorosamente la partita. Ma la perdono anche con i Paesi Bassi, Francia, Regno Unito e Canada. Tutti ne sanno più di noi. Prendiamo uno di questi gruppi omogenei: gli ultra 60enni con almeno un diploma in tasca. Il confronto è addirittura umiliante: il punteggio degli uomini è 3,5 (le donne sono al 3,3) rispetto al 12,4 dei tedeschi, al 7 dei francesi, al 7,1 dei Paesi Bassi, all'11,8 dei britannici e all'11,3 dei canadesi. E il risultato non cambia per tutti (tutti!) i gruppi omogenei, compresi quelli composti da under 35. Se poi si scompongono i risultati in base alle caratteristiche socio economiche, di età e di residenza, si scopre che i chi ottiene i risultati migliori (all'interno del Paese, quindi non in confronto con le altre nazioni) sono i laureati che hanno tra i 55 e i 64 anni, lavoratori autonomi che vivono in una città del Centro o del Nord con più di 40mila abitanti. Ma, come abbiamo visto, se si prendesse questo italiano-tipo e lo si mettesse a confronto con un inglese con le sue stesse caratteristiche o con un francese o un belga, perderebbe il confronto: loro ne saprebbero enormemente più di lui. E per oggi, basta così.
L'ignoranza è la merce più preziosa (e qualcuno ci fa un cumulo di soldi). Altro che popolo contro élite: non siamo mai stati così contenti di consumare ciò che i ricchi producono. Cosa ci offrono? Cose a basso costo, ma dagli alti profitti. Così l'ignoranza - anche grazie anche ai social - è diventata un business che, dalla cultura alla politica, ha divorato tutto, scrive Francesco Francio Mazza il 26 Maggio 2018 su "L'Inkiesta". Il 2018 non è nemmeno arrivato al giro di boa, ma già si è capito quale sarà la parola dell’anno. Tutto, ma proprio tutto, ruota attorno al concetto di “ignoranza” e all’eterno ritorno dell’accusa di parteciparvi a vario titolo. C’è chi ne è terrorizzato, e si inventa “corsi di perfezionamento” negli USA per sembrare ancora più “professorone” di quanto già realmente sia. E chi invece la considera un simbolo di purezza da contrapporre alle malvagie coscienze corrotte dei professoroni: tipo Di Maio e Salvini (che però candidano a premier proprio il professorone-taroccone), ma anche, per restare negli USA, tipo Mark Zuckerberg e Steve Jobs, che non hanno mai smesso di rivendicare con orgoglio il loro status di drop-out, di studenti che hanno interrotto gli studi prima di arrivare alla laurea. C’è da riconoscere lo straordinario potere paragnostico di Adriano Celentano: si presentava come Re degli Ignoranti per creare scompiglio, mentre oggi, con quella stessa etichetta, avrebbe potuto aspirare a palazzo Chigi. Anche se a ben vedere il Molleggiato faceva il paraculo: per andare in TV assoldava tra gli autori Michele Serra, recentemente crocifisso per aver scritto che l’attuale esaltazione dell’ignoranza messa in atto dai movimenti populisti di tutto il mondo sarebbe parte di un complotto contro il popolo. Ma che si tratti di un terribile piano per inchiodare le masse popolari alla loro condizione subalterna o del viatico per un ritorno a un Paradiso Perduto, poco cambia. Quello che conta davvero è che l’ignoranza sia diventata un business, un settore di mercato che, a poco a poco, ha finito col divorare tutti gli altri. L’ignoranza, oggi, è la forma stessa del main-stream, e chiunque è obbligato a farci i conti, a prescindere da quale sia la propria area di competenza. Solo fino a pochi anni fa le cose funzionavano in modo completamente diverso: si consumavano prodotti di massa, ma nello stesso tempo esisteva una tensione, anche solo da parte di una nicchia, di fare una sorta di selezione all’ingresso e rivolgersi a un pubblico specifico. Attenzione: non un pubblico di ricchi che grazie al potere economico potevano permettersi il pezzo unico, proprio come oggi i ricchi non vanno all’Ikea ma comprano il mobile del designer quotato e invece di andare al villaggio turistico vanno al boutique hotel. Si postulava, al contrario, l’esistenza di un pubblico “di qualità” interno al ceto popolare, e ci si sforzava di andarselo a cercare. Il 2018 non è nemmeno arrivato al giro di boa, ma già si è capito quale sarà la parola dell’anno. Tutto, ma proprio tutto, ruota attorno al concetto di “ignoranza” e all’eterno ritorno dell’accusa di parteciparvi a vario titolo. Il disco dalle sonorità ricercate, come quelli dell’ultimo Battisti, da ascoltarsi rigorosamente su vinile e non su cassetta; il cineforum d’autore il mercoledì sera; l’intero settore dell’artigianato di qualità. Senza dimenticare le innumerevoli contro-culture giovanili che si sono alternate per tutta la seconda parte del Novecento, dai punk ai metallari, dagli hippie all’hip-hop. E la stessa cosa avveniva nel settore di mercato principale, quello della politica: leader e segretari erano perfettamente consci dell’importanza di comunicare direttamente con gli elettori (altrimenti la RAI non sarebbe stata sotto il guinzaglio dei partiti), ma c’era sempre un pudore di fondo, una mediazione verso l’alto esercitata dal linguaggio aulico, dall’esasperato rispetto della forma e delle Istituzioni. È vero che, in un secondo momento, con l’arrivo della TV commerciale, le cose cambiarono: ma esisteva, ancora, la mediazione del Conduttore e della famosa “linea editoriale”. Ci si poteva spingere verso il basso, come faceva Michele Santoro aizzando telerisse identiche a quelle organizzate da Aldo Biscardi, solo a patto di avere le spalle coperte sul versante “alto”, invitando in studio il filosofo o l’intellettuale a fare da garante circa la valenza culturale del programma. Era un mondo che ruotava attorno al concetto di foglia di fico, di cui l’intera programmazione Mediaset della seconda metà degli anni ’90 costituiva summa teorica e superamento, coerentemente con quello che era accaduto in America nel corso del decennio precedente. Col tempo, però, cominciò a farsi largo in maniera sempre più insistente una domanda: perché sforzarsi di tenere alta l’asticella della qualità, se abbassandola si possono abbattere i costi e aumentare il profitto? Bisognava omogenizzare i gusti del pubblico, desensibilizzare le persone al punto da renderle incapaci di cogliere dapprima le sfumature e poi la nozione stessa di differenza, e quindi di qualità. Una strategia di marketing che pareva irrealizzabile, e che tuttavia trovò straordinario impulso grazie all’esplosione del web 2.0 e all’avvento dei social. Eliminando ogni mediazione e dando origine ad un sistema economico quantitativo, dove il valore di qualsiasi cosa si misura solo ad esclusivamente sulla base del numero di click – a prescindere che tali click siano stati effettuati da membri della Scuola di Francoforte o da un branco di pecore - il mercato ha potuto sbarazzarsi, in pochissimi anni, di ogni foglia di fico, diventando libero di produrre solo contenuti neutri destinati a un pubblico generico e indifferenziato. Un pubblico che non solo non desidera la qualità perché incapace di riconoscerla, ma che, in un totale ribaltamento di prospettiva, riconosce nella quantità l’unica unità di misura per giudicare il valore di qualsiasi cosa, si tratti di un prodotto, di un’idea o di una persona. Per questo non è in atto alcuna guerra popolo contro élite: le élite economiche non sono mai state così forti, basta guardare le dimensioni di Leviatani come Google o Amazon; e il popolo non è mai stato così contento di consumarne i prodotti, di abbracciarne la logica. Un pubblico ignorante, insomma, per il quale è vera l’opinione che fa tanti like, non importa se espressa dall’esperto o dal primo che passa per strada; e per il quale esiste solo ciò che è abbastanza neutro da piacere a tutti, mentre quello che crea una reazione, e che quindi fa giocoforza selezione, non viene censurato ma è destinato a scomparire da solo, come sono scomparse le contro-culture. È il mondo della famosa puntata di Black Mirror dove si assegna a un feedback alle persone dopo ogni interazione quotidiana (esattamente come tra pochi anni si farà in Cina). È il mondo della trap, un genere musicale fatto apposta per essere ascoltato con cuffiette scadenti su impianti scadenti, che si è liberato delle costrizioni metriche del rap per renderlo alla portata di chi non era in grado di creare le rime. È il mondo del giornalismo gossipparo, che a sinistra mette le notizie serie e a destra una foto Instragram con la bonazza del giorno in bikini ultra-ridotto. È il mondo di Youtube, dove impazzano scoreggiatori seriali, stereotipi sui meridionali che mangiano tanta parmigiana o sui milanesi schiavi del lavoro, diciottenni con problemi di cuore romanzati come nei peggiori libri Harmony; e dove tuttavia detti Youtubers, che fanno dell’assenza di talento la loro unica cifra stilistica, invadono da protagonisti il mondo del cinema e dell’editoria, monopolizzando il catalogo della principale casa editrice italiana. Sono solo una serie di istantanee del gigantesco mercato dell’ignoranza globale, dominato dalle grandi aziende della Silicon Valley che, intuito l’andazzo, ci si sono fiondate per prime. Non c’è da arrabbiarsi né da gridare al gomblotto come fa Michele Serra: c’è da prendere atto che la strategia commerciale ha funzionato, il neo-liberismo ha abbassato l’asticella fino al livello del suolo e i consumatori hanno risposto positivamente. Anzi: hanno risposto così positivamente che le cose sono sfuggite di mano e il business dell’ignoranza ha finito per allargarsi anche alla politica; la quale, a sua volta, non ha fatto altro che mettersi a rimorchio del mercato: infatti, da anni, non c’è più un partito o un leader politico – e non solo tra le fila dei movimenti cosiddetti populisti, basta analizzare l’intera parabola di Barack Obama – che non faccia della demagogia e del gentismo più bieco la propria ragione sociale. Per questo non è in atto alcuna guerra popolo contro élite: le élite economiche non sono mai state così forti, basta guardare le dimensioni di Leviatani come Google o Amazon; e il popolo non è mai stato così contento di consumarne i prodotti, di abbracciarne la logica. La pigrizia, insomma, si è rivelata essere il motore del mondo. Tocca farsene una ragione, perché è probabile che le cose non cambieranno per molto tempo.
È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su L’Inkiesta. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo. Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.
Ocse: solo il 4% degli italiani è laureato, contro il 17% degli altri paesi. Nell'annuale Education at glance l'accento sul nostro ritardo nell'istruzione. Ma il 90% della fascia 6-14 ha completato la scolarizzazione, scrive Salvo Introvaia l'11 settembre 2018 su "La Repubblica". L’Italia è ancora in ritardo in materia di istruzione. Ma si intravede qualche timido segnale di ripresa. Il sistema di istruzione italiano arranca e non riesce a tenere il ritmo de sistemi scolastici e universitari dei paesi più industrializzati del globo e di quelli in via di sviluppo. E’ l’Ocse – l’Organizzazione (internazionale) per la cooperazione e lo sviluppo economico – che raggruppa una quarantina di paesi di mezzo mondo, a certificare lo stato di salute del nostro sistema di istruzione e formazione. Scattando una fotografia ad alta definizione, attraverso l’annuale Sguardo sull’Educazione (Education at a glance 2018), sui diversi aspetti dei sistemi formativi dei paesi più evoluti dal punto di vista economico. In un solo anno, non è certo possibile recuperare il divario accumulato in anni di politiche sull’istruzione che hanno allontanato il Belpaese dalle altre nazioni europee e non, ma è possibile avviare percorsi virtuosi in grado di invertire i trend negativi. Perché l’Ocse, che è una organizzazione principalmente dedita allo studio dei processi economici, sostiene la formazione dei singoli individui come motore di sviluppo sociale e economico. Per questa ragione raccoglie ogni anno in un ponderoso volume migliaia di dati e centinaia di grafici. Vediamo nel dettaglio lo stato di salute del sistema di istruzione e formazione italiano.
Il livello di istruzione della popolazione. Da sempre, uno dei talloni d’Achille del nostro paese. Mentre le altre nazioni puntano sull’accrescimento del livello di istruzione dei singoli cittadini, il nostro Paese resta indietro. E’ ancora troppo basso il livello di istruzione dei 25/64enni italiani: il 4 per cento con la laurea, contro il 17% dei paesi Ocse. Nel 2017, l’Italia ha solo 27 giovani di 25/34 anni su cento in possesso di laurea, contro una media Ocse del 44 per cento, superando soltanto il Messico. E tra i due generi sono i maschi i responsabili di questo disastro: nel 2017, meno laureati delle donne (20 per cento contro 33 per cento) e pochissimi progressi negli ultimi dieci anni. Eppure l’Ocse certifica con i numeri che studiare conviene: dà più opportunità di lavoro e consente guadagni maggiori. Ma in Italia la quota di laureati che lavora è tra le più basse al mondo: appena l’81 per cento. Anche sul fronte dell’educazione permanente l’Italia non fa una bella figura: appena 25 italiani su cento studiano e si aggiornano anche in età adulta. La media Ocse è esattamente il doppio.
Equità del sistema scolastico. Secondo gli esperti di Parigi, la scuola italiana boccia troppo. Col 3 per cento di bocciati alla scuola media e il 7 per cento alle superiori supera le rispettive medie internazionali, che sono del 2 e del 4 per cento rispettivamente. Anche se quello italiano appare come uno dei sistemi di istruzione più equi perché 71 ragazzi su cento con genitori non laureati proseguono gli studi all’università dopo il diploma, contro una media Ocse del 47 per cento.
Quanto finanziamo l’istruzione. L’Italia spende mediamente meno degli altri paesi per l’istruzione: in dollari Usa equivalenti per studente (il 28 per cento in meno dei paesi Osce) e in percentuale al Pil. Ma il trend, dopo anni di buoi, è nuovamente in crescita. Una spesa ancora rachitica che si ripercuote sugli studenti universitari: in Italia pagano ancora molto e ricevono poco. Basta fare un esempio. Uno studente italiano paga in tasse mediamente mille e 647 dollari (equivalenti) a testa e soltanto in 20 su cento ricevono un supporto economico: una borsa di studio o altro. In Finlandia non esistono tasse universitarie e il 55 per cento degli studenti riceve un sussidio. L'Italia ha raggiunto un tasso di scolarizzazione completa (superiore al 90%) per i bambini di età compresa tra 5 e 14 anni e ha quasi raggiunto la piena scolarizzazione per i bambini di età inferiore.
Il sistema scolastico italiano in cifre. In media, gli alunni italiani passano in classe lo stesso tempo, in ore, a scuola dei compagni che frequentano nei paesi Ocse. Con un rapporto alunni/classi leggermente più basso della media internazionale. In questo caso influisce parecchio l’organizzazione del tempo-scuola nei diversi sistemi. Gli insegnanti italiani guadagnano in media dal 7 al 12 per cento, in base al livello di istruzione in cui insegnano, all’ingresso in cattedra. Ma poi questo divario si allarga al 25 per cento a metà carriera. E l’impegno lavorativo? Di poco inferiore alle media internazionali con l’età media più alta del mondo.
Italia, il Paese della laurea ereditaria. Le diseguaglianze cominciano all’asilo. Il rapporto Ocse disegna un Paese dove i giovani laureati sono svantaggiati, le donne fanno meno carriera degli uomini e chi viene da una famiglia poco istruita non arriva all’Università, scrivono Gianna Fregonara e Orsola Riva l'11 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera".
1. L’immobilità sociale. Un Paese arretrato, con un tasso di istruzione decisamente più basso della media Ocse, dove i laureati scarseggiano ma, nonostante la penuria di «dottori», il vantaggio relativo della laurea sul mercato del lavoro è inferiore che altrove. Non solo. La laurea, anziché funzionare da ascensore sociale, da noi si eredita come un titolo nobiliare: la percentuale di laureati «figli di» sfiora il 90 per cento, mentre fra chi ha genitori con la sola terza media solo uno su dieci riesce a raggiungere la meta. E ancora: in un Paese dove i pochi laureati sono per lo più donne, il 17 per cento di esse dopo l’agognato traguardo non fa più nulla: non lavora (né cerca lavoro) e non studia. E quand’anche lavorano guadagnano molto meno dei colleghi maschi. I cosiddetti Neet in Italia sono il doppio della media Ocse (30 per cento fra i 20-24enni contro il 16%) e la forbice fra Nord e Sud è massima (15 per cento nel Nordovest, 32 per cento nelle Isole). E’ questo il quadro, desolante anche se poco sorprendente, che esce dall’ultimo rapporto Ocse sullo Stato dell’educazione in Italia e nel mondo intitolato Education at a glance. Vediamolo nel dettaglio. Intanto: lo svantaggio dei poveri sui ricchi parte fin dall’asilo nido. Questione di costi (oltre che di resistenze culturali): non tutti possono permettersi i nidi che, va ricordato, sono a pagamento, anche quelli comunali.
2. Le differenze cominciano dal nido. Non sorprende quindi che i figli di madri laureate abbiano molte più possibilità di accedere al nido dei figli di madri non laureate.
3. Troppi pochi laureati. Se le diseguaglianze incominciano all’asilo, non c’è da sorprendersi che ora dell’università il destino sia ormai segnato. Siamo uno dei Paesi in cui la famiglia di origine, e in particolare l’avere almeno un genitore laureato, conta di più nell’accesso all’Università. Proprio perché la laurea da noi tende a essere ereditaria, per quanto il numero di giovani dottori sia aumentato negli ultimi dieci anni (passando dal 19 per cento del 2007 al 27% del 2017), il passo è stato troppo lento e ormai siamo maglia nera in Europa.
4. Uno su dieci. Ed eccola qui la fotografia dell’ascensore sociale bloccato: fra chi ha i genitori con la sola terza media appena uno su dieci riesce a ottenere la laurea contro una media Ocse che è doppia (21%). Mentre i figli di genitori laureati hanno praticamente la laurea in tasca (87% contro una media Ocse del 68%).
5. Peggio della Grecia. Altro triste record italiano: i giovani «Not in education employment or training», i cosiddetti Neet: fra i 20-24enni l’Italia è messa peggio anche della Grecia.
6. Le donne non lavorano. Se poi si va a guardare nella fascia d’età appena un po’ più «vecchia» (i 25-29enni) qui il gap maschi-femmine diventa drammatico con un 40 per cento di donne (quasi una su due!) che non lavora (ma non è disoccupata né studia). Non parliamo di disoccupate ma giovani donne che nemmeno lo cercano un lavoro.
7. Lo spreco delle ragazze. Lo svantaggio femminile diminuirà pure con il livello di studio, ma il 17 per cento di laureate inattive è un dato impressionante: uno spreco di capitale umano che vale alcuni punti di Pil.
8. Le donne non fanno carriera. Del resto anche le donne laureate che lavorano devono però subire l’ingiustizia di retribuzioni (e carriere) decisamente inferiori a quelle dei colleghi maschi. Peggio di noi in Europa fanno giusto i Paesi del gruppo di Visegrad (l’Ungheria di Orbán, la Repubblica Ceca e la Slovacchia; in Polonia lo svantaggio delle donne è appena un po’ meglio che da noi).
9. Tante laureate ma poche lavorano. Lo svantaggio delle ragazze è tanto più nocivo per tutti dal momento che, nella penuria generale di dottori, la parte del leone la fanno proprio le ragazze, che rappresentano il 55 per cento del totale dei laureati.
10. Il sistema non aiuta gli stranieri. E’ alto in Italia il divario tra gli adulti nati nel nostro Paese e qui istruiti e quello degli adulti immigrati che difficilmente hanno un livello di istruzione conveniente e non ci sono programmi di educazione per adulti sufficienti.
11. I Neet soprattutto al Sud. La percentuale di giovani «persi», cioè di Neet varia tantissimo da regione a regione, passando dal 40 per cento in alcune zone del Sud fino al 10-12 per cento nel Nord. Va detto che il dato risente della presenza di lavoro nero o sommerso che non riesce ad essere calcolato in queste stime.
12. Laureati e disoccupati. Prospettive fosche, che confermano i dati già pubblicati dall’Istat: per i giovani laureati la possibilità di trovare lavoro e di fare carriera continuano a diminuire: in parte dipende anche dal fatto che non sempre le facoltà scelte dai ragazzi forniscono le competenze richieste dal mercato.
13. La fuga. Sarà l’effetto Erasmus, sarà che la libera circolazione delle persone funziona, sarà anche che cresce la paura per il futuro nel nostro Paese: è impressionante il numero di studenti che vanno a fare l’Università fuori dall’Italia: + 36 per cento in soli tre anni.
14. Dove vanno gli italiani. Per chi vuole studiare all’estero si confermano le mete tradizionali, cioè gli Atenei di Regno Unito, Francia, Austria e Germania.
15. Pochi stranieri. Stenta l’internazionalizzazione del nostro sistema universitario: per sopperire alla fuga di cervelli che vanno a studiare all’estero, l’Italia dovrebbe attrarre studenti dagli altri Paesi: ma così non è, o meglio il numero di arrivi di studenti stranieri nei nostri atenei è ancora troppo basso.
16. Gli insegnanti più vecchi. Buone notizie per quanto riguarda il corpo insegnante: con le ultime assunzioni e con l’entrata a regime della legge Fornero, diminuisce l’età media dei prof.
Se nasci povero, resti povero: nessun Paese peggio dell'Italia per immobilità sociale. La possibilità di migliorare la propria condizione economica di nascita è praticamente un'utopia: tutti gli Stati occidentali sono messi meglio di noi. I numeri di un rapporto davvero preoccupante, scrive Roberto Carlini il 6 settembre 2018 su "L'Espresso". Esiste un record negativo italiano che non è misurabile in debito pubblico, deficit, giovani Neet, evasione fiscale. Ma a guardarlo da vicino fa paura almeno quanto i primi. È l’immobilità sociale, o meglio: quanto della tua vita dipende dalla famiglia in cui sei nato. Si può misurare in tanti modi ma, comunque la contiamo, l’Italia svetta in Europa, e di gran lunga. Lo rivelano i dati del più grande database sulla mobilità sociale nel mondo, costruito dalla Banca mondiale e illustrato nel rapporto “Fair Progress?”. Tra i quali, una buona parte viene dal progetto-partner a guida italiana di Equalchances.org: sul sito, creato dal Dipartimento di economia e finanza dell’università di Bari, ciascuno può divertirsi - diciamo così - a controllare, per il proprio e per gli altri Paesi, il funzionamento dell’ascensore sociale, scorrendo gli indici della diseguaglianza di opportunità, trasmissione del reddito e dello status tra generazioni, mobilità nell’istruzione. E una cosa è certa: qualcosa si è inceppato, servirebbe un ascensorista. Con particolare urgenza per l’Italia, dove quasi la metà del reddito dei figli è determinata dal livello di quello dei padri: condizione unica nell’Europa continentale, paragonabile solo a quella di Regno Unito e Stati Uniti, per i Paesi sviluppati. Ma, quanto a diseguaglianza delle opportunità, superiamo anche i regni di Brexit e Trump.
Di padre in figlio. «Ogni giorno nel mondo nascono 400 mila bambini. Nessuno di loro sceglie il genere, l’appartenenza etnica, il luogo in cui si è venuti al mondo. Né le condizioni economiche e sociali della famiglia. Il punto di partenza della vita è una lotteria». Così la Banca mondiale introduce il suo rapporto, che punta a dare il primo set di numeri a copertura mondiale sulla mobilità tra generazioni. Espressione con la quale si intendono due cose: quanto, nella media, il livello di vita e benessere di una generazione è migliorato rispetto a quella precedente; e quanto la posizione di ciascuna persona sulla scala economica dipende da quella dei suoi genitori. Normalmente, le due cose vanno insieme: periodi di forte crescita economica fanno fare salti di benessere da una generazione all’altra e rendono anche più facile ai figli emanciparsi dallo status dei genitori. È quello che è successo nel mondo occidentale negli anni Cinquanta, e sta succedendo ora in paesi come Cina e India. Ma attenzione, dice la Banca mondiale: non è automatico che questo succeda, e infatti anche in molti paesi in via di sviluppo la mobilità sociale da genitori a figli oggi è bloccata. E poi c’è il contrappasso, quando la crescita si ferma e la marea che portava avanti tutte le barchette si ritira. Come è successo in tutti i paesi sviluppati e con particolare evidenza in Italia. «Per un certo numero di anni la crescita ha consentito a tutti di migliorare le proprie posizioni, sono stati fatti molti passi avanti soprattutto nel rapporto tra titoli di studio», spiega Vito Peragine, professore di economia politica all’università di Bari e collaboratore del progetto della Banca mondiale. I cui numeri permettono anche di confrontare la mobilità tra generazioni di oggi con quella di ieri, e ci dicono che «negli ultimi venti anni, da quando si è fermata la pur debole crescita economica, si è evidenziato il blocco dell’ascensore sociale». Anzi, a dirla tutta lo stop ha evidenziato che quell’ascensore non ha mai funzionato bene: per esempio, l’Italia è uno di quei paesi nei quali non c’è uno stretto rapporto tra i progressi nel settore dell’istruzione e quelli nel reddito. In altre parole, il titolo di studio dei genitori è meno importante di prima nel definire quello che avranno i figli - l’operaio può bene avere il figlio dottore, si è avverato l’incubo della contessa di Paolo Pietrangeli - ma è anche poco rilevante nel determinare le opportunità relative di lavoro, reddito, benessere. In effetti, se si vanno a guardare i numeri di equalchances.org, e si confronta la generazione nata nel ’40 con quella dell’80 - l’ultima di cui si abbiano dati completi – si vede che a scuola l’ascensore ha funzionato. L’indice che misura la mobilità tra generazioni nell’istruzione - più alto il numero, più bassa la mobilità - è sceso da 0,57 a 0,33. È successo lo stesso in Francia, Germania, persino nel Regno Unito, mentre lo stesso indice è sceso di pochissimo, da 0,34 a 0,32, negli Stati Uniti dell’istruzione privatizzata. Eppure, questo buon andamento in Italia non ha migliorato sostanzialmente la mobilità tra generazioni nel reddito, e non ha ridotto le diseguaglianze di opportunità. L’indice che misura la mobilità intergenerazionale dei redditi è in Italia a quota 0,48, contro lo 0,35 della Francia e lo 0,23 della Germania. Vuol dire che da noi quasi la metà del reddito dei figli dipende da quello dei genitori. È il più alto d’Europa - vicino a quello inglese - e nel mondo sviluppato inferiore solo a quello degli Stati Uniti, paesi dai quali siamo tuttavia molto distanti nella struttura sociale ed economica.
Le diseguali opportunità. Da cosa dipende questa eccezione italiana in Europa? E perché il grande balzo in avanti nell’istruzione non ha avuto grandi effetti di reddito e benessere? La stessa Banca mondiale ci aiuta a rispondere, ridimensionando un po’ il peso del fattore “istruzione”: anche se tutto il rapporto è dedicato proprio alla mobilità educativa (sia come dati che come politiche auspicate), vi si spiega anche che ci sono altre motivazioni della persistenza del reddito e del benessere da una generazione all’altra. A parità di istruzione il peso della famiglia di origine - fatto di status sociale, conoscenze, relazioni amicali - torna prepotente e si fa sentire di più in contesti più fermi, con maggiore disoccupazione, minore apertura. Tutto ciò può spiegare il più scioccante dei numeri che si possono scoprire navigando nei dati: quelli della diseguaglianza di opportunità. Qui superiamo anche Gran Bretagna e Stati Uniti, e per trovare paesi più in alto dobbiamo confrontarci con il Brasile, il Sud Africa, la Bulgaria. In particolare, spiega Vito Peragine, abbiamo un livello molto alto di diseguaglianza “relativa” delle opportunità, ossia di quella parte delle diseguaglianze spiegato esclusivamente dalla propria origine, dalla lotteria della nascita. Numeri che ne introducono altri, stavolta più soggettivi: quelli sulla percezione della propria posizione e quella dei propri figli. Secondo una indagine citata dalla Banca mondiale, gli italiano sono al penultimo posto - seguiti solo dalla Slovenia in pessimismo - nella previsione “i bambini che nascono oggi staranno meglio di noi”: otto su dieci non la pensano così. Mentre quasi 4 su 10 ritengono comunque di stare meglio dei propri genitori. Tutto ciò, dice il rapporto, condiziona il futuro, il benessere, la tenuta sociale. Non a caso lo stesso gruppo di esperti della Banca Mondiale sfornerà a breve un altro rapporto sull’impatto delle diseguaglianze sul contratto sociale europeo, mettendo direttamente la mole dei numeri dell’ingiustizia sociale in correlazione con i rivolgimenti politici europei e l’ascesa dei nazional-populismi.
Catastrofe culturale: tre milioni e mezzo di studenti hanno abbandonato la scuola. Anticipiamo in esclusiva i dati elaborati dal dossier Tuttoscuola: ogni anno più di 150mila ragazzi lasciano le aule. I numeri impressionanti di un fallimento sociale ma anche economico, scrive Francesca Sironi il 7 settembre 2018 su "L'Espresso". A giorni le classi saranno formate, gli zaini pronti, 590 mila ragazzi inizieranno le scuola superiori. Evviva. Ma uno di loro su quattro non arriverà al diploma. Dirà addio agli studi prima di averli portati a termine. Un dossier della rivista specializzata Tuttoscuola che L’Espresso può anticipare in esclusiva mostra come l’Italia abbia perso lungo la strada tre milioni e mezzo di studenti, dal 1995 a oggi. È una voragine: il 30,6 per cento degli iscritti è scomparso prima di raggiungere il traguardo. Certo, in questi vent’anni sono stati alzati argini, spesso grazie a iniziative esterne, di volontari e associazioni. E il tasso di abbandono scolastico è diminuito: nel 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori 151mila ragazzi, il 24,7 per cento del totale, contro il 36,7 del duemila. È un miglioramento, ma non una vittoria. Perché l’incuria intorno e lo sconforto interno che portano gli adolescenti a far cadere i libri prima di averli compresi, sono gli stessi spettri che rischiano poi di trattenerli a lungo in quella macchia che è la conta dei Neet, dei giovani che non studiano né lavorano: il vuoto lattiginoso dentro cui è chiuso un ventenne su tre al Sud. «Si può evitare questa immane, ennesima catastrofe culturale, economica e sociale, che avviene proprio davanti ai nostri occhi disattenti e rassegnati?», si chiede Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, introducendo il dossier, “La scuola colabrodo”: «Per farlo di sicuro bisogna partire dal sistema scolastico». Inizia il nuovo anno scolastico e L'Espresso dedica la copertina al dossier su chi invece di sedersi sui banchi da questa scuola scappa: dal 1995 a oggi sono stati infatti 3 milioni e mezzo gli studenti delle superiori che non hanno completato il ciclo di studi. Ognuno di loro è costato in media 7mila euro allo Stato, per un totale di 55 miliardi di euro. Una sconfitta per la scuola e per le istituzioni che dovrebbero costruire un futuro di opportunità per quei ragazzi che, spesso senza averne colpa, non riescono a farcela e sono obbligati ad abbandonare i banchi. Poi, sul nuovo numero dell'Espresso, la situazione caotica in Libia e le storie dei bambini migranti arrivati invece in Italia e tenuti in ostaggio del ministro dell'Interno. Infine, il ritratto del presidente della Camera Roberto Fico, speranza o illusione del popolo di sinistra? A rafforzare l'urgenza del tema possono essere i conti. Tuttoscuola li ha fatti, in denaro: ha calcolato quanto ci costa questo spreco generazionale. Partendo dalla stima Ocse per cui lo Stato investe poco meno di settemila euro l’anno a studente, per l’istruzione secondaria, il costo degli abbandoni si misura allora in cinque miliardi e 520 milioni solo considerando i cicli scolastici 2009-2014 e 2014-2018. Cinque miliardi bruciati in nove appelli d’inizio settembre. Ancora non importa a nessuno, questo spreco? Guardando ai vent'anni presi in considerazione dal dossier, la cifra diventa addirittura vertiginosa: 55,4 miliardi di euro. È la misura di un fallimento sociale, oltre che economico, enorme. E che ne racchiude altri, perché come ricorda il rapporto, più istruzione significa anche più lavoro, più salute, più democrazia. Mentre lasciar seccare l’insegnamento, e la sua copertura, significa togliere strumenti e possibilità agli attuali e prossimi cittadini, quindi all’Italia come paese. Sull'Espresso in edicola il 9 settembre tutti i dati del rapporto insieme alle riflessioni e alle proposte di chi si occupa di dispersione scolastica. Oltre a un focus sull'altro aspetto della fuga: quella dei neo-laureati che cercano un futuro solo all'estero.
Il saluto romano di un bimbo scatena "Repubblica". Sulla vicenda avvenuta a Cantù difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica, scrive Paolo Granzotto su “Il Giornale”. In italiano, chiamasi grottesca la sensazione prodotta da ciò che è paradossale, sproporzionato. Squilibrato. Bene, su un episodio avvenuto in quel di Cantù - e del quale daremo subito conto - difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica . I fatti: la quiete e l'ordine di una scuola materna del canturino sarebbero stati turbati dalla presenza di un bimbo (quattro anni) che saluta i suoi amichetti e pare anche il bidello «col braccio proteso in avanti» e cioè, annota indignato il cronista Paolo Berizzi, «come Mussolini, come Hitler». Gesto che al bimbo (ripeto: quattro anni) avrebbe insegnato a fare il padre: un «nostalgico», come si dice. Anche scomodando Hitler e Mussolini, il saluto del «Baby Balilla» (così il Berizzi) altro non parrebbe che un inconsapevole e giocoso uzzolo infantile. Ma non a Cantù, dove diventa - e questo perché la vigilanza antifascista non dorme mai - un abominio democratico. La cui sinistra eco giunge alle orecchie dei repubblicones che ci si buttano sopra in maniera forsennata: un'intera pagina, con un richiamo in prima. Dividendo lo spazio fra la deprecazione del bambino (insisto: quattro anni) che fa il saluto romano e l'encomio per la ferma risposta della scuola materna alle provocatorie gesta del marmocchio. Stando al cronista, la prima reazione fu quella di inviare un'informativa al Provveditorato agli studi, cosa che si fa quando in normale svolgimento della attività didattica è seriamente minacciato. Ma alla fine, forse per non smentire lo spirito politicamente corretto che anima l'istituto, hanno ripiegato sullo strumento del dialogo&confronto: convocati i genitori, è stato loro fatto presente che «quel saluto è vietato dalla legge italiana». Pertanto «delle due l'una: o il bimbo (devo ripetermi: quattro anni) la smette di salutare come il Duce oppure non può più frequentare la scuola materna». In verità, reati non se ne vedono perché il saluto romano è sì vietato dalla legge del giugno 1993, ma «solo qualora compiuto con intento di rivolgere la sua attività alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del carattere fascista». Intenzioni che sarebbe arduo attribuire ad un quattrenne e di conseguenza determinarne l'espulsione dall'asilo, naturalmente ove non cessi di salutare come a lui piace. Obiezione di nessun conto per Paolo Berizzi il quale sfodera ben altro e più solido argomento a favore dell'allontanamento: essendo l'asilo scuola pubblica, esso «si riconosce, come è ovvio, nei valori sanciti dalla Costituzione italiana il cui carattere è rigorosamente antifascista». Per cui, Carta più bella del mondo alla mano, niente asilo per il «camerata in erba» (così il Berizzi). A meno che non faccia autocritica e come un Dario Franceschini non giuri in piazza sulla Costituzione di non salutare più col «braccio destro proteso in avanti». Il sinistro andrebbe bene. E anche il destro, purché flesso. È nei dettagli che l'antifascismo vive e lotta con noi.
L’orribile “fascismo” degli antifascisti, scrive “Francesco Maria del Vigo”. “Correggere”. Un parola che già mette i brividi. Se poi la “correzione” – la rieducazione – riguarda un bambino di quattro anni le tinte diventano ancora più fosche. Partiamo dal principio. Repubblica di oggi racconta, con un certo compiacimento, una storia delirante. A Cantù un bambino di quattro anni si presenta all’asilo salutando tutti, maestre e compagni, con il braccio teso. I responsabili della scuola materna convocano i genitori del microbalilla, i quali – senza indugi – ammettono di avergli insegnato il saluto fascista: “Vogliamo dargli un’educazione rigorosa”. Non pago il padre arrotola la manica della camicia (non è dato sapere se fosse nera) e mostra una svastica tatuata sull’avambraccio. Il primo colloquio finisce in un nulla di fatto e le maestre passano al contrattacco: i genitori devono “correggere” il bambino. Correggere, come si fa con gli errori. O smette di salutare romanamente o lo sbattono fuori dall’asilo. Ora, è evidente che imporre il saluto romano a un bambino di quattro anni è demenziale. Ma anche creare un caso e “rieducare” è un comportamento da colonia penale, più che da scuola per l’infanzia. La famiglia ha sbagliato, lo Stato anche. Ed è ancora più grave. Ma questa non è solo la storia di un’educazione sui generis, è la cartella clinica di un Paese ancora diviso dal muro dell’odio. Un Paese in balìa di una tensione antifascista costante. Quando l’antifascismo dovrebbe essere morto e sepolto per evidente mancanza di fascismo. A eccezione di qualche caso marginale come la famiglia di sopra, che non costituisce certamente un pericolo politico per la gloriosa repubblica italiana. Invece, specialmente in questo settantesimo anniversario della Liberazione, l’antifascismo è tornato. Arrogante. Totalitario. E scleroticamente conservatore. Con la sua ridicola retorica, le sue bandiere rosse, le sue Belle Ciao, e le tirate moralizzatrici delle Boldrini. Fascismo è tornato a essere l’insulto più quotato. Basta prendere in mano un qualsiasi quotidiano e sembra di sfogliare un numero del Popolo d’Italia del 34. Improvvisamente sono tutti fascisti. Berlusconi lo è per definizione, Renzi anche, Salvini figuriamoci. I poveri di parole hanno sempre un “fascista” in tasca da lanciare sul muso del primo che osi superare lo stop del politicamente corretto. Il termine “fascista” è il cartellino rosso. La squalifica. Il confino intellettuale e politico, giusto per non spostarci dal Ventennio. Perché il paradosso è proprio questo: secondo i loro parametri – quelli degli antifascisti che vedono ovunque camicie nere – loro stessi sono dei fascisti. Degli squadristi culturali che mettono all’indice il dissenso e ora si prendono la briga di “correggere” i bambini di quattro anni. Come nelle dittature. Come in Unione Sovietica. Ché poi – alla fine – il problema è sempre quello.
"Saluto fascista del bimbo? Una bufala di Repubblica", scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. C’è del «nero» che si insinua nella tranquilla Cantù, turbando i sonni dei sinceri democratici? Mah. Per ora c’è un piccolo giallo che è interessante raccontare, riguardante un fascista in miniatura, un bambino con la passione per il Duce di cui molto si è discusso nei giorni scorsi. Martedì su Repubblica, con evidente richiamo in prima pagina, l'inviato Paolo Berizzi ha scritto che in una scuola materna pubblica di Cantù ci sarebbe un bambino di quattro anni con l’abitudine di fare il saluto romano. Lo maestre, indignate, avrebbero minacciato di cacciarlo dall’asilo se i genitori non fossero intervenuti. A cosa si deve tanta indignazione per il presunto Balilla? Al fatto che, suggeriva Repubblica, questo piccino è l’abominevole figlio di una «provincia “nera”». Ma perché Cantù sarebbe «provincia nera»? Lo ha scritto Berizzi: «Da due anni la cittadina in provincia di Como ospita il Festival Boreal, un raduno di ispirazione neonazista organizzato da Forza Nuova. (…) A scatenare polemiche sul raduno è stata l’autorizzazione - sorprendente - concessa dal sindaco di Cantù, Claudio Bizzozero. Il quale - in nome del “tutti hanno diritto di parola, anche i fascisti, da amministratore devo garantire questo principio democratico” - non solo ha dato il benestare all’evento (…) ma lo scorso anno si è addirittura presentato, in veste ufficiale, all’apertura del raduno per un saluto ai camerati». Capito che succede se un sindaco dà diritto di parola o di aggregazione ai fascisti? Poi il morbo si diffonde. Da genitori con le «svastiche tatuate» nascono dei bambini a loro volta fascisti, che sfoggiano il manganello al posto del ciuccio. La smentita del sindaco - C’è però un particolare che confligge con questa lettura della realtà fornita dal giornale di Ezio Mauro. Il sindaco di Cantù sostiene che, nella sua città, del bambino fascista non ci sia traccia. «Dopo che Repubblica ha pubblicato questa bufala», spiega a Libero, «ho fatto sentire tutti gli istituti e le scuole materne. E le dico che quel bambino di sicuro non frequenta una scuola di Cantù. Me lo hanno confermato i direttori e le direttrici delle scuole, che ho contattato uno per uno e che sono tenuti a dirmi le cose come stanno». Bizzozero dunque sostiene che Repubblica abbia scritto il falso: se davvero c’è un bambino che ama i saluti romani, di certo non è a Cantù. Motivo per cui il sindaco querelerà il giornale. «Ho il dovere di farlo», dice. «La bufala che ha pubblicato è allucinante». Anche al Provveditorato di Como sono sopresi. Rosa Siporso, sentita dalla Provincia di Como come referente dell’ufficio scolastico, ha spiegato: «Non abbiamo mai ricevuto segnalazioni simili». E ha aggiunto: «È strano, un dirigente scolastico di un qualsiasi nostro istituto comprensivo, a fronte di una storia del genere, quanto meno si sarebbe preoccupato di avvertire». Dal canto suo, Paolo Berizzi conferma tutto: «È una notizia straverificata», ha ripetuto ieri a Libero. Spiega che non ha intenzione di dire di più per tutelare la sua fonte, e si professa certissimo di quanto ha pubblicato. Però non rivela quale sia la scuola. Ma come nasce questa strana vicenda? L’ha ricostruita un giornalista della Provincia, Christian Galimberti. Venerdì scorso, Paolo Berizzi si trovava a Como a presentare un suo libro. A moderare l’incontro c’era Barbara Rizzi di Ecoinformazioni, che ha raccontato: «Una maestra si è avvicinata prima dell’incontro a me e a Berizzi e ha raccontato quanto le è accaduto. Non so di quale scuola sia e di quale paese. Detta così potrebbe sembrare anche inventata? Può darsi, io non lo so». Dunque la fonte sarebbe questa signora apparsa alla presentazione del libro di Berizzi. Ed è qui che il sindaco di Cantù va su tutte le furie: «Ma non era il caso di verificare? Di chiamare il Provveditorato, per esempio? Adesso voglio proprio sapere, se questo bambino davvero c’è, che scuola frequenta, da che Comune viene. Se si trattasse di un Comune guidato dal Pd, Repubblica dirà che dove governa il Pd ci sono i bambini che fanno il saluto romano?». È una questione interessante. Perché se davvero il bambino c’è, ma non è di Cantù, la teoria della «Provincia “nera”» fa un po’ sorridere. C’è anche una curiosa coincidenza. Il libro che Berizzi è andato a presentare venerdì si intitola Bande Nere. Come vivono, chi sono, chi protegge, i nuovi nazisfascisti, e risale a qualche anno fa. Quando uscì, l’editore Bompiani fu costretto a ritirarlo. Come mai? Conteneva una foto, presentata come un documento esplosivo, che ritraeva Ignazio La Russa in compagnia di quello che veniva indicato come un uomo della ’ndrangheta. Peccato che il signore in questione fosse in realtà un carabiniere: dunque il libro dovette essere ristampato. A Repubblica i «fascisti» non portano molta fortuna.
Il responsabile scuola della Lega ha la terza media. Ed è capo della Commissione Istruzione. Il senatore Mario Pittoni ha scritto per il Carroccio la riforma che dovrebbe archiviare la Buona scuola. Ma nel curriculum, scritto a penna, non ha mai chiarito quale fosse il suo titolo di studio. E ora spiega: "Quello che c'è da sapere non si impara sui polverosi libri", scrive Elena Testi il 10 settembre 2018 su "L'Espresso". Il presidente della commissione istruzione al Senato, l'uomo che dovrebbe vigilare su abbandono, formazione e precariato, ha la terza media. A confermarlo, dopo mesi di voci sul suo conto, è lui stesso, il senatore Mario Pittoni, "l’uomo istruzione" della Lega di Matteo Salvini. E proprio Pittoni, al telefono con l'Espresso, spiega di essere stato fino ad oggi reticente per "paura della guerra social". Si sente una risata dall’altro capo: "Sa, sono figlio della contestazione globale, erano tempi in cui ci si opponeva. Ho un padre insegnante e un fratello professore, quindi ho sempre respirato scuola e per questo sono preparatissimo. Non mi sono diplomato per ribellione". Pausa. "Ripeto, preparatissimo. Ma questo non lo scriva che lodarsi non è bello". Per il Carroccio ha scritto il programma che rivoluzionerà la scuola italiana. Ed è per questo che è stato nominato presidente della Commissione Istruzione Pubblica al Senato. Mario Pittoni, classe ‘50, leghista di ferro, ha un curriculum vitae facilmente consultabile sul portale web del Comune di Udine. Poche voci, scritte in uno stampatello stentato e una calligrafia incomprensibile (sì, è compilato a mano). Tra le voci degne di nota ci sono: addetto stampa di Edi Orioli, campione della Parigi-Dakar e direttore responsabile di una rivista di annunci. Sempre nel cv si trova "nel 1991 ha creato Lega Nord Flash, opuscolo d’informazione di carattere nazionale". Tra le capacità e le competenze personali annovera "Senatore della repubblica nella XVI legislazione. Capogruppo Lega Nord in commissione istruzione". Alla voce "patente o patenti" ha inserito "X auto e moto". La "X" in questo caso dovrebbe essere la traduzione di "per". Ma è a "tipo di istruzione o formazione" che il senatore ha scritto "iscrizione albo dei giornalisti pubblicisti dal 1981", come se il titolo di studi, quello per cui lavora in commissione Senato, non abbia alcuna importanza e possa essere sostituito con altre diciture. Ma eccole le grandi rivoluzione proposte da Mario Pittoni in campagna elettorale e rese note, il 14 marzo scorso, da Matteo Salvini in una conferenza a Strasburgo: unificazione del ciclo di studi di elementari e medie (in poche parole diventeranno una cosa sola). Ritorno al "professore prevalente" che insegnerà le materie principali, seguendo gli alunni per tutto il percorso. Riavvicinare i docenti al proprio territorio e concorsi su base regionale, via alla chiamata diretta e infine ripristino del "valore educativo delle bocciature". Nel contratto di Governo qualcosa è stato mantenuto: chiamata diretta e trasferimenti. Aggiunti: l’abolizione delle classi "pollaio" e l’intensificazione delle ore di ginnastica. Lo stesso senatore ammette: «Stiamo lavorando per mantenere le promesse fatte e abbiamo già depositato due disegni di legge importanti che riguardano gli insegnanti». Il primo per l’eliminazione della chiamata diretta e l’altro per i posti vacanti. L’unificazione di medie ed elementari «è un progetto che stiamo portando avanti, perché se ne parla da anni ma ci vuole tempo, è solo due mesi che siamo al Governo». L’obiettivo è semplice «smontare la Buona Scuola punto per punto». La Buona scuola figlia, difficile dimenticare, di una ministra anch’essa al centro delle polemiche per il titolo di studio dichiarato. Quando la verità venne a galla, Movimento 5 Stelle e Lega (all’epoca Nord) chiesero le dimissioni immediate di Valeria Fedeli. Ma alla fine come dice il presidente della commissione "Istruzione Pubblica" del Senato quello che «c'è da sapere non si impara su polverosi libri». Vuole aggiungere altro? «Dovevo dirle qualcosa di importante, ma l’ho dimenticato». Qualche minuto dopo, via messaggio, il senatore ci comunica cosa si era dimenticato di aggiungere. «Quando, come nel mio caso, a spingerti è un'infinita passione, sei portato a studiare e approfondire ben più di quanto normalmente chiesto agli studenti. Di conseguenza sei facilitato nel trovare soluzioni». Prima di chiudere la telefonata, l’ostinata raccomandazione: «Mi metto nelle sua mani, mi raccomando». Alla faccia del "valore educativo delle bocciature".
Pittoni furioso con l'Espresso: "Mamma e fratello insegnanti, cresciuto a pane e scuola". Il senatore leghista con la terza media e capo della Commissione Istruzione di Palazzo Madama non ha preso bene l'articolo in cui segnalavamo la sua storia. E su Facebook si sfoga (con l'aiuto del team social di Salvini), scrive L'Espresso" l'11 settembre 2018. A Mario Pittoni il nostro articolo proprio non è piaciuto. Nella giornata di ieri l'Espresso, con un'intervista a firma di Elena Testi, raccontava il curioso caso del senatore del Carroccio, a capo della Commissione Istruzione di Palazzo Madama e responsabile per la scuola per la Lega che alla voce titolo di studio può annoverare solo la licenza media. Con un post su Facebook, Pittoni attacca l'Espresso segnalando che, avendo madre e fratello insegnanti, è "praticamente cresciuto a pane e scuola" e va avanti con un'enigmatica confessione: "I miei cinque anni di medie superiori li ho fatti, anche se in due scuole diverse". Il senatore Mario Pittoni ha scritto per il Carroccio la riforma che dovrebbe archiviare la Buona scuola. Ma nel curriculum, scritto a penna, non ha mai chiarito quale fosse il suo titolo di studio. E ora spiega: "Quello che c'è da sapere non si impara sui polverosi libri". Pittoni chiude definendo il Curriculum vitae formato europeo, scritto a penna, che ha presentato al comune di Udine come una "noticina buttata lì in 3 minuti su richiesta dell'impiegata comunale". Con tanti saluti all'importanza della trasparenza per chi riveste ruoli di responsabilità pubblica. La replica di Pittoni all'Espresso ha ricevuto anche un aiutino da parte di Luca Morisi, capo del team social al lavoro per Matteo Salvini, che oltre a mettere like al post lo ha condiviso su uno dei gruppi ufficiali della propaganda salviniana. Purtroppo, per Pittoni, senza ottenere grande eco.
Il curriculum scritto a penna del senatore leghista. Il senatore Mario Pittoni, capo della commissione Istruzione, ha come titolo di studio la licenza di terza media. A L'Espresso spiega di essere stato fino ad oggi reticente per "paura della guerra social". E aggiunge: "Sono figlio della contestazione globale, erano tempi in cui ci si opponeva. Ho un padre insegnante e un fratello professore, quindi ho sempre respirato scuola e per questo sono preparatissimo. Non mi sono diplomato per ribellione".
E Giorgetti manda il broker all’Istruzione. Gli affari di Marco Lo Nero, segretario particolare del ministro Bussetti, ex promotore finanziario e amico del braccio destro di Salvini, scrive Vittorio Malagutti il 15 luglio 2018 su "L'Espresso". Si chiama Marco Lo Nero, viene da Varese, ed è un uomo d’affari molto noto in città. Il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti lo ha portato con sé a Roma come segretario particolare. La nomina, formalizzata a fine giugno, è stata accolta con una certa sorpresa anche negli ambienti della Lega, il partito che ha sponsorizzato la velocissima e inaspettata ascesa di Bussetti, ex direttore dell’ufficio scolastico regionale di Milano. La regia dell’operazione viene attribuita all’onnipresente Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio (nonché braccio destro di Matteo Salvini) che amministra il patrimonio di voti e potere leghista nella provincia di Varese, storica roccaforte del Carroccio da cui proviene anche Bussetti. È fuori discussione la preparazione del neoministro, 56 anni, che lavora da sempre nel mondo della scuola. Di Lo Nero invece non si conoscono competenze di sorta nel campo della formazione, così come in generale, nella pubblica amministrazione. Più noti, invece, sono i rapporti di Lo Nero con Giorgetti. Entrambi appassionati di sport, calcio e pallacanestro in particolare, condividono il tifo per la squadra di basket di Varese. Negli anni scorsi è capitato spesso di incontrare i due amici seduti fianco a fianco, nei posti di parterre, in occasione delle partite casalinghe del quintetto varesino. Pure Bussetti se ne intende di pallacanestro. Il ministro dell’Istruzione, che è un professore di educazione fisica, ha anche allenato alcune squadre giovanili della provincia di Varese. Sport a parte, Lo Nero, 47 anni, vanta esperienze da broker finanziario. Ha lavorato come promotore in forza a Fideuram del gruppo Intesa e nel recente passato, proprio a causa di questa sua attività, ha dovuto far fronte a qualche grana giudiziaria. Nel luglio del 2017 il segretario del ministro è stato assolto in un processo che lo vedeva imputato per truffa aggravata. Ad accusarlo erano due clienti che gli avevano affidato due milioni di euro. Un patrimonio in gran parte andato in fumo per via di una serie di investimenti sbagliati. A carico dell’allora promotore Fideuram gravava il sospetto di aver fornito documentazione falsa per nascondere le perdite. La vicenda penale si è chiusa con un’assoluzione, ma resta aperta una richiesta di risarcimento in sede civile. Carte alla mano, non sembra finita granché bene neppure l’esperienza di Lo Nero nel gruppo immobiliare della famiglia Monferini, molto attivo a Varese e dintorni negli anni scorsi. Dopo un’ascesa velocissima, sostenuta da generosi prestiti delle banche (in prima fila gruppo Intesa e Popolare Bari) la holding Fim dei Monferini ha dichiarato fallimento nel 2017. Un crack da oltre 60 milioni di euro, che ha coinvolto altre imprese minori del gruppo. Il nome di Lo Nero ricorre anche in società con base a Praga legate ai Monferini, come la Misenska sro. Un’altra sigla della repubblica Ceca, la M 5 management, è stata invece utilizzata dall’ex promotore finanziario per incassare i compensi di consulenze a favore di aziende italiane. Risale a qualche anno fa, invece, un’altra iniziativa dell’attivissimo uomo d’affari varesino. Una sua società, la Retail & co, gestiva un ristorante e un bar all’aeroporto bergamasco di Orio al serio. L’estate scorsa le azioni della Retail & co sono state cedute a Piero Galparoli, per dieci anni fino al 2015 consigliere comunale di Forza Italia a Varese. Lo stesso Galparoli che per alcuni mesi, prima della chiusura a dicembre 2017, rilevò il controllo del quotidiano varesino “La Provincia”. Acqua passata. Per Lo Nero, sponsorizzato dall’amico Giorgetti, era pronta una poltrona a Roma, a fianco del ministro Bussetti.
Più migliore e più peggiore. Sarà un segno dei tempi, la diffusione crescente del «più deteriore»? A scuola ci si insegnava che è un comparativo, come «peggiore»; e dunque anche «più peggiore» è uno sbaglio di grammatica. Ma per dare un filo di speranza agli italiani, non si potrebbe tentare qualche «più migliore»? Scrive Alberto Arbasino il 18 dicembre 2010 su "La Repubblica”.
Fedeli, la ministra dell’Istruzione più migliore di sempre. Ecco la nuova perla grammaticale, scrive il 21 dicembre 2017 "Il Fatto Quotidiano". Stati Generali dell’Alternanza Scuola-Lavoro, a parlare è il capo del Miur, la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. Che cade nuovamente sulla grammatica, regalando un “sempre più migliori” alla platea riunita a Roma per parlare della tanto contestata alternanza. Lo strafalcione non è passato inosservato, e ha contribuito a rilanciare le polemiche sul curriculum della ministra.
2017. Annus horribilis, tutti gli strafalcioni della ministra Valeria Fedeli, scrive il 21 dicembre 2017 "Corriere Universitario". Siamo agli sgoccioli di questa XVII legislatura e anche in questo quinquennio la politica nostrana non si è risparmiata nella consueta collezione di strafalcioni da manuale. Quest’ultimo anno, poi, il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca ha collezionato una serie interminabile di gaffe: dalle clamorose “traccie” invece che tracce della maturità2017, al “battere” al posto di batterio. Dopo la storia dei titoli di studio mancanti alla Valeria Fedeli, la scorsa settimana abbiamo assistito all’ennesima caduta di stile del capo di Viale Trastevere: il congiuntivo errato nella lettera spedita al Corriere della Sera, fino all’ultimo “più migliori” durante un discorso agli insegnanti. Sul congiuntivo sbagliato nella lettera al Corriere due giorni fa era intervenuto il suo portavoce, spiegando che il tutto era sorto dalla fretta nel tagliare una parte della missiva. “La ‘gaffe’ da voi segnalata – aveva scritto il portavoce Simone Collini a questo giornale – è in verità frutto di un mio errore nel tagliare il testo scritto dalla Ministra per renderlo compatibile con gli spazi previsti ai fini della pubblicazione. Così, due proposizioni originariamente indipendenti sul piano grammaticale, sono diventate una principale («sarebbe opportuno») e due subordinate («che lo studio della Storia non si fermasse tra le pareti delle aule scolastiche ma prosegua anche lungo tutti i percorsi professionali»)”. Insomma una imprecisione del portavoce e non della Fedeli. Stavolta, però, non sembrano esserci scuse: nel video compare proprio la ministra. E la figura non è “più migliore”. “C’è il rafforzamento della formazione per i docenti – si vede in un video che sta facendo il giro della Rete – che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza. Perché offrano percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse”. E quel “sempre più migliori” non è sfuggito alle orecchie degli internauti, che si sono catapultati a condividere il filmato con l’errore da penna rossa del ministro dell’Istruzione.
[Il ritratto] La ministra “più meglio”: dai congiuntivi sbagliati all’errore sul re. Tutte le gaffe della Fedeli. Purtroppo anche la sua ultima decisione, quella di far entrare gli smartphone nelle aule scolastiche e di farne uso, che come tutti possiamo intuire per i giovani sono «più meglio» di qualsiasi libro, ha suscitato un vespaio, scrive Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore su "notizie.tiscali.it" il 21 dicembre 2017. Mentre gli insegnanti precari della scuola bivaccano in mandrie sperdute nei corridoi e sulle scale delle università per versare l’ultimo incomprensibile balzello allo Stato che non li sistema, la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli sfreccia sempre «più migliore» verso nuovi lidi, nuovi incontri, nuovi successi. E qualche gaffe. Ma come si dice: solo chi non lavora non sbaglia.
La Laureata. E dopo 40 anni nel sindacato, l’impatto col lavoro dev’essere traumatizzante per chiunque. Valeria Fedeli, detta la Laureata, da non confondersi con Il laureato, che è il soprannome preferito di Oscar Giannino e Renzo Bossi, è intervenuta l’altro giorno fra un dibattito e l’altro nel corso degli "Stati generali dell’alternanza scuola lavoro" con un discorso pregnante ripreso in videoconferenza e isolato maliziosamente su Youtube nella sua performance meno brillante: «C’è il rafforzamento della formazione per i docenti che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza. Perché offrano percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse». Non avendo detto niente il portavoce della ministra, detto «Prosegua», che di solito sbaglia congiuntivi e affini in vece sua, dai giornalisti è stato subito fatto notare che non si dice «più migliori» e che soprattutto non dovrebbe dirlo il ministro dell’Istruzione.
La biografia corretta. E’ la solita polemica di lana caprina. Come quella sulla sua laurea, anzi sul suo diploma di laurea, che qualcuno era andato a spulciare nel suo curriculum ai tempi dell’insediamento al ministero facendo notare che non era quello il titolo di studio appropriato. Valeria Fedeli aveva immediatamente corretto la biografia modificando il diploma di laurea in diploma triennale, mentre attorno si levavano alte le grida di scandalo, perché il ministro dell’istruzione avrebbe dovuto invece essere laureato. In una lettera all’Unità, la ministra - «Riesco a dirle di chiamarmi ministra? No? E’ complicato?...» - aveva spiegato giustamente che per fare la ministra la mancanza di una laurea non è poi così grave perché la sua capacità di ascolto l’ha messa sempre nella posizione di apprendere.
Il passato nel sindacato. Come poi si è visto «più meglio» con il seguito del suo mandato. «Posso fare la ministra - ministra, ci tengo - dopo una vita nel sindacato. Sono stata apprezzata, promossa, chiamata a Roma e poi a Bruxelles a guidare il sindacato europeo dei tessili. Ho contribuito a salvare grandi aziende, ho portato nella Cgil le competenze dei ricercatori della moda. Fino a quando questo governo esisterà, cercherò di migliorare la scuola, l’università, la ricerca 24 ore al giorno». L’unico problema è forse il sindacato, cioè un’organizzazione votata ormai a proteggere elefanti e assenteisti contro quei rompiballe di precari e cococo vari, ritoccandosi pure gli emolumenti prima di andare in pensione, come è successo alla Cisl, ma per il resto l’accorato intervento della ministra - posso chiamarla così? - non fa una grinza e la sua buona volontà è indiscutibile.
Gli smartphone in classe. Nel dicastero dell’Istruzione si è in effetti data molto da fare. Anche se i suoi nemici sottolineano che si è data troppo da fare. «Ho 40 anni di vita rigorosa nel sindacato», ripete lei. E l’abitudine al lavoro non si perde dall’oggi al domani. Purtroppo anche la sua ultima decisione, quella di far entrare gli smartphone nelle aule scolastiche e di farne uso, che come tutti possiamo intuire per i giovani sono «più meglio» di qualsiasi libro, ha suscitato un vespaio. Mentre invece si tratta di una scelta modernissima, in linea con i tempi, come si auspicano moltissimi studenti che sperano anche di poter avere almeno un’ora di play station al posto della matematica o della fisica. I Codacons, non si capisce perché, sono andati giù pesantissimi definendo questo provvedimento «una follia pura», minacciando ricorsi e denunce: «Invitiamo già da oggi i professori, se non vogliono rispondere dei danni arrecati agli studenti, a rifiutare categoricamente l’uso dei cellulari a scuola».
I congiuntivo perduto. La verità è che qualsiasi cosa faccia la nostra ministra - è complicato chiamarla così? - finisce sempre nell’occhio del ciclone. Come per una bellissima lettera scritta al Corriere della Sera, in cui a un certo punto c’era l’evidenza effettivamente un po’ marchiana di un congiuntivo sbagliato, prosegua anziché proseguisse, ed è scoppiato il finimondo. Apriti cielo. Per fortuna, il suo portavoce, detto anche «Prosegua», si è subito pubblicamente scusato ammettendo di essere lui il colpevole dell’errore. Adesso non stiamo a guardare il pelo nell’uovo, che magari sarebbe meglio che un ministro dell’istruzione nemmanco laureato si scegliesse almeno dei portavoce che conoscano l’uso del congiuntivo, perché, che ne sappiamo noi?, forse il dottor Prosegua è uno bravissimo con lo smartphone, che, come spiega lei, «è uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata». Viva la modernità, santocielo. Viva la ministra. Anche se va al Premio Cherasco Storia e confonde Vittorio Emanuele III, un re abbastanza indimenticabile per tutto quello che ha combinato, con il povero Vittorio Amedeo III, che visse più di 200 anni prima e fu sconfitto da Napoleone. «Più meglio» 40 anni di sindacato e i telefonini a scuola, che ci divertiamo tutti un casino.
No, il ministro Fedeli non ha fatto un errore di grammatica. Ecco perché. Cari correttori pedanti, andate a quel paese. Ecco qualche possibile interpretazione dell'ormai celebre “sempre più migliori” pronunciato dal ministro, scrive Adriano Sofri il 21 Dicembre 2017 su "Il Foglio”. Si arrangi lei, la signora Valeria Fedeli, io vorrei mandare a quel paese i suoi correttori. Fedeli, con la quale non ho dimestichezze private, mi sembra una donna in gamba: la ascoltai in occasioni drammatiche come certi disastri nei capannoni di Prato, la lessi a proposito della storia delle donne nelle istituzioni repubblicane. Molto in gamba. Non saprei dire di lei come ministro perché non ne so. Fedeli ha detto “sempre più migliori”, eccitando un universale scandalo. In molti hanno commentato: ecco che cosa succede a mettere a capo dell’istruzione pubblica una donna non laureata. Questi commentatori evidentemente sottintendono che chi abbia un diploma da maestra di scuola materna e uno da assistente sociale non debba sapere che non si dice più migliore. Altri commentano: ecco che cosa succede a mettere a capo eccetera una sindacalista della Cgil. Come se i sindacalisti della Cgil non sapessero che non si dice più migliore, salvi i casi magnanimi in cui le / i sindacalisti della Cgil siano lavoratrici o lavoratori intelligenti e capaci che parlino una lingua, non so, a Pozzuoli, che dica efficacemente che una clausola contrattuale è “cchiù meglio assaie” di un’altra. Ora dunque Valeria Fedeli in un discorso scritto e intervallato da considerazioni improvvisate, ha letto: “… perché offrono percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse”. Io, che non sono maramaldo, immagino due circostanze che spieghino l’errore madornale di Fedeli, della quale do per scontato che sappia che non si dice più migliore. (Si dice bensì meno peggio, contraddizione apparente alla quale esorto gli italiani, specialmente alla vigilia di elezioni orribili). Una possibilità è che quel “sempre più” sia un maldestro inciso, tra due virgole, maldestro per la posizione nel periodo che induce la lettrice a pronunciare il più vicino al migliore. Un’altra possibilità è che la mescolanza di letto e parlato abbia tradito la lettrice-parlatrice che avrebbe detto “sempre più adeguati”, o “sempre più ricchi”, o sempre più qualunque altro aggettivo di grado positivo, e si sia trovata poi a completare il suo “sempre più” con il malcapitato “migliori”. Ritenete cavillosa, gratuita, pretestuosa questa interpretazione? Ah, be’, fatti vostri: io leggo e ascolto sui giornali, alla radio, in televisione, tanti strafalcioni grotteschi e destinati a far razza, commessi prodigalmente dai censori di errori altrui, che mi torna in mente un vecchio venditore di semini dolcetti e corbezzoli agli scolari di un secolo fa, di cui mi fu raccontato, uomo risentito ed esacerbato, cui un gran vento un giorno fece volar via dal banchetto i cartoccini con le sue merci e lui le inseguiva invece che per raccoglierle per calpestarle furiosamente esclamando: “Bene! Così mi inasprisco!”. Così io leggo i giornali, non di rado anche dei libri, e ascolto la radio e guardo la televisione: così mi inasprisco. Ma voi che mi leggete (ce n’è almeno uno o una che mi legge, vedo dal sito, perché clicca Mi piace, e non sono io, vada a lei o a lui il mio saluto) e non fate errori, mai, e siete magari inflessibili con la signora Fedeli e la sua laurea mancata e graziosamente vantata, prima di prendere alla leggera la mia interpretazione del “sempre più migliori”, eseguite le seguenti due operazioni. A: cercate su Google, Treccani, sinonimi, “Vieppiù”; troverete “ancor più, sempre più”. Bene, ora, B: cercate su Google fra virgolette, che ve lo dia testuale, “vieppiù migliori”. Troverete una quantità di ricorrenze, a firma di autori letterari o scientifici affidabili assai. Come mai? Perché in Vieppiù, formato da via e più, il più è chiaramente riferito al via e non al migliori: analogamente al più riferito al sempre e non al migliori della signora ministro, che però il sempre e il più distanziati e la lettura di parole probabilmente scritte da altri hanno indotto a pronunciare con il più vicino al migliori, e voce dal sen fuggita più richiamar non vale. A proposito, pedanteria per pedanteria, cercate finalmente su Google “più meglio”, e troverete un bravo professore che avverte: “Quanto al popolarissimo ‘più meglio’, non manca un es. di Fogazzaro (1881): ‘Potevano metterci nome l’Alpe del diavolo ch’era più meglio’, e uno del ’500 di F. Belo (1529): ‘E lo mio è più meglio’”. Concludo con una citazione di Arbasino 2010, che aveva anticipato e scavalcato il probblema (non toglietemi le due b, siate gentili, è Natale): “Sarà un segno dei tempi, la diffusione crescente del ‘più deteriore’? A scuola ci si insegnava che è un comparativo, come ‘peggiore’; e dunque anche ‘più peggiore’ è uno sbaglio di grammatica. Ma per dare un filo di speranza agli italiani, non si potrebbe tentare qualche ‘più migliore’?”. Ecco: tentammo.
"Sempre più migliori" è sbagliato. Va bene giocare ma la ministra Fedeli ammetta lo svarione, scrive il 27 dicembre 2017 di Massimo Arcangeli su "Il Fatto Quotidiano". Da un po’ di tempo tutto sembra poter diventare un gioco. Lo scopo non è di arrivare alla verità ultima ma piuttosto di negare la penultima per scalzarla e sovrapporle la propria, senza cedere di un millimetro nemmeno di fronte all’evidenza. A essere implicata una post verità le cui mutevoli facce si moltiplicano ogni giorno di più. Può sembrare che stia facendo qui lo stesso gioco per aggiudicarmi la posta su quel che è uscito (sempre più migliori) dalla bocca della ministra Valeria Fedeli. Non ci può però esser dubbio, se valutiamo bene il tutto, che la ministra dell’Istruzione sia incappata in uno svarione. Può capitare a tutti, per carità, bisogna solo avere il coraggio di ammetterlo. Un coraggio che è mancato, almeno finora. Qualcuno si è intanto sostituito ai difensori d’ufficio per perorare una causa persa in partenza. Ecco ciò che ha detto la ministra: “C’è il rafforzamento della formazione per i docenti, che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza, perché offrono percorsi e assistenza sempre più migliori… [piccola esitazione] a studenti e a studentesse”. Adriano Sofri e Stefano Bartezzaghi sono fra quelli che hanno provato a difendere l’indifendibile. Il primo, nel suo intervento sul Foglio (21 dicembre), ha giocato il più classico dei giochi a somma zero: uno vince e l’altro perde (al massimo può scapparci un pareggio). Meglio allora attaccare subito, in apertura del pezzo, senza mezze misure: «Si arrangi lei, la signora Valeria Fedeli, io vorrei mandare a quel paese i suoi correttori». Ne ha mandati un bel po’ a quel paese, Sofri. Compreso il sottoscritto. Anch’io ho detto che sì, la ministra Fedeli è incespicata sulla grammatica, e invece lui, Adriano Sofri, ha scritto che no, che la ministra ha detto giusto. Perché sempre più potrebbe essere un inciso, «maldestro per la posizione nel periodo che induce la lettrice a pronunciare il piùvicino al migliore. Un’altra possibilità è che la mescolanza di letto e parlato abbia tradito la lettrice-parlatrice che avrebbe detto “sempre più adeguati”, o “sempre più ricchi”, o sempre piùqualunque altro aggettivo di grado positivo, e si sia trovata poi a completare il suo “sempre più” con il malcapitato “migliori”». Perché, continua Sofri, è normale dire o scrivere vieppiù migliori: quel vieppiù, composto da un antico vie (‘ancora, assai’) e da più, non significa forse ‘molto più’ o ‘sempre più’? Perché nel Cinquecento, infine, qualcuno ha pur scritto più meglio (1529, Francesco Belo), e la stessa forma avrebbe usato Antonio Fogazzaro, tre secoli e mezzo dopo, in quest’esempio: «Potevano metterci nome l’Alpe del diavolo ch’era più meglio» (1881). Peccato che in quel vieppiù non conti tanto che il più sia «chiaramente riferito al via e non al migliori», come pensa Sofri, ma piuttosto che si faccia fatica a riconoscerlo in quanto tale perché unito al vie precedente (per lo stesso motivo non ravvisiamo l’articolo lo in perlopiù e perlomeno, altrimenti scriveremmo per il più e per il meno). Peccato che la lingua italiana, anche solo dall’Ottocento a oggi, abbia avuto la sua bella evoluzione. Peccato che la ministra avesse di fronte un testo scritto, su cui c’era evidentemente scritto “sempre più migliori” (migliori, non ricchi e nemmeno adeguati). Si può anche essere liberi di pensare che quel testo recasse scritto «percorsi e assistenza, sempre più, migliori» (un assist per la ministra) ma ci si arrampica sugli specchi e, in ogni caso, Fedeli avrebbe allora letto male e, nuovamente, avrebbe sbagliato: chi abbia ascoltato bene l’audio del suo intervento si sarà accorto che le parole incriminate sono state scandite in questo modo: «sempre // più / migliori» (l’inciso non c’è, e la pausa fra sempre e più è addirittura maggiore di quella fra più e migliori).
Stefano Bartezzaghi, in uno scambio con Mattia Feltri, si è giocato così le sue carte:
22 Dic mattia feltri: #Buongiorno "I più migliorissimi" ovvero non solo Fedeli: breve storia degli strafalcioni.
Stefano Bartezzaghi: Mattia, so che sei molto scrupoloso. La ministra ha magari molte lacune, ma quello che ha detto non è "più migliori" e non è un errore. Ha detto "sempre più" che grammaticalmente equivale ad "avremo risultati migliori sempre più". Stavolta ha ragione lei. 08:02 - 22 dic 2017.
L’ipotesi è fra quelle ventilate da Sofri – riaffiora l’inciso –, ma è giocata diversamente. S’inverte la sequenza e, oplà, il gioco è fatto. Purtroppo no, non funziona così, e chi ha dimestichezza con le lingue lo sa bene. Altrimenti non si spiegherebbe la differenza, per fare un esempio banale, fra Nessuno me l’ha detto e NON me l’ha detto nessuno. Infine, e andrebbe ribadito: migliore equivale a più buono e un parlante colto, avvertendo in qualche modo l’equivalenza fra sempre più migliore e sempre più più buono, tenderebbe, in modo del tutto naturale, a dire e a scrivere sempre migliore in ogni occasione (e, dunque: inciso o non inciso). Lo sappiamo tutti, e lo sa anche la ministra Fedeli. Ammetta il suo errore, non le costa niente. Aiuterebbe anzi un po’ tutti noi a riconoscerci nell’esigenza di una verità che sembra sfuggirci sempre più, nelle piccole cose e nelle grandi. Noi intanto, anche per alleggerire un po’ la portata del tutto, giocheremo nelle prossime settimane, su questo blog, proprio con l’italiano.
"Sempre più migliori' non è un errore". Stefano Bartezzaghi "assolve" la ministra Fedeli. In un botta e risposta avvenuto su Twitter con Mattia Feltri, il giornalista ed ex docente di semiotica pone un'ipoteca sul dibattito che ha diviso l'Italia della purezza linguistica, scrive il 22/12/2017 Simone Fontana su "Huffingtonpost.it". Nei giorni scorsi aveva destato particolare scalpore il video - ripreso dalla diretta streaming del Miur - in cui la ministra dell'istruzione Valeria Fedeli si lasciava andare a quello che era stato considerato uno scivolone linguistico. La frase incriminata era: "C'è il rafforzamento della formazione per i docenti che svolgono le funzioni di tutor dedicati all'alternanza. Perché offrano percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse".
Il web, insomma, non aveva perdonato alla titolare del ministero della pubblica istruzione l'utilizzo di "più migliori", complice anche la disavventura che l'aveva vista protagonista appena qualche giorno prima di un congiuntivo sbagliato in una lettera inviata al Corriere della Sera.
Ecco, il web sbagliava. Almeno secondo Stefano Bartezzaghi, giornalista di Repubblica e vera e propria autorità in tema di lingua italiana, che rispondendo su Twitter a Mattia Feltri pone una seria ipoteca sul dibattito che in questi giorni ha diviso l'Italia della purezza linguistica:
22 Dic mattia feltri: #Buongiorno "I più migliorissimi" ovvero non solo Fedeli: breve storia degli strafalcioni.
Stefano Bartezzaghi: Mattia, so che sei molto scrupoloso. La ministra ha magari molte lacune, ma quello che ha detto non è "più migliori" e non è un errore. Ha detto "sempre più" che grammaticalmente equivale ad "avremo risultati migliori sempre più". Stavolta ha ragione lei. 08:02 - 22 dic 2017.
Il tweet si riferisce al Buongiorno odierno di Mattia Feltri su la Stampa, dal titolo "I più migliorissimi" e ovviamente ispirato dalla sventurata giustapposizione di parole: Secondo voi al ministro dell'Istruzione può scappare un «più migliori?». Certo che sì, se il ministro è Valeria Fedeli, donna così ben educata, così simpatica, ma un po' deboluccia sui fondamentali. L'utilizzo di "più migliori" decontestualizzato potrebbe apparire come un errore, ma nel caso specifico è la presenza del "sempre più" a restituirne dignità linguistica. Una costruzione esteticamente non brillantissima, come fa notare in una risposta lo stesso Feltri, ma sostanzialmente corretta. Garantismo linguistico, lo definisce ironicamente Bartezzaghi:
22 Dic mattia feltri In risposta a @SBartezzaghi @LaStampa
Mmmh, Stefano. "Perché offrano percorsi sempre più migliori"? Io non credo che tu lo scriveresti mai.
Stefano Bartezzaghi: Confermo, non lo scriverei: ma solo per evitare equivoci. Diciamo che "suona male". Grammaticalmente però non è un errore (anzi, è un errore considerarlo tale). Garantismo anche linguistico! 08:16 - 22 dic 2017.
E se gli errori linguistici della ministra Fedeli non fossero così rilevanti? Ai discorsi di chi ricopre la carica di Ministro dell’Istruzione viene fatto il pelo e il contropelo. Naturale. Ma non può diventare uno sport, perché cercare l’inettitudine in minuti errori di grammatica, esistenti o no, finisce per essere pedante e vacuo. Finisce per essere una distrazione. Vediamo tre casi che hanno riguardato la ministra Fedeli, scrive il 29 dicembre 2017 Giorgio Moretti su "Fan Page".
Il congiuntivo nella lettera al Corriere. "Sarebbe opportuno che lo studio della Storia non si fermasse tra le pareti delle aule scolastiche ma prosegua anche lungo i percorsi professionali". Ci sarebbe voluto un "proseguisse", è chiaro, ed è un brutto errore: figuriamoci, toppare malamente un congiuntivo scrivendo qualcosa che viene pubblicato sul Corriere della Sera, e non solo! sei perfino la ministra dell'istruzione. Classico scenario da incubo, in cui sei anche in mutande. Da harakiri, ma anche no. Se ne è presa la colpa il suo portavoce, ma poco importa. Chi si è mai trovato a dover scrivere notevoli moli di lettere, comunicati, articoli, specie se non come unico autore, ma dovendo sottoporre bozze, accogliere suggerimenti, trasmettere o applicare correzioni e via dicendo sa che l'incoerenza sintattica è un pericolo dietro a ogni angolo. A me succede non di rado: correggo una frase e non mi accorgo che in questo modo non torna più. Figuriamoci quanto è facile se i cuochi sono più di uno. Anche io in questi casi mi sento dire "che ignorante, si studiasse l'italiano!". Ma ci si deve ricondurre al "chi non fa non falla". Più scrivi, più parli, più è probabile che tu sbagli. Meglio se non succede, ma fossero questi i mali della lingua e della politica.
Il più migliore in streaming. "C’è il rafforzamento della formazione per i docenti, che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza, perché offrono percorsi e assistenza sempre più migliori a studenti e a studentesse". "Più migliore" non si dice, anche questo è chiaro. "Migliore" è un comparativo, e vale "più buono": sarebbe quindi un inaccettabile "più più buono". Qualcuno ha difeso la ministra (come Sofri e Bartezzaghi) notando che non si tratta di una regola scolpita nel marmo, che nella nostra storia letteraria non mancano eccellenti casi d'uso di "più migliore", e che verosimilmente si tratta della mera giustapposizione di "sempre più" a "migliori", come fosse un inciso (girandolo diventa un accettabile "migliori sempre più"). C'è chi le ha viste come difese inconsistenti (come Arcangeli). Qui stiamo parlando di un discorso letto: il testo è scritto bene ma magari parlando si fanno errori, o è scritto male e ce ne accorgiamo troppo tardi, o sono tutti un grande baraccone di ignoranti. Vista l'inverificabilità delle ipotesi che si possono fare in merito, senza spingersi a giustificare (in maniera plausibile) l'errore, la cortesia intelligente chiede indulgenza: è un errore che capita piuttosto di frequente, e non richiede di coprirsi il capo di cenere, assunzioni di colpa ufficiali. La sua rilevanza è infima, anche se lo fa un ministro. Anche se è brutto e sciocchino.
La nota di ringraziamento al comune di Cremona. "Sono stata onorata di essere stata invitata qui nel comune di Cremona città di cultura, di musica, di futuro." Si tratta di una nota di ringraziamento, scritta a mano. La ministra ha qui voluto esprimere il suo sentimento (umano o istituzionale): si è sentita onorata d'essere stata invitata a Cremona, grande città di grandi cittadini. Anche in questo caso, apriti cielo, "La Fedeli ci ricasca", "La ministra che non sa la grammatica colpisce ancora". Invece no. Troppa attenzione a queste minuzie, troppo rinforzo positivo sul fatto che è bello e giusto bacchettare la ministra porta a esagerare. "Sono stata onorata di essere stata invitata qui" significa "Mi sono sentita onorata di essere stata invitata qui". Non c'è errore. Magari non è la frase più liscia ed elegante ch'io abbia mai letto, magari avrei detto "Mi sento onorato di essere stato invitato a Cremona" per rimarcare che l'onore sentito al momento dell'invito perdura.
Parlare dei congiuntivi di Di Maio, della ministra Fedeli e di centinaia di altri politici non porta da nessuna parte. Si vede l'errore, si fa notare l'errore e avanti: di rado concentrarsi sull'ortografia schiude una visione critica d'insieme. E peraltro, fra una giusta correzione e il bullismo il passo è breve breve. Anche perché si parla di politica: la sostanza da criticare non manca mai, vogliamo davvero guardare la pagliuzza più della trave?
Diploma in quattro anni, ecco l'elenco delle 100 scuole dove sarà possibile sperimentare. Come annunciato ad agosto, partiranno dall'anno prossimo i 100 istituti tecnici e licei che offriranno la possibilità ai propri studenti di diplomarsi n 4 anni anziché 5. Le iscrizioni saranno possibili a partire dal prossimo 16 gennaio, scrive Valentina Santarpia il 28 dicembre 2017 su “Corriere della Sera”. C'è un'opportunità in più per le famiglie che dal mese prossimo iscriveranno i propri figli alla prima classe della scuola secondaria di secondo grado. Ovvero, tentare la strada del diploma in 4 anni, grazie a una sperimentazione già avviata in passato dal ministero dell'Istruzione, con 12 scuole, ma che dal prossimo anno diventa più massiccia. Saranno infatti ben 100 gli istituti, tra indirizzi tecnici e liceali, coinvolti: 44 al Nord, 23 al Centro, 33 al Sud, scelti tra i 200 che ne hanno fatto richiesta e che hanno dimostrato di aver messo al centro la qualità dei percorsi e l'innovazione didattica. Si tratta di 75 indirizzi liceali e 25 indirizzi tecnici. Sono 73 le scuole statali, 27 quelle paritarie. Ogni scuola potrà attivare una sola classe sperimentale. I percorsi partiranno con l'anno scolastico 2018/2019. Le iscrizioni saranno possibili a partire dal prossimo 16 gennaio, la stessa data prevista per le iscrizioni ai percorsi ordinari. Tra le scuole selezionate per offrire il diploma breve, ci sono il liceo classico Sannazzaro di Napoli, il linguistico Malpighi di Bologna, il classico Flacco di Bari, il Majorana di Brindisi. A Roma compaiono solo l'Iis Giovanni XXIII, il paritario linguistico Higlands Institute, lo scientifico (sempre paritario) Visconti, e l'Iis Salvini. A Milano, oltre al San Carlo dove la formula era già stata brevettata, c'è il Tito Livio (ma solo per l’indirizzo coreutico, non per il liceo classico) e l'economico multimediale (paritario) De Amicis.
Il «ripescaggio». Nessuno «sconto» sugli obiettivi formativi: le scuole partecipanti assicureranno il raggiungimento delle competenze e degli obiettivi specifici di apprendimento previsti per il quinto anno di corso, nel rispetto delle Indicazioni Nazionali e delle Linee guida. «I percorsi quadriennali non nascono oggi, sono il frutto di un dibattito che va avanti da tempo e di una riforma scritta nel 2000 quando era Ministro Luigi Berlinguer - sottolinea la Ministra Valeria Fedeli -. Quella riforma non è mai stata attuata, ma nel 2013 una commissione istituita dal Ministro Francesco Profumo ha ripreso il tema dei percorsi quadriennali. Successivamente la ministra Maria Chiara Carrozza ha dato il via libera alle prime sperimentazioni. Con il bando emanato a ottobre abbiamo deciso di imprimere una svolta. Di consentire una sperimentazione su grandi numeri, con una maggiore diffusione territoriale, nell'ottica di dare pari opportunità alle ragazze e ai ragazzi di tutto il Paese, e una maggiore varietà di indirizzi di studio coinvolti». E le scuole «scartate»? Potrebbero rientrare in seconda battuta, visto che il ministero chiederà al Consiglio superiore della Pubblica istruzione un parere sulla possibilità di allargare la platea.
"Moratoria sulla Buona scuola": l'appello degli insegnanti firmato da intellettuali e accademici. Diventato virale in Rete un documento che chiede di aprire discussione su riforme. Più di 1.200 sottoscrizioni, tra le firme: Cacciari, Urbinati, Galimberti, Settis, scrive Ilaria Venturi il 30 dicembre 2017 su "La Repubblica”. "L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica". Comincia così l'appello per la scuola pubblica promosso da sei insegnanti, un docente di Milano Bicocca, Andrea Cerroni, e una ex preside di Roma. Un documento di critica alla Buona scuola, ma non solo, in cui si chiede una moratoria - una pausa di riflessione - sui punti più contestati: i test Invalsi, l'alternanza scuola-lavoro, l'insegnamento delle materie in inglese, l'ennesima riforma dell'esame di Stato. Nato dal basso, in poco tempo è diventato virale, ha conquistato la rete, ma soprattutto mosso intellettuali e accademici. Firmano Salvatore Settis, Massimo Cacciari, Tomaso Montanari, Umberto Galimberti, Nadia Urbinati, Michela Marzano, Romano Luperini, il filosofo Roberto Esposito, gli storici Giovanni De Luna e Adriano Prosperi, il sociologo Alessandro Dal Lago, i pedagogisti Benedetto Vertecchi, Massimo Baldacci e tanti altri educatori e professori universitari, insegnanti e critici letterari e dell'arte. Un elenco che si allunga a oltre 1.200 firme. "Una risposta inattesa al nostro grido su quella che è un’emergenza culturale", commenta Rossella Latempa, tra le promotrici dell'appello, docente di matematica e fisica a Verona. "E' un documento per aprire una riflessione e contrastare il senso di impotenza che tanti insegnanti provano", spiega Renata Puleo, altra prima firmataria, attivista con la "passione per la scuola", dirigente scolastica in pensione. "Vogliamo andare oltre, animare un dibattito meno sclerotico, confidando in una moratoria e in futuri gruppi di lavoro parlamentari aperti a chi nella scuola lavora". In buona sostanza, l'appello è che si ritorni alla scuola della Costituzione. "La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale", si legge nel documento che si trova via web. "Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce?". Il documento affronta vari aspetti, tra cui il rapporto tra conoscenze e competenze ("una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Matematica, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo"); innovazione didattica e tecnologie digitali ("servono innovazioni che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola"); la lezione ("nell’era di instagram, twitter e dell’ e-learning, la relazione e la comunicazione “viva” allievo/insegnante - nella comunità della classe - rappresentano fortezze da salvaguardare e custodire"); scuola e lavoro ("Non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione."); la valutazione ("È impensabile che enti terzi, estranei al rapporto educativo, entrino nel merito della valutazione formativa, come previsto dalla Buona Scuola").
Altro che Buona Scuola e alternanza-lavoro: la riforma più rivoluzionaria era quella di Bottai, scrive il 6 dicembre 2017 Edoardo Lorenzini su "Ilprimatonazionale.it". Quando si pensa alla politica scolastica del fascismo, subito (e giustamente) la mente corre alla Riforma Gentile, la grandiosa opera di trasformazione del sistema educativo concepita dal filosofo di Castelvetrano, il cui impianto, nonostante le picconate inferte dai governi di ogni estrazione politica negli ultimi 70 anni, ancora resiste. Sebbene essa fosse stata definita da Mussolini «la più fascista delle riforme», e recepisse molte istanze care al fascismo, promuovendo lo spirito comunitario, infondendo alti valori etici e morali con lo scopo di formare spiritualmente l’individuo, si muoveva tuttavia nel solco della tradizione idealistica italiana, tanto da meritare l’approvazione di Benedetto Croce, il quale aveva ricoperto l’incarico di ministro dell’Istruzione durante l’ultimo governo Giolitti (1920-21). Poco si parla invece del progetto di riforma promosso da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale dal 1936 al 1943, forse in ragione del giudizio negativo che anche fra gli eredi del fascismo, in ragione della condotta tenuta durante e dopo il 25 luglio, investe il personaggio, o forse perché l’ambizioso programma non fu attuato che in minima parte, anche se lasciò tracce significative destinate a sopravvivere al fascismo, come l’istituzione del calendario scolastico e l’ordinamento della scuola media, rimasto in vigore fino all’«unificazione» del 1962. Quella pensata da Bottai era una scuola fascista nel senso più profondo della parola, mirava cioè a formare l’«uomo nuovo», il cittadino, il soldato, il lavoratore, organicamente inserito nella nazione. Per questo nella prima dichiarazione della «Carta della Scuola», documento in 29 punti che, richiamandosi alla forma della «Carta del Lavoro» del 1927, intendeva delineare i caratteri, la struttura e le finalità della scuola italiana, si legge che questa costituisce il «fondamento primo di solidarietà di tutte le forze sociali, dalla famiglia alla Corporazione, al Partito». Uno degli elementi centrali della Riforma bottaiana era il lavoro: il ministro, fra i più entusiasti sostenitori del corporativismo, intendeva fare del lavoro – come lo stesso ebbe a dire nella relazione introduttiva alla Carta tenuta al Gran Consiglio del Fascismo – «il comune denominatore della scuola italiana». La Riforma istituiva ordini di studio volti a preparare le figure professionali necessarie a un Paese moderno e che stava conoscendo un processo di esponenziale industrializzazione come l’Italia, quali la «Scuola Artigiana», ordine post-elementare di durata triennale in cui si apprendevano i lavori manuali, e la «Scuola professionale», alternativa alla scuola media «unica» (poiché unificava i corsi inferiori del Liceo classico, dell’Istituto tecnico e dell’istituto magistrale), volta alla formazione delle figure professionali richieste nel campo dei servizi e della grande industria, e che dava la possibilità di frequentare un ulteriore biennio di «Scuola Tecnica». Tuttavia l’inserimento del lavoro nei programmi didattici non aveva scopi utilitaristici, non era finalizzato alla trasmissione di competenze specifiche e rigide, utili a «preparare al mondo del lavoro» il discente, come spesso si sente ripetere oggi. Quella immaginata da Bottai non era la «scuola delle tre “i” (inglese, impresa, informatica)» tanto cara a Berlusconi (e non solo a lui), non aveva nulla a che vedere con l’«alternanza scuola-lavoro» dei nostri tempi, che obbliga gli studenti a svolgere mansioni presso privati che nulla hanno di formativo. Nell’ottica della «Civiltà del Lavoro» che il fascismo aveva fondato, dove il lavoro viene considerato come «soggetto dell’intera società nazionale», questo non poteva rimanere estraneo al processo educativo. Come si legge nella V dichiarazione il lavoro «si associa allo studio e l’addestramento sportivo nella formazione del carattere e dell’intelligenza. Dalla Scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado, il lavoro ha la sua parte nei programmi». Il lavoro faceva il suo ingresso già nell’ultimo biennio della Scuola elementare, denominata «Scuola del lavoro», dove i discenti prendevano confidenza con gli utensili e le pratiche manuali, per poi cimentarsi nella pratica del lavoro agricolo. Per Bottai «il lavoro agricolo sarà il tipico lavoro di tutta la scuola». Fra le prove di esame allora previste per accedere alla Scuola media e a quella professionale, nonché agli Istituti superiori, veniva prevista una «prova di lavoro» con cui il candidato doveva dare prova delle abilità acquisite. Sempre nella V dichiarazione si legge: «Dalla Scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado, il lavoro ha la sua parte nei programmi. Speciali turni di lavoro, regolati e diretti dalle autorità scolastiche, nelle botteghe, nelle officine, nei campi, sul mare, educano la coscienza sociale e produttiva propria dell’ordine corporativo». Pertanto anche gli studenti di Licei ed Università erano chiamati a svolgere attività lavorative, come attesta il seguente filmato tratto da un cinegiornale Luce. Secondo il ministro «coloro che formeranno la classe dirigente debbono conoscere non intellettualisticamente, ma con i propri muscoli le difficoltà, le gioie, le fatiche dei lavoratori». Ciò si proponeva anche lo scopo di favorire la rivalutazione sociale e culturale del lavoro manuale, svilito dalla mentalità borghese ma che trovava piena dignità nello Stato fascista, che con la «Carta del Lavoro» tutelava l’attività lavorativa in tutte le sue forme («esecutive, intellettuali, tecniche, manuali»), e proclamava ed attuava la parità sociale e giuridica fra datori di lavoro e lavoratori. Una scuola quindi che rifiutava il nozionismo pedantesco e ozioso, ma respingeva altresì l’idea di una formazione strumentale ed economicistica, il cui unico scopo sia sviluppare capacità spendibili nel mondo del lavoro. La scuola pensata da Bottai e dal fascismo era una scuola che nei suoi programmi e nei suoi metodi abbracciava sapere umanistico e scientifico, attività sportiva, educazione politica e militare, conoscenza e pratica del lavoro. Non la scuola-azienda che intende formare l’«uomo economico», ma un modello di formazione olistico, che vuole educare un uomo che è corpo e spirito, pensiero e azione, un uomo integrale, «che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero», per usare le parole di Mussolini.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
MORTE A SCUOLA. FALLIMENTI E SUICIDI.
La cultura del fallimento contro i suicidi degli universitari. Uno studente su tre mente alla propria famiglia circa lo svolgimento del proprio piano di studi e lo fa perché non ha imparato a perdere, scrive Barbara Massaro il 12 aprile 2018 su "Panorama". Nella cultura americana, scolastica e imprenditoriale che sia, se qualcuno fallisce gli viene chiesto: "Ok, è andata male, ma cosa hai imparato da questa esperienza?".
Un approccio costruttivo al fallimento. Questo approccio costruttivo al fallimento in Italia non esiste e, al contrario, prevale il bisogno di dimostrare di essere superiori al prossimo anche di fronte all'evidenza di un errore, di uno scivolone o di un passo indietro. Succede così fin dalla più tenera età quando i genitori sovraccaricano i figli di stimoli con l'idea di trovare il "talento" della propria prole già a 4 o 5 anni. Che sia a scuola, nello sport, nel canto o nella musica è come se l'importante fosse poter "sventolare" al prossimo quanto orgogliosi si è dell'eccellenza del proprio bambino. Si tratta di una spirale pericolosa che mette in atto un cortocircuito compensatorio dove l'asticella dell'aspettativa genitoriale è sempre al rialzo con figli spesso alla rincorsa di un ideale lontano cucito loro sul petto da genitori incontentabili che non contemplano la possibilità che il proprio figlio, semplicemente, non ce la faccia. La mancanza di cultura del fallimento è determinante per comprendere l'emergenza sociale che si sta creando all'interno degli atenei italiani.
Emergenza suicidi nelle università italiane. Il suicidio della ventiseienne molisana Giada De Filippo che si è lanciata dal tetto dell'Università Federico II di Napoli nel giorno della sua (non) laurea è solo la punta dell'iceberg. Giada aveva invitato i genitori, il fidanzato e gli amici ad assistere alla sua discussione di laurea incapace di confessare che, nel corso dei 4 anni di Università da studente fuori sede, di esami ne aveva dati davvero pochi e che, quindi, la laurea in Scienze naturali, era quanto mai lontana. Vestita di tutto punto, mentre era al telefono col fidanzato, Giada è salita sul tetto della Facoltà e si è lanciata nel vuoto. Solo negli ultimi 15 mesi in Italia ci sono stati altri due casi identici: uno studente abruzzese iscritto alla facoltà di Giurisprudenza a Roma si è sparato in testa la sera prima della laurea: non ci sarebbe stata nessuna discussione perché gli esami non li aveva ancora finiti. Alla stazione di Rovigo, pochi mesi prima, un presunto laureando in Ingegneria all'università di Ferrara si è lasciato travolgere dal treno per motivi analoghi.
Tragiche similitudini. Il portale Skuola.net ha raccolto i casi di suicidi degli ultimi anni e sono decine, tutti con più o meno lo stesso copione. Si tratta per lo più di studenti fuori sede cui le famiglie hanno dato piena fiducia sobbarcandosi anche le spese di affitto e trasporti lontano da casa. Quei ragazzi, però, la fiducia giorno dopo giorno l'hanno tradita e mentre mamma e papà pagano rette e affitti loro passano il tempo tra feste, locali e attività varie che poco o nulla hanno a che fare con lo studio. Oppure ci sono i casi di coloro che non riescono a passare gli esami e per vergogna e paura di deludere i genitori tacciono infilandosi in una spirale di menzogne dalla quale, poi, non riescono più a uscire.
La paura di deludere. Il tema della delusione è centrale per capire cosa scatti nelle mente di questi ragazzi lontani da casa e messi davanti alle responsabilità della vita adulta senza, forse, essere preparati a farlo. Un tempo il genitore era una sorta di autorità ieratica della quale si aveva un reverenziale timore. La "paura" della punizione in caso di fallimento era uno stimolo a dare il meglio affinché quel padre o quella madre venisse ripagato dei sacrifici fatti per crescere e far studiare i figli. Poi questo meccanismo si è inceppato o evoluto e comunque è cambiato e, dagli anni '70 in poi, i genitori sono diventati sempre più "amici" e confidenti dei propri ragazzi. Se da una parte questo ha fatto bene alla sfera affettiva dei giovani dall'altro proprio questo grande investimento in termini di affettività ha fatto sì che al timore della punizione in caso di fallimento venisse sostituita una paura ben più pericolosa ovvero quella di deludere il proprio padre e la propria madre. La delusione è un sentimento complesso e che implica il tradimento di promesse e aspettative. Fa più male un mese di castigo o aver deluso le persone che più ci amano?
Uno studente su tre mente a casa. Sempre Skuola.net ha pubblicato di recente un sondaggio condotto tra 1.000 studenti delle università italiane che ha messo in luce come il 35% degli interpellati abbia mentito almeno una volta in famiglia circa gli esiti della propria carriera accademica e il 17% dei bugiardi lo fa sistematicamente. I Pinocchio degli Atenei per lo più mentono sugli esiti degli esami (24%) gonfiando un po' i voti; mentre il 18% altera il numero degli appelli sostenuti e superati. Il 7%, infine, ha fatto intendere che la data della laurea fosse più vicina del previsto.
E' emergenza sociale? Secondo gli esperti parlare di emergenza sociale è lecito e doveroso e l'appello è rivolto sia agli insegnanti sia alle famiglie e ruota proprio intorno all'accettazione del concetto di "fallimento". E' un argomento che andrebbe trattato il prima possibile affinché anche gli studenti che ritengono il giorno della laurea le colonne d'Ercole della propria esistenza possano apprendere che il lancio del tocco non rappresenta la fine di tutto, ma l'inizio del resto della propria vita. Posati gli allori sulla mensola meglio illuminata della casa iniziano i veri problemi fatti di posti di lavoro difficili da trovare (e mantenere), di grande competitività in qualunque settore professionale, della necessità di continui aggiornamenti, di capi iniqui e colleghi invidiosi. Visto da una prospettiva più ampia il problema di non avere superato tutti gli esami all'Università appare in tutta la sua limitata gravità, ma chi lo vive non è attrezzato per gestire il fallimento e prendersi le responsabilità di deludere chi ha investito su di lui.
La mancanza della cultura dell'autonomia. Inoltre c'è da aggiungere che quasi tutti gli studenti che finiscono nel circolo vizioso delle bugie (con gli esiti estremi del suicidio) frequentano l'Università in una città differente da quella d'origine e in Italia è ancora scarsissima la cultura dei ragazzi che studiano e si autogestiscono lontano dal nido di mamma e papà. Nello spirito anglosassone i giovani già alle superiori tagliano il cordone ombelicale e iniziano a muovere (non senza sbagliare) i primi passi nell'età adulta e nell'autonomia. Alle nostre latitudini quel momento viene procrastinato quasi al paradosso con uomini di 35, 40 anni che vivono in casa (Mammoni? Disoccupati? Precari? Nati comodi?). Coloro che a 20, 25 anni si trovano lontani da casa sono quasi mosche bianche dalla scarsa adattabilità che si trovano impreparati a gestirsi, ma troppo orgogliosi per chiedere aiuto. In un momento storico, poi, dove la vita dei giovani è scandita da like, follower e consenso riflesso e moltiplicato via social network rimanere fermi al palo è un affronto difficile da sopportare e la vergogna del fallimento seduce i più deboli portandoli a decidere di scegliere il gesto estremo del suicidio.
VIOLENZA A SCUOLA.
Milano, telefona alla prof che ha bocciato il figlio: "Ti ammazzo". Denunciato per minacce aggravate dal preside di un istituto professionale di Gorgonzola che ha riferito l'episodio ai carabinieri. Un altro episodio a Pogliano Milanese, scrive il 15 giugno 2018 "La Repubblica". Tanta la rabbia che ha preso il telefono e ha chiamato la professoressa di suo figlio minacciandola di morte, perché responsabile secondo lui della bocciatura del ragazzo. Un 50enne è stato denunciato dai carabinieri per minacce aggravate nei confronti dell'insegnante di un istituto professionale di Gorgonzola, nel Milanese. Ieri sera il genitore del 16enne ha chiamato la donna al telefono e, in uno accesso di ira, le ha detto che l'avrebbe uccisa. Questa mattina il preside della scuola ha avvertito i carabinieri dell'episodio e i militari della stazione locale hanno rintracciato l'uomo. Il 50enne, di origine albanese, ha ammesso le sue responsabilità e si è detto dispiaciuto per il proprio comportamento. Si tratta dell'ennesimo episodio che vede i docenti bersaglio di violenze. E non è l'unico. Nel pomeriggio, erano le 18.30, alla Ronchetti di Pogliano Milanese (nell'hinterland a nord-ovest di Milano), un uomo di 53 anni ha spintonato e minacciato una insegnante dopo aver scoperto che il figlio di 13 anni era anche lui stato bocciato. L'uomo si era presentato alla scuola primaria di secondo livello per ritirare la pagella, e lì ha saputo della mancata promozione del ragazzino. A quel punto ha cercato la prof che riteneva responsabile e, dopo averla incrociata nei corridoi dell'istituto, l'ha afferrata per il braccio insultandola, spintonandola e minacciandola ripetutamente. L'aggressione è durata diversi minuti. Quando sono arrivati i carabinieri del nucleo radiomobile della stazione di Nerviano lo hanno trovato ancora intento a urlare contro la donna che ha rifiutato il trasporto in ospedale. L'uomo è stato comunque denunciato d'ufficio per minacce e percosse. "Le aggressioni nei confronti dei docenti, del personale della scuola tutto, sono atti da condannare sempre duramente - aveva commentato ieri riferendosi ad altri episodi dello stesso tenore il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Marco Bussetti -. Non posso che essere vicino a chi le riceve. Credo sia un'esperienza devastante. Per chi la subisce e per chi assiste a questi atti che avvengono all'interno di un luogo che è di formazione ed educazione. Davanti a tutto questo vogliamo reagire e lavorare per ricreare un clima di serenità, per mettere la scuola in condizione di concentrarsi maggiormente sulla gestione del rapporto con le famiglie". Solo ieri un giovane professore di un istituto tecnico di Roma era stato assalito dal padre di un ragazzo bocciato, che lo ha prese a pugni e ha cercato di strangolarlo. Dall'inizio dell'anno sono così 19 le aggressioni a scuola da parte dei genitori.
Roma, difende il preside dall’aggressione di un genitore: giovane prof picchiato a sangue. Il docente 23enne si è trovato nel mezzo di una violenta lite tra il padre di uno studente, al quale avevano appena comunicato la bocciatura del figlio, e il dirigente di un Istituto romano. la madre dell’insegnante denuncia tutto su Facebook, scrive il 14 giugno 2018 Rinaldo Frignani su "Il Corriere della Sera". «Ci hanno accusato di aver falsificato i voti del figlio. Erano convinti che avesse tutti otto, e invece erano tutti quattro. E di averlo preso di mira perché straniero, perché diverso. Ma non è vero: anzi, io non chiederò mai l’espulsione di quell’alunno». Il preside Claudio Dorè tende la mano ai genitori del quattordicenne dell’istituto tecnico Di Vittorio-Lattanzio, al Prenestino, bocciato l’altro ieri. Una decisione che ha scatenato la reazione violenta dei genitori, di origine albanese. «Ma italiani a tutti gli effetti», hanno tenuto a sottolineare con la polizia, intervenuta dopo che il padre del ragazzino aveva sferrato un pugno contro il giovanissimo prof di disegno e grafica, Umberto Gelvi, 23 anni. A chiamare il 113 sono stati sia la scuola sia i genitori dello studente. «In realtà voleva colpire me — racconta ancora il dirigente scolastico —, lui e la moglie avevano perso il controllo, hanno insultato prima la coordinatrice della classe del figlio, poi anche me. Ma il professor Gelvi si è messo in mezzo per difendermi e si è beccato il pugno». A rendere nota la vicenda, l’ennesima aggressione a un insegnante di scuola superiore, è stata la madre del 23enne, Monika Wilmer, anche lei prof, che su Facebook ha scritto: «Al docente portato in ospedale in ambulanza veniva riscontrato trauma cranico rachide cervicale e segni di tentato soffocamento. Ora è sotto osservazione. Il docente in questione ha soli 23 anni, è al suo primo anno di insegnamento ed è mio figlio. Questa è l’Italia? — ha aggiunto — Chi tutelerà i docenti che sono i formatori della società di domani?». Un post che in poche ore ha ricevuto quasi 2.400 condivisioni. E ieri il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha sottolineato come «le aggressioni ai docenti sono atti da condannare sempre duramente». Sul caso indagano gli agenti del commissariato Prenestino che hanno interrogato e poi denunciato i genitori dell’alunno per interruzione di pubblico servizio, in quanto al momento dell’aggressione erano in corso gli scrutini di fine anno. Il prof picchiato, che i medici hanno giudicato guaribile in otto giorni, si è invece riservato di sporgere querela. Ha 90 giorni di tempo. «E noi saremo al suo fianco — assicura il preside —. Vogliamo andare fino in fondo a questa storia. Da febbraio abbiamo contattato più volte i genitori di quel ragazzo per parlare con loro, segnalare che l’andamento del figlio era tutt’altro che soddisfacente. Avrebbero potuto scoprirlo anche collegandosi con il registro elettronico. Ma ora è importante che a pagare non sia il loro ragazzo».
Scuola, consegnare le pagelle con la scorta? Per i sindacati basterebbe intervenire con fermezza, scrive il 15 giugno 2018 (Teleborsa) "Qui finanza". Le aggressioni verso gli insegnanti e i dirigenti scolastici non si contano più: in questi giorni di fine anno, con l’esposizione dei giudizi finali, derivanti dagli scrutini, l’ira dei genitori per le bocciature dei figli si sta riversando in misura crescente sui pubblici ufficiali che operano nella scuola. L’apice della violenza gratuita si è toccato a Roma, dove due giorni fa all’istituto superiore Di Vittorio Lattanzio prima il preside e poi un docente sono stati aggrediti dai genitori di uno studente non ammesso all’anno. Sugli episodi deprecabili che si stanno ripetendo nelle scuole si è espresso anche il neo Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, ricordando che “le aggressioni nei confronti dei docenti, del personale della scuola tutto, sono atti da condannare sempre duramente”. “Davanti a tutto questo – ha aggiunto il Ministro – vogliamo reagire e lavorare per ricreare un clima di serenità, per mettere la scuola in condizione di concentrarsi maggiormente sulla gestione del rapporto con le famiglie, di adottare metodi di recupero”. L’Anief ricorda che da tempo nelle scuole esiste un accordo scuola-famiglie, denominato “patto di corresponsabilità”, che entrambi le parti sono tenute a rispettare, in funzione del successo formativo degli studenti. Laddove questo non avviene, è ovvio che occorra intervenire. Venendo meno al “contratto” sottoscritto in sede di iscrizione dei figli, si rompe qualcosa nel rapporto e bisogna assolutamente prendere provvedimenti adeguati, sempre rapportati alla gravità dell’infrazione. “Soprassedere, rimandare o, peggio ancora, minimizzare, ci ha portati ad un progressivo decadimento del ruolo dell’istituzione scolastica, dei docenti e dei dirigenti perché parallelamente alle aggressioni dei genitori verso gli operatori della scuola, stanno crescendo anche gli episodi di bullismo, che hanno come protagonisti negativi degli studenti che si possono scagliare sia contro i compagni di classe, sconfinando in certi casi addirittura nel reato di stalking, sia contro i docenti, i dirigenti e il personale scolastico” dichiara Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e Udir.
Docenti aggrediti da genitori, reati gravi. Giannelli ANP, ci costituiremo parte civile, scrive Elisabetta Tonni su "Orizzonte Scuola" il 15 giugno 2018. Sul fenomeno delle aggressioni da parte di alcuni genitori verso i docenti interviene anche Antonello Giannelli, presidente dell’Anp, l’associazione nazionale dei dirigenti scolastici. Le aggressioni a danno degli insegnanti – si legge sul sito dell’associazione – sono reati molto gravi e procedibili d’ufficio, aggravati dal fatto che, quasi sempre, le cause sono da ricondursi a futili motivi come un voto basso, o questioni disciplinari che riguardano i figli degli aggressori. “Data la gravità dei fatti – sostiene Giannelli – l’Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola, inizierà a costituirsi come parte civile nei procedimenti contro gli aggressori”. Giannelli mette assieme, contandoli, tutti i casi registrati solo nell’ultimo anno didattico, a partire dal primo giorno di scuola per arrivare all’ultimo. “Dall’inizio dell’anno scolastico – scrive Giannelli – sono 34 i casi di aggressioni da parte di genitori ai danni di presidi e insegnanti”. Ad aprire l’infausto bilancio è stato il caso registrato in una scuola di Palmi, in provincia di Cosenza. L’ultimo della serie è invece quello avvenuto a Roma in cui un professore, intervenuto a sostegno del preside, è stato quasi strangolato. Un caso che è arrivato a ridosso dell’aggressione subita a Padova dalla docente di inglese per aver rifilato un 4 a un alunno. Questi ultimi due casi stanno anche scuotendo l’opinione pubblica, sia per la violenza usata, sia per la tempistica così ravvicinata. Chissà quante altre sono state le aggressioni subite, magari solo verbali ma non per questo meno violente, che non sono arrivate alla ribalta mediatica. I professori difficilmente trovano nel genitore un alleato nell’educazione del ragazzo; anzi, si assiste al rovesciamento del patto educativo in cui il genitore è sempre e solo dalla parte del figlio che è vittima (agli occhi di mamma e papà) del docente cattivo. Nel conteggio del presidente Giannelli non sono rientrati i casi di aggressione dei docenti da parte degli studenti stessi che, forse, proprio in virtù del rovesciamento dell’alleanza educativa, potrebbero sentirsi più forti nelle azioni di bullismo. Nell’esprimere solidarietà all’ultimo docente aggredito per aver difeso il suo preside, il presidente Giannelli ha detto che l’Anp “sta valutando di proporre un inasprimento delle pene nei confronti degli aggressori”.
Scuola, da settembre 33 casi di violenza contro i prof. Un lungo anno di aggressioni. È uno dei primi problemi che dovrà affrontare il nuovo ministro dell’Istruzione Marco Bussetti. Secondo i calcoli della rivista Tuttoscuola, gli episodi sono stati molti di più: la stima è di quattro a settimana, scrive Virginia Della Sala il 10 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Scuole chiuse, o quasi, dopo un anno di battaglia. E non in senso figurato. Gli ultimi nove mesi sono stati scanditi da notizie di aggressioni agli insegnanti da parte di alunni e genitori. È uno dei primi problemi che dovrà affrontare il nuovo ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti. Politici, educatori, dirigenti ed esperti concordano: la figura dell’insegnante ha perso autorevolezza. Sottopagati, considerati meri esecutori dei capricci dei genitori, vittime della disintermediazione che illude di non aver bisogno di professionisti. Viene chiamata “fine dell’alleanza educativa” tra scuola e famiglia, di cui l’istituzione non riesce più a farsi mediatore.
Il bilancio – 33 violenze fisiche accertate e 81 stimate. La rivista Tuttoscuola ha perciò attivato un contatore che ha raccolto, durante l’anno scolastico, i casi di aggressione ai docenti. “Non sono poche e tendono ad aumentare – spiega la rivista –. E per ogni aggressione di cui si ha conoscenza certa, si stima che ve ne siano almeno altre tre non rese pubbliche. Per non parlare delle violenze verbali, ancora più diffuse come ci confermano diversi dirigenti scolastici”. Dal settembre 2017, si contano 33 violenze fisiche accertate e 81 violenze fisiche stimate. Una media di quattro episodi a settimana.
Paola, settembre ‘17 – Primo giorno, la figlia chiama e lei attacca la prof. La madre di una ragazza di 16 anni entra in classe e strattona e spintona l’insegnante davanti agli alunni dopo essere stata chiamata dalla figlia in lacrime. La ragazza era stata rimproverata. La mamma si difenderà sostenendo che la professoressa “perseguitava” la ragazza dall’anno precedente.
Mirandola, ottobre ‘17 – Lanciano il cestino contro la professoressa. C’è un video: un 15enne afferra il cestino dell’immondizia e lo scaraventa contro la docente che sta spiegando alla cattedra. Un altro, tira delle penne, un terzo riprende la scena. I tre minorenni vengono denunciati per violenza a pubblico ufficiale e interruzione di pubblico servizio.
Monserrato, Ottobre ‘17 – “Via lo Smartphone” e lo prende a pugni. Un alunno, rimproverato dall’insegnante, le sferra un pugno in pieno volto. “Il ragazzo stava dando dei colpi con un pezzo di cartone ai compagni, forse un album da disegno o un quaderno, non ricordo bene – ha raccontato la docente –. A quel punto l’ho ripreso e invitato a comportarsi bene dicendogli che se non avesse smesso gli avrei preso il cellulare”. Il quattordicenne ha preso il suo telefonino e le ha sottratto la borsa. Quando lei si è avvicinata, l’ha colpita. La donna è caduta a terra e ha perso i sensi. È stata portata in ospedale.
Avola, gennaio 2018 – In due per rompergli le costole all’uscita. Il professore di educazione fisica di sessan’anni rimprovera l’alunno di 12, irrequieto. Gli dice di chiudere la finestra e di stare composto, il ragazzino – sostiene il docente – gli tira un libro. Lui chiama i genitori che lo fermano in cortile e lo prendono a calci e pugni fino a che l’uomo non finisce all’ospedale con una costola rotta. Nella loro versione, sosterranno che sarebbe stato il professore a lanciare il libro contro il ragazzo.
Como, gennaio 2018 – Insulti e bestemmie perché gli avrebbe rotto il telefono. Esiste un video: 84 secondi di insulti, bestemmie, minacce e accuse. Secondo il ragazzo, il professore sarebbe colpevole di aver danneggiato il suo smartphone, probabilmente ritirato dal docente in precedenza.
Caserta, Febbraio 2018 – Maestra percossa per un consiglio. Una mamma di una bambina di quattro anni picchia la maestra, sbattuta ripetutamente con la testa contro il muro, perché non è d’accordo con il suggerimento dato. La maestra aveva solo spiegato alla bambina come fare delle “stanghette”.
Caserta, Febbraio 2018 – L’interrogazione va male, lui la accoltella. Uno studente di 17 anni accoltella in classe l’insegnante di 54 anni che voleva interrogarlo per permettergli di recuperare una insufficienza. Lui si rifiuta, lei gli impedisce di uscire. È una escalation: dalle proteste alla nota disciplinare. Fino alla ferita al volto, un lungo taglio con un coltellino tascabile. La professoressa viene ricoverata.
Alessandria, Febbraio ‘18 – Legato alla sedia, ripreso e insultato. Una insegnante supplente di prima superiore in un istituto tecnico, con difficoltà motorie, viene legata alla sedia della cattedra con lo scotch, presa a calci e sbeffeggiata da un gruppo di studenti mentre altri riprendono la scena con uno smartphone. Ad allertare il bidello, uno studente di un’altra classe che passava per caso.
Foggia, Febbraio 2018 – Percosse al vicepreside di una scuola media. Trenta giorni di prognosi dopo essere stato picchiato con calci e pugni dal padre di uno degli alunni che frequentano la prima della scuola media dove insegna. L’uomo lo ha aggredito all’uscita. Il giorno prima aveva rimproverato il figlio di otto anni perché spingeva e rischiava di far cadere le compagne in fila.
Lucca, Aprile 2018 – “Inginocchiati e mettimi la sufficienza”. Due video che mostrano violenza contro lo stesso professore in un istituto tecnico di Lucca: nel primo, uno studente prova a strappargli di mano il registro elettronico, gli intima di inginocchiarsi e di mettergli sei sul registro. “Prof non mi faccia inc…re. Metta 6”. I compagni riprendono la scena col telefono. E ancora: “Lei non ha capito nulla. Chi è che comanda? Si inginocchi”. Dopo pochi giorni, inizia a circolare un altro video in cui alcuni studenti indossano un casco integrale in classe, provando a prendere a testate il professore.
Pesaro, Aprile 2018 – Accendini al volto, i ripetenti: “Ti brucio”. Uno tiene un accendino acceso davanti al volto del professore, l’altro lo spinge, i compagni li incitano a dargli fuoco e riprendono la scena. Il docente, molto scosso, non dice nulla. La preside lo scopre solo tramite il video su Whatsapp di un conoscente. Oltre ai due studenti, ripetenti, è stato identificato un terzo studente che incitava più di altri ad appiccare il fuoco.
Torino, Aprile 2018 – Punizione in biblioteca, il papà gli sferra un pugno. Il padre di uno studente, mandato in biblioteca come sanzione per un ritardo, colpisce con un pugno alla mandibola il professore, che finisce al pronto soccorso.
Velletri, Aprile 2018 – “Ti mando all’ospedale e ti sciolgo nell’acido”. “Te faccio scioglie in mezzo all’acido, te mando all’ospedale professore’”: il video è girato in un Istituto Tecnico di Velletri e a parlare è uno studente, rivolto alla sua professoressa. Il diverbio è del 2017, ma è diventato virale solo quest’anno. Dieci minuti di discussione, l’insegnante ha minacciato di spedirlo dal preside per l’ennesima nota. “Ma chi sei tu per dirmi che devo stare zitto. Ma voi volete proprio finire all’ospedale – dice il ragazzino –. Ti faccio squaglià in mezzo all’acido, ti faccio squaglià”. I compagni ridono e riprendono. “Mo ti alzo tutto il banco ti alzo, vuoi vede’? Non mi provocà professore che poi la macchina non te la ritrovi”. E quando lei esce per chiamare il preside, lui prende a calci la porta.
Palermo, Aprile 2018 – Picchia il prof ipovedente: emorragia cerebrale. Un professore di 50 anni ipovedente viene picchiato e ferito gravemente dal padre di una studentessa di terza media di un istituto comprensivo di Palermo. Il professore avrebbe ripreso l’alunna in classe e lei, all’uscita dalla scuola, avrebbe riferito al padre che l’insegnante l’avrebbe picchiata. Salvo poi ritrattare e ammettere di essere solo stata allontanata dall’aula.
Milano, Maggio 2018 – “Ha graffiato mio figlio”: malmena la maestra. Una mamma milanese quarantenne prende a “schiaffi” e a “calci” e tira i capelli alla maestra durante un’ora di supplenza nella classe del figlio di 8 anni. “La maestra ha stretto il braccio di mio figlio, che è un bambino vivace, seguito dai servizi sociali, per tenerlo fermo. Gli affondava le unghie. Lui si era agitato dopo aver saputo che non sarebbero andati in ludoteca”, ha detto la mamma. La scuola ha dato un’altra spiegazione: “Il bimbo soffre di un disturbo oppositivo-provocatorio. Quel giorno si stava azzuffando con un compagno e la maestra è intervenuta per separarli. Lo ha allontanato per proteggerlo, il bambino ha cercato di morderla e l’ha presa a calci. E nella concitazione si è ferito, graffiandosi”.
Taranto, Maggio 2018 – Propone la sospensione per il bullo, lo schiaffeggiano. Il padre di un alunno di scuola secondaria di I grado aggredisce con schiaffi e pugni il professore che aveva proposto la sospensione per 5 giorni del ragazzo che, richiamato perché picchiava i compagni, si era rivolto in modo minaccioso al docente.
Padova, Giugno 2018 – La figlia va male in inglese, lei picchia l’insegnante. La madre di un alunno di scuola media aggredisce l’insegnante di inglese che aveva dato un voto insufficiente al figlio. Allo scontro verbale nel cortile della scuola prima delle lezioni è seguito uno schiaffo in faccia. La professoressa è caduta a terra, si è ferita al labbro e, con un livido in volto, si è fatta medicare all’ospedale.
Aggressioni in classe, ha vinto la burocrazia e perso la scuola, scrive il 16 febbraio 2018 su "Il Fatto Quotidiano" Alex Corlazzoli, Maestro e giornalista. Colpa della Tv! Colpa dei genitori e delle famiglie! Colpa della società! Colpa, come sempre, della ministra! Ho atteso qualche giorno prima di scrivere qualche riga su quanto sta accadendo nelle scuole italiane perché mi son preso del tempo per riflettere, per leggere ogni articolo uscito sulle vicende che vedono protagonisti ragazzi e insegnanti che mettono le mani addosso ai professori! Avevamo appena finito di puntare gli occhi sui docenti che chattano messaggi erotici ed ecco un “nuovo” fenomeno. So che deluderò qualcuno ma non c’è alcuna novità in queste notizie. Da sempre esistono maestri, professori, dirigenti che non sanno essere all’altezza del loro ruolo. Allo stesso tempo da che mondo e mondo esistono ragazzi che non sanno controllarsi e genitori che perdono le staffe. Il problema è un altro: questi casi (rari e da sempre esistenti, ripeto) sono la punta dell’iceberg di un clima di malessere che trova fondamenta in altro. Distinguiamo le situazioni. Partiamo dagli studenti. Il ragazzo che ha sfregiato la professoressa così come quell’allievo delle medie di Piacenza che ha strattonato la docente sono dei violenti? Dei criminali da mettere in galera? Quanti ragazzi, bambini abbiamo in classe che manifestano la loro rabbia, la loro delusione, il loro malessere? Tanti, troppi. I motivi sono i più svariati: situazioni famigliari complicate; problemi psicologici; incapacità di relazionare con gli altri. E la scuola che fa per loro? Li etichetta. Quelli come il bambino di Piacenza sono Bes, Dop e chi più ne ha più ne metta. In questi anni mentre eravamo costretti a compilare verbali, piani personalizzati, carte e carte per dire che Marco è uno con bisogni educativi speciali e Luigi ha disturbi oppositivi provocatori, ci hanno impedito di fare il nostro mestiere: i maestri, gli insegnanti (coloro che lasciano una traccia), gli educatori. Una delle educazioni più vitali è quella delle emozioni e della vita effettiva. Si chiama educazione all’affettività (da non confondere con quella alla sessualità che pure servirebbe) e serve a scoprire le emozioni, ad imparare a gestire la rabbia, a lavorare su di sé, sulle reazioni e sulle relazioni. Non c’è più tempo a scuola per fare questo: c’è da compilare, c’è da terminare il programma (che non c’è più), ci sono le prove delle prove Invalsi da fare prima che arrivino i test. Tutto utile, magari, ma poi non diamo la colpa alla TV, alle famiglie, alla società se Marco strattona l’insegnante. Altra questione quella dei genitori. Partiamo da un’affermazione scontata, superficiale, stupida ma che vale la pena ricordare: non sono tutti uguali. Il maestro è uno e i genitori sono tanti. Diffido sempre dell’insegnante che va bene a tutti i genitori. Ma anche qui il problema è un altro. Dietro la violenza di uno cosa si nasconde? Nei giorni scorsi una maestra mi ha scritto chiedendomi aiuto: “Subiamo continue aggressioni. Entrano e urlano”. Negli stessi giorni una mamma dopo aver ritirato la pagella del figlio mi ha pure scritto: “Ti pare questo il giudizio da dare ad un bambino?”. Tra i due c’è un muro. Il cancello della scuola è la separazione fisica e psicologica delle due categorie che invece dovrebbero lavorare insieme. Nella mia esperienza mi son capitate colleghe e dirigenti che imponevano di “tener fuori dalla scuola i genitori” e di parlare con loro solo nei giorni dei colloqui. Spesso mamme e papà puntano dritti al “vado dal preside” e gli altri, i prof, intimoriti dai loro capi d’istituto sempre pronti a difendere i genitori, si proteggono come possono. Qualche volta allontanando mamme e papà, altre volte con l’aiuto della burocrazia. Il vero problema è la partecipazione. Quest’ultima parola nella scuola si traduce negli organi collegiali: consigli di interclasse, d’istituto dove i genitori dovrebbero essere protagonisti. Non è così. Avete presente come vengono scelti i rappresentanti di classe: “Signora lo faccia lei quest’anno, non dovrà perdere molto tempo”; “Dai fallo tu, io l’ho già fatto lo scorso anno”. La vogliamo chiamare partecipazione? L’esperienza degli organi collegiali è fallita da tempo ma nessun ministro ha avuto il coraggio di mettere mano a questo capitolo. Risultato? Son tutti attaccanti, tutti allenatori e nessuno fa squadra.
La violenza nella e della scuola, scrive Paolo Mottana il 19 aprile 2018 su "comune-info.net". Paolo Mottana Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione. Tra i suoi ultimi libri La città educante (Asterios). Possiamo affrontare senza retorica e scorciatoie, senza assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni miopi, il tema della violenza nella scuola? Secondo Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione alla Bicocca, le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se risultano spesso poco visibili: gli ambienti della scuola sono quasi sempre poco accoglienti ed estranei a bambini e ragazzi, i diversi tempi di apprendimento raramente vengono assecondati, per effettuare attività principalmente cognitive si fa ricorso a una disciplina esigente accompagnata da minacce di valutazioni e punizioni, a volte si aggiunge anche l’atteggiamento autoritario di alcuni adulti insegnanti. Nello stesso tempo gli insegnanti si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi. Intanto la società continua ad essere un luogo di conflitti e di guerra “sempre più individualizzata e disorganizzata per il lavoro, per il successo e per il denaro….” Per questo “non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione…. Questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione…”. Come è noto in questi tempi quasi ogni giorno si ha notizia di violenza nella scuola. La cronaca ne è piena, con una particolare sottolineatura per quanto riguarda la violenza di ragazzi nei confronti di altri ragazzi ma anche di ragazzi verso i professori e di genitori verso i professori. Meno si ha notizia di violenza da parte di professori nei confronti dei ragazzi e meno ancora di violenze di professori verso i genitori. Cerchiamo, senza retorica, senza scorciatoie, senza l’enfasi che la voglia di schierarsi imprime al dibattito, dividendo tra assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni facili e talora miopi. La questione è molto complessa e richiede di tenere conto di un grande insieme di variabili, in assenza delle quali il giudizio è semplificatorio e inutile. Anzitutto chiediamoci. A che tipo di violenze assistiamo nella scuola e, in secondo luogo, è la scuola un luogo violento? Io credo che le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se molte di esse risultano spesso poco visibili e ignorate, mentre di fatto vanno chiamate in causa per capirci qualcosa. La scuola è un’istituzione normativa e, in parte, violenta. Lo è anzitutto in quanto “obbliga” bambini e ragazzi a trasferirsi massicciamente dai loro ambienti propri in ambienti fortemente regolati e estranei che non hanno scelto e all’interno dei quali sono tenuti a osservare moltissime norme che limitano pesantemente la loro libertà di muoversi, di essere soggetti a pieno titolo e di esprimersi spontaneamente. Questo non dobbiamo mai dimenticarlo. La nostra società ha scelto, con piena corresponsabilità di tutti, genitori compresi, di rinchiudere bambini e ragazzi all’interno di una struttura che loro non hanno scelto e riguardo alla quale hanno una possibilità molto limitata di incidere e di far valere il proprio punto di vista. Questo vale anche per i genitori e per alcuni insegnanti più sensibili a questo ordine di obblighi non sempre sensati per quanto attiene i processi di apprendimento che dovrebbero verificarsi al suo interno. Noi chiediamo ai nostri bambini e ragazzi (e mi scuso se ogni volta non aggiungo, come sarebbe giusto, bambine e ragazze ma è per semplicità) di alzarsi molto presto la mattina (cosa che in molti casi è una vera e propria violenza ai loro ritmi biologici) e di trasferirsi dai loro luoghi famigliari in luoghi non proprio esaltanti sotto il profilo estetico, del clima umano e dell’ospitalità, che noi chiamiamo scuole. All’interno di questi luoghi poi vengono concentrati in gruppi che non scelgono, di fatto al comando di adulti, gli insegnanti, che hanno il compito di far rispettare una disciplina piuttosto esigente (silenzio, ordine, riduzione radicale del libero movimento e della libera espressione ecc.) per effettuare attività principalmente cognitive non sempre gradite sotto la minaccia di valutazioni, sanzioni, procedure punitive ecc. I corpi e le menti dei bambini e dei ragazzi trattati in questo modo soffrono di una palese repressione e di una costante vigilanza che spesso travalica anche il buon senso, arrivando a censurare abbigliamenti, linguaggi, gesti che appartengono di fatto alla pienezza di espressione dei piccoli in crescita. Ciò che si fa nella scuola è spesso fratturato in piccole unità difficili da ricomporre e delle quali comprendere il senso, è appesantito da compiti e prove continue o comunque molto frequenti non sempre rispettose delle esigenze individuali di tempi di apprendimento non standardizzabili specie su grandi numeri. A tutto questo e altro che ora non posso, per esigenze di spazio, mettere in luce (organizzazione del tempo libero e delle uscite dalla classe, tempi fisiologici di riposo e “ricreazione”, tempo di libera espansione corporale ed espressiva ecc. ecc.), si aggiunge talora l’atteggiamento autoritario e minaccioso di alcuni adulti insegnanti, il che non fa che aumentare il carico di umiliazioni, soggiogamento e minaccia talora gratuita che i piccoli devono sopportare sempre in assenza di un loro spontaneo e attivo consenso. Noi non possiamo mai dimenticare tutto questo, in special modo se teniamo conto, come dimostrano innumerevoli studi, del ruolo che la libertà relativa, il clima affettivo e supportivo e soprattutto il coinvolgimento appassionato ha sul processo di apprendimento, su qualsiasi processo di apprendimento. Intendiamoci, non che queste norme non valgano in parte anche per gli insegnanti, che si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi per le loro risorse, a dover impartire insegnamenti che appunto impattano nel disinteresse dei soggetti in carico e di dover, sempre in ragione della strutturazione disciplinare e ricattatoria dell’insegnamento, trattare una popolazione sofferente e poco propensa a seguirli. E tuttavia è chiaro che le punizioni, le sanzioni e la minaccia aumentano in proporzione diretta con il grado di sofferenze, di mancato coinvolgimento e di libertà che i soggetti in apprendimento sperimentano all’interno della struttura “concentrazionaria” nella quale sono obbligati a restare per una parte preponderante del loro tempo di vita. In un contesto di tale genere io credo che si debba parlare di violenza diffusa, con gradazioni e sfumature anche molto diverse ma intrinseca al funzionamento dell’istituzione stessa. I bambini e i ragazzi sono molto diversi gli uni dagli altri, come è normale che sia, e reagiscono a questo trattamento in maniera molto diversa. Ci sono alunni che, per ragioni anche di ordine psicologico, beneficiano di una strutturazione anche rigida, cioè trovano nella “funzione quadro” garantita dal contesto, come spiega René Kaes in un testo ormai vecchio ma sempre verde, L’istituzione le istituzioni, un ancoraggio rassicurante e funzionale. Per altri invece una tale strutturazione, spesso imbastardita dall’eccesso di controllo e di sanzioni, è insopportabile. In mezzo ci sono molte sfumature. Fino a qualche decennio fa tutto questo sembrava pacifico. Secondo una visione piuttosto ottusa, mi si conceda, della psicologia dei bambini, si riteneva che l’obbligo, la frustrazione, il sacrificio, fossero in sé cosa buona e giusta per farli crescere. Un’idea antica e profondamente legata a una formazione adattiva per contesti di vita molto difficili e conflittuali che teneva in considerazione l’individualità e la soggettività dei bambini ben poco. Nel giro di alcuni decenni, a partire dagli anni Sessanta ma anche molto prima in modo meno massiccio, si è allargata la nostra visione (anche grazie ai molti studi di pedagogia nuova e attiva che apparivano via via e alle sperimentazioni ad essi legate) a una comprensione più ampia del bambino e della necessità di tenere più conto di un processo che dobbiamo chiamare di soggettivazione individuale, di scoperta e coltivazione dei suoi talenti specifici e di autonomia. Pedagogisti, educatori e molti genitori si sono andati via via sensibilizzando intorno questa diversa comprensione e non hanno più colluso con un trattamento educativo fondato sulla sofferenza, sul rigore e sulla frustrazione. Nel contempo tuttavia la società ha continuato ad essere un luogo di conflitti, di vera e propria guerra sempre più individualizzata e disorganizzata per il lavoro, per il successo e per il denaro. Teniamo conto anche di questo perché è questo che vedono, manifesto in ogni luogo, i nostri cuccioli intorno a loro, spesso nei loro genitori o nei ragazzi più grandi o, in mole davvero pervasiva, attraverso i media. Tutto ciò non può che fare cortocircuito. Oggi molte famiglie sono sensibili alla salute psichica, fisica e affettiva dei propri figli (quello che viene chiamato il fenomeno della “famiglia affettiva” nei confronti della quale francamente non riesco a trovare nessun elemento di recriminazione perché finalmente è una famiglia che “vede” i propri bambini, o almeno ci prova e non è più disposta a delegarne completamente l’educazione a una struttura così poco comprensiva come quella scolastica). Gli insegnanti stessi, in una misura notevole, hanno cominciato a rendersi conto che occorre cambiare registro, anche se l’organizzazione scolastica ha fatto ben poco per venire loro incontro e, di fatto, il funzionamento dell’istituzione è cambiato, specie sotto il profilo disciplinare, ben poco. Come poco è cambiato sul piano dei saperi da apprendere, del modo di trattarli e delle prove di valutazione, che semmai sono diventate ancora più invasive e persecutorie. Noi non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione. La scuola è un luogo violento, dove si consuma violenza quotidiana, dove le libertà essenziali dei bambini e dei ragazzi sono ridotte al minimo vitale. È chiaro che oggi nel mondo c’è un clima che tende anche a incoraggiare questa ribellione, c’è più comprensione, c’è più contraddizione. Ma intendiamoci, e qui mi permetto di prendere posizione, questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione. I bambini e i ragazzi sono soggetti a pieno titolo che hanno il diritto di essere accolti nel migliore dei modi possibile, di essere incoraggiati a trovare e intraprendere le “loro” strade, che devono essere valorizzati nelle loro differenze e ascoltati, che devono avere tempi di riposo, di libertà, di scatenamento come è consono con le esigenze dei loro corpi e della loro età. Finiamola con il moralismo becero del tipo che occorre frustrarli perché altrimenti se ne occuperà la società. Un bambino frustrato non sarà per questo più capace di affrontare le frustrazioni della vita. Si abituerà solo a sopportarle e a non criticarle, a non cercare di cambiarle, avendo introiettato gli schemi della sottomissione e dell’accettazione. Perché mettiamo i nostri figli al mondo se davvero crediamo che la realtà faccia schifo e che loro devono imparare da subito a essere sanzionati, normati, privati delle loro libertà? Stiamo scherzando? Con questo non voglio giustificare nessuno. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità ma non dobbiamo dimenticarci mai quale sia l’origine del problema, dove si annidi, chi siano i suoi attori primari. Il resto sono conseguenze, più o meno folli. Ma il punto di scaturigine sta in un meccanismo sbagliato ab initio. Occorre cambiare, se vogliamo che domani cambi anche una società che non ha di meglio da dire ai suoi cuccioli se non imparate oggi a soffrire perché domani sarà peggio.
Che sta succedendo nella scuola italiana? Prof pestati e bullizzati. La deriva nera della scuola, con la complicità delle famiglie. L'episodio di Lucca è solo l'ultimo di una serie impressionante. E' saltato il rapporto di fiducia tra scuola e famiglia, ovvero il patto di corresponsabilità educativa? Scrive Daniela Amenta il 19 aprile 2018 su "Globalist.it". Deve essere saltata una diga, ma importante, se i ragazzini bullizzano i professori in classe. Accade sempre più di frequente, decine e decine di casi. Il rischio è che fra un po' non ci faremo più caso. E gli insegnanti saranno lasciati ancora più soli in queste classi dove vengo derisi, umiliati, mortificati. Deve essere saltata la diga della famiglia. Perché spesso a pestare gli stessi insegnanti sono proprio i genitori dello studente che pretende un buon voto o assoluta libertà d'azione a dispetto della disciplina. In un appello su Change.Org al capo dello Stato Mattarella, un gruppo di docenti scrive: "Sono fatti che evidenziano quanto sia profondamente mutato il rapporto di fiducia tra scuola e famiglia, che interrompono bruscamente quel patto di corresponsabilità educativa e che vanno condannati con forza. È sconvolgente pensare che un genitore possa entrare in una scuola e compiere atti simili o che uno studente si possa permettere di picchiare da solo o in gruppo un docente". Vorrebbero una norma capace di difenderli. I professori italiani dicono: "Occorre una legge che comporti delle sanzioni che siano da esempio educativo per le generazioni future, serve una norma che tuteli il libero esercizio dell’insegnamento quale base per la crescita delle generazioni che verranno. Serve una legge atta a prevenire episodi del genere che si aggiungono alla non facile situazione del comparto scuola maltrattato sul piano economico, giuridico e sociale". Ma una legge può cambiare un clima, un modo di essere, questa violenza che striscia? Botte, poi l'immancabile video. L'ultima storia è accaduta in un Ict di Lucca. Qui il docente è stato aggredito verbalmente da un alunno che aveva ricevuto un pessimo voto. "Prof non mi faccia arrabbiare, metta sei", gli ha urlato il giovane. Poi puntandogli il dito in faccia: "Qui comando io. Si metta in ginocchio". Naturalmente tutto questo è stato ripreso e postato in Rete, con assoluta faccia tosta, un senso di totale impunità. Oggi viene fuori un'altra vicenda inquietante, accaduta un anno fa ai Castelli Romani. Viene fuori perché il video è diventato virale. Istituto Tecnico di Velletri. L'immancabile coatto che si rivolge alla prof e la minaccia con queste parole: "Te faccio scioglie in mezzo all'acido, te mando all'ospedale professore'". Un piccolo, arrogante mafioso.
Storie terribili. Dalla professoressa disabile "bullizzata" e derisa dai suoi alunni in una scuola di Alessandria (con tanto di video postato su WhatsApp), alla maestra di Palermo presa a pugni dal genitore di un alunno perché aveva lamentato le troppe assenza di suo figlio. Solo lo scorso 7 aprile a Torino, istituto tecnico Russel Moro, due persone hanno aggredito un docente, "colpevole" di non aver fatto entrare un alunno in classe perché arrivato tardi alla lezione. Il ragazzo ha avvisato il padre, che si è presentato assieme ad altre due individui che hanno colpito con un pugno alla mandibola il professore, per poi fuggire.
Il caso di Giuseppe Falsone. Peggio è andata a Giuseppe Falsone, insegnante di matematica alla scuola media Casteller di Paese in provincia di Treviso. Ha accompagnato un ragazzino nel cortile esterno, nonostante l'alunno non volesse alzarsi dalla sedia. Morale: è stato preso a schiaffi dai genitori mentre la scuola ha aperto un procedimento disciplinare contro il professore. Falsone ha scritto alla Fedeli. «Gentile Ministro, è ammissibile per buonsenso e messaggio educativo che un docente aggredito, ingiuriato, minacciato e abbandonato a se stesso debba anche difendersi dal fuoco amico? Mi chiedo come mai la parola di minorenni diseducati e le minacce di famiglie aggressive mettano in discussione la serietà di chi ogni giorno lavora per costruire conoscenza e competenza ma anche le donne e gli uomini di domani».
Febbraio nero. Solo a febbraio una sequenza di episodi gravissimi. 1° febbraio, Caserta. Un 17enne accoltella la professoressa di italiano al volto. Motivo: la docente voleva interrogarlo per fargli recuperare una insufficienza. 10 febbraio Foggia: vicepreside aggredito dal genitore di un alunno. Ricoverato con trauma cranico e addominale. Il prof aveva ripreso il ragazzino che spintonava una compagna.
14 febbraio, Piacenza. Qui l'insegnante è stata aggredita da uno studente di prima media, che 'ha colpita ripetutamente ad un braccio. Come riporta il quotidiano locale "Libertà", la donna è stata portata in ospedale con una prognosi di sette giorni. Il ragazzino è stato sospeso con obbligo di frequenza e la scuola ha presentato una denuncia per infortunio sul lavoro e una segnalazione ai servizi sociali. E poi in Sicilia, e nel Lazio, in Campania. E' saltata una diga, ma bisogna intervenire. Non serve solo una legge ma un profondo ripensamento dei rapporti tra famiglie e scuola. Restituire valore all'insegnamento e a chi insegna, a questi docenti malpagati e maltrattati che sono il primo mattone dell'educazione anche civica dei nostri figli. Pensiamoci ora, subito, prima che sia troppo tardi.
Lucca, il secondo video del professore bullizzato: mimano testate, insultano e svuotano bidoni di immondizia, scrive il 19 Aprile 2018 "Libero Quotidiano". Emergono nuovi video dopo quello messo in rete mercoledì dagli studenti di una scuola di Lucca in cui si vede un alunno insultare e minaccia un professore, intimandogli addirittura di mettersi in ginocchio. Le nuove immagini mostrano due studenti che, galvanizzati dall'incitamento dei compagni, insultano pesantemente l'insegnante e addirittura versano i due bidoni dell'immondizia sulla cattedra. E ancora, mimano di colpirlo con una testata. Dopo la diffusione dei video, i tre minorenni colpevoli frequentanti l'Itc di Carrarà della cittadina toscana sono stati indagati per atti di bullismo e prepotenza ai danni del professore sessantaquattrenne. Sia la polizia postale che la Digos sono intervenute nelle indagini ed anche il preside dell'istituto è intervenuto sporgendo formalmente denuncia.
Bullismo, nuovo allarme dopo Lucca. A Velletri minacce in classe a professoressa: "Ti sciolgo nell'acido". Nel comune laziale aperta indagine per minacce e oltraggio. A Chieti, obbligo di dimora per due minori che picchiavano un compagno. La ministra Fedeli: "Nei casi più gravi, escludere i ragazzi dagli scrutini. E i docenti non minimizzino", scrive il 19 aprile 2018 "la Repubblica". "Te faccio sciogliere nell'acido professorè". È allarme bullismo: da Lucca a Venezia, da Chieti a Velletri, dai professori ai compagni di scuola, si moltiplicano le vittime dei violenti. Studenti, adolescenti, coetanei si trasformano in classe in aguzzini dei loro compagni, dei loro insegnanti. Spesso, per postare poi le loro "imprese" in rete. Un nuovo episodio è venuto ora alla luce, dopo il caso del docente di Lucca minacciato: è accaduto a Velletri, alle porte di Roma. "Te faccio scioglie in mezzo all'acido, te mando all'ospedale professorè", ha detto uno studente di un Istituto Tecnico all'insegnante, riprendendo tutto col telefonino e condividendo sui social, con tantissime visualizzazioni. Il caso è avvenuto un anno fa ma ora, dopo che il video è diventato virale, le autorità si sono attivate. I carabinieri hanno inviato infatti ieri un'informativa in Procura, che ha aperto un'indagine per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ipotizzando anche il reato di minacce. Gli inquirenti dovranno ora accertare le modalità con le quali è stato realizzato e diffuso in rete il video. Le indagini cercheranno anche di capire se la docente è stata oggetto di minacce anche successivamente all'episodio in questione.
Sempre in zona Castelli romani, i carabinieri hanno sgominato una banda, formata da minorenni o poco più che maggiorenni e capeggiata da un ragazzo di 16 anni. Oltre a compiere atti di bullismo, con l'uso sistematico e reiterato della violenza il gruppetto faceva spacciare stupefacenti a minori per suo conto, facendosi poi consegnare il ricavato.
Altri episodi violenti sono stati sanzionati a Chieti. Il Tribunale per i minorenni dell'Aquila ha infatti emesso un ordine di dimora per due studenti bulli, che per mesi hanno reso la scuola un inferno ad un compagno di classe. Pugni, testa sbattuta sui banchi, insulti, minacce. La vittima dei loro soprusi è stato un ragazzo di 14 anni, che beneficia del sostegno per un ritardo cognitivo, iscritto alla prima classe.
Dall'inizio dell'anno le angherie nei suoi confronti sono state continue, ma a lungo il ragazzo non ha detto nulla. Sua madre, allarmata dal fatto che il ragazzo si rifiutava di andare a scuola, è riuscita finalmente a farsi raccontare tutto. Fino alla scoperta di alcuni lividi sul suo corpo. Una visita al pronto soccorso è stata sufficiente ad accertare le violenze subite dal ragazzo, con una prognosi di una settimana.
Ma gli incubi in classe, per lui, non erano finiti. Sul gruppo di Whatsapp, infatti, nuove minacce: "Se torni ti massacriamo di botte e ti buttiamo dalle scale antincendio", gli scrivevano. La madre è stata costretta a ritirare il figlio dalla scuola, ma ciò non le ha impedito di denunciare i fatti ai carabinieri, che in sinergia con la scuola hanno ascoltato i compagni di classe. I ragazzi erano stati testimoni dei fatti ma, per timore dei due bulli, non avevano mai riferito a nessuno ciò che si stava verificando. Da lì i primi provvedimenti della scuola contro gli studenti violenti, fino ai provvedimenti restrittivi emessi oggi dal Tribunale.
E se nel veneziano una ragazzina esasperata dagli insulti via chat si è gettata dalla finestra, salvandosi, nei giorni scorsi anche a Bologna undici ragazzini fra i 14 e i 15 anni - italiani e stranieri - sono stati denunciati alla Procura dei minori dai carabinieri di Borgo Panigale per i reati di minacce, violenza privata, percosse, lesioni personali e, in un caso, tentata rapina. I fatti sono avvenuti fra dicembre e febbraio al centro commerciale Meridiana di Casalecchio. I ragazzini, anche a piccoli gruppi, prendevano di mira le vittime e le picchiavano anche per futili motivi, anche solo per uno sguardo non gradito. Tre, in particolare, gli episodi denunciati. Ma i carabinieri sospettano che siano molti di più.
L'escalation di violenze nelle scuole non ha lasciato indifferente il ministero dell'Istruzione. La titolare del dicastero, Valeria Fedeli, ha rivolto un appello alle famiglie, chiedendo maggiore rispetto per chi è incaricato di formare le nuove generazioni: "L'autorevolezza dell'insegnante - ha spiegato la ministra - si intreccia in modo stretto, agli occhi delle ragazze e dei ragazzi, con quella dei genitori". La ministra ha preso poi una posizione netta riguardo ai gravi casi di violenza che si verificano nelle scuole: "È necessaria - ha spiegato - una linea rigorosa nelle sanzioni. Chi infrange le regole, chi ricorre alla violenza verbale o fisica nei confronti dei professori va sanzionato secondo le norme vigenti, che prevedono la sospensione dalle lezioni per periodi di tempo diversi fino alla non ammissione allo scrutinio finale". Riguardo al caso di Lucca, che tanto ha fatto discutere, la titolare del Miur ha detto che il docente avrebbe dovuto "chiedere alla preside di convocare il consiglio di classe e sospendere e sanzionare quei ragazzi". Non solo chi ha commesso le violenze, ma "anche chi girato il video senza intervenire". "I docenti - ha continuato poi Fedeli - non devono subire simili episodi di violenza, e vanno sostenuti da colleghi, dirigenti e società. La figura del docente deve essere adeguatamente riconosciuta, rispettata, valorizzata". Fedeli, infine, ha sottolineato l'importanza di non minimizzare mai episodi del genere, quando si verificano: "Denunciare subito episodi di violenza verbale o fisica, linea rigorosa nelle sanzioni: ecco la strada da seguire affinché non si debba più assistere a immagini come quelle che ci sono giunte da Lucca e da Velletri".
Ancora violenza in una scuola campana: bambino delle elementari manda all’ospedale la maestra, scrive Roberta Magliocca il 20 aprile 2018 su "Corrierece". È diventato davvero un mestiere pericoloso, quello dell’insegnante. E sembra proprio che la violenza sembra appartenere ai grandi, quanto ai piccini. In una scuola dell’agro atellano, un bambino della prima elementare – 6 anni appena, di Frattamaggiore – ha scaraventato addosso alla maestra il suo banchetto, non prima però di averla insultata con parolacce. Trasportata in ospedale, la maestra è stata dimessa in serata con una prognosi di 7 giorni. Intanto la preside della scuola ha chiamato la madre del bambino che non sembrava mortificata da quanto fosse successo. Così, la dirigente scolastica, è stata costretta a chiamare i carabinieri.
Perché i video dei bulli di Lucca parlano di noi e di quello che la scuola non è più capace di fare. Aumenta il numero di studenti che aggrediscono e si prendono gioco dei loro docenti. Ma il problema non sono né la morale, né le regole. Serve un'educazione della persona, scrive Mario Leone il 19 Aprile 2018 su "Il Foglio". Staranno già facendo qualche bando, lì a viale Trastevere sede del Miur, per combattere la nuova frontiera del bullismo. Infatti, mentre non è ancora scemata la “moda” del bullismo e cyber bullismo tra ragazzi (di cui parlavamo qui), ecco comparire il bullismo sul docente. Il mezzo di trasmissione è il solito: la rete. Un video girato in classe che riprende un professore vittima delle angherie dei propri studenti. L’escalation è stata rapida. Un primo filmato di qualche giorno fa raccontava di un ragazzo che sbraitava contro un prof. intimandolo di modificare il cinque in sei e, non contento, di mettersi genuflesso ai suoi piedi. Un secondo vede protagonista lo stesso docente che mentre prova a dire qualcosa in classe è spintonato da un ragazzo con il casco, insultato più volte, affrontato a muso duro. Immagini accompagnate dalla colonna sonora del vociare dei ragazzi che ridacchiano e indicano possibili e nuove soluzioni d’offesa al bullo di turno. Sono evidentemente immagini tristi non solo per il malcapitato ma perché specchio di una china inarrestabile nella quale scivola una buona parte della scuola italiana. Il bullismo sui professori è sempre esistito. Tutti noi abbiamo avuto dei docenti nelle cui ore succedeva di tutto. Forse con modalità meno esplicite. Sino a vent’anni fa i cellulari non potevano documentare certe scene e i social non erano così utilizzati. E qui, forse, sta il primo punto. Siamo di fronte a una degenerazione della società dello spettacolo. Il bullo è ripreso con la vittima tra le mani e via con lo show. In diretta Facebook, Instagram o sulle chat di WhatsApp. Una modalità che evidentemente esalta chi compie l’atto rendendolo idolo non della classe ma del mondo della rete che lo guarderà e, dopo like o un commento spiritoso, condividerà compiaciuto. Ma quei due video rivelano molto altro: la totale assenza di una reazione significativa del professore. Ci sono sempre più professori soli, che chiudono quella porta sperando che l’ora passi velocemente. Altro che consiglio di classe e corpo docenti unito. A questa solitudine si unisce uno smarrimento di quel principio di autorità che sempre più genera zampilli di violenza a scuola come in famiglia. Cosa fare? Non esistono ricette perché la questione è complessa. La morale non serve a nulla. Come non serve appellarsi all’aumento delle regole o al presunto ruolo di pubblico ufficiale di un professore. La questione è piuttosto il soggetto, ragazzo o professore che sia. Lo smarrimento di una educazione della persona ha prodotto una sterminata flotta di docenti che navigano smarriti nei corridoi delle nostre scuole, privi di una proposta chiara, vissuta, appassionata, certa. Per questi educatori (non sono tutti così per fortuna) i ragazzi di oggi sono un problema. Quei ragazzi che si concepiscono inadatti, martellati da un potere estetizzante che li vuole al top in tutto quello che fanno. In balia di una realtà, vera o virtuale, che li segna anche duramente. Ragazzi soli perché si son divertiti a smantellare anche la famiglia. Così hanno riempito le scuole di esperti, psicologi, “Circle Time”, attività per l’integrazione, il recupero contro la dispersione scolastica (ancora altissima in Italia), screditando ancora di più i professori e non capendo che il problema è degli adulti. Non serve una grande scienza per coglierlo. Il “Rapporto giovani 2018” dell’Istituto Toniolo edito da pochi giorni lo chiarisce bene. I ragazzi vogliono essere più protagonisti del loro presente, coinvolti in un cambiamento che reputano possibile; vorrebbero contare di più nella vita privata ma soprattutto in quella sociale, desiderosi che ci siano persone che riconoscano loro un valore e non una persona da cambiare. La scuola ha perso questa capacità di riconoscere ai suoi studenti un valore. Il problema non è sociale ma è dell’io. La società come la scuola si fonda sull’educazione dell’io. Quando si oblitera questa responsabilità la primissima conseguenza è un alunno che prende a testate un professore.
La scuola: dalle stelle alle stalle, scrive Raffaele Bonanni venerdì 20 aprile 2018 su "In Terris". Cosa sta accadendo nella scuola italiana? Quotidianamente o alunni o genitori picchiano gli insegnanti; bene che vada i docenti vengono offesi e sbeffeggiati. Basta un nonnulla a un genitore aizzato da suo figlio: per un rimprovero, per un voto non gradito, succede il finimondo. Ad Alessandria, giorni fa, un'insegnante è stata legata dai suoi alunni a una sedia e poi presa a calci. La conseguenza? Il consiglio d'istituto ha punito i teppisti solo con la sospensione di un mese dalle lezioni con obbligo di frequenza. A Palermo, un genitore ha preso a pugni e calci un docente solo perché la figlia gli aveva riferito via sms dei di essere stata rimproverata. Di violenze simili, avvenute negli ultimi tempi, se ne possono raccontare a centinaia, e le motivazioni sono sempre le stesse. Quando ero bambino io, mi guardavo bene da raccontare ai miei genitori di un rimprovero a scuola, o di una bacchettata sulla mano; regolarmente ci guadagnavo uno schiaffo casalingo o un'altra punizione. Cosa è successo di così sconvolgente nella società italiana per far cambiare così profondamente il modo di pensare e di fare dei padri e delle madri? Perché i genitori non danno credito al ruolo della scuola ed al compito cardine dell’insegnante nell'ambito pedagogia educativa? I ragazzi di ogni generazione sono irrequieti, ma quelli di un tempo non picchiavano i propri docenti come accade oramai ripetutamente. Nulla togliendo allo sgretolamento progressivo della famiglia, che a questo punto viene meno al suo naturale compito educativo.
Piccolo manuale anti-bulli per i prof La fionda e il moscone della quinta C. Nel libro autobiografico di Giovanni Mosca, «Ricordi di scuola» la storia di un giovane prof alle prese «con quaranta diavoli organizzati», scrive il 19 aprile 2018 "Il Corriere della Sera". Avevo vent’anni quando, tenendo nella tasca del petto la lettera di nomina a maestro provvisorio, e sopra la tasca la mano, forte forte, tanto era la paura di perdere quella lettera così sospirata, mi presentai alla scuola indicata e chiesi del Direttore. Il cuore mi faceva balzi enormi. «Chi sei?», mi domandò la segretaria. «A quest’ora il signor Direttore riceve solo gli insegnanti». «So... sono appunto il nuovo maestro...» dissi, e le feci vedere la lettera. La segretaria, gemendo, entrò dal Direttore il quale subito dopo uscì, mi vide, si mise le mani sui capelli. «Ma che fanno», gridò, «al Provveditorato? Mi mandano un ragazzino quando ho bisogno di un uomo con grinta baffi e barba da Mangiafuoco, capace di mettere finalmente a posto quei quaranta diavoli scatenati! Un ragazzino invece... Ma questo, appena lo vedono, se lo mangiano!»
Quaranta diavoli organizzati. Poi, comprendendo che quello era tutt’altro che il modo migliore di incoraggiarmi, abbassò il tono di voce, mi sorrise e, battendomi una mano sulla spalla: «Avete vent’anni?», disse. «Ci credo, perché altrimenti non vi avrebbero nominato; ma ne dimostrate sedici. Più che un maestro sembrate un alunno di quinta che abbia ripetuto parecchie volte. E questo, non ve lo nascondo, mi preoccupa molto. Non sarà uno sbaglio del Provveditorato? C’è proprio scritto Scuola “Dante Alighieri”?». «Ecco qui», dissi mostrando la lettera di nomina. «Scuola Dante Alighieri». «Che Iddio ce la mandi buona!», esclamò il Direttore. «Sono ragazzi che nessuno, finora, è riuscito a domare. Quaranta diavoli, organizzati, armati, hanno un capo, si chiama Guerreschi; l’ultimo maestro, anziano, e conosciuto per la sua autorità, se n’è andato via ieri, piangendo, e ha chiesto il trasferimento...».
«Credo che costruiscano barricate». Mi guardò in faccia, con sfiducia: «Se aveste almeno i baffi...», mormorò. Feci un gesto, come dire ch’era impossibile, non mi crescevano. Alzò gli occhi al cielo: «Venite», disse. Per corremmo un lungo corridoio fiancheggiato da classi: quarta D, quinta A, quinta B... quinta C... «E’ qui che dovete entrare» disse il direttore fermandosi dinanzi alla porta della V C dalla quale sarebbe poco dire che veniva chiasso: si udivano grida, crepitii di pallini di piombo sulla lavagna, spari di pistole a cento colpi, canti, rumore di banchi smossi e trascinati. «Credo che costruiscano barricate», disse il Direttore. Mi strinse forte un braccio, se n’andò per non vedere, e mi lasciò solo davanti alla porta della V C. Se non l’avessi sospirata per un anno, quella nomina, se non avessi avuto, per me e per la mia famiglia, una enorme necessità di quello stipendio, forse me ne sarei andato, zitto zitto, e ancora oggi, probabilmente la V C della scuola «Dante Alighieri» sarebbe in attesa del suo dominatore: ma mio padre, mia madre, i miei fratelli attendevano impazienti, con forchetta e coltelli, ch’io riempissi i loro piatti vuoti; perciò aprii quella porta ed entrai. Improvvisamente silenzio.
Il primo scacco. Ne approfittai per richiudere la porta e salire sulla cattedra. Seduti sui banchi, forse sorpresi dal mio aspetto giovanile, non sapendo ancora bene se fossi un ragazzo o un maestro, quaranta ragazzi mi fissavano minacciosamente. Era il silenzio che precede le battaglie. (...). I ragazzi mi fissavano, io li fissavo a mia volta come il domatore fissa i leoni, e immediatamente compresi che il capo, quel Guerreschi, di cui mi aveva parlato il Direttore, era il ragazzo di prima fila, – piccolissimo, testa rapata, due denti in meno, occhietti piccoli e feroci – che palleggiava da una mano all’altra un’arancia e mi guardava la fronte. Si capiva benissimo che nei riguardi del saporito frutto egli non aveva intenzioni mangerecce. Il momento era venuto. Guerreschi mandò un grido, strinse l’arancia nella destra, tirò indietro il braccio, lanciò il frutto, io scansai appena il capo, l’arancia s’infranse alle mie spalle, contro la parete. Primo scacco: forse era la prima volta c he Guerreschi sbagliava un tiro con le arance, e io non m’ero spaventato, non m’ero chinato: avevo appena appena scansato il capo, di quel poco che era necessario.
Il moscone. Ma non era finita. Inferocito, Guerreschi si drizzò in piedi e mi puntò contro – caricata a palline di carta inzuppate con saliva – la sua fionda di elastico rosso. Era il segnale: quasi contemporaneamente gli altri trentanove si drizzarono in piedi, puntando a loro volta le fionde, ma d’elastico comune, non rosso, perché quello era il colore d el capo. Mi sembrò di essere un fratello Bandiera. Il silenzio si era fatto più forte, intenso. I rami carezzavano sempre i vetri delle finestre, dolcemente. Si udì d’improvviso, ingigantito dal silenzio, un ronzio: un moscone era entrato nella classe e quel moscone fu la mia salvezza. Vidi Guerreschi con un occhio guardare sempre me, ma con l’altro cercare il moscone, e gli altri fecero altrettanto, sino a che lo scoprirono, e io capii la lotta che si combatteva in quei cuori: il maestro o l’insetto? Tanto può la vista di un moscone sui ragazzi delle scuole elementari. Lo conoscevo bene il fascino di questo insetto: ero fresco di studi e neanch’io riuscivo ancora a rimanere completamente insensibile alla vista di un moscone.
«A me la fionda». Improvvisamente dissi: «Guerreschi» (il ragazzo sobbalzò, meravigliato che conoscessi il suo cognome), «ti sentiresti capace, con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?» «È il mio mestiere», rispose Guerreschi, con un sorriso. Un mormorio corse tra i compagni. Le fionde puntate contro di me si abbassarono, e tutti gli occhi furono per Guerreschi che, uscito dal banco, prese di mira il moscone, lo seguì, la pallina di carta fece; den! contro una lampadina, e il moscone, tranquillo, continuò a ronzare come un aeroplano. «A me la fionda!», dissi. Masticai a lungo un pezzo di carta, ne feci una palla e, con la fionda di Guerreschi, presi, a mia volta, di mira il moscone. La mia salvezza, il mio futuro prestigio erano completamente affidati a quel colpo. Indugiai a lungo, prima di tirare: «Ricordati», dissi a me stesso, «di quando eri scolaro e nessuno ti superava nell’arte di colpire i mosconi». Poi, con mano ferma, lasciai andare l’elastico: il ronzio cessò di colpo e il moscone cadde morto ai miei piedi. «La fionda di Guerreschi», dissi, tornando immediatamente sulla cattedra e mostrando l’elastico rosso. «è qui, nelle mie mani. Ora aspetto le altre». Si levò un mormorio, ma più d’ammirazione che di ostilità: e a uno a uno, a capo chino, senza il coraggio di sostenere il mi o sguardo, i ragazzi sfilarono davanti alla cattedra, sulla quale, in breve, quaranta fionde si trovarono ammonticchiate. Non commisi la debolezza di far vedere che assaporavo il trionfo.
Il capo vinto. Calmo calmo, come se nulla fosse avvenuto: «Cominciamo a ripassare i verbi» dissi «Guerreschi, alla lavagna». Gli diedi il gesso: «Presente del verbo essere» cominciai a dettare “io sono, tu sei...” E così di seguito, mentre gli altri, buoni buoni, ricopiavano sui quaderni, in bella calligrafia, quanto Guerreschi, capo vinto e debellato, andava scrivendo sulla lavagna. E il Direttore? Temendo, forse, dall’insolito silenzio, che io fossi stato fatto prigioniero e imbavagliato da quaranta demoni, entrò a un certo punto in classe e fu un miracolo se riuscì a soffocare un grido di meraviglia. Più tardi, usciti i ragazzi, mi domandò come avessi fatto, ma si dovette accontentare di una risposta vaga: «Sono entrato nelle loro simpatie, signor Direttore». Non gli potevo dire che avevo ucciso un moscone con un colpo di fionda: ciò non rientrava nei metodi scolastici previsti dalle teorie e dai regolamenti.
Giovanni Mosca, Ricordi di scuola (1939), cap. II: La conquista della Quinta C. Giovanni Mosca (1908-1983), giornalista e scrittore, iniziò la sua carriera di maestro presso la Scuola elementare Dante Alighieri della natia Roma. Dopo aver collaborato al Marc’Aurelio, fu direttore del Bertoldo. Rinchiuso nel carcere di Novara nel 1943, dopo la guerra fondò con Guareschi Il Candido di cui fu anche condirettore. Nel 1951 venne chiamato al Corriere della Sera, con cui collaborava già dal 1937, dove oltre all’attività di umorista vignettista per il quotidiano, gli venne affidata la direzione del Corriere dei Piccoli. I suoi articoli e le sue caricature furono pubblicate anche sul Corriere d’Informazione, di cui fu anche critico teatrale e cinematografico.
Violenza a scuola, lo specchio della società, scrive Karen Rubin, Sabato 17/02/2018, su "Il Giornale". La strage nel liceo americano rievoca pericolosamente la crisi che attraversa la nostra scuola, in cui nelle ultime settimane presidi e insegnanti sono stati minacciati, insultati, accoltellati e presi a pugni da genitori ed alunni non contenti del loro operato. Percepiscono di essere bersaglio dei ragazzi perché hanno perso il prestigio sociale e l'autorità. Presi in giro dalle riforme che si susseguono senza essere realizzate e dall'ultimo rinnovo contrattuale, che ha previsto pochi euro di aumento, lavorano in uno stato di frustrazione che ha tolto loro la serenità necessaria per svolgere una professione d'aiuto tra le più delicate. Ma se in questo periodo si parla d'insegnanti maltrattati, nei mesi e negli anni scorsi le forze dell'ordine hanno arrestato maestre che riportavano il silenzio tra i bambini dell'asilo chiudendoli nei bagni, trascinandoli a terra come sacchi di patate, percuotendoli e irridendoli senza un perché. I due fenomeni non sono scollegati. Attribuire la colpa per ogni episodio di cronaca ai docenti o ai ragazzi non spiega la crisi in corso che riguarda tutta la società. Quella tra docente ed alunno è una relazione che va al di là dell'impartire la lezione e dell'apprenderla. Al centro dell'attività d'insegnamento c'è la disposizione mentale e la vicinanza emozionale reciproca. L'insegnante ha il compito emotivo di contenere le paure e le ansie di bambini e ragazzi con una personalità ancora in formazione, influenzata dallo stato emotivo dell'altro, dalla capacità di sintonizzarsi, ascoltare e farsi ascoltare con empatia. Non si può insegnare nulla in uno stato d'animo negativo e la responsabilità del rapporto e del clima che si vive in classe dipende dall'abilità e dal vissuto emotivo del professore. La scuola non può diventare teatro di mille conflitti che hanno la loro origine nella cattiva politica. In un muro contro muro i docenti rimproverano agli alunni di essere viziati, prepotenti e iperprotetti da una famiglia che non educa più. I ragazzi criticano e soffrono il disagio dei docenti, la mancanza di passione e l'incapacità di trasformare la lezione in un momento stimolante e condiviso. Se è vero che bulli e arroganti si sono moltiplicati e anche vero che scarseggiano insegnanti che comunichino fiducia, ottimismo e partecipazione, in grado d'insegnare a cogliere l'attimo che fugge. Se la società non rimette la scuola tra le sue priorità, dando risorse e sostenendo il corpo insegnante, la scuola non recupererà l'amore per se stessa e la sua funzione. Sarà impossibile ritrovare la relazione con i più giovani, cui passare le competenze che sono necessarie per il futuro della nostra società.
Matera, sua figlia non va bene a scuola: aggredisce un professore durante il colloquio. L'episodio è avvenuto nel liceo scientifico Dante Alighieri: il docente aveva riferito al genitore dello scarso rendimento della studentessa nel primo periodo dell'anno scolastico, scrive il 14 dicembre 2016 "La Repubblica". Sembrava un normale colloquio scuola-famiglia tra un professore e i genitori di una studentessa di una classe terza di un liceo scientifico con voti bassi in matematica e fisica. Poi però la discussione è degenerata: il padre dell'alunna ha aggredito il docente, che ha riportato la lussazione di una spalla con una prognosi di 30 giorni. E se non fosse stato per l'intervento di un altro genitore, che ha fermato l'uomo, le conseguenze sarebbero state ancora più gravi. L'episodio - su cui sono in corso indagini - è avvenuto nel liceo scientifico Dante Alighieri di Matera: "Una scuola - spiega il preside Vincenzo Duni - che ottiene spesso riconoscimenti nazionali e nella quale i rapporti con le famiglie dei nostri alunni sono ottimi. E ora c'è grande rammarico per quanto è successo". Dal Comune l'assessore alle Politiche giovanili, Massimiliano Amenta, ha evidenziato "il corto circuito educativo che si verifica in alcune realtà familiari della città, per fortuna poche". A poche ore di distanza dall'aggressione l'alunna è stata regolarmente in aula mentre il docente, Michele Ruscigno (con un passato anche da assessore comunale nella città dei Sassi) ha trascorso il suo primo giorno di malattia rispondendo a diversi messaggi di solidarietà, "anche da genitori - rimarca il preside - di alunni con un rendimento non ottimale nelle sue materie". "Mai successo niente di simile in 25 anni", ha ripetuto più volte il professor Ruscigno. Il colloquio con i genitori era stato teso, con il padre che chiedeva "spiegazioni" per i voti bassi, "nonostante la ragazza vada anche a ripetizione", ma tutto sembrava finito. Pochi attimi dopo, però, l'uomo si è avventato sul docente, colpendolo diverse volte prima di essere fermato da un altro genitore. Il docente è stato soccorso dagli operatori del 118: all'ospedale Madonna delle Grazie gli è stata ridotta la lussazione. Trenta giorni di prognosi, è scritto nel bollettino.
Punisce un alunno perché disturbava la lezione: genitori lo aggrediscono a calci e pugni fuori da scuola. “Non mi aspettavo tanta violenza per una punizione che rientra nella normale routine”, ha confidato l’insegnate di una scuola media di Palermo, scrive la Redazione Tiscali il 21 novembre 2016. Ha punito un alunno mandandolo fuori dall’aula perché disturbava la lezione e da allora non esce più di casa. Il motivo? I genitori del ragazzo lo hanno aggredito a pugni e calci e lasciato a terra, davanti alla scuola, quasi privo di sensi. “Non mi aspettavo tanta violenza per una punizione che rientra nella normale routine della vita scolastica”, ha confidato al sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone che lo ha chiamato per esprimere la sua solidarietà l’insegnante di Scienze e Matematica della scuola media Antonino Caponnetto di Tommaso Natale, di Palermo. "Sono stato accompagnato subito in ospedale e ho deciso di denunciare perché ho riconosciuto tra gli aggressori il padre e la madre del mio allievo e un'altra coppia. Non deve passare il concetto che si possa essere così violenti senza pagarne le conseguenze. In cinque anni di insegnamento non mi era mai capitato", ha spiegato l'insegnante. Il 49enne a fine lezione ha distribuito caramelle alla classe, e "ovviamente anche ai due che avevo mandato fuori dalla classe". La reazione di uno dei ragazzi, che ha rifiutato la caramella con un gestaccio, - scrive La Repubblica - ha colto di sorpresa il prof. "Gli ho detto che non me lo aspettavo da lui, è stata sempre un ragazzo educato. Pensavo fosse finita lì". Invece, due mattine dopo, all’entrata dell’istituto, l’insegnante è stato chiamato ad alta voce da un uomo mentre posteggiava la moto dentro il parcheggio della scuola. “Mi sono voltato ed è arrivato anche il papà del mio alunno e subito dopo la madre e un’altra donna. Hanno cominciato a picchiarmi. Ho ancora la testa molto dolente, forse hanno utilizzato alcuni oggetti per ferirmi. Ma ero spaventato, non ne sono sicuro". Sotto shock anche i colleghi del professore. “Siamo molto turbati. Non sospettavamo — ammette la dirigente scolastica Graziella La Russa — che dietro al nostro alunno ci fosse una famiglia così violenta. Quello che è accaduto — dice — è molto preoccupante. Bene hanno fatto docente e dirigente a sporgere denuncia”.
Scuola, docente aggredito da una mamma: Mio figlio è vittima di bullismo, scrive Luigi Rovelli il 24 settembre 2016 su "Blastingnews". Sappiamo bene, purtroppo, come i docenti siano vittima di attacchi verbali o addirittura fisici da parte dei genitori dei loro alunni. Spesso, infatti, la cronaca ha riportato notizie di aggressioni o di insulti indirizzati agli insegnanti, persino all'interno degli edifici scolastici. Anche il nuovo anno scolastico 2016/2017, purtroppo, non sembra iniziare bene, sotto questo punto di vista, perchè a Genova si è già verificato un episodio di questo genere. La vicenda è accaduta nel pomeriggio di mercoledì 21 settembre, davanti ad una#Scuola media dell'Alta Val Polcevera. Come riportato dall'edizione odierna de 'Il Secolo XIX', una donna di 36 anni è stata denunciata per lesioni ai danni di un docente e della moglie. All'uscita dei ragazzi, la donna avrebbe aspettato l'insegnante di suo figlio, reo (secondo lei) di aver sottovalutato episodi di #bullismo di cui il ragazzino, che frequenta la classe seconda, sarebbe stato vittima. Agli schiaffi dati al docente sono seguiti quelli alla moglie del professore, anch'ella insegnante, intervenuta nella discussione per difendere il marito. Il giovane avrebbe raccontato ai genitori di aver subito, durante la ricreazione, un nuovo atto di bullismo da parte di alcuni compagni. La madre avrebbe, dunque, chiesto al figlio se il professore avesse visto qualcosa di quanto accaduto e se fosse intervenuto: "No, mamma, il prof non ha fatto nulla, anzi ha minimizzato il fatto". Da qui la decisione della donna di andare a 'chiarire' il tutto con il docente: "Succede sempre con quel professore - avrebbe in seguito dichiarato alla Polizia la donna - lascia sempre che i bulli se la prendano con mio figlio. Si tratta di episodi che accadono solamente in alcuni momenti della giornata e soltanto alla presenza di alcuni professori. La mia intenzione era quella di parlare con il docente: poi, delusa dal suo atteggiamento, ho perso la testa". Il docente e la moglie sono stati accompagnati al vicino Pronto Soccorso. Il professore è stato medicato e poi dimesso con 10 giorni di prognosi: per la moglie, invece, la prognosi è di soli cinque giorni.
Napoli, professoresse tentano di fermare occupazione degli studenti e finiscono all’ospedale. Cinque giorni di prognosi per contusioni. Questa la diagnosi per le due insegnanti del Liceo Classico "Plinio Seniore" di Castellammare di Stabia travolte da un migliaio di studenti, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 dicembre 2016. Cinque giorni di prognosi per contusioni. Questa la diagnosi per due insegnanti che ieri hanno tentato fermare l’occupazione degli studenti. Le due professoresse del Liceo Classico “Plinio Seniore” di Castellammare di Stabia (Napoli), sono state travolte da un migliaio di studenti e sono finite in ospedale. Tutto è iniziato da una protesta degli studenti che lamentavano la carenza di aule. Cinque docenti hanno tentato di arginare gli alunni ma nel pigia pigia due prof, tra le quali la vice preside, sono cadute. Sul posto sono sopraggiunti polizia e carabinieri che hanno riportato la pace, mentre la dirigente scolastica ha convocato i rappresentanti dei genitori per chiarire l’accaduto. Nel pomeriggio, anche il sindaco, Antonio Pannullo ha fatto visita all’istituto per incontrare gli studenti e i professori ai quali ha promesso un aiuto per risolvere il problema della carenza delle aule. L’ex Pretura di Castellammare di Stabia potrebbe, infatti, presto diventare succursale del Liceo classico “Plinio Seniore”, questa la proposta del sindaco. “Abbiamo solo tentato di evitare che i ragazzi potessero farsi male e, nel contempo, abbiamo ritenuto di dover preservare un accesso ai disabili e a chi desiderava entrare per fare lezione” ha raccontato la professoressa Giovanna Domestico, vicepreside, finita al pronto soccorso. I ragazzi sono riusciti a entrare e a prendere possesso di aule, corridoi e palestra dove hanno avviato corsi di lezione autogestiti in cinema, musica, teatro, cultura antidroga e così via. Contrariata la preside, Fortunella Santaniello: “Mettiamo in campo tante iniziative e ora si parla di noi in maniera negativa. È inaccettabile”. “Il nostro istituto è aperto fino alle ore 18,30 ed offre attività formative con certificazioni linguistiche gratuite – ricorda la preside Santaniello – inoltre offriamo corsi di formazione per facoltà a numero chiuso. Ma, soprattutto, è annoverato tra i primi istituti d’Italia per numero di studenti iscritti al corso in lingua cinese. Sono più di 300 su una platea di 1.200. Per questo motivo, il Seniore di Castellammare è stato scelto dal ministero della Pubblica istruzione per un accordo con la Cina. Facciamo parte di una commissione che deve dare vita a uno sorta di ‘Erasmus’ con questo grande paese asiatico”. Parzialmente soddisfatti dalle risposte delle istituzioni, gli studenti hanno indetto per oggi un’altra assemblea con tutta la platea scolastica per decidere se proseguire con l’autogestione o riprendere le lezioni.
Tumulti durante l'occupazione: insegnante e dirigente scolastica all'ospedale. Durante l'occupazione del Gian Battista Vico di in via Salvator Rosa in due sono stati costretti a ricorrere alle cure: choc e alcune contusioni. La ricostruzione, scrive il 12 novembre 2014 "Napoli Today". Durante l'occupazione di un istituto scolastico superiore di Napoli, la dirigente scolastica e una docente sono state costrette a ricorrere a cure ospedaliere: la prima per uno choc subito, la seconda per alcune contusioni riportate. Questa la ricostruzione della vicenda: intorno alle 12.30, il 113 veniva contattato dalla preside del liceo "Gian Battista Vico", in via Salvator Rosa, perché un folto gruppo di studenti intendeva di occupare la scuola. Giunti sul posto, gli agenti si sono imbattuti nella donna e in alcuni docenti fermi dietro il cancello dell'istituto per evitare che gli studenti entrassero; ma questi erano già entrati attraverso un ingresso secondario. Il liceo risulta ancora occupato. Incerta la dinamica della contusione della docente, che non risulta abbia rilasciato dichiarazioni su aggressioni. La preside invece ha avuto problemi di pressione.
Infermieri, medici e prof aggrediti. Violenza e sfiducia nell’autorità, scrive Salvatore Parlagreco su "Sicilia Informazioni" il 5 dicembre 2016. Una infermiera viene minacciata con il coltello e malmenata all’Ospedale Di Cristina di Palermo. Era colpevole di che cosa? Di avere fatto il proprio dovere, a quanto pare, e non avere corrisposto alle sollecitazioni, insistenti dei parenti di un bambino, giunti al pronto soccorso in ambasce. E’ l’ultimo episodio di una serie di aggressioni che hanno obbligato le rappresentanze sindacali degli operatori sanitari a porre la questione – sicurezza nel posto di lavoro – in cima al loro quaderno di lamentele. Una decina di giorni fa, sempre a Palermo, presso l’istituto comprensivo Antonino Caponnetto, un insegnato è stato pestato a sangue da quattro persone, congiunti di un suo alunno. La punizione è arrivata, puntuale, a causa di un rimprovero del prof, del tutto lecito e giustificato, perché l’alunno era più vivace del dovuto ed il suo comportamento lasciava a desiderare. Gli insegnanti devono svolgere un ruolo educativo, non solo mettere i voti sulla materia che insegnano. L’episodio, come nel caso sella infermiera, è l’ennesimo che capita: il numero di casi in cui i genitori, o i familiari, degli alunni se la prendono con il prof e danno ragione al discente piuttosto che al docente non si contano più. Talvolta i prof vengono malmenati, talaltra rimproverati aspramente ed altre volte ancora denunciati, in molti casi, pretestuosamente. Le aggressioni negli ospedali e quelle nelle scuole sono suscitate da ragioni ben diverse, ma alla base degli intollerabili episodi di violenza, ci sono motivazioni che li accomunano. Anzitutto l’arroganza e la cattiva educazione, quando si tratta di insulti naturalmente, la violenza e l’aggressività, quando si tratta di punizioni corporali, la mancanza di rispetto verso coloro che esercitano un compito delicato ed importante, o verso l’autorità che in qualche misura sia gli operatori sanitari quanto i prof rappresentano. Non viene riconosciuta alcun potere decisionale, e prevale il bisogno, individuale, di trovare una risposta pronta. Se così non è, si reagisce in malo modo, e talvolta finisce pure male per i malcapitati infermieri, medici, professori e presidi. Sono in tanti, perciò, a porsi il quesito di prammatica, se cioè siamo diventati violenti e poco rispettosi dell’autorità e del lavoro altrui, se la prepotenza stia prevalendo sul rispetto e il lavoro altrui, e quanto questo comportamento prepotente incida sulla vita familiare? Fra le mura domestiche, insomma, nasce e cresce il sentimento di prevaricazione, che suscita comportamenti violenti. E’ assai probabile che difendendo la famiglia – nel torto o nella ragione, recita un proverbio siciliano – la si voglia perfino proteggere dai soprusi, e si finisca con il farne la causa di soprusi rivolti agli altri. Alcune persone illuminate hanno colto nei comportamenti prepotenti o nel semplice non riconoscimento dell’autorità dei professionisti – infermieri, medici, prof – una contraddizione insanabile. Se si affida il proprio figlio ad un insegnante e non si riconosce all’insegnante il potere decisionale, di educarlo, gratificando quel che di buono riesce a fare e rimproverandolo o punendolo (nel modo lecito) quando invece sbaglia o non fa la sua parte, la scuola ne esce delegittimata e l’istruzione che si cerca di impartire, del tutto vanificata. A diseducare gli alunni, insomma, ci pensa la famiglia. In un clima delegittimante dell’autorità degli insegnanti – cui i congiunti delegano l’educazione dei figli – non sorprende per nulla il fatto che i prof si siano persuasi – il 96 per cento di loro secondo un sondaggio – che i genitori dei loro alunni siano interessati a proteggere i loro figli piuttosto che il livello di apprendimento raggiunto. I prof non hanno alcuna possibilità di “educare” la famiglia quando la tutela è così marcata da delegittimare l’autorità degli insegnanti. Può invece incidere l’educazione scolastica, fino ad arrivare tra le mura di caso, quando la competenza ed il ruolo di chi insegna, viene riconosciuto. Se si affida il proprio congiunto ad un operatore sanitario, ma non gli si riconosce il potere di decidere il da farsi, o si pretende addirittura, che il paziente riceva più attenzioni di altri, salta il sistema sanitario. E’ il medico o l’infermiere che ha la responsabilità, piene ed ineludibile, di ciò che va fatto, e subito, e non il familiare del paziente, che non ha le competenze per decidere, ma solo una pur comprensibile ansia sulla sorte del proprio caro. Sono riflessioni elementari, che dovrebbero essere scontate, ed invece non lo sono affatto. Questo non vuol dire che i casi di cosiddetta malasanità o di malascuola non debbano essere segnalati, nelle forme e nei modi che la civiltà e le regole ci indicano, tutt’altro. E’ un bene che si pretenda la buona istruzione e la buona assistenza sanitaria, ma questa è una cosa diversa, addirittura opposti, dal legarsela al dito, quando le cose, a nostro avviso, non vanno come desideriamo, e il nostro problema non venga affrontato nel modo che noi crediamo giusto ed a prescindere dal contesto in cui si opera. L’uso della violenza, ma il semplice dar ragione all’alunno, nel caso dei problemi scolastici, provoca un gran danno al discente ed al paziente, delegittimando il ruolo e precarizzando la funzione. Insomma, un autentico boomerang. La buona educazione, infatti, non è questione di forma, ma di sostanza. Un’ultima considerazione, anzi – detto senza reticenze – un dubbio ci assale: non è che il populismo anarcoide che sfiducia l’autorità, ovunque venga esercitata, stia contagiando le relazioni sociali?
Violenza a scuola, i docenti si ribellano. Una petizione al presidente Mattarella ha superato 52 mila firme: "Serve una legge che dia più potere agli insegnanti e con pene più dure". La Flc Cgil: "Ci costituiamo parte civile contro i genitori violenti". Nel 2018 ventiquattro aggressioni a maestri e professori, scrive Corrado Zunino il 12 aprile 2018 su “La Repubblica". Gli insegnanti si ribellano, alla fine. Le ventiquattro aggressioni subite da maestri e professori in questo scorcio di 2018 - e ventiquattro sono quelle diventate pubbliche, solo una parte - non sono più sopportabili. Gradualmente, iniziano ad arrivare i segnali di risposta. Il portale "Professione insegnante" ha lanciato sulla piattaforma Change.org una petizione al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui si chiede una nuova legge sul tema "aggressioni a scuola". Nella petizione si legge: "Serve una norma che istituisca e soprattutto rafforzi la figura dell'insegnante quale pubblico ufficiale, che inasprisca le pene laddove ci sono episodi di violenza conclamati, che tuteli la libertà di insegnamento e restituisca agli insegnanti un ruolo di primo piano". Ancora: "Occorre una legge che comporti sanzioni che siano da esempio educativo per le generazioni future, serve una norma che tuteli il libero esercizio dell'insegnamento quale base per la crescita delle generazioni che verranno. Serve una legge atta a prevenire episodi del genere che si aggiungono alla non facile situazione del comparto scuola, maltrattato sul piano economico, giuridico e sociale". Una petizione politica, che sottolinea il peggioramento del ruolo del docente "stretto tra i dirigenti scolastici e le famiglie". Questa mattina, ha superato le 52 mila firme. L'appello è utile per ripercorrere alcuni degli episodi registrati nelle ultime settimane, e citati nel testo. La professoressa con difficoltà motorie legata alla sedia ad Alessandria lo scorso 28 marzo e, andando a ritroso, la maestra di Palermo colpita con un pugno dal genitore di un alunno (nonché bidello dello stesso istituto) infastidito dai rimproveri dell'insegnante per le troppe assenze del figlio. Il professore di Treviso, ancora, picchiato dai genitori di uno studente e punito dalla scuola, il vicepreside di Foggia aggredito, il professore di educazione fisica colpito ad Avola da una mamma, la professoressa d'Italiano accoltellata in classe a Santa Maria Vico, provincia di Caserta: il diciassettenne con il coltello in tasca, appena rientrato dalla settimana bianca, non aveva sopportato una nota. La ministra Valeria Fedeli ha consegnato alla professoressa - Franca Di Blasio - l'onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica. Sulla questione la Federazione della conoscenza della Cgil ha dichiarato che si costituirà parte civile in ogni episodio di violenza subita da un insegnante: "Una volta, ma evidentemente non più oggi, le famiglie consegnavano alle scuole bambini e adolescenti abituati al "no" e al rispetto delle regole", dice il segretario Francesco Sinopoli. "Il patto educativo tra scuola e famiglia una volta era implicitamente e socialmente accettato, ora è drammaticamente messo in discussione". Scrive Cosimo Scarinzi del sindacato Cub: "Se è normale aggredire un insegnante significa che la funzione docente ha un deficit di autorevolezza". Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda: "Le leggi già ci sono, il responsabile legale della sicurezza dei docenti, in quanto lavoratori, è il dirigente scolastico".
Torino, prof picchiato per aver punito alunno: altro caso dopo aggressione al docente nella scuola di Palermo. In un istituto tecnico un insegnante ha ricevuto un colpo alla mandibola, scrive il 7 aprile 2018 Carmine Massimo Balsamo su "Il Sussidiario". Un altro episodio di violenza è avvenuto nelle scorse ore nelle scuole italiane. Dopo il caso recentissimo di Palermo, in cui il genitore di un’alunna ha picchiato un professore, provocandogli un’emorragia celebrale (è fortunatamente fuori pericolo), oggi è la volta di Torino. Presso l’istituto tecnico Russel Moro, due persone hanno aggredito un docente, "colpevole" di non aver fatto entrare un alunno in classe perché arrivato tardi alla lezione. Il ragazzo ha avvisato il padre, che si è presentato assieme ad altre due persone, e due di loro hanno colpito con un pugno alla mandibola il professore, per poi fuggire. Come riferito dai colleghi di TgCom24, il prof è stato subito portato in ospedale per essere soccorso, e sul posto sono giunti gli agenti di polizia, chiamati dalla scuola stessa. Il docente ha inflitto una punizione consona all’errore commesso dall’alunno, ma ovviamente il tutto è stato percepito quasi come un oltraggio, causando la sconsiderata quanto inadeguata reazione violenta. Un caso purtroppo non unico nel nostro paese, visto che stanno diventando sempre più frequenti le aggressioni di genitori a insegnanti o educatori, a seguito di punizioni o rimproveri di questi ultimi nei confronti dei loro figli. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)
BULLISMO E CYBERBULLISMO. Il tema del bullismo - e in questi ultimi anni più allargato quello del cyberbullismo - è un tema purtroppo sempre aggiornabile con i fatti nuovi della cronaca che ogni settimana riempiono il nostro Paese. Ma se il bullismo poi raggiunge anche i genitori, allora il problema da urgente diventa emergenziale e, in una parola, profondamente educativo. Il caso di Palermo si unisce a tanti, troppi, casi che negli ultimi mesi vedono i professori messi nel mirino da genitori aggressivi, intolleranti o spesso semplicemente “in balia” dei propri figli. Proprio come quanto avvenuto all’istinto Abba-Alighieri, è bastato un racconto (inventato, si è scoperto poi) di una ragazzina per far crollare subito la fiducia tra la scuola, i genitori e i professori e il padre in questione si è scagliato rischiando di mandare all’altro mondo il docente ipovedente. Un bullismo ancora più difficile da combattere perché riguarda gente tra i 30 e i 50 d’età che hanno spesso la presunzione di sapere già tutto e non voler più “imparare” dalla realtà: l’emergenza educativa è un fattore molto serio e non riguarda solo gli adolescenti ma tutti, proprio tutti, dai professori fino ai genitori, ognuno col “compito” di non pensare di avere sempre la ragione nelle proprie “tasche”. Come ha spiegato la segretaria della Flc Cgil Sicilia, Graziamaria Pistorino, «Quanto accaduto giovedì alla scuola Abba-Alighieri è gravissimo. Si tratta di un fenomeno preoccupante che si verifica ormai quasi quotidianamente e che bisogna comprendere e affrontare». (agg. di Niccolò Magnani)
ASSESSORE LAGALLA, “AGGRESSIONE INAMMISSIBILE”. Certamente un brutto episodio di violenza, probabilmente gratuita, quello che ha visto protagonista, sul malgrado, un professore dell'istituto Abba-Alighieri di Palermo, aggredito fisicamente dal padre di una sua alunna. La sua unica colpa sarebbe stata quella di aver ripreso la giovane durante la lezione. Peccato però che la versione riferita dalla ragazzina al padre non sia stata del tutto veritiera e questo avrebbe portato il genitore, senza neppure sentire le ragioni del prof ipovedente, a picchiarlo mandandolo in ospedale. La situazione non sembra grave come inizialmente annunciato poiché, malgrado l'emorragia cerebrale intercettata dai medici, la prognosi è stata sciolta. L'insegnante avrebbe anche ricevuto le scuse del suo aggressore. Sull'episodio, come rivela BlogSicilia, si è espresso anche l'Assessore all’Istruzione e alla Formazione professionale Roberto Lagalla che è intervenuto con un commento: "Esprimo la più sincera solidarietà del governo e mia personale al docente oggetto di una così violenta ed inammissibile aggressione. Il comportamento del responsabile di un simile atto, non solo è segno di un disvalore educativo e civico ma, soprattutto, dimostra un evidente deterioramento del rispetto da tutti dovuto all’Istituzione scolastica, prima agenzia di formazione civile e sociale", ha asserito. Lagalla ha ovviamente condannato l'episodio con la speranza che siano appurate le responsabilità dell'aggressore e che il docente possa presto rimettersi da questa brutta esperienza. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
FUORI PERICOLO DOPO EMORRAGIA CEREBRALE. È fortunatamente fuori pericolo il professore 50enne ipovedente picchiato dal padre di una sua studentessa nella giornata di ieri, presso l'istituto comprensivo Abba Alighieri di Palermo. Secondo una prima ricostruzione, pare che la giovane studentessa di terza media, all'uscita di scuola abbia riferito al padre di essere stata picchiata dal professore. Da qui la reazione violenta dell'uomo che si è scontrato con il docente, sferrandogli un pugno in pieno viso, talmente violento da aver reso necessario il trasporto in ospedale per via di una emorragia cerebrale. Questa mattina, come rivela RaiNews, i medici dell'ospedale Civico palermitano che hanno tenuto sotto osservazione l'uomo per un'intera notte, hanno sciolto definitivamente la prognosi, ritenendo l'insegnante guaribile in 25 giorni, mentre la polizia continua ad indagare sull'ennesimo caso di violenza nelle scuole che vede sempre più spesso protagonisti genitori violenti contro i professori dei propri figli. Gli agenti, tuttavia, fino ad ora avrebbero appurato come durante le ore di lezione il prof si fosse limitato a riprendere la ragazzina. Solo in seguito l'alunna avrebbe detto di non essere stata picchiata ma solo allontanata dall'aula e, secondo quanto riferito da BlogSicilia, il padre avrebbe poi chiesto anche scusa per il suo comportamento eccessivamente istintivo. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
PROGNOSI DI 25 GIORNI. Palermo: prof rimprovera la figlia, il padre lo picchia. Follia all’istituto comprensivo Abba Alighieri della città siciliana, situato in via Ruggero Marturano: ieri, giovedì 5 aprile 2018, si è verificato un nuovo episodio di violenza a scuola, protagonista un professore ipovedente picchiato dal genitore di una studentessa. Il cinquantenne ha rimproverato la studentessa e l’ha allontanata dalla classe, poche ore dopo la violenza: all’uscita dall’istituto, il genitore è stato aggredito. L’insegnante è stato trasportato all’ospedale Civico e gli esami hanno evidenziato una emorragia cerebrale, sottolinea Palermo Today. Il professore è stato tenuto in prognosi riservata fino a ieri sera, fino a quando è stata sciolta e diventata di 25 giorni. La polizia di Palermo ora sta indagando sull’accaduto, con la segnalazione giunta dallo stesso docente e dopo gli accertamenti dello staff sanitario. Secondo le prime indiscrezioni, il 50enne avrebbe ripreso l’alunna per i suoi comportamenti, la quale avrebbe confidato al padre: “Il professore mi ha alzato le mani”.
PALERMO: PROF RIMPROVERA LA FIGLIA, IL PADRE LO PICCHIA. Dopo le parole della figlia, il padre è andato dal professore ipovedente per chiedere conto della vicenda: volano parole grosse e il genitore decide di colpirlo senza pensarci due volte. Dopo pochi minuti la situazione è tornata sotto controllo, grazie anche all’intervento dei presenti, con la studentessa che ha successivamente ritrattato la versione, affermando di essere stata semplicemente allontanata dalla classe. La Tac ha evidenziato uno sversamento di sangue nel cervello e una frattura allo zigomo, con la prognosi di 25 giorni. Anna Maria Pioppo, dirigente scolastica dell’istituto Abba Alighieri, ha commentato così la vicenda ai microfoni di Palermo Today: “Siamo vicini al professore e profondamente amareggiati per l’accaduto. Ci spiace che questo episodio, il primo dall’apertura della scuola risalente a 22 anni fa, possa in qualche modo segnare la serenità della comunità scolastica. Questi fatti si ripetono sempre più spesso su scala nazionale e ci preoccupa la perdita di fiducia che registriamo nei confronti del ruolo educativo della scuola”.
Nel prendervela con gli insegnanti non fate il bene dei vostri figli, scrive Enrico Galiano il 10.04.2018 su "Il Libraio". "Non fate il bene dei vostri figli se, quando tornano a casa con un brutto voto, quello contro cui ve la prendete è chi glielo ha messo". Mentre in tutta Italia si verificano episodi di violenza ai danni degli insegnanti da parte dei genitori, lo scrittore Enrico Galiano si rivolge a questi ultimi. Ora, cerco di dirvelo con calma, perché anche a me sono capitate negli anni un paio di situazioni in cui ho avuto un po’ di paura.
Non fate il bene dei vostri figli se li difendete anche di fronte all’indifendibile.
Non fate il bene dei vostri figli se dite loro cose tipo “Ma sì cosa vuoi che capisca quel cretino del tuo professore!”.
Non fate il bene dei vostri figli se quando tornano a casa con un brutto voto, quello contro cui ve la prendete è chi glielo ha messo. I rimproveri servono. I compiti in classe andati male servono. È anche così che si diventa forti.
Non fate il loro bene se a casa parlate degli insegnanti come di una masnada di nullafacenti. Anche se magari qualcuno che non ha voglia di lavorare c’è, se parlate così fate solo del male ai ragazzi. I ragazzi hanno bisogno di tante cose: ma di scuse, di posti dove scaricare le proprie colpe, quello proprio no.
Non dico di fare quello che a volte senti in giro, un ceffone o cose simili, figuriamoci. Ognuno ha il suo metodo, non ce n’è uno più giusto. Ce n’è solo uno sbagliato: prendersela col prof. Credete di averli difesi. In realtà gli avete fatto più male voi di quanto potrebbe fargliene qualsiasi brutto voto.
Violenza, non è nella scuola la radice del problema, scrive il 18-02-2018 su "lanuovabq.it" Marco Lepore. Le crescenti violenze nelle scuole italiane sono soltanto il riflesso di una violenza generalizzata che c'è nella nostra società e che tutti respiriamo. È violenza l'ideologia gender, la dissoluzione della famiglia perseguita sistematicamente, l'eutanasia, l'equiparazione delle unioni gay al matrimonio tra un uomo e una donna.
"Caro direttore, alcuni giorni fa c’è stata l’ennesima strage in una scuola americana, ad opera di uno studente che ha sparato all’impazzata su compagni e compagne di scuola, uccidendone ben 17. Una tragedia della follia, che però negli Usa purtroppo non è più una novità. Ne ha scritto in modo commovente e con grande lucidità padre Vincent Nagle proprio ieri su questo giornale".
Fortunatamente, nel nostro Belpaese simili gesti non accadono. In questi ultimi giorni, tuttavia, si fa un gran parlare della violenza che si manifesta sempre più frequentemente nelle scuole, e non solo nel rapporto fra alunni, ma anche nei confronti dei docenti da parte dei loro studenti o di genitori inferociti per presunti torti subiti dai figli. Fino a poco tempo fa certi episodi erano davvero rari e confinati in scuole collocate in realtà sociali già note come problematiche. Oggi scopriamo che la violenza si sta diffondendo e manifestando ovunque. Su un altro quotidiano online è stato riportato un riepilogo di questi episodi che non può non far riflettere: nei primi 45 giorni del 2018, in Italia ci sono stati numerosi episodi di bullismo scolastico e para-scolastico e almeno 5 casi gravi di aggressioni contro i professori compiute da studenti o genitori. Un professore di educazione fisica di Avola è finito all'ospedale con le costole rotte dai pugni e calci dei genitori di un alunno rimproverato. Una professoressa del casertano ha ricevuto una coltellata in faccia da un 17enne furibondo per una nota sul registro. Un vicepreside di Foggia ha avuto una prognosi di trenta giorni per trauma cranico, rottura del setto nasale e lesioni all'addome provocate da un babbo indignato per il rimprovero ricevuto dal figlio. Una professoressa di prima media ha ricevuto un pugno in faccia da un suo alunno, mentre un'altra professoressa è stata presa d'assalto a colpi di chewing-gum nei capelli. Questi sono i più eclatanti, ma tanti altri, magari di minore entità o di pura violenza psicologica, accadono quotidianamente e nel silenzio fra i banchi e persino nelle sezioni di scuola materna, dove sempre più spesso si ha a che fare con bambini la cui irrequietezza sfocia in atteggiamenti fortemente aggressivi verso i compagni e le stesse maestre, provocando talvolta danni fisici. Le analisi degli “esperti” portano tutte alle medesime conclusioni: i giovani non sono più in grado di reggere lo stress e sopportare l’insuccesso; i genitori sono diventati troppo protettivi e concedono tutto ai figli, difendendoli a oltranza anziché punirli quando necessario; la scuola da parte sua ha perso prestigio e autorevolezza, e così pure chi vi lavora….Tutte cose vere, per carità, ma ritengo che il problema stia più a monte e pertanto la soluzione vada cercata altrove, perché la violenza non nasce nei microcosmi della scuola o della famiglia, che ne sono semmai i terminali ultimi, ma è la filigrana vera e propria della società contemporanea. I giovani respirano quotidianamente violenza - spesso edulcorata sotto altri nomi - senza accorgersene, e poi la vomitano perché è un veleno che intossica l’anima. Vediamone alcuni esempi, che toccano anche il mondo della scuola. Violenza spacciata per libertà è l’ideologia gender che viene ormai diffusa a pioggia sulla scuola italiana dalle materne alle superiori, perché nega in modo arbitrario e irrazionale un dato di realtà incontrovertibile: l’essere umano nasce maschio o femmina e negarlo porta a drammi esistenziali inenarrabili. Violenza spacciata per conoscenza è la negazione di ogni verità assoluta, insegnata da tanti docenti ogni giorno a piccoli e grandi, e affermata a livello sociale come emancipazione da ogni dogma, sia perché è a sua volta una affermazione presentata in modo apodittico, sia perché l’uomo senza verità non può vivere e affonda nella melma del relativismo e del non-senso. Violenza spacciata per uguaglianza è l’orribile pretesa di femminilizzare nomi maschili e viceversa, per affermare una pretesa parità di genere fra uomo e donna, producendo in realtà – oltre a disgustose o ridicole distorsioni linguistiche - una esasperazione della contrapposizione fra maschio e femmina, anziché esaltare l’assoluta complementarietà nella diversità. Non mi piegherò mai a scrivere “Ministra”! Violenza spacciata per amore è la dissoluzione della famiglia, calpestata dai politici e dai governi che si susseguono e rovinata da una cultura edonista e godereccia, che priva i bambini dei genitori biologici facendoli vivere con figure di riferimento provvisorie, mutevoli e perlopiù inaffidabili, a causa di adulti che vanno dietro ai propri capricci e sono pronti a mandare all’aria il nucleo familiare di fronte alla prima difficoltà. Violenza spacciata per felicità è una legge che ha equiparato le unioni omosessuali alle famiglie composte dalla unione di un uomo e di una donna (l’unica realtà che possa definirsi famiglia), aprendo la strada alle adozioni da parte di coppie omosessuali e facendo in modo che i bambini possano crescere in contesti affettivi in cui è tragicamente assente l’elemento insostituibile della diversità e complementarietà dei sessi. Violenza spacciata per compassione è la possibilità di mettere fine alla propria esistenza o a quella di un’altra persona perché in condizioni ritenute non più adeguate a una vita di “qualità”, mentre questa ha un valore intangibile e su questo si fonda(va) la sicurezza del valore trascendente del proprio esserci. Violenza camuffata da accoglienza è il fragoroso stracciarsi le vesti del politically correct e del ministro di turno, che in nome di parole d'ordine usate per fini ideologici come inclusione e integrazione, hanno messo alla gogna un dirigente scolastico solo perché ha detto una cosa elementare, evidente a tutti e, in ogni caso, desunta dalla realtà, e cioè che nelle classi senza alunni stranieri si riesce a lavorare meglio. Qualsiasi alunno può verificare e confermare che la presenza di alunni con gravi difficoltà di comprensione linguistica rallenta il cammino di tutti. Potrei continuare a lungo, purtroppo. Ma preferisco fermarmi qui, penso che sia sufficiente a far comprendere quanta violenza sia intrecciata ormai nelle maglie della nostra società: quella peggiore, mascherata sotto altri nomi, di fronte a cui si abbassano le difese e, senza rendersene conto, la si assimila. La violenza esplicita, che ci propina continuamente la televisione, in confronto è roba da ridere...E allora, di cosa possiamo stupirci se i nostri ragazzi (o i loro genitori) si permettono di prendere a calci e pugni un docente? Forse, nella loro testa, anche questa è una forma di libertà e progresso…Quella speranza di cui ha scritto in modo così profondo padre Vincent Nagle, allora, non è necessaria solo negli USA. Anche qui, come in ogni parte del nostro pianeta, l'uomo ha bisogno non tanto di leggi migliori, non solo di sistemi di sicurezza adeguati, ma innanzitutto di una "speranza vissuta comprovata sulla nostra stessa pelle". Quella Speranza che la tradizione cristiana ci ha donato per secoli e che l'uomo moderno ha deciso improvvidamente di buttare alle ortiche.
VIOLENZA A SCUOLA. Fragili e pieni di rabbia: che differenza c'è tra noi e gli Usa? Nei primi 45 giorni del 2018 ci sono state sparatorie in 19 scuole Usa. Niente di paragonabile all’Italia. Ne siamo sicuri? Nessuno ci ha rimesso la vita, ma quanta rabbia, scrive Maurizio Vitali il 16 febbraio 2018 su "Il Sussidiario". Nei primi 45 giorni del 2018 ci sono state sparatorie in 19 scuole statunitensi. Un pazzesco far west con 22 morti. I dati sono dell'Everytown for Gun Safety. Negli ultimi cinque anni, le sparatorie a scuola sono state, incredibile, 273 (praticamente una alla settimana), con 121 morti e 318 feriti. Negli Usa, si dirà, c'è la pistola facile, ed è vero. Ma nell'elenco delle stragi compiute a scuola negli ultimi anni non mancano, per esempio, Regno Unito e Germania, e persino la Finlandia. Veniamo a noi. Nei primi 45 giorni del 2018, in Italia ci sono stati numerosi episodi di violento bullismo scolastico e para-scolastico e almeno 5 casi gravi di aggressioni contro i professori compiute da studenti o genitori. Il prof di educazione fisica di Avola è finito all'ospedale con le costole rotte dai pugni e calci dei genitori di un alunno rimproverato. La prof del casertano s'è presa una coltellata in faccia da un 17enne furibondo per una nota sul registro. Trenta giorni di prognosi al vicepreside di Foggia, per trauma cranico, rottura del setto nasale e lesioni all'addome provocate da un babbo indignato per il rimprovero ricevuto dal figlio. Una prof di prima media ha ricevuto un pugno in faccia da un suo alunno. Un'altra prof è stata presa d'assalto a colpi di chewing-gum nei capelli. Qualcuno dirà: d'accordo, brutte cose, ma niente a che vedere con l'America. Vero, se la mettiamo sul lato delle pistole in classe. Qui a scuola con la pistola in tasca – che si sappia – non ci si va. Ma se la mettiamo sul lato delle persone violente, adolescenti o paparini che siano, è possibile riconoscere nei ragazzi disagiati e violenti dei vuoti fragilissimi imbottiti di rabbia, in tutto o in parte ineducati a riconoscere il valore dell'autorevolezza. La prima risposta che viene in mente d'istinto è quella diciamo così disciplinare-repressiva: basta buonismi, perdiana, il reo va punito, che impari a comportarsi e che sia di monito anche agli altri. Regole e legalità vanno fatte rispettare. Ragazzi e soprattutto genitori. Chi pensa così, non ha tutti i torti. Però non basta. Non siamo neanche a metà strada. La scuola, come la famiglia, hanno il compito di educare, tirar su persone che imparino a stare da uomini nella realtà, non possono né proteggere dei vuoti a perdere né gettare la spugna. Stare nella realtà comporta anche imparare a vivere il limite, la sconfitta, il dolore, l'insuccesso, l'esistenza stessa dell'altro, come una condizione dell'umano e non come la prova del proprio fallimento e della propria nullità. Ci interrogano i vuoti pieni di rabbia che non sanno sentire il proprio io se non facendo violenza agli altri. Come ci interrogano i vuoti pieni di disperazione che si suicidano per un brutto voto. Il mito dell'autosufficienza e dell'autodeterminazione dell'individuo, che è il dogma (anche inconsapevole) del nostro tempo, ci può portare a simili tornanti pericolosi, oltre che alla mediocre, normale malinconia di un quotidiano opprimente mal sopportato. Dico di noi adulti. Occorre ridestare l'umano, cioè ultimamente il senso religioso. Perché l'uomo dipende, non ce n'è di balle. E i ragazzi, o li metti in riga con la paura del castigo (auguri!), o gli testimoni che è possibile l'esperienza della bellezza e della positività ultima della realtà. Qui nessuno ha la ricetta, figuriamoci. Tuttavia, se ci si mette su questa traiettoria, ci possono intessere dialoghi, collaborazioni e alleanze invece che palleggiarsi colpe e responsabilità. Prima fra tutte, l'alleanza tra insegnanti e genitori, orrendamente sfigurata nel tedio formalistico di assemblee di condominio fatte a scuola e poi da genitori sindacalisti dei figli. I quali genitori avrebbero da ricercare e riguadagnare una propria reale autorevolezza, nel senso di ciò che fa crescere, rispetto ai propri figli, e così aiutare a riconoscere l'autorevolezza altrui. Nel frattempo, meno pistole girano e meglio è per tutti. Di Luca Traini, ahimè, non ce n'è uno solo in circolazione.
Alunni violenti contro insegnanti. Cosa devono fare i genitori e la scuola e qual è il ruolo dei talent show? Scrive Maura Manca il 18 febbraio 2018 su "L'Espresso". La scuola sembra sotto assedio, presa di mira da parte di bambini, adolescenti e genitori. Non è il fenomeno del momento come molti credono, è solo il chiasso mediatico che rende visibile e alla portata di tutti un problema che, a noi clinici e psicologi che lavorano con le scuole e nelle scuole, è purtroppo chiaro ed evidente già da diverso tempo. Sulle motivazioni ne abbiamo disquisito a sufficienza, c’è un degrado educativo, troppi bambini sono orfani di valori, contenimento e regole, non c’è più un coordinamento genitoriale, un tira e molla, un sì e un no, un puoi e non puoi, un va bene e va male, che crea solo confusione e deriva nello sviluppo emotivo, cognitivo e comportamentale. Un disallineamento anche con l’istituzione scolastica che ha perso il suo valore pedagogico-formativo ed è diventata un centro di prima accoglienza e un pronto soccorso educativo. Purtroppo stanno per finire anche i cerotti e i rimedi rapidi e ci troveremo davanti ad un problema che non si vuole vedere perché troppo complesso da arginare in quanto richiede una vera e propria rivoluzione, della scuola e della famiglia.
Ci siamo mai interrogati sull’influenza delle “scuole” in tv dei talent show? Non ci dimentichiamo dell’influenza e della potenza mediatica di alcuni programmi televisivi di punta che sono visti e seguiti da milioni di bambini e adolescenti. Ovviamente non sono la causa, come Gomorra non è la “causa” delle baby gang, però possono essere un rinforzo negativo in un contesto già vulnerabile e favorente questo tipo di condotte. Troppe volte anche nelle “scuole televisive” si vedono ragazzi ribellarsi ai docenti, rispondere male, arrogarsi il diritto di “voler insegnare ai loro maestri”, di accusarli di non essere compresi e valorizzati, senza capire che se sono dietro quel banco, un motivo ci sarà e magari che andrebbero anche ringraziati per gli insegnamenti che gli vengono dati. Non significa subire a bocca chiusa, ma tollerare anche un dissenso, una rigidità nell’insegnamento, una durezza e non cercare sempre un sostituto materno, visto che in questa vita non ci regalerà niente nessuno e che dovremo fare i conti con giudizi, critiche e valutazioni, anche piuttosto dirette e dure.
Cosa si deve fare per arginare questa deriva? Come devono intervenire i genitori per bloccare questa aggressività e violenza dei propri figli nei confronti di maestri e professori? Il ruolo della famiglia è primario e se non partiamo da loro, non potremo mai essere efficaci con i ragazzi. Se vogliamo curare le patologie dei figli dobbiamo prima curare prima i genitori, è una delle frasi che ripeto più spesso. Alcuni consigli da seguire:
1. UN PADRE, UNA MADRE, NONNI COMPRESI, visto il ruolo educativo che oggi rivestono per i nipoti-figli, SMINUIRE, CRITICARE, DERIDERE LA FIGURA DEL MAESTRO O DEL PROFESSORE DAVANTI AL FIGLIO. Non si può mettere in discussione tutto ciò che un insegnante dice o fa, sia da un punto di vista personale che professionale. Se ci sono dei problemi con uno o più docenti, si deve ascoltare il figlio perché ha diritto e bisogno di sapere che in casa ha uno spazio di ascolto e comprensione e contestualizzare il problema, analizzare l’accaduto filtrando anche il racconto di un figlio da emozioni e frustrazioni e ragionare sulle possibili strategie, senza prendere senza ragionare e riflettere l’armatura e lo scudo del “come ti dei permesso” e andare in preda agli impulsi ad attaccare la scuola e l’insegnante. Si deve chiedere un incontro per confrontarsi con i professori, cercando di risolvere il problema attraverso una mediazione. In questi anni di lavoro nelle scuole ho assistito anche a condizioni in cui obiettivamente maestri o professori era meglio venissero allontanati dall’insegnamento, casi in cui, si può intervenire con gli specialisti qualora la scuola non tuteli il minore e prenda i dovuti provvedimenti. La maggior parte delle volte, però, devo dire che si trattava di genitori che pretendevano di controllare anche i contenuti e le modalità di insegnamento di maestri e professori, creando più danni che altro.
2. IL LIVELLO DI TOLLERANZA DEL BAMBINO E DELL’ADOLESCENTE DIPENDE PRETTAMENTE DA COME È STATO EDUCATO IN FAMIGLIA. Se viene educato come un piccolo principe con tanti diritti e pochi doveri a cui non si può dire un NO per evitare tragedie successive, o non si può imporre un limite ed una regola, è implicito che vivrà i paletti, che giustamente si devono ancora mettere nella scuola basati sul rispetto dei compagni, del docente, del silenzio, delle regole di convivenza comune, come una condizione stressante o addirittura come un abuso.
3. IL MODELLO EDUCATIVO CHE SI DEVE TRASMETTERE NON PUÒ ESSERE QUELLO BASATO SULLA GESTIONE DEL CONFLITTO ATTRAVERSO LA FORZA, LO SCONTRO E L’INTOLLERANZA. Si dovrebbe far capire ai figli che non tutto può andare sempre come ci piace o come vorremmo, non tutte le persone che incontreremo davanti a noi si comporteranno come ci aspettiamo e questo non significa che non vadano bene, ma che sono altro con cui a volte, non sarebbe sbagliato imparare a convivere. Questa è la base su cui lavorare se vogliamo educare adulti sufficientemente equilibrati in grado di integrarsi nei vari ambienti che frequenteranno.
4. NON CREDO ABBIA SENSO CAMBIARE SCUOLA CON ESTREMA FACILITÀ IN TERMINI DI INSEGNAMENTO PEDAGOGICO perché significa non voler vedere il proprio coinvolgimento nel problema e non voler mai assumersi una responsabilità. A volte è faticoso intervenire per risolvere un problema, ci vuole tempo e sembra che oggi siano rari i genitori che abbiano voglia di “perdere tempo dietro ai figli”. Ci si arroga troppo spesso la libertà di non riconoscere e quindi rispettare le figure educative che ruotano introno al figlio. Si dà la colpa sempre a terzi e con estrema facilità, colpa del professore, dell’allenatore, sembra di vivere in un mondo di mostri e che questi bambini siano compresi solo a casa, sotto le ali iperprotettive di mamme, papà e nonni che li lasciano soli in balia dei veri pericoli della rete ad un metro di distanza da loro. Il paradosso educativo di oggi.
5. UN ALTRO ASPETTO FONDAMENTALE, ASSOLUTAMENTE DA NON SOTTOVALUTARE, È LEGATO AL COME VENGONO ABITUATI A RELAZIONARSI IN CASA CON I GENITORI. Se vengono cresciuti con l’abitudine di rispondere male, in maniera arrogante, con le pretese, a non rispettare le decisioni prese perché l’adulto in primis, dice una cosa poi ne fa un’altra, a non riconoscere l’autorevolezza di un ruolo o a mettere in discussione tutto ciò che viene detto, impareranno quella modalità di interazione come corretta. Quanti bambini e adolescenti sono strafottenti in classe con i professori e con i compagni, sono arroganti ed irrispettosi perché lo sono in primis a casa con i familiari? Non quindi maleducati ma mal-educati.
E la scuola cosa dovrebbe fare? L’obiettivo comune dovrebbe diventare quello di terminare questa inutile guerra tra scuola e famiglia perché ci rimettono solo ed esclusivamente i bambini e i ragazzi e ricreare una alleanza, rispettando pienamente il patto educativo di corresponsabilità. La scuola dovrebbe arginare queste ondate quotidiane di genitori che invadono le scuole italiane riempiendole di critiche e di insulti. Si dovrebbero mettere paletti anche ai genitori e tollerare di meno questi attacchi diretti per riprendere un ruolo ormai messo troppo spesso in discussione. Questo però si può fare se si monitora in maniera più approfondita l’operato delle risorse interne affinché non siano attaccabili e criticabili, che si vada ad abbattere l’omertà tra insegnanti quando ci sono le mele marce, tale da segnalare le problematiche e risolverle per il bene degli allievi, senza aver paura che possa cambiare la nomea della scuola e che possano calare le iscrizioni. Non basta una laurea per diventare Insegnanti con la I maiuscola, servono competenze personali e professionali certificate e valutazioni sistematiche fatte da personale competenze e non da tuttologi. L’insegnamento è un lavoro soggetto a burnout e il tasso di stress lavoro correlato è alto per via della numerosità delle classi e del tasso di diagnosi, certificati e di bisogni particolari di ogni bambino o adolescente in classe. Un’unica persona non può sopperire a tutte le esigenze. Però, i genitori andrebbero lasciati fuori dalla ruotine scolastica per inserirli maggiormente negli organi istituzionali in modo tale da dare spazio anche al loro punto di vista e riconoscere la loro posizione in quanto portavoce anche degli altri genitori.
In conclusione. Stiamo affrontando una crisi educativa profonda che sta mandando alla deriva genitori e figli e una scuola che non ha i mezzi e risorse per sopravvivere a tutto questo decadimento. Ognuno deve riprendere il proprio ruolo, come quando salpa una nave, “ognuno ai propri posti”, con un unico obiettivo, altrimenti succede il caos a bordo e si rischia di non raggiungere mai la meta o di affondare. È una questione di DISTANZA, genitori e insegnanti sono o troppo vicini o troppo distanti dai figli-alunni, troppo amici, troppo alla pari, alcuni docenti aprono addirittura le porte delle loro case, della loro intimità, chattano e condividono la propria vita sui social con gli allievi, oppure sono troppo distanti dai problemi e dal punto di vista dell’infanzia e dell’adolescenza. Comunque, se non si investe su figure professionali competenti e specializzate che siano veramente di aiuto a famiglie e istituzione scolastica, prevedo che questa escalation di violenza non si riesca più a fermare.
“Picchiate i professori! Così imparano!”. Non sono casi isolati, c’è un piano organizzato! Scrive Jacopo Fo il 15 febbraio 2018. Jacopo Fo. Scrittore, teatrante, regista, disegnatore, è Direttore creativo di People For Planet. Sono fatti casuali? Scollegati? Schegge impazzite? Oppure qualcuno sta lavorando alacremente per scatenare la violenza a scuola? Io sono per la tesi del complotto: ministri, presidi e sindacati degli insegnanti hanno complottato per anni per mantenere la scuola il più possibile lontana dagli studenti e per distruggere il rispetto verso i docenti e l’istituzione. La possibilità di consultare il Web e trovare facilmente buona parte dello scibile umano ha distrutto l’aurea di sacralità della scuola. E al tempo degli smartphone è facile accorgersi che un professore è un asino. Certo, la maggioranza degli insegnanti sono brave persone, che si impegnano veramente per uno stipendio misero. Ma non si può far finta che non esista il problema rappresentato da migliaia di insegnanti indegni, inamovibili anche se il loro titolo di studio lo hanno rubato. Nella storia scolastica delle mie due figlie ho incontrato 4 insegnanti veramente straordinari ma anche veri cialtroni: il prof alcolizzato, l’insegnante cocainomane che iniziava le frasi a metà… e non si capiva niente. Quando la mia bimba è andata a protestare dalla preside perché l’insegnante di inglese non sapeva assolutamente l’inglese la preside le ha risposto: “Porta pazienza… Non posso mica licenziarlo!” E che dire dell’insegnante pedofilo che non si è riusciti a cacciare neanche con la mobilitazione dei genitori? Mancavano le prove… Non c’era una vera e propria violenza, solo atteggiamenti sgradevoli… Mica puoi incriminare uno per come guarda le ragazzine…Io credo che dovrebbero essere gli insegnanti i primi a combattere all’ultimo sangue, con tutti i mezzi, contro questi ladri di stipendio. Invece la reazione più comune è quella di difenderli. E poi bisognerebbe esporre al pubblico ludibrio quei sapientoni che scrivono i programmi scolastici. La loro legge è: tutto quello che è interessante e fondamentale per la crescita degli studenti NON può assolutamente essere insegnato a scuola! Niente sesso perché è peccato. Che importa se dietro la violenza dei giovani c’è sempre la tensione psicologica e ormonale, determinata dallo sviluppo, ingigantita dalla totale ignoranza sulla sessualità e sulla vita emotiva. La cosa più stupida che ho visto è stato un seminario sul bullismo durante il quale gli oratori erano vivamente invitati a non parlare di sesso agli studenti: logico no? Che rapporto c’è tra bullismo e ossessione sessuale? Nessuno!!! E mi raccomando mai un’informazione neanche sulla salute, su come si devono assumere gli antibiotici, sulla necessità di non esagerare con gli accertamenti clinici e i farmaci, sulle pratiche elementari di pronto soccorso…E perché mai a scuola si dovrebbe imparare come funziona una truffa bancaria, una busta paga, un contratto di lavoro o la ratealizzazione truffaldina per l’acquisto di un telefono? Bravi scemi! Ai vertici del sistema educativo non è ancora arrivata l’idea che solo la passione può fare evolvere positivamente i giovani e che solo se si parte da questioni concrete, vere, si può risvegliare l’interesse e la partecipazione. E non è giunta neppure l’idea avveniristica che per fare i professori sia necessario non solo sapere ma anche saper raccontare. Non esistono neppure lezioni per parlare in pubblico, sceneggiare una lezione, usare correttamente la voce. Non esiste un blog del Ministero che raccolga i canovacci delle migliori lezioni di storia, italiano, matematica proposti dai professori e magari anche da attori, registi, cantanti… Non esiste nessun tirocinio per affrontare casi di grave disagio, gestire situazioni di emergenza, lavorare sull’empatia. Non sono cose che basta imparare teoricamente. E come è possibile che si paghino così poco gli insegnanti? I nostri figli sono il tesoro più grande e li affidiamo a persone troppo spesso impreparate e sempre mal pagate? E poi ci si stupisce che i professori debbano andare a scuola col martello per difendersi? E si scrivono fiumi di astruse teorizzazioni sulla crisi dei giovani e l’alienazione moderna! Ma dite le cose come stanno: la scuola è noiosa, antiquata e autoritaria, i programmi sono fuori dalla realtà: veleggiano nell’Empireo della cultura classica, a eoni di distanza dalla vita dei giovani. In questa situazione alcuni ragazzini con gravi disturbi della personalità, che nessuno ha capito e cercato di arginare hanno sclerato completamente e hanno picchiato o accoltellato i professori. È orribile ma è così. E se non si cambiano le cose potete ben vedere negli Usa come si va a finire: massacri nelle scuole con i fucili di assalto. Forse è ora di parlare ai giovani di senso della vita, di amore, passione e sesso.
Ps: Non è la prima volta che affronto questo tema. E ogni volta che ne parlo ricevo decine di commenti di insegnanti che protestano accusandomi di sostenere che tutti gli insegnanti sono impreparati. Chi vorrà leggere onestamente quel che ho scritto può ben vedere che non dico questo. Chi non lo capisce dimostra di essere impreparato. A posto, 4!
Gavirate: maltrattamenti in un asilo nido, scrive il 19 aprile 2018 Giovanni Casareto su "Notizie.it". I carabinieri hanno accertato ben 46 casi di maltrattamento su bambini tra i 6 mesi e i 6 anni di età. La scoperta che hanno fatti i carabinieri presso un asilo nido privato di Gavirate è terribile. Nella struttura, i bambini accolti, di un’età compresa tra i 6 mesi e i 6 anni, venivano costretti a subire gravi violenze. Tra i 46 casi accertati dai militari spintoni, violenze psicologiche e anche lancio di ciabatte contro i poveri bimbi. La titolare dell’asilo nido di Gavirate è finita ai domiciliari. Le indagini erano partite all’inizio dell’anno, in seguito alla denuncia da parte di alcuni genitori, insospettito dallo strano comportamento dei figli. Gravissimo cosa di maltrattamenti sui minori a Gavirate, in zona Varese. Un asilo nido privato, chiamato Imparare è un gioco, è stato chiuso in seguito a quanto i carabinieri hanno accertato. La struttura era un vero e proprio incubo per i poveri bambini, tutti aventi un’età compresa tra i 6 mesi ed i 6 anni. Per tutta la durata del tempo trascorso nell’asilo nido, le piccole e povere vittime erano costrette a subire violenze di ogni tipo. La titolare, italiana, era l’unica educatrice della sua struttura. I carabinieri sono riusciti a documentare ben 46 episodi di inaudita ed illogica violenza. In particolare, è stato riscontrato che la titolare arrivava anche a lanciare ciabatte contro i poveri piccoli. Tutti i giorni, la donna si lasciava andare a spintoni e violenze psicologiche di vario tipo sulle sfortunate vittime. Nella giornata di mercoledì 18 aprile, i carabinieri, giunti in possesso di prove più che sufficienti, hanno effettuato un blitz nell’asilo Imparare è un gioco. L’educatrice è finita ai domiciliari. I militari stavano analizzando la situazione dall’inizio del 2018. Hanno deciso di indagare sull’asilo nido in seguito alla denuncia di alcuni genitori. Questi si erano seriamente insospettiti e preoccupati dopo aver notato uno strano comportamento da parte dei propri figli. Purtroppo, casi come questo non sono proprio una rarità in questo periodo. Soltanto il 9 aprile scorso, una maestra di asilo di 45 anni è stata messa in manette dai carabinieri di Desio. La donna, che lavorava presso una struttura di Varedo nella zona di Monza, aggrediva fisicamente e verbalmente i suoi alunni. Si trattava di bambini con un’età compresa tra i 4 e i 6 anni. I militari hanno agito in seguito ad un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. Questa è stata emessa dal gip di Monza, per maltrattamenti su minorenni. Da tempo erano iniziate le indagini su questo caso, partite in seguito alla denuncia di alcuni genitori dei bimbi coinvolti. Molto utili sono state le intercettazioni, che hanno permesso ai carabinieri di Desio di riscontrare la condotta violenta della maestra d’asilo. Queste violenze consistevano in strattonamenti e schiaffi, ed erano anche “verbalmente aggressive, prevaricatrici e capaci di determinare nei bambini una condizione di timore, sottomissione e continua costrizione”. Un vero e proprio incubo per i poveri bambini. Adesso però siamo quasi alla fine. Quasi perché le povere vittime necessitano di sostegno per poter superare quello che è stato un grosso trauma per loro, il cui ricordo, con ogni probabilità, li accompagnerà per tutta la vita.
«Violenza psicologica sui nostri figli». Gruppo di famiglie accusa un insegnante di una scuola elementare: «Lo fa da 10 anni». Lei replica: «Sono tutte falsità», scrive Vera Mantengoli il 19 agosto 2014 su "Nuova Venezia". Uno sfogo trattenuto per dieci anni contro una “cattiva” maestra di una scuola elementare veneziana è arrivato ieri via lettera alle redazioni di giornali e televisioni, firmato da sei famiglie che si dicono esasperate «dalla violenza psicologica» esercitata sui loro figli. Un fiume di parole che elenca una serie di angherie che la docente avrebbe inflitto ai bambini che, dopo molti anni, sono ancora traumatizzati al solo ricordo dell’insegnante. La maestra cade dalle nuvole, rispondendo subito che si è rivolta a un avvocato per tutelarsi da chi le sta gettando addosso queste accuse: «Non mi risulta nulla di tutto quello che scrivono», ha detto, «e sono sempre disponibile con tutti. Sono circondata da bambini, tanto che quelli che oggi frequentano le medie mi chiamano ancora, chiedendomi di partecipare alle attività che propongo». Il dirigente scolastico, arrivato un anno fa, dice di non aver ricevuto mai nessuna segnalazione. Le famiglie scrivono: «Buona parte di responsabilità è anche dei dirigenti che, nonostante fossero al corrente del modo di comportarsi disumano di questa maestra, non hanno mai preso provvedimenti per tutelare i minori». L’unico neo della vicenda è che le famiglie hanno inviato la denuncia via posta cartacea e firmato con sei cognomi diffusissimi in tutta Venezia che rendono difficile arrivare alla fonte diretta. «Come dirigente chiedo ai genitori di contattarmi subito», ha detto il preside, «in modo da parlare con loro. Per adesso posso dire che non ho mai avuto problemi con questa docente». Lo stesso ha detto la maestra: «Io quando dichiaro qualcosa metto la mia faccia, con nome e cognome. Se loro non lo hanno fatto potrebbero anche essere genitori di altri classi dato che a me non risulta che siano stati spostati dei bambini». Nella lettera si legge infatti che i genitori hanno deciso di togliere i piccoli dalla scuola in questione, ma per ora non risultano trasferimenti. Un brutto scherzo? La lettera descrive una maestra che ridicolizza i bambini e li umilia, per esempio non facendoli andare in bagno «con la conseguenza sovente che questi fanciulli rientrano a casa sporchi dei loro bisogni e presi in giro dai compagni perché puzzano». Non solo. Sembra che se non dimostrano di avere 38º di febbre sia vietato loro andare a casa, anche se vomitano e hanno diarrea. «Soltanto una volta una nonna si è lamentata che suo figlio non era stato mandato a casa», ha detto il preside, «ma poi tutto era rientrato». «Non è mai successo niente di simile», taglia corto la maestra, «una volta soltanto un bambino voleva andare a casa, ma siccome mancavano 10 minuti alla campanella è rimasto in classe e non era nemmeno nelle mie ore».
Chi sono le maestre violente, come si comportano e quali sono i danni che generano? E’ giusto mettere le telecamere nelle scuole? Scrive su "adolescienza.it" il 30 aprile 2017 Maura Manca. Maestre violente, che dovrebbero educare, cioè tirare fuori dai bambini risorse e potenzialità. Maestre che trascorrono tanto tempo con loro, un tempo che per tanti bambini non è gioco, condivisione, sorriso ed espressione delle proprie risorse interne, ma diventa paura di sbagliare, di parlare, di fare la cosa sbagliata, di essere sgridati, puniti, presi a urla, insultati, derisi, denigrati e addirittura, in svariati casi, picchiati. Ci sono bambini che subiscono urla, scatti d’ira, strattonate, sguardi cattivi e di rabbia, che vengono sgridati anche senza motivo, perché semplicemente fanno i bambini e anche purtroppo picchiati. Ho visto genitori disperati e ragazzi che venivano puniti nei modi più impensabili, umiliati davanti a tutti, messi in mezzo, a volte anche alla gogna, presi in giro dai docenti anche per un disturbo o per una qualche disabilità o problema di apprendimento. Ho seguito ragazzi presi di mira, vittime della violenza da parte del corpo docente, perseguitati. Ho visto tanti adolescenti che avevano subito violenza da bambini e che oggi si portano ancora i segni addosso. Tutto questo senza che i genitori possano minimamente immaginare che hanno affidato i loro piccoli a delle persone disturbate che scaricano le loro problematiche e frustrazioni sui più deboli, incapaci di difendersi, approfittando del loro ruolo, spalleggiate da troppa omertà. Nel nostro Paese sono veramente troppi gli “educatori” che non hanno le competenze psichiche e la formazione adeguata per fare un lavoro così delicato che richiede dedizione e tolleranza allo stress.
Un problema sottostimato: perché? La violenza subita dai bambini e dagli adolescenti all’interno delle mura scolastiche è indubbiamente sottostimata per due motivi: quando sono molto piccoli NON hanno ancora sviluppato le competenze linguistiche per riferire ciò che accade durante lo svolgimento delle attività scolastiche e quando sono più grandi, tendono a non parlare direttamente o lo fanno in maniera superficiale con il rischio che il genitore non capisca la reale gravità della situazione. Tante volte, infatti, i bambini subiscono in silenzio le angherie delle maestre e si portano dentro un calvario che dura anche anni, di cui i genitori sono spesso all’oscuro. Bisogna fare molta attenzione perché sono anche molto frequenti questi casi di violenza da parte del corpo docente anche alle scuole primarie e secondarie. Anche se si tratta di ragazzi più grandi e in teoria in grado di difendersi, non si devono sottovalutare i danni che creano da punto di vista emotivo e psicologico.
I dati della violenza da parte del corpo docente in Italia. Nell’anno scolastico 2016/17 l’Osservatorio Nazionale Adolescenza ha svolto un’indagine su un campione nazionale di 8.000 adolescenti dai 14 ai 19 anni, e il 20% di questi ragazzi, ossia 2 su 10, dichiarano di essere stati trattati male, denigrati o insultati da una maestra o da un professore nel corso della loro carriera scolastica. Parliamo anche di violenze fisiche, il 7%, infatti, è stato strattonato o picchiato da una maestra o da un professore e il 10% addirittura è stato costretto a dover cambiare scuola per colpa di questi comportamenti violenti. I danni del subire violenza psicologica o fisica da parte delle maestre o dei professori. Sono violenze che segnano la psiche e lo sviluppo di questi poveri bambini, sia a breve che a lungo termine, lasciando anche dei segni indelebili da un punto di vista psicologico a lungo termine. Si può arrivare a sviluppare una perdita di fiducia negli altri, una paura di lasciarsi andare, di esprimersi in pubblico e del giudizio degli altri. Si può manifestare una remissività da un punto di vista caratteriale che spesso può portare a subire anche altri tipi di prevaricazioni, anche da parte dei compagni. Se i bambini presi di mira sono invece oppositivi e provocatori, spesso accumulano tanta rabbia e frustrazione che la possono scaricare in casa con i genitori o con eventuali fratelli o sorelle, fino anche ad arrivare a farsi del male da soli quando vengono puntiti o sgridati. Questo tipo di aggressioni vanno ad intaccare profondamente l’autostima di questi bambini che svilupperanno una sensibilità maggiore alle critiche e alle reazioni violente. Tante volte perdono la fiducia nel corpo docente, si inibiscono e si chiudono per paura di essere ripresi davanti alla classe, sgridati e aggrediti. Ho seguito svariati adolescenti vittime di violenza da parte delle maestre quando erano piccoli e tanti di loro hanno sviluppato una profonda inibizione in classe, paura di esprimersi, di andare alle interrogazioni per timore di fare qualcosa di sbagliato perché purtroppo l’imprinting rimane e il corpo e la mente ricordano. Secondo un’indagine svolta sempre dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza, i ragazzi che hanno subito nel corso della loro vita aggressioni e violenze sono anche quelli che dichiarano di essere stati in cura da uno psicologo o di aver ricorso a farmaci per contenere vissuti ansiosi ed emotivi in maniera significativa rispetto a coloro che non hanno subito questo tipo di violenze. Essere presi di mira da coloro che dovrebbero educarti, stimolarti, sostenerti ed insegnarti destabilizza profondamente. Ho visto ragazzi quasi convincersi di ciò che gli veniva detto dagli insegnanti, che arrivavano a pensare di essere loro il problema, che sono arrivati a odiare la scuola e somatizzare ogni forma di violenza subita. Ancora oggi tanti adulti si portano dentro i danni di un’educazione e di una formazione scolastica sbagliata, che pagano troppo caro il prezzo della follia del corpo docente.
Cosa fare quando i figli raccontano a casa ciò che subiscono a scuola? I bambini non sempre parlano immediatamente di ciò che gli accade a scuola, hanno paura. Però usano un canale comunicativo non verbale, utilizzano il linguaggio del corpo, per esempio attraverso tutta una serie di sintomi psicosomatici come per esempio il mal di pancia, il mal di testa, il dormire male o fare “brutti sogni”. Cambiano le loro abitudini, anche minime, si ammalano più spesso o rifiutano la scuola. Si deve fare sempre molta attenzione soprattutto ai disegni e al gioco perché sono due canali espressivi che soprattutto i bambini più piccoli usano per comunicare il disagio che hanno interiormente. Quando sono più grandi e raccontano ciò che gli viene detto o fatto da un professore, non si deve mai sottovalutare ciò che dicono, non si deve fare l’errore di pensare che visto che sono grandi non vengano toccati nel profondo anche loro. A volte subiscono, altre tornano a casa arrabbiati ed imbestialiti per le ingiustizie subite. Non dategli contro, non date sempre ragione ai professori solo perché sono i professori. Non ditegli che devono stare zitti e che i docenti hanno sempre il coltello dalla parte del manico perché i soprusi da parte da chi è pagato per educare ed insegnare non possono essere minimante tollerati. I figli vanno ascoltati e va capito cosa sta succedendo e poi intervenire per risolvere il problema. Quando il figlio racconta di una violenza o di un sopruso a scuola, bisogna innanzitutto rassicurarlo e dargli la certezza che il problema verrà risolto nel più breve tempo possibile, che non gli accadrà niente e se servirà gli si cambierà scuola e andrà in un altro istituto dove le maestre sono buone perché non sono tutte così. Il figlio va messo in una condizione di sicurezza tale da non perdere la fiducia in se stesso e nel mondo che lo circonda, e che sappia che sul genitore può contare. Nello stesso momento non è tutto colpa delle maestre o dei professori, i figli non hanno sempre ragione e bisogna sempre capire parlando con loro cosa realmente accade dentro le mura scolastiche. Non ci si deve allarmare per tutto e che non si deve mai e poi mai agire di impulso perché se il figlio sviluppa la paura delle reazioni eccessive di un genitore, non parlerà più di ciò che gli accade. Non ci si deve preoccupare solo dei voti e del rendimento scolastico ma di come un figlio vive la scuola perché i problemi in classe lasciano dei segni indelebili da un punto di vista psicologico.
È giusto mettere le telecamere dentro le scuole? Inserire le telecamere a scuola rappresenta il fallimento dell’istituzione scolastica che ha al suo interno personale che diseduca nascosto dietro il ruolo di educatore. Si assiste quindi ad un fallimento da un punto di vista formativo, valutativo ed etico della scuola italiana. Se si arriva a dover monitorare il lavoro di chi si prende cura dei minori significa che si sta mettendo dentro le scuole personale disturbato da un punto di vista mentale, violento e pericoloso visti gli esiti psicopatologici e i danni emotivi e psichici che genera una scarsa qualità di vita vissuta all’interno delle mura scolastiche. Fatta questa premessa è indubbio che ci troviamo davanti ad un problema emergenziale che è ora di risolvere in via preventiva e non curativa come sempre si tende troppo spesso a fare. La prevenzione deve essere primaria, cioè deve avvenire prima che si verifichi il problema, soprattutto quando si tratta di minori che verranno condizionati da un punto di vista psichico. Continuo a sostenere che le telecamere sono indubbiamente un buon deterrente che può indurre una diminuzione dell’aggressività e violenza utilizzata come metodo “educativo”, però non sono la risoluzione al problema. Forse potrebbe aiutare la videocamera nei luoghi in cui ci sono i più piccoli, che non sono ancora in grado di parlare o comunque di essere efficaci nelle loro comunicazioni potrebbe aiutare. Insegnare ed educare ai bambini e agli adolescenti è un mestiere indubbiamente difficile, il rapporto non è uno a uno, ma uno ad un gruppo classe per cui si devono tenere in considerazione le variabili individuali e gruppali. Tante volte ci sono situazioni difficili, i bambini non sono tutti uguali, alcuni hanno anche dei problemi di apprendimento, emotivo o comportamentale e tanti sono privi di educazione di base e di regole. Il fatto che sia un lavoro molto impegnativo, però, non giustifica mai e poi mai nessun tipo di condotta violenta e di abuso nei confronti di un minore. Se sono sottopagati, se lavorano troppo, se devono gestire bambini mal-educati, la colpa non è dei minori, lo hanno scelto loro di fare quel mestiere e quindi devono tutelare, educare e rispettare quelle povere creature e quei ragazzi. Per questo nella formazione del personale, si deve curare l’aspetto formativo, si devono preparare da un punto di vista emotivo e psicologico e, nel momento che il lavoro dell’insegante è un lavoro con un importante rischio di burn out, ossia di specifiche forme di stress legate al proprio lavoro, bisognerebbe creare degli spazi di sostegno all’interno delle scuole anche per le maestre e i professori, non solo per gli studenti.
Più qualità e valutazioni sistematiche sul corpo docente. Si devono quindi fare delle selezioni accurate sul personale che andrà a lavorare con i bambini, effettuato da persone competenti, non solo per valutare gli aspetti formativi ma soprattutto quelli psicologici, andando a valutare l’integrità psichica, la struttura di personalità, la motivazione e le attitudini sociali e relazionali. Tra i vari criteri di selezione bisogna valutare gli aspetti motivazionali e la competenza umana ed etica. Purtroppo, nel nostro Paese, si dà troppa importanza agli aspetti formativi e non al resto ed ecco i risultati. Deve essere istituita una formazione specifica per il personale di ogni ordine e grado, soprattutto per quello dell’infanzia, non basta un diploma e non basta solo una aurea fine a se stessa. Ma la cosa più importante e fondamentale, è che ci sia un controllo più frequente e he le valutazioni vengano effettuate ciclicamente, non un’unica volta nella fase iniziale, perché le condizioni di vita di ciascuno di noi cambiano, per esempio le persone possono aver subito perdite, separazioni, particolari stress, traumi emotivi e quindi destabilizzarsi e non essere più affidabili. Quindi, anche coloro che prima risultavano idonei all’insegnamento, potrebbero non esserlo più. Maura Manca Presidente Osservatorio Nazionale Adolescenza
Violenza fisica e verbale dei prof a scuola, i racconti choc degli studenti, scrive Martedì 9 Dicembre 2014 Leggo. Ben 1 studente su 4 racconta di prof che alzano le mani, il 56% sostiene di essere stato umiliato davanti a tutta la classe. Tra le storie dei ragazzi non mancano esempi di insulti razzisti, su problemi fisici o sulle condizioni familiari. Quando si è vittime di bullismo, andare a scuola può diventare un incubo. Si viene presi di mira per l'aspetto o addirittura per una disabilità. A volte per la razza o la provenienza. Altre volte per l'orientamento sessuale o, le ragazze, per la loro presunta "facilità" a concedersi. Tutto questo, poi, trova il suo culmine in episodi di vera e propria violenza fisica. E cosa succede se a macchiarsi di questi comportamenti non è un gruppo di studenti, ma il prof? Secondo una ricerca di Skuola.net su ben 7.500 studenti, non sono casi rari: il 56% confessa di essere stato brutalmente insultato o umiliato davanti a tutta la classe da un professore. Uno su 4 denuncia invece casi di violenza, di cui è stato vittima lui stesso o un compagno. Abbiamo raccolto le storie di questi ragazzi e ne abbiamo riportate alcune davvero agghiaccianti.
LA VIOLENZA DEI PROF - Ben 1 ragazzo su 4 ricorda un prof che abbia alzato le mani in classe. Di questi, il 9% circa sostiene che l'episodio lo ha riguardato personalmente, mentre il 14% ha visto picchiare qualcun altro dei suoi compagni. Di che tipo di violenze si tratta? Skuola.net lo ha chiesto direttamente ai ragazzi. Tra i loro racconti, sono state selezionate e riportate le storie più significative: schiaffi, quaderni tirati sul viso, teste sbattute sulla lavagna o addirittura le mani schiacciate nella fessura tra un banco e un altro.
VIOLENZA PSICOLOGICA - Secondo la ricerca di Skuola.net, nella maggioranza dei casi i prof non si limitano ai rimproveri. Il 56% degli intervistati infatti si è sentito almeno una volta insultare pesantemente ed umiliare davanti a tutta la classe. Quando Skuola.net ha chiesto loro di scrivere la propria esperienza, in molti hanno risposto all'appello. Sono emersi casi di insulti razzisti, di umiliazioni su difetti come la dislessia o la balbuzie. Non mancano le derisioni pubbliche di ragazzi in forte sovrappeso, di quelli considerati "brutti" o di coloro ritenuti poco attraenti sessualmente. A volte si prendono in causa le condizioni familiari difficili. Altre volte si ricorre a pesanti giudizi sulle capacità intellettive del ragazzo o sulla presunta disponibilità "sessuale" della ragazza. E per finire, volano poi le parolacce vere e proprie.
VIOLENZA FISICA - Dai racconti degli studenti riguardo ai casi di violenza fisica dei professori raccolti da Skuola.net, emerge che questi fatti riguardano soprattutto scuole medie e superiori. Ma purtroppo non sono rari anche episodi di violenza alle scuole elementari.
"Il prof ha messo il mio compagno sopra al balcone della finestra seduto sulla sedia minacciandolo di buttarlo giù".
"Un mio compagno delle elementari aveva preso una nota, e si era messo a piangere. La maestra per farlo smettere gli ha dato uno schiaffo, e subito dopo gli ha proposto che se non avesse detto niente ai suoi genitori dello schiaffo, avrebbe cancellato la nota. Che schifo...veramente".
"La mia compagna era stata interrogata in Tecnologia, quando la professoressa la chiama 'ciuccia' e gli tira uno schiaffo. Perché non sapeva una cosa."
"Un prof non sapendo gestire una ragazza che voleva altre informazioni sulla lezione, le ha tolto la sedia e tenendola per un braccio l'ha spinta verso il termosifone e per poco non ha sbattuto la testa."
"Un mio vecchio prof delle medie che ha preso a schiaffi ripetutamente un alunno che lo canzonava, creando una vera e propria rissa tra lui e il ragazzo, conclusasi dalla dirigente che ovviamente non ha minimamente reagito per non fomentare ulteriori lamentele all'interno della scuola."
"Sono stato picchiato dal mio prof di storia e umiliato (a parole) è successo solo una volta a, ma è stato bruttissimo." "Avevo suggerito una risposta durate il compito in classe quando improvvisamente la prof di inglese mi molla uno schiaffo in pieno volto".
"Parlo inglese molto bene, sono stata più volte in Inghilterra e amo le lingue in generale, durante la lezione di chimica in inglese ho una discussione col professore su una frase grammaticalmente terrificante, e lui, colto in fallo, si sente "preso in giro" perché l'ho corretto, e mi tira uno schiaffo in pieno viso...Ho dimenticato di dirvi che sono una ragazza? Comunque tutta la mia classe chiude un occhio sull'accaduto, ed io per paura di eventuali ripercussioni non lo denuncio alla presidenza. Giustizia? Ah, giusto, siamo in Italia."
"Un professore mentre stavo alla lavagna con una mia compagnia ci ha sbattuto la testa contro la lavagna perché non eravamo riuscite a fare un problema, mentre ad altri dava delle sberle."
"Una mia amica stava giocando con il filo del correttore a striscia ormai finito, la mia professoressa ha afferrato il filo e gliel'ha avvolto al collo lasciando degli evidenti segni viola. La professoressa ha in seguito negato tutto, trasferita in un'altra scuola ha picchiato un altro ragazzo mandandolo in ospedale per una ferita alla testa."
"Una professoressa di Italiano impediva a noi alunni di andare in bagno durante le lezioni, mi ricordo di una ragazza con dei problemi che fu costretta a rimanere in classe, che si fece la pipì addosso (poverina...) e la professoressa le diede due schiaffi. Successe più volte, si metteva in piedi sulla cattedra e urlava, e tirava schiaffi a coloro che parlavano o disturbavano...o quelli che non capivano le lezioni e chiedevano spiegazioni. La professoressa fu spostata dalla classe ad insegnare, alla mensa a servire, e qui ci furono problemi simili. Ora è stata spostata in un'altra scuola. Perché lo Stato, pur conoscendo queste situazioni, non licenzia queste persone? (Il medico della professoressa specificò che avesse dei problemi di salute mentale)."
"Ero in prima media… quando il prof di matematica mi tirò il quaderno in faccia dopo aver visto il disastro che avevo fatto su un'espressione, mi diede una spinta seguita dalla quadernata in faccia, tornai al mio posto piangendo e nessuno disse nulla. Quando c'era lui non si poteva fiatare."
"Frequentavo il terzo anno di Liceo Classico, la mia insegnante di Latino durante la correzione di una versione, mi chiese di tradurre un paragrafo senza leggere dal quaderno, avendo alcune difficoltà con la traduzione, mi chiese di consegnarle il mio testo per verificare, la traduzione era scritta in maniera corretta (avevo iniziato da poco a frequentare le ripetizioni) senza che avessi il tempo di spiegarmi iniziò ad urlare e avendo in mano il mio quaderno me lo tirò violentemente in testa e mettendosi a ridere."
"Stavo parlando con un mio compagno e per farmi finire di parlare mi ha preso per il collo e mi ha sbattuto con la testa sul banco."
"Il mio compagno di classe è stato chiamato "stronzo" dal mio professore di arte e si è arrabbiato, iniziando a fare polemica, il professore allora gli ha alzato il banco e gli ha chiuso la mano tra una scrivania e l'altra."
"Il mio prof. di matematica mi ha chiesto se avessi fatto o meno il compito e se mi fosse riuscito o meno. Al che gli ho risposto che sì, avevo provato a farlo (mentre gli mostravo la "brutta") ma che non sapendo come finirlo mi ero fermato. La sua reazione? Schiaffi nei denti e insulti a manetta per solo Dio sa quale ragione."
"Il mio professore di educazione fisica ha cercato di "stimolare" una ragazza non brava fisicamente con delle pallonate e dei calci. Mi stupisco ancora che i genitori non le abbiano creduto e che la scuola non sia intervenuta."
"Frequentavo ancora le elementari e la mia maestra dopo che per sbaglio avevo rovesciato la brocca dell’acqua mi prese per i capelli mi alzo dalla sedia a peso e mi spinse al muro facendomi restare in piedi e urlandomi in faccia che così avrei imparato a stare a tavola come si deve..."
INSULTI E UMILIAZIONI - Dalle storie di violenza verbale e psicologica di professori raccontate dagli intervistati da Skuola.net, emerge che gli insulti e le derisioni non riguardano solo il rendimento scolastico ma investono anche la vita privata e la sfera personale degli adolescenti. Ecco alcuni esempi:
"Mi ha chiamato "Asina" e sosteneva che i miei genitori non mi comprano mai niente."
"La prof mi ha insultato sulla mia razza e sulla povertà della mia famiglia."
"Un professore mi ha detto che non avrei mai fatto nulla nella vita, perché avevo un blocco verso le materie scientifiche, e che ero - letteralmente - una "cogliona". Tutto davanti ad altri miei compagni."
"Andavo molto bene nello studio ma il prof di grammatica mi prendeva sempre in giro per il mio fisico."
"Una volta un professore ha sottolineato il fatto che fossi obesa davanti alla classe, togliendomi di mano il pacchetto di cracker che stavo mangiando..."
"Mentre facevo ginnastica, non sono riuscita a fare correttamente un esercizio e urlò davanti a tutti che non peso poco e che devo allenarmi di più."
"La prof di italiano mi ha fatto passare come una malata di malattie infettive davanti a tutta la classe."
"Durante la lezione di educazione fisica non riuscivo a fare un esercizio e la prof ha iniziato ad insultarmi per il mio aspetto fisico davanti a tutti i miei compagni."
"La prof disse alla mia amica che non doveva mangiare perché era chiatta".
"Ha offeso una ragazza dicendole di essere grassa".
"Ero in seconda a fare ed. fisica e il professore con gli altri compagni maschi (eravamo solo in due ragazze) faceva notare a tutti quanto io non avessi seno."
"Leggeva il suo tema in classe (della mia amica) e la derideva."
"Commenti ed espressioni razziste nei miei confronti."
"Vengo continuamente insultata dalla mia professoressa di arte senza alcun motivo. Lei non può vedermi e mi urla dietro costantemente che sono una bambina viziata, che sono vuota e stupida, che non mi picchia solo perché si sporcherebbe le mani e continua a mettermi insufficienze immeritate. Vado a scuola col terrore di incontrarla."
"Una volta la prof di francese mi fece stare tutta l'ora di lezione sulle punte perché ero bassa e dovevo crescere (a 17 anni!)...un' altra volta invece mi portò in un'altra classe e mi invitò a leggere un brano dicendo "leggi questa pagina, ragazzi lei balbetta...ora ci facciamo quattro risate!"...volevo morire!"
"Sono stata offesa per il mio aspetto fisico."
"Il prof ha iniziato a dire che ero grasso e ignorante e poi che Napoli (dove sono nato, adesso abito a Latina) deve bruciare."
"Hanno dato della prostituta ad una mia amica, solo perché usciva spesso dalla classe per andare in bagno, e l'insegnante ha esordito con "Scusami sulla statale non ci sono bagni che devi venire qui".
"La prof mi diceva di buttarmi in un fiume perché non servivo a niente: così avrei fatto contento i miei genitori".
"Un ragazzo obeso è stato offeso chiamandolo ciccione, mangione, babbo natale e amico palla."
"Ha preso in giro il suo peso paragonando il ragazzo a una foca di un circo che ingurgita panini."
"La prof ha iniziato a parlare male di noi di colore dicendoci che dovevamo tornare tutti nei nostri paesi."
"Mi è stato dato della cicciona, brutta e permalosa alle scuole medie."
"Mi ha dato della troia senza futuro, o almeno un futuro da prostituta."
"Una ragazza con problemi psichici e mentali è stata sgridata davanti a tutti e mandata fuori dall'aula, davanti alla porta (aperta) per due ore, senza sedia, perché non era attenta".
"Discutendo di omosessualità, un ragazzo dichiaro di essere "diverso". Il prof lo allontanò schifato."
"Battute sarcastiche sulla sua disabilità."
"Una professoressa si è messa a correggere una verifica di una ragazza con problemi di dislessia ad alta voce urlandole nel momento in cui aveva fatto un errore e mettendola a disagio con il resto della classe."
Violenze psicologiche nella scuola… due storie che devono far riflettere, scrive Federica Cirillo su "Radio Made in Italy" il 4 novembre 2013. È un’orrenda storia questa, che viene spesso nascosta in questa società. Se ne parla poco e si fa soprattutto poco per aiutare coloro che hanno subìto mobbing. Il termine significa “emarginazione” e precisamente “violenza psicologica”. Sono tantissimi i casi in Italia, si verificano maggiormente in campo lavorativo ma spesso nelle scuole di qualsiasi ordine e grado. I bambini più piccoli che vengono trattati in maniera differente dai loro maestri, non raccontano certe volte ai propri genitori cosa accade nelle aule. Casi orrendi del genere capitano di più nelle scuole secondarie di secondo grado. Alcuni docenti sono capaci di rovinare psicologicamente un/a alunno/a, approfittando magari della debolezza della persona, della timidezza, della troppa bontà. I professori hanno un ruolo importantissimo nella vita di uno studente, in particolare quel docente che passa più ore in una classe, perché l’umore quotidiano, il carattere, i modi di pensare e di agire influiscono sulla psicologia di un adolescente, che ha molto da imparare nella vita e spesso non si accorge di aver di fronte gente sbagliata. È purtroppo facile per un insegnante essere la causa di un male. Un professore è in grado di abbattere uno studente ed è in grado allo stesso tempo di gratificarlo. Ci sono ragazzi che hanno un ricordo pessimo degli anni del liceo, a questo punto ci si chiede il perché. Perché uno studente deve ricordare con angoscia gli anni più belli della propria vita? Tutto questo per colpa di un professore che si è permesso di “giocare”, di “scherzare” con la mente tenera di un alunno in fase di crescita. A questo punto riportiamo le parole di un ragazzo di diciannove anni che ha subito mobbing da parte di un docente al liceo: “È inammissibile che un docente debba approfittare della sua carica senza mettersi minimamente nei panni di uno studente. A me nel primo anno di liceo ad esempio è capitato di essere stato più volte messo da parte da alcuni docenti per farmi poi dire che io ero l’elemento più negativo della classe intera. Mai una volta che mi chiedessero se il mio rendimento fosse dovuto al fatto che avessi bisogno di una mano. Peggio ancora quanto mi accadde l’anno dopo in cui, in mia assenza, la docente esortò letteralmente gli alunni a tenermi in disparte in quanto secondo lei ero un elemento non adatto ad un liceo, ma bensì da riformatorio. Delle volte vorrei tornare di qualche anno indietro per poter denunciare tutto. I professori per approfittare della loro carica superiore alla nostra si prendono la briga di usare aggettivi troppo pesanti da dover attribuire agli alunni, come “animali” o “malati”. Nella mia scuola, per delle difficoltà che avevo a capire delle cose hanno preferito sostenere che io fossi malato, avessi bisogno di uno psicologo piuttosto che aiutarmi. Addirittura è capitato che alcuni insegnanti si siano permessi di dire ai genitori che il proprio figlio avesse bisogno di farmaci. Così non fanno altro che distruggere un adolescente moralmente. Sono dell’idea che molti complessi di molti adolescenti derivino anche dall’atteggiamento di molti professori”.
Un’altra esperienza negativa, da parte di una studentessa, è qui riportata:” Durante il biennio al liceo, ho avuto una docente che è stata capace di farmi sentire una perfetta idiota. Avevo perso la stima in me stessa, credevo di non avere capacità. Questa insegnante mi ha fatto paura sin da subito, ancora oggi torna nei miei incubi di notte. Mi è capitato addirittura di prendere voti molto bassi per delle interrogazioni per me invece andate a buon fine. Ma per la mia insegnante avrei dovuto limitare la mia esposizione orale. La volta successiva ho preso lo stesso voto e per la mia docente questa volta avevo parlato troppo poco. Una vera, grande contraddizione! Ancora oggi non ho capito cosa andava male nelle mie interrogazioni. So solo che, cambiando classe, trovando dei professori umani ho ritrovato la mia pace, la stima in me stessa, ho ritrovato la gioia andando a scuola, la felicità avendo voti che merito davvero. Oggi sono tornata ad essere quella di sempre, felice, allegra e gioiosa, devo molto ad una mia nuova insegnante che sin dall’inizio ha compreso il mio tormento, la mia paura, per lei inesistente e inammissibile tra i banchi di scuola. Di questa brutta storia ho solo ricordi cattivi, che si stanno allontanando sempre di più da me. Consiglio a tutti i ragazzi che si trovano in una situazione simile di far presente tutto, di denunciare simili episodi e di non perdere mai la fiducia in se stessi”. Dopo queste dichiarazioni si arriva alla conclusione che la vita spensierata dei giovani a scuola non può essere rovinata dai docenti. Il percorso di crescita deve essere progressivo, non portare i ragazzi allo sconforto, la presenza di un insegnante serio ma soprattutto umano è molto importante. Per gli insegnanti è quasi normale andare a scuola, far ricadere sulla classe tutti i problemi della propria vita e prendersela con qualcuno di loro. Ogni studente può reagire in maniera differente, ma quando si tratta di violenza psicologica, quasi fissazione, voglia di stuzzicare un alunno, un adolescente non riesce più ad avere una vita serena nella scuola. I docenti dovrebbero riflettere un po’ di più prima di fare violenza psicologica, perché andare a scuola significa imparare a vivere bene con gli altri, apprezzando se stessi, comprendendo i propri errori sbagliando, non per essere isolati, non per essere aggrediti, non per essere maltrattati. Lo studente è un essere umano che ha dei diritti. Se alcuni docenti lo hanno dimenticato è bene farlo presente.
L’ITALIA DELL’ILLEGALITA’. MINORI DEI 14 ANNI ACCOMPAGNATI A SCUOLA: LO IMPONE LA LEGGE.
Scuola media. A scuola da soli o accompagnati? Cosa dice la legge, come la pensa la ministra, cosa fanno i presidi Una sentenza della Cassazione, che ha confermato la condanna di presidi e docente di una scuola, fa tornare di attualità il tema dell'accompagnamento a scuola dei ragazzini della scuola media, scrive Giovanna Antonelli il 27 ottobre 2017 su "Rai News". Gli studenti minori di 14 anni vanno consegnati a un maggiorenne alla fine delle lezioni. I genitori che la pensano diversamente, secondo la ministra Fedeli, dovranno farsene una ragione e trovare soluzioni alternative se non possono prenderli loro al termine dell'orario scolastico. "Questa la legge. Credo che anche i genitori devono esserne consapevoli. Le scelte dei presidi sono collegate a leggi dello Stato italiano. Per cambiarle serve un'iniziativa parlamentare". La ministra dell'Istruzione, Valeria Fedeli, interviene così sul dibattito relativo all'obbligo di vigilanza sui minori all'uscita dagli istituti scolastici, anche in seguito a una recente ordinanza della Cassazione.
Cosa ha detto la Cassazione La vicenda su cui la suprema Corte ha espresso la sentenza è relativa alla morte di un ragazzino di 11 anni a Firenze quindici anni fa. Era uscito da scuola ed è stato investito da un autobus. La Cassazione ha ritenuto che il coinvolgimento di un minore in un incidente fuori dal perimetro scolastico non esclude la responsabilità della scuola. Secondo i giudici l'obbligo di vigilanza in capo all'amministrazione scolastica, discendeva da una precisa disposizione del Regolamento d'istituto, ma il ministero dell'istruzione precisa che la responsabilità della scuola sussiste non solo se il Regolamento di istituto impone al personale scolastico compiti di vigilanza: "In realtà - si legge in una nota del ministero di Viale Trastevere - la responsabilità della scuola si ricollega più in generale al fatto stesso dell'affidamento del minore alla vigilanza della scuola". Cosa dice la Legge La differenza tra un alunno delle scuole medie e uno delle superiori è nell’art. 591 del codice penale, che recita testualmente: "Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici [...] e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni". Nel codice penale è specificato che per i minori di quattordici anni è prevista una presunzione assoluta di incapacità. Quindi seppure entrambi minori, esiste una differenza sostanziale tra un tredicenne e un sedicenne. Quest'ultimo infatti può tranquillamente uscire da solo da scuola, può prendere la patente per il motorino e se, vuole, può anche andare all'estero da solo.
Se un genitore firma una liberatoria? E sempre secondo la legge a nulla servirebbero le cosiddette “liberatorie” firmate dai genitori che solleverebbero la scuola da ogni responsabilità Questo perché secondo la legge il minore di 14 anni sarebbe considerato “incapace” e quindi la sicurezza dei minori non sarebbe un bene giuridicamente disponibile, né da parte dei genitori né da parte del personale scolastico.
"Abbandono di minore" Il tema dunque è delicato, e pur davanti alla recente sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna di un docente e un preside per non aver consegnato a un adulto un bambino uscito da scuola (e poi morto investito da un bus), l’art 591 del codice penale può essere oggetto di interpretazioni diverse in quanto nello specifico si parla di “abbandono di minore”. E nel caso di un tragitto casa scuola ben definito, di cui sono consapevoli sia genitore che docente, possibilmente anche monitorato tra mite le nuove tecnologie (smartphone) e in presenza di una dichiarazione in cui il genitore solleva la scuola di ogni responsabilità una volta terminato l’orario scolastico, probabilmente la giurisprudenza potrebbe rilevare che l’abbandono di minore” in questo caso non sussista.
Cosa dice la ministra "Le scelte e le decisioni dei presidi, in materia di tutela dell'incolumità delle studentesse e degli studenti minori di 14 anni – ha continuato la ministra Fedeli - sono conformi al quadro normativo attuale, come interpretato ed applicato dalla giurisprudenza. Una questione di assunzione di responsabilità nell'attuazione di norme che regolano la vita nel nostro Paese, pensate per la tutela più efficace delle nostre e dei nostri giovani". "Le leggi e le pronunce giurisprudenziali, come quella della Cassazione, vanno rispettate - prosegue la ministra - e se si vuole innovare l'ordinamento su questo tema occorre farlo in Parlamento, introducendo una norma di legge che, a certe condizioni, dia alle famiglie la possibilità di firmare liberatorie che sollevino da ogni responsabilità giuridica, anche penale, dirigenti e personale scolastico al termine dell'orario di lezione". Quindi allo stato dell’arte l’unica cosa possibile è una correzione della legge che permetta al genitore di sollevare completamente la scuola dalle responsabilità di affido. Simona Malpezzi, responsabile Scuola del Partito Democratico ha annunciato di essere al lavoro per preparare una proposta di legge “che intervenga per risolvere una situazione che sta creando comprensibili disagi tra i genitori e il personale della scuola".
Scuola e genitori. A scuola da soli o accompagnati? Un genitore su due viola la legge secondo sondaggio di Rainews.it Il 56 per cento dei nostri lettori ha ammesso di mandare i propri i figli minori di 14 anni a scuola da soli. Il 22 per cento soltanto se necessario e il 22 ha detto di mandarli accompagnati. Un'altissima percentuale, dunque, ha ammesso seppure anonimamente di violare una legge dello stato. Quella stessa legge che la ministra Fedeli ha sottolineato essere a tutela del minore e quindi da rispettare. A scuola da soli o accompagnati? Cosa dice la legge, come la pensa la ministra, cosa fanno i presidi Scuola, Fedeli: sull'accompagnamento dei minori si attuano le leggi dello Stato, scrive Giovanna Antonelli il 28 ottobre 2017 su "Rai News". Tra i genitori di figli adolescenti in questi giorni non si parla d'altro. Mandare i figli a scuola da soli: un azzardo, un diritto, una necessità o soltanto una possibilità? Una cosa è certa: nelle chat di classe è un botta e risposta continuo tra chi posta sentenze della Cassazione, chi invia circolari ministeriali e informative dei presidi e chi fa battute sulla ministra Fedeli e sulla sua idea di coinvolgere i nonni nell'accompagnamento dei figli. E poi ci sono gli estremisti: quelli che ritengono pericoloso permettere a dei tredicenni di andare e venire da soli da scuola e quelli invece che bollano come anticostituzionale la pretesa dei presidi di affidare il minore a un adulto. Il sondaggio che abbiamo lanciato ieri su twitter tra i nostri lettori ci offre uno spaccato che, seppure non indicativo, sottolinea l'esigenza da parte dei genitori di poter gestire autonomamente le entrate e le uscite dei propri figli. Il 56 per cento dei nostri lettori ha ammesso di mandare i propri i figli minori di 14 anni a scuola da soli. Il 22 per cento soltanto se necessario e il 22 ha detto di mandarli accompagnati. Un'altissima percentuale, dunque, ha ammesso seppure anonimamente di violare una legge dello stato. Quella stessa legge che la ministra Fedeli ha sottolineato essere a tutela del minore e quindi da rispettare. Un tema che fa discutere. E servirebbe una legge A prescindere dal risultato del sondaggio di sicuro il tema divide. E se è vero che le cose cambiano da nord a sud e differenti sono gli approcci dei genitori a seconda anche del posto in cui si vive, è anche vero che da una certa età in poi si sente l'esigenza di rendere i propri figli più indipendenti anche sperimentando uscite solitarie o in compagnia dei coetanei. Giusto sarebbe, a questo punto, che la decisone ultima spettasse al genitore soltanto. E a lui soltanto fosse demandata la responsabilità nei confronti del figlio minore. Una legge che contemplasse questa possibilità e che liberasse una volta per tutte l'istituzione scolastica dall'obbligo di vigilanza al di fuori delle mura scolastica e al di fuori dell'orario canonico probabilmente sarebbe sacrosanta. E darebbe a ogni genitore la possibilità di scegliere in completa autonomia e responsabilità.
MINORI ACCOMPAGNATI A SCUOLA: LE LEGGI NEGLI ALTRI PAESI EUROPEI, scrive Paolo Padoin sabato 28 ottobre 2017 su "Firenze post". Una recente sentenza della Cassazione ha confermato la condanna di un docente e di un preside per non aver consegnato a un adulto un bambino uscito da scuola (e poi morto investito da un bus). Subito un putiferio di polemiche sociali e politiche in Italia, mentre la situazione negli altri paesi europei presenta risvolti e caratteristiche diversi. Non ci sono leggi particolari in Europa sull’entrata e l’uscita dei minori, in particolare degli alunni delle medie, da scuola, e sono tanti i bambini e i ragazzi che vanno per loro conto alle lezioni. Anche se, segno dei tempi, il livello di attenzione è salito ed è aumentato il numero di famiglie che normalmente accompagna i propri figli, specie i più piccoli.
BELGIO: a Bruxelles, nella scuola pubblica, a partire dai 12 anni, gli studenti possono lasciare l’edificio da soli al termine delle lezioni. Lo spiegano dall’ufficio dell’assessorato alla Scuola della città. Lo stesso vale per tutta la regione francofona della Vallonia. E anche nelle Fiandre, fanno sapere dall’ufficio stampa del governo fiammingo, non ci sono leggi che regolano la questione e gli studenti dai 12 anni in poi possono lasciare la scuola da soli. Fanno eccezione le scuole private: in alcune occorre l’autorizzazione dei genitori.
GRAN BRETAGNA non c’è una legge particolare che obblighi i genitori ad accompagnare a scuola i figli: la decisione è affidata al buon senso delle singole famiglie. Negli anni comunque l’atteggiamento dei britannici è cambiato radicalmente. Basta pensare che negli anni Settanta quasi ogni 11enne nel Regno andava a scuola da solo mentre oggi solo il 55% lo fa. Molte amministrazioni locali consigliano alle famiglie di accompagnare i loro figli se hanno meno di 8 anni.
FRANCIA: non c’è nessuna legge o nessun regolamento che impedisca ai ragazzi delle scuole medie di uscire da soli da scuola al termine dell’orario. L’unica condizione riguarda proprio l’orario d’uscita. I genitori, all’inizio dell’anno, devono prendere conoscenza – comprovandolo con la firma – dell’orario delle lezioni del proprio figlio. Poi, devono autorizzare – sempre per scritto e una volta per tutto l’anno – il ragazzo a lasciare la scuola da solo. Un’ulteriore autorizzazione è richiesta per consentire allo studente di lasciare in anticipo rispetto all’orario previsto l’istituto in caso di assenza di un professore all’ultima ora.
GERMANIA: non esiste una legge che regoli l’età a partire dalla quale un bambino possa andare da solo a scuola. Ma la prassi è quella di incentivare il ritorno a casa dei bambini da soli, a partire dal sesto anno di età. A spiegarlo all’ANSA è il portavoce dell’Amministrazione del Senato di Berlino, del reparto Istruzione Scuola e giovani. Ovviamente molto dipende dal caso: si valuta la maturità del bambino e il tratto da percorrere per raggiungere la scuola. La normativa prevede il cosiddetto “Aufischtpflicht”, l’obbligo di supervisione per i genitori regolato dall’articolo 1631 del codice civile. È dovere del genitore, infatti, curare educare e vigilare sul minore. Ma il legislatore pone attenzione anche al diritto di sviluppare l’autonomia del bambino: l’articolo 1626 del codice dispone che nella cura e nell’educazione si debba tenere conto dello sviluppo crescente delle capacità e del crescente bisogno del bambino di agire in modo autonomo e consapevole della responsabilità.
Come si può notare solo in Italia legislatori mammoni e giudici mammoni tengono fermo un vincolo che ormai appare anacronistico, anche se purtroppo i pericoli che un ragazzo potrebbe incrociare durante il percorso casa – scuola sono fortemente aumentati.
Il 7% degli alunni raggiunge l'aula da solo. In Germania il 70%... siamo genitori apprensivi e ci ostiniamo a chiuderli in auto. Perché soltanto noi italiani accompagniamo i bambini a scuola, scrive Antonio Pascale il 14 marzo 2013 su “Il Corriere della Sera". Noi genitori italiani accompagniamo i nostri figli a scuola. Siamo in tanti, una moltitudine, rispetto agli altri Paesi. Lo conferma anche lo studio dell’Istc-Cnr promosso dal Policy Studies Institute di Londra — un’indagine che riguarda 15 Paesi del mondo, tra cui Italia e Germania. Ebbene, l’autonomia di spostamento dei bambini italiani nell’andare a scuola è passata dall’11% nel 2002 al 7% nel 2010. Per fornire un metro di paragone l’autonomia dei bimbi inglesi è al 41% e quella dei tedeschi al 40%. È uno dei pochi casi di studi superflui. Basta osservare le dinamiche del traffico in orario scolastico. Noi italiani causiamo ingorghi a croce uncinata e spesso posteggiamo le macchine in doppia fila perché non ci basta avvicinare i ragazzi alla scuola, no, desideriamo portarli per mano fino in classe. E non finisce qui.
Noi genitori italiani ci azzuffiamo nei consigli di classe con i professori se lo zaino dei nostri figli supera un certo peso. Non siamo rubricati tra i lettori forti di studi medici e scientifici ma siamo pronti a citare i risultati degli ultimi report che spiegano perché uno zaino troppo pesante potrebbe causare irreversibili danni psicofisici ai nostri figli.
Noi genitori italiani parcheggiamo in doppia fila, causiamo ingorghi — oltre a produrre smadonnamenti e urla di disperazione degli altri cittadini — e in questo bailamme, noi, con calma zen aspettiamo che escono da scuola i nostri pargoli e ci accolliamo il loro zaino, così che possano fare i cento metri che separano scuola da casa liberi da pesi ingombranti. Noi genitori italiani parliamo continuamente di cibo e vogliamo che i nostri figli assaggino solo quello sano, genuino e biologico, sempre a chilometro zero, però come ci piace cucinare per loro porzioni abbondanti, come se il cibo «sano» non contenesse calorie, e come poco ci piace, invece, costringerli a muoversi a piedi: no, poveri figli, piove, nevica, c’è l’uragano, copriamoli bene e accompagniamoli, in macchina che tra l’altro lo zaino è pesante.
Noi genitori italiani, naturalmente riconosciamo che sì, accompagnare i figli è motivo di stress per noi e per il traffico italiano, però riuniti in conciliaboli nei bar (macchina in doppia fila) dopo aver accompagnato i figli a scuola, discutiamo e stabiliamo che purtroppo, vista e considerata la situazione odierna, non c’è rimedio: i nostri figli a scuola a piedi no, proprio no. Ma naturalmente siamo lirici: ah, ai nostri tempi, allora sì che la città era sicura e si poteva andare a piedi, non come oggi.
Noi genitori eravamo forti e tosti, giocavamo nella terra, facevamo a botte (ancora oggi facciamo a gara: chi ha più punti per ferite da sassaiole), sfidavamo maniaci e altri loschi figuri e purtroppo, ora, i nostri figli tutto questo non possono farlo: la città è così trafficata si può finire sotto una macchina (vero, visto tutti i genitori che accompagnano i figli a scuola), dovunque zingari, strane figure, e lestofanti vari. Niente, ci tocca proteggerli, chiuderli in macchina. Purtroppo.
Poi a qualcuno di noi genitori a volte capita di finire in Germania, in Inghilterra, in Francia e di notare lunghe file di bambini e ragazzi che vanno a scuola, da soli, fin da piccoli, a piedi. Che sorpresa. Forse, pensiamo, in quelle città civili non esistono criminali per le strade e tutto è più ordinato e civile. Poi ci rendiamo conto che lì, sì, è tutto più civile, perché nei consigli di classe invece di pesare con bilance al quarzo lo zaino dei figli, si lotta anche e soprattutto per avere più bus in alcune fasce orarie, per ottenere percorsi protetti per bambini, o ci si organizza per il trasporto con mezzi comuni. Anni fa, quando nacque mio figlio e spingevo di notte la culla per farlo addormentare, mi capitò di vedere in tv un’intervista a Colin Ward. Gli chiedevano del pensiero utopistico, se esisteva o non esisteva. Lui rispose sì, esiste, ma si occupa di tre cose, le città, come le costruiamo e per chi le costruiamo, i bambini e le automobili (come fare a prenderle il meno possibile). L’utopia dunque si sposava con buone pratiche quotidiane, e quest’ultime, purtroppo, dipendono da noi e non da generici altri: tocca muoverci, quindi. A piedi, si intende.
Si cresce se si è accompagnati all’autonomia più che nel tragitto casa-scuola, scrive il 28 ottobre 2017 Stefania Andreoli il 28 ottobre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il giovedì ricevo in studio Edoardo, dodici anni. Lo scorso anno scolastico - frequentava la prima media - non è mai rientrato dalle vacanze di Pasqua. Aveva la media del nove, e tanta paura. Grazie alla sua condotta esemplare, alle mancate assenze fino a quel momento e ai risultati scolastici eccellenti, il lavoro di rete tra la scuola, la famiglia ed io ha fatto sì che chiudesse l’anno con una promozione. Comunque, meritata. A giugno non era andato nemmeno a vedere i quadri, troppa ansia. Anche se già conosceva l’esito favorevole del suo annus horribilis, per lui la scuola era diventata comunque infrequentabile. Fino all’11 settembre 2017. Nel mio mestiere - anche se taluni lo credono! - non ci viene data in dotazione la capacità di leggere né nella mente, né il futuro. Tuttavia è certamente vero che conoscere il funzionamento degli esseri umani e sapere fare diagnosi corrette, consente anche di immaginare la prognosi. La mia personale previsione in consiglio di classe e con la famiglia era stata: che l’estate ci assista. Se Edoardo finito l’anno scolastico riuscirà ad andare qualche volta in piscina con gli amici, verrà invitato almeno ad una festa, riceverà le notifiche WhatsApp del gruppo dei compagni su come vanno le vacanze, ci sarà di grande aiuto per uscire da questa empasse. Ovvero: ci serviva un po’ di adolescenza. Meno famiglia e più coetanei. Meno mondo interno e più mondo esterno.
«Sai che ho trovato la mia cura?» Edoardo ad oggi non ha mancato un giorno di scuola e ha persino preso un bellissimo quattro in geografia. Non credo ci vedremo ancora per molto, ma i saluti - si sa - sono una faccenda seria, di cui avere rispetto. «Vai, dimmi tutto». «…Sono i miei amici. Mi passano a prendere in bici la mattina, e poi torniamo a casa insieme. Facciamo un po’ gli scemi, te ne racconto una dell’altro giorno tanto so che non puoi dirlo alla mamma…». La Ministra Fedeli intervistata durante la trasmissione Tagadà ha dichiarato che i genitori dovranno prendere i figli fino a quattordici anni fuori da scuola alle due, o comunque mandare un adulto a cui l’istituzione è tenuta a consegnare gli studenti, a seguito delle circolari di cui le scuole si sono dotate per tutelarsi dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso del Ministero, condannato a pagare parte dei danni morali ad una famiglia che perse il figlio undicenne alla fermata del bus quattordici anni fa. Dura lex sed lex. Non ammette ignoranza né insurrezioni dei genitori sui social. Sul fatto che possa intervenire solo il Parlamento, naturalmente sto. Non entro nemmeno sulle incongruenze della questione, che pur ci sono. Condivido piuttosto una riflessione, maturata lavorando con i ragazzi (di cui Edoardo, non crediate il contrario, è un esempio ampiamente rappresentativo), e la psicologia delle famiglie e delle istituzioni.
Uno degli scopi degli adulti è di crescere altri adulti. Oltre ad essere la natura a stabilirlo, conviene anche alla cultura perché tra le caratteristiche dell’essere adulti, una è che il requisito stesso per rispettare la legge è una conquistata maturità, il raggiungimento di una competenza morale che finisca per farci trovare connaturato - o quasi - allinearci al codice condiviso che regola l’ordine sociale. Faccio un esempio: non piace a nessuno prendere una multa, è una bella seccatura. I più adulti non si metteranno nelle condizioni che nemmeno accada. (Alcuni anziché particolarmente maturi, saranno forse solo un po’ troppo nevrotici, ma il risultato non cambia). I più sani perlopiù non commetteranno infrazioni, ma quella volta con le quattro frecce in doppia fila se la concederanno. Proprio perché può capitare, è prevista una sanzione. La pagheranno, rovinandosi un pezzettino di giornata. I meno adeguati moralmente prenderanno la multa e ignoreranno cosa doversene opportunamente fare. Come i bambini, penseranno di essere nel giusto e di dover avere il diritto di rispondere solo ai propri bisogni, senza ammettere che nulla li perturbi, né ricambiare in alcun modo. Luigi Zoja, li chiamerebbe i “lattanti psichici”.
Se per diventare prima grandi e poi adulti occorre prendere le misure del mondo, trovo un cortocircuito nel fatto che la società si regga su un impianto di regole per conformarsi in modo felice alle quali, occorra essere adulti. Quegli stessi adulti che non mi sembra stiamo più favorendo i nostri figli a diventare, tenuti dipendenti e irresponsabilizzati persino nel tragitto tra scuola e casa. Tra quelle che da sempre sono le due maggiori agenzie educative al servizio della crescita.
FOTO DI CLASSE? ADDIO!
Chi non conserva la foto di gruppo della sua classe delle elementari o delle medie? Siamo stati fortunati. Non c’erano ancora la privacy e dirigenti scolastici che ne hanno fatto un tabù, applicandola a sproposito.
Foto di classe di spalle, docenti e sindacati: «Il rito non va cancellato. È tra i ricordi più belli»
Il mondo della scuola, tra “prof” e sigle, si schiera largamente per la tradizione. Pure il vademecum dell’Authority predica attenzione ma salva lo scatto di fine anno, scrive Marco Ballico l'8 giugno 2018 su “Il Piccolo”. La prima volta, metà marzo di quest’anno, a Borgo San Lorenzo nel Mugello in Toscana: la preside della direzione didattica locale vieta via circolare «foto e riprese a minori in ambito scolastico, compresa la foto di classe». Quelle immagini che teniamo infilate nelle pagelle vintage, negli album ingialliti, nel trumeau, e che adesso, secondo qualcuno, non si possono più scattare. Perché così imporrebbe la privacy (ma non è così, come vedremo, in base alla regolamentazione vigente). Dopo la Toscana, anche il Friuli Venezia Giulia, dunque. Nell’era dei selfie ovunque, di Facebook e WhatsApp, la dirigente scolastica del comprensivo di Cervignano Tullia Trimarchi si pone il problema, ne discute in Consiglio d’istituto e condivide la decisione di «regolamentare» la foto: niente clic di gruppo all’interno dell’edificio scolastico, perché non si tratta di attività che rientra nel Pof, il Piano triennale dell’offerta formativa. E poi arriva Grado, l’immagine che non t’aspetti, la provocazione per fare emergere un problema che Ugo Previti, segretario regionale della Uil Scuola, riassume così: «Quando è troppo, è troppo». Mentre Igor Giacomini, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale, taglia corto: «Le foto di fine anno scolastico sono uno dei più bei ricordi della vita, non capisco perché volerli cancellare. E poi non costano, non sono reato, non violano le norme, mi pare che su questo tema si stia facendo una polemica sterile». A sentire gli uffici del Garante per la protezione dei dati personali, infatti, non c’è alcun bisogno dell’altolà. Il Gdpr, il nuovo Regolamento sulla privacy applicato dal 25 maggio, non introduce alcun cambiamento rispetto alla precedente normativa. Dall’Autorità presieduta da Antonello Soro rimandano così al vademecum “La scuola a prova di privacy” del novembre 2016 in cui si precisa che «non violano la privacy le riprese video e le fotografie raccolte dai genitori durante le recite, le gite e i saggi scolastici». E dunque, verosimilmente, anche le foto di fine anno. «In questi casi – prosegue il vademecum – le immagini sono raccolte per fini personali e destinate a un ambito familiare o amicale e non alla diffusione». Attenzione va però prestata, insiste il Garante, all’eventuale pubblicazione delle stesse immagini su internet, in particolare sui social. «In caso di comunicazione sistematica o diffusione diventa infatti necessario, di regola, ottenere il consenso informato delle persone presenti nelle fotografie e nei video». Cesira Militello, la dirigente scolastica del liceo Petrarca di Trieste, insiste proprio sulla regolarità delle operazioni di raccolta delle autorizzazioni dei genitori dei minori e cita le immagini pubblicate nel sito della scuola, a partire dalle Petrarchiadi. «Sarebbe un peccato non documentare questa e altre straordinarie manifestazioni – osserva la professoressa –. L’autorizzazione, che faccio in modo di verificare sempre in situazioni del genere, ci consente di procedere. Così come, per quel che riguarda l’annuario, che è in circolazione esclusivamente nel perimetro della scuola, non ci sono mai state criticità». E così Anna Condolf, dirigente al Polo liceale e reggente al D’Annunzio - Fabiani di Gorizia: «Sono una preside di buon senso: non mi pare che, dopo tanti chiarimenti del garante, sia necessario enfatizzare ancora un presunto rischio foto. A inizio anno è buona norma farsi autorizzare da famiglie e studenti e poi vigilare che le immagini non escano dall’ambito scolastico. La provocazione di Grado? Non conosco i fatti, presumo tuttavia che si sia agito dopo un confronto, che è sempre la cosa migliore da fare». A difesa della foto ricordo sono anche i sindacati. Previti è il più deciso: «Arriviamo sempre all’estremo in Italia, mai che si riesca a trovare un equilibrio serio. Non so a cosa porterà la provocazione di Grado, ma chi l’ha voluta ha fatto bene – rimarca il segretario di categoria della Uil –. Ragazzi e insegnanti sono contenti di farsi una foto e di tenersela come ricordo. A questo punto arriveremo a vietare tutto ciò che abbiamo in archivio». «I mezzi informatici sono micidiali – interviene anche Adriano Zonta, segretario della Cgil Flc del Fvg –: se utilizzati male, sono disastrosi per l’educazione. E dunque è auspicabile che a scuola si faccia innanzitutto formazione sul loro uso. Non solo sui bambini, ma pure sugli adulti. Dopo di che, se c’è il consenso, non c’è dubbio che la foto ricordo è qualcosa che resta tutta la vita e non crea alcun pericolo». Sulla stessa linea Donato Lamorte della Cisl Scuola: «A fine anno tutti i ragazzi sono contenti, festeggiano il momento di andare in vacanza e la fine di un periodo lungo mesi fatto di impegni e studio. Credo che parlare di tutela della privacy, tanto più con la possibilità dell’autorizzazione dei genitori, sia in questo caso del tutto esagerato».
Grado, foto di classe proibita per la privacy: alunni di schiena per protesta. I ragazzini della prima elementare della località in provincia di Gorizia hanno trovato l'escamotage per avere almeno una immagine a fine anno scolastico. il preside aveva infatti detto no per rispettare il diritto alla riservatezza, scrive l'8 giugno 2018 "La Repubblica". Foto di fine anno scolastico. Tutti ne abbiamo, per la gioia di giochi di memoria, tra faticosi tentativi di riconoscersi in quei ragazzini spettinati tanti anni dopo. Adesso tutto è cambiato, e per gli alunni di una prima elementare di Grado, come racconta Il Piccolo, sarà veramente difficile, nonostante occhiali o impegno, identificare chi era la vicina di banco, dove era lo studioso, quello spiritoso o anche semplicemente riconoscersi. Avranno insomma una bella difficoltà a capire chi era chi. Perché? si sono fatti immortalare tutti di schiena. Tra risate e sfottò, davanti ai genitori che hanno assistito alla scena filmando con i telefoni e mandando poi le immagini sui social. Il motivo di questa rivoluzione stilista e fotografica che rompe con tradizioni quasi secolari? La preside dell'Istituto Adriana Schioppa, la dirigente scolastica già agli onori della cronaca per aver obbligato per mesi i genitori a venire a prendere di persona i figli alla fine delle lezioni delle medie di Grado e Ronchi dei Legionari - è più importante la privacy di un bel ricordo. Il risultato è la foto vista dal lato B. Sembra che tutte le famiglie avessero dato la liberatoria d’inizio anno ma la preside ne pretendeva altre, di volta in volta. Ma trovare sempre tutti i genitori non è facile. Ecco allora che le maestre, pur di poterla fare e vedersela pubblicare, la foto ricordo, hanno trovato l’escamotage.
Grado, i bambini di spalle nella foto di classe e la polemica sulla privacy. La scuola: «Strumentalizzata». L’immagine ritrae i bimbi di una prima elementare, ripresi di spalle durante un evento di fine anno. Il dirigente scolastico però spiega: «Faceva parte di un progetto, è stata scattata così volontariamente, non è la foto di fine anno», scrive Annalisa Grandi l'8 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Una foto di una classe, bambini e insegnanti ripresi di schiena. Uno scatto che immortala una prima elementare dell’Istituto Comprensivo Marco Polo di Grado. Ed è subito polemica. Perché nell’immagine, tutti i bambini sono di schiena, non si vedono le facce. Una scelta per «tutelare la privacy» dei bambini, per non mostrare i loro volti, si legge in Rete. Una decisione della preside Silvana Schioppa, in assenza di una liberatoria di tutti i genitori, si legge ancora. E quindi ecco che maestre e bimbi si sono messi di spalle, per avere comunque una foto ricordo. Seppur senza volti, naturalmente. Un’immagine che è presto rimbalzata sui social, e che ha scatenato commenti e polemiche. La versione della scuola, su quanto accaduto, è però diversa. Il collaboratore del dirigente scolastico e la preside stessa spiegano che quell’uscita dei bimbi faceva parte di un progetto, e che i piccoli stavano svolgendo il «Gioco dell’oca delle Quattro Stagioni». «È una delle tante foto, che immortala un momento di quella giornata». Non la foto ricordo di fine anno, che spiega «Ci sarà, e con i bambini ripresi in volto», ma un’occasione precisa, e un’immagine scattata così volontariamente, spiegano dall’Istituto. Ed è la stessa preside ad aggiungere: «Siamo indignati per questa strumentalizzazione al fine di speculare su un argomento fortemente sentito in questo periodo come quello delle regolamento europeo sulla privacy».
Privacy, niente foto di classe all’interno della scuola: si farà fuori dall’istituto. “Per salvaguardare i ragazzi”. La decisione è del comprensivo di Cervignano, in provincia di Udine. Per la dirigente scolastica si tratta di una scelta per tutelare i dati degli studenti. Contrario Vincenzo Squeo, rappresentate di classe: "Questione risolvibile con l’autorizzazione dei genitori", scrive Alex Corlazzoli il 4 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Addio alla foto di classe fatta dietro ai banchi. La cosiddetta “privacy” è riuscita ad archiviare una tradizione decennale. La decisione che è destinata a far discutere arriva dal consiglio d’istituto del comprensivo di Cervignano, in provincia di Udine. Di fronte alla richiesta del vecchio caro scatto l’organo collegiale per conciliare il diritto alla riservatezza e le richieste di mamme e papà ha deciso che la foto da quest’anno potrà essere fatta ma all’esterno della scuola. Non è la prima volta che un istituto si pone questo problema: nei mesi scorsi una circolare della preside della direzione didattica di Borgo San Lorenzo nel Mugello impediva “foto e riprese a minori in ambito scolastico, compresa la foto di classe”. Già allora la scelta della preside aveva attirato l’attenzione dei media nazionali tanto che anche Massimo Gramellini sul Corriere della Sera aveva ironizzato sulla vicenda. Ora si torna a parlare della questione della foto di classe. A spiegare il tutto è la dirigente del comprensivo di Cervignano, Tullia Trimarchi: “Non l’abbiamo vietata ma regolamentata. Le foto e le riprese all’interno della scuola possono essere divulgate solo ad uso famigliare ma io non posso certo controllare dove vanno a finire. Vogliamo salvaguardare la divulgazione di queste immagini: è una tutela nei riguardi dei bambini. È stata una scelta condivisa e presa dal consiglio d’istituto”.
E quando le si fa notare che lo scatto fa parte della storia di ciascuno non fa un passo indietro: “La foto di classe è una consuetudine ma non serve per forza il banco per farla. Le tradizioni e le opinioni sono una cosa ma io ho il dovere di salvaguardare i dati dei ragazzi. È una precauzione: vogliamo educare alla riservatezza delle immagini che sono dei dati. Alcuni genitori si sono schierati a favore, altri contro ma qui non si tratta di difendere un’opinione ma di tutelare ciò che va garantito. Quest’anno abbiamo fatto un’intensa attività di prevenzione trasmettendo ai ragazzi e ai genitori una consapevolezza del diritto alla riservatezza propria e altrui. Abbiamo coinvolto anche polizia postale e carabinieri”. Intanto c’è già un’idea per il prossimo anno. Il consiglio d’istituto ha pensato di riproporre la foto sotto forma di attività facendola fare ai ragazzi più grandi: un percorso che avrà una valenza didattica ed educativa che andrà oltre il ricordo. Contrario alla decisione presa è Vincenzo Squeo, rappresentate di classe della scuola: “In aprile ho fatto richiesta per avere il fotografo in classe. È stata negata con la motivazione che la foto di classe non rientra nel piano dell’offerta formativa e che non si possono favorire attività private all’interno dell’edificio. A quel punto il consiglio d’istituto ha indetto una sorta di bando per identificare un professionista per fare il servizio. Giovedì scorso avremmo dovuto fare la foto ma le insegnanti mi hanno detto che la dirigente non aveva dato l’autorizzazione. Di là di tutto la questione della privacy è risolvibile con l’autorizzazione data dai genitori. Se ci sono mamme o papà che condividono sui social quella foto non è certo responsabilità della scuola”. Intanto per quest’anno i genitori si vedono costretti a contattare la proprietaria di un parco vicino alla scuola per fare la foto fuori dall’orario di lezione. A dare una mano ai genitori è Filomena Albano, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza: “Ciascuna scuola è libera di determinarsi rispetto alle attività da svolgere all’interno dell’istituto. In termini più generali si può dire che le fotografie di classe sono destinate a divenire ricordi di momenti piacevoli di gruppo e di condivisione, in cui i bambini sono ritratti in contesti positivi. Se c’è il consenso dei genitori e i ragazzi sono d’accordo lo scatto può avvenire tranquillamente. È importante che le persone di minore età siano ascoltate rispetto alla loro volontà di essere o meno fotografate, come prevede la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che stabilisce il divieto di interferenze arbitrarie nella vita privata”.
Foto a scuola, c’è un nuovo caso: anche a Fiumicello scatti vietati. La protesta dei genitori degli alunni delle medie: così ci viene negato un bellissimo ricordo. L’istituto precisa: bisogna rispettare la privacy, basta firmare la liberatoria che ancora non c’è, scrive Elisa Michellut il 9 giugno 2018 su "Il Messaggero Veneto". Dopo Cervignano scoppia il caso Fiumicello, dove i genitori sono sul piede di guerra. Ieri, alle scuole medie, si è concluso l’anno scolastico senza le foto di classe. Le famiglie puntano il dito contro la scuola ma il preside spiega che è necessario richiedere una liberatoria poiché la fotografia di classe non rientra nelle attività didattiche. «I problemi sono altri – si sfoga una mamma -. Ogni anno, l’ultimo giorno di scuola, venivano fatte le foto di classe. Era un bellissimo ricordo, una tradizione e un’occasione per immortalare un momento felice. Ora è stato vietato anche questo. Pare che le autorizzazioni dei genitori, rilasciate all’inizio dell’anno, non siano valide». Un'altra mamma aggiunge: «Nel mio album dei ricordi ho ancora la foto di classe. Sono passati tanti anni eppure mi fa sempre piacere ricordare i tempi della scuola e i miei insegnanti. Ora abbiamo tolto ai nostri figli anche questa possibilità in nome della legge sulla privacy. Nel frattempo, sui social network pullulano fotografie di ogni tipo». Il dirigente scolastico, Aldo Durì, spiega che in tutte le classi e le sezioni delle scuole afferenti al comprensivo Don Lorenzo Milani è stato rispettato il tradizionale rito delle foto ricordo. Tutte, tranne la scuola media di Fiumicello. «È una cerimonia cui genitori e alunni tengono moltissimo e non senza ragione – le parole del preside -. Nessun problema da parte della direzione, salvo il rispetto delle norme sulla privacy, che si son fatte più stringenti con la recente approvazione dei regolamenti europei. Fermo restando che all’atto dell’iscrizione i genitori sottoscrivono una liberatoria per l’utilizzo delle immagini che ritraggono gli alunni impegnati nell’attività didattica, in questo specifico caso, che non rientra nel quadro della documentazione pedagogica, il preside richiede prudenzialmente una liberatoria ulteriore, che tutte le famiglie sottoscrivono di buon grado». Unica eccezione, ribadisce il dirigente, la scuola media di Fiumicello. «Giovedì, alle 8 – dichiara Durì - si è presentato a scuola un signore, che si è presentato come fotografo e che pretendeva di fotografare le classi. Nessuno era al corrente dell’iniziativa, forse concordata con un insegnante che ha agito senza consultare nessuno. La coordinatrice ha spiegato che si può fare ma solo in presenza di una liberatoria firmata dai genitori. L’iniziativa, anche se improvvisata, si poteva fare il giorno seguente. Massima disponibilità. Il sospetto è che si tratti di una provocazione studiata per guadagnarsi un po’ di visibilità. La scuola si preoccuperà, nei prossimi giorni, di produrre le foto ricordo e fornirle alle famiglie che ne faranno richiesta».
Regolamento europeo Privacy: non cambia nulla per foto minori, scrive l'8/06/2018 Gianfranco Scialpi su "Tecnicadellascuola.it". Foto minori nel Web, cosa cambia con l’introduzione del nuovo regolamento europeo per la protezione dei dati? Praticamente nulla. Eppure… Foto minori nel Web, partiamo da lontano. Sono solito ad inquadrare il problema! Ad allargare la visuale fino a contemplare il quadro e meno il particolare (=il caso). In questo modo si è liberi da condizionamenti. Detto questo, il minore è tutelato da convenzioni, leggi internazionali e locali. Il primo riferimento è La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991 n. 176. L’articolo 3 può essere definito il fondamento di tutto il documento. Si legge: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente.” Nello specifico e nel nostro caso il riferimento è l’art. 16 che recita: “Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti”. Detto in altri termini: le foto e i video, che svelano alcuni dati della sua privacy, non possono essere pubblicate “ipso facto”, considerando la possibilità che attraverso la condivisione possono ledere la sua reputazione e la sua dignità. Questi principi sono nella nostra Costituzione e precisamente all’art. 31 che sancisce l’’infanzia e non solo come un’età che deve essere protetta.
Scendiamo di livello…Da questi principi discendono l’attenzione e la cura che devono essere rivolte al minore. Atteggiamenti che devono essere più stringenti in caso di pubblicazione di materiale fotografico nel Web. Quest’ultimo rappresenta una grande opportunità di interazione e condivisione di materiale (2.0) finalizzato alla formazione culturale. E non solo. Di contro esiste un vasto mondo virtuale (Deep Web) non rilevato dai comuni motori di ricerca (90%) dove accanto a interessi leciti, ne esistono altri, come i siti pedopornografici, store dove si vendono farmaci, droghe, armi, applicazioni che garantiscono l’anonimato. Ecco le ragioni che hanno spinto il Garante della Privacy (dicembre 2016) a formalizzare il criterio della prudenza nella pubblicazione di foto o video nel Web. Si legge a pag. 21: “Va però prestata particolare attenzione alla eventuale pubblicazione delle medesime immagini su Internet, e sui social network in particolare. In caso di comunicazione sistematica o diffusione diventa infatti necessario, di regola, ottenere il consenso informato delle persone presenti nelle fotografie e nei video”. Ora questo consenso può essere dato solo da chi esercita la patria genitoriale. In altri termini dai due genitori, anche se separati o divorziati (Sentenza tribunale Mantova 19 settembre 2017).
Regolamento europeo sulla Privacy, nulla cambia! Il 25 maggio è entrato in vigore il Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali. Documento lungo e complesso. In sostanza reitera continuamente i principi del trattamento, del consenso e delle sanzioni. E’ stringente sulle procedure, confermando però la necessità di un consenso genitoriale al trattamento dei dati dei minori o alla loro divulgazione attraverso immagini o video. Lo si evince indirettamente da questo passaggio a pag. 7: “I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali. Tale specifica protezione dovrebbe, in particolare, riguardare l’utilizzo dei dati personali dei minori a fini di marketing o di creazione di profili di personalità o di utente e la raccolta di dati personali relativi ai minori all’atto dell’utilizzo di servizi forniti direttamente a un minore. Il consenso del titolare della responsabilità genitoriale non dovrebbe essere necessario nel quadro dei servizi di prevenzione o di consulenza forniti direttamente a un minore.” Detto questo non si comprende l’ansia di qualche Dirigente Scolastico diretta ad eliminare o oscurare questo materiale da siti, pagine social afferenti la scuola.
Alcune indicazioni. Premessa la necessità di centellinare queste pubblicazioni, è indispensabile che l’Istituto faccia firmare ad entrambi i genitori una liberatoria ben articolata (trasparenza, legittimità, proporzionalità), richiedendo anche la fotocopia dei loro documenti. Non è sufficiente! La cautela istituzionale deve concretizzarsi possibilmente nella protezione di materiale in aree riservate (siti) o in pagine social con impostazioni della privacy non “pubbliche”. Infine, è consigliabile evitare di riprendere singoli minori. E’ preferibile la modalità gruppo, dove quest’ultimo è ripreso almeno in secondo piano. Ovviamente la lista non termina qui. Le suddette indicazioni, però, costituiscono il minimo che deve caratterizzare una istituzione formativa statale. E non solo!
Foto per strada e privacy: cosa prevede la legge? Scrive il 27 dicembre 2017 "Legge per tutti". Foto di nascosto a una persona o ai passanti: cosa rischia il fotografo che, con lo smartphone o la camera, filma o immortala chi non ha dato prima il consenso. Un tempo si usciva di casa con la spada. Oggi con lo smartphone. Il cellulare è diventato un oggetto di difesa e di attacco. E se anche ad essere in pericolo non è più la tua vita, ma la privacy, le conseguenze a volte non sono meno lesive. Hai mai pensato a quante volte, senza volerlo, sei “entrato” in una foto scattata da altri a monumenti, strade, musei, cortei ove ti trovavi? Tutte le volte in cui sei stato ad una conferenza, a un evento o a una festa e qualcuno ha usato il cellulare per fare un video o scattare una foto, è molto probabile che tu sia stato ripreso e che ora il tuo volto sia da qualche parte su internet. Se un tempo gli scatti restavano dentro gli album fotografici di famiglia e si traducevano in documenti “analogici” (la carta fotografica), ora invece le foto sono documenti digitali, pubblicati sui social e sottoposti ai software di riconoscimento facciale. In altre parole se anche tu stesso non sai di essere stato fotografato lo potrebbe sapere un motore di ricerca o Facebook. Un domani che questi software verranno potenziati e la loro capacità di mettere in relazione persone e immagini sarà totale, la tua riservatezza potrebbe essere a serio rischio. Vuoi davvero lasciare un’arma di questo tipo nelle mani di sconosciuti? Se anche non puoi fermare il corso della tecnica e della scienza, puoi nel frattempo sapere quali sono oggi i tuoi diritti e se esistono limiti alla possibilità di scattare fotografie agli sconosciuti. In questo articolo cercheremo di riassumere cosa prevede la legge per quanto riguarda le foto per strada e la privacy. Ma procedimento con ordine.
Il doppio consenso alla fotografia. Ogni volta che si scatta una fotografia, sia essa in un luogo pubblico o privato, bisogna chiedere sempre il consenso a tutti coloro che entrano nell’obiettivo. Il consenso non deve essere necessariamente scritto, ma può essere fornito anche con comportamenti inequivoco come il semplice fatto di mettersi in posa davanti alla fotocamera. Se l’autore della foto vuol poi pubblicare l’immagine su un social deve chiedere un secondo e autonomo consenso. Chi ha autorizzato lo scatto non è detto infatti che autorizzi anche il caricamento dell’immagine su un internet. Anche in questo caso il consenso può essere desunto da comportamenti concludenti come, ad esempio, la condivisione dell’immagine sul proprio profilo Facebook. Se il consenso allo scatto non può più essere revocato (essendo un fatto storico che ormai si è consumato e non torna più indietro), può invece esserlo – in qualsiasi momento e senza termini – quello alla pubblicazione. Così, se inizialmente autorizzo la pubblicazione di una mia immagine su un social network posso poi chiedere che la stessa venga rimossa o oscurata.
Fotografie fatte a persone famose. Regole diverse riguardano le persone famose come volti dello spettacolo, del cinema, della televisione, politici, scienziati, ecc. Per loro, infatti, vige una privacy più attenuata. Difatti, è possibile fotografarli nel rispetto delle seguenti condizioni: lo scatto deve essere effettuato in luoghi pubblici o luoghi aperti al pubblico: ad esempio per strada, in un negozio, in un ristorante o in occasione di una manifestazione; non è legale la foto scattata dal paparazzo che sia riuscito a intrufolarsi nell’ufficio del personaggio noto; lo scatto non deve recare offesa all’onore, alla reputazione o al decoro della persona ritratta: ad esempio, è illecita una foto a un personaggio famoso subito dopo un incidente stradale che lo ha visto coinvolto. Rispettando questi limiti la fotografia può anche essere venduta a terzi (è il caso del fotografo che cede i propri scatti alle agenzie).
Fotografie in occasione di eventi. Non c’è bisogno dell’autorizzazione della persona ritratta nella foto (salvo che si tratti di minorenne) se lo scatto viene eseguito in occasione di avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico cui quest’ultima abbia partecipato [2]. Ad esempio, se una persona fa una foto ad un corteo, i presenti non posso vietare lo scatto. È tuttavia necessario che la persona apparsa sulla foto non sia il vero e proprio soggetto dello scatto e l’evento solo l’occasione, ma viceversa; ad esempio, se un fotografo riprende un particolare di uno spettatore che, durante una rappresentazione teatrale, si mette le dita nel naso o si addormenta e russa non può pubblicare l’immagine senza il suo consenso di quest’ultimo. Insomma, i partecipanti all’evento devono essere solo lo “sfondo” dell’evento stesso”, uno degli elementi del fatto storico in sé e non i veri e propri soggetti. Non si può sfruttare un’occasione pubblica per scattare foto ai volti delle perone in modo da aggirare la necessità del loro consenso. In ogni caso, perché la foto di uno sconosciuto sia lecita non è sufficiente che sia fatta in occasione di avvenimenti e cerimonie, ma è necessario che le stesse si svolgano in un luogo pubblico o aperto al pubblico. Una festa privata ad esempio non consentirebbe al fotografo di scattare immagini. Cosa si intende per luogo pubblico o aperto al pubblico? È «pubblico» un luogo al quale si possa accedere liberamente e senza limitazioni (ad esempio un giardino pubblico, una piazza, una strada) mentre è luogo aperto al pubblico un posto di proprietà privata al quale l’accesso sia consentito secondo le condizioni dettate dal proprietario o dal gestore (ad esempio il cinema, il teatro, il centro commerciale, il bar e via dicendo).
Fotografie e giornalismo. La legge non richiede il consenso dell’interessato (salvo che si tratti di minorenne) quando la foto viene scattata per ragioni di carattere culturale, scientifico o, più in generale, giornalistico. Attenzione però: quando si parla di giornalismo si intendono solo le testate registrate in tribunale e aventi il carattere del giornale tradizionale (periodicità di pubblicazione, professionalità, ecc.). Non fa giornalismo l’autore del blog su internet che pubblica le immagini dei passanti su una strada nell’ambito di un articolo, ad esempio, dedicato allo shopping natalizio.
Fotografie per strada. Lo scatto fatto per strada ai passanti senza che vi siano particolari avvenimenti, manifestazioni, feste popolari, ecc. è illegale. E ciò anche se la strada, una piazza o un marciapiede sono luoghi pubblici. Quindi, non è lecito fotografare le persone per strada a loro insaputa; tantomeno lo è pubblicare gli scatti su internet. Anche quando l’intenzione del fotografo non è fotografare il viandante ma il panorama, la via o un palazzo, se una persona entra nello scatto ed è perfettamente riconoscibile va oscurata o cancellata a sua richiesta. Se applicassimo però, alla lettera, questa regola si avrebbe che in nessuna strada o piazza si potrebbe scattare una foto a meno che non sia completamente deserta, il che è ovviamente impossibile. Allora, per non commettere un illecito è sufficiente che i passanti non siano riconoscibili o, quantomeno, non siano l’oggetto principale della fotografia. Se una coppia si fa un selfie su una panchina del parco e, di sfondo, appaiono altre persone non commettono illecito, ma queste ultime possono comunque pretendere che l’immagine sia cancellata. Se una persona vuol scattare una foto a una strada cittadina non può chiedere a tutti i passanti di andare via, ma ben può fare lo scatto; non potrebbe però farlo se l’oggetto principale della sua foto è proprio il passante, magari mentre acquista la frutta al mercato o esce da un negozio con le buste dello shopping.
Foto fatte da investigatori privati. Se è vero che la foto a una persona che cammina per strada è vietata senza il suo consenso, allora perché i detective privati possono fare indagini, munirsi di un obiettivo con zoom e scattare foto all’insaputa degli altri? La ragione è sempre: uno dei casi in cui la legge consente le foto senza l’autorizzazione dell’interessato è quello della finalità di giustizia. Per cui se l’investigatore viene assoldato per recuperare le tracce di un altrui illecito da produrre in una causa (un tradimento, un dipendente che ha presentato un falso certificato di malattia, ecc.), il suo comportamento non è vietato e le immagini possono essere utilizzate come prova nel processo davanti al giudice. Ad esempio, il datore di lavoro può far fotografare un dipendente in malattia o durante i giorni di permesso per vedere se le giustificazioni rilasciate all’azienda siano veritiere o meno e, in quest’ultimo caso, procedere al licenziamento. Le fotografie così ottenute possono essere utilizzate in causa nel caso di contestazione del suddetto licenziamento. L’azienda non può fotografare i dipendenti nel corso della loro attività lavorativa per verificare la qualità della prestazione eseguita, poiché vietato dallo Statuto dei lavoratori. Allo stesso modo l’agente assicurativo può fotografare il cliente per verificare che l’invalidità per cui questi ha presentato richiesta di risarcimento sia vera o fittizia. In ogni caso, il soggetto non deve mai essere minorenne.
Foto di situazioni imbarazzanti. La foto è ancor più vietata quando mette in imbarazzo il soggetto immortalato, anche se lo scopo è umanitario, di sensibilizzazione della società o di denuncia. Tanto per fare un esempio, secondo la Cassazione, pubblicare la foto di un mendicante, senza la sua autorizzazione, costituisce reato di diffamazione. La coscienza comune, infatti, pone questi soggetti in uno dei gradini più bassi della cosiddetta scala sociale e, pertanto, è naturale che chi sia costretto dalla necessità a praticare la carità si senta mortificato e gravemente ferito nella sua onorabilità. Dunque, l’eventuale pubblicazione della sua immagine sarebbe per lui fonte di una sicura diffamazione. La Corte ha poi dato un suggerimento ai fotografi: quando le esigenze di cronaca impongono la pubblicazione di immagini di persone in qualche modo coinvolte in fenomeni su cui grava un pesante pregiudizio della collettività, è necessario sgranare la foto o coprire il volto della persona ritratta per renderla non identificabile. Ciò al fine di evitare che si crei un preciso collegamento tra il fenomeno in generale e la persona fisica, evitando per quest’ultima il conseguente disonore sociale.
Foto di bambini e minori. Inutile dire che se le foto di adulti sono vietate, lo sono ancor di più quelle dei minori. A riguardo, però, le sanzioni sono più elevate per via del fatto che si tratta di soggetti indifesi. Anche l’entità del risarcimento del danno riconosciuto al genitore è superiore rispetto a quello che potrebbe scattare per una foto fatta a un adulto senza il suo consenso, e ciò a prescindere dall’eventuale lesione prodotta dallo scatto.
Si può fotografare la polizia o i carabinieri? È lecito fotografare un poliziotto o un carabiniere o qualsiasi altro pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni (si pensi, ad esempio, alla volante della municipale impegnata nelle operazioni di rilevamento della velocità tramite autovelox, le forze militari durante una parata, i poliziotti in un posto di blocco, i carabinieri mentre arrestano qualcuno). L’importante è che le operazioni non siano coperte da segreto istruttorio. Lo stesso dicasi per qualsiasi altro pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni: ad esempio un controllore dell’autobus mentre verifica i biglietti dei passeggeri. Nello stesso tempo non è possibile fotografare tali soggetti quando sono in borghese, ossia fuori dall’esercizio delle proprie funzioni.
Che si rischia a pubblicare le foto di altre persone? La legge sulla privacy punisce con la reclusione fino a due anni chi esegue un illecito trattamento di dati personali tramite internet. È proprio il caso di chi pubblica la fotografia del volto di un altro soggetto senza il suo consenso. Lo scopo della pubblicazione deve però essere quello di trarne profitto e di arrecare un danno alla vittima, ma questa espressione è stata interpretata in senso lato dalla giurisprudenza, secondo cui è sufficiente – ai fini del reato – un semplice fastidio o un turbamento alla vittima. Insomma, il penale scatta anche senza che vi sia un danno di natura patrimoniale. Se la pubblicazione illecita dell’immagine o del video offende la reputazione di chi vi è ritratto, chi l’ha diffusa, oltre a dover risarcire il danno, deve rispondere anche del reato di diffamazione aggravata e rischia la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro. Quando l’attività investigativa avviene all’interno della proprietà privata della persona oggetto del pedinamento: in tal caso scatta il reato di illecita interferenza nella vita privata. Nel caso in cui un privato pubblichi un’immagine altrui senza aver ottenuto il consenso di chi vi è ritratto, commette un illecito di natura esclusivamente civile (non quindi un reato) e l’interessato può chiedere al Tribunale di ordinare all’autore della pubblicazione o al gestore dello spazio online la cancellazione immediata delle immagini o dei video. Se poi la pubblicazione delle immagini ha provocato un danno (anche solo morale) a chi vi è ritratto, questi può chiedere il risarcimento. Il risarcimento e la rimozione possono essere richiesti anche dai genitori, dal coniuge o dai figli della persona ritratta.
A SCUOLA LIBRI FAZIOSI E SINISTRI.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.
È morto lo storico Rosario Villari, sui suoi libri si sono formate generazioni di studenti. Lo studioso aveva 92 anni, era stato anche deputato del Partito comunista. Domani a Cetona si terrà una cerimonia omaggio organizzata dal Comune, scrive Raffaella De Santis il 18 ottobre 2017 su "La Repubblica". Rosario Villari, morto all’età di 92 anni, non era certo il tipico storico accademico che disdegnava il dibattito pubblico. La sua vita di studioso è al contrario stata accompagnata fin dalla giovinezza dalla passione politica e dall’attenzione ai problemi sociali. Villari era un uomo del sud, nato a Bagnara Calabra (Reggio Calabria), dove aveva partecipato ai movimenti dei contadini per la riforma agraria. Il Sud, la questione meridionale, le tematiche dello sviluppo, sono stati alcuni dei temi centrali dei suoi saggi, tra cui “Mezzogiorno e contadini nell’età moderna” (Laterza, 1961) e “Il Sud nella storia d’Italia” (Laterza 1961, seconda edizione aggiornata, 1978). Era uno storico di formazione marxista, anche se di un marxismo aperto, mai ortodosso, riformista. Era stato membro del Comitato centrale del Partito comunista e deputato dal 1976 al 1979. Ma a Firenze, ai tempi dell’università, aveva seguito le lezioni di un filosofo controcorrente come Galvano Della Volpe, che faceva dialogare materialismo e esistenzialismo. Non è un caso che Villari abbia spesso preso posizioni coraggiose. Come quando ha polemizzato con Eric J. Hobsbawm, lo storico del “Secolo breve”, icona di successo della storiografia di sinistra: “La ricerca storica ha regole e modi diversi dall’azione politica”. Villari, studioso dell’età barocca e autore di saggi fondamentali come “La rivolta antispagnola a Napoli” (1967), era noto soprattutto per i suoi manuali di storia, sui quali hanno studiato generazioni di studenti. La prima edizione era stata pubblicata da Laterza alla fine degli anni Sessanta, vendendo due milioni di copie. Lo storico l’aveva anni dopo rivista e aggiornata. Lo aveva fatto spinto dai cambiamenti del mondo che osservava intorno a sé, dando più spazio al tema della formazione dell’Europa. Sosteneva che la complessità del mondo contemporaneo lo aveva costretto a rielaborare molte categorie, tra cui quelle di “progresso”, “utopia” e “rivoluzione”. Un nuovo capitolo del manuale riguardava la storia dei partiti comunisti occidentali, ben diversi, spiegava Villari, da quelli sovietici. Ma proprio quei manuali, scritti con un’attenzione massima alla storia sociale, finirono sotto gli strali della destra berlusconiana, accusati di essere simbolo dell’egemonia culturale di sinistra. Villari, che dell’egemonia gramsciana aveva un’altra considerazione, non si scompose e difese il pluralismo dei suoi testi: “Io so che il giudizio storico nasce solo dalla libera ricerca svolta in una dimensione internazionale, nasce dal libero confronto delle idee, che la scuola deve recepire con la più piena e completa autonomia”. Per poi liquidare la questione con un invito: “Vogliono scrivere altri testi? Li scrivano ma lascino poi agli insegnanti piena autonomia nella scelta”. Per Villari la storia era movimento, apertura, nei limiti del rigore storiografico. Lo impauriva quella che definiva la “frammentazione e trivializzazione della storiografia” e anche un certa spettacolarizzazione dilagante. Una curiosità: Villari era anche un appassionato di letteratura. I suoi esordi erano stati sulle pagine del “Politecnico” di Elio Vittorini, come autore di una poesia e tre racconti. Per ricordarlo, domani a Cetona si terrà una cerimonia omaggio organizzata dal Comune.
Morto Rosario Villari, autore del celebre manuale di Storia (che dimenticò le foibe). Generazioni di studenti se lo ricordano soprattutto per il manuale di Storia, utilizzato in migliaia di classi delle scuole superiori e università (due milioni di copie vendute), scrive Matteo Sacchi, Giovedì 19/10/2017, su "Il Giornale". Generazioni di studenti se lo ricordano soprattutto per il manuale di Storia, utilizzato in migliaia di classi delle scuole superiori e università (due milioni di copie vendute). Ma Rosario Villari, storico di impostazione marxista morto ieri a 92 anni, era soprattutto un esperto di storia barocca. Tutti i suoi contributi scientifici più rilevanti erano relativi al Regno di Napoli nel corso dell'età moderna. Tra questi vanno ricordati Mezzogiorno e contadini nell'età moderna e La rivolta antispagnola a Napoli (Laterza 1967, poi ampliato nel 2012). Erano per l'epoca studi innovativi, soprattutto il secondo, che metteva in rilievo le componenti sociali ed economiche che avevano portato alla sollevazione «capeggiata» da Masaniello, spogliandole delle incrostazioni romantiche che vi aveva sovrapposto la storiografia risorgimentale. Lavori che gli avevano consentito di affermarsi all'estero e di diventare visiting professor a Oxford e Princeton. A quell'impostazione marxista, che schiaccia sul concetto di classe epoche caratterizzate da ceti e da una marcata dimensione non «economica», Villari continuò a restare legato anche quando iniziò ad apparire datata. Essa caratterizzò anche i suoi manuali scolastici, che davano largo spazio alla storia sociale. Ma che su determinati temi erano ferocemente selettivi (limite che non fu solo di Villari ma di una generazione di storici). Quindi Villari finì sotto accusa sul finire degli anni '90 per pesanti omissioni presenti nei testi: tanto per dire, la parola «foibe» era praticamente ignorata. C'è anche chi lo ha accusato di preconcetti antiborbonici. Di certo nella sua impostazione ebbe largo peso la militanza: fu membro del Comitato centrale del Pci. Ma i suoi testi sulla politica barocca restano di alto livello scientifico.
I libri di storia sono faziosi? Lo decidano gli insegnanti, scrive Alessandro di Nuzzo giovedì 12 Settembre 2002 su Kataweb. Torna alla ribalta - ormai periodicamente, si potrebbe dire - la polemica sui libri di testo "faziosi". Al di là delle prese di posizione, dei commenti espressi da fonti più o meno competenti, dei botta e risposta fra storici e politici, vediamo di capire qual è la sostanza della discussione. "Faziosi" sarebbero alcuni manuali di storia fra i più in uso nei licei e nelle scuole superiori italiane. Naturalmente la faziosità non riguarda periodi storici lontani e incerti come l'età antica o il Medioevo: non è in discussione il modo in cui vengono trattate la Guerra delle Due Rose, o lo scontro fra Ugonotti e Cattolici in Francia. L'accusa è tutta concentrata su un momento particolare e cruciale della storia contemporanea del nostro Paese, e cioé il periodo che va dal 1943 alla fine della seconda guerra mondiale e all'immediato dopoguerra. In sostanza, dunque, la faziosità riguarda il delicato capitolo Resistenza-Liberazione-Dopoguerra. I capi d'accusa rivolti ai manuali di storia sembrano essere essenzialmente tre: 1) Nessun accenno ai cosiddetti "delitti del dopoguerra" nel Nord Italia, e cioé alle vendette politiche e/o private che sarebbero state compiute dai "vincitori" all'indomani del conflitto 2) in particolare, nessun accenno alla tragica pagina delle "foibe" 3) una visione unilateralmente eroica e gloriosa della Resistenza. Quali sarebbero, poi, in concreto questi libri "incriminati" non è molto chiaro: la lista non è sempre univoca. Di certo pare di capire ci siano il Camera-Fabietti (libro un po' datato, per la verità, e non solo per quel che riguarda la storia contemporanea); il Villari; in qualche modo anche il Giardina, per quanto qui l'accusa sia più sfumata, forse anche per la difficoltà di affibbiare un'etichetta di "estremisti di sinistra" ai suoi autori. Se qualcuno dunque ha voglia di farsi un'idea propria e più precisa sulla questione, può prendere questi tre manuali in una qualsiasi biblioteca scolastica, leggerli e confrontarli. A noi la questione suggerisce almeno tre piccole considerazioni.
1) L'oggettività di indagine e di giudizio è uno dei grandi problemi della ricerca storica: connaturato, si potrebbe dire, alla storiografia. Ma più in generale alla letteratura e alla cultura umanistica tout court. Forse Dante non è "fazioso", quando parla di storia contemporanea? O non lo è il Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica? Se dobbiamo fare un'educazione al giudizio critico e alla parzialità delle fonti (e anche dei documenti, perché no?), dobbiamo farla per tutti i grandi argomenti di storia. Dunque dobbiamo e possiamo farla anche sui manuali, che sono fonti indirette anch'essi, e non sono certamente, si spera per nessuno, testi inviolabili. In altre parole, è l'insegnante, come sempre, che ha il diritto-dovere di filtrare i testi didattici, e di proporne, sempre e comunque, un uso critico e integrato.
2) La paura che gli studenti, con le loro giovani menti così deboli e facilmente plasmabili, possano essere inesorabilmente "plagiati" da certi libri di testo o da certi professori, è un mito duro a morire che non si sa se sia più stupido o interessato. Chiunque abbia frequentato le aule di scuola negli ultimi anni sa bene che il vero problema è quello di promuovere nei ragazzi un minimo di coscienza e di memoria storica. Il dato di partenza, lo sappiamo, è un'indifferenza generalizzata, di cui i ragazzi non sono tanto colpevoli quanto vittime. Dunque, come insegnante, sarei ben più contento di una accesa discussione in classe sui temi della Resistenza fra studenti "di destra" e di "sinistra", che di un deserto di stimoli e di emozioni.
3) Un'ultima cosa, questa sul merito della questione e delle accuse di cui si diceva sopra. L'omissione di alcune pagine importanti e tragiche della storia contemporanea ci può essere stata, e la si può verificare e giudicare. La visione "eroica" della Resistenza potrà anche essere stata unilaterale, e aver tralasciato quei caratteri di guerra civile di cui gli storici più aggiornati (anche di sinistra) ci parlano da alcuni anni. Però il sospetto, ed è un sospetto forte, è che in discussione siano non tanto dei singoli punti, quanto una visione generale, più che storica, etica: l'impostazione antifascista, con tutti i valori, anche educativi, che questa si porta con sé. Allora qui la questione si fa molto chiara, e la domanda da fare ai revisori è: vogliamo mettere in dubbio, o cancellare, l'impostazione antifascista? L'antifascismo a scuola è un valore, sì o no? Lo dobbiamo insegnare, o no?
Perché in tal caso, più che censurare Villari dovremo censurare i Costituenti. E dopo aver emendato un povero manuale di storia, saremo costretti ad emendare il più importante testo di storia dell'Italia contemporanea: la Costituzione repubblicana.
DOSSIER FOIBE ED ESODO UNA STORIA NEGATA A TRE GENERAZIONI DI ITALIANI a cura di Silvia Ferretto Clementi. Tratto dal Dossier Foibe ed Esodo, curato da Silvia Ferretto Clementi, Consigliere Regionale della Lombardia. LE RESPONSABILITA' POLITICHE
Il silenzio degli alleati. Per non inimicarsi la Jugoslavia che, all'epoca, in piena guerra fredda, faceva parte dei "Paesi non allineati, gli americani, così come i loro alleati non indagarono su ciò che gli Jugoslavi avevano compiuto durante la guerra, né pubblicizzarono quanto gli stessi continuarono a compiere nei periodi immediatamente successivi alla sua conclusione. La necessità di utilizzare la Jugoslavia come "paese cuscinetto" tra i due blocchi, per contrastare l'egemonia sovietica nei Balcani, fondamentale per gli Alleati, portò a scelte molto difficili che migliaia di italiani pagarono sulla loro pelle. Anche a "giochi finiti" non vi fu mai alcuna ammissione esplicita ed ufficiale di quanto "avallarono". Sarebbe stato infatti estremamente difficile riuscire a spiegare all'opinione pubblica mondiale per quale motivo gli Alleati, pur sapendo della pulizia etnica in corso nella Venezia Giulia, non intervennero per scongiurare o comunque mettere fine a quella tremenda carneficina. Ma non solo. Gli Alleati consegnarono al Maresciallo Tito, così come fecero con Stalin per coloro che fuggivano dai russi stessi, decine di migliaia di profughi, civili e militari, segnandone il tragico destino. Questi ultimi infatti, riusciti con enormi difficoltà a passare il confine sfuggendo alle persecuzioni comuniste, vennero barbaramente massacrati e costituirono l'ennesimo tributo degli anglo americani a Tito e Stalin.
Il Governo italiano. Anche i vari governi italiani del dopoguerra preferirono mettere a tacere questi fatti per non doversi confrontare su alcune imbarazzanti questioni legate ai debiti di guerra nei confronti dei privati. I beni espropriati agli abitanti delle zone interessate dall'esodo del dopoguerra non furono risarciti equamente, ma con avvilenti elemosine. Riprendere la questione avrebbe significato indennizzi definitivi agli esuli con fondi sottratti alla ricostruzione dell'Italia devastata dalla guerra; si preferì, quindi, accantonare il problema insabbiandolo.
Le responsabilità del Partito Comunista Italiano. Il PCI, che doveva a tutti i costi evitare di far entrare nella coscienza comune l'idea che alcuni dei suoi leader potessero aver dato un tacito appoggio agli autori degli infoibamenti e delle deportazioni, negò sempre, anche di fronte all'evidenza, quanto stava accadendo in quelle terre, tacciando di falso chi tentò di renderlo noto all'opinione pubblica. Studiando attentamente la documentazione e le informazioni sulla storia giuliana che stanno via via venendo alla luce, appare logica ed evidente la conclusione che il PCI fosse totalmente appiattito sulla posizione di Tito. Da un lato questo atteggiamento poteva essere spiegato con lo spirito internazionalista che caratterizzava il PCI, alimentato tra l'altro dalla comune ideologia e dalla necessità di combattere un comune nemico come il nazi-fascismo. Ma dall'altro non si può non rilevare che questa sudditanza contribuì notevolmente ad assecondare le mire espansionistiche di Tito nei confronti della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia. Questa sudditanza, infatti, favorì l'occupazione e la sottrazione di parte del territorio nazionale da parte della Jugoslavia e avallò la persecuzione della popolazione giuliano dalmata, che non risparmiò neanche antifascisti o compagni di partito contrari all'annessione slava. Indicativi la vicenda della strage di Porzus ed i numerosi casi di "delazioni utili" all'eliminazione di coloro che si opponevano al monopolio di Tito sul movimento partigiano. Significativa anche la lettera scritta dal vicepresidente dei Ministri Palmiro Togliatti il 7 febbraio 1945 al Presidente Ivanoe Bonomi, con la quale il leader comunista minacciò 25 persino la guerra civile se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia Giulia, impedendo così l'occupazione e l'annessione jugoslava. Mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al C.L.N.A.I. una comunicazione, in cui si invita il C.L.N.A.I. a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell'esercito partigiano jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera... è a prima vista evidente che una direttiva come quella che sarebbe contenuta nella comunicazione di Gasparotto è non solo politicamente sbagliata, ma grave, per il nostro paese. Tutti sanno, infatti, che nella Venezia Giulia operano oggi unità partigiane dell'esercito di Tito, e vi operano con l'appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s'intende, contro i tedeschi e i fascisti. La direttiva che sarebbe stata data da Gasparotto equivarrebbe quindi concretamente a dire al C.L.N.A.I. che esso deve scagliare le nostre unità partigiane contro quelle di Tito, per decidere con le armi a quale delle due forze armate deve rimanere il controllo della regione. Si tratterebbe, in sostanza, di iniziare una seconda volta la guerra contro la Jugoslavia. Questa è la direttiva che si deve dare se si vuole che il nostro paese non solo sia escluso da ogni consultazione o trattativa circa le sue frontiere orientali, ma subisca nuove umiliazioni e nuovi disastri irreparabili. Quanto alla nostra situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste, secondo le mie informazioni, segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da dare è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti. Solo se noi agiremo tutti in questo modo creeremo le condizioni in cui, dimenticato il passato, sarà possibile che le questioni della nostra frontiera siano affrontate con spirito di fraternità e collaborazione fra i due popoli e risolte senza offesa nel comune interesse. …credo sia bene ti abbia precisato qual è il proposito della nostra posizione, la sola, io ritengo, che rifletta i veri interessi della Nazione italiana. Soltanto a questa posizione corrisponderà l'azione del nostro partito nella Venezia Giulia e non a una direttiva come quella accennata, soprattutto poi se emanata senza nemmeno la indispensabile previa consultazione del Gabinetto. L'atteggiamento del PCI nei confronti dei profughi giuliani, in linea con la posizione dei compagni slavi, fu di condanna totale e coloro che fuggirono dal comunismo vennero additati come fascisti. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.
L'ostilità del partito si manifestò anche con atti di perfidia. Famosa in tal senso fu la manifestazione di ostilità dei ferrovieri di Bologna, i quali, per impedire che un treno carico di profughi provenienti da Ancona potesse sostare in stazione, minacciarono uno sciopero. Il treno non si fermò e a quel convoglio, carico di umanità dolente, fu rifiutata persino la possibilità di ristorarsi al banchetto organizzato dalla Pontificia Opera Assistenza. I "comitati d'accoglienza" organizzati dal partito contro i profughi all'arrivo in Patria furono numerosi. All'arrivo delle navi a Venezia e ad Ancona, gli esuli furono accolti con insulti, fischi e sputi e a tutti furono prese le impronte digitali. A La Spezia, città dove fu allestito un campo profughi, un dirigente della Camera del lavoro genovese durante la campagna elettorale dell'aprile 1948 arrivò ad affermare "in Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani". Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l'ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d'origine perché temono d'incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali. Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. Non possiamo coprire col manto della solidarietà coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con l'assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli. Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici. L'unica piccola concessione che venne fatta dal quotidiano fu il riconoscimento che, in effetti, tra coloro che fuggirono vi potessero essere anche persone non criminali, terrorizzate, però, non tanto dagli orrori subiti o di cui furono spettatori, bensì "da fantasmi". Ma dalle città italiane ancora in discussione, non giungono a noi soltanto i criminali, che non vogliono pagare il fio dei delitti commessi, arrivano a migliaia e migliaia italiani onesti, veri fratelli nostri e la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere. Vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte. È doveroso precisare che i profughi non crearono mai, in nessun luogo dove trovarono rifugio, problemi di criminalità. Al contrario si distinsero per la laboriosità e per il rispetto delle leggi. Il PCI ha enormi responsabilità anche nella vicenda dei loro più fidati compagni di partito, come lo furono gli operai monfalconesi (e non solo per aver organizzato un controesodo allo scopo di fornire manovalanza specializzata ai compagni slavi), bensì perché, dopo aver fatto leva sui loro sogni, sulla loro passione, sul loro entusiasmo e sulla loro buona fede, li ha dapprima abbandonati nel gulag di Goli Otok e poi, ai superstiti che riuscirono a rientrare in Italia, ha riservato un crudele trattamento. Queste persone furono, infatti, trattate come una vergogna da nascondere, fastidiosi testimoni di un fallimento che a molti costò non solo la perdita di un sogno romantico a cui avevano dedicato l'intera esistenza, ma la vita stessa. L'atteggiamento di acquiescenza ed omertà verso i crimini commessi dai "compagni slavi" del PCI è proseguito nell'immediato dopo guerra, ma anche nei decenni successivi. Un indirizzo politico fatto proprio anche da numerosi storici vicini al partito.
Il dibattito sulla faziosità dei libri di testo. Il dibattito sui libri di testo faziosi ebbe inizio solo nel febbraio del 1997 quando, in occasione del cinquantenario del Trattato di Pace, il ''Comitato per il diritto alla verità storica" promosso da Marcello De Angelis61 e da Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, organizzò a Roma, insieme a numerose organizzazioni di esuli, un sit-in ''per denunciare la vergognosa latitanza dello Stato italiano nella difesa e nella memoria delle terre perdute", citando esplicitamente l'esempio delle foibe. In quell'occasione emerse che nei principali manuali di storia in uso presso i licei non si faceva menzione "della più grande tragedia che ha colpito il nostro popolo in questo secolo: il genocidio subito dagli italiani della Venezia Giulia ad opera dei partigiani comunisti slavi''. Gli esponenti di "Area" citarono alcuni dei più diffusi manuali di storia e sostennero che la mancanza di notizie sulle foibe era una chiara dimostrazione che ''sono scritti da storici faziosi o incompetenti ''.(62) Una petizione per la messa al bando dalle scuole dei testi in questione, inoltre, alla quale avevano aderito in molti, venne inviata al ministro Luigi Berlinguer. Contro le iniziative di Alleanza Nazionale, che dalla Regione Lazio si estendevano un po' in tutte le regioni, furono sottoscritti anche numerosi appelli. "Giustizia e libertà" raccolse migliaia di firme con un appello (riportato di seguito) scritto da Umberto Eco e firmato anche da Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Enzo Biagi, Alessandro Galante Garrone, Franzo Grande Stevens, Claudio Magris, Guido Rossi, Giovanni Sartori, Umberto Veronesi. I Garanti di "Libertà e Giustizia" assistono con viva preoccupazione alla proposta ventilata in commissione parlamentare di un controllo esercitato dal Ministero della Pubblica Istruzione sui manuali di storia per le Scuole. Rilevano che l'idea di un controllo governativo sulle idee espresse da libri di testo evoca stagioni evidentemente non ancora remote, in cui i regimi fascista, nazista e stalinista esercitavano tale diritto censorio, e giudicano l'idea indegna di un paese democratico. La responsabilità della stesura dei libri di testo compete agli editori e agli autori e la responsabilità della loro adozione compete agli insegnanti, alla cui oggettività e senso critico si delega il compito di giudicare se un testo sia valido, e in che misura possa essere eventualmente criticato e integrato in sede di lezione, addestrando così gli studenti non solo ad apprendere ma anche a giudicare le loro fonti di apprendimento. Questo è l'unico controllo che in un paese libero si può e si deve esercitare sui manuali scolastici. …si confida che la proposta rimanga semplicemente nel limbo delle cattive intenzioni. Tuttavia non si può fare a meno di rilevare che il fatto stesso che qualcuno l'abbia ventilata suscita serie preoccupazioni sullo stato di salute del nostro sistema democratico. Altri appelli per contrastare le "campagne contro i libri di testo faziosi" vennero sottoscritti anche da numerosi esponenti politici, sindacalisti, professori universitari, scrittori e associazioni.
Le opinioni degli storici. Giorgio Spini, chiamato in causa dalla rivista ''Area'', che lo citò tra gli storici ''faziosi o incompetenti o tutte e due le cose insieme'', si difese parlando di ''sciocchezze che si condannano da sole'' e di polemica ''messa su un piano inaccettabile e con un linguaggio che rivela la matrice nazista. E coi nazisti, che purtroppo esistono, non si discute''. Per quel che riguarda il discorso storico sulle foibe, che, secondo Spini, i manuali comunque affrontano, egli invitò a (…) ricordarci di tutte le aggressioni e atrocità commesse dagli italiani nell'ultima guerra a cominciare da quelle seguite alla conquista fascista dei Balcani. L'atroce reazione, che nessuna persona civile può approvare, con infoibamento di italiani, spesso innocenti, venne appunto dopo che furono gli italiani a gettare nelle foibe in notevole quantità i balcanici. Aggiungendo anche che, se dopo la guerra (…) ci fu in Italia tendenza a oscurare un po' quegli avvenimenti, fu perché altrimenti avremmo dovuto consegnare come criminali di guerra gli italiani che lì si erano macchiati di orrendi delitti. Un'ammonizione chiara a chi volesse rivisitare la storia in quel modo. Gabriele De Rosa, dopo aver messo in guardia l'opinione pubblica dal rischio dei "roghi", si dichiarò disponibile ad un confronto sui temi proposti, ma non a rispondere ad una condanna di precisa provenienza politica e ideologica, assolutamente illegittima. Sostenne inoltre che, considerato che i manuali parlavano di quel periodo, per tornarci sopra con più chiarezza bisognava ricordarsi di farlo con una ricostruzione globale, che tenesse conto del prima e del dopo e quindi anche degli "orrori di quella guerra e del fascismo ''. Rosario Villari dichiarò di aver dato conto sul suo manuale delle "modificazioni politico-territoriali provocate dalla seconda guerra mondiale, la cui responsabilità risale primariamente al nazifascismo, e sulle tragiche conseguenze che esse hanno avuto in Italia e in altri paesi" e di averlo fatto nella misura e nei termini da lui ritenuti convenienti alla trattazione manualistica, sulla base delle informazioni tratte dalle opere storiche citate nella bibliografia.
Le prese di posizione dei politici. Il presidente della Camera Luciano Violante, in un confronto tenutosi presso il Teatro Verdi a Trieste il 14 marzo '98 con il Presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, sul tema "Democrazia e identità nazionale: riflessioni dal confine orientale", affermò: Pochi sanno che questa terra ha avuto la deportazione, l'esodo e l'esilio. Non so se nel resto d'Italia si sa che questa terra è quella che ha pagato di più in termini di vite umane, di violenze. Non tutti sanno che la sconfitta della Seconda guerra è stata pagata qui e solo qui. Qui c'è stato un dolore non condiviso dall'altra parte d'Italia. Un dolore che si è separato e che è stato separato. I presidente di Rifondazione Comunista Armando Cossutta replicò duramente alle dichiarazioni di Violante sostenendo che fosse (…) una ignobile revisione della storia (…) Noi di Rifondazione siamo disposti a discutere dei crimini, delle violenze e delle tragedie di cui si sono macchiati i comunisti in tutto il mondo. Ma in Italia i fascisti hanno portato la guerra e la dittatura. Mentre, sempre qui, in Italia, i comunisti - ha chiesto polemicamente - di cosa dovrebbero vergognarsi? L'incontro di Trieste venne fortemente contestato da Rifondazione Comunista, anarchici e centri sociali, che lo definirono il "culmine di una campagna tendente a falsificare la storia con fini pacificatori", un episodio del revisionismo storico congruo "alla necessità per Fini di incassare una definitiva legittimazione dopo Verona e al tentativo di Violante di strappare un consenso anche a destra in vista della corsa verso la presidenza della Repubblica". Una risposta alle dichiarazioni di Violante arrivò anche da ben 75 storici italiani, che espressero in merito un netto dissenso, sottolineando in un documento "l'infondatezza storica dell'argomentazione e l'inconsistenza delle richieste avanzate". (…) sarebbe tanto semplicistico quanto unilaterale far ricadere la responsabilità delle foibe, soltanto sui partigiani dell'esercito di liberazione jugoslavo. (…) Non si può dimenticare, infatti, che la responsabilità della trasformazione di frizioni e conflitti interetnici, consueti e scontati in zone di confine, in contrapposizioni politiche irriducibili e risolvibili solo con la violenza, ricade prima di tutto sul regime monarchico-fascista che resse l'Italia dal 1922 in poi. (…) Delle foibe e delle espulsioni di massa deve essere considerato almeno corresponsabile il fascismo mussoliniano, con la sua politica imperiale ed aggressiva. (…) Iniziative come quella di Trieste sono incompatibili con la verità storica e con i valori fondamentali della Costituzione e suonano come un'offesa alla memoria di quanti hanno pagato con la vita la costruzione della democrazia in questo paese e nel resto d'Europa. (…) Faremo di tutto per impedire che delle mistificazioni diventino il fondamento della nuova memoria collettiva degli italiani. (documento firmato, tra gli altri, da Aldo Agosti, Francesco Barbagallo, Cesare Bermani, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Luigi Cortesi, Domenico Losurdo, Salvatore Lupo, Gianni Oliva e Claudio Pavone). Al documento replicò Violante: Consentitemi di esprimere il mio rincrescimento per la leggerezza con la quale un gruppo di autorevoli storici ha sottoscritto un documento contenente falsità facilmente verificabili. Risulta evidente che se i toni ed i metodi utilizzati per denunciare la faziosità dei libri di testi e le numerose omissioni possono essere stati in alcuni casi discutibili, al contrario l'utilità ed i risultati positivi di tale azione sono chiaramente riscontrabili dando un'occhiata alle edizioni dei libri di testo pubblicate dopo al dibattito.
Libri di testo di storia faziosi, scrive il 27 gennaio 2008 Francesco Agnoli. Tempo addietro alcuni personaggi cercarono di proporre all’opinione pubblica il problema dei libri di testo di storia delle scuole superiori. Ci volle poco per sottolineare la faziosità di gran parte di quelli in circolazione, ma poi la discussione venne lasciata cadere. Eppure il problema è grave: i testi scolastici sono afflitti da mentalità ideologica. Per questo la caratteristica più tipica è la classificazione semplicistica, la contrapposizione manichea, l’adozione di pregiudizi come chiavi di interpretazione onnicomprensiva. L’ideologia infatti non guarda la realtà, rifiuta di coglierne la complessità, non ricerca né tanto meno verifica. Per questo, solitamente, produce odio, gratuito. Eppure ha un “pregio”: incasellando tutto precisamente dà l’illusione di comprendere tutta la realtà. E’ così facile, anche per l’insegnante, catalogare, classificare, dividere fascisti e antifascisti, buoni e cattivi…Eppure la verità è ben diversa, sia perché non tutti sono così etichettabili, sia perché, a ben vedere, tantissimi sono gli elementi di somiglianza tra le ideologie del Novecento, di destra e di sinistra. Basti pensare alla provenienza politica e culturale di Mussolini, leader del socialismo massimalista, direttore de l’Avanti, ammirato da Lenin come l’unico grande rivoluzionario italiano. Accanto a lui, al fondatore della destra fascista, troviamo numerose personalità provenienti dal mondo della sinistra, come Farinacci, dell’Unione socialista italiana, Arpinati, di provenienza anarchica, o, all’epoca dell’RSI, Bombacci, uno dei fondatori del PCI nel 1921. Analogamente si riscontrano tante suggestioni socialiste nel partito di Hitler. Nei giorni di Weimar, nel caos generale, compare ad esempio un movimento di personaggi col volto dipinto e penne sul capo, detti “Uccelli Migratori”: sodomiti, nudisti, orientaleggianti, antenati degli indiani metropolitani. Di lì a poco finiranno nelle Sa di Hitler. In questi gruppi paramilitari nazisti vi sono forti convinzioni marxiste, sia perché molti degli aderenti provengono dai “Vecchi combattenti rossi”, sia perché il loro capo, il potentissimo Rohm, afferma: “Noi non abbiamo fatto una rivoluzione nazionale, ma una rivoluzione nazionalsocialista, e poniamo l’accento sulla parola socialista”. Il gerarca Goebbels sostiene la superiorità del bolscevismo sul capitalismo, mentre Gregor ed Otto Strasser, figure guida del nazismo nel nord della Germania, prevedono, nel loro programma, “il passaggio della grande industria in proprietà parziale dello Stato e dei comuni”. Inoltre, in ambienti nazisti, “si manifestava molta comprensione per la dottrina marxista della lotta di classe… (così che) il bolscevismo ed il nazionalsocialismo, visti come i due movimenti rivoluzionari del XX secolo, erano posti in così ampia misura su piani paralleli che il loro contrasto risultava esclusivamente nel fatto che Lenin avrebbe voluto con il mondo redimere anche la Germania, mentre Hitler avrebbe voluto redimere il mondo attraverso la Germania” ( E.Nolte, “Nazionalsocialismo e bolscevismo”, Rizzoli). Questa breve premessa può aiutarci a capire un altro fenomeno: il passaggio, in Italia, a fine guerra, di moltissimi intellettuali dal fascismo ai partiti di sinistra, specie al PCI filo-sovietico. E’ un altro capitolo di storia che, sfuggendo alle classificazioni semplicistiche, viene occultato dai libri di scuola. Occorre invece riflettere, cercar di capire. Vi possono essere state persone che cambiarono opinione, cosa legittima, anzi, indice, spesso, di onestà intellettuale. In altri casi invece sarebbe semplicistico parlare solo di opportunismo: più esatto riconoscere l’intercambiabilità esistente, spesso, tra atteggiamenti ideologici apparentemente contrapposti. Dal fascismo, o dalle riviste fasciste, vengono Argan, Bilenchi, Bocca, Buzzati, Contini, Flora, Fò, Pavese, Pratolini, Quasimodo, Vittorini, Zavattini…Fascisti duri e poi comunisti sono gli intellettuali e scrittori Malaparte, Cantimori, Bontempelli, Piovene, Chilanti, Santarelli, Fidia Gambetti, Lajolo…, alcuni dei quali passano da “La difesa della razza” a ruoli importanti ne “l’Unità”. Il buon Davide Lajolo, ad esempio, prima di diventare vice-direttore de “l’Unità”, affermava: “(Mussolini) è nella sala. La sala è piena di Lui. Non esistiamo che in Lui…bisogna guardarlo estasiati”. Poi i tempi cambiarono, e l’eroe divenne Stalin. Ma rimase spesso la mentalità ideologica, settaria, la stessa di molti libri di storia scolastici, e dei vari Camera-Fabietti che li scrivono.
Storia, manuali faziosi ma la politica ne stia fuori. I nostri studenti hanno una visione parziale dell’intera storia d’Italia, dal Risorgimento a Berlusconi. A questa deriva sinistrorsa bisogna opporre una severa critica culturale. Senza interventi dall’alto, scrive Mario Cervi, Venerdì 15/04/2011, su "Il Giornale". Gabriella Carlucci ha ieri difeso con impeto, sul Giornale, la sua proposta d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sull’imparzialità dei libri di testo scolastici. Nonostante l’appassionata perorazione, resto del parere che l’istituenda commissione sarebbe nel migliore dei casi una creatura inutile, e nel peggiore una creatura dannosa. Cercherò di spiegare i motivi del mio «no». Sono anzitutto d’accordo con Marcello Veneziani nel ritenere che le commissioni d’inchiesta non servano a niente (o servano soltanto ad assegnare qualche ulteriore auto blu e qualche appannaggio). La loro superfluità è dimostrata dall’esperienza. Trattandosi d’organismi che riproducono su scala ridotta gli equilibri delle assemblee, le deliberazioni dipendono, nei casi controversi, dal criterio secondo cui la maggioranza prevale sulla minoranza. Il che si addice perfettamente a decisioni politiche, non a decisioni che coinvolgano problemi di principio o di giustizia o etici. Si rischia insomma d’avere, con le commissioni parlamentari d’inchiesta, pronunce altalenanti in sintonia con la maggioranza del momento. Non nego - mi contraddirei se lo facessi perché questo dei libri di testo è stato un cavallo di battaglia del Giornale montanelliano - la faziosità di certi manuali scolastici ispirati a un conformismo politicamente corretto quando non a convinzioni ideologiche di una sinistra scatenata. Quei testi possono influenzare fortemente gli studenti, propinando loro come verità accertate quelle che sono soltanto asserzioni di parte, e magari dichiarazioni di fedeltà a idee e ideali demoliti, per fortuna, dalla Storia. Ma il rimedio a questo evidente e concreto pericolo sta in una scelta oculata da parte degli insegnanti e in una vigilanza attenta delle famiglie, non in misure che sappiano anche lontanamente di volontà censoria e che legittimano reazioni ammantate di nobili ideali. Un elemento mi rende particolarmente perplesso, nel proposito della Carlucci. Il suo evidente ispirarsi alle polemiche antiberlusconiane, ossia a un momento importante ma per forza di cose contingente - vi includo l’anagrafe - delle vicende nazionali. Siamo avvolti e frastornati da polemiche sulla personalità e sulle qualità umane e politiche del Cavaliere. Ma siamo anche avvolti e frastornati da tante altre polemiche che incidono profondamente nel tessuto della nostra identità e della nostra italianità. Negli scaffali delle biblioteche si allineano, è vero, pamphlet antiberlusconiani. Ma s’allineano anche, e in gran numero, saggi che contestano i momenti fondanti dello Stato e immiseriscono le vicende che accompagnarono l’Unità. Ho recensito di recente libri che descrivono il Risorgimento come un periodo in cui l’identità italiana, formata e affermata dalla Chiesa, fu violentata da un laicismo imperversante, dalla massoneria, dal Piemonte sabaudo e dai suoi alleati stranieri. Non condivido nemmeno un po’ quei giudizi, ma mi sembrerebbe arbitrario depennarli se fossero inseriti in qualche manuale. Ho letto saggi che annichiliscono le figure dei padri della Patria, saggi che mettono sotto accusa, vedendovi la causa di molti mali, la Prima Repubblica (insieme ad altri che invece della Dc, protagonista di mezzo secolo, tessono le lodi). Questo materiale immane viene affrontato e sviscerato, con esiti diversi, da molti storici e divulgatori, ciascuno di loro portandovi i suoi personali punti di vista: non di rado con intenti dissacratori e revisionisti. Può un’indagine del Parlamento - dove, a quanto risulta da alcune irriverenti domande, la conoscenza della storia non è d’alto livello - dirimere le innumerevoli questioni sul tappeto, e servirle belle che risolte a docenti e discenti? Figurarsi. È esistita, e in parte esiste tuttora, la famosa e famigerata egemonia culturale della sinistra. La vulgata cui si abbeverano gli studenti ha molto spesso un’impronta progressista che magari è invece passatista, visto che il comunismo e i suoi derivati appartengono al passato. Negletto il liberalismo, osannato a parole da tanti e nella pratica onorato da pochissimi. Ma alla deriva d’un sinistrismo di maniera si deve e si può opporre la critica, non una forma seppure attenuata di controllo dall’alto. Quella tanto evocata egemonia culturale deriva anche dal fatto che molti «moderati» - così come la Dc un tempo - attribuiscono poca importanza alla lettura e alla curiosità intellettuale, ritenute un impaccio al fare. Il fare, quando è di prima scelta, non fa impaccio a niente. Ma vale la pena di occuparsi anche d’altro. Un ultimo rilievo. Non so quanto Gabriella Carlucci sia consapevole della disistima degli italiani nei confronti del Parlamento. Se lo è, può facilmente immaginare lo scarso o nullo appeal che l’idea dì una Commissione parlamentare arbitra di temi intellettuali ha per gli italiani.
Quei libri di storia da bruciare, scrive Marina Cavalleri il 24 aprile 1997 su "La Repubblica". L'annuncio fatto ieri dagli studenti di An evoca scenari apocalittici: "La prossima settimana saremo in piazza a bruciare i libri di parte, davanti ad alcune scuole romane, al ministero della Pubblica istruzione e al Senato per chiarire che non siamo disposti ad accettare l'intolleranza ideologica dell'Ulivo". Libri al rogo, manuali di storia faziosi che meritano le fiamme. Gli studenti di destra minacciano azioni simboliche, annunciano gesti dal fosco sapore nazista o forse solo cinicamente pubblicitari. Ma invece dei libri ardono le polemiche e l'iniziativa libri al rogo, appena annunciata, annega in una pozzanghera di polemiche. Si gioca sulla Storia l'ultima guerra scolastica e dai banchi parte una crociata contro il governo. I giovani che aderiscono ad 'Azione studentesca' protestano contro il recente provvedimento che prevede la revisione dei programmi di storia e contro il ministro Berlinguer al quale si contesta di 'gestire la memoria della storia a fini di partito' . "E' una provocazione forte ma necessaria - spiega Marco Marsili responsabile nazionale di Azione studentesca - per richiamare l'attenzione sul grave rischio di indottrinamento culturale che corre la scuola pubblica". Così dopo le accuse di Ernesto Galli Della Loggia al ministro Berlinguer ("Programmi di storia nel segno della vulgata marxista"), arrivano i giovani di destra a tacciare di dittatura ideologica la sinistra alla Pubblica istruzione. Dovrebbero finire nelle fiamme testi come quelli di Spini o il Camera Fabietti. Ma il rogo annunciato però non piace ad Alleanza nazionale che sconfessa l'iniziativa: "E' una sciocca provocazione. I libri si possono confutare, ma in ogni caso i giovani, compresi quelli di Azione studentesca, farebbero meglio a leggerli". Ma la tirata d' orecchi di Fini è ancora più violenta. "Chi annuncia il rogo dei libri è un ignorante che non conosce la storia. A destra non c' è posto per cretini di questo genere". Finisce male per gli studenti di An, le fiamme non ardono. Ma già prima della stroncatura del partito c' erano state prese di distanze, polemiche, bocciature. Ernesto Galli Della Loggia precisa: "Citare i miei articoli in margine all' annuncio del rogo dei libri di testo di storia è un tipico caso di strumentalizzazione. I libri non si devono bruciare e il signor Marsilio forse non sa di avere tra i suoi progenitori i nazisti, cui è andata piuttosto male". "Sono fuori luogo", dice Marcello Veneziani, ex direttore dell'Italia settimanale, "non darei eccessiva importanza alle dichiarazioni di un gruppo il cui atteggiamento estremista non è condiviso dalla maggioranza della destra giovanile". E Giuseppe Malgieri, direttore del Secolo d' Italia: "La faziosità di alcuni libri autorizza a posizioni intransigenti: ma un conto è la denuncia, un conto i roghi".
Onestà intellettuale? Ignoranza insensibilità e faziosità dei testi scolastici i libri di testo delle scuole sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante, scrive Francesco Lamendola il 29 settembre 2010. All’insegnante che abbia un po’ di esperienza e un minimo di colpo d’occhio non sfugge il fatto che gli strumenti di cui si serve quotidianamente nella sua professione, i libri di testo delle scuole, sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale. Egli, pertanto, è costretto a insegnare ai propri studenti servendosi di uno strumento peggio che difettoso: di uno strumento assolutamente scorretto e fuorviante, il quale tende sistematicamente a falsare la percezione della realtà, sia quella del presente che del passato. Si dirà che basta scegliere con cura i libri di testo e che ogni insegnante, dopo tutto, gode della massima libertà di optare per un libro, anziché per un altro. Verissimo: ma il fatto è che i libri di testo oggi in circolazione, praticamente senza eccezione, sono un po’ come i canali televisivi: ce ne sono tantissimi, ma tutti suppergiù si equivalgono quanto a ignoranza, insensibilità e faziosità; tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante. Nel corso di un paio d’ore di lezione, ad esempio, può capitare che un professore di liceo, rimanendo all’interno di una singola classe, debba scontrarsi più di una volta con la grossolana tendenziosità e con l’ottusa arroganza intellettuale dei libri di testo.
Supponiamo che la prima ora di lezione sia di italiano e che la seconda sia di storia. Ora di letteratura italiana: si parla del Seicento, si parla di Galilei, si parla del «Saggiatore». Si legge l’immancabile «favola dei suoni», in cui Galilei, dietro l’apparenza di celebrare la modestia intellettuale dello scienziato e l’infinità del sapere, esalta invece la manipolazione delle cose, il dominio brutale sulla natura, l’orgoglio sconfinato dell’uomo di scienza che si sente al di sopra della morale, del bene e del male. Si parla della vivisezione di una cicala, perché lo scienziato vuole comprendere l’origine del suo frinire: non una parola di rammarico per il crudele trattamento inflitto alla bestiola; non una parola di dispiacere per quella piccola meraviglia della natura che viene distrutta. L’unico rammarico è di non aver compreso come si produca il suono. Questo, da parte di Galilei. I curatori dell’antologia scolastica, tutti senza eccezione, presentano il fatto senza batter ciglio. Addirittura, la sofferenza e l’uccisione dell’animale vengono ignorati; sono un semplice inciso all’interno di una proposizione molto più ampia e complessa; tutta l’attenzione e tutta l’ammirazione del giovane lettore sono indirizzati verso l’intrepido scienziato, esploratore dell’ignoto, novello Ulisse che agisce sospinto da una santo amore di conoscenza, tanto pura quanto disinteressata. Nessun curatore di testi scolastici fa notare che questo è un esempio di scienza senza coscienza; che dallo “stupore” di Galilei verso la natura non derivano né umiltà, né compassione, né senso della bellezza; che la moderna vivisezione di milioni di cavie animali e, più in generale, l’implacabile manipolazione di esseri viventi da parte della tecnoscienza, sono la logica conseguenza di questo modo di porsi davanti alle cose, iniziato con la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo: meccanicista, razionalista, riduzionista, utilitarista e tendenzialmente materialista.
Seconda ora di lezione: storia. Si parla dell’espansione europea negli altri continenti fra il XVI e il XVIII secolo; più precisamente, si parla dell’espansione inglese in India e in Australia. Ebbene, nemmeno una parola sullo sconvolgimento sociale ed economico portato dalla presenza britannica in India; peggio ancora, nemmeno una parola sul genocidio degli aborigeni australiani, sulla caccia all’uomo dei Tasmaniani, fino alla loro estinzione totale, allorché l’ultima rappresentante di quel popolo mite e inoffensivo, contro la sua esplicita volontà, venne imbalsamata dopo la morte ed esposta in una sala del museo di antropologia di Hobart, per la delizia della scienza e del pubblico pagante. Qui c’è qualcosa che non quadra. Qualcosa di profondamente sbagliato sia sul piano storiografico, sia sul piano etico. Si parla dell’Australia come se fosse stata disabitata, come se fosse stata “res nullius”. Non si dice che i suoi abitanti erano il popolo più antico dell’umanità e che occupavano quei luoghi da qualcosa come 40.000 anni; non si dice che i bianchi li sterminarono a freddo, per impiantare le loro fattorie e i loro allevamenti di pecore. Eppure, quello consumato contro di loro fu un genocidio. Ma l’unico genocidio di cui si parla sui libri di testo scolastici è quello degli Ebrei ad opera dei nazisti. Solo la Germania, secondo gli autori dei nostri libri di testo, porta un simile peso sulla coscienza; la Gran Bretagna no, quando mai: gli Inglesi sono “buoni”, hanno sempre combattuto guerre giuste, guerre per la libertà altrui. Hanno salvato l’Europa e il mondo dal nazismo, quindi sono i “liberatori” per eccellenza. Sarà per questo che non si dice, su quei libri di testo, che il primo esercito ad impiegare le armi batteriologiche fu quello inglese, nel 1755, allorché il generale Edward Braddock fece distribuire agli indiani del Nord America delle coperte infettate dal vaiolo, provocando deliberatamente la morte di migliaia di uomini, donne e bambini inermi? Tutti, oggi, conoscono i nomi di Hitler, di Himmler, di Eichmann; nessuno conosce il nome di Braddock.
Davvero, c’è da rimanere disgustati. Abbandonati in balia di simili libri di testo, la mente e la coscienza degli studenti sarebbero perdute, se qualche insegnate non si prendesse la briga di farli riflettere e di insegnare loro l’uso critico delle fonti. Gli stereotipi che vengono perpetuati da questa impostazione didattica sono volutamente funzionali ai poteri forti oggi dominanti: la tecnoscienza, il capitalismo selvaggio dell’alta finanza e delle multinazionali, l’Impero americano e il sionismo internazionale, con tutte le sue tentacolari diramazioni. Analoghe sconcezze si trovano, purtroppo, nei testi di quasi tutte le discipline scolastiche, in particolare in quelli di storia della filosofia, che sono redatti, la maggior parte delle volte, in maniera semplicemente oscena. Vengono esaltati acriticamente sempre gli stessi pensatori, magari proprio in ciò che vi è di maggiormente discutibile nel loro pensiero (vedi Galilei); e vengono ignorati quelli che presentano un punto di vista alternativo all’attuale Pensiero Unico. Non parliamo poi della filosofia dell’Asia, di cui non si sa nulla, quindi nulla si insegna: la storia della filosofia è rimasta profondamente etnocentrica.
Forse solo i libri di matematica, alla fine, si salvano; perché in quell’ambito è difficile, se non impossibile, fare certi giochetti. Sia chiaro che non pretendiamo che gli autori dei libri di testo sposino, necessariamente, una visione del reale di tipo olistico, spirituale, ecologicamente sostenibile e via dicendo; sarebbe troppa grazia. Ci accontenteremmo di vedere un minimo di problematicità, un minimo di contraddittorio, un minimo di consapevolezza che, nella modernità, vi sono le luci, ma anche le ombre; vi sono le conquiste del progresso, ma vi è anche il ritorno della barbarie; le maggiori comodità materiali, ma anche la bomba atomica, la catastrofe ambientale, lo sconvolgimento climatico. Ci basterebbe che, in quei benedetti libri, non si intonassero sempre e solo i peana dei vincitori; che vi fossero un po’ di spazio, un po’ di attenzione e, perché no, un po’ di compassione anche per i vinti. Che si parlasse anche delle ragioni della cicala vivisezionata, della vecchia tasmaniana il cui cadavere fu ridotto ad attrazione da museo, dei pellerossa che morirono come mosche per il vaiolo portato alle coperte del generale Braddock. Che sui libri di storia della seconda guerra mondiale si parlasse dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti, ma anche dei sette fratelli Govoni fucilati dai partigiani. Che si parlasse della distruzione di Amsterdam e Varsavia da parte dei nazisti, ma anche di quella di Amburgo e Dresda da parte degli Alleati. Che si parlasse della Risiera di San Saba, ma anche della foiba di Ugovizza; che si parlasse delle migliaia di Italiani assassinati a guerra finita, per vendetta, senza una tomba su cui i loro cari potessero posare un fiore.
Che si parlasse di Auschwitz e di Dachau, ma anche di Hiroshima e Nagasaki. Quanta falsità istituzionalizzata; quanta ipocrisia; quanta cattiva coscienza. E con questa mancanza di serietà didattica e morale, con questo servilismo verso la Vulgata dei vincitori, con questa faziosità senza pudore e senza vergogna, vorremmo insegnare qualcosa ai nostri ragazzi? Tutto quel che possiamo insegnare loro, in simili condizioni, sono il più piatto conformismo intellettuale e la più bieca ipocrisia; e i frutti li vediamo ogni giorno, osservando la spudoratezza con cui la stampa si adopera per manipolare il pubblico, senza che si levi una sola voce di virile indignazione e di protesta sacrosanta. Prendiamo il caso di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte nel suo Paese per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. I media occidentali ne hanno fatto una bandiera di libertà e l’hanno quasi santificata, inorriditi all’idea della sua lapidazione. Ora che, come sembra, l’esecuzione avverrà invece mediante impiccagione, il fuoco di fila delle proteste, diplomatiche oltre che di opinione pubblica (e il governo italiano, come sempre in questi casi, brilla per la sua crociata in favore della “civiltà”), si è spostato dal modo della pena alla pena in se stessa: Sakineh non dev’essere uccisa, punto e basta. Encomiabile umanitarismo; peccato che non si spenda una parola per i condannati e le condannate a morte negli altri Paesi del mondo, e specialmente per quelli degli Stati Uniti d’America, la madre di tutte le democrazie, minorenni compresi (ma li si fa aspettare nel braccio della morte finché diventino maggiorenni, prima di sopprimerli). Si vede che assassinare legalmente un uomo è meno grave che se si tratta di una donna; oppure assassinarlo con una iniezione letale o fulminandolo sulla sedia elettrica è ritenuto meno esecrabile che farlo con le pietre o con il cappio. A nessuno, pare, viene in mente che il vero problema non è umanitario, ma politico: si vuol dipingere il governo iraniano come una banda di carnefici, cosa che potrebbe anche essere: ma non per la condanna di Sakineh; lo si vuole screditare e infangare per favorire il sionismo, che vede in lui il suo peggior nemico. E questo mentre le scavatrici israeliane, con furia indecente, allo scadere della moratoria si sono rimesse febbrilmente al lavoro per costruire nuove abitazioni destinate ai coloni ebrei in Cisgiordania, con buona pace delle trattative di pace e di innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite in favore dei Palestinesi.
Dunque: libri di scuola menzogneri, conformisti, culturalmente disonesti; futuri cittadini ignoranti, intellettualmente pigri e facilmente manipolabili. Una volta i libri di testo li scrivevano fior fior di specialisti; quelli di storia, ad esempio, li scrivevano insigni storici; quelli di storia dell’arte, illustri storici dell’arte. Oggi i libri di scuola li firmano non più singoli autori, ma équipe di intellettualini a un tanto il chilo, gente che nelle scuole non ci ha mai messo piede: lo si vede da come scrivono, costringendo gli insegnati a spiegare quasi ogni riga e ogni parola e a tradurle in un italiano comprensibile al pubblico cui, in teoria, sono destinati: dei giovani dal modesto retroterra culturale. Ma tanto si sa che quello dei libri scolastici è un business delle case editrici, una specie di mafia altamente sofisticata: l’ultimo ritrovato è quello di cambiare qualche paragrafo qua e là ogni due-tre anni, per impedire che il libro possa passare di mano dal fratello maggiore al fratello minore e permettere, così, alle famiglie di risparmiare qualche migliaio di euro. Insomma, per dir le cose come stanno: siamo in presenza di un panorama desolante e deprimente, di uno squallore assoluto. Tutto quello che si può sperare è che gli insegnanti, insieme al veleno, forniscano ai loro studenti anche l’antidoto: ossia che mostrino loro come ci si deve porre in maniera critica di fronte ad un libro di testo, anzi, di fronte a qualsiasi libro; così come bisognerebbe fare di fronte a qualsiasi giornale, a qualsiasi programma televisivo, a qualsiasi film. Ma ne avranno la capacità, la voglia, l’onestà intellettuale? Oppure, figli di un Sessantotto che è stato esiziale per l’università, per la cultura e per il pensare in modo non conformista, molti di loro sono i primi a sposare il Pensiero Unico; magari rimangiandosi molti dei loro ideali di allora, ma fedeli - in compenso - al servilismo intellettuale di sempre?
Articolo già pubblicato su “il Corriere delle Regioni” il 12/05/17 e su Arianna Editrice il 29/09/2010
Libri Faziosi - Quando la storia diventa una favola... sinistra! Scrive Azione Giovani Matera. Bertold Brecht diceva "il libro è un’arma". E aveva ragione. Un’arma estremamente efficace, soprattutto se utilizzata contro chi non ha scudi per difendersi. Nelle scuole italiane quest’arma è stata usata per oltre cinquant’anni, e ha sortito l’effetto desiderato, cioè quello di indottrinare generazioni attraverso l’omissione di intere pagine della nostra storia e la mistificazione di altre. Per anni Azione Studentesca, e prima ancora Fare Fronte, si sono battuti contro la faziosità con la quale vengono scritti molti dei testi adottati negli istituti superiori, testi che trattano in particolare la storia, la letteratura, la filosofia e l’arte. Abbiamo denunciato il silenzio colpevole, quando non la connivenza, degli storici, dei docenti, della stampa e del Ministero della Pubblica Istruzione. Nulla. La situazione è addirittura peggiorata con l’entrata in vigore del Decreto sul ‘900, che impone, durante l’ultimo anno delle superiori, lo studio del XX secolo fino ai giorni nostri. Scorgendo alcuni dei testi che vengono adottati nelle scuole superiori, non si ha difficoltà a incontrare mistificazioni, commenti faziosi, veri e propri falsi storici, fino ad arrivare a una evidente campagna elettorale. In questo dossier vengono riportati alcuni esempi che dimostrano come sia facile fare propaganda ideologica, politica e partitica utilizzando la scuola pubblica. Così, come qualcuno ha detto, "la storia è stata sottomessa alla corsa al potere dell’ex PCI". Questo Dossier non rappresenta il tentativo di scagionare alcuni personaggi o fatti storici e di condannarne altri, perché non faremmo niente di diverso da quello che è stato fatto finora. La nostra unica volontà è quella di dimostrare come anche una certa cultura imposta nelle scuole abbia contribuito ad alimentare una guerra civile, spesso latente, che in Italia dura da cinquant’anni, e che ha causato lo scontro, spesso durissimo, tra intere generazioni, divise in nome di ideali e appartenenze anacronistici. Le case editrici, gli autori, i docenti e il Ministero della Pubblica Istruzione che permettono la stampa di alcuni libri di testo, devono assumersi la responsabilità di voler alimentare questo scontro, e di impedire che il popolo italiano possa ricostruirsi una sua identità comune, che può nascere solo da una lettura obbiettiva e serena della sua storia. Non si tratta di scrivere libri "di sinistra" o di "destra" (alla denuncia di Azione Studentesca l’ineffabile Ministro Berlinguer ha risposto suggerendo di scrivere libri di destra per contrastare quelli di sinistra – COMPLIMENTI!), chiediamo solo la verità.
Un esempio: nella maggior parte dei libri di storia non c’è una parola sulle migliaia di nostri connazionali uccisi nelle foibe dai comunisti di Tito per la sola colpa di essere italiani. Noi non chiediamo che se ne parli per riportare il numero esatto delle vittime del comunismo nel mondo sui libri di storia. Non ci sogniamo una edizione scolastica del "libro nero del Comunismo", non ci interessa. Noi chiediamo che se ne parli perché è vergognoso che una Nazione degna di questo nome sia disposta a dimenticare i suoi martiri in nome di un interesse di parte. Né si può dare credito a quanti sostengono che determinate pagine di storia siano state omesse per permettere proprio la costruzione di una nuova identità nazionale sul mito – debole - della Resistenza, perché, se anche questa teoria fosse credibile (e non lo è), non sarebbe più valida dopo cinquantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Nulla giustifica la faziosità con la quale spesso si parla di determinati fatti e personaggi dei giorni nostri.
Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, è vero anche che costoro hanno vinto più di cinquant’anni fa. Ora basta. E’ tempo che le nuove generazioni abbiano la possibilità di confrontarsi per ricucire una ferita che ha sanguinato troppo a lungo.
C’ERA UNA VOLTA…Qui di seguito riportiamo alcuni degli esempi più significativi (riportarli tutti avrebbe voluto dire scrivere centinaia di pagine!) di mistificazione dei principali testi di storia adottati nelle ultime classi delle scuole superiori.
"ELEMENTI DI STORIA – XX secolo" di Augusto Camera e Renato Fabietti IV Edizione per ZANICHELLI. Pag. 1575 "Quanto alla pretesa di una parità etico-politica delle due parti in lotta [Combattenti della Repubblica Sociale e Partigiani – ndr], si vorrà riconoscere (e i più avveduti militanti di provenienza fascista hanno effettivamente riconosciuto) che da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per il totalitarismo e per la schiavitù. Né si dica che se da una parte ci si schierava per i Lager dall’altra ci si batteva per i Gulag, perché, in primo luogo, i Lager erano solo la conseguenza estrema, ma logica e necessaria, di un regime che si fondava sulla disuguaglianza degli uomini, sulla sopraffazione e l’eliminazione delle "razze inferiori", sull’asservimento degli Untermenschen, mentre in linea di principio il comunismo esprimeva l’esigenza di uguaglianza come premessa di libertà (e l’ignominia dei Gulag non è dipesa da questo sacrosanto ideale, ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla "conversione di Stalin al tradizionale imperialismo); in secondo luogo, i militanti comunisti italiani certamente non si battevano per importare anche in Italia i Gulag ma per eliminare ingiustizie e privilegi." Ecco quello che non temiamo di definire un bieco tentativo di giustificare l’ingiustificabile. Facciamo rispondere per noi ad Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel per la letteratura nel 1970, privato della cittadinanza sovietica ed espulso nel 1974. Scrive Solzenicyn, affrontando un aspro parallelismo tra i servi della gleba dell’epoca zarista e i detenuti nei Gulag dell’epoca "dell’illuminato impero sovietico": "[…] Non gli è permesso il più piccolo temperino, non gli è permesso avere una scodella, di animali domestici è autorizzato a tenere solo i pidocchi. Il servo della gleba poteva di tanto in tanto buttare le reti, pescare qualcosa. Il detenuto pesca solo con il cucchiaio, nella sbobba. Il servo della gleba aveva la sua mucca, o una capra, polli. Il detenuto non si unge neppure le labbra con il latte, mai, non vede un uovo per decenni, potrebbe addirittura non riconoscerlo se lo vedesse."
Pagg. 1564-1566 "L’8 settembre 1943, nel vuoto di potere determinato dallo sfacelo dello Stato Italiano, furono uccise, soprattutto in Istria 500/700 persone. Per quanto gravi, quei fatti non corrispondevano però a un disegno politico preordinato: essi furono piuttosto la conseguenza di uno sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti, paragonabile alla strage di fascisti perpetrata nel Nord Italia dopo il 25 aprile, nella quale certo non intervennero motivazioni etniche di nessun genere." […] Eccoci davanti a un vero falso storico. Tutti ormai sanno che la triste pagina delle Foibe venne scritta dai soldati di Tito tesi ad una vera e propria pulizia etnica. Le vittime italiane non erano fascisti, ma gente comune, contadini ed abitanti del luogo; donne e bambini. "[…] Noi non abbozzeremo un bilancio degli "infoibati" e dei soppressi in vario modo e in varie circostanze, in primo luogo e soprattutto perché le cifre fornite dalle varie fonti sono disparate e malcerte; in secondo luogo perché l’abitudine invalsa di usare come argomento politico il cumulo dei cadaveri gravante sulla coscienza di questo o quel partito ci sembra disgustosa." Bravi! Finalmente un po’ di onestà intellettuale… peccato solo che il disgusto che gli autori del libro provano in questa specifica circostanza non sia sorto spontaneo in tutte le altre circostanze in cui, a commettere crimini contro l’umanità sono stati esponenti della parte politica a loro avversa. "[…] Altrettanto inammissibile ci sembra il fatto che osino chieder conto della ferita sofferta dall’Italia nelle sue regioni nord-orientali coloro che di tale ferita sono stati i primi responsabili o coloro che di tali primi responsabili si dichiarano eredi e continuatori." Vergogna! Non ci sarebbe bisogno di nessun commento, se non fosse che gli autori, non paghi, accanto all’immagine della lapide commemorativa eretta sulla Foiba di Basovizza pubblicata sul loro volume, hanno scritto: "[…] Dopo la prima guerra mondiale fu usata come discarica [la Foiba di Basovizza ndr], anche di materiale bellico; ed ebbe una sua triste fama come meta di suicidi. E’ stata dichiarata come monumento nazionale nel 1992." Sul massacro di Basovizza il giornale Libera Stampa in data 1.8.1945 pubblicava un articolo dal titolo: "Il massacro di Basovizza confermato dal CLN Giuliano". Piena luce sia fatta in nome della civiltà. Una dettagliata documentazione trasmessa alle autorità alleate della zona e al Governo Italiano." L’articolo riportava un documento sottoscritto da tutti i componenti del CLN che denunciava i crimini accaduti a Trieste tra il 2 e il 5 maggio 1945: "Centinaia di cittadini vennero trasportati nel cosiddetto Pozzo della Miniera in località prossima a Basovizza e fatti precipitare nell’abisso profondo 240 metri. Su quei disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli".
Pag. 1569 "[…] I partigiani esercitarono le rappresaglie sempre e soltanto sui nemici nazisti e fascisti fatti prigionieri, non mai sulla popolazione civile, neppure quando questa si dimostrava attesista e opportunista." Altro falso storico, stavolta addirittura clamoroso. Tanto per citare solo uno dei fatti, il 7 febbraio 1945 un gruppo di partigiani italiani della brigata comunista Garibaldi compiva il triste eccidio di Malga-Porzus a danno di 19 partigiani della brigata cattolica Osoppo, che ostacolavano l’attuazione del progetto jugoslavo, teso all’annessione di territori italiani alla Jugoslavia comunista di Tito. "[…] è anzi importante rilevare come i combattenti anti-fascisti si preoccupassero di non compromettere invano la popolazione civile". E la favola - o la farsa - continua. Se è vero che i combattenti anti-fascisti si preoccupavano di non compromettere la popolazione civile, come è possibile che abbiano piazzato una bomba in Via Rasella uccidendo, oltre a 32 militari tedeschi, anche civili italiani compreso un bambino? E come è possibile che non avvertirono il dovere morale di costituirsi quando appresero della rappresaglia che sarebbe scattata a danno di 335 civili innocenti? Anche i "combattenti per la libertà" dovrebbero sapere che non è ammissibile far pagare alla popolazione inerte le scelte che si fanno in guerra.
Pag. 1663 "[…] Al terrorismo nero si salda presto il terrorismo che si dichiara rosso e proletario, ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria di ispirazione fascistoide." Siamo al delirio! Al di là dei nonsensi contenuti in questa frase (non si capisce perché in ambienti universitari e della piccola borghesia non si possa essere comunisti!), la "capriola" mentale degli autori non può che far ridere come un buon numero di cabaret: il terrorismo rosso non esiste. Anche quello che si proclama tale, a ben vedere, è fascista. Bah!
Pag. 1674 "[…] La volontà di cambiamento e la protesta contro la partitocrazia e contro il consociativismo si espressero anche nei consensi relativamente numerosi ottenuti dal Movimento Sociale Italiano (5%) […] Notevole fu invece il successo ottenuto da Rifondazione Comunista (6%), da interpretare però non come protesta contro il sistema dei partiti, ma come rifiuto della società esistente e come espressione di fedeltà ai vecchi ideali della lotta proletaria." Veramente degna di due storici questa lucida analisi. "[…] Il tracollo del comunismo in URSS e nei paesi satelliti contribuì certo a ridimensionare il vecchio PCI e, almeno in un primo tempo, il nuovo PDS (i cui militanti venivano spesso detti tendenziosamente "ex-comunisti" anziché democratici di sinistra)." Non riconoscere le "mutazioni" storiche dei partiti e dei suoi militanti è pratica molto diffusa in Italia. Allo scopo segnaliamo nello stesso libro il passo che segue. Pag. 1680 Accanto all’immagine dell’etichetta comparsa su alcune bottiglie di vino prodotte a Predappio nei tardi anni ‘80, gli autori scrivono questa didascalia: "Sino agli inizi degli anni novanta, il Movimento Sociale Italiano si richiamò esplicitamente ai contenuti e allo stile del Fascismo Repubblicano. L’etichetta qui riportata, per esempio, se anche non fu esplicita iniziativa dell’MSI, certo si ispirò alla sua linea politica […]" Per dovere di cronaca, vi riportiamo quanto scritto sulla citata etichetta: Nero di Predappio – bevo e me ne frego – dona giovinezza. Vino del camerata. Ci sorge un dubbio: gli autori avevano forse assaggiato, e magari abusato, di questo vino quando hanno scritto la loro didascalia? Non paghi, comunque, continuano: "Il sillogismo implicito, insomma, assumeva nella conoscenza di molti una formulazione di questo tipo: "la Prima Repubblica è stata una vergogna; la Prima Repubblica è nata dalla Resistenza; la Resistenza è una vergogna; rivalutiamo il fascismo". A questo "revisionismo" inconsapevole della gente si saldava da tempo sia il revisionismo critico messo in cantiere da alcuni storici di professione, come il citato Renzo de Felice […]" Se de Felice fu chiaramente storico di professione, proprio non ci riesce di capire quale sia la professione di Camera e Fabietti. Inizia la campagna elettorale… "a proposito di Berlusconi".
Pag. 1682 – scheda 51.3 - Pag. 1683/1684/1690 "[…] L’articolo 1 della nostra Costituzione dichiara: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione." Nelle parole di Berlusconi e dei suoi portavoce la fondamentale riserva da noi corrivata venne sistematicamente omessa, e non si trattò certo di un’omissione casuale e irrilevante: così mutilato, infatti, l’art. 1 non garantisce più che la sovranità popolare sia esercitata nel rispetto delle regole previste a tutela delle minoranze, e il "popolo" si trasforma nella "gente", la cui opinione è accertata giorno per giorno mediante i cosiddetti sondaggi." "[…] L’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla direzione generale anti-mafia, alla Banca d’Italia, alla Corte Costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica [Scalfaro ndr] , condotti da Berlusconi o dai suoi portavoce, esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal Governo alle pensioni, alla sanità e in genere alle spese statali per la previdenza sociale[…]" "[…] Tali pronunciamenti [di Berlusconi ndr] , rafforzati da altre dichiarazioni simili di Fini e dei Cristiani Democratici, miravano esplicitamente a ridurre o a vanificare la libertà di scelta del Presidente della Repubblica […]" "[…] Di là di tutte le argomentazioni, del resto, Berlusconi aveva urgente bisogno di recuperare il potere e di varare quella riforma della giustizia ch’egli riteneva necessaria e che pensava l’avrebbe messo al riparo dagli avvisi di garanzia e da eventuali condanne." "[…] Da destra e da sinistra si ripeteva giustamente che le regole generali della vita politica dovevano essere concordate tra tutti i partiti, ma, dopo che la Commissione ebbe concluso i lavori ed ebbe approvato quasi all’unanimità un documento unico in cui si prospettavano le riforme da varare, d’un tratto Berlusconi e i suoi alleati mutarono atteggiamento, cosicché l’esito concreto della Bicamerale fu del tutto deludente." Senza commento.
Pag. 1688 – 1884 (didascalia fig. 56.33) …continua la campagna elettorale…"[…] A meno che – grazie a un’intesa internazionale – non si diminuiscano le ore settimanali di lavoro (come è stato fatto in alcuni paesi e proposto anche in Italia) […]" Il richiamo alla proposta di Rifondazione Comunista circa le 35 ore lavorative settimanali, è fin troppo evidente. Ce li immaginiamo Camera e Fabietti sotto il palco di Bertinotti a spellarsi le mani con gli applausi ogni volta che il leader di Rifondazione Comunista prende la parola. "[…] Nella Cina uscita dalle riforme varate da Den Xiao Ping nel 1978, le vecchie copie cartacee del Libretto Rosso sono merce da bancarella di souvenir, così come i grandi ritratti di Mao, Lenin, Stalin, Engels, Marx ingialliscono nei magazzini delle librerie di stato. E’ invece possibile la lettura in CD grazie l’edizione multimediale delle opere complete di Mao realizzata nel 1998." Ci piange il cuore per le opere cartacee di siffatti statisti, ma ci consoliamo tutti con l’opera multimediale di Mao. Un solo rimprovero agli autori: già che c’erano, potevano dirci dove trovarle per un "acquisto democratico e proletario"…Quasi a voler rispondere a questo nostro opuscolo, gli autori Camera e Fabietti, nel triste tentativo di difendersi dalla loro stessa incapacità a scrivere un testo di storia con quell’obiettività che si richiede ad uno storico serio, scrivono:
Pag. 1563 "Perché dunque la Repubblica potesse essere proposta come patria comune di tutti gli italiani, è stato necessario, per un verso, alterare la prospettiva storica trasformando la maggioranza afascista in maggioranza antifascista, che avrebbe opposto all’occupazione tedesca almeno una resistenza passiva, e per l’altro verso, si è dovuta negare la qualifica d’italianità ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, degradandoli a semplici mercenari al servizio degli invasori nazisti. Ed è stato altresì necessario ignorare quanto è accaduto sul nostro confine giuliano, dimenticare le stragi perpetrate da Tito , e dai suoi partigiani, dimenticare l’ignominia delle foibe, perché l’attenzione rivolta verso questi eventi e verso questi problemi avrebbe costretto a prendere atto delle lacerazioni interne alla Resistenza e a rompere ogni rapporto di collaborazione, sia pure polemica, con Togliatti e col suo partito, che a proposito della Venezia Giulia avevano assunto (o erano stati costretti ad assumere, dati i loro rapporti di sudditanza nei confronti dell’URSS) posizioni non conciliabili con gli interessi della nazione italiana. Ma la rottura con i comunisti, che nella Resistenza avevano svolto una parte di primo piano, avrebbe tolto uno dei supporti fondamentali all’inevitabile "mito" della Resistenza come fondamento unitario – comunista, "azionista", socialista, cattolico e liberal-democratico – della patria repubblicana." Ipocriti!
"MANUALE DI STORIA 3 L’Età contemporanea" A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto per Editori Laterza, nuova edizione aggiornata. Pag. 866 "[…] Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di P.zza Fontana, vi furono le bombe in P.zza della Loggia a Brescia, nel maggio ’74, e quelle sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno, l’attentato alla stazione di Bologna (con oltre 80 morti) nell’agosto ’80. La ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica che attribuisce le stragi ad esponenti della destra eversiva sostenuti dai servizi segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non ha trovato ancora (salvo che per Bologna) una conferma nella magistratura giudicante […]." Vorremmo ricordare agli autori che la "ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica" non è storia.
Pag. 943 Anche qui siamo in campagna elettorale…"[…] Le ragioni della vittoria di Berlusconi, una vittoria confermata e anzi accresciuta nelle elezioni europee di giugno, furono attribuite non solo al sostegno delle sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi – con efficaci messaggi al tempo stesso popolari e populistici – come l’unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato via dagli scandali di tangentopoli […]".
Pag. 945 "[…] I referendum erano intesi a ridimensionare il potere televisivo di Berlusconi e la sconfitta dei proponenti fu interpretata come un successo anche politico dell’imprenditore milanese e della sua capacità di influenzare il grande pubblico. […]"
Pag. 946 "[…] Rimaneva invece aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell’ordine giudiziario e settori della classe politica, che criticavano il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. […]"
Pag. 947 "[…] Proprio una maggiore capacità di aggregazione e una maggiore credibilità dei candidati aveva consentito allo schieramento di centro-sinistra di riconquistare nelle elezioni amministrative della primavera-autunno 1997 la guida di molti altri centri come Torino, Roma […]"
"L’ETA’ CONTEMPORANEA – il novecento e il mondo attuale" P. Ortoleva, M. Revelli. Nuova periodizzazione per Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori. Pag. 310 "[…]Nell’esaltazione della figura di Stalin che raggiunse aspetti di un vero e proprio "culto della personalità" (come sarebbe stato definito questo fenomeno negli anni cinquanta), non si trovava, infatti, solo il rapporto capo-seguaci tipico di tutti gli stati autoritari di quegli anni ( e pure di stati meno autoritari, come gli USA), ma anche la risposta a un profondo bisogno di stabilità e di certezza: in quel clima di continui e violenti mutamenti, la figura di Stalin appariva rassicurante nella sua immensa autorità e nella sua salda permanenza al potere. Il timore da essa ispirato poteva quasi essere sentito positivamente, come il rispetto dovuto a un’autorità dura ma giusta. Il ritmo continuo delle trasformazioni sociali e politiche, che continuavano ad abbattere senza sosta ceti, come i kulàki, e figure fino a poco prima onnipotenti come i leader man mano liquidati da Stalin, poteva anche essere interpretato come la prova di una grande volontà di eguaglianza, pronta a colpire il privilegio ovunque si formasse: Stalin diveniva, in tal senso, l’incarnazione di una rivoluzione giusta e livellatrice. […]" Il passo si commenta da solo, quindi non ci dilunghiamo più di tanto. Ci preme però ricordare che i kulàki uccisi dal regime stalinista furono cinque milioni. Cinque milioni di esseri umani sterminati di cui nessuno parla e che nessuno ricorda né commemora.
Pag. 315 "La politica staliniana in tema di nazionalità comunque non fu solo di carattere repressivo. Bisogna tener conto che, nella lista dei popoli perseguitati dal regime, compaiono solo etnie nettamente minoritarie, spesso isolate nella loro zona di insediamento." Ah, bè, allora massacriamoli, sono minoritari!!!
Pag. 657 "[…] E’ stato ormai accertato che le stragi, spesso affidate a una "manovalanza neofascista", trovarono forti complicità all’interno dei servizi segreti e in alcune aree dell’apparato istituzionale e militare dello Stato. […]" No, signori "storici"… non è stato ancora accertato. E finché ci sarà chi continua a darlo per scontato, di accertarlo davvero non interesserà a nessuno… o quasi.
Pag. 662 "[…] All’emergenza fecero appello le forze di governo e il PCI per approvare una legislazione d’eccezione, che venne molto discussa e criticata; essa si rivelò del tutto inefficace nei confronti del terrorismo di destra e della "strategia della tensione", ma ebbe l’indubbio effetto di portare alla sconfitta del terrorismo di sinistra. […]"
Un libro molto interessante, arrivato alla sua settima od ottava edizione, L’eskimo in redazione, di Michele Brambilla ed. Oscar Saggi Mondadori, affronta molto bene il tema di chi, negli "anni di piombo" tentò di mettere su due piani il terrorismo di destra e il terrorismo di sinistra, arrivando quasi a giustificare quest’ultimo, o almeno a camuffarlo come un’inevitabile sbocco della ribellione giovanile. Questi "pietosi" intellettuali non sapevano che guasti gravissimi un simile atteggiamento avrebbe causato. Qualcuno non lo sa ancora, e continua così… Centinaia di giovani vite spezzate, sentitamente, ringraziano.
"POPOLI E CIVILTA’ 3" Antonio Brancati. Nuova Edizione per La Nuova Italia. Pag. 210 "L’avvento di una dittatura in Germania non costituiva per l’Europa una novità assoluta, visto che analoghi movimenti totalitari o dittatoriali si erano venuti nel frattempo insediando e consolidando anche in altri Paesi come in Italia con Mussolini, in Spagna con Primo de Rivera, in Portogallo con Antonio Salazar, in Grecia con Joannis Metaxas, in Austria con Engelbert Dollfuss, in Romania con Jon Antonescu e in Turchia con Mustafà Kemal Atatürk, fondatore della repubblica turca da lui retta con poteri dittatoriali sino alla morte.[…]" Per caso abbiamo dimenticato che nel 1924 andò al potere un certo Iosif Dzuga_vili, meglio noto come Stalin?
Pag. 565 "La strategia della tensione o del terrore, inaugurata a P.zza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per molti anni una costante nella cronaca politica del nostro Paese. Una lunga serie di attentati, di stragi e di violenze compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e neonaziste (Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero) avrebbe insanguinato le città italiane, intrecciandosi a manovre preparatorie golpiste. Nel corso degli anni settanta l’attacco allo Stato fu però sferrato anche da un estremismo di segno opposto. Al terrorismo nero, già operante, si aggiunse il terrorismo praticato da organizzazioni clandestine che si proclamavano "comuniste" (Nuclei Armati Proletari, Prima Linea e soprattutto, Le Brigate Rosse)". Ovviamente "si proclamavano"! Che lo fossero anche? Leggendo la frase sopra riportata, chissà come dovranno sentirsi stupidi tutti i giovani di sinistra, finiti per scelta o per caso nelle spire del terrorismo, e che hanno pagato le loro idee comuniste e le loro scelte estreme con la prigione e a volte la vita.
Pag. 599 "[…] dopo avere avuto un ruolo di grande rilievo nella Resistenza (il PCI n.d.r.), nella stesura della Carta Costituzionale e nella storia della Repubblica con particolare riguardo agli anni in cui aveva dato un contributo fondamentale alla lotta contro il terrorismo […]" Beh… "contributo fondamentale" ci sembra appena appena un’esagerazione…
"STORIA E STORIOGRAFIA 3" di A. Desideri e M. Themelly nuovissima e dizione per C. Editrice D’Anna. Pag. 1355 "[…] Alla fine di quel "terribile 1977" E. Berlinguer chiese l’ingresso a pieno titolo dei comunisti al governo; intendeva dare un indirizzo nuovo – non di mero restauro – alla politica della maggioranza […]" Qui la campagna elettorale è un po’ retroattiva, ma chissà che non funzioni ugualmente…
Pag. 1370 "[…] Già prima dell’esplosione del terrorismo "rosso" aveva fatto la sua comparsa in Italia il terrorismo "nero", ispirato a gruppi estremisti di destra viventi all’ombra del MSI e già operanti nella Repubblica di Salò. […]" E questi sarebbero "storici"??? Ma per favore, un po’ di serietà! Qualcuno ricorda per caso che quel MSI "ombreggiante" richiese la pena di morte per i terroristi di destra?
Pag. 1377 "[…] Nel primo Ordine Nuovo, infatti, venivano privilegiati gli aspetti più propriamente ideologici della lotta politica, con la proclamata adesione al pensiero di autori di forte impronta reazionaria (soprattutto Giulio Evola, ma anche esponenti di un pensiero genericamente spiritualista, nei quali "si mescolavano insieme la cultura occulta, la divinazione, i fenomeni medianici, la magia nera, lo yoga, le società segrete, la cabala, l’esoterismo"). […]" Evola come il mago Otelma? Un concetto interessante, più "medianico" che storico, però…
PILLOLE. Nel manuale "DIRITTO COSTITUZIONALE SIMEONE" (XIV Edizione) a proposito delle elezioni politiche del 1994 a pagina 315 si legge: "Le elezioni, svoltesi con il nuovo sistema imperfettamente maggioritario, hanno portato alla vittoria una composita coalizione in cui precariamente si armonizzavano istanze secessioniste, destra neofascista e partito azienda. Il Presidente della Repubblica ha assunto immediatamente il ruolo di difensore dei valori costituzionali della solidarietà, della democrazia parlamentare e dell’unità nazionale, esercitando una sorta di tutela presidenziale sul Governo Berlusconi". Aberrante è dire poco.
Alla voce "foiba" del "VOCABOLARIO DELLA LINGUA PARLATA IN ITALIA" di Carlo Salinari si legge: "Dolina con sottosuolo cavernoso e indica particolarmente le fosse del Carso nelle quali, durante la guerra 40-45, furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista" Qui addirittura siamo al "ribaltone". Salinari avrebbe qualcosa da insegnare a qualcuno? E magari il vocabolario bisogna anche pagarlo…
Dal testo "LA STORIA: RETE E NODI – Manuale per una didattica modulare" di A. Brancati e T. Pagliarani. "Per il coraggio, la fermezza e la coerenza dimostrati in tante occasioni, Prodi ha saputo guadagnare la stima di altri Governi e partner internazionali" "Con l’affermazione in Gran Bretagna del laburista Tony Blair e in Francia del socialista Lionel Jospin si sono addirittura aperte le prospettive per un dialogo della sinistra moderata europea, al quale si è dimostrato interessato anche Bill Clinton" Che bello! Siamo tutti contenti se viene anche Chelsea.
Dalla postfazione al "DIZIONARIO GIURIDICO ITALIANO – INGLESE" di Francesco de Franchis, editrice Giuffré. Pag. 159 "E si arriva al colmo: nell’agosto 1994 – fatto mai accaduto in nessun paese democratico dell’Occidente (in corsivo nel testo n.d.r.) e misura dell’assoluta impresentabilità di una coalizione che deve, all’evidenza, cercare i propri modelli nei regimi sudamericani – il governo Berlusconi invia un "esposto" al Presidente della Repubblica in cui si denuncia un attentato al funzionamento degli ‘organi costituzionali perpetrato dalla procura di Milano con le sue indagini sulla criminalità organizzata: qui va rilevata, oltre alla grossolanità degli uomini, la sfacciata ribellione alla legge (in corsivo nel testo n.d.r.) da parte delle forze di governo e l’ostilità verso una sia pur piccola pattuglia di magistrati indipendenti. In un crescendo di vendetta macbethiana si colloca la vicenda di Antonio di Pietro, inquisito, oggetto di una lunga e implacabile persecuzione da parte della forza legale". E hanno avuto il coraggio di scomodare anche Shakespeare!
Pag. 173 "Resta il fatto che – a prescindere dall’individuo – il caso Berlusconi appare, sul piano politico, come il primo e il più grave nella storia di tutte le democrazie occidentali di un imprenditore che assume funzioni di governo. Si è opportunamente osservato che: “Il nuovo Governo Berlusconi si presenta come una compagine all’altezza dei propositi; dal decreto salvaladri al condono edilizio al vecchio regime dei lavori pubblici alla virtuale abolizione del Secit: un free for all degno dei fratelli Somoza” (l’autore non indica la fonte della citazione)…e un pensierino degno di Gianni e Pinotto!
Dal libro FARE STORIA di A. Brancati, ed. Nuova Italia. "Gli Ebrei, popolo ormai emarginato e separato, divennero nel Basso Medio Evo anche coloro che profanavano di nascosto i misteri cristiani (rubando e disprezzando le ostie consacrate) e che compivano omicidi rituali di bambini per poter fare con il loro sangue il pane azzimo, fatto cioè senza lievito e da essi usato nei giorni pasquali" L’autore del libro si è giustificato dicendo che nello scritto incriminato, stava riferendo solamente le calunnie che venivano rovesciate addosso al popolo ebraico. Va bene, ma è difficile che questo venga compreso da uno studente della media inferiore.
Dal libro LEGGERE EUROPA di Sambugar-E., ed. Nuova Italia. Parlando del futurismo e di Martinetti: "Affermazioni paradossali che non indicano assolutamente realistici programmi, per questo diedero cita a sfortunati e inevitabili fanatismi, esaltando ideologie violente come quella fascista. Un rinnovamento artistico che sfocia spesso nel suono un po’ vuoto di slanci verbali, e che non esita a cadere nel decisamente brutto. Il movimento futurista mancava comunque di profondi contenuti spirituali." Non molto obiettivo come commento nei confronti di quella che è stata un’avanguardia artistica dal valore universalmente riconosciuto.
Dal libro VERSO IL 2000 di D. Materazzi, ed. Thema. A proposito del Movimento Sociale Italiano. "Suo segretario politico nazionale è Giorgio Fini, mentre l’ala intransigente e nostalgica del nazional-socialismo che fa capo a Pino Rauti, è relegata al ruolo di opposizione interna" A parte la divertente miscela che l’autore ha creato tra i nomi di due diversi segretari dell’MSI, e cioè Giorgio Almirante e Gianfranco Fini, è da notare che nemmeno i più feroci detrattori del MSI sono mai arrivati ad accostare gli iscritti del partito a dei nazisti militanti.
Dal libro STORIA E STORIOGRAFIA di A. Desideri, ed. D’Anna. Nel capitolo dedicato alla Rivoluzione Francese "[…] e ciò nel momento stesso in cui la Vandea insorgeva contro la leva di 300.000 uomini, ordinata dalla convenzione. Nell’insurrezione dei contadini vandeani si possono cogliere molteplici spinte: oscuri fermenti di lotta di classe paradossalmente combattuta sotto le insegne della reazione, sobillazione nobiliare, appoggi inglesi ed europei alla causa degli insorti." Interessante notare la capacità di sintesi dell’autore che liquida una lunga e sanguinosa guerra civile in meno di tre righe nel testo. A. Desideri, da studente, avrà sicuramente vinto una medaglietta nella gara di riassunto.
Dal libro SPRINT FINALE di Attalienti, ed Ferraro. A proposito di D’Annunzio "Per quanto riguarda poi la poesia del D’Annunzio, se qua e là possiamo restare ammirati di fronte a tanta dovizia di parole e tanta abilità stilistica, raramente essa ci commuove, perché la sua perfezione estetica, come disse il Serra, è una perfezione che suona falso (al maschile sul testo)." C. Attalienti usa con una certa superficialità un plurale majestatis che sfugge alla nostra comprensione. "Raramente ci commuove…" Attalienti, invece, ci fa piangere. E tanto!
CONCORSI, INSEGNAMENTO ED IMPUNITA’.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”.
UNISALENTO: IL GIOCO DELLE PARTI.
I sindacati, Laforgia e Mantovano. Università del Salento. Una grande famiglia. Tanto rumore per nulla. E’ tutto truccato e si accapigliano per tre compiti truccati. Omertà invece per i concorsi in avvocatura, magistratura e notariato. Università del Salento: una grande famiglia. Si intitolava un servizio di Tele Rama. I grappoli di famiglie che hanno fatto il nido nell'Università del Salento, il nepotismo che rischia di soffocare l'ateneo leccese e le contromisure che il rettore Domenico Laforgia ha cercato di mettere in campo, senza troppo successo. Scheda a cura di Danilo Lupo e Matteo Brandi, andata in onda nell'Indiano del dicembre 2008 dedicato all'università e condotto da Mauro Giliberti. Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito." Che una vera corazzata di parlamentari italiani sottoscriva una dichiarazione di guerra contro un ateneo di provincia è un caso più unico che raro. Porta la firma di ben cinquantacinque deputati, infatti, la richiesta di ispezione ministeriale da eseguire nell’Università del Salento. L’interpellanza urgente, ideata dall’ex sottosegretario agli Interni, il pidiellino Alfredo Mantovano, è stata inoltrata ai ministri dell’Istruzione e della Funzione Pubblica, Francesco Profumo e Filippo Patroni Griffi. Di mezzo ci sono presunte condotte illecite e ragioni di trasparenza da ripristinare. Ci sono anche gli appalti che si accingono ad essere portati in gara. Tanti. Molti. Del valore, all’incirca, di cento milioni di euro. Nell’interpellanza si parla del Tar di Lecce. Tar che spesso adotta decisioni contrastanti tra loro, pur aventi lo stesso oggetto. E pur la stampa pubblica: Indagato presidente del TAR Lecce solo per abuso d’ufficio e solo lui. Antonio Cavallari, presidente del Tar di Lecce indagato per abuso d’ufficio per aver favorito un’azienda in odor di mafia difesa dal noto amministrativista leccese, avv. Pietro Quinto. Ahhh... Quante volte io e tutti gli avvocati non principi del foro che bazzicano le aule del Tar di Lecce avremmo desiderato un atto di sospensiva di sabato ed in 24 ore!!!!!!!! Poi si parla della Procura di Lecce. Mi astengo dal dare giudizi sull’esito delle mie denunce contro i concorsi truccati, ma mi riporto a quanto detto dal Procuratore Capo di Bari: «Non posso non rilevare che questo tipo di accertamenti è iniziato un anno fa, ma un’indagine a carico di un procuratore non può durare tanto. Occorre dare risposte rapide sia che siano stati commessi reati, sia che non siano stati commessi, soprattutto per la credibilità dell’ufficio». La pensano allo stesso modo migliaia di persone indagate che vivono in un «limbo» e che chiedono senza fortuna di potere dire la loro. La giustizia non è uguale per tutti? «Capita a me quello che accade a tanti cittadini. Rappresento, però, che, indipendentemente dalla vicenda personale, la questione si riverbera sull'intero ufficio. Non sostengo che la mia posizione è diversa, ma lamento che così si mette a rischio la credibilità della giustizia e delle istituzioni. Una situazione che deve essere definita in tempi rapidi. Per questo voglio subito essere interrogato». Tanto rumore per nulla. Certo è che nessuno, tanto meno l’On. Alfredo Mantovano più volte interpellato, va a chiedere ispezioni ministeriali per vagliare le risultanze dell'esame di abilitazione di avvocato o di notaio o di professore universitario, ovvero di verificare la legalità delle procedure di accesso alla magistratura. Compiti non corretti? Per le commissioni d'esame: Fa niente, conta il nome e l'accompagno. Il TAR, intanto, da parte sua sforna sentenze antitetiche tra loro su domande aventi lo stesso oggetto. Basta leggere il libro del dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CONCORSOPOLI". Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.
CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI IN ITALIA.
"Quel mio allievo da sistemare in cattedra..." Spunta una lettera di 40 anni fa all'ex ministro. Mentre l'inchiesta sulla spartizione dei posti nelle Università scuote il mondo accademico, l'Espresso scopre una raccomandazione diretta all'ex ministro Fantozzi da parte di un potente barone. Che dimostra come il sistema duri da decenni, scrive Alfredo Faita il 6 Ottobre 2017 su "L'Espresso". La spartizione delle cattedre universitarie a tavolino, arrivando perfino a corrompere le commissioni come sostiene la procura di Firenze nella sua indagine sul mondo del diritto tributario, forse non è solo un male dei giorni nostri, ma affonda nella prima Repubblica. Quella del Caf (Craxi Andreotti Forlani) inossidabile al potere e della Milano da Bere, spazzata via da Tangentopoli. Almeno questa è l'impressione che si ha leggendo una lettera, che L'Espresso ha potuto consultare in esclusiva, tra due dei protagonisti dell'indagine penale fiorentina: Augusto Fantozzi e lo scomparso Victor Uckmar, i due pesi massimi del diritto tributario in Italia. «Caro Augusto, in relazione all'attribuzione della cattedra di diritto tributario a Siena, ti preciso – cosa che d'altronde ti è già nota – che il dottor Lovisolo non è giuridicamente in grado di assumere la supplenza, ai sensi dell'articolo 114 del dpr...perché ha veste giuridica di contrattista... Il dott. Lovisovo può tuttavia vedersi attribuito l'insegnamento, ai sensi dell'articolo 116, assumendo la veste giuridica di professore a contratto...». È Victor Uckmar a prendere carta e penna per vergare al “caro” Augusto Fantozzi i suggerimenti su come poter attribuire al suo allievo un insegnamento presso l'antico ateneo toscano, perché “meritevole” di essere “sistemato”.
Siamo nel 1980 - la lettera è datata 16 ottobre - ed è su carta intestata dell'Università di Genova, ma il suo contenuto suona decisamente attuale con quello dell'inchiesta della procura di Firenze. Che vede tra gli indagati, come si diceva, proprio Fantozzi, il quale, scherzosamente, parlava della necessità di «una nuova cupola» di persone «di buona volontà» che si sostituissero di fatto ai commissari per le abilitazioni nelle cattedre universitarie. Oltre all'ex ministro dei governi Dini e Prodi, nonché attuale Rettore dell'Università Giustino Fortunato di Benevento risultava indagato anche Uckmar, com'è emerso dagli atti, ma la sua dipartita nel dicembre dello scorso anno lo ha sollevato dall'incombenza di doversi difendere dalle pesanti accuse di corruzione mosse ai 59 accademici finiti nelle indagini dopo la denuncia di Philip Laroma Jezzi. Nella lettera Uckmar detta la strategia per arrivare alla nomina senese di Antonio Lovisolo, suo allievo prediletto, attualmente professore a Genova nonché titolare di uno dei più importanti studi tributari d'Italia, ma non indagato nell'inchiesta fiorentina. Innanzitutto, dice, bisogna che non venga prorogato il vecchio professore, poi che nessuno “stabilizzato” faccia domanda per una supplenza, e poi che la «facoltà deliberi l'attribuzione dell'incarico a un professore a contratto, designato nella persona del dott. Lovisolo... che sarebbe poi sottoscritto dal Rettore» scrive Uckmar, sottolineando che la strada intrapresa è “ad hoc” per sistemare qualche giovane “meritevole”. «Come vedi, quindi, la possibilità di sistemare il mio allievo non manca, certo occorre un po' più di impegno da parte di tutti, di quanto non richiederebbe un certo conferimento di supplenza» si congeda l'ex professore genovese.
Come andò a finire allora lo si vede leggendo il curriculum vitae pubblicato dal Antonio Lovisolo sul sito internet del suo studio: «Negli anni accademici 1980/1981, 1981/1982 e 1982/1983, Antonio Lovisolo ha rivestito la qualifica di professore a contratto di Diritto finanziario presso la facoltà di Scienze economiche e bancarie dell'Università di Siena». Il trampolino di lancio di una lunga carriera universitaria che lo ha (ri)portato fino a Genova.
Trentasette anni fa il metodo di assegnazione delle cattedre somiglia a quello tratteggiato oggi dai pm fiorentini, criteri che appaiono simili e gli stessi personaggi di vertice nel mondo tributario che come una “cupola” assegnava posti per cooptazione, sfruttando bene i cavilli normativi per evitare le barriere delle commissioni ministeriali di abilitazione. Cambia solo il linguaggio, meno sguaiato di quello che ci ha consegnato la cronaca di quest'indagine portata svolta dalla Guardia di Finanza e coordinata dai pm Luca Turco e Paolo Barlucchi, che vede in questi giorni il susseguirsi degli interrogatori di garanzia per tutti i docenti sottoposti a misure cautelari. Peraltro proprio dalle cronache del 1980 emerge qualche altro indizio che le pratiche nel mondo accademico del diritto tributario – ma non solo in quello - già da allora non fossero così limpide. In una interrogazione parlamentare del novembre 1980, l'onorevole pugliese Stefano Cavaliere, avvocato dal passato monarchico poi confluito nella Democrazia Cristiana, si rivolgeva così al ministro dell'Istruzione: «Scandaloso deve definirsi l'operato della commissione del concorso a cattedre di diritto tributario. Qui si è partiti male con la formazione della commissione, perché dei cinque membri tre erano allievi del professor Victor Uckmar, di cui due appartengono allo studio professionale dello stesso professore. È stato così possibile spartirsi le cattedre tra i protetti dei capi scuola … accontentare un notaio o qualche figlio di industriali cliente di questo o di quel caposcuola, senza preparazione scientifica e primi di esperienza didattica. Nei verbali si legge che questa commissione si sarebbe riunita presso la facoltà di economia e commercio dell'Università di Roma, mentre svolse i lavori in una camera dell'hotel Excelsior di cui era ospite anche il professor Uckmar che, al termine di questa nobile impresa, offriva ai commissari un lauto pranzo». Cavaliere in quell'interrogazione parlava di risultati scandalosi dell'operato di quelle commissioni che «meriterebbero il vaglio della magistratura penale». A trentasette anni di distanza quel vaglio è arrivato, e l'impressione è che da quell'anno ad oggi poco sia cambiato. Nel frattempo gli indagati smentiscono le accuse loro rivolte. Lo ha fatto anche Augusto Fantozzi, per bocca del suo avvocato Antonio D'Avirro, secondo il quale il professore, ex commissario di Alitalia, è «completamente e indubitabilmente estraneo ai fatti in contestazione in primo luogo perché era già andato in pensione all'epoca degli avvenimenti oggetto di indagine. La sua integrità è altresì testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica». Ce lo dirà la magistratura.
ITALIA BARONALE. I concorsi truccati di un Paese ancora feudale. Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato», considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI. L’AUTODENUNCIA DI UN PROFESSORE.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
Nel seguire attentamente la dichiarazione autodenunciante del professore universitario, si tenga conto del fatto che la categoria dei Professori Universitari è una componente necessaria per tutte le Commissioni di Esame Pubblico abilitante o di un Concorso Pubblico.
Ergo: tutti i concorsi e gli esami pubblici sono truccati o truccabili.
Concorsi universitari, il prof: "Li trucco e continuerò a farlo". Ammissione-autodenuncia di un noto docente universitario: "Non sono raccomandazioni, premiamo chi lo merita". Concorsi universitari: "Sì, li trucco, altri professori li truccano e continueremo a farlo fino a che non ci arresterete. Perché va bene così". E' l'autodenuncia-confessione del professor Vincenzo Zeno Zencovich, uno dei giuristi più noti e importanti in Italia in materia di Diritto Internazionale che insegna a Roma 3. Una lettera aperta pubblicata dal quotidiano il Foglio e indirizzata alle procure della Repubblica che da qualche tempo stanno indagando sui concorsi universitari truccati (ultimo caso quello della "cupola dei costituzionalisti" su cui si indaga da Bari). Ebbene: Zeno Zencovich, con piglio autoironico, si autodenuncia, non risparmiando di citare tutti i reati di cui potrebbe essere ritenuto responsabile. “Concorsi truccati”, “concorsopoli”, “parentopoli” sono gli immaginifici titoli che alle sue inchieste forniscono i giornali e le televisioni. Poiché io di questo sistema faccio parte, quei reati li commetto da anni, e continuerò, se non arrestato, a commetterli, sento il dovere di autodenunciarmi", dice il professore. Secondo il docente bisognerebbe smetterla di parlare di raccomandazioni in ambiti accademici, o meglio: bisognerebbe smetterla di pensare che la raccomandazione sia una brutta cosa. Ecco, secondo il professore, come funzionano le raccomandazioni in ambiente universitario. Un docente raccomanda un giovane studioso perché ne apprezza e loda (“commenda”) le qualità, fa affidamento su di esse, ma al tempo stesso impegna la propria figura, la propria credibilità. Da questo punto di vista tutti i docenti universitari sono “raccomandati” e più sono “raccomandati” più significa che godono di una stima diffusa. Non vi sono candidati “sconosciuti” e se lo sono ci si deve chiedere perché lo sono, e perché tutto d’un tratto dovrebbero essere scoperti come un tesoro sepolto. Il concetto, spiega Zeno Zencovich, andrebbe capovolto: in ambiente accademico se non sei raccomandato è un problema. Nel senso che nessuno ti conosce, nessuno ha avuto l'occasione di vedere chi sei e come te la cavi. E perciò, probabilmente, non hai fatto nulla che valga la pena raccontare. La lettera si conclude - ironicamente - con l'arrivo della Guardia di Finanza nell'abitazione del professore per arrestarlo dei reati di cui si è autoaccusato.
«Illustre Signor Procuratore, mi è stato riferito che Ella (o qualche suo collega: tanto, la competenza territoriale è ormai ubiqua) ha disposto la intercettazione sulle varie utenze telefoniche a me riferibili. Vorrei risparmiare a Lei, ai suoi sostituti, ai sempre vigili ufficiali di polizia giudiziaria una fatica inutile. E alla collettività una spesa che meglio potrebbe essere impiegata per altre finalità di giustizia. Lo dichiaro apertamente: sono reo confesso. Associazione per delinquere. Abuso in atti d'ufficio. Corruzione, attiva e passiva. Traffico di influenza. Adsum qui feci. E se Lei vorrà aggiungere, per sovrammercato, i reati di attentato ai diritti politici e di associazione di stampo mafioso e camorristico (per via dei miei innegabili legami con la Sicilia e la Campania), non mi sottrarrò, cavillando, alle mie responsabilità. Ella, come molti altri suoi colleghi, è impegnato da tempo nello sradicare la mala pianta che cresce nei giardini dell'università italiana: "Concorsi truccati", "concorsopoli", "parentopoli" sono gli immaginifici titoli che alle sue inchieste forniscono i giornali e le televisioni. Poiché io di questo sistema faccio parte, quei reati li commetto da anni, e continuerò, se non arrestato, a commetterli, sento il dovere di autodenunciarmi. Non posso più continuare a vivere come centinaia di miei colleghi che, in queste settimane conclusive delle procedure dell'Abilitazione scientifica nazionale (il 30 novembre dovranno essere tutte terminate), vivono nel terrore: di fare una telefonata, di scrivere un biglietto, di mandare un messaggio di posta elettronica, di incontrarsi. Se lo fanno, sembra una scena dalla migliore spy story: entrare da due ingressi separati in un albergo; casualmente scambiare alcune parole durante il buffet di un convegno; rigorosamente togliere la batteria dal telefonino o lasciarlo in un'altra stanza. E ancor più delle manette li spaventa finire sbattuti in prima pagina, come di recente è capitato a una serie di "saggi" nominati per la revisione della Costituzione e tirati in ballo per una oscura vicenda concorsuale. Perché - ai fini della contestazione delle aggravanti di legge - lei abbia contezza della intensità del dolo che mi anima le dirò che: 1. Penso che sia dovere di ogni professore universitario dire in pubblico e in privato quello che pensa dei propri colleghi e di coloro che aspirano a esserlo. Esprimere il suo giudizio sui loro lavori, sulle loro capacità didattiche e organizzative, sul loro carattere. 2. Soprattutto deve farlo nei momenti in cui è in atto un processo di selezione e nei confronti dei selezionatori. Non si tratta di una indebita pressione ma di un necessario complemento alla formazione del convincimento di chi è chiamato a decidere. Di un contributo a una discussione che spetta a tutta la comunità scientifica di cui la commissione non è un giudice imperscrutabile e inavvicinabile, ma un "organo tecnico". 3. L'ambiente accademico è quel che si definisce un "mercato reputazionale": ben prima di guadagnarsi i gradi ci si è fatti conoscere, apprezzare o deprezzare, si è data prova concreta di operosità e competenza. Qui la parola "raccomandazione", che altrove appare esprimere la progressione degli incompetenti, assume il suo significato più veritiero. Un docente raccomanda un giovane studioso perché ne apprezza e loda ("commenda") le qualità, fa affidamento su di esse, ma al tempo stesso impegna la propria figura, la propria credibilità. Da questo punto di vista tutti i docenti universitari sono "raccomandati" e più sono "raccomandati" più significa che godono di una stima diffusa. Non vi sono candidati "sconosciuti" e se lo sono ci si deve chiedere perché lo sono, e perché tutto d'un tratto dovrebbero essere scoperti come un tesoro sepolto. Signor Procuratore, perché sia chiaro che non intendo sfuggire a nessuna delle imputazioni che mi verranno elevate, non mi nasconderò dietro il facile argomento che in tutto il mondo civile, soprattutto in quei paesi che vengono additati come modello di eccellenza accademica, succede così. Apertamente ci si pronuncia, come apertamente i decisori ascoltano, riflettono, scelgono. Certamente ci si fanno degli amici e dei nemici, le maldicenze corrono, taluni soccombenti sospettano una congiura ai loro danni. Ma anche in questo caso quel che conta è il giudizio della comunità, non di un tribunale o, peggio, di qualche incompetente giornalista i cui titoli di studio probabilmente andrebbero esaminati con attenzione. Né mi sfiora l'idea di utilizzare una retorica di basso conio chiedendo a Lei, Signor Procuratore, se quando si è apprestato a sostenere l'esame orale per l'accesso alla Magistratura qualcuno l'ha "raccomandata" (nel senso di cui sopra) alla sua commissione di concorso; se quando dalla sua prima e disagiata sede periferica ha chiesto il trasferimento presso un ufficio giudiziario più grande e prestigioso qualcuno o più d'uno ne abbia lodato l'impegno, l'assiduità, la perspicacia; e infine se risponde al vero che nel concorso per assumere il prestigioso incarico di Procuratore capo che ora ricopre in diversi siano intervenuti presso il Consiglio superiore della magistratura indicando in Lei, senza ombra di dubbio, la persona più meritevole. Ma devo interrompere questa lettera. Hanno suonato al citofono e dalla finestra vedo la inconfondibile uniforme di un ufficiale della polizia giudiziaria che deve notificarmi, in tempo reale, un provvedimento restrittivo della libertà che riporta quasi testualmente il contenuto della missiva. Sono lieto che le intercettazioni, anche ambientali e telematiche, funzionino con una efficienza da fare invidia alla National Security Agency. Mi dispiaccio solo che domani non mi sarà consentito leggere i titoli cubitali sull'organizzazione criminale che è stata smascherata. In ogni caso, buon lavoro! Mi creda suo, e rispettosamente mi firmo Vincenzo Zeno-Zencovich Ordinario di diritto comparato nell'Università di Roma Tre Rettore dell'Università degli Studi internazionali - Roma (UNINT).»
CHI GIUDICA CHI? Università, commissione zero titoli per giudicare chi diventa professore. Chi vuole diventare docente universitario deve convincere esaminatori che spesso vantano meno meriti scientifici di lui. Un paradosso previsto dalla legge, con conseguenze nefaste. Perché così il merito non viene premiato. E i nostri atenei sfigurano nelle classifiche mondiali, scrive Stefano Vergine il 31 agosto 2017 su "L'Espresso". Professori universitari senza nemmeno una citazione scientifica. Chiamati a giudicare candidati-professori che di citazioni ne hanno centinaia. È la storia paradossale della commissione che un mese fa ha annunciato chi saranno i nuovi docenti ordinari di geografia in Italia. Ruolo ambitissimo; stipendio di partenza da oltre 3 mila euro netti al mese. Ma non è il salario a essere messo in discussione qui. Piuttosto il metodo attraverso cui vengono scelti i professori del domani, più precisamente la statura scientifica di chi li seleziona. Tutto legale, meglio dirlo subito. È infatti la legge a prevedere questa contraddizione in cui si è trovato stritolato Marco Grasso, novarese di 51 anni, professore associato di geografia economica e politica all’università Bicocca di Milano. In aprile, insieme a centinaia di colleghi, ha inviato la candidatura per diventare ordinario. Si chiama abilitazione scientifica nazionale ed è una sorta di patentino, indispensabile per poter poi partecipare a concorsi ed essere eventualmente assunto come docente presso le università italiane. Un filtro anti-raccomandati, insomma, frutto della riforma voluta nel 2010 dall’allora ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. L’abilitazione aveva infatti l’obiettivo dichiarato di frenare il nepotismo imperante negli atenei italiani. Perché, centralizzando il processo di selezione, fino ad allora appannaggio esclusivo delle singole università, promuovere l’amico dell’amico sarebbe risultato più difficile e il merito avrebbe avuto finalmente un riconoscimento. Così almeno si diceva. Le cronache giornalistiche, i ricorsi alla giustizia amministrativa e le inchieste giudiziarie degli ultimi anni hanno dimostrato che le cose non sono andate come l’ex ministro auspicava. Professori che hanno truccato il curriculum per far parte delle commissioni, conflitti d’interesse fra giudici e giudicati, accordi sottobanco tra membri di diverse giurie. Scandali che hanno costretto Stefania Giannini, succeduta alla Gelmini, ad apportare alcune modifiche alla riforma.
La storia dell’ultimo concorso per diventare professore di geografia mostra però che i problemi sono ancora tanti. E fornisce una spiegazione in più per capire come mai, ancora una volta, fra i primi 100 migliori atenei del mondo (selezionati nell’Academic Ranking of World Universities) anche quest’anno non ce ne sia nemmeno uno italiano. Il profilo di Grasso è quello di un tipico cervello in fuga. Proprio coloro che il nuovo sistema punta in teoria a far tornare indietro. Economista e geografo, è un esperto di cambiamenti climatici. Studia gli effetti del surriscaldamento globale. Per esempio. Dove si trasferiranno gli abitanti di quelle zone del mondo che già stanno diventando invivibili? Che cosa si potrà coltivare in Italia quando la temperatura si sarà alzata mediamente di 2 gradi?
Laurea in economia alla Bocconi di Milano, corso di specializzazione in sistemi dinamici e ambiente al Politecnico della Catalogna, dottorato di ricerca in geografia al King’s College di Londra, Grasso ha insegnato all’estero per parecchi anni: Sydney, Amsterdam, Stati Uniti e Inghilterra. «Poi sono diventato papà, volevo far crescere mio figlio in Italia e ho fatto di tutto per poter tornare qui», racconta davanti a una granita in un bar di Milano. Pantaloncini corti e maglietta, Grasso sembra il tipico prof che si potrebbe incontrare in un campus universitario del Nord Europa, lontano dallo stereotipo del barone italiano. Dalla sua ha decine di pubblicazioni su riviste scientifiche autorevoli. La sorpresa di Grasso è stata quella di essere bocciato da una commissione con “zero tituli”, per citare l’ex allenatore dell’Inter, José Mourinho. Uno degli aspetti cruciali per decidere se concedere l’abilitazione è infatti la produzione di documenti scientifici da parte dell’aspirante professore, prova tangibile della capacità di fare ricerca. Ai candidati per il posto di ordinario di geografia, quello a cui ha partecipato Grasso, era richiesta la pubblicazione negli ultimi 15 anni di almeno due articoli su riviste di classe A. Fanno parte di questa categoria, per dire, Nature e Geoforum: pubblicazioni di qualità indiscussa. Quanti articoli devono aver scritto i commissari su questo tipo di riviste? Zero. Lo prevede l’Anvur, l’agenzia del ministero dell’Istruzione responsabile del processo di selezione dei nuovi docenti. Il risultato paradossale è che Grasso, con all’attivo tre pezzi su riviste di fascia “A”, è stato valutato da persone che su quei giornali non hanno mai scritto una riga. Una contraddizione che potrebbe aver penalizzato molti altri candidati: scorrendo la lista dei requisiti richiesti ai commissari si vede infatti che sono moltissimi i settori per i quali non sono previste pubblicazioni in riviste di fascia “A”. Tanto per citarne alcuni: storia moderna, scienza delle finanze, economia applicata, statistica, demografia. Ma c’è di più. Un’altra variabile presa generalmente in considerazione per valutare le qualità di uno studioso sono le citazioni, cioè il numero di volte in cui un suo lavoro scientifico viene menzionato da altri articoli accademici. Anche qui Grasso pensava di avere il terreno spianato. Su Scopus, una delle banche dati più usate per la letteratura scientifica, il geografo novarese conta infatti 18 articoli e 212 citazioni. E i membri della commissione chiamata a giudicarlo? Questo il loro palmares. La presidente della giuria, Emanuela Casti, tre articoli e diciannove citazioni. Il segretario, Gian Marco Ugolini, due articoli e nessuna citazione. Girolamo Cusimano e Laura Federzoni: un articolo a testa e nessuna citazione. Chiude la cinquina Gavino Mariotti, il cui nome sulla banca dati non compare. Il sito del ministero dell’Istruzione mostra che Grasso non è stato il solo a essere bocciato da questa commissione. Lo stesso è capitato per esempio a Francesco Chiodelli, Cecilia Pasquinelli e Oreste Terranova: tutti e tre candidati al ruolo di professore di geografia (associato, in questo caso), tutti e tre respinti nonostante una produzione scientifica molto maggiore rispetto a quella dei commissari.
Va detto che per diventare docente non basta essere un prolifico ricercatore. I requisiti sono parecchi, dalle esperienze di insegnamento alle partecipazioni a convegni. Nelle motivazioni della bocciatura di Grasso i commissari scrivono che, «seppure di discreta qualità», i titoli posseduti dal candidato «quasi sempre non sono collocabili all’interno del settore concorsuale di geografia». Come dire: ha fatto cose accettabili, ma spesso riguardavano altri ambiti. Il punto qui non è però giudicare se sia stato giusto non concedere l’abilitazione a certi candidati, ma se è autorevole un sistema universitario in cui un aspirante professore viene valutato da studiosi con una produzione scientifica molto più bassa della sua. Perché, come in ogni ambito, maggiore è l’autorevolezza di chi giudica e maggiore sarà quella dell’istituzione stessa. E quella dell’università italiana, stando alle classifiche, non è proprio delle più invidiabili.
Università, l'ossessione della produttività può danneggiare i migliori. "Quanto vali? significa adesso "Quanto sei in grado di produrre". Accade nelle istituzioni universitarie in balia di agenzie di valutazione chiamate a misurare quanto siano produttivi docenti e dipartimenti. Così si riduce l'arbitrio dei baroni, ma si rischia di penalizzare non solo i fannulloni, ma i professori più dotati, scrive Roberto Esposito il 10 luglio 2017 su "L'Espresso". Può sorprendere, in una società che sembra perdere ogni rapporto con i propri valori, l’espandersi inarrestabile dell’ideologia della valutazione. Ormai siamo tutti valutati. Non ascoltati, considerati, sostenuti nelle nostre fragilità pubbliche e private. Ma valutati sì. In termini economici di utilità, di performance, in cui occorre misurare il “capitale umano” che ciascuno, potenziale imprenditore di se stesso, può vantare. Del resto la trasmigrazione del concetto di valore dall’ambito etico a quello economico non poteva portare ad altro. “Quanto vali?” significa adesso “quanto sei in grado di produrre?”. Tutto ciò non solo a prescindere da considerazioni sociali, contestuali, personali. Ma anche in base a dati puramente quantitativi, misurabili e appunto valutabili in maniera numerica. Se in campo economico tale indagine di mercato è comprensibile, trasferita ad altri settori rischia di determinare effetti controproducenti e vere e proprie storture. Per esempio valutare in questi termini la situazione di un malato in una struttura sanitaria pubblica può portare a conseguenze catastrofiche. Ma l’impatto – per usare un vocabolo amato dai valutatori – su altri ambiti può risultare del pari devastante. È quanto accade da tempo nelle Università, ormai in balia, per i loro finanziamenti, di agenzie di valutazione destinate a misurare il “valore” dei singoli docenti e dei Dipartimenti in cui essi operano. Numero degli studenti, numero delle pubblicazioni dei docenti, numero delle citazioni dei loro lavori, numero dei brevetti, degli stage attivati, degli sbocchi professionali. Nulla sfugge alla griglia approntata dalle agenzie di valutazione allestite ovunque – prima l’Aeres in Francia poi l’Anvur in Italia. Ciò che esse si ripromettono è misurare in maniera oggettiva, perché numericamente definita, il valore quantitativo prodotto da singoli e da collettivi, finanziati in base a tale indice. Da quel momento i dossier, le schede, i formulari prodotti dalle strutture accademiche e dai docenti superano di gran lunga quello dei prodotti stessi della ricerca. Ciò che conta è che questi entrino nelle griglie prefissate, dando luogo a una cifra superiore, pari o inferiore a una serie di “mediane” preventivamente fissate. Chi le supera passa – nei ruoli accademici superiori, nelle abilitazioni scientifiche nazionali, nei Collegi dei Docenti dei Dottorati. Chi non ha gli stessi numeri – di articoli, citazioni, brevetti – resta fuori. Ciò, si dice, non senza qualche ragione, ha finalmente abolito l’arbitrio dei vecchi baroni, gli accordi sottobanco, i privilegi che effettivamente caratterizzavano il sistema universitario precedente. Oggi tutto ciò è finito, dissolto dalla nuova neutralità oggettiva. Basta contare. I numeri non tradiscono. La giustizia accademica è infine instaurata. Restano, però, aperte alcune domande. Chi valuta i valutatori? Essi – si risponde – sono valutati con le medesime mediane adoperate per i candidati da valutare. Ogni valutatore, a sua volta, si avvale di numerosi sottovalutatori che egli stesso individua in base alle proprie valutazioni delle loro capacità valutative. Sembra uno scioglilingua. Ma le cose stanno davvero così. Un sistema volto all’oggettività del giudizio si basa su una serie di scelte soggettive discendenti di cui sfugge solo il primo anello, che riguarda il vertice dell’Agenzia, di nomina governativa. Del resto su tutto sorveglia il Miur, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, a sua volta garantito dall’alta responsabilità del Ministro in carica, scelto dai partiti di governo in base a criteri del tutto esterni a quelli applicati a valutandi e valutatori e anzi, possibilmente, mai sottoposto ad esami di pubblico rilievo. Non basta. La cornice dell’intero quadro si è evoluta nel tempo. Mentre fino a poco fa si poteva pensare che, per chi fa ricerca scientifica, almeno nell’ambito delle scienze umane, i “prodotti” più rilevanti fossero i libri – in gergo accademico, “le monografie” – a un certo momento si è stabilito che non è più così. Ciò che conta sono solo gli articoli – anche di due-tre pagine – pubblicati in riviste collocate preventivamente, in base a una apposita valutazione, nella cosiddetta fascia A. Soltanto chi le dirige o chi è suo buon conoscente, può pubblicare in esse articoli che, s’intende, verranno neutralmente valutati dai valutatori che gli stessi direttori hanno scelto. Ma non basta. Queste riviste, ai fini della valutazione, non sono uguali. Valgono solo quelle del settore disciplinare del valutando, cosicché, se questi ha interessi di tipo interdisciplinare – che so, di architettura se insegna storia dell’arte o di filosofia politica se insegna filosofia morale – va severamente punito con l’esclusione dall’ambito dei salvati e precipitato in quello dei sommersi.
L’esito, borgesiano, di questo sistema è che la Commedia di Dante non otterrebbe la valutazione positiva perché non attinente a un settore disciplinare specifico, visti i suoi riferimenti, appunto “interdisciplinari”, filosofici, cosmologici, politici, etc. Ancora, Francesco De Sanctis sarebbe bocciato in un’abilitazione in Storia della Letteratura Italiana, perché, insieme alla sua grande “Storia” non ha scritto sufficienti articoli; Einstein non passerebbe perché, rompendo paradigmi e convenzioni scientifiche del tempo, non avrebbe potuto organizzare lo scambio di citazioni necessarie con i colleghi. E così via. Tutto ciò, naturalmente, questi effetti perversi, non sono ignorati da chi ha messo in piedi, magari anche in buona fede, il sistema. Ma sono considerati danni collaterali rispetto ai suoi aspetti positivi. Che in effetti ci sono, soprattutto per i peggiori: coloro che non pubblicano abbastanza vengono adesso giustamente esclusi. A pagare il prezzo sono tuttavia i migliori, cioè coloro il cui prestigio internazionale spinge a scrivere i propri libri, spesso tradotti in diverse lingue, senza preoccuparsi delle griglie, delle fasce, delle citazioni e così via. Ve li immaginate, per restare nel campo della filosofia, Habermas e Derrida che cercano le riviste di fascia A per scrivere dodici articoletti? E coloro che fanno ricerca scientifica perché dovrebbero tentare di innovare il proprio campo, rischiando di non essere citati dai colleghi più tradizionali? Questo spiega perché sta nascendo un silenzioso movimento di protesta, sfiducia, stanchezza che porta diversi professori, soprattutto in area umanistica, a lasciare l’Università. Per dedicarsi finalmente alla ricerca. Non per non essere valutati, ma per non finire preda di un dispositivo inefficiente e contraddittorio.
Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.
Chi tocca i baroni rossi finisce sotto processo. L'odissea di un giornalista querelato: raccontò la strana carriera di una professoressa vicina al Pd, scrive Stefano Filippi, Giovedì 28/09/2017, su "Il Giornale". Oggi che Concorsopoli è diventata una vergogna nazionale con baroni arrestati e sospesi dall'insegnamento, la denuncia del sistema corrotto è un atto benemerito, anticasta e trasparente. Non sempre è stato così. Per aver raccontato nel 2011 i sistemi di cooptazione all'università di Viterbo un giornalista che allora lavorava al quotidiano Italia Oggi, Giampaolo Cerri, invece che applausi si è preso una querela e il processo è ancora in corso. L'accusa è diffamazione ma suona come lesa maestà. Perché i chiamati in causa sono una professoressa con tessera e ruoli di responsabilità nel Ds/Pd e il capo dipartimento per l'università del ministero dell'Istruzione, all'epoca rettore dell'ateneo e presidente della Conferenza dei rettori. Nonché compagno della docente in questione. Lei si chiama Flaminia Saccà. Laurea in sociologia politica nel 1995 con tesi sul controllo sociale della sessualità, relatore il professor Umberto Melotti. Dottorato di ricerca in sociologia della cultura nel 2001. Ricercatrice all'università La Sapienza di Roma. Dal 2002 al 2005 è responsabile nazionale università e ricerca dei Ds e guida la contestazione all'allora ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti. Nel 2006 diventa co-coordinatrice della Scuola di formazione politica del Pd e nel 2007 viene nominata presidente di Filas spa, società della Regione Lazio a sostegno della ricerca, dello sviluppo e dell'innovazione. Piero Marrazzo, allora governatore, la giudicò «una nomina di alto profilo che conferma la sensibilità del sistema Regione nei confronti del sostegno alle imprese». Negli stessi anni Saccà ottiene un incarico di ricerca in sociologia all'università di Cassino. E nel 2010-11 partecipa a un concorso per un posto da associato all'ateneo della Tuscia a Viterbo, il cui rettore è il suo compagno, Marco Mancini. Qui scoppia il caso rivelato da Italia Oggi che è costato il processo per diffamazione. Uno dei cinque docenti della commissione giudicatrice, il professor Marcello Fedele, ordinario alla Sapienza, dopo una prima valutazione favorevole si corregge. E produce un tomo singolare: ampi stralci del lavoro presentato da Flaminia Saccà e a fianco, in imbarazzanti tavole sinottiche, testi di Francesco Amoretti, Gianfranco Bettin, Gianpietro Mazzoleni, Gabriel Almond e Sidney Verba. Uguali. L'accusa è semplice: la candidata ha copiato eminenti sociologi senza citarli. Il professor Fedele mette a verbale la volontà di cambiare giudizio perché «la produzione si configura priva di originalità e dunque con un valore scientifico in larga misura inesistente». Gli altri quattro commissari «prendono atto» ma non battono ciglio e ribadiscono la valutazione positiva per l'aspirante associata in sociologia targata Pd «in considerazione del curriculum, dei titoli presentati e delle due prove orali». Chiamato a testimoniare al processo per diffamazione, Fedele ha confermato tutto. Il decreto di nomina è firmato dal rettore viterbese, Marco Mancini, che era anche il presidente della Conferenza dei rettori e compagno della professoressa Saccà. Concorso confezionato su misura? Il sospetto esiste. Ora entrambi hanno fatto carriera: lei presiede il corso di laurea in Scienze politiche e relazioni internazionali a Viterbo mentre lui dall'agosto 2013 ha lasciato il rettorato (dove si era insediato nel 1999) per diventare capo del dipartimento per la formazione superiore e la ricerca al dicastero dell'Istruzione, cioè il braccio destro del ministro per le questioni universitarie.
Docente universitario. In Italia esistono due categorie di docenti universitari: i professori di seconda fascia o “associati” e quelli di prima fascia o “ordinari”. Si tratta delle due tappe successive a quella di ricercatore nella carriera universitaria. Per accedere a entrambi i ruoli è previsto un concorso, le cui modalità di svolgimento sono state recentemente riformate da un decreto del ministero dell’università e della ricerca scientifica.
PROFILO. I docenti universitari svolgono prioritariamente attività didattica e di ricerca. Nell’anno accademico, il docente svolge due corsi della durata di circa una quarantina di ore ciascuno. L’incidenza dell’attività di ricerca è molto variabile e dipende dalla disciplina di riferimento e dall’anzianità del docente. Ogni professore universitario è libero di scegliere fra l’impegno a tempo pieno o l’impiego a tempo determinato. In Italia, diversamente da quanto accade in altri paesi, i professori, oltre a svolgere attività didattica e di ricerca, si occupano anche della gestione delle università in cui operano, con ruoli che vanno dal direttore di istituto al direttore di dipartimento, dal presidente del corso di laurea al preside di facoltà, fino ad arrivare al rettore, la massima carica istituzionale di un’università.
REQUISITI. Le competenze e le attitudini richieste sono:
- un’ottima conoscenza della propria materia;
– capacità di divulgare in modo chiaro e sintetico i risultati della propria attività a studenti, ricercatori e docenti;
– disponibilità ai trasferimenti o, quantomeno, agli spostamenti frequenti.
FORMAZIONE. Un laureato può diventare docente universitario anche senza passare dal dottorato, ma solo se ha svolto lavoro di ricerca presso istituti e centri studio privati, e ha pubblicato i risultati del suo lavoro.
SBOCCHI PROFESSIONALI. La carriera universitaria di un docente di fatto si esaurisce con l’ottenimento di una “cattedra”, ossia con il conseguimento del titolo di professore di prima fascia (ordinario). A questo ruolo si accede tramite la partecipazione a un concorso: ogni università che necessita di un nuovo professore bandisce un concorso. La commissione giudicatrice, composta da professori ordinari eletti da tutti i docenti della materia, nomina un vincitore e due “idonei”. Questi ultimi, pur non avendo diritto al posto, possono essere chiamati, nel corso dei tre anni successivi, da altre università senza dover nuovamente sostenere il concorso.
L'INCHIESTA. Sono i docenti titolari di corsi ma ingaggiati a contratto, spesso con compensi minimi. Il boom degli ultimi anni. Ma il decreto Mussi li ridurrà drasticamente: reggerà il sistema?
L'Università dei prof "esterni" in molti atenei sono più della metà, scrive Massimiliano Papasso il 19 marzo 2007 su "La Repubblica". Il ministro Mussi qualche settimana fa li ha definiti come "lo zoccolo duro dell'università". Senza di loro molti rettori sarebbero costretti a chiudere bottega e alcuni studenti molto probabilmente non potrebbero nemmeno laurearsi. Eppure dal prossimo anno accademico, quella dei docenti a contratto, sarà una figura destinata a ridimensionarsi radicalmente nel panorama accademico italiano. Lo prevede il decreto approvato in questi giorni e che fissa un tetto molto rigido all'utilizzo dei cosiddetti "contrattisti": in pratica per ogni corso di laurea, vecchio o nuovo che sia, le università dovranno garantire che almeno il 50% del personale docente utilizzato per la didattica sia di ruolo. Stop quindi ad insegnamenti appaltati a personale esterno, esperti e professionisti di vario genere che le università ingaggiavano con contratti di diritto privato per poche centinaia di euro all'anno. Un fenomeno che negli ultimi tempi ha fatto registrare un vero e proprio boom dato che i docenti a contratto sono arrivati ad avvicinarsi pericolosamente alla somma dei professori ordinari, associati e ricercatori, a cui normalmente dovrebbe essere affidato il settore della didattica nelle università italiane. I dati. Secondo di le cifre raccolte dall'ufficio di statistica del Ministero dell'Università, nello scorso anno accademico sono stati 48.797 i docenti a contratto reclutati dagli atenei. Di questi a ben 33.008 è stata affidata la titolarità di un insegnamento ufficiale. Ovvero per 12 mesi esperti di un determinato settore, liberi professionisti o semplici laureati dal curriculum accattivante hanno svolto in tutto e per tutto le funzioni di un docente universitario tenendo lezioni, presenziando alle sessioni d'esame, ricevendo gli studenti e assegnando tesi di laurea. Un lavoro che normalmente ai docenti di ruolo frutta migliaia di euro l'anno e che invece ad un "contrattista" viene riconosciuto con una retribuzione, nella migliore delle ipotesi, di appena mille euro ad incarico. Un fenomeno in continua ascesa visto che negli ultimi cinque anni il numero dei docenti a contratto si è moltiplicato del 126%, passando da quota 21.536 del 2000 ai quasi 50 mila del 2005 (ultimo dato disponibile). Gli atenei a contratto. La moda di affidare a non accademici moduli didattici o un intero corso universitario ha contagiato quasi tutti, senza molte differenze tra atenei pubblici e privati. In testa a questa speciale classifica c'è l'Università di Bologna con 2.744 docenti messi sotto contratto nel 2005, di cui 1148 erano titolari di insegnamenti ufficiali. Seguono la Cattolica di Milano con 2706, l'Università di Padova con 2124 e quella di Pavia con 2124 contrattisti. Ma se per alcuni di questi atenei la proporzione tra docenti di ruolo e a contratto è ancora a favore dei primi (la somma dei professori ordinari, associati e ricercatori dell'Alma Mater bolognese è di 3092) per altre università, soprattutto quelle più piccole, la realtà è completamente ribaltata. E' il caso, tra gli altri, dell'ateneo di Ferrara dove a fronte di 678 docenti di ruolo quelli a contratto sono 1400, di cui quasi il 90% è titolare di insegnamenti ufficiali. Oppure di alcune facoltà della Sapienza di Roma (Architettura, Psicologia, Scienze della comunicazione, Sociologia) dove il numero di docenti a contratto supera quello di tutti i docenti di ruolo messi insieme, inclusi i ricercatori. Questione di budget. Le cause che hanno spinto gli atenei a ricorrere ad un così massiccio utilizzo di docenti a contratto sono soprattutto di natura economica. Visto che molto spesso chi accetta di insegnare all'università, svolgendo molto spesso un altro lavoro, si accontenta anche di poche centinaia di euro. Facendo risparmiare così alle università cifre considerevoli. "Non tutti i docenti a contratto vengono sottopagati - spiega Alessandro Perfetto, dirigente dell'area amministrativa dell'ateneo emiliano - . Soprattutto nelle facoltà di nuova istituzione, le retribuzioni possono anche adeguarsi attorno ai 10/15 mila euro l'anno. Dipende dai singoli casi. Più in generale, poiché la stragrande maggioranza di questi docenti sono dei professionisti o esperti che svolgono anche un altro lavoro, gli stipendi possono essere anche al di sotto dei mille euro. Certo in linea generale i docenti a contratto per le università italiane rappresentano sicuramente un vantaggio in termini economici, visto che il loro stipendio incide diversamente sulle casse dell'ateneo rispetto a quello di un professore di ruolo. Ma non dimentichiamo che le università negli ultimi cinque anni hanno dovuto fare i conti con una crescita senza freni dell'offerta formativa. E quella dei docenti a contratto era l'unica strada percorribile per tenere i bilanci sotto controllo". Tutta colpa del "3+2". In effetti se il decreto del 21 maggio del 1998 parlava di docenza a contratto solo nel caso in cui le università dovessero "sopperire a particolari e motivate esigenze didattiche", lasciando quindi intendere la straordinarietà della norma, gli atenei nella realtà si sono fatti prendere un po' la mano facendo ricorso ai contrattisti senza pensarci su due volte. Soprattutto perché con l'entrata in vigore del sistema del "3+2" la priorità era diventata quella di assicurare l'insegnamento di migliaia di nuovi corsi di laurea senza pesare eccessivamente sulle casse dell'ateneo. "La volontà del ministro Mussi di mettere un freno a questo fenomeno ci trova abbastanza d'accordo - dice Silvano Focardi, rettore dell'Università di Siena, che lo scorso anno aveva poco più di mille docenti a contratto - Già da quest'anno nel nostro ateneo abbiamo previsto un taglio del 20% alle supplenze e ai singoli contratti. Sicuramente le università in questi anni hanno abusato di questo istituto ma è tutto collegato all'entrata in vigore del "3+2", visto che con il ricorso ai docenti a contratto si poteva facilmente far fronte a qualche carenza dal punto di vista organico. A mio avviso però considerare tutti le tipologie di docenti a contratto come dei precari dell'università è sbagliato. Tra di loro, è vero, ci sono molti professionisti che tengono degli interi corsi universitari e seguono i ragazzi anche durante le tesi, ma ce ne sono anche altri che entrano in aula solo per qualche ora". "Più ore ai prof". Ma adesso che il decreto varato dal ministro Mussi riporterà la situazione alla normalità, il vero rischio per gli atenei è che il taglio dei contrattisti finisca con il compromettere del tutto i già traballanti bilanci delle università. "Soldi in più soprattutto in questo particolare momento non ce ne sono - assicura il rettore Focardi - Come faranno gli atenei a sostituire i contrattisti non lo so. Un'idea potrebbe essere quella individuata dalla legge 230 sullo status giuridico della docenza che prevedeva un aumento delle ore di insegnamento dei professori universitari fino a 120 ore, contro le 60 attuali. La priorità adesso è non incidere ulteriormente sui bilanci".
PARENTOPOLI: DIVIETO PER PARENTI ED AFFINI; AMMESSI CONIUGI, CONVIVENTI ED AMANTI. Università, vietato assumere i parenti. Tranne le mogli. Bari, 31 assunzioni all’università. La legge vieta congiunti dei professori fino al quarto grado. Ma il rettore annuncia: «L’interpretazione non è univoca», scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. La moglie è una parente? «Che razza di domanda!», direte voi. All’università di Bari, invece, indifferenti alle risate di scherno, la domanda se la pongono sul serio: d’accordo che la legge vieta l’assunzione in facoltà di «parenti e affini fino al quarto grado» ma perché mai escludere le mogli? Passi pure per i cognati, ma i mariti? Il tormentone di Parentopoli, all’ateneo «Aldo Moro» di Bari, va avanti da tempo immemorabile. «Per anni giornali, settimanali, libri e tv hanno elevato agli onori della cronaca i casi di alcune famiglie particolarmente portate alla carriera accademica - scrive Roberto Perotti già nel 2008 -. Nella facoltà di Economia sono noti i casi della famiglia Girone, con l’ex magnifico rettore Giovanni professore di Statistica, la moglie Giulia Sallustio, tre figli, un genero tutti docenti nella stessa facoltà; o della famiglia Massari, con Lanfranco professore di Economia aziendale, due fratelli, e almeno cinque tra figli e nipoti, a Bari e atenei limitrofi; o della famiglia Tatarano, con il padre Giovanni e due figli, tutti docenti di Diritto privato e tutti nello stesso corridoio». «Meno noto è il fatto che non ci sono soltanto loro - insiste il docente della Bocconi -. Nella facoltà di Economia almeno 42 docenti su 179 (quasi il 25 per cento) risultano avere almeno un parente stretto nella stessa facoltà; altri parenti sono sparsi per le altre facoltà dell’ateneo, e altri ancora insegnano negli atenei satelliti, nella sede staccata di Taranto, a Lecce, a Foggia. Tutte queste sono stime prudenziali, perché in parecchi casi fortemente sospetti non sono riuscito a rompere il muro di omertà e ad accertare al di là di ogni dubbio l’esistenza di un legame di parentela. E non c’è soltanto Economia: a Medicina e Chirurgia i cognomi che ricorrono almeno due volte sono 40, su 417 docenti». L’anno dopo, nel libro Parentopoli, Nino Luca rincara: «Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio (vale uno nonostante il doppio nome), Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela Monica Danila (tre nomi ma vale sempre uno) e Stefania. Totale otto Massari: Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari e Massari. Nell’ordine: ordinario, associato, ricercatore, associato, associato, ordinario, ricercatore e straordinario. Facoltà di Economia, economia, economia, economia, tutti ad economia. Stessa facoltà, stesso cognome, stessa famiglia, stesso mestiere, la stessa città. Anche se qualcuno, forse per frenare le malelingue, si è dovuto sobbarcare una piccola trasferta a Lecce e a Casamassima. Ma gli otto Massari portano l’università di Bari nel guinness dei primati». Macché record! Tre anni dopo, nel 2012, Striscia la notizia becca il direttore amministrativo Giorgio De Santis, via via consolato nella sua solitudine dall’arrivo all’ateneo barese della moglie, della figlia, di un fratello, della cognata, della sorella della cognata e di sette nipoti. Totale: dodici. «Ma no! Ma no!», si affrettavano via via a precisare dopo ogni scandalo i più rocciosi difensori del buon nome dell’università. «È tutta roba vecchia, un accumulo di casi isolati che non possono essere messi insieme. È il passato! Adesso c’è il codice etico!». Giusto, dal gennaio del 2007. Quando l’allora rettore Corrado Petrocelli benedisse le nuove regole, che vietavano le assunzioni dei parenti prima ancora che arrivasse la legge nazionale firmata da Maria Stella Gelmini, con parole di esultanza: «È un momento altissimo per l’intera comunità accademica barese. Bari adesso si pone come capofila nazionale per la lotta ai mali dell’università. Spero che da oggi in poi si parli più della bravura dei nostri ricercatori che degli scandali che in passato han travolto l’intera istituzione». Nel 2010, replay. Col trucco. Codice etico alla mano, Medicina è costretta infatti a negare l’assunzione di Maria Luisa Fiorella, prima al concorso per un posto da associato ad Otorinolaringoiatria. «Non è giusto!», si ribella il padre, Raffaele Fiorella, otorinolaringoiatra lui pure, professore e primario del Policlinico. E perché non sarebbe giusto? «Non è una legge, è un regolamento». E spiega al nostro Corriere del Mezzogiorno: «Mi verrebbe voglia di dimettermi, ma non lo faccio solo per rispetto dei miei pazienti e degli studenti». Poi ci ripensa, si dimette, va in prepensionamento e fa strada alla figlia. Il tempo che Maria Luisa si insedi e lui torna ad insegnare, con un contratto a tempo, nel dipartimento che dirigeva. Tié! Ma, ahinoi, il 30 dicembre 2010 l’insieme di «Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento», meglio nota appunto come legge Gelmini, sembra spazzare via ogni scappatoia. Dice infatti che «in ogni caso, ai procedimenti per la chiamata non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo». Chiaro? Non bastasse, una sentenza dell’Abruzzo annulla due anni dopo un’assunzione furbetta all’università di Teramo, basata proprio sul fatto che la legge non cita espressamente tra i parenti mogli e mariti, spiegando che «se l’affinità presuppone il coniugio, la ragione di incompatibilità riferita all’affinità (si badi, fino al quarto grado), a maggior ragione, deve valere per il coniugio». Linguaggio buro-giudiziario orrendo, ma chiaro. O no? No, pensa qualche testa fina a Bari. Tanto è vero che, essendo in arrivo i bandi per assumere trentuno nuovi professori associati, un’occasione in altri tempi unica per infilare un po’ di parenti, il problema è stato sollevato dal Collegio dei garanti, deciso a sciogliere le «incongruenze» appunto tra il codice etico dell’ateneo che precisa il divieto per i coniugi e la legge Gelmini che lascerebbe, per quanto sia ridicolo, questo pertugio. Il presidente del Collegio Ugo Villani ha invitato in una lettera i colleghi a interpretare la legge Gelmini in modo costituzionalmente corretto: «Sarebbe irragionevole il divieto per gli affini entro il quarto grado e non per il coniuge». Insomma, ha spiegato alla Gazzetta del Mezzogiorno, «non posso chiamare in dipartimento il cugino di mia moglie, che magari non ho mai visto in vita mia, ma posso chiamare mia moglie. È una situazione assolutamente irragionevole». Ovvio, agli occhi di tutti gli italiani. Ma non a quelli di tutti i docenti di Bari. Tanto che il rettore Antonio Uricchio, spiegando che «quella del Collegio dei garanti non è una interpretazione univoca» (testuale!), ha convocato il Senato accademico. Il tema è quello che dicevamo: la moglie è una parente? Chissà se questa dotta disquisizione contribuirà a rafforzare il profilo internazionale dell’università barese. Nell’ultimo ranking «Times Higher Education World» è tra il 351º e 400º posto in Europa. E quella mondiale è ancora più umiliante. Auguri.
«Parentopoli» All'Università di Bari, il caso di mariti e mogli, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Forse si è trattato di una svista. Forse, ed è più probabile, di un calcolo ben ponderato. Fatto sta che la legge Gelmini ha un buco, un buco che sta spaccando il mondo accademico e in particolare l’Università di Bari, dove sono in arrivo i bandi per reclutare 31 nuovi professori associati. Nell’eterna lotta al familismo universitario si pone un problema non da poco: sebbene sia vietato assumere chi ha «parenti o affini fino al quarto grado» nello stesso dipartimento, quel divieto non vale per mogli o mariti. E a Bari, tra quanti aspirano a un posto da professore, ce ne sono parecchi. Il problema è stato sollevato dal Collegio dei garanti, che ha fatto emergere le incongruenze tra la legge (e il nuovo regolamento di Ateneo) e il codice etico dell’Università di Bari, in cui - oltre ai parenti fino al quarto grado - è vietata anche l’assunzione del coniuge. In una lettera, il presidente del Collegio, Ugo Villani, ha dunque invitato i colleghi a una interpretazione «costituzionalmente orientata» della legge Gelmini: «Sarebbe irragionevole - scrive - sancire il divieto per gli affini entro il quarto grado e non per il coniuge». Al telefono, il professor Villani è ancora più esplicito: «Non posso chiamare in dipartimento il cugino di mia moglie, che magari non ho mai visto in vita mia, ma posso chiamare mia moglie. È una situazione assolutamente irragionevole, ed ecco perché mi sembrava giusto sollevare una questione che ha una indubbia rilevanza etica: per questo proponiamo una interpretazione della legge Gelmini che a noi pare giusta, ed è sostenuta da una sentenza del Consiglio di Stato». I giudici amministrativi hanno infatti annullato un assegno di ricerca che l’Università di Teramo aveva assegnato alla moglie di un ricercatore dello stesso dipartimento: «Se l’affinità presuppone il coniugio - hanno scritto i giudici -, la ragione di incompatibilità riferita all’affinità a maggior ragione vale per il coniugio»: in caso contrario, hanno avvertito, si rischia di istituzionalizzare «il biasimevole, ma non infrequente, fenomeno detto del familismo universitario». Ma per il momento il corpo docente barese si è mostrato scettico. Il codice etico, fanno notare in molti, è obsoleto (è stato emanato prima della legge 240, quando esistevano ancora le facoltà, e parametrava le incompatibilità ai settori scientifico-disciplinari), e spesso le relazioni personali tra colleghi nascono proprio in dipartimento. Altre Università (Milano Bicocca, Firenze, Venezia) hanno però emanato regolamenti che vietano anche mariti e mogli, seppur con sfumature diverse (in alcuni casi il divieto vale solo per i nuovi ingressi e non per le progressioni di carriera). Bari, invece, ha emanato un regolamento - non ancora in vigore - che richiama parola per parola il testo della legge Gelmini, e dunque salta a piè pari il problema dei coniugi. «Sono impegnatissimo a difendere il codice etico - dice il rettore Antonio Uricchio - ma quella del Collegio dei garanti non è una interpretazione univoca. Per questo motivo ho convocato per venerdì il Senato accademico, in quella sede il professor Villani rappresenterà le sue conclusioni e decideremo». È probabile che si arrivi a una votazione, ed a quel punto potrebbe accadere di tutto: anche che il Senato voti per ammettere ai concorsi mariti e mogli. Anche perché le prime 31 assunzioni secondo la legge Gelmini preludono a una successiva infornata di professori associati: se i vincitori dei concorsi (una procedura comparativa telematica) risulteranno già in servizio presso l’Università, infatti, i singoli dipartimenti potranno utilizzare le risorse economiche liberate per effettuare chiamate dirette a chi ha conseguito l’idoneità nel concorso nazionale. A Bari i casi di marito professore e moglie ricercatore nello stesso dipartimento (o viceversa) sono diverse decine. A Giurisprudenza, a Medicina, ma anche (e forse soprattutto) nelle facoltà scientifiche. La legge Gelmini ha eliminato la figura del ricercatore a tempo indeterminato, quelli che ci sono destinati a diventare tutti (prima o poi) professori. E c’è una vera guerra per chi deve entrare per primo. La questione è tutto sommato semplice, ma - qualunque sia la soluzione - si rischia di scontentare qualcuno. Venerdì il Senato accademico dell’Università di Bari, chiamata a reclutare 32 nuovi professori associati, dovrà scegliere come regolarsi sul caso dei coniugi che in queste ore sta spaccando la comunità accademica: se vietare l’assunzione di moglie e mariti - come chiede il garante del Codice etico, Ugo Villani - o se invece scegliere di adeguarsi al testo letterale della legge Gelmini che al proposito è vago, continua Scagliarini. Dopo i 32 bandi per associati, cui potrebbero far seguito un certo numero di chiamate dirette, arriveranno le assunzioni dei professori ordinari. E di coniugi che lavorano nello stesso dipartimento, a Bari ce ne sono tantissimi: quasi tutti, guarda caso, in possesso dell’abilitazione nazionale e dunque interessati agli imminenti bandi. Il direttore del dipartimento di Psicologia, Rosalinda Cassibba, è ad esempio moglie di Giuseppe Moro, professore associato di Sociologia. A Biotecnologie, la ricercatrice Grazia Paola Nicchia è sposata con il professore associato Antonio Frigeri (Fisiologia). Ad agraria, sono marito e moglie i ricercatori Agata Gadaleta e Giuseppe Ferrara. Il preside di Giurisprudenza, Massimo Di Rienzo, è il marito di Francesca Vessia, professore associato di Commerciale (in attesa di abilitazione). La legge 240 prevede il divieto di assumere nello stesso dipartimento «parenti o affini fino al quarto grado», senza far riferimento ai coniugi. Ma nella lettera che ha fatto scoppiare il caso, il professor Villani ha evidenziato che il rapporto di coniugio è alla base del concetto di affinità, e - soprattutto - che secondo il Consiglio di Stato il divieto va esteso anche a marito e moglie. Quello stesso divieto, peraltro, è contenuto anche nel Codice etico dell’Università di Bari, mentre il nuovo regolamento per le chiamate dei docenti non ne fa menzione: si limita a richiamare la norma di legge. È per questo che il rettore Antonio Uricchio ha demandato tutto al Senato che si riunirà venerdì. In quella occasione, dovrebbero essere votati i criteri delle assunzioni: la comunità accademica rischia dunque, indirettamente, di votare per l’assunzione di mogli e mariti. Il problema è che a Bari c’è un precedente, un precedente pesante. Nel precedente concorso per associati, a marzo 2013, uno dei 37 vincitori era la professoressa Stefana Santelia, moglie dell’allora rettore Corrado Petrocelli. All’epoca l’Università ha temporeggiato (l’assunzione di parenti del rettore non può avvenire in alcun dipartimento): la professoressa Santelia è stata chiamata a novembre 2013, dopo la scadenza del mandato di Petrocelli. Una procedura formalmente ineccepibile. Il problema è che la legge Gelmini era in vigore già allora, ma all’epoca nessuno si era posto il problema: e dunque c’è sul tavolo un precedente fortissimo.
Parentopoli in Ateneo, oltre venti cattedre per mogli e mariti prof. Scontro sul codice etico. Il presidente del Collegio dei garanti, Ugo Villani sarà ascoltato dal Senato accademico. "Il regolamento va modificato perché va prevista l'incompatibilità tra i coniugi", scrive Antonio Di Giacomo su “La Repubblica”. In pole position ci sarebbero circa venti docenti pronti a saltare in cattedra. Peccato, però, che sembra si tratti di mogli e mariti di professori già in servizio nell'Università di Bari. A meno che, venerdì prossimo, il Senato accademico durante la sua riunione straordinaria non accolga le sollecitazioni di Ugo Villani, presidente del Collegio dei garanti dell'Ateneo barese, che ha preso carta e penna e fornito chiare indicazioni sul regolamento per la chiamata dei professori di ruolo: "Il Collegio raccomanda al Senato accademico di modificare la normativa interna dell'Università di Bari per rendere esplicito divieto fondato sul rapporto di coniugio". Il peccato originale, infatti, è nell'articolo 18 della legge 240/10, meglio nota come riforma Gelmini, che fra le cause di esclusione dai procedimenti per chiamata dei professori, dal conferimento di assegni e dalla stipulazione di contratti considera incompatibili i parenti e affini anche non stretti (fino al quarto grado) e non il coniuge di "un professore appartenente al Dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero del rettore, del direttore generale o di un componente del Consiglio di amministrazione dell'Ateneo". Figli, cugini, nipoti, fratelli e sorelle no, insomma, ma mariti e mogli sì. Fatto sta che, sebbene curiosamente l'articolo 18 della Gelmini abbia lasciato proprio una finestra interpretativa aperta, il 15 settembre scorso il Senato accademico barese ha approvato un regolamento che richiama alla lettera la stessa legge. Superando così le più strette maglie del codice etico che pure l'Ateneo si era dato. Ma qui Villani invoca l'autorevole parere del Consiglio di Stato che, rispetto alle cause di esclusione, ha già parlato chiaro nella sentenza 1270 del 2013, giudicando "irragionevole considerare ai fini dell'incompatibilità, un rapporto di parentela e affinità anche non stretto (fino al quarto grado) ed escluderlo invece per il coniuge ". A meno che non si ritenga "che il biasimevole, ma non infrequente, fenomeno del familismo universitario, vada addirittura istituzionalizzato". Ed è appellandosi a questo pronunciamento che Villani, anche alla luce di una delibera assunta dal Collegio dei garanti lo scorso 21 ottobre, ha osservato, come sarebbe "irragionevole sancire il divieto per gli affini entro il quanto grado e non per il coniuge, essendo invero il rapporto di coniugio il presupposto giuridico della affinità". Ma qual è il parere della comunità accademica? Per Giovanni Lapadula, direttore del dipartimento di Medicina, "l'osservazione di Villani è giusta, visto che marito e moglie sono due persone inizialmente estranee fra cui si crea un legame affettivo forte che va poi sottoposto a valutazioni etiche quando si parla di carriere. Ma credo ci sia pure il problema di quei legami affettivi, come le convivenze, non registrati ufficialmente e che pure pongono questioni etiche, le convivenze nel quale non c'è vincolo matrimoniale ma lo stesso vincolo. Ritengo, quindi, che laddove ci siano dei dubbi debba poter esistere una commissione etica indipendente, costituita da componenti esterni all'Ateneo, perché i singoli casi siano analizzati con serenità ". Mentre Massimo Di Rienzo, direttore di Giurisprudenza, osserva che "escludere qualcuno da una procedura in assenza dei presupposti di legge significa adottare delle decisioni delle quali si può essere responsabili ai fini risarcitori. Le incompatibilità devono essere quelle stabilite dalle norme: ogni decisione non potrà che essere coerente al dettato legislativo". Non ha dubbi, invece, il Codau, l'associazione dei direttori generali delle università italiane che, richiamando il Consiglio di Stato, in un documento del novembre 2013 scrive: "Il rapporto di parentela e coniugio devono essere considerati tra le incompatibilità".
TANTO BRAVO DA INSEGNARE ALL’ESTERO? PENALIZZATO. Insegnavi a Yale? Mettiti pure in coda. All’Università del Salento più punti a chi ha avuto cattedre nei nostri atenei, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Vale di più una cattedra ad Harvard o all’ateneo di Villautarchia? Dipende. All’Università del Salento, pare impossibile, il concorso per assumere 16 professori riconosce più punti a chi ha già insegnato nelle nostre aule piuttosto che ai docenti di Berkeley o Yale. Che gli atenei italiani possano essere sottovalutati dalle classifiche mondiali, come sospirano i rettori, è possibile. Anche l’ultimissimo «World University Ranking» del Times Higher education vede nelle prime 200 addirittura 74 università statunitensi, 29 britanniche, 12 tedesche, 11 olandesi, 8 canadesi, 8 australiane, 7 svizzere, 7 francesi, 5 giapponesi, 4 turche (quattro!) e una sola italiana. Cioè la Normale di Pisa che si piazza al 63º posto e, nella classifica pro capite, tenendo conto del numero degli studenti, starebbe molto più in alto. Seguono, nella seconda fascia, l’ateneo di Trieste e la Bicocca di Milano: nelle prime 250, a dispetto di tutte le vanità sulla «patria della cultura», non abbiamo altro. Domanda: allora come mai, se le università italiane sono così scarse, i nostri ragazzi appena mettono il naso al di là della frontiera fanno spessissimo un figurone in tutto il mondo? Risposta: perché evidentemente, nonostante tutti i difetti, tutti i concorsi truccati, tutte le Parentopoli, nelle nostre aule si insegna e si impara meglio di quanto si pensi. Il problema della reputazione, però, resta. Ed è pesante: come possiamo rassegnarci ad avere tra le prime 400 università d’Europa solo 17 italiane? Fatto sta che, non contentandosi di contestare la sacralità di queste classifiche, l’Università del Salento ha deciso di andare oltre. E di valutare di più i curriculum «caserecci» che non quelli di profilo internazionale. Lo dice il bando di selezione «per la copertura di 16 posti di professore universitario di ruolo di 2ª fascia» firmato dal rettore Vincenzo Zara. Già il documento, va detto, è un capolavoro del delirio burocratese in cui affoga l’Italia: prima di arrivare al nocciolo, la delibera vera e propria, elenca infatti 42 «visto» e «vista» (da «vista la legge 23 agosto 1988 n.370 - esenzione dell’imposta di bollo...» a «vista la legge 9 maggio 1989 n.168-istituzione del ministero dell’Università...») più due «considerato» e un «ritenuto» per un totale di 189 righe di logorrea «codicillica». Il seguito, però, è perfino peggio. Già alla prima delle cattedre messe in palio, infatti, quella di Archeologia, il massimo riconosciuto per l’«attività di docenza svolte in Italia» è di 20 punti, quello per le «attività di docenza e attività di ricerca all’estero» compresi gli «incarichi o fellowship ufficiali presso atenei e centri di ricerca esteri di alta qualificazione» e la «partecipazione a convegni internazionali in qualità di relatore», solo di 4. Cinque volte di meno. Col risultato, ad esempio, che se un fuoriclasse celebre nel mondo come Andrew Stewart, specializzato in «Ancient Mediterranean Art and Archaeology», volesse prendersi lo sfizio di lasciare l’Università di Berkeley per venire a Lecce (ammesso che fosse accettato nonostante il passaporto straniero) avrebbe per la sua esperienza didattica 4 punti rispetto ai 20 riconosciuti a un ipotetico professor Tizio Caio che abbia insegnato in un’università telematica di Rocca Cannuccia. Assurdo. Tanto più di questi tempi, coi docenti delle «telematiche» che paiono (ma ci torneremo) moltiplicarsi miracolosamente. E se può essere spacciato come una scelta sensata lo squilibrio (16 punti agli «italiani», cinque agli «stranieri») per la cattedra di letteratura italiana contemporanea, anche se ci sono fior di stranieri che la conoscono meglio di tanti italiani, appare folle la sproporzione, ad esempio, per la cattedra di Econometria (20 punti a 10), di «Meccanica applicata alle macchine» (30 punti a 10), di Botanica (20 punti a 5) o di «Misure elettriche ed elettroniche» dove lo squilibrio è ancora quintuplo: 10 punti ai «casalinghi», 2 agli eventuali acquisti dall’estero. Un terzo del punteggio che l’aspirante professore potrebbe guadagnare dimostrando di sapere l’inglese! E non è tutto. Un ricercatore ha generalmente un punteggio uguale a quello del capo-ricerca e in alcune discipline perfino più alto. Peggio: a «Progettazione industriale» chi ha avuto la «responsabilità scientifica di progetti di ricerca, nazionali e internazionali ammessi al finanziamento sulla base di bandi competitivi» ottiene un punto. Chi ha solo partecipato ne ottiene nove! Che razza di criterio è? Per carità: evviva l’Italia ed evviva gli italiani! Ma se all’estero vanno a cercarli apposta gli stranieri (compresi moltissimi dei nostri, soprattutto giovani) per dotare il proprio ateneo di una classe accademica più variegata e internazionale e multiculturale possibile, perché mai noi dobbiamo fare il contrario? A Flavia Amabile che ne ha scritto nel blog de La Stampa, il direttore del dipartimento di fisica leccese ha spiegato che era importante «avere personale docente con esperienza didattica in Italia che possa da subito svolgere al meglio i corsi e, eventualmente, ricoprire cariche accademiche» (testuale!) e che c’era da «valorizzare i ricercatori (italiani e non) che in questi anni di blocco dei concorsi hanno consentito il normale svolgimento delle attività didattiche». Per carità, sarà anche vero... Ma all’estero come la vedranno, questa faccenda? Ci farà guadagnare o perdere altri punti nelle classifiche?
UNIVERSITA'. DOTTORATI DI RICERCA. ANCHE A SINISTRA ROBA NOSTRA? Dottorato di ricerca al figlio del senatore e il prof cambia la sim del cellulare. Nelle intercettazioni della Guardia di Finanza il ruolo di Loiodice per favorire Procacci (Pd), scrive Gabriella De Mattei e Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Non ci sono soltanto scambi di favore tra docenti per spartirsi le cattedre italiane. Nell’inchiesta Do ut Des - la maxi indagine della Guardia di Finanza sui concorsi italiani nelle facoltà di Giurisprudenza - ci sono anche nomi e favori ad alcuni politici. Tra gli indagati c’è l’ex ministro, Anna Maria Bernini, che aspirava a un posto da ordinario. Ma negli atti si parla anche di un ex senatore del Partito democratico, Giovanni Procacci, oggi dirigente regionale del partito, e di suo figlio, Pasquale. Il ragazzo (che non è indagato) secondo l’accusa sarebbe stato favorito dal professor Aldo Loiodice per superare una prova per il dottorato di ricerca in diritto Pubblico, con le prove svolte tra il 18 e il 22 dicembre del 2009. Nel fascicolo della Procura è ricostruita tutta la storia di questa prova. Non una qualunque non fosse altro perché, secondo la ricostruzione del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, segna la rottura all’interno dell’organizzazione, e cioè tra il gruppo dei professori baresi e quella del ras della Giustino Fortunato, Angelo Colarusso. Secondo la ricostruzione, dopo le polemiche su alcuni concorsi sollevate da Repubblica, si erano creati due posti schieramenti, uno che faceva capo a Gaetano Dammacco e l’altro ad Aldo Loiodice. A svelare quello che accade è una cimice piazzata all’interno dello studio del professor Dammacco. Sia lui sia Loiodice sarebbero interessati a piazzare propri uomini all’interno della commissione. Dove, con un colpo di spugna, viene nominata il 17 dicembre del 2009 la figlia di Loiodice, Isabella, a scapito di due protetti di Dammacco. Che infatti si infuria sostenendo che si tratti di una grossa mancanza di rispetto nei suoi confronti. Da qui partono una serie di conversazioni tra il gruppo dei docenti pro Dammacco, che vedono minata la posizione della loro protetta. Non avevano tutti i torti. Il 18 dicembre la figlia di Loiodice, Isabella, chiama il padre aggiornandolo sulle procedure: gli dice che è stata fatta la prova scritta dove è avvenuta la prima scrematura e c’è un elenco di promossi all’orale. Tra loro c’è anche Procacci, come spiega la figlia al padre seppur con un linguaggio criptico. Gli investigatori ricostruiscono infatti i rapporti tra Loiodice e il senatore Procacci, sostenendo che i due fossero amici. E come si deduce dalle ambientali intercettate nello studio di Dammacco, Loiodice avrebbe apparecchiato la commissione soltanto per favorire il figlio del senatore. «Ti sto pensando» diceva l’amministrativista al suo allievo al telefono, utilizzando il solito linguaggio criptico. Loiodice sapeva dell’indagine. Ed era convinto di essere intercettato. Lo dimostra il fatto che a fine dicembre del 2009 attiva una nuova scheda sim, che utilizza soltanto lui, ma che viene intestata a un collaboratore di studio. Scheda che gli investigatori riescono comunque a intercettare. Tornando al concorso, si svolgono le prove orali. E le cose vanno come dovevano. È il 22 dicembre quando Giovanni Procacci, avendo saputo di aver passato la prova, chiama immediatamente il suo mentore Loiodice per ringraziarlo e gli preannuncia una visita allo studio insieme con il padre. Subito dopo Loiodice chiama Isabella facendo una telefonata, secondo gli investigatori da manuale: «Non sapevo niente le dice, in sintesi - non mi sono mai permesso di dire niente come sei eppure ora mi ha telefonato Pasquale Procacci per dirmi che aveva vinto. Sono proprio contento, vuol dire che il ragazzo è bravo». Questa parte del fascicolo di Do ut Des è quella che è rimasta a Bari. Mentre gran parte delle altre prove sotto inchiesta sono state spacchettate e mandate per competenza in altre procure: da Milano a Lecce, a troppi anni di distanza e nonostante il lavoro ciclopico del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, c’è la prova di come i baroni italiani (molti ormai andati in pensione, altri che invece ricoprono gli stessi ruoli se non addirittura più prestigiosi) scambiavano l’Università pubblica per cosa loro, trasfor-mando le prove in qualcosa che nulla aveva a che fare per il merito. Un concorso per, appunto, un do ut des.
"Pronti a sospenderci dal Pd se Procacci non rimetterà il suo incarico e se Michele Emiliano, da segretario regionale, non sia lì a pretendere le sue dimissioni da coordinatore della segreteria". Lo afferma, a proposito del coordinatore della segreteria del Pd pugliese, Giovanni Procacci, questa mattina con una lunga nota su Fb l’assessore regionale e candidato alle primarie Guglielmo Minervini (Pd), a seguito dell’inchiesta sugli scandali che riguardano i concorsi all’Università di Bari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I nomi di Procacci, padre e figlio, - secondo quanto si è appreso da fonti giudiziarie – non risultano nell’elenco degli indagati, pur essendo menzionati in una intercettazione telefonica. "Un partito di quelli che raccomandano i propri figli - aggiunge - è il principale avversario del cambiamento della Puglia. Procacci dovrebbe avvertire il bisogno di togliere il Pd dall'imbarazzo dimettendosi dall'incarico di rappresentanza. Il segretario regionale (Michele Emiliano, anche lui candidato alle primarie del 30 novembre ndr) spero glielo abbia chiesto. Altrimenti - aggiunge Minervini - ci sospenderemmo noi dal Pd. Su questo punto non si transige. Non si può transigere. Sulle questioni di fondo non si bara". "E' evidente – aggiunge – che il fesso sono io. Dieci anni assessore regionale, nientepopodimeno, e una figlia a Milano ancora a sbattersi in giro, con tutte le sue energie, per cercare uno stage non retribuito, dopo un lavoro precario in condizioni da sfruttamento". "In fondo, come ci ricorda Procacci, se sei un politico di punta basta una telefonata all’amico barone, et voilà, dottorato vinto per tuo figlio, primo passo – continua Minervini – di una carriera luminosa spianata in forza di un cognome che sfonda i traguardi come un ariete. Con buona pace di chi quel posto lo meritava davvero, ma essendo privo del supporto di una buona famiglia, si è visto sorpassato a destra: gli auguriamo, davvero di cuore, migliore successo. Quelle intercettazioni tra l’accademico e il coordinatore della segreteria regionale del PD, l’uomo più vicino di Michele Emiliano (anche lui in corsa nelle primarie del centrosinistra alla presidenza della Regione Puglia,ndr), sono una ferita profonda". "Ovviamente – aggiunge – non ci interessa il rilievo penale della vicenda ma esclusivamente i due nodi politici che solleva. Il primo riguarda la credibilità di una classe dirigente", il secondo riguarda il nepotismo e il clientelismo che "sono il male oscuro del paese". Sempre su Fb la replica di Procacci: "Caro Guglielmo, non pensavo che arrivassi a tanto, strumentalizzando una vicenda - afferma – che non mi vede minimamente coinvolto E» possibile che un figlio di persona nota sia capace e meritevole? O per forza i suoi traguardi sono dovuti all’influenza dei genitori? Anche un altro mio figlio sta facendo concorsi e andrà lontano, come è già avvenuto in passato". "Non ricopro ruoli istituzionali, e nel partito coordino la segreteria. Non esiterei un attimo a dimettermi se questo non dimostrasse una mia qualche colpevolezza. Hai scritto la tua nota – aggiunge Procacci – dimenticando che la mia vita pubblica è stata sempre esemplare. Non sono mai stato sfiorato da nessuna ombra e tu conosci bene la mia onestà e la mia correttezza". Il senatore del Pd Giovanni Procacci si è autosospeso dal ruolo di coordinatore regionale del partito "rimettendo la questione alla direzione regionale dopo le primarie", in relazione alle accuse mossegli dall’assessore regionale e candidato alle primarie del centrosinistra per la presidenza della Regione Puglia Guglielmo Minervini (Pd). Era stato quest’ultimo a chiedere ufficialmente che Procacci si dimettesse. I nomi di Procacci, padre e figlio, compaiono - ma senza che siano indagati, secondo fonti giudiziarie – in una intercettazione dell’inchiesta della procura di Bari su presunti favori nell’assunzione di docenti universitari. "Era per me impensabile – sostiene Procacci nella nota in cui comunica la decisione di dimettersi – che un amico con cui ho condiviso tante cose potesse strumentalizzare una vicenda del 2009 che non mi vede minimamente coinvolto nè sul piano giudiziario nè su altri piani attinenti le questioni dell’Università. Non ricopro ruoli istituzionali e il mio unico impegno, di mero volontariato, è quello di coordinare la segreteria regionale. Tuttavia – aggiunge – non posso neanche consentire che si strumentalizzi la mia persona per colpire obiettivi politici in vista delle primarie". Nella seconda parte della nota Procacci attacca il suo accusatore. "Minervini – dichiara il senatore – dovrà trovare altri argomenti per proseguire la sua campagna elettorale. Il tentativo di sciacallaggio di Minervini nei miei confronti ha un riscontro oggettivo: come mai Guglielmo non chiede le dimissioni di suoi colleghi di giunta che sono indagati e che - sinceramente spero di no! – potranno essere rinviati a giudizio? Le chiede a me, che non sono nemmeno indagato, solo perchè ho la colpa di sostenere Emiliano: una ferocia d’animo che non distingue più il piano della politica da quello dell’odio e del rancore personale". Procacci sostiene quindi che Minervini non avrebbe agito allo stesso modo se non ci fossero state le primarie e lo stesso senatore non avesse sostenuto Emiliano nella corsa alla candidatura per il centrosinistra alla presidenza della Regione Puglia". "Nè si è preoccupato di acclarare la verità – conclude Procacci riferendosi all’assessore – semplicemente non ha resistito alla ghiotta occasione di poter colpire attraverso di me il suo avversario, incurante delle ferite morali e psicologiche che avrebbe inferto a me ed alla mia famiglia".
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti. Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso? Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato. E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
«Vai in prigione, professore», scrive Domenico Battista il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio". “Cupola” dei professori: condanna definitiva, ma il processo deve ancora iniziare. In merito alla vicenda dei professori tributaristi, immediatamente è scattato il meccanismo: tutti certamente colpevoli, condanna già definitiva, si tratta soltanto di lasciare al giudice (quello vero!) un margine di discrezionalità per stabilire l’entità della pena (che comunque dovrà essere esemplare). Ognuno ha pensato «io lo sapevo- lo sapevano tutti», finalmente è arrivato un giudice che ha messo fine allo schifo. “Cupola” dei professori: condanna definitiva, ma il processo deve ancora iniziare. Premetto che conosco poco o nulla del procedimento pendente a Firenze, nel corso del quale il GIP ha emesso una lunga e complessa ordinanza di custodia cautelare nei confronti solo di alcuni dei numerosi indagati dei reati di «corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio» o per «induzione indebita» o ancora per «turbata libertà del procedimento di scelta del contraente». Non sono, quindi, in grado di dire se effettivamente siano giustificati i provvedimenti cautelari emessi dal GIP su richiesta dei pm fiorentini. Ma non è questo il tema del mio intervento: le ipotesi di reato, se troveranno conferma in sede processuale, sono certamente gravi ed è giustificato l’allarmismo e lo sconcerto che una notizia tanto clamorosa determina nell’opinione pubblica. Nelle aule giudiziarie si raccoglieranno le prove e si stabilirà se gli odierni indagati, forse un domani imputati, meritino o meno una condanna e se la qualificazione giuridica delle condotte loro attribuite sia corretta o meno. Giusto dunque informare e altrettanto legittimo commentare la notizia degli arresti. Ma nella vicenda fiorentina si è manifestato qualcosa di diverso e, a mio avviso, di preoccupante: siamo ormai tristemente abituati alla deriva dei cosiddetti processi mediatici, con trasmissioni televisive che si affannano non a svolgere una attività di supplenza dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria ( sulla quale ci sarebbe già molto da discutere) ma a sostituirsi ai giudici, anticipando, sulla base di qualche elemento sensazionale, certezze che tali non sono, ma che influenzano ed alimentano non la ‘ sete’ di giustizia, ma la ‘ voglia’ di vendetta di tanta parte degli spettatori. Creando talvolta situazioni paradossali, di vero e proprio tifo ultrà tra innocentisti e colpevolisti, i primi pronti a fischiare i giudici che, nelle sedi proprie e sulla base di regole che, come si conviene in uno stato di diritto, sono predeterminate, pervengono ad affermazioni di responsabilità. Gli altri pronti ad insultare e finanche aggredire i giudici che, sulla base di una diversa convinzione, non hanno aderito alle tesi accusatorie giungendo a decisioni assolutorie. E’ venuto fuori infatti un nervo scoperto e si sa che anche sfiorarlo determina un sussulto. E’ sensazione diffusa, ed aggiungo non ingiustificata, che il sistema universitario – ricco di quelli che in gergo definiamo sprezzantemente ‘ baroni’ ed altrettanto popolato da allievi pronti ad eventuali compromessi che consentano progressioni di carriera – sia affetto da una grave patologia, da forme di chiusura in un mondo di pochi eletti che spesso taglia le gambe ai più meritevoli e favorisce i più scaltri. D’altra parte se le cause sono tante, l’effetto è evidente: le Università, salvo come sempre poche ma esemplari isole felici, sono allo sfascio; ed il ‘ prodotto’ che sfornano ormai da molti anni, i laureati, quando va bene poco preparati, ma per tanta parte incolti e finanche ignoranti (e non solo nella materia prescelta!) sono sotto gli occhi di tutti. La notizia degli arresti e delle interdizioni è arrivata improvvisa, ma non inaspettata e non ha colto di sorpresa, per quella ‘ consapevolezza inconscia’, come la ha definita qualcuno, che il marcio esisteva e che finalmente il pozzo nero era stato scoperchiato. Coinvolgendo tutti: arrestati, interdetti e finanche solo indagati (nei confronti dei quali, quanto meno perché non raggiunti da alcun provvedimento anticipatorio – che, in concreto, significa carenza di gravi indizi e/ o di esigenze cautelari dovremmo essere indotti ad un minimo di maggior prudenza). Immediatamente è scattato il meccanismo: tutti certamente colpevoli, condanna già definitiva, si tratta soltanto di lasciare al giudice (quello vero!) un margine di discrezionalità per stabilire l’entità della pena (che comunque, per soddisfare il palato delle novelle tricoteuses, dovrà essere esemplare). Ognuno ha pensato «io lo sapevo, io lo sospettavo, lo sapevano tutti, lo sospettavano tutti», finalmente è arrivato un giudice (in questo caso a Firenze e non a Berlino) che ha messo fine allo schifo. Pochi hanno riflettuto che è difficile immaginare che oltre una cinquantina di persone sparse su tutto il territorio nazionale fossero tutte d’accordo, pronte a delinquere. Può darsi che sia effettivamente accaduto un tale inconsapevole accordo, ma il dubbio, evocato nella denominazione di questo giornale, non fa parte della coscienza collettiva di certa opinione pubblica. E siccome ognuno di noi ha ormai – ed è un bene anche se talvolta utilizzato male un nuovo mezzo di comunicazione immediata e diretta del proprio pensiero e delle proprie opinioni, i Social, la condanna mediatica ha già fatto il suo corso: paradossalmente è già passata in giudicato finanche prima ancora di conoscere le imputazioni e la loro complessa articolazione (imputazioni che, se lette, forse qualche dubbio almeno agli addetti ai lavori dovrebbero suscitare). Un tempo, senza internet, era più complicato: occorreva preparare un palco in piazza, allestire una gogna, far sfilare il malcapitato, colpevole o innocente che fosse, tra due ali di folla urlante e ringhiosa, e sottoporlo al pubblico ludibrio. In tempi più vicini, in un impeto di esaltazione collettiva, i maoisti inventarono una forma più raffinata di gogna, appendendo cartelli ed orecchie d’asino ai controrivoluzionari: ironia della sorte anche in quel caso si trattava di molti professori universitari; e chi di noi sotto sotto non odia o non ha odiato un professore….
Oggi tutto è più semplice, ma le conseguenze sono drammaticamente peggiori: per i diretti interessati, vittime della gogna mediatica, ma anche, mi sia consentito di dirlo, per la civiltà di un paese che dovrebbe aver messo al bando da molto tempo l’idea della vendetta e dell’odio per chi ha sbagliato (se ha sbagliato), scegliendo in modo definitivo la cultura del processo propria di uno Stato di diritto moderno e democratico. Leggere i giornali cartacei o on- line, ascoltare giornali radio non è sufficiente per rendersi conto di quanto sta accadendo: occorre fare un giro su Facebook, sulle studiate condivisioni di foto degli indagati, sui commenti al limite del sanguinario per scoprire od avere conferma della degenerazione in atto. Ma c’è qualcosa di nuovo e ‘ di più’ che ho notato rispetto a tanti altri casi di giustizia popolar- mediatica (antitesi della giustizia vera, a cui tutti dicono di volersi ispirare che in troppi disdegnano). Il nervo scoperto di un sistema universitario che, a voler essere buoni, constatiamo tutti essere non funzionante, ha aperto un nuovo cantiere giustizialista. Non basta spiegare che una ordinanza di custodia cautelare non equivale ad una sentenza di condanna, che i gravi indizi non sono equiparabili alle prove certe al di là di ogni ragionevole dubbio, che le prove devono essere raccolte in contraddittorio tra le parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale ( auspicabilmente un domani anche separato in carriera dal pm), che devono ancora essere espletati gli interrogatori di garanzia, che un indagato non soggetto a misure cautelari è in posizione processuale evidentemente diversa da altro indagato raggiunto da provvedimenti restrittivi o interdittivi. Tutto questo non interessa: alla condotta penalmente rilevante, agli elementi costitutivi di ogni reato, alla responsabilità penale necessariamente individuale (e non collettiva, salvo che nei casi di reati associativi, nel caso di specie non contestati) si è istantaneamente aggiunta una nuova categoria giuridica: la prassi. La prassi era quella, anzi è quella: lo sappiamo tutti quello che accade nei concorsi universitari, i favoritismi, il clientelismo, il nepotismo e via dicendo. Si è arrivati tardi, come hanno fatto i pm a non accorgersi prima che quella era la prassi e che quella andava e va punita? Ma il malcostume può da solo essere sufficiente a trasformare un comportamento scorretto in un condotta illegittima con caratteristiche tali da assumere rilevanza penale?
E’ un sofisma da giuristi o è un principio di civiltà prevedere che non qualsiasi condotta riprovevole, ma solo quella che integra gli elementi costitutivi di una fattispecie codificata costituisce reato? Si invoca tanto, e tante volte a sproposito, la Costituzione e poi ci dimentichiamo che esiste un sacrosanto principio, quello di legalità, sancito dall’articolo 25 della nostra Carta fondamentale, che a sua volta nasce da secoli e secoli di progressivo avanzamento della civiltà giuridica. Le prassi sono una cosa diversa; in certi casi, pur andando contro una specifica previsione normativa, possono finanche essere virtuose. Ma non è pensabile che possano assumere autonoma valenza penale e giustificare il pubblico ludibrio dell’intera classe di professori universitari. Attenzione a non cadere in questa ulteriore forma di populismo (già in parte coltivata dai nostri disattenti legislatori che sembrano fare a gara, per solleticare la pancia di un elettorato che sanno essere giustizialista e forcaiolo, ad inventare nuove imperdibili figure di reato destinate o a rimanere solo sulla carta, come altrettante grida manzoniane, o ad aggravare ulteriormente lo stato comatoso della nostra giustizia penale). Teniamo ben distinti, in conclusione, i giudizi morali dalle statuizioni penali: i primi sono del tutto soggettivi e, in quanto tali, possono essere privi di regole, ancorché necessariamente espressi nelle dovute forme, per non cadere nella diffamazione o peggio nella calunnia; le seconde necessitano di regole, di garanzie, di prove certe acquisite nel rispetto delle leggi, di aule giudiziarie dove non solo vengano celebrati processi, ma ‘ giusti processi’, come oggi ci impongono sempre di più non solo i principi costituzionali, ma anche quelli sanciti dalle carte sovranazionali e dalle Corti che ne sono i loro interpreti...
Crimini accademici senza pudore né pentimento, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, il 2 aprile 2011 su "Il Fatto Quotidiano". È di questi giorni la notizia che 22 docenti universitari in 11 città italiane siano stati indagati, perquisiti e accusati di aver gestito un sistema di concorsi nazionali truccati. Il primato più triste nel crimine universitario spetta all’ateneo di Siena, dove è stato chiesto il rinvio a giudizio di 27 persone per peculato, truffa e abusi. Non si attenda ora che la giustizia faccia il suo corso, lento e lungo com’è quando gli imputati con i soldi sottratti e i rapporti realizzati nel periodo aureo si possono poi permettere difese di lusso per prescrizioni di comodo! Borsellino docet: quanti disonesti non sono mai stati condannati perché mancavano le prove? Eppure gravi sospetti sul loro conto dovrebbero bastare a impedirne l’assunzione a incarichi che richiedono specchiata moralità. Su questo equivoco giocano soprattutto le toghe accademiche, dimostrandosi indegne di cattedre e non meritando neppure rispetto umano! Siena ne è l’esempio clamoroso e sconcertante: dopo tutto quello che è successo, nessuno dei rettori o presidi vecchi e nuovi ha speso una parola di ammissione di responsabilità proprie o altrui! E mi riferisco alle responsabilità ben più gravi di quelle di livello solo penale di coloro che hanno tentato di spacciare i criminali comportamenti in voga nel sistema senese per disattenzioni e banalità. Il presidente dei rettori italiani, una volta scoperto e smascherato, rimosso dalla forza pubblica per interdizione giudiziaria, rinviato a giudizio, condannato in un primo processo, ha la faccia di definire “disattenzioni” e “banalità” i reati all’origine dell’interdizione e della condanna, con oscena ostentazione della propria proterva persistente volontà di ripetere e pure offendere le vittime, oltre a chi, come il sottoscritto, andò per Procure a esporre il malaffare imperante sotto la rigida regia rettorale. Il clima nazionale, del resto, è quello di azzerare nei fatti ogni eccellenza, come quella di Francesco Lanzillotta, direttore d’orchestra italiano in Bulgaria, solo per citare l’ultima scoperta dalla stampa. Che testimonia la sfortuna di essere governati, a Siena e in Italia, da maldestri senza scrupoli legittimati da una casta accademica complice e corrotta e una popolazione italica di ignavi e indifferenti! E su chi osa gridare che il re è nudo incombono – per il gioco delle parti – danno e beffa aggiuntivi di pretestuose iniziative giudiziarie, perchè (Manzoni docet) “il prepotente offende e si ritiene offeso”! Così gli ex rettori Berlinguer e Tosi annunciano querela nei confronti di chi li ha coinvolti nel dissesto dell’Università di Siena. Minacciosi, disastrosi e incorreggibili questi signori e (ex) padroni dell’università italiana, certamente e tristemente da non inviare a trattamenti di recupero!
Soldi, sesso e ricatti: il lato oscuro delle università italiane. Dall'ordinanza di custodia cautelare della procura di Firenze esce uno spaccato inquietante sulle trame dietro ai concorsi. Lettere anonime, faide tra luminari e un suicidio: le carte dell'inchiesta, scrivono Alessandro Da Rold e Luca Rinaldi il 27 settembre su "Lettera 43". Sesso, ricatti, faide tra luminari del diritto, lettere anonime per infangare e mettere fuori gioco dai concorsi altri candidati a incarichi da professore. Persino il sospetto da parte degli inquirenti che le spartizioni baronali, con l'intento di favorire candidati associati agli studi legali, fossero un modo per qualificarli così da giustificare poi parcelle più onerose di svariate milioni di euro. In pratica, soldi, sesso e ricatti, come nei più classici romanzi di James Ellroy. E per di più l'ombra di un suicidio, causato da una fuga di notizie per informare uno degli indagati. Dall'ordinanza di custodia cautelare dell'inchiesta della procura di Firenze - che ha sgominato la presunta cricca di tributaristi che si spartivano i posti da professori nelle università italiane - emerge un quadro inquietante del mondo accademico.
L'indagine, partita grazie alle registrazioni con il cellulare del ricercatore Philip Jezzi Laroma, ha già portato agli arresti domiciliari sette professori, facendone interdire dalle lezioni altri 22. Le accuse sono di corruzione e abuso d'ufficio. Ma, in attesa del processo, gli strascichi rischiano di farsi sentire nel lungo periodo soprattutto nel mondo dei luminari del diritto tributario. Nelle carte firmate dal gip Angelo Palazzi c'è di tutto. Non solo le ormai note frasi del professore Pasquale Russo a Laroma, con i riferimenti nemmeno troppo velati a farsi da parte («È il mercato delle vacche» o «non fare l'inglese, fai l'italiano») abbandonando le speranze nella meritocrazia nostrana, ma c'è persino un caso di depistaggio organizzato ad arte durante un concorso universitario per screditare un altro candidato. Le parole pronunciate dal presidente della Commissione sono inequivocabili. Egli parla senza mezzi termini di "ricatto". C'è infatti una lettera anonima diretta a mettere in luce l'incompatibilità della candidata del professor Fabrizio Amatucci, ordinario di Diritto tributario a Napoli ai domiciliari, con l'accusa di corruzione. A farla preparare è il professor Adriano Di Pietro, presidente della commissione che deve decidere sulle candidature. E chi la prepara? Uno dei suoi candidati, Giangiacomo D'Angelo, perché da una parte lo stesso Amatucci ha «qualche debolezza, perché si dichiara a tempo pieno però lavora nello studio del padre», e poi «c'è una delle candidate che lavora sempre lì nel suo studio». Fatte verificare le informazioni dal proprio candidato, Di Pietro dà indicazioni perché lo stesso scriva una lettera e la faccia pervenire anonimamente al suo studio così da poterla aprire nel corso della seduta della commissione del primo aprile 2015. Una strategia che, dice Di Pietro intercettato, «fa parte del ricatto che devo fargli», altrimenti Amatucci si impunterà per l'abilitazione dei suoi. Annotano i magistrati: «Le parole pronunciate dal presidente della commissione sono inequivocabili. Egli parla senza mezzi termini di "ricatto"».
Di Pietro - scrivono i pm - ha pertanto bisogno di avere le informazioni richieste perché vuole ricattare Amatucci per ottenere che egli non si impunti per avere l'abilitazione dei candidati Selicato e Tundo. Dopo appena due giorni, il 28 marzo 2015, Di Pietro ottiene dal candidato D'Angelo le informazioni richieste. Quest'ultimo spiega al commissario: «Senta prof, io ho chiesto informazioni, ieri ho fatto qualche telefonata... sembrerebbe che la tipa in realtà collabora... collaborava con loro, veramente con un ruolo di sottordine, nel senso che... eh sì sì sì, ma con un ruolo di sottordine... portava delle cose, cioè non ha... non aveva.... era professionalmente soda/e, sostanzialmente... però senza un ruolo di...». Come se nulla fosse la lettera arriva a Di Pietro, viene aperta e mostrata ai commissari in coda alla riunione del primo aprile. Al termine della seduta mostra la lettera dicendo di averla aperta lì davanti a tutti. Giuseppe Cipolla, altro membro della commissione, dopo averla letta, la definisce «bruttissima». E, come previsto, mette in difficoltà Amatucci che nega ci siano incompatibilità con la candidata Ciarcia, segnalando che lui lavora a tempo pieno per l'università e che se anche la candidata collabora con lo studio del padre la cosa non lo riguarda. Seguendo la narrazione di Russo, l'abilitazione della ricercatrice sarebbe stata portata avanti quindi da Fransoni su richiesta di Boria, in assenza dei necessari requisiti.
Russo si distingue sempre per il modo di parlare. Annotano sempre gli inquirenti: il professore, senza mezzi termini, nel corso della telefonata del 4 aprile 2015, racconta a Di Pietro che la mancata abilitazione di Francesco Padovani, nel corso della prima tornata della commissione, è stato il «prezzo pagato» per «lasciare spazio come commissario» a Guglielmo Fransoni e per consentire, quindi, a quest'ultimo «di fare le porcherie per i candidati romani». Si ricorda che, una volta accertato che sussiste l'incompatibilità, Fransoni induce Padovani a ritirare la sua candidatura. Tra "i candidati romani", Russo annovera pure una delle ricercatrici del dipartimento di Diritto ed economia delle attività produttive de La Sapienza, a suo dire abilitata su richiesta di uno degli indagati, il professore ordinario di Diritto tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Roma Pietro Boria, nonostante la mancanza delle necessarie capacità. Russo si domanda quali meriti possa vantare la candidata («ehhhh che c'ha? Meriti fisici ehhh non lo so...») e rievoca il momento in cui lui le ha «bocciato» «la tesi in dottorato» dicendole: «Mi sembra modesta questa, questa tesi, mi sembra modesta, cerca di arricchirla, lavoraci un anno ancora». Russo continua il suo racconto dicendo: «Dopodiché, come parole al vento, dopo due mesi gliel'hanno fatta pubblicare, poi si è messa a scopare con Boria ed è diventata meritevole». Seguendo la narrazione di Russo, «l'abilitazione della ricercatrice sarebbe stata portata avanti quindi da Fransoni su richiesta di Boria, in assenza dei necessari requisiti».
Una parte dell'ordinanza di custodia cautelare è dedicata a Gianni Zamperini, 42enne esperto di computer. Chiamato dagli amici BBK, e gestore del dominio salviniescalar.it utilizzato dallo studio professionale romano “Salvini - Escalared”, era amico di Livia Salvini, professoressa della Luiss, spesso ospite a Ballarò come esperta di tasse e già nel collegio sindacale del Pd. La guardia di finanza lo sente il 13 settembre, lui nega di aver avvisato la professoressa di indagini a suo carico, ma la polizia giudiziaria ritrova, sul suo apparecchio telefonico, delle comunicazioni con l'avvocato Liliana Spartera, amica sua e di Livia Salvini, nelle quali egli afferma con chiarezza di aver avvisato quest'ultima. Zamperini viene indagato per il reato previsto e punito dall'art. 378 del codice penale, cioè favoreggiamento. Il giorno dopo si suicida.
Si legge nell'ordinanza. «L'evento è stato comunicato a Livia Salvini da un tal Fabio. Costui, quando ha rinvenuto il cadavere di Gianni Zamperini, ha potuto prendere visione del decreto di intercettazione a carico di Livia Salvini. Dalla conversazione del 17 settembre 2014 si intuisce che Livia Salvini effettivamente sia stata rnessa a conoscenza della richiesta di intercettazione. Commentando con il compagno Eugenio il suicidio di Gianni Zamperini, ha affermato prima: "...magari era anche turbato da... da questa cosa della guardia di finanza" e poi: "...non posso fare a meno di pensare che é colpa mia" e "quanto meno sono stata l'occasione scatenante"». «Queste parole», scrivono gli inquirenti, «non avrebbero alcun significato se Livia Salvini non avesse saputo dell'intercettazione e sembrano confermare lo stato di disagio psicologico che possa essere provato il suo informatore dopo essere stato scoperto».
Concorsi truccati, Adi: "Succede in tutti i settori, dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione". Il segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, Giuseppe Montalbano, non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario: "Sfogarsi cercando di restare è impossibile", scrive Giorgia Pacino il 26 settembre 2017 su "La Repubblica". "Succede in tutti i settori accademici in modo trasversale e in tutta la filiera del precariato della ricerca. Dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione nazionale". Giuseppe Montalbano è segretario nazionale dell'Adi, l'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università, partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario.
Ha letto il racconto del ricercatore di Firenze?
"Una storia come quella non è affatto nuova, non è la prima volta che ci vengono segnalati casi di questo genere. Attenzione: non tutti i docenti sono baroni. Delle nicchie in cui prevale trasparenza e merito ci sono. È vero, però, che in molti settori avere un professore che ha seguito un candidato per anni e vuole investire su di lui costituisce un canale di accesso preferenziale".
Quant'è diffuso il sistema?
"Parecchio. È un problema con radici strutturali che affondano nella ricattabilità dei ricercatori precari, il prodotto di un sistema che come Adi denunciamo da sempre. La ricattabilità è stata introdotta con la riforma Gelmini, portata avanti con la promessa di sgominare i baroni. Non solo i baroni sono rimasti al loro posto, ma, introducendo una serie di figure contrattuali precarie, tagliando le risorse e dando più potere a chi tiene i cordoni della borsa e controlla l'accesso ai bandi - per di più limitati con il blocco del turn over - alla fine la riforma ha rafforzato quelle stesse baronie che a parole intendeva combattere".
Va cambiato il metodo di selezione?
"Un sistema così complesso, fatto di tanti indicatori e passaggi, è insufficiente rispetto alle necessarie garanzie di trasparenza. Va riformato coinvolgendo tutta la comunità accademica, a partire proprio dai segmenti meno tutelati come i ricercatori precari. Alla base, però, c'è sempre il sottofinanziamento che fa da cornice a tutto il resto. È giusto intervenire sui meccanismi di reclutamento e sulla trasparenza dei concorsi, ma bisogna prima affrontare il nodo del finanziamento e dello sblocco del reclutamento. Perché se i posti sono sempre meno e le opportunità per i giovani ricercatori si restringono, cresce la loro ricattabilità".
Allora aumentano i ricorsi?
"Per fortuna tanti colleghi, con parecchio coraggio, hanno la volontà di contestare decisioni di tipo arbitrario, spesso mettendo a repentaglio la loro stessa carriera. Si sta diffondendo una certa capacità di rispondere ai torti subiti, innanzitutto attraverso il ricorso. Di certo sono meno quelli disposti a denunciare alle autorità".
Il problema resta la prova.
"Quella spetta alle autorità. Consiglierei di prendere tutte le precauzioni possibili e raccogliere la la documentazione, anche attraverso strumenti come le registrazioni o altre modalità per dimostrare cos'è avvenuto. Sarebbe la prova migliore, certo, ma quando si fa un concorso dotarsi di microfoni non è la prima preoccupazione di un candidato. Riceviamo molte segnalazioni in forma confidenziale o anonima. Ma una cosa è una denuncia, un'altra una lettera di sfogo di chi magari decide di abbandonare il mondo dell'università. Il problema è che sfogarsi cercando di restare diventa impossibile".
Università: c'è corruzione nei concorsi per l'abilitazione all'insegnamento. Con questa accusa sette professori sono stati arrestati e 22 interdetti. Tutti i dettagli dell'indagine della Procura di Firenze, scrive il 25 settembre 2017 Nadia Francalacci su "Panorama". La meritocrazia? In Italia, in generale, è un vocabolo “poco conosciuto” ma in alcuni ambienti universitari, secondo quanto è stato accertato dalla Procura di Firenze, è stato addirittura “cancellato”. Ventinove professori, molti dei quali di diritto tributario con cattedra presso diversi atenei italiani e con incarichi di pubblici ufficiali in quanto componenti di Commissioni nazionali nominate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, invece di valutare i candidati per meriti curriculari avrebbero assegnato l’Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento di Diritto tributario, secondo logiche di spartizione territoriale e in base a reciproci scambi di favori personali, professionali e persino associativi.
Manette e interdizione all'insegnamento. Con l’accusa di corruzione, infatti, questa mattina la Guardia di Finanza del Nucleo di Polizia Tributaria del Comando Provinciale di Firenze, ha arrestato 7 professori universitari e ha fatto scattare l’interdizione allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico, per la durata di 12 mesi, per altri 22 docenti. Altri 30 insegnanti, invece, sono attualmente indagati per aver usufruito e beneficiato delle 'agevolazioni' durante i concorsi pubblici. I 59 soggetti coinvolti a vario titolo dall'operazione della Finanza, risultano avere la cattedra o ruoli specifici in ambito accademico, in numerose e prestigiose università italiane. Quelle interessate dai provvedimenti restrittivi sono l'Università di Firenze (facoltà di Giurisprudenza), l'Università di Pisa, Siena, Cassino, Foggia e la Federico II di Napoli.
Le pressioni sui candidati al concorso. A far scattare le indagini della Finanza sono state le “pressioni” subite da un ricercatore fiorentino “eliminato” perché "troppo bravo" e quindi "pericoloso". Alcuni professori universitari, oggi agli arresti domiciliari, avrebbero indotto il ricercatore universitario, candidato al concorso per l’abilitazione all’insegnamento del Diritto tributario, a “ritirare” la propria domanda per favorire un terzo soggetto in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, e gli avrebbero promesso che si sarebbero adoperati con la competente Commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata. Ma la successiva “tornata”, per i docenti e commissari in questione, si svolgerà in carcere o quanto meno nelle aule del Tribunale di Firenze.
Un giro di favori e incarichi. Gli approfondimenti investigativi, durati alcuni mesi, hanno consentito ai finanzieri di ricostruire tra i vari docenti di diritto tributario finiti in manette sistematici accordi corruttivi, scambi di favori ed incarichi sia in ambito accademico che nell’esercizio privato della professione.
“Non abbiamo riscontrato nel corso dell’inchiesta passaggi di denaro ma solo uno scambio di “favori” relativamente ai candidati che ciascun professore “promuoveva” - spiega a Panorama.it, il colonnello Adriano D’Elia, comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di Firenze - ovvero si suddividevano i soggetti da abilitare in quella sessione d’esame oppure in quella successiva”. “Abbiamo esaminato i bandi di concorso per l’abilitazione relativi agli anni 2012-13 e 2016 e sono stati individuati i soggetti, attualmente indagati, che hanno beneficiato degli accordi - prosegue il colonnello della Finanza - accordi che “davano la precedenza” ai docenti che risultavano essere iscritti ad una associazione italiana specifica per docenti di diritto tributario”. Una sorta di “lobby” che avrebbe sponsorizzato chi apparteneva alla solita associazione e poteva contraccambiare il “favore”. Ma quali saranno, invece, i provvedimenti nei confronti di chi ha conseguito l’abilitazione attraverso l'eventuale "corsia preferenziale"? “Dipenderà dai provvedimenti disciplinari e amministrativi delle singole università - conclude il colonnello D’Elia - le quali sono risultate totalmente ignare alle attività corruttive messe in atto dai loro docenti. Saranno loro, assieme al Ministero, a stabilire se revocare o meno l’abilitazione all’insegnamento ai soggetti indagati”.
Concorsi truccati, retata di docenti. Le intercettazioni: «Qui il merito non esiste: questo è mio, questo è tuo», scrive Sara Menafra, Martedì 26 Settembre 2017, su "Il Mattino". Gli accordi partono persino prima che venga sorteggiata la commissione che «abiliterà» i professori universitari (l’abilitazione deve essere seguita dalla effettiva «nomina» da parte di un dipartimento, perché il candidato diventi effettivamente professore). E si trascinano, anno dopo anno, con riunioni ed accordi successivi, tanto che l’applicazione dell’intesa per i concorsi 2012 e 2013 si allunga fino al 2015. Al ricercatore universitario Philip Jezzi Laroma, da anni nel dipartimento fiorentino, che osa chiedere l’abilitazione, risponde esplicito il professor Pasquale Russo, ordinario di Foggia con incarico a Firenze: «Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano. Non siamo sul piano del merito! Non è che si dice “è bravo o non é bravo” no, si fa, questo è mio, questo è tuo.», dice registrato proprio da Laroma, che con le sue denunce ha dato il via all’inchiesta. Anche se il meccanismo alle spalle delle minacce al ricercatore, scoperchiato dal Nucleo tributario della Guardia di finanza, è ben più ampio. A guidarlo, spiega il gip Antonio Pezzuti nell’ordinanza, sarebbero nomi di primissimo piano: da un lato Augusto Fantozzi ministro del commercio con il governo Prodi ex professore di diritto tributario alla Sapienza, ora a capo dell’ateneo on line Giustino Fortunato. Dall’altro, Francesco Tesauro dell’università Milano Bicocca, definito «ukmariano» facendo riferimento al defunto Viktor Ukmar.
Università, concorsi truccati – “Se fai ricorso ti giochi la carriera”. La “logica di scambio” dei professori indagati. "Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve anda' avanti per cui..." diceva il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell'Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l'abilitazione scientifica, scrive Giovanna Trinchella il 25 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il “prezzo da pagare”, “la logica di scambio”, “partite trasversali”. Tutte manovre da ordire sulla pelle di ricercatori meritevoli che dovevano perdere la loro possibilità di abilitarsi perché l’abilitazione scientifica fosse conseguita dai raccomandati di turno, raccomandati di professori che si scambiavano favori e cui la Procura di Firenze ha dato il nome di corruzione. A leggere le intercettazioni contenute nel provvedimento del gip di Firenze parlano come criminali questi i docenti, con le espressioni tipiche dei tangentari. Sono tutti finiti nel registro degli indagati della Procura di Firenze per corruzione e per sette di loro sono stati decisi gli arresti domiciliari.
“Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve anda’ avanti per cui…” diceva il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell’Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l’abilitazione scientifica. Conversazione di questo tenore sono state captate dagli uomini della Guardia di Finanza anche da altri protagonisti di questo scandalo partito dall’Università di Firenze e che si è allargato ad altri atenei e che sono contenute nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato agli arresti domiciliari sette professori. Russo chiama la “scuola” la sua cerchia di allievi e che erano anche suoi associati nel suo studio professionale.
È del 14 aprile 2015 scorso invece la conversazione di Giuseppe Marino, che dopo aver raccontato a Claudio Sacchetto l’andamento dei lavori della Commissione, lo invita ad incontrare Adriano Di Pietro: “nno, no, no, no devi andare, guarda Claudio … ormai bisogna cioè partite trasversali lasciano un po’ il tempo che trovano. Quindi le partite sono Cipolla e l’innominato, punto. E poi ovviamente anche Fabrizio e, e Zizzo per dire: “Guarda io ho parlato con l’innominato e, ed ho dato precise indicazioni anche di, di attribuzione di, di gargliadetti cioè per, perché vada Marino cosa bisogna fare poi? Qual è il prezzo da pagare? Parliamone … e certo è una logica di scambio, c’è tutto l’internazionale, su Bologna probabilmente con la sua uscite, eh loro su questo avranno bisogno di una maggiore mano e gliela si darà”.
“Non siamo sul piano del merito, non siamo sul piano del merito, Philip”, “Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano”, “tu non puoi non accettare”, e “che fai? fai ricorso? … però ti giochi la carriera così…”. Le frasi registrate col telefono cellulare in un colloquio da uno degli studiosi cui era stato chiesto di ritirarsi, era il 21 marzo 2013. Jezzi Philip Laroma però non rinunciò e venne bocciato. Laroma, che allegò le conversazioni da lui registrate alla denuncia alle Fiamme Gialle, si sentì rispondere in questo modo dal professor Pasquale Russo. Laroma era andato a chiedere spiegazioni a Russo sul perché si dovesse ritirare e a favore di chi, scoprendo che nella lista c’era un associato dello studio di Russo, Francesco Padovani. “C’è una priorità che veniva da… tante cose”, spiegò Russo a Laroma e quindi “la scuola”, ossia la cerchia di allievi di Russo, aveva “deciso di portare avanti Francesco”. Alle insistenze di Laroma di non voler ritirare la domanda, il professor Russo gli spiega che ciò serve “per mantenerti integra la possibilità di farlo in un secondo momento, e quindi poter ripresentarla alla tornata successiva. “Ognuno ha portato i suoi … o dei suoi amici – aveva tentato di spiegare Russo – ciascuno ha chiesto e tutti hanno dato agli altri; insomma, quindi c’è stato un do ut des“. Del resto un altro concetto che appare chiaro è quello “dell’eredità” che si accumula tornata dopo tornata. E quindi se qualcuno da abilitare è rimasto indietro viene recuperato come eredità.
In un altro colloquio registrato col cellulare che le trattative tra i commissari sui nomi da favorire non lo hanno proprio riguardato perché escluso in partenza. “In realtà la negoziazione – dice Fransoni a Laroma che stava registrando – è stata legata esclusivamente al fatto che si doveva cedere qualche cosa per avere qualche cosa sulla tornata successiva, oppure persone che io non potevo proprio vedere, e che ho dovuto digerire come Comelli, oppure qualche altra situazione che si è cercato di sistemare e ci si è riusciti più o meno, ma nient’altro. Nient’altro. Perché gli schieramenti sono assolutamente chiari, erano assolutamente chiari”. E ancora il professar Russo non esitò a raccontare che, nel passato, anche lui “i principi” invocati dal suo interlocutore se li era messi “sotto i piedi” avendo favorito Francesco D’Ayala Valva (“l’ho fatto ordinario io”) nel tentativo di ottenere, successivamente, l’abilitazione dei candidati a lui riconducibili (“nella speranza poi di poter aver avere un po’ di spazio per i miei”. Mai in discussione bravura, la capacità, né titoli: “Non siamo sul piano del merito! non siamo sul piano del merito, Philip”. E invece lo studioso fece l’inglese e disse al professore che “se loro (le commissioni giudicatrici, ndr) gestiscono la cosa pubblica in questa maniera, penso che sia una cosa che interessi l’autorità giudiziaria”. Ed così che il ricercatore, che non rispettava “i criteri del vile commercio dei posti”, ha fatto partire l’inchiesta.
Ci sono nomi grossi, anche se magari sconosciuti al di fuori degli addetti ai lavori, tra le decine di professoroni indagati in quella che verrebbe da definire un’“Universitopoli”, scrive Stefano Sansonetti per La Notizia il 26 settembre 2017. Ovvero una specie di accordo corruttivo, almeno così ritiene la procura di Firenze, il cui principale ingrediente sarebbe stato un mix di concorsi alterati e spartizione di cattedre. Inutile nascondersi che il nome più rumoroso è quello di Augusto Fantozzi, già ministro delle finanze e del commercio estero negli anni ‘90. In tempi più recenti il giurista è assurto agli onori della cronaca per essere stato commissario straordinario dell’Alitalia. Spesso, però, si fatica a mettere a fuoco che Fantozzi occupa tutt’ora poltrone importanti, come quella di presidente del big dell’azzardo Sisal. Inoltre è fondatore e partner del mega studio tributario Fantozzi e Associati, presso il quale si sono forgiati giuristi poi diventati boiardi di Stato del massimo livello.
E’ il caso soprattutto di Ernesto Maria Ruffini, nello studio addirittura dal 1998 al 2015, ultimo amministratore delegato di Equitalia e oggi direttore dell’Agenzia delle entrate. Altro nome importante, all’interno del gruppone di accademici finiti nel mirino della magistratura, è quello di Roberto Cordeiro Guerra, ordinario di diritto tributario all’Università di Firenze e avvocato di clienti eccellenti. Tra questi c’è il gruppo farmaceutico Menarini, anch’esso con sede nel capoluogo toscano, che Cordeiro assiste da tempo nelle sue vicende giudiziarie e fiscali.
Ma Cordeiro ha assistito anche l’ex bomber Bobo Vieri in un’altra vertenza fiscale. L’avvocato, tra l’altro, proprio come Fantozzi non è estraneo al grande mondo dei consigli di amministrazione: da qualche mese, con Oscar Farinetti (il patron di Eataly) è entrato a far parte del Cda di Starhotels, catena alberghiera del lusso con sede legale a Milano ma anima fiorentina. In base allo stato attuale delle indagini, però, c’è una differenza tra la posizione di Fantozzi e quella di Cordeiro: il secondo è stato interdetto dall’insegnamento universitario per 12 mesi, mentre il primo al momento non è ricaduto nella misura (dovrà essere interrogato dal gip, che si è riservato la valutazione).
Tra gli indagati-interdetti c’è un terzo grosso nome. Si tratta di Livia Salvini, professoressa alla Luiss ma soprattutto numero uno del super studio legale-tributario Salvini Escalar e Associati. Quest’ultimo è noto tra gli specialisti per essere stato fondato da un altro ex ministro delle finanze, Franco Gallo, in passato anche presidente della Corte costituzionale.
La Salvini, tra l’altro, è probabilmente una delle figure con maggiore confidenza con poltrone in consigli di amministrazione e collegi sindacali. Al momento, infatti, risulta essere consigliere di amministrazione del Gruppo Sole 24 Ore (che fa capo a Confindustria), consigliere di amministrazione di Igd Siiq (società che si occupa di investimenti immobiliari, soprattutto in supermercati e centri commerciali in Italia e in Romania), presidente del collegio sindacale di Coopfond Spa (sulla carta il fondo mutualistico della coop rosse legate a Legacoop, nella sostanza una holding ormai accreditata di più di 200 partecipazioni) e sindaco effettivo di Atlantia (la holding della famiglia Benetton che tra le altre controlla Autostrade per l’Italia). Naturalmente rispetto a ciascuno di questi profili l’indagine dovrà fare il suo corso. E l’impianto accusatorio sarà tutto da dimostrare. Da ieri, però, si può dire che su alcuni dei fiscalisti più in voga del Paese si è acceso il faro della magistratura. Con quali esiti si potrà capire soltanto nei prossimi mesi.
Concorsi truccati all’università. “Diamo vita a una nuova cupola”. Così parlava l’ex ministro Fantozzi. Le intercettazioni dell’indagato: «Servono uomini di buona volontà». Ricatti, favori e corruzione. E spuntano pure viaggi premio a Venezia, scrive Grazia Longo il 26/09/2017 su "La Stampa". “La Stampa”. Professori apparentemente rivali, in realtà alleati per spartirsi la ricca torta delle cattedre universitarie. Prima ancora che venisse sorteggiata la commissione nominata dal Miur per l’abilitazione scientifica nazionale per cattedre universitarie di diritto tributario. Una maxi corruzione per truccare concorsi grazie a un sistema ai limiti del mafioso. Definito non a caso la «nuova cupola» da uno degli indagati più illustri, l’ex ministro Augusto Fantozzi. Un meccanismo che, come emerge dalle intercettazioni, ruotava intorno a un inossidabile gioco di favori, il «do ut des», la «logica di scambio», spietate «partite trasversali» e il «prezzo da pagare». Pur essendo schierati su due fronti distinti, l’Associazione italiana professori diritto tributario e la Società studiosi diritto tributario, i presunti professori corrotti, membri della commissione, stringevano inciuci a tutto spiano lasciandoli «in eredità» ai colleghi tra il 2013 e il 2015. Da una parte Fantozzi e la cordata «romana», dall’altro il gruppo di Francesco Tesauro dell’Università Milano Bicocca. Le 172 pagine dell’ordinanza firmata dal gip Angelo Antonio Pezzuti, sulla scorta dell’inchiesta del procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e i pm Luca Turco e Paolo Barlucchi, ricostruiscono il sistema che il professor Fantozzi definisce «seppure in modo scherzoso, come la “nuova cupola”». Si legge che l’ex ministro (per il quale il gip si è riservato la valutazione dell’interdizione all’esito dell’interrogatorio) «trova dunque opportuno, se non necessario, che le future abilitazioni siano gestite, non dai commissari di volta in volta nominati, ma “da un gruppo di persone più o meno stabili”, da un gruppo di garanzia... uomini di buona volontà oltre che ...qualche, possano stare in una nuova cupola”». L’obiettivo, si legge nelle carte, è «precostituire le condizioni per far conseguire, in assenza di reale concorrenza, ai propri allievi e o associati i posti di professore ordinario o associato che sarebbero stati successivamente banditi dalle varie università in sede locale per partecipare ai quali costituiva requisito necessario la relativa abilitazione in prima o seconda fascia». Al bando la meritocrazia: il candidato Fabio Graziano pur avendo 193 pubblicazioni viene scartato. Funzionano solo spintarelle e corruzione. «Non è che si dice è bravo o non è bravo… Questo è mio, questo è tuo» afferma il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell’Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l’abilitazione scientifica. L’orecchio investigativo della Guardia di Finanza di Firenze ha registrato questo e altro. «Qual è il prezzo da pagare? Parliamone…» chiede il 14 aprile 2015 Giuseppe Marino, che dopo aver raccontato a Claudio Sacchetto l’andamento dei lavori della Commissione, lo invita ad incontrare Adriano Di Pietro. Mentre di fronte al ricercatore Philip Laroma, escluso dal concorso e autore della denuncia da cui è partita l’inchiesta, il professor Pasquale Russo esclama: «Che fai ricorso? Però così ti giochi la carriera. Non siamo sul piano del merito, Philip. Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano». E a giustificazione della sua condotta afferma: «Anche io mi son piegato... a certi baratti per poter mandare avanti i miei allievi...», «ero ingenuo all’inizio» ma «la logica universitaria è questa... è un mondo di merda... è un mondo di merda... quindi purtroppo è un do ut des». Un altro docente sentenzia: «I miei principi? Sotto i piedi». Il merito non esiste, anzi si aiuta persino chi viene considerato un incapace. Il professor Giuseppe Cipolla, a proposito di un suo protetto dice: «Qui non c’è nessun merito, ognuno ha i suoi... Tra l’altro dico, vai a leggere pure il mio giudizio che si vede che quello è proprio disgraziato». Le strade della corruzione sono molteplici e varie. Per convincere Carlos Maria Lopez Espadafor, professore di Diritto tributario presso l’Università De Jean in Spagna, membro Ocse, quinto membro della commissione che ha concluso i lavori della tornata 2013, gli vengono offerti «un soggiorno a Venezia con falsa attestazione di una riunione accademica per coprire l’assenza in Spagna, la promessa di un aiuto per la revisione in italiano dei suoi articoli e un intervento in un incontro accademico da organizzare a Venezia, un incarico di visiting professor all’università di Bologna in cambio del proprio voto». Tra i docenti interdetti c’è anche Livia Salvini, della Luiss Guido Carli di Roma, nonché membro del Cda del Sole 24 Ore.
Concorsi truccati all'università, le intercettazioni choc: "La nuova cupola". I professori al telefono: "Già scelto chi passa", scrive Stefano Brogioni il 26 settembre 2017 su "La Nazione”. La trattativa. Il compromesso. Il patto. I più illustri docenti universitari del Belpaese parlavano liberamente al telefono, s’accapigliavano se necessario e «svilendo la loro funzione» mutuavano pure i termini delle pratiche commerciali, ma alla fine riuscivano a spartirsi le cattedre di diritto tributario, secondo una logica di potere che risponde a due grandi e potenti associazioni accademiche o ai loro interessi privati. Una vera e propria «chiamata alle armi» per garantire potere e privilegi alla casta dei baroni, far andare avanti i propri allievi e garantire il prestigio degli studi professionali e onorari zeppi di zeri.
Appuntamento ai Parioli, la sera del 9 giugno del 2014, per una cena che, secondo le fiamme gialle in ascolto delle conversazioni, serve a «gestire» i concorsi del futuro. È l’ex ministro Augusto Fantozzi, che insegna a Benevento, a dettare la linea, a suggerire ai colleghi presenti (Pietro Boria, Andrea Fedele, Leonardo Perrone ed Eugenio Della Valle) di individuare «un gruppo di persone di garanzia» che non esita a definire, seppur in modo scherzoso – annota il gip – «la nuova cupola». "Non si può muovere una paglia se tu non sei d’accordo... nella tua metà campo che decidi te", captano ancora gli investigatori con le ambientali. "Se uno fa i concorsi così non ci sarà mai un minimo di... perché naturalmente nessuno ha la responsabilità di niente e ognuno va lì col coltello alla gola e dice ‘O mi dai quello o ... quindi voi capite...’". La cena del 9 giugno 2014 era servita anche a ristabilire armonia tra i baroni, dopo alcune frizioni per le candidature. Parlando di un aspirante professor, viene definito da Boria «al limite dell’impresentabilità». Ciononostante, annota il gip, questi «è pronto a promettere a Eugenio Della Valle» l’appoggio suo e del suo gruppo per consentire al medesimo l’abilitazione. «Ormai è andata, ammettiamo anche che vi sia stata una discriminazione... ma adesso… che possiamo fare? Vuoi che ci definiamo un pagherò? Se questo serve vediamo come farlo». Particolarmente significativa, scrive il gip Antonio Pezzuti nella sua ordinanza, una conversazione intercettata nel 2015 tra gli indagati Francesco Tesauro e Adriano Di Pietro dove Tesauro dice in riferimento a una commissione giudicante: «Ma lì poi... anche se io mi dimisi abbastanza presto... avevamo concordato chi doveva passare e chi non doveva passare». Il commissario Adriano Di Pietro anticipa, in un colloquio con il suo allievo Thomas Tassani, come intende valutare il candidato Paolo Puri. Dice che non voterà in suo favore salvo che non riceva «delle pressioni straordinariamente forti» oppure possa essere utilizzato come «merce di scambio». Tassani fa notare che alla ‘scuola romana’ Ssdt «ci tengono più a Puri che alla Rossi». Il prof risponde: «Allora hanno da capire che l’abbiamo messi noi». Sempre Di Pietro fa il resoconto al professor Giuseppe Maria Cipolla di un incontro avuto con Giuseppe Zizzo. «Giuseppe è inutile che ci nascondiamo, ciascuno di noi ha delle sollecitazioni, vediamo di metterle a confronto». Fabrizio Amatucci pone una proposta corruttiva al commissario Espadafor. «La Parlato tu sai che è figlia di Parlato, il professor di Palermo che è stato il mae… un po’ per certi versi, il maestro no, ma si è laureato Zizzo, cioè Zizzo è un po’ legato a Parlato, ma moltissimo è legato Parlato a Di Pietro. Di Pietro e Parlato sono sempre stati molto uniti. Quindi lui può essere che poi ad un certo punto, non lo farà all’inizio, farà il nome della Parlato che è debole, vatti a vedere il curriculum. Quindi non abbiamo un’altra arma se lui ci chiede la Parlato allora io gli comincio a chiedere di tutto perché vuol dire che il livello, hai capito? Scende. Il livello è basso».
E il prof disse: "Uno a uno e palla al centro". Così si spartivano le cattedre universitarie. Ecco le intercettazioni dell'inchiesta della Finanza sui concorsi truccati. Parlato voleva piazzare la figlia, Sammartino i suoi allievi. E fu scontro, scrive Salvo Palazzolo il 25 settembre 2017 su "La Repubblica”. Non usa mezzi termini il gip di Firenze Antonio Pezzuti nella sua ordinanza che mette sotto accusa il sistema delle abilitazioni per l’insegnamento all’università. Siamo di fronte «a un conflitto per la spartizione delle abilitazioni per le cattedre universitarie di diritto tributario». Le prime avvisaglie del caso siciliano arrivano il 3 marzo 2015. Sotto intercettazione telefonica c’è il professore Andrea Colli Vignarelli, che è stato componente della commissione nazionale. Dice al suocero, il professore in pensione Andrea Parlato, che il commissario Giuseppe Cipolla, palermitano pure lui ma docente a Cassino, è «totalmente dalla parte di Sammartino» e vuole favorire i suoi. A Palermo, lo scontro è fra Parlato e Salvatore Sammartino, ordinario ancora in servizio. Ognuno dei due vuole favorire i propri pupilli. E, adesso, sono indagati per concorso in corruzione. Parlato puntava tutto sulla figlia Maria Concetta; Sammartino sponsorizzava due suoi allievi, Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco. Sono «tutti d’accordo», dice Colli Vignarelli. E’ un allarme per l’anziano professore Parlato, che decide di agire. Va dritto al cuore del problema, uno dei componenti più influenti della commissione nazionale per le abilitazioni, Adriano Di Pietro. E non sospetta che è già entrato dentro il Grande fratello imbastito dalla procura di Firenze. Perché anche Di Pietro, docente a Bologna, è intercettato. «Senti, io ti dico… per telefono non si può dire, è chiaro no?». Parlato spiega perché ha preferito un incontro di persona. E giù con le accuse a Sammartino: «Sta per la Mazzagreco, divulgando la notizia che lui ha già il posto... lui pensa di sistemare per subito la Mazzagreco e ovviamente non Mariù, Mariù non lo farebbe un concorso là, perché lui l’aspetterebbe col cannone». Mariù è la figlia del docente palermitano. Scrive il giudice: «Parlato non intende arrendersi per la figlia». E accusa il suo “rivale” di sostenere un candidato poco preparato: «Per quando lui potrà fare le barriere, mettendosi in commissione, facendo venire chi vuoi tu, guarda che obiettivamente la Mazzagreco è debole, perché si presenta sempre lì, sempre col volume sullo Statuto, volume che lei ha rifatto in edizione provvisoria per partecipare al concorso di ricercatore». Parlato prova anche a piazzare l’assistente del genero, la ricercatrice Patrizia Accordino. Ma su questo aspetto Di Pietro è risoluto: «Non è disposto a fare entrare altri soggetti nelle trattative con gli altri commissari», scrive il gip. Ed emette la sua sentenza. «Così è il discorso - spiega - “uno a uno, palla al centro”». Ovvero, un nome sarà in quota Parlato, l’altro in quota Sammartino. Però, consiglia a Parlato di fare comunque un altro passaggio: dovrà rivolgersi anche al «padre di Fabrizio Amatucci e a un tale Gasparino»: «In maniera tale che facciamo fare pressioni sugli altri componenti della commissione».
"Uno a uno e palla al centro". Le intercettazioni dei prof siciliani, scrive Riccardo Lo Verso 1l 25 settembre 2017 su "Live Sicilia”. Sammartino e Parlato arrivarono allo scontro. Ecco la parte siciliana delle indagini di Firenze. Meriti e curriculum avrebbero avuto il valore della carta straccia. A giudicare dalle conversazioni telefoniche intercettate dai finanzieri l'unico criterio per l'abilitazione all'insegnamento di Diritto tributario nelle università italiane sarebbe stato “il vile commercio dei posti”. L'inchiesta della Procura di Firenze coinvolge anche gli atenei di Palermo e Messina. Gli atti giudiziari ricostruiscono lo scontro fra due cognomi pesanti nel mondo accademico siciliano. I professori Salvatore Sammartino e Andrea Parlato sponsorizzarono i loro candidati. Alla fine “l'abilitazione a coppie” accontentò entrambi i contendenti. L'inchiesta smaschera il principio del “do ut des” applicato su scala nazionale: i prof si scambiavano i favori. Oggi a me, domani a te. Chi faceva ritirare un candidato sapeva che l'anno successivo qualcun altro avrebbe fatto la stessa cosa, alimentando la catena di favori. La logica della spartizione avrebbe spazzato via ogni concorrenza. Sono quattro i docenti universitari sospesi dall'esercizio della professione con una misura interdittiva. Si tratta di Salvatore Sammartino, Daniela Mazzagreco e Maria Concetta Parlato dell'Università di Palermo e Andrea Colli Vignarelli dell'Università di Messina. Andrea Parlato, oggi in pensione, è solo indagato. Agli arresti domiciliari sono finiti altri due professori siciliani che insegnano lontano dall'Isola: il palermitano Giuseppe Maria Cipolla e il trapanese Giuseppe Zizzo. Il patto verrebbe già fuori nelle prime intercettazioni fra Vignorelli, sposato con Maria Concetta Parlato, e il commissario Gugliemo Fransoni, che gli spiegava: “Ma insomma, l'obiettivo non è proteggere me e te, l'obiettivo è proteggere il risultato del concorso per le persone che sono, di cui sappiamo... la trasparenza del procedimento mi sembra che sia un po' venuta meno in questo momento allora vorrei prima essere sicuro che il procedimento continui a svolgersi in modo trasparente, equo e corretto insomma avere una reiterazione dell'impegno presi in partenza”. A Palermo attendevano con ansia la nomina delle commissioni. Quando si seppe che la scelta era caduta su Cipolla e Zizzo qualcuno esultò. “Allora se le cose stanno così è un trionfo”, dicevano Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco, legati a Sammartino. Il professore tentò subito di mettersi in contatto, senza successo, con i commissari. Poi dettò a Cimino la lettera di congratulazioni per la nomina in commissione da indirizzare, in particolare, ad un commissario spagnolo. Le manovre erano iniziate, tanto da fare dire a Fabrizio Antonucci, altro commissario, sull'abilitazione di Mazzagreco che “ci tiene moltissimo Salvatore Sammartino”, che “ci ha sempre aiutato”. Nel marzo 2015 i finanzieri iniziarono a registrare lo scontro tutto siciliano. “L'abilitazione di una candidata di seconda fascia, Maria Concetta Parlato, moglie di Vignarelli, ex commissario e professore ordinario di Tributario a Messina, e figlia del professore Andrea Parlato, anch'egli a Messina - annotano gli investigatori - sconta l'avversità di Salvatore Sammartino che intendeva ottenere l'abilitazione dei suoi candidati Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco”. Andrea Parlato temeva il peggio e al genero Vignarelli raccontava che il commissario Cipolla era “totalmente dalla parte di Sammartino” e che “erano tutti d'accordo”. Non si poteva restare a guardare. E così Parlato contattò al telefono alcuni commissari, mentre altri li incontrò di persona. Il 16 marzo 2015 si trovava nell'ufficio del commissario Adriano Di Pietro in compagnia della figlia Maria Concetta: “Senti io ti dico... per telefono non si può dire, è chiaro no?”. Di Pietro sembrava avere recepito il messaggio. L'abilitazione di Maria Concetta sarebbe stata “scambiata” con quella di un candidato di Sammartino: “Così è il discorso, uno a uno e palla a centro”. Parlato non era tenero con il collega Sammartino che “sta per la Mazzagreco divulgando la notizia che lui ha già il posto. Cioè lui ha fatto, va bene, un concorso, che ha un certo ruolo nel suo dipartimento di Diritto tributario, dove lui pensa con ciò di sistemare subito la Mazzagreco, e ovviamente Mariù non lo farebbe un concorso là, perché lui li aspetterebbe con cannone proprio... parliamo chiaro il momento in cui bandisce un concorso a Palermo, 50 persone si presentano. Per quanto lui potrà fare le barriere, mettendosi lui in commissione, facendo venire chi vuoi, guarda che obiettivamente la Mazzagreco è debole, perché la Mazzagreco si presenta lì, sempre col volume sullo Statuto, volume che lei ha rifatto in edizione provvisoria per partecipare al concorso di ricercatore”. Parlato proseguiva le sue manovre chiamando Zizzo: “Poi tu comprendi che io ho pensato molto di chiamarti o no, poi ho ritenuto doveroso chiamarti, invece”. Zitto lo tranquillizzava: “Ma senta professore non c'era bisogno, certo”, e Parlato aggiungeva: “Poi ti chiamerà mio genero che ti vuole pure salutare”. In contemporanea anche Sammartino, secondo l'accusa, attivò quello che gli inquirenti definiscono un negoziato. Il 3 febbraio 2015 chiamò Antonucci: “È inutile dirti che conto su di te in maniera fortissima... diciamo nel senso che devi essere fermissimo perché la Commissione ha la sua composizione”. Il 25 febbraio il docente palermitano si spostò a Roma per incontrare Zizzo e quindi il professore spagnolo. Il messaggio da dare ai commissari doveva essere chiaro: “o passano questi o noi diciamo no a tutti ed allora gli altri doveranno per forza cadere”. E a Mazzagreco Sammartino spiegava come si era mosso. Parlava di "tattica” e “strategia”, aggiungendo che Zizzo era andato da Di Pietro per trovare "una linea comune”. Alla fine si trovò la quadra. Furono tutti abilitati nel 2015 agli esami di Bologna.
"Si è messa a scopare con lui ed è...". Concorsi truccati e baronato. Le intercettazioni choc dei prof, scrive il 26 Settembre 2017 su “Libero Quotidiano”. Sette docenti universitari, titolari di cattedre di diritto tributario in numerosi atenei italiani, finiti agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione e altri 22 docenti interdetti dallo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle "connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi". In totale sono 59 le persone indagate per reati di corruzione, tra le quali figura anche l'ex ministro Augusto Fantozzi. Il Tempo pubblica una serie di intercettazioni nelle quali emergono anche i dubbi dei protagonisti, come chi "si è domandato quali meriti potesse vantare la candidata: Che c' ha? Meriti fisici". Del resto l'interlocutore ricordava il momento in cui un docente aveva bocciato la tesi della candidata: "Mi sembra modesta, cerca di arricchirla, lavoraci un anno ancora". "Dopo due mesi gliel'hanno fatta pubblicare, poi si è messa a scopare e con P.B. ed è diventata meritevole". Ecco come si ottengono i "criteri per far passare i nostri". Spesso però i rapporti si complicavano. Così Fantozzi suggeriva: "L'idea è quella di fare la prova di resistenza, cioè di dire se voi volete questi noi vogliamo questi e se non ci date questi non vi diamo quelli e non passa nessuno. Punto". E ancora: "Tu sai che abbiamo sempre rispettato una regola, la quale diceva che quando c'erano delle opportunità o delle scorciatoie da cogliere, esse venivano colte nell'interesse dei nostri", avrebbe detto Fantozzi, "specificando che ciò era già accaduto, nel passato, con riferimento ai professori Tremonti, Lupi e Fransoni". Alcuni docenti indagati "hanno condiviso l'intenzione di non parlare per telefono dei fatti inerenti l'abilitazione". "Il telefono è meglio abbandonarlo (...) perché non si sa mai, però insomma, con quello che sta succedendo, che è successo attorno ai concorso. Non penso che il giorno dopo in cui viene estratto, subito mettano di default il tuo telefono sotto controllo. Sarebbe, come dire, una cosa eccessiva, però..." E ancora: «Se dobbiamo parlare ci certe cose mi raccomando, solo su Skype..è meglio essere prudenti". "Se qualcuno un domani chiede l'accesso agli atti non possa andare a vedere tutta l'evoluzione".
Il ricercatore con il microfono che ha incastrato i baroni: "Se fai ricorso addio carriera". Philip Laroma Jezzi ha rifiutato di ritirarsi e ha mandato alla Finanza le registrazioni: "È il vile commercio dei posti", scrive Michele Bocci il 26 settembre 2017 su “L’Espresso”. Essere il migliore può rivelarsi non un pregio ma un difetto da penalizzare. Almeno nel mondo alla rovescia dell'università italiana. "Con che criterio sei stato escluso dal concorso? Col vile criterio del commercio dei posti". È quasi aulico il noto ex docente di diritto tributario Pasquale Russo, maestro di decine di colleghi e oggi dedito solo all'attività del suo studio fiorentino, quando spiega al ricercatore che vorrebbe diventare professore associato come funzionano le cose. "Non è che tu non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando". Russo non sa, quel 21 marzo del 2013, che chi sta ascoltando la sua lectio magistralis sul mondo dei concorsi dopo la riforma del 2010 ha acceso il registratore sul telefono. Sono proprio le parole memorizzate sul cellulare di Philip Laroma Jezzi a far partire l'inchiesta che ha travolto un intero settore scientifico di Giurisprudenza.
Laroma Jezzi è un tributarista con studio in un grande palazzo nel centro fiorentino, in via Maggio, che si è opposto alla strada segnata per lui e per tanti suoi colleghi dai professori della sua materia. Non solo ha registrato due conversazioni fondamentali, ha anche tenuto costantemente informati procura e Gardia di finanza su quello che avviene all'università, su bandi e concorsi. Già anni fa una sua segnalazione aveva dato il via a un'indagine della procura, quella sull'ex direttore provinciale dell'Agenzia delle entrate fiorentina Nunzio Gargozzo, poi condannato ben tre volte per corruzione. Prendeva mazzette e in cambio si prodigava per far risparmiare le imposte a imprenditori e professionisti colpiti da accertamenti fiscali.
Il 22 novembre del 2012, Laroma Jezzi presenta la domanda per l'abilitazione sia a professore associato che ordinario. Il 21 marzo del 2013 Pasquale Russo lo chiama e lo invita nel suo studio. L'ex professore sa bene chi ha davanti, tanto che a un collega, Adriano Di Pietro, spiegherà: "Laroma come intelligenza e come laboriosità vale il doppio" degli aspiranti associati che partecipano alla selezione. Bene, Russo cerca di convincere il migliore a ritirarsi dalla corsa dell'abilitazione, perché i vincitori sono già stati decisi e far passare lui potrebbe metterli in difficoltà quando ci saranno i concorsi. Il vecchio professore è consapevole di quanto sia pesante quello che chiede, e del resto l'altro minaccia di fare un esposto, ma aggiunge: "Come si fa ad accettare una cosa simile? Tu non puoi non accettare. Che fai, ricorso? Però così ti giochi la carriera. Qui non siamo sul piano del merito Philip. Smetti di fare l'inglese e fai l'italiano". Il riferimento è alla doppia nazionalità dell'interlocutore. "È stata fatta una lista e tu non ci sei", ribadisce Russo. Laroma Jezzi non ritira la domanda e a dicembre 2013 viene regolarmente bocciato. Fa ricorso al Tar e vince. Ora è abilitato come associato.
La prima registrazione è seguita da un'altra, nel gennaio 2014. In questo caso, oltre a Russo, il ricercatore incontra Guglielmo Fransoni, uno dei commissari che l'hanno bocciato, nonché socio di studio dello stesso Russo. Gli spiegano che un potente professore fiorentino, Roberto Cordeiro Guerra, è contro di lui perché vuole fargli passare avanti un suo discepolo a una nuova selezione. "Io non ho capito la tua scelta di restare dopo che ti era stato dato il messaggio di ritirarti - dice Fransoni - cioè se uno ti dà il messaggio il motivo c'era, una consapevolezza di com'era orientata la commissione".
È Russo a illustrare il meccanismo: "Funziona così: a ogni richiesta di un commissario corrispondono tre richieste provenienti dagli altri commissari: io ti chiedo Luigi e allora tu mi dai Antonio, tu mi dai Nicola e tu mi dai Saverio". È, appunto, tutto un do ut des tra i vari atenei. "Ogni professore aiuta l'altro - spiega poi Fransoni - perché è chiaro che se il prof di procedura civile dice: "Scegliamo il miglior tributarista in assoluto", rischia che poi il tributarista dica: "Scegliamo il miglior processualista in assoluto". Allora tutti quanti hanno convenienza a dire "no certo, il tributarista dev'essere il tributarista tuo", perché così il tributarista dirà: "no, certo, esimio collega, il processual-civilista sarà il tuo allievo", e così si aiutano a vicenda". Russo sintetizza alla perfezione: "Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa: questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve andare avanti per cui...". Più chiaro di così.
Concorsi truccati, l’uomo della denuncia: «Raccontando tutto ho fatto la mia parte». Le parole del ricercatore Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese, e lavora al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze. È stato lui, con la sua denuncia a far scattare l’inchiesta, gli arresti e le raffiche di avvisi di garanzia, scrive Marco Gasperetti il 25 settembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il ricercatore da cui tutto è iniziato si chiama Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese, e lavora al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze. È stato lui, con la sua denuncia e le sue registrazioni con il telefonino, a far scattare l’inchiesta, gli arresti e le raffiche di avvisi di garanzia.
Professore, come va?
«Professore? Non scherziamo, sono e resto un ricercatore e dunque un dottore».
E a lui che hanno chiesto di ritirarsi da un concorso per diventare professore: ha rifiutato e ha deciso che era arrivato il momento di denunciare. Da anni è considerato uno dei migliori tributaristi fiorentini, già tra gli allievi di Pasquale Russo, luminare dell’università di Firenze che oggi appare nel registro degli indagati. Nello studio di Laroma Jezzi hanno iniziato il praticantato da avvocato la ministra Maria Elena Boschi e il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi. Lo troviamo mentre sta aspettando i figli davanti a scuola.
Dottor Laroma Jezzi, tutto inizia da lei. E sembra il classico vaso di Pandora. Crede ci saranno sviluppi?
«Guardi, la ringrazio per il suo interessamento ma oggi preferisco non parlare».
Qualche suo collega dice che lei è stato molto coraggioso...
«Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati, ho fornito loro le prove sulle mie affermazioni e adesso mi voglio mettere da parte perché ho trovato persone straordinarie che stanno ancora lavorando e parlare adesso ai giornali mi sembrerebbe di fare loro un torto. Eventualmente ci sarà tempo».
Pochi mesi fa una ricercatrice dell’ateneo di Pisa ha denunciato presunte irregolarità in un concorso per diventare prof. Conosce il caso?
«Sì, l’ho seguito con interesse sui giornali, anche se mi sembra diverso da questa inchiesta».
La sua collega ha detto di voler fare la sua battaglia perché legalità e trasparenza siano imprescindibili nei concorsi pubblici...
«Io ho fatto la mia parte. Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati. E adesso preferisco non parlare».
Ed effettivamente il dottor Laroma Jezzi, che amici e colleghi descrivono come un infaticabile studioso e uomo dalla schiena perennemente dritta, ne ha raccontate molte nella sua denuncia. Tra queste c’è il colloquio (che ha registrato con lo smartphone) con uno dei professori inquisiti che gli chiedevano di ritirarsi dal concorso. «Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano», perché se fai ricorso «ti giochi la carriera».
"Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano". In una frase, tutto il marcio del nostro Paese, scrive il 26 settembre 2017 Mauro Munafò su "L'Espresso". Credo che nessuno, dico nessuno, si stupisca particolarmente per la storia dei concorsi truccati all'Università che fino ad oggi ha portato a 7 arresti, 150 perquisizioni e indagati eccellenti come l'ex ministro Fantozzi. Il sospetto che la vittoria di un candidato rispetto a un altro sia motivata da ragioni clientelari piuttosto che da quelle di merito è stato confermato negli anni da decine di inchieste della magistratura, giornalistiche, denunce e libri. Quello che però in questo specifico caso salta agli occhi sono i dialoghi catturati e registrati dal ricercatore Laroma Jezzi, che ha denunciato tutto il sistema, e che potete leggere su Repubblica. È il ritratto di un sistema illecito talmente sicuro della sua inevitabilità che si lancia in riflessioni filosofiche, giudizi di merito, consigli. Una frase tra tutte mi ha colpito e, oserei quasi dire, indignato. È quando un vecchio professore cerca di spiegare al ricercatore a cui non permetteranno di ottenere l'abilitazione come funziona il mondo, come ci si comporta. Lo fa dicendo questo: «Che fai, ricorso? Però così ti giochi la carriera. Qui non siamo sul piano del merito Philip. Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano». In questa battuta c'è sì un riferimento alla doppia cittadinanza di Laroma Jezzi, appunto inglese e italiana, ma c'è anche tutto un mondo. Un mondo che si divide tra i "precisini" inglesi, che fanno le cose secondo le regole, e gli "italiani" che invece fatta la legge trovano l'inganno e aggiustano le cose in base alla convenienza. Ho messo "italiani" tra virgolette perché questa è l'immagine e lo stereotipo che sistemi illeciti come questo contribuiscono e puntano a rafforzare. Sistemi in cui tutti sono complici di illegalità, incluse le vittime. Perché, non dimentichiamolo, se queste strutture baronali continuano a perpetrarsi è anche perché tanti giovani ricercatori si sottomettono al loro potere. Sono vittime anche loro ma, quando accettano certe regole non scritte, diventano un po' anche complici. La notizia che qualcuno si sia ribellato a questa cupola, abbia registrato ogni dialogo, abbia chiamato le forze dell'ordine e contribuito a smascherare questo marcio è una di quelle che ti restituiscono fiducia nelle persone. Il coraggio di parlare e rifiutare l'omertà che protegge questi meccanismi oggi è un atto rivoluzionario. E ogni ricercatore che contribuisce ad eliminare quelle virgolette intorno alla parola "italiani" merita tutto il nostro sostegno.
L'avvocato castiga-baroni con lo studio pieno di vip. Philip Laroma Jezzi è diventato un eroe dei social. In passato ha lavorato con illustri esponenti del Pd, scrive Nino Materi, Mercoledì 27/09/2017, su "Il Giornale". Il cosiddetto «popolo dei social» (entità quanto mai indeterminata) lo ha già incoronato «Il Volto Più Pulito Dell'Italia», con le iniziali tutte rigorosamente in maiuscolo. Dal web spunta addirittura un fan che lo candida a futuro ministro dell'Istruzione. E certo Philip Laroma Jezzi, qualche titolo accademico appena superiore a quelli che può vantare Valeria Fedeli, ce l'ha. Il 47enne avvocato anglo-italiano (come il pm Henry John Woodcock) che con la sua denuncia ha bombardato «Raccomandopoli» - per nulla ridente cittadella del nepotismo - ieri si è conquistato sul Fatto Quotidiano una paginata di complimenti. Elogi meritatissimi, considerato che grazie alle «registrazioni choc» di questo stimato avvocato tributarista con studio in Firenze, «la mafia dei baroni e dei concorsi universitari truccati» sarebbe stata smascherata. Intanto i 7 professori arrestati e i 59 indagati (tra cui l'ex ministro Augusto Fantozzi) ripetono il solito refrain difensivo in tre atti: 1) di «essere completamente estranei ai fatti contestati»; 2) di «avere piena fiducia nella magistratura»; 3) di «chiarire al più presto la propria posizione». Nel frattempo la bacheca Facebook dell'irreprensibile avvocato Laroma Jezzi è stata inondata da messaggi di sobrio incoraggiamento del tipo: «È lei l'italiano di cui il nostro Paese ha bisogno», «Le persone oneste sono tutte con te», «Stima e ringraziamenti sinceri. Da cittadino», «Sei un eroe»; «Sei un esempio che tutti i meritevoli dovrebbero seguire per non accontentarsi di una mediocrità imposta»; «Ho profonda stima di te...è l'ora di reagire perché in gioco c'è quello che siamo ed il nostro futuro... ti sono vicino». L'avvocato «gola profonda» - che assicura di «non voler assolutamente rilasciare dichiarazioni ai giornalisti» - ieri ha dichiarato al Corriere della Sera: «Io ho fatto la mia parte. Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati». Un po' più ciarliero Philip si era mostrato invece l'anno scorso con il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, cui il 7 gennaio inviò una torrenziale mail nella quale dava conto di una sua denuncia che aveva portato all'arresto del direttore dell'Agenzia delle Entrate. A dimostrazione del carattere modesto e del tono per nulla autocelebrativo dello scritto, ricordiamo il seguente passaggio: «Io sono nato nel Regno Unito. Ho studiato (bene e tanto) sia in Italia che a Londra e quel mondo mi manca tanto. Ma piuttosto che fare l'italiano in Inghilterra ho preferito fare l'inglese in Italia. In questo modo riesco, con molta più facilità, a distinguermi, a essere eccentrico. Non ho bisogno di fare il punk, mi basta fermarmi alle strisce pedonali». Come dire: altro che voi automobilisti italiani, che davanti alle strisce pedonali accelerate per sturare i poveri pedoni. Parole, quelle dell'avvocato dal doppio cognome, che lasciano il segno, tanto che Il Fatto Quotidiano nella titolazione finisce anche per vantarsi di avere un siffatto lettore; occhiello in prima pagina: «Il blitz a Firenze su input di un abbonato al Fatto». Nessun accenno invece al fatto che nello studio Laroma Jezzi, ai tempi in cui Renzi era sindaco di Firenze, siano passati come praticanti illustri personaggi del «Giglio magico»: dalla ministra Maria Elena Boschi al tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi. Per non parlare dei vip, della bella gente e dei molti altri giovani rampanti vicini al «Matteo nazionale», arrivati a quell'indirizzo sicuramente senza nessuna raccomandazione. Del resto, se solo avesse sentito un vago odore di nepotismo, l'adamantino avvocato anti-baroni, li avrebbe sicuramente messi alla porta. O no?
Quel silenzio (complice) dei sindacati. Snals: «Danneggiati dallo scandalo. Faremo un comunicato molto duro», scrive Nino Materi, Mercoledì 27/09/2017, su "Il Giornale". C'è un silenzio assordante che sta accompagnando lo scandalo dei «professori imbroglioni» appena scoperchiato a Firenze, ma tristemente endemico in tutta Italia. I sindacati che operano nel mondo dell'istruzione, non hanno nulla da dire? Perché a 48 ore dal pentolone scoperchiato di «Universopoli» nessuno si è sentito in dovere di «diramare una nota» contro i baroni delle clientele? Lo Snals (il sindacato più rappresentativo nella scuola), interpellato dal Giornale, tiene a precisare di «sentirsi parte lesa e di essere al lavoro per stilare un comunicato molto duro». Se ciò accadrà, sarà sempre meglio tardi che mai. Si sbilancia un po' di più invece Giuseppe De Nicolao, in rappresentanza dell'associazione Roars composta da ricercatori e docenti universitari: «Il caso di Firenze non ci sorprende. I rettori sono dei piccoli monarchi. Il sistema italiano accentra il potere ed è aggirabile». Il tutto si inquadra in uno scenario drammatico, come evidenziano i professori Stefano Allesina e Jacopo Grilli: due ricercatori nostri connazionali autori (all'Università di Chicago) di uno studio sul nepotismo negli atenei del Belpaese. Allesina e Grilli si sono concentrati sulle facoltà di Medicina e Chimica, ma non sono nuovi a questo tipo di indagine: nel 2011 avevano pubblicato un altro dossier, dimostrando come alcune discipline (Giurisprudenza, Agraria e Ingegneria) mostrassero la «presenza sospetta di identici cognomi». Si tratta degli stessi cognomi relativi a rettori, professori e altre «figure apicali». «La ricerca aveva causato un certo scalpore in Italia - ricorda Allesina - anche perché la pubblicazione era avvenuta immediatamente dopo la riforma Gelmini». Sulla cui efficacia i giudizi restano però discordanti. «Oggi assistiamo a un fenomeno di vecchio malcostume combinato a una nuova forma di baronaggio accademico, cioè proprio quei bubboni cui la nostra riforma del 2010 aveva cercato di porre un freno», sottolinea l'ex ministro della Ricerca, Mariastella Gelmini. Ma, al di là delle buone intenzioni, il «virus del familismo» non è stato debellato. La conferma viene pure dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone: «Siamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, soprattutto sui concorsi con cui vengono distribuiti cattedre e incarichi. C'è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione». Approvata durante il primo governo Berlusconi, la riforma Gelmini ha introdotto il divieto di assumere nello stesso dipartimento parenti e affini fino al quarto grado di docenti già in ruolo. Secondo il giudice Cantone, la riforma di sette anni fa avrebbe addirittura peggiorato le cose. Motivo? «Quel testo di legge è come se avesse istituzionalizzato il sospetto. Mi spiego meglio: l'idea che non ci possano essere rapporti di parentela all'interno dello stesso dipartimento, ha portato a situazioni paradossali». Un esempio? «In una università del Sud è stato regolarizzato uno scambio intollerabile: in una facoltà giuridica è stata istituita una cattedra di storia greca e in una facoltà letteraria una cattedra di istituzioni di diritto pubblico. Entrambi i titolari erano i figli di due professori delle altre università. Uno scandalo. L'ennesimo.
L'eroe anti-baroni «premier subito»? Ci stuferemmo presto. Sicuri di volere il ricercatore italo-inglese Jezzi, che ha combattuto i maneggi universitari, a capo dell'Italia? Il popolo del web (e non) reclamerebbe qualche messia da Bar sport. Nel quale è più facile riconoscersi, scrive Lia Celi su Lettera 43 il 27 settembre 2017. «A un antipode si colloca la separazione che potremmo chiamare “endosoggettiva”, ossia che non altera le imputazioni giuridiche delle situazioni avente contenuto patrimoniale…». Siamo sicuri che Philip Laroma Jezzi, l’avvocato e ricercatore italo-inglese che ha smascherato i maneggi dei baroni universitari, sia «l’uomo di cui il Paese ha bisogno», incoronato dai social come «piccolo eroe», tipo lo scrivano fiorentino celebrato da De Amicis?
RICERCATORE A 49 ANNI: SOLO IN ITALIA... Intanto: piccolo un corno, visto che ha 49 anni, età in cui solo in Italia si è ancora ricercatori. Secondo: questo signore è uno studioso di vaglia nel campo del diritto tributari, l’intimidatorio incipit è tratto dal suo saggio Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, acquistabile in rete su Amazon. Laroma Jezzi è uno che, potendo, si sarebbe risparmiato il ruolo di Masaniello dell’università italiana o, per usare un riferimento inglese, di Guy Fawkes che fa saltare in aria il castello di connivenze incrociate su cui si reggono i concorsi accademici, ma doversi mettere a pecora a cinquant’anni per far posto all’ennesimo raccomandato meno competente fa scattare l’«enough is enough».
INVESTITURA DA FAR INVIDIA A DI MAIO. Un telefonino acceso al momento giusto, una denuncia ai magistrati, un servizio al tiggì e lo sconosciuto tributarista diventa il premier che l’Italia social vorrebbe, con un’investitura digitale più limpida e cospicua di quella di Luigi Di Maio. Ma per piacere. Se mai approdasse a Palazzo Chigi una persona seria, preparata e allergica ai compromessi come Laroma Jezzi - un esperto di tasse, per di più, e che usa termini come «endosoggettivo» -, nel giro di una settimana il popolo del web e non del web chiederebbe la sua testa e reclamerebbe il ritorno di qualche messia da Bar sport con tutte le soluzioni in tasca (o sulla felpa), nel quale, alla fin fine, è più facile riconoscersi. È già molto che al coraggioso ricercatore anglo-toscano sia toccato il quarto d’ora di celebrità cui in Italia raramente hanno diritto quelli che non abbassano la testa e alzano la voce. Come Giulia Romano, economista e ricercatrice pisana che appena due mesi fa aveva denunciato alla magistratura, con tanto di registrazione, il bando per una cattedra confezionato su misura per un certo candidato, con il barone di turno che la invitava ad abbozzare per non rovinarsi la carriera. Uguale a Jezzi.
DATE A GIULIA LA VICE PRESIDENZA. Per Giulia, che ha «fatto l’inglese» pur essendo tutta italiana, dal web non sono arrivati osanna né «premier subito», ma un diluvio di commenti minimizzanti, «succede ovunque, sai che scoperta». Magari da parte degli stessi che oggi incensano Philip. Professor Jezzi, se mai diventerà presidente del Consiglio, per piacere, dia alla dottoressa Romano almeno la vicepresidenza. A meno che non la consideri l’ennesima raccomandazione.
«Concorso su misura? Questi erano gli accordi». Prof (registrato) nei guai. Il caso all’Ateneo di Pisa, la denuncia di una ricercatrice, scrive Marco Gasperetti il 26 luglio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Nei corridoi dell’università di Pisa da qualche giorno non si parla d’altro. E qualche «maligno» l’ha già ribattezzato il «bando fotografia», che in gergo significa un concorso, irregolare, realizzato ad hoc su una persona: il vincitore designato. Adesso però le cose si sono complicate e le ironie rischiano di trasformarsi in sospetti e tremori. Su quel concorso, per un posto di professore ordinario al dipartimento di Economia e management, è stata aperta un’inchiesta della procura di Pisa. Il sospetto è che la commissione d’esame avesse già deciso a priori chi far vincere e i magistrati vogliono capire se esiste un sistema di potere baronale che influisce sui concorsi pubblici. Sospetti generati da una registrazione clamorosa nella quale il presidente di una delle commissioni esaminatrici, uno stimatissimo professore universitario, sembra ammettere le presunte irregolarità. A registrarle il marito dell’esclusa, anche lui docente universitario, ma a Verona. La moglie ha poi presentato una denuncia alla procura allegando oltre alla registrazione altri documenti. Sul caso c’è anche un ricorso al Tar e l’avvio di indagini della commissione etica dell’ateneo pisano, considerato tra i più validi d’Europa, dove studiano oltre 50 mila studenti. Protagonista e presunta vittima della vicenda è Giulia Romano, tra le migliori ricercatrici del dipartimento di Economia e management. È stata lei a firmare la denuncia contro Luciano Marchi, presidente della commissione d’esame, Silvio Bianchi Martini, membro della commissione e direttore del dipartimento di Economia e management, e contro l’ex rettore Massimo Augello. Insieme ai documenti, Giulia Romano e il suo avvocato, Francesco Agostinelli del foro di Livorno, hanno prodotto le registrazioni avvenute tra il professor Marchi, presidente della commissione, e Andrea Guerrini, marito della ricercatrice. Registrazioni nelle quali, almeno apparentemente, Marchi ammetterebbe che il profilo del concorso era stato studiato per il vincitore precedentemente designato «perché rientrava negli accordi». Nella registrazione Marchi poi spiega che basta un semplice «litigio» con «chi conta» per essere tagliato fuori. E in tal caso, per continuare a sperare di far carriera all’interno dell’università, «è importante recuperare il rapporto». E chi osa opporsi e fare ricorso corre il rischio di rimanere ricercatrice a vita perché nessuno mai più l’avrebbe appoggiata, in quanto sarebbe come «dare un premio a chi ha remato contro». Perché «il rischio è quello dell’isolamento... in queste vicende una ha ragione, però appare come quella che rompe i cazzi e in questo caso tutto l’ateneo è coalizzato perché tu vai a rompere una logica». Già, la logica. Un sistema? È proprio quello che stanno accertando i magistrati. «Abbiamo sottoposto al vaglio della procura la registrazione — dice l’avvocato Agostinelli — che è una valida prova documentale, affinché verifichi la violazione delle norme che regolano il reclutamento del personale accademico. Nella denuncia si chiede inoltre che si verifichi l’esistenza o meno di sistematiche condotte discriminatorie per l’accesso alle cattedre. Ci auguriamo che venga fatta luce nel più breve tempo possibile. Non solo nell’interesse della mia assistita, ma per tutelare tutti quei candidati meritevoli che aspirano all’importante ruolo di professore nel prestigioso ateneo pisano». Il rettore dell’università, Paolo Mancarella, non ha voluto rilasciare dichiarazioni.
Il presidente di Asa fa il detective e smaschera il concorso contestato. Guerrini registra il colloquio con il presidente della commissione che parlerebbe di un bando truccato all'Università di Pisa: la moglie era in corsa per la cattedra e presenta denuncia, scrive Gianni Tacchi il 28 luglio 2017 su "Il Tirreno". Quando il presidente della commissione d’esame gli ha chiesto un incontro ed è andato addirittura nel suo ufficio di Verona, ha capito subito che quella poteva essere l’occasione giusta per smascherare un concorso dell’Università di Pisa che considerava già sospetto. Così Andrea Guerrini, presidente del consiglio di gestione di Asa dallo scorso novembre e anche docente universitario in Veneto, ha registrato con lo smartphone quel colloquio con il presidente della commissione, il docente di economia Luciano Marchi, che parlerebbe di un bando truccato e costruito praticamente su misura per un vincitore già designato. La moglie di Guerrini - la livornese Giulia Romano, ricercatrice di economia - sperava di conquistare un posto da docente ordinario tramite quel concorso, ma poi si è insospettita e quel file audio l’ha portata a presentarsi dai magistrati per denunciare tutto insieme al suo avvocato Francesco Agostinelli: la convinzione della ricercatrice è che ci fosse un patto tra il rettore dell’epoca Massimo Augello e i vertici del Dipartimento di economia e management dell’Università di Pisa per escluderla dalla corsa alla cattedra. E così la Procura, una volta ricevuto l’atto e la registrazione che era stata fatta nell’ufficio di Guerrini, ha aperto un’inchiesta su quanto accaduto. Gli indagati sono tre: oltre a Marchi e Augello, nel registro spunta anche il nome di Silvio Bianchi Martini, membro della commissione e direttore del dipartimento di Economia e management dell’ateneo pisano. La selezione risale a ottobre 2016 e Romano, in un primo momento, presentò un ricorso al Tar «per delle presunte contraddizioni rispetto a quanto prevede la legge Gelmini». Chiedeva l’annullamento, la ricercatrice livornese. Ma lo scorso marzo la vicenda ha cambiato decisamente faccia. «Dopo l’esclusione di mia moglie - ha raccontato Guerrini - il presidente della commissione (Marchi, ndr) è venuto a trovarmi e in quella occasione ha ammesso che il bando era stato fatto su misura. Ho registrato quella conversazione, durata oltre un’ora, e poi sono andato dall’avvocato insieme a mia moglie. E alla fine abbiamo presentato denuncia in Procura». Ma cos’avrebbe detto Marchi a Guerrini? Il presidente della commissione parlerebbe di un esito già scritto «perché rientrava negli accordi» e che ribellarsi non sarebbe servito a niente. Anzi, avrebbe sbarrato la strada alla moglie, con il rischio di una sorta di «isolamento» per lei all’interno dell’università. «In queste vicende una ha ragione - avrebbe detto Marchi - però appare come quella che rompe i c... e in questo caso tutto l’ateneo è coalizzato perché tu vai a rompere una logica». E questa registrazione è stata consegnata ai magistrati, facendo partire l’inchiesta. «Crediamo che quella sottoposta alla Procura sia una valida prova documentale - ha detto l’avvocato Agostinelli - nella denuncia chiediamo di verificare l’esistenza o meno di condotte discriminatorie sistematiche». L’indagine della magistratura su un presunto concorso truccato ha scatenato polemiche alimentato sospetti all’interno dell’ateneo pisano. E Romano, ricercatrice che si occupa di analisi dei gestori idrici, è sconvolta per quanto accaduto: «Ho letto alcuni commenti sul web e mi hanno sorpresa - ha detto - molti dicono che succede ovunque, che non è una novità. Cosa significa? Che dobbiamo arrenderci agli illeciti? La nostra Costituzione dice che quella dei concorsi è la strada per l’accesso agli incarichi nella pubblica amministrazione, quindi io mi attengo alla legge». E appena sentita la registrazione, ha informato il nuovo rettore Paolo Mancarella e ha denunciato subito il caso.
«Favorì il figlio di Zecchino». Indagato il rettore D’Alessandro. Suor Orsola, coinvolti tre professori. La replica: sono sereno, ho fiducia nei magistrati, scrive Titti Beneduce il 27 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Avrebbe favorito un figlio dell’ex ministro Zecchino nell’assegnazione di un posto di ricercatore alla facoltà di Lettere: Lucio d’Alessandro, rettore dell’università Suor Orsola, ha ricevuto un avviso di chiusura delle indagini preliminari per abuso di ufficio; oltre a lui sono indagati altri tre docenti: Giovanni Coppola, Anna Giannetti e Alessandro Viscogliosi. La notizia si è diffusa ieri sera, proprio mentre il professore d’Alessandro era ospite di Bruno Vespa a «Porta a porta» per commentare l’inchiesta della Procura di Firenze sulla spartizione delle cattedre.
La vicenda 13 anni fa. La vicenda al centro dell’interesse degli investigatori è abbastanza datata: risale infatti al 2004 ed è anche particolarmente complessa. Secondo la ricostruzione del pm Graziella Arlomede, che indaga con il coordinamento del procuratore aggiunto Alfonso D’Avino, tredici anni fa, quando era prorettore, d’Alessandro avrebbe formato una commissione ad hoc per agevolare Francesco Zecchino, figlio di Ortensio, docente del Suor Orsola e ministro dell’Università e della Ricerca scientifica tra il 1998 e il 2001, all’epoca dei governi D’Alema e Amato (padre e figlio non sono indagati). La commissione era composta da Giovanni Coppola, Anna Giannetti e Alessandro Viscogliosi; docenti molto vicini all’allora prorettore e a Zecchino: alcuni, infatti, condividono con loro anche l’impegno nel Cesn, il Centro europeo di studi normanni. Tra i vari candidati, il posto di ricercatore a Lettere andò al figlio del politico. La notizia, com’era prevedibile, suscitò polemiche e malumori nell’ateneo. Ci furono ricorsi e dalla faccenda si occupò la magistratura amministrativa con sentenze non favorevoli a Zecchino; nonostante tutto, però, il Suor Orsola non cambiò orientamento. Francesco Zecchino, come si legge sul sito del Suor Orsola, è tuttora ricercatore al corso di laurea in Conservazione e restauro dei Beni culturali, facoltà di Lettere.
E il rettore: «Sono sereno». Tredici anni dopo, quella vicenda diventa oggetto di un’indagine penale. Notificati gli avvisi di chiusura delle indagini preliminari, il pm della sezione reati contro la pubblica amministrazione si avvia dunque a chiedere il rinvio a giudizio per i quattro docenti, che hanno ora venti giorni di tempo per chiedere di essere interrogati o depositare memorie difensive. Il fatto che dal presunto illecito sia trascorso tanto tempo induce comunque a ritenere che presto sarà dichiarata la prescrizione. Il professore d’Alessandro, difeso dall’avvocato Vittorio Manes, che ieri sera ha preso parte alla trasmissione «Porta a porta» proprio per commentare il malcostume che emerge dall’inchiesta fiorentina sulle abilitazioni all’insegnamento universitario, non intende entrare nello specifico ma commenta: «È una vicenda molto vecchia e risalente nel tempo, sulla quale mi sento davvero sereno. Non desidero rilasciare dichiarazioni perché non intendo in alcun modo interferire con il delicatissimo lavoro della magistratura»...
Suor Orsola, indagato il Rettore: «Al concorso universitario favorito il figlio dell’ex ministro Zecchino», scrive Leandro Del Gaudio il 26 settembre 2017 su "Il Messaggero". Viene bollato come regista morale di una operazione finalizzata ad assicurare un posto di ricercatore al figlio dell’ex ministro della pubblica istruzione Ortensio Zecchino. Nel pieno dello scandalo nazionale sulle cattedre universitarie (parliamo dell’inchiesta nata a Firenze), non passa inosservata la svolta investigativa impressa di recente dalla Procura di Napoli: sotto inchiesta finisce il rettore dell’università Suor Orsola Benincasa Lucio D’Alessandro, che deve rispondere di un’ipotesi di abuso di ufficio; ma anche gli altri membri della commissione, vale a dire Giovanni Coppola, Anna Giannetti, Alessandro Viscogliosi, per i quali è ipotizzata anche l’accusa di falso. Ai quattro indagati è stato notificato un avviso di chiusa inchiesta, al termine delle indagini condotte dal pm Graziella Arlomede, magistrato in forza al pool guidato dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino. Una inchiesta che si insinua nel pieno di un contenzioso dinanzi al Tar aperto dal ricorso di una candidata al ruolo di ricercatore assegnato - nell’ormai lontano 2004 - a Francesco Zecchino. Né Ortensio Zecchino, né il figlio Francesco sono indagati, mentre l’iter amministrativo è approdato per due volte dinanzi al Tar e al Consiglio di Stato e non è ancora concluso. Ma entriamo nel merito dell’inchiesta sulla valutazione resa in questi anni da due commissioni di concorso in favore di Francesco Zecchino. In ballo il posto di ricercatore a Lettere (storia dell’architettura e storia dei giardini), in prima battuta la commissione premia Zecchino jr. Scatta il ricorso della competitor Maria Losito, per il quale sia il Tar che il Consiglio di Stato dichiarano la valutazione dei prof come un atto illegittimo, «in considerazione dell’evidente svalutazione dei titoli accademici e della prova d’esame della concorrente Maria Losito, di cui riconosceva la prevalenza». Siamo nel 2008, quando la stessa commissione, nonostante le pronunce del Tar e del Consiglio di Stato, si riunisce per confermare la prima valutazione: quel posto di ricercatore - insistono i giudici - deve andare a Francesco Zecchino. Scatta un nuovo ricorso, dal mondo degli studi e della ricerca scientifica, si passa di nuovo alla giustizia amministrativa, che dispone una nuova valutazione dei candidati da parte però di una diversa commissione, «sì da assicurare neutralità e imparzialità dei giudizi, invero carenti nella prima valutazione». Ed è a questo punto - siamo nel 2011 - che entrerebbe in gioco - come «concorrente morale» e come «regista» - il rettore D’Alessandro. Qual è l’accusa? Avrebbe individuato come nuovo commissario un docente del suo istituto - parliamo del professor Coppola - che è anche fondatore e componente di un organismo di studi che ha tra i suoi vertici sia Ortensio Zecchino, che il figlio Francesco. Una sorta di conflitto di interessi, secondo la Procura, che rileva che i criteri di imparzialità e neutralità del giudizi sono tutt’altro che garantiti. Scrivono i pm: «Coppola è fondatore e componente del consiglio direttivo del Cesn, Centro europeo di studi normanni di Ariano Irpino, istituto a cui partecipano il contro interessato Francesco Zecchino ed il padre di questi Ortensio, fondatore anch’egli e presidente del Consiglio di amministrazione dell’ente». Quanto basta, nell’ottica della Procura, ad ipotizzare la volontà di favorire il figlio dell’ex ministro. Di tutt’altro avviso docenti e commissari coinvolti.
COME SI TRUCCA UN CONCORSO UNIVERSITARIO.
Concorsi truccati: revisori amici e bandi «ad personam». Così si ottiene una cattedra in ateneo. Dal sistema delle pubblicazioni ai candidati già scelti, ecco i metodi per condizionare i risultati delle prove, scrive Valentina Santarpia il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Dopo lo scandalo cinque anni fa delle riviste improbabili selezionate dall’Anvur per valutare gli scritti degli aspiranti docenti, gli esperti hanno reso, almeno all’apparenza, molto più difficile conquistare quei punteggi necessari per candidarsi all’abilitazione scientifica nazionale, e quindi aspirare a un posto da professore all’università. Ma, come è noto, fatta la legge, trovato l’inganno. E così anche oggi il sistema di accreditamento ha le sue falle. A partire proprio dalle pubblicazioni. Se nelle materie scientifiche, da matematica a medicina, sono le citazioni dei propri lavori a contare, nelle materie umanistiche e in settori come giurisprudenza o economia valgono tre criteri: i libri scritti, le pubblicazioni, e quante di queste sono ospitate da riviste considerate di qualità. Servono almeno due elementi su tre. Come fa un aspirante professore a pubblicare? Prima di tutto deve mandare il proprio lavoro all’editor della rivista, che a sua volta lo sottoporrà ai revisori anonimi. Questo meccanismo è usato anche nelle riviste internazionali, dove però la revisione viene affidata a ricercatori, dottorandi o professori. In Italia si ritiene doveroso far valutare il testo solo ad un docente associato o ordinario. Ma c’è un’altra, più evidente differenza: in un ambiente ristretto come quello italiano è facile che revisore e direttore della rivista conoscano chi sta presentando il lavoro. La commissione indipendente è sicuramente una garanzia, ma deve tener conto dei criteri oggettivi delle citazioni e delle pubblicazioni. C’è sempre il controllo successivo degli atti, ma documenti e motivazioni restano online solo 60 giorni. In ogni caso, anche superata l’abilitazione, resta il concorso. Se il bando viene scritto a immagine e somiglianza del candidato prescelto, il posto è praticamente suo. E se si presenta qualcun altro? Come nel caso del ricercatore che ha fatto partire l’indagine, lo si dissuade dal partecipare. «Nel suo interesse», ovviamente.
Università: il ministero e i concorsi a fotografia, scrive Alessandro Figà Talamanca il 21 marzo 2014 su Roars. Siamo in regime di blocco del reclutamento universitario, ma qualche concorso viene ancora bandito. Si tratta di concorsi a posti di “ricercatore a tempo determinato” una nuova figura che, secondo la recente riforma dovrebbe costituire il canale principale di reclutamento dei giovani alla carriera universitaria. I concorsi dovrebbero essere aperti a tutti i giovani qualificati, ma molti professori, con il consenso delle università e del Ministero hanno trovato il modo di riservarli a priori ad alcuni predestinati. Lo strumento è ben noto, si tratta del cosiddetto “concorso a fotografia” per il quale nel bando viene disegnato un “profilo” del futuro vincitore che corrisponde esattamente al profilo scientifico del predestinato, ad esempio corrisponde al titolo e all’argomento della sua tesi di dottorato. Questa pratica furbesca che consente di prescindere dal merito scientifico dei concorrenti è talmente ben nota che la legge la proibisce esplicitamente. La Legge 240 del 2010 stabilisce che un eventuale “profilo” può essere specificato “esclusivamente tramite indicazione di uno o più settori scientifico disciplinari”, per fare un esempio si potrà specificare che il candidato debba essere un esperto di “Probabilità e Statistica Matematica” ma non necessariamente un esperto di “Processi di diffusione negli spazi ultrametrici”. I bandi che non rispettano la legge dovrebbero essere censurati dal Ministero, ma questo non avviene; anzi il Ministero stesso incoraggia questo tipo di bando consentendo la descrizione del profilo nel sito ufficiale del Ministero. La violazione della legge potrebbe essere eliminata attraverso il ricorso di un candidato ai Tribunali Amministrativi, ma i ricorsi costano e nessuno può garantire che il ricorrente che ottenga dal tribunale la cancellazione del “profilo” dal bando, risulti poi vincitore. Complice il Ministero si sta diffondendo quindi una prassi illegale che può portare solo danni al sistema universitario. Naturalmente le scuse per violare la legge sono molte, ma tutte legate a una caratteristica negativa del sistema universitario e scientifico in Italia e cioè la sua struttura gerarchica, che prevede che gli argomenti e la direzione della ricerca siano indicati da un anziano “grande capo”, mentre i giovani nell’età più creativa vengono mantenuti in una situazione di dipendenza. Secondo questa prassi il posto di ricercatore appartiene quindi ad un “grande capo” che ha diritto di scegliersi il “collaboratore”. Localismo e nepotismo, i mali dell’università italiana sono casi estremi di questa assurda prassi.
Scandalo concorsi universitari, quel sistema che resta impunito. La vicenda che a Firenze ha condotto all’arresto di sette professori universitari è solo l’ultima di una lunga lista. Finirà con la solita prescrizione, dopo anni di processi? Scrive Gian Antonio Stella il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Riusciranno i giudici a portare fino in fondo il processo ai baroni arrestati per l’ennesima «concorsopoli»? O finirà con la solita prescrizione dopo i soliti undici o dodici anni di lungaggini e rinvii? Ecco il dubbio. Perché, certo, di arresti ne abbiamo visti. Tanti. Ma le condanne per le troppe selezioni «pilotate» sono state più rare degli ippopotami nel Garda. Prendiamo solo uno degli ultimi casi. Ansa, giugno 2016: «Il Tribunale di Bari ha archiviato per prescrizione di tutti i reati una delle indagini sui presunti concorsi truccati alla facoltà di Medicina dell’Università...». L’inchiesta era «sui concorsi per ordinari in Medicina interna risalenti agli anni 2005-2007. Gli indagati, tutti docenti universitari, rispondevano di associazione per delinquere, falso, interesse privato in atti pubblici e abuso d’ufficio...». Titoloni sparati in prima pagina all’inizio, titolini se non il silenzio assoluto col passare delle settimane, dei mesi, degli anni... Con la rimozione totale, spesso, di documenti, testimonianze, intercettazioni che da soli, al di là del profilo penale e processuale, sarebbero stati sufficienti, in una università seria, a espellere persone chiamate a «educare» generazioni di ragazzi avvelenati dall’elogio della furbizia.
Intimidazioni. Basti ad esempio la sfuriata del rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, vicepresidente della Conferenza dei rettori (sic...), contro Giuliano Grüner, uno dei due ricercatori (con Pierpaolo Sileri) che avevano ricorso al Tar per la «chiamata» di colleghi che, scrisse Il Fatto, erano «senz’altro titolati ma incidentalmente figli di professori di Tor Vergata». Ecco stralci della registrazione, purgata delle parole più «esuberanti» del Magnifico: «Lei sta sputando nel piatto in cui mangia! Sta facendo una causa contro il suo rettore, (censura)! Non è mai accaduto! Quando mi chiamava il mio rettore io tremavo (censura)!». «O ritira il ricorso oppure noi qui non ci parliamo! Per i prossimi anni per quello che mi riguarda si cerchi un altro Ateneo! Finché faccio io il rettore, lei qui non sarà mai professore!».
Omertà diffusa. Un caso isolato? Per niente. Lo dicono le storie di ordinari passati dopo quattro giudizi negativi su cinque e altri bocciati da commissari con molte meno pubblicazioni. O quella di Maria Luisa Catoni, che dopo esser stata fellow a Berlino e senior fellow alla Columbia e aver presieduto (unica donna italiana) una commissione dell’European Research Council è stata scartata per «poche esperienze internazionali»...Un’Ansa del dicembre 1991 racconta «le vicende di due concorsi di ematologia e di pediatria invalidati per volontà del ministro della università Antonio Ruberti, dopo che su una rivista scientifica erano state pubblicate le prove dei “brogli”». Indimenticabili i commenti. «È vero, in Italia per diventare professore d’università bisogna aver un padrino», si sfogò la docente di pediatria Luisa Busingo confidando il senso di umiliazione, «io stessa, se sono associato lo devo a un padrino. Se morisse lui avrei la certezza di non diventare mai di ruolo». «Il problema è l’omertà», accusarono Antonio Fantoni e Ferdinando Aiuti, famosi per le ricerche sull’Aids, «tutti i docenti sanno che le cose funzionano così ma la maggior parte dei nostri colleghi non protesta perché è d’accordo con questo sistema». Fenomenale l’intervento di Luigi Frati: «È un problema di moralità che non riguarda solo i concorsi universitari, ma la società intera». Pochi anni dopo, eletto rettore, si sarebbe circondato di tutta la famiglia: moglie, figlio, figlia...
Cervelli fuggiti. «Nonostante la retorica dei “pochi episodi di malcostume”», ha scritto Roberto Perotti nel libro L’Università truccata, «tutti i professori dell’università italiana sanno di decine di concorsi truccati, e moltissimi vi hanno partecipato, spesso acconsentendo loro malgrado a promuovere il protetto del barone locale per riuscire a promuovere in cambio almeno un candidato serio». Una scusa per tacitare la coscienza. «Come nelle società mafiose, l’omertà e la connivenza di fatto imposte alla maggioranza degli onesti non sono percepite come atto di complicità, ma come sacrificio personale per evitare guai peggiori ad altre persone». Ma perché tante università, con luminose eccezioni, ovvio, si sono riempite negli anni di figuri di statura modesta o modestissima invece che di fuoriclasse, costretti a emigrare all’estero? Possibile che un giovane cervello come Clemente Marconi, come ha raccontato il nostro Marco Imarisio, riceva lo stesso giorno un rifiuto («Gentile collega, siamo giunti alla conclusione che Lei non possiede i requisiti...») dall’ateneo di Palermo e la lettera di assunzione della Columbia di New York? Perché per anni troppe università, per fare un paragone calcistico, hanno rinunciato a prendere Ronaldinho preferendogli un brocco tirato su nel cortile di casa?
Villautarchia. La risposta, spiegano ne Lo splendido isolamento dell’università italiana Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri e ancora Perotti, è questa: «La “squadra” di Villautarchia non gioca un campionato, ma solo amichevoli, spesso truccate; riceve un contributo fisso dalla federazione indipendentemente dai risultati; e gli spettatori di Villautarchia non hanno alternative: o vanno allo stadio locale, o non vedono partite di calcio. Prendere Ronaldinho scombussolerà la tranquilla vita dei giocatori, che si allenano solo una volta alla settimana; toglierà la leadership della squadra al vecchio capitano quarantenne; e farà risaltare l’inadeguatezza dell’allenatore... Perché crearsi tutti questi problemi, quando prendendo un giocatore di serie C si fa piacere a un dirigente locale, che è amico del sindaco in scadenza e che farà vincere il presidente del Villautarchia alle prossime elezioni comunali?».
Impuniti. Fatto è che il nuovo scandalo è sale sulle ferite di tantissimi ordinari, associati, ricercatori perbene che fanno il loro mestiere davvero con dedizione, disciplina, onore e vivono malissimo questi scandali. Tanto più che anche chi viene condannato se la cava con un buffetto. Il caso simbolo è quello di un concorso per Otorinolaringoiatria. Bandito nel 1988, vinto da sedici parenti o raccomandati, sanzionato da condanne in Assise, in Appello e in Cassazione (tredici anni dopo i fatti) non fu mai seguito da provvedimenti seri. Non solo restarono tutti impuniti sulle loro cattedre (nonostante le «plurime e prolungate condotte criminose» denunciate nelle sentenze) ma qualche anno dopo il direttore generale del Miur, Antonello Masia, mise per iscritto che «l’annullamento di un atto non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità, ma deve tener conto della sussistenza di un interesse pubblico». Tutti salvi. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto, scurdammoce ‘o passat’...
Concorsi truccati, Adi: "Succede in tutti i settori, dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione". Il segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, Giuseppe Montalbano, non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario: "Sfogarsi cercando di restare è impossibile", scrive Giorgia Pacino il 26 settembre 2017 su "La Repubblica". "Succede in tutti i settori accademici in modo trasversale e in tutta la filiera del precariato della ricerca. Dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione nazionale". Giuseppe Montalbano è segretario nazionale dell'Adi, l'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università, partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario.
Ha letto il racconto del ricercatore di Firenze?
"Una storia come quella non è affatto nuova, non è la prima volta che ci vengono segnalati casi di questo genere. Attenzione: non tutti i docenti sono baroni. Delle nicchie in cui prevale trasparenza e merito ci sono. È vero, però, che in molti settori avere un professore che ha seguito un candidato per anni e vuole investire su di lui costituisce un canale di accesso preferenziale".
Quant'è diffuso il sistema?
"Parecchio. È un problema con radici strutturali che affondano nella ricattabilità dei ricercatori precari, il prodotto di un sistema che come Adi denunciamo da sempre. La ricattabilità è stata introdotta con la riforma Gelmini, portata avanti con la promessa di sgominare i baroni. Non solo i baroni sono rimasti al loro posto, ma, introducendo una serie di figure contrattuali precarie, tagliando le risorse e dando più potere a chi tiene i cordoni della borsa e controlla l'accesso ai bandi - per di più limitati con il blocco del turn over - alla fine la riforma ha rafforzato quelle stesse baronie che a parole intendeva combattere".
Va cambiato il metodo di selezione?
"Un sistema così complesso, fatto di tanti indicatori e passaggi, è insufficiente rispetto alle necessarie garanzie di trasparenza. Va riformato coinvolgendo tutta la comunità accademica, a partire proprio dai segmenti meno tutelati come i ricercatori precari. Alla base, però, c'è sempre il sottofinanziamento che fa da cornice a tutto il resto. È giusto intervenire sui meccanismi di reclutamento e sulla trasparenza dei concorsi, ma bisogna prima affrontare il nodo del finanziamento e dello sblocco del reclutamento. Perché se i posti sono sempre meno e le opportunità per i giovani ricercatori si restringono, cresce la loro ricattabilità".
Allora aumentano i ricorsi?
"Per fortuna tanti colleghi, con parecchio coraggio, hanno la volontà di contestare decisioni di tipo arbitrario, spesso mettendo a repentaglio la loro stessa carriera. Si sta diffondendo una certa capacità di rispondere ai torti subiti, innanzitutto attraverso il ricorso. Di certo sono meno quelli disposti a denunciare alle autorità".
Il problema resta la prova.
"Quella spetta alle autorità. Consiglierei di prendere tutte le precauzioni possibili e raccogliere la la documentazione, anche attraverso strumenti come le registrazioni o altre modalità per dimostrare cos'è avvenuto. Sarebbe la prova migliore, certo, ma quando si fa un concorso dotarsi di microfoni non è la prima preoccupazione di un candidato. Riceviamo molte segnalazioni in forma confidenziale o anonima. Ma una cosa è una denuncia, un'altra una lettera di sfogo di chi magari decide di abbandonare il mondo dell'università. Il problema è che sfogarsi cercando di restare diventa impossibile".
"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un dottore di ricerca spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio il 16 marzo 2015 su "La Repubblica". Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni, “che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente. Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”. Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. Sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.
Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.
Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.
Libri universitari. Self–publishing. “Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.
Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.
Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.
Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.
E poi avviene l’apoteosi dell’ipocrisia. Marmaglia di italiani, vincitori di concorsi truccati ed abilitati con esami di Stato truccati, che inneggiano alla legalità.
Concorsi truccati, la Rete incorona l’uomo della denuncia: «È l’italiano di cui il Paese ha bisogno». Philip Laroma Jezzi, 49 anni, è il ricercatore dell’università di Firenze che ha fatto scoppiare il caso. Sui social Network decine i commenti di ringraziamento e ammirazione. E c’è anche chi lo propone come ministro dell’Istruzione, scrive Paolo Decrestina, su "Il Corriere della Sera" il 26 settembre 2017. La Rete lo ha scelto come l’italiano di cui l’Italia ha bisogno. La sua denuncia e le sue registrazioni, che a Firenze hanno dato il via all’inchiesta per i concorsi truccati e le assegnazioni di cattedre, hanno mosso l’interesse e il sentimento di “onestà” del web. Perché Philip Laroma Jezzi, il ricercatore che ha fatto esplodere il caso, è oggetto da qualche ora di commenti e ringraziamenti sui social network.
I commenti su Facebook. Dopo gli arresti di sette docenti il ricercatore ha preferito non parlare dei dettagli del caso. Neanche in Rete, per il momento, ha pubblicato qualcosa in merito. Ma la sua pagina Facebook riceve comunque decine commenti, e tutti pubblicati nelle ultimissime ore. Al post più recente, che è dello scorso 12 settembre (una petizione che non ha nulla a che fare con Firenze) stanno arrivando risposte che invece si riferiscono proprio alla denuncia e al suo “coraggio”. «Grazie Philip! L’Italia ha bisogno di cittadini come te», scrive Andrea. «Le persone oneste sono tutte con te! Hai tutta la mia stima e te lo dice uno che ha pagato sulla sua pelle comportamenti come il tuo», commenta Vito. E poi ancora: «Stima e ringraziamenti sinceri. Da cittadino», «Ho profonda stima di te... è l’ora di reagire perché in gioco c’è quello che siamo ed il nostro futuro..ti sono vicino».
Su Twitter. Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese e un posto al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze, non ha un personale profilo su Twitter. Ma anche l’altro colosso dei social network, come Facebook, lo celebra. L’inchiesta di Firenze è tra le più discusse, tanto che l’hashtag #concorsitruccati è tra i trend topic di Twitter. Il ricercatore viene definito “piccolo eroe”, “un esempio che tutti i meritevoli dovrebbero seguire per non accontentarsi di una mediocrità imposta”; c’è anche chi azzarda un #jesuisphilip e chi lo propone come prossimo ministro dell’Istruzione.
Concorsi truccati, arrestati 7 docenti universitari. Indagato anche Fantozzi. Chi sono i professori sotto accusa. Ventinove provvedimenti cautelari personali nei confronti di docenti universitari: ci sono anche 52 indagati, fra cui alcuni interdetti allo svolgimento delle funzioni di professore, scrive Fiorenza Sarzanini il 25 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Spartizione di cattedre universitarie e concorsi truccati: con l’accusa di corruzione sono stati arrestati e messi ai domiciliari sette docenti di importanti atenei italiani. Fra gli indagati anche l’ex ministro Augusto Fantozzi. I professori finiti in manette sono residenti uno a Milano, uno a Livorno, tre a Roma, uno a Bologna e uno a Napoli e sarebbero titolari di cattedre nelle università di Siena, Napoli, Cassino, Bologna e Castellanza (Varese). L’inchiesta, condotta dalla Procura di Firenze, guidata da Giuseppe Creazzo, è stata svolta dalla Guardia di Finanza, che all’alba di oggi ha eseguito le misure cautelari. Oltre ai 7 agli arresti domiciliari, ci sono 52 indagati e interdetti allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi) per reati di corruzione. Più di 150 perquisizioni domiciliari sono state eseguite presso uffici pubblici, abitazioni private e studi professionali. È il bilancio di un’operazione della Guardia di Finanza di Firenze che ha dato esecuzione ad una vasta operazione di polizia giudiziaria su tutto il territorio nazionale. Nei confronti di altri 7 docenti universitari, il gip di Firenze si è riservato la valutazione circa l’applicazione della misura interdittiva all’esito dell’interrogatorio degli stessi. Le misure coercitive sono state disposte dal gip del Tribunale di Firenze, Angelo Antonio Pezzuti, su richiesta della locale Procura della Repubblica, a seguito di articolate investigazioni svolte dai finanzieri del nucleo di Polizia tributaria di Firenze, coordinate dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal sostituto procuratore Paolo Barlucchi. Il contesto investigativo dell’operazione denominata «Chiamata alle armi» ha preso le mosse dal tentativo di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore universitario, candidato al concorso per l’Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento in Diritto tributario, a «ritirare» la propria domanda, per favorire un terzo soggetto in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, promettendogli che si sarebbero adoperati con la competente Commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata. Gli approfondimenti investigativi hanno consentito di accertare sistematici accordi corruttivi tra numerosi professori di diritto tributario - alcuni dei quali pubblici ufficiali in quanto componenti di diverse commissioni nazionali (nominate dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) per le procedure di abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore scientifico diritto tributario - finalizzati a rilasciare le necessarie abilitazioni secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi. I sette docenti di diritto tributario finiti agli arresti domiciliari sono: Guglielmo Fransoni, tributarista di uno studio fiorentino e professore a Lecce; Giuseppe Zizzo (Università Carlo Cattaneo di Castellanza, Varese); Fabrizio Amatucci, professore a Napoli; Alessandro Giovannini (Università di Siena); Giuseppe Maria Cipolla (Università di Cassino); Adriano Di Pietro (Università di Bologna); Valerio Ficari (professore a Sassari, supplente a Tor Vergata-Roma).
Firenze, concorsi truccati: arrestati sette docenti universitari. Maxi operazione per un'inchiesta della procura: 150 perquisizioni in tutta Italia. Per altri 22 professori è scattata l'interdizione dall'insegnamento per un anno. L'ipotesi d'accusa è corruzione. Tra gli indagati anche l'ex ministro Fantozzi. L'elenco completo dei 44 nomi, scrivono Massimo Mugnaini e Franca Selvatici il 25 settembre 2017 su "La Repubblica", ha collaborato Gerardo Adinolfi. “Sistematici accordi corruttivi tra professori di diritto tributario finalizzati a rilasciare le abilitazioni all'insegnamento secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi”. Sulla base di questa ipotesi accusatoria della procura di Firenze, i finanzieri hanno eseguito stamani 29 misure cautelari a carico di altrettanti docenti universitari di diritto tributario su tutto il territorio nazionale: 7 sono finiti agli arresti domiciliari, 22 interdetti dall'attività per 12 mesi, quindi non possono insegnare. Tra loro anche dei componenti delle commissioni ministeriali nominate dal Miur per i concorsi in quella disciplina giuridica. Per altri 7 docenti il gip Angelo Antonio Pezzuti valuta altre misure cautelari. Eseguite anche 150 perquisizioni da parte di 500 finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Firenze. Gli indagati sono complessivamente 59. L'accusa per tutti è corruzione. Tra gli indagati anche l'ex ministro Augusto Fantozzi. "Il professore è completamente e indubitabilmente estraneo ai fatti in contestazione in primo luogo perché era già andato in pensione all'epoca degli avvenimenti oggetto di indagine. La sua integrità è altresì testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica", ha affermato l'avvocato Antonio D'Avirro, difensore di Fantozzi. "Il professore - prosegue l'avvocato - sarà lieto di fornire tutti i chiarimenti necessari nell'incontro con i magistrati, che auspica possa avvenire il prima possibile". L'indagine, spiegano gli inquirenti, è nata a Firenze dal tentativo di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore, candidato al concorso per l’abilitazione all’insegnamento nel settore del diritto tributario, a “ritirare” la propria domanda, allo scopo di favorire un altro ricercatore in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, promettendogli che si sarebbero adoperati con la competente commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata. E' stato il ricercatore universitario a far partire l'inchiesta con la sua denuncia. I vincitori del concorso nazionale venivano scelti con una "chiamata alle armi" tra i componenti della commissione giudicante, e non in base a criteri di merito. Secondo quanto emerso, in un'intercettazione uno dei docenti, componente della commissione giudicante, affermerebbe di voler favorire il suo candidato, contrapposto a quello di un collega, esercitando la sua influenza con una vera e propria "chiamata alle armi" rivolta agli altri commissari a lui più vicini. "Fatto sorprendente che deve far riflettere sulla situazione dell'Università oggi", ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella.
I docenti arrestati. I sette arrestati sono Guglielmo Fransoni, tributarista dello studio Russo di Firenze e professore a Foggia ma anche ex collaboratore di Stefano Ricucci, Fabrizio Amatucci, professore di Napoli, Giuseppe Zizzo, dell'università Carlo Cattaneo di Castellanza (Varese), Alessandro Giovannini, dell'università di Siena, Giuseppe Maria Cipolla dell'università di Cassino, Adriano Di Pietro dell'università di Bologna, Valerio Ficari, ordinario a Sassari e supplente a Tor Vergata a Roma.
I docenti interdetti Massimo Basilavecchia dell'Università Luiss di Roma, Mauro Beghin dell'Università di Padova, Pietro Boria della Sapienza di Roma, Andrea Carinci dell'Università di Bologna, Andrea Colli Vignarelli dell'Università di Messina, Roberto Cordeiro Guerra, ordinario di diritto tributario a Firenze e nel cda di Starhotels, Giangiacomo D'Angelo dell'Università di Bologna, Lorenzo Del Federico dell'Università di Chiati, Eugenio Della Valle dell'Università Sapienza di Roma, Maria Cecilia Fregni dell'Università di Modena e Reggio Emilia, Marco Greggi dell'Università di Ferrara e consulente ufficiale della commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna nonché docente presso la Scuola superiore della Magistratura, Giuseppe Marino dell'Università di Milano, delegato di Confindustria presso l'Ocse, Daniela Mazzagreco dell'Università di Palermo, Francesco Padovani dell'Università di Pisa, Maria Concetta Parlato dell'Università di Palermo, Paolo Puri dell'Università del Sannio, Livia Salvini della Luiss Guido Carli di Roma, Salvatore Sammartino dell'Università di Palermo, Pietro Selicato della Sapienza di Roma, Thomas Tassani dell'Università di Bologna, Loris Tosi dell'Università di Venezia Ca' Foscari, Francesco Tundo dell'Università di Bologna.
I docenti per i quali il gip si è riservato la valutazione dell'interdizione all'esito dell'interrogatorio. Augusto Fantozzi, ex ministro e dal 2009 rettore dell'Università Giustino Fortunato di Benevento. Andrea Fedele, Giovanni Eugenio Marongiu, Andrea Parlato, Pasquale Russo, Francesco Tesauro, Carlos Maria Lopez Espadafor.
I docenti indagati per i quali il gip ha rigettato la richiesta di misure cautelari. Roberta Giuseppina Antonietta Alfano, Angelo Contrino, Manlio Ingrosso, Giuseppe Marini, Andrea Mondini, Maria Pia Nastri, Giovanan Petrillo, Claudio Sacchetto.
Nell'inchiesta era coinvolto anche il professor Victor Uckmar, che è morto alla fine del 2016 e quindi è uscito dalle indagini.
Dall'ex collaboratore di Ricucci agli avvocati delle grandi aziende: chi sono i sette docenti arrestati per i concorsi truccati. Il più noto alle cronache è Guglielmo Fransoni, avvocato d'affari e collaboratore di Stefano Ricucci. Nell'elenco anche docenti di Bologna, Cassino, Tor Vergata e Napoli, scrive il 25 settembre 2017 "La Repubblica". Tra i sette arrestati nell'inchiesta della procura di Firenze sui concorsi truccati all'Università il più noto alle cronache è probabilmente Guglielmo Fransoni, 53 anni, professore ordinario all’università di Foggia. Laureato in giurisprudenza oltre che in economia e commercio, Fransoni, avvocato d'affari, è stato uno dei più stretti collaboratori di Stefano Ricucci: nel febbraio 2005 il professore fu bloccato al confine con la Svizzera, a Ponte Chiasso, mentre in compagnia di Luigi Gargiulo, altro stretto collaboratore di Ricucci, cercava di portare in Italia una valigetta piena di titoli e di documenti relativi alle società off shore dell'immobiliarista romano.
Alessandro Giovannini, laureato all'università di Pisa, a Siena è professore universitario di diritto tributario, ha scritto otto monagrafie, oltre a saggi e voci di enciclopedie del settore, svolge libera professione e siede in consigli di amministrazione di aziende di primo piano. Così come del resto fanno anche gli altri arrestati.
Giuseppe Maria Cipolla è avvocato e professore ordinario di diritto tributario presso la facoltà di giurisprudenza dell’università degli studi di Cassino dove insegna anche sistemi fiscali comparati e di diritto tributario degli enti locali. Nel curriculum, oltre a pubblicazioni e vari incarichi, annovera l’esperienza di membro della commissione esaminatrice del concorso per il conferimento di 162 posti di dirigente nel ruolo del Ministero delle finanze e delle commissioni di esami istituite dal Ministero della Giustizia per l’abilitazione all’esercizio della professione di dottore commercialista e per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato.
Fabrizio Amatucci svolge la libera professione ed è professore ordinario di diritto tributario presso la Seconda università di Napoli, incaricato di diritto finanziario nella facoltà di Giurisprudenza dell’università di Napoli Federico II. E’ stato direttore del dipartimento di scienze giuridiche della seconda università di Napoli II. Alberto Di Pietro, anche lui campano, è ordinario di diritto tributario alla facoltà di giurisprudenza dell'Alma Mater Studiorum dell’università di Bologna e docente nel Master in diritto tributario dell'università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Ordinario di diritto tributario presso l'Università di Sassari e supplente presso l'Università di Roma "Tor Vergata", Valerio Ficari è autore di numerose monografie. Ha redatto circa centocinquanta tra articoli, note e sentenze in materia tributaria, oltre a essere curatore di opere collettanee in materia tributaria.
Infine Giuseppe Zizzo, avvocato tributarista con studio a Milano in zona Conciliazione e professore ordinario di diritto tributario all'Università Liuc di Castellanza (Varese).
Università, concorsi truccati a Firenze. Arrestati sette docenti, 22 interdetti, scrive il 25 settembre 2017 Il Secolo XIX. Sette docenti universitari sono stati arrestati per reati corruttivi dalla Guardia di Finanza di Firenze, nell’ambito di un’inchiesta su concorsi truccati. Le misure sono scattate a seguito di un’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari, disposta dal gip su richiesta dei pm fiorentini Luca Turco e Paolo Barlucchi. Sei indagati anche a Bologna. Oltre all’arresto del professor Adriano Di Pietro, insegnante di diritto tributario e finanziario, ai domiciliari, i finanzieri della polizia tributaria hanno eseguito anche due misure interdittive a carico di altrettanti docenti dell’ateneo. Una decina le perquisizioni, tra abitazioni, studi e uffici universitari. Secondo quanto spiegato, le indagini sono partite dal presunto tentativo da parte di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore, candidato al concorso per l’abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore del diritto tributario, a ritirare la propria domanda, allo scopo di favorire un altro ricercatore, in possesso di un curriculum notevolmente inferiore, promettendogli in cambio l’abilitazione nella tornata successiva. Le indagini, spiega la GdF in una nota, hanno consentito di accertare «sistematici accordi corruttivi tra numerosi professori di diritto tributario», - alcuni dei quali pubblici ufficiali poichè componenti di diverse commissioni nazionali nominate dal Miur -, finalizzati a rilasciare abilitazioni «secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori», per soddisfare «interessi personali, professionali o associativi». Questa mattina i finanzieri hanno eseguito oltre 150 perquisizioni domiciliari in uffici pubblici, abitazioni private e studi professionali. Per 7 docenti che figurano tra gli indagati il gip Antonio Pezzuti si è riservato la valutazione circa la misura interdittiva dalla professione all’esito dell’interrogatorio. Ai domiciliari sono finiti Fabrizio Amatucci, docente alla Federico II di Napoli, Giuseppe Maria Cipolla (Università di Cassino), Adriano di Pietro (Università di Bologna), Alessandro Giovannini (Università di Siena), Valerio Ficari (Università di Roma 2), Giuseppe Zizzo (Università Carlo Cattaneo di Castellanza, Varese), Guglielmo Fransoni (Università di Foggia). Tra i 59 indagati, invece, anche l’ex ministro Augusto Fantozzi. Per Fantozzi, anche lui docente di diritto tributario, i pm Paolo Barlucchi e Luca Turco hanno chiesto l’interdizione e il gip, Antonio Pezzuti, si è riservato la decisione all’esito dell’interrogatorio, che verrà fissato nei prossimi giorni. Altri 22 sono stati colpiti dalla misura dell’interdizione dalle funzioni di professore universitario e da quelle connesse ad ogni altro incarico accademico per la durata di 12 mesi. Nell’inchiesta, che riguarda tutto il territorio nazionale, risultano indagate complessivamente 59 persone.
La “regola del do ut des”: ovvero lo scambio di favori. Sarebbero stati scelti in base alla regola del “do ut des”, uno scambio di favori tra commissari, i vincitori del concorso per l’abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore del diritto tributario. Secondo quanto emerso, intercettazioni eseguite nel corso delle indagini condotte dalla guardia di finanza, che hanno portato all’arresto di 7 docenti, tra i commissari vigeva un «patto», un accordo per scambiarsi reciprocamente i voti e favorire i candidati sponsorizzati da ciascuno.
Le intercettazioni. «Non è che non sei idoneo... Non rientri nel patto», questa la frase, secondo quanto si legge nelle carte dell’inchiesta, che un ricercatore dell’Università di Firenze, la cui denuncia ha fatto scattare le indagini, si sarebbe sentito rivolgere da un docente dell’Ateneo fiorentino, che lo invitava a ritirarsi dal concorso, il cui superamento è necessario per l’accesso ai bandi da docente di prima e seconda fascia. In cambio sarebbe stato promosso alla tornata successiva. «Non sei nella lista», afferma il professore durante il colloquio, invitando il ricercatore a ritirare la candidatura e spiegandogli che non sarebbe stato comunque scelto. «Non siamo sul piano del merito - spiega -, ognuno ha portato i suoi». Il docente accusa poi il ricercatore di non rispettare «il vile commercio dei posti». Dalle indagini emerge che l’esito dei concorsi sarebbe stato regolato da una mera logica di spartizione territoriale: commissario riceveva l’ok all’abilitazione del proprio protetto - di solito un allievo o associato del proprio studio professionale - solo promuovendo i candidati sponsorizzati dagli altri.
Firenze, concorsi truccati: ecco come funziona l'abilitazione scientifica nazionale. A giudicare i candidati è una commissione di cinque membri sorteggiati tra i professori ordinari di quel settore, scrive Valeria Strambi il 25 settembre 2017 su "La Repubblica". Alcuni professori avrebbero indotto un ricercatore dell'Università di Firenze a ritirare la propria domanda di partecipazione al concorso per l'abilitazione scientifica nazionale all'insegnamento di diritto tributario per fare posto a un altro candidato. Ma come funziona il meccanismo dell'abilitazione? Se in passato esistevano concorsi a livello locale, ora la procedura è nazionale. Esistono due fasce distinte, sia quella per il passaggio da ricercatore a professore associato, sia quella per passare da associato a ordinario. La commissione che decide se un candidato ha diritto o meno all'abilitazione viene individuata attraverso un sorteggio tra i professori ordinari di tutta Italia che operano in quel preciso settore. Per poter essere sorteggiato occorre avere un curriculum di un certo livello e aver soddisfatto determinati criteri (ad esempio aver pubblicato un numero minimo di articoli entro un periodo di tempo). Una volta entrati nella lista dei sorteggiabili, avviene l'estrazione e si formano le commissioni, composte da cinque docenti. A questo punto i candidati interessati a ottenere l'abilitazione presentano la domanda corredata da curriculum. La commissione valuta i titoli e poi indica, con un "sì" o con un "no" i nomi di coloro che sono abilitati. Non c'è un limite di abilitati, in teoria tutti, se hanno i requisiti, possono superare la prova. Ma non è finita: il ricercatore che ha in tasca l'abilitazione, che comunque ha una scadenza e non dura per sempre, se vuole ottenere un posto da professore in un'università deve partecipare a un concorso, che può essere chiuso e quindi solo tra interni a quell'ateneo, oppure aperto anche a candidati esterni che si sono abilitati in altre università. I finanziamenti sono limitati e i posti disponibili sono sempre pochi. C'è quindi il rischio che l'abilitazione ottenuta scada prima che il ricercatore sia riuscito a entrare.
Università e concorsi truccati: inchiesta sui “cinque saggi”, scrive il 5 ottobre 2013 Il Secolo XIX. Avrebbero pilotato decine di concorsi universitari dal 2006 al 2011 creando una sorta di circoli privati all’interno dei quali si decideva il destino degli aspiranti docenti attraverso accordi, scambi di favori, sodalizi e patti di fedeltà. L’inchiesta della procura di Bari è ormai alle battute finali dopo l’informativa conclusiva depositata dalla Guardia di Finanza nel maggio scorso e ora al vaglio dei pm Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli. Negli atti dei finanzieri spuntano i nomi di noti costituzionalisti, di un ex ministro, dell’ex garante della Privacy e di cinque dei “saggi” incaricati di supportare il governo nella definizione delle riforme costituzionali. Il loro coinvolgimento emergerebbe dal contenuto di alcune intercettazioni telefoniche. Nel dettaglio, risulterebbero coinvolti l’ex ministro Anna Maria Bernini, l’ex Garante della Privacy Francesco Maria Pizzetti, e i “saggi” Augusto Barbera, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar e Lorenza Violini. Sono 38, complessivamente, i docenti universitari di cui parla l’informativa della Gdf con riferimento a decine di concorsi per docenti di prima e seconda fascia in diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. Nel fascicolo, aperto nel 2008 e vicino alla chiusura - l’ultima proroga delle indagini risale al 21 dicembre 2012 - la Procura di Bari ipotizza, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, falso e truffa. Nell’ambito di questa indagine, nel marzo 2011 sono state eseguite perquisizioni in 11 città (Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo), a carico di 22 docenti. Gli accertamenti della Gdf si sono, però, avvalsi soprattutto di intercettazioni telefoniche. Da alcune di questa sarebbe emersa persino l’intenzione, da parte di alcuni indagati, di esercitare pressioni sull’allora ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini, per ostacolare la riforma dell’Università, poi approvata in via definitiva nel dicembre 2010. Dell’opportunità di “convincer” il Governo a rivedere quella riforma, i docenti avrebbero parlato tra di loro al telefono, ignari che ad ascoltarli ci fossero i militari della Guardia di Finanza. La riforma universitaria cui si fa riferimento è quella che riguardava, tra le altre cose, l’adozione di un codice per evitare incompatibilità e conflitti di interesse legate a parentele. La riforma modificava, inoltre, le procedure di valutazione degli aspiranti professori universitari di prima e seconda fascia e dei ricercatori attraverso l’introduzione di criteri di sorteggio per i membri delle commissioni esaminatrici, con lo scopo -dichiarato - di impedire la rideterminazione dell’esito dei concorsi. Gli accordi tra i “baroni” sarebbero avvenuti, stando sempre alle intercettazioni telefoniche, anche durante congressi nazionali in cui i referenti di ciascun ateneo potevano incontrarsi e dare indicazioni su svolgimento ed esito delle prove. Non un’unica cabina di regia, dunque, ma una rete di favori incrociati.
Scambio di favori tra docenti. Cattedre e concorsi truccati, scrive il 31 marzo 2011 Il Secolo XIX. Favori, sodalizi e «patti di fedeltà», in cambio di cattedre ottenute truccando i concorsi. Così funziona la lobby affaristica di docenti universitari sulla quale la Procura di Bari ha aperto un’inchiesta. Nel mirino dei magistrati - che ieri hanno emesso i primi avvisi di garanzia - non ci sono però solo professori pugliesi.
Le perquisizioni dei finanzieri, incaricati dalla Procura, hanno riguardato docenti delle più prestigiose università d’Italia. Tra questi Giuseppe Ferrari, ordinario di Diritto pubblico e comparato dell’Università Bocconi, e Giuseppe Casuscelli e Enrico Vitali, entrambi docenti di Diritto canonico ed ecclesiastico all’Università Statale di Milano. Mentre risultano indagati, quattro docenti che insegnano a Milano, tre a Napoli, due a Roma, due a Piacenza e due a Reggio Calabria; uno a Bologna, a Firenze, Macerata, Teramo e Messina. Tutti i professionisti finiti sotto inchiesta - secondo quanto ipotizzato dai pm Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli - avrebbero manipolato «l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite» attraverso «accordi, scambi di favore, sodalizi e patti di fedeltà». I docenti baresi (componenti delle commissioni giudicatrici), destinatari dell’avviso di garanzia, sono invece Aldo Loiodice, docente di diritto costituzionale alla facoltà di giurisprudenza; Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Roberta Santoro della facoltà di Scienze politiche e Maria Luisa Lo Giacco, ricercatrice di diritto ecclesiastico. Ventidue gli avvisi di garanzia notificati nella ieri e decine di perquisizioni in uffici e abitazioni private sono state eseguite dalla guardia di Finanza nella facoltà barese di Giurisprudenza e poi ancora negli Atenei di mezza Italia. Pesanti le contestazioni dei magistrati: associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, falso ideologico e abuso d’ufficio. I fatti riguarderebbero la presunta manipolazione di concorsi pubblici dal 2006 ad oggi per docenti di prima e seconda fascia. Le indagini sono partite nel 2008 in seguito alla denuncia di una ricercatrice che non superò il concorso. Da qui si sono addensati sospetti sulle prove di diritto ecclesiastico e diritto costituzionale. L’indagine è solo alla battute iniziali. Si tratta della tranche di una più ampia inchiesta che coinvolge altri Atenei. Lo scandalo dei concorsi truccati e della compravendita di esami a Bari fece clamore due anni fa con il caso battezzato Esamopoli scoppiato nella facoltà di Economia e commercio. Il 12 gennaio di quest’anno è cominciato il processo: 32 imputati. Tra loro ci sono docenti, dipendenti, studenti e genitori. Le indagini avrebbero accertato l’esistenza di un’organizzazione gestita soprattutto dai bidelli, che ritiravano le bustarelle dagli studenti e facevano da tramite con i professori. Un giro d’affari da 50mila euro in 8 mesi, con un costo tra i 700 e i 3.000 euro per ogni esame superato. Clienti tipo erano studenti fuori corso o stranieri, soprattutto greci, che per concludere in breve gli esami avrebbero preferito comprarli.
Le indagini sono state fatte dalla Guardia di Finanza…
Allievo maresciallo GdF: «Trucco il concorso se mi dai 40 mila euro». Intercettazioni: qui si entra solo così. Cinque persone arrestate: due sottufficiali della Guardia di Finanza, due imprenditori e un dipendente della scuola nazionale dell’amministrazione di Caserta, scrive Titti Beneduce il 24 marzo 2015 su "Il Corriere della Sera". Promettevano il superamento del concorso in cambio di denaro. Con quest’accusa sono stati arrestati un sotto ufficiale ed un ex sotto ufficiale della Guardia di Finanza. Per altre due vicende illecite sono finiti in manette anche due imprenditori e un dipendente della scuola nazionale dell’amministrazione di Caserta. Tre, dunque, gli illeciti accertati. Il più grave è relativo al concorso per allievi marescialli della Guardia di Finanza dello scorso anno. I due sottufficiali arrestati, Bruno Corosu e Ciro Del Giudice, ex militare della Gdf, ex assessore al Comune di Pozzuoli, oggi ristoratore, avrebbero ricevuto 40.000 euro dal padre di un candidato in cambio del superamento del concorso. La Procura aveva ipotizzato la corruzione, ma secondo il gip si tratta di millantato credito. Le indagini sono state svolte dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza con il coordinamento del procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli e dal sostituto Henry John Woodcock. L’inchiesta è partita da un servizio televisivo delle Iene: nel ristorante che Del Giudice gestisce a Pozzuoli, un giornalista si finse aspirante finanziere e chiese aiuto al ristoratore il quale accettò di intervenire in cambio di denaro.
Riforma Gelmini, inefficace contro i concorsi accademici truccati, ma almeno utile contro parentopoli? Macchè!! Da “Il Messaggero” e dal “Il Corriere della Sera” un ampio resoconto.
Per qualcuno potrebbe essere l’ultimo colpo di coda di parentopoli. Per altri la continuazione di una saga inarrestabile che si tramanda di padre in figlio passando per i nipoti (rare volte spingendosi fino ai trisavoli). E’ successo, dunque a poche ore dalla verosimile approvazione da parte del Senato della legge Gelmini che prevede la proibizione di chiamate universitarie per parenti di dirigenti accademici fino al IV grado.
Università Roma 2, Ateneo di Tor Vergata, quello della spianata, che ospitò la Giornata mondiale della gioventù nel Giubileo 2000. La grande croce è sempre lì. Il rettore no, è cambiato. Da quasi due anni c’è Renato Lauro, 71 anni, preside della Facoltà di Medicina eletto con 727 preferenze. La stessa università che ha chiamato come professore associato alla cattedra di Malattie dell’apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani. Chi è? E’ la nuora del rettore. Il posto che arriva in zona Cesarini delimita un’epoca. A ridosso del Natale, sotto l’albero, riunisce suocera, figlia e nuora, in pratica mezza famiglia. Nella stessa facoltà e nello stesso dipartimento infatti c’è anche il marito della signora, nonché figlio del rettore, Davide Lauro, 41 anni, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre. E ci sarebbe anche il “nipote”, il dottor Alfonso Bellia, ricercatore di medicina interna. Ma il Magnifico nega quest’ultimo ramo di parentela. «Con il professor Bellia - chiarisce una volta per tutte - non c’è nessun legame neanche leggero di parentela, mi viene attribuito solo perché è siciliano come me». Già. In fatto di parentopoli non esiste una geografia. I legami travalicano qualsiasi confine, le nostre regioni, così diverse tra loro, nel malcostume etico si somigliano più o meno tutte. Renato Lauro, preside della facoltà di Medicina dal 1996 al 2008, oltre a essere rettore e anche direttore del dipartimento clinico di Medicina, quello nel quale lavorano i suoi congiunti, del Policlinico Tor Vergata. La nuora chiamata in cattedra in extremis. Come lo spiega? «Lei scherza? Sono concorsi regolarmente banditi nel 2008, quando io non ero ancora rettore. Inoltre, faccio notare che la legge Gelmini, non ancora approvata, non abolisce i professori, stabilisce solo che i ricercatori sono una qualifica ad esaurimento». «Per gli stessi bandi - continua il rettore - sono stati chiamati già una ventina di vincitori di concorso. Ma vincere non vuol dire prendere servizio visto che ci sono, come è noto, problemi di budget».
In altri punti la legge Gelmini potrebbe prestarsi ad interpretazioni.
Su questo punto è chiara: prevede che nelle assunzioni per ordinario e associato siano esclusi i consanguinei dei professori appartenenti al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata. Di docenti ma anche di rettori, direttori generali e consiglieri di amministrazione. E fissa anche un limite per i rettori: potranno rimanere in carica un solo mandato, per un massimo di 6 anni. Nel caso di Tor Vergata, se approvata la legge, Renato Lauro potrebbe avere una proroga di 2 anni dell’incarico rettoriale e restare in carica dunque fino alla quasi venerabile età di 74 anni. Di lui si parlò come «lo zio» cui faceva riferimento nelle intercettazioni l’ex direttore dei Lavori pubblici Angelo Balducci finito in carcere per gli appalti del G8 alla Maddalena. Finito in pasto ai taccuini in quei giorni “caldi”, Lauro rispose: «E allora? Sì, sono io “lo zio” di cui si parla nelle intercettazioni, ma io sono un medico, non sono Provenzano». Durante un incontro con il corpo accademico dell’Ateneo romano, il rettore era stato duramente contestato. E già in passato era finito nell’elenco dei parentopolati per la chiamata del figlio Davide, vincitore, circa 4 anni fa, di un concorso di professore ordinario, non di Medicina interna, ma di tecnologie biomediche, poi passato in endocrinologia. Lauro commenta: «Mio figlio se n’era andato negli Usa a studiare e lì stava benissimo. Basta guardare il suo curriculum per mettere tutti a tacere. Stesso dicasi per gli altri professori associati che hanno vinto i concorsi del 2008: controllate, sono tutti figli di nessuno».
Vigilia dell'approvazione della riforma Gelmini, ultimi colpi di coda dei Baroni. Infatti ecco che spuntano nuove assunzioni e promozioni di parenti negli atenei La Sapienza e Tor Vergata. I protagonisti: i familiari dei rettori: Luigi Frati e Renato Lauro. A poche ore dall'approvazione del ddl università, che impone lo stop alle parentopoli (purtroppo solo attraverso un emendamento dell'ultim'ora) che vieta a padri, figli e parenti di stare negli stessi dipartimenti, sembrerebbe che nei due atenei capitolini si pensi di più a sistemare le famiglie che ai problemi dell'università.
SAPIENZA - Alla Sapienza, Giacomo, 36 anni appena, figlio del rettore Luigi Frati, sta passando da professore associato a quello di ordinario. Le procedure formali sono andate in porto il 19 novembre 2010. Appena in tempo per schivare l'approvazione del ddl. Giacomo Frati, dunque, sarà ordinario a Medicina, la stessa facoltà dove fino a poco tempo fa insegnava la madre e dove insegna anche la sorella Paola, ordinario, laureata in Giurisprudenza. Stessa facoltà di cui il padre è stato preside per anni. Stessa facoltà dove fino a poco tempo fa, prima di andare in pensione, insegnava Storia della medicina la madre di Giacomo e Paola. Cioè Luciana Rita Angeletti, professoressa ordinaria moglie del Magnifico Frati. Proprio lei che prima di approdare nell'università del marito per occuparsi di Storia della medicina, insegnava Lettere al liceo. Quindi ci fu un momento in cui Luigi, Rita, Giacomo e Paola lavoravano allo stesso indirizzo. Anzi festeggiavano il matrimonio di quest'ultima nell'aula Grande di Patologia Generale. Oggi tutta la famiglia Frati può fregiarsi dello straordinario titolo di ordinario.
TOR VERGATA - A Tor Vergata sarebbe stata assunta come professore associato alla cattedra di malattie dell'apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani, nuora del rettore Renato Lauro, 71 anni, ex preside di Medicina e Chirurgia (stesso percorso di Frati), che respinge le accuse spiegando che i concorsi sono stati banditi «nel 2008», molto prima delle norme anti-parentopoli della Gelmini. Il rettore ha anche il figlio Davide, 41 anni, ordinario di Endocrinologia. Come il padre prima di lui.
I PRECEDENTI - Prima di Lauro era stato Magnifico per 12 lunghi anni Alessandro Finazzi Agrò che si ritrovava nella solita facoltà di Medicina e Chirurgia del suo ateneo non solo il figlio Enrico (professore associato) ma anche i nipoti di primo grado Calogero Foti e Gaetano Gigante (entrambi professori di Medicina riabilitativa con tanto di cattedra e primariato al Policlinico Tor Vergata). Mentre l’altro figlio, Ettore, è ordinario alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, tanto per dare il quadretto familiare al completo. Il binomio padri-figli non è però un'innovazione introdotta dagli ultimi rettori. Alla Sapienza Frati ha illustri predecessori: Renato Guarini prima (con le figlie Maria Rosaria e Paola Paola, e il genero Luigi Stedile nei ruoli tecnici) e prima ancora Giuseppe D’Ascenzo (con il figlio Fabrizio) tenevano famiglia in università. Insomma una tradizione che si tramanda da generazioni rettoriali.
Su "Repubblica", su "L'Espresso", su "Panorama" e su altri organi di stampa non si fa che approfondire il fenomeno del nepotismo accademico. Di seguito il riporto delle varie inchieste. Il 13 Settembre 2010 a Palermo, un ragazzo, un cervello italiano, è volato dall'ultimo piano della facoltà di Filosofia. Si è suicidato. Aveva 27 anni, si chiamava Norman Zarcone, era un dottorando in Filosofia del linguaggio e, racconta il padre, da qualche tempo era particolarmente deluso, depresso: gli avevano fatto capire, senza mezzi termini, che per lui non c'era spazio nell'università italiana. Qualche mese prima un altro ragazzo, cinque anni più giovane, Gianmarco Daniele, aveva presentato a Bari, capitale del nepotismo accademico italiano, una tesi di laurea: "L'università pubblica italiana: qualità e omonimia tra i docenti", una ricerca nata per raccontare come le università italiane siano in mano a un gruppo di famiglie. E per documentare come esista un nesso scientifico tra nepotismo e il basso livello della didattica e della ricerca. Daniele ora è all'estero, con una borsa di studio europea. Ma davvero nell'università italiana non c'è spazio per questi talenti, solo per i parenti? Quali sono le grandi dinastie di casa nostra? E a due anni dalla "svolta anti-baroni" annunciata dal ministro Maria Stella Gelmini - che ora torna a invocarla per giustificare nuovi tagli - i baronati stanno davvero segnando il passo? O sono ancora loro a comandare?
LA TOP TEN
A Bari, nella facoltà di Economia, la stessa dove si è laureato Daniele, è cambiato poco. L'economista Roberto Perotti, italiano formatosi al Mit di Boston, in un saggio del 2008 "L'università truccata" (Einaudi) aveva indicato quello come il caso limite, "tanto incredibile da raccontare in tutto il mondo". A Economia 42 docenti su 176 hanno tra loro legami di parentele, il 25 per cento, record assoluto in Italia. I leader indiscussi a Bari e in Italia nella classifica delle famiglie restano così i Massari. Commercialisti affermati, con un passato nel Partito socialista di Craxi, in cattedra hanno almeno otto esponenti, tutti economisti. Uno di loro doveva essere anche in commissione durante la laurea di Daniele, peccato che quel giorno avesse un impegno. "Abbiamo vinto tutti concorsi regolarissimi", rispondono loro, quando vengono tirati in ballo. I capostipiti della dinastia sono i tre fratelli, Lanfranco, Gilberto e Giansiro, che hanno in mano il dipartimento di Studi aziendali e giusprivatistici e, seppur nell'ombra, l'intera facoltà. Le nuove leve sono invece Antonella (ordinaria a Lecce), Stefania, Fabrizio (tutti e tre figli di Lanfranco), Francesco Saverio e Manuela. A fare concorrenza ai Massari, in facoltà, c'è la famiglia Dell'Atti (6) e quella dell'ex rettore Girone, con cinque parenti in cattedra: ci sono Giovanni e la moglie Giulia Sallustio, ormai in pensione, il figlio Gianluca, la figlia Raffaella e il genero Francesco Campobasso. A Foggia conta ancora molto la dinastia dell'ex rettore, Antonio Muscio, secondo con 7 parenti nella top ten nazionale con la new entry Alessandro, assunto nell'ultimo giorno di rettorato del papà e nella sua stessa facoltà, Agraria. Nell'ateneo lavoravano anche mamma Aurelia Eroli (dirigente amministrativa, ora in pensione), la figlia Rossana, la nipote Eliana Eroli, il genero Ivan Cincione e la sorella Pamela. A Roma le grandi casate sono due: i Dolci e i Frati. Un figlio di Giovanni Dolci, uomo chiave dell'odontoiatria italiana, è Alessandro, ricercatore a Tor Vergata. La moglie, Alessandra Marino, è ricercatrice alla Sapienza. Dove lavora anche il genero di Dolci, Davide Sarzi Amedè, marito di Chiara, a sua volta odontoiatra al Bambin Gesù. Un altro figlio di Dolci, Federico, lavora a Tor Vergata, mentre Marco è ordinario a Chieti. Accanto a papà Frati invece c'è sua moglie Luciana Angeletti e sua figlia Paola (insegnano a medicina, ma non sono medici) e il figliolo Giacomo. Sempre molto forti le famiglie a Palermo, come aveva avuto modo di accorgersi Norman Zarcone. Il record è dei Gianguzza, cinque tra Scienze e Medicina. Ma le dinastie palermitane sono cento, sparse in tutte le facoltà, per un totale di 230 docenti "imparentati". Economia è il regno dei Fazio (Vincenzo, Gioacchino, Giorgio), a Giurisprudenza ci sono i Galasso (Alfredo, il figlio Gianfranco, la nuora Giuseppina Palmieri), a Lettere i Carapezza (i fratelli Attilio e Marco, ora associato, il cugino Paolo Emilio, suo figlio Francesco), a Ingegneria (18 famiglie, 38 parenti) i Sorbello o gli Inzerillo, a Matematica i Vetro (Pasquale, la moglie Cristina, il figlio Calogero), Agraria è nelle mani di 11 nuclei familiari. Coincidenze statistiche? Davvero è così nel resto d'Italia e in tutta Europa?
LA RICERCA
Secondo i dati raccolti nella tesi di Daniele, no. Lo studente ha infatti sviluppato un indice medio che misura la percentuale di omonimia in ogni facoltà di ogni ateneo e la percentuale media di omonimia in campioni della popolazione italiana in numero uguale ai docenti presenti nella facoltà osservata. Il risultato è incontrovertibile: in quasi tutti gli atenei l'indice di omonimia è più elevato rispetto alla media nazionale. Dieci volte di più a Catania, poco meno a Messina. Molto superiori alla media sono anche la Federico II di Napoli, Palermo, Bari, Caserta, Sassari e Cagliari. Le più virtuose sono invece Trento, Padova, il Politecnico di Torino, Verona, Milano Bicocca. Certo: non sempre avere lo stesso cognome significa essere parenti. Ma considerando anche che spesso molti familiari di professori hanno cognomi diversi, il dato è un'attendibile quantificazione statistica, per approssimazione, della diffusione del nepotismo. Anche perché gli atenei segnati con la penna rossa da Daniele sono proprio quelli al centro delle inchieste giornalistiche e della magistratura. "Il dato italiano - spiega Daniele - è in controtendenza con il resto d'Europa: quasi ovunque il tasso di omonimia nelle università è minore della media nazionale. Gli atenei tendono ad attrarre docenti da fuori, con cognomi diversi da quelli locali". Lo studio confronta poi i dati sulle omonimie con le valutazioni del Censis sulla qualità delle università. E in media gli atenei con più omonimi sono quelli che producono meno e viceversa. Ma davanti a questi numeri, la politica e il mondo accademico come si comportano? Sono nemici o complici delle grandi famiglie che hanno in mano l'università italiana?
LA RESISTENZA
"Ci prendono in giro", ha tuonato il presidente della conferenza dei Rettori, Enrico Decleva, la cui moglie Fernanda Caizzi è stata condannata in appello, e poi prescritta, per aver pilotato un concorso a Siena nel 2001. "Il qualunquismo sulle parentopoli è una giustificazione per uccidere l'università pubblica". La legge Gelmini approvata al Senato a luglio prevede un codice etico obbligatorio per tutti. Ma a Bari (il primo ateneo ad approvarlo, quattro anni fa) gli escamotage fanno scuola. Virginia Milone è stata assunta quando il padre si è impegnato a trasferirsi nella sede decentrata di Taranto. "Capirai: la nostra facoltà è diventata la valvola di sfogo dei parenti", dice il rappresentante degli studenti Francesco D'Eri.
La docente Maria Luisa Fiorella, otorino come il padre, era stata respinta dalla facoltà (a scrutinio segreto). Ora, con un colpo di coda, i baroni vogliono tornare a votare: con l'alzata di mano. Il codice è servito solo a Farmacia: Giulia Camerino ha rinunciato al concorso da ricercatrice bandito nel dipartimento della madre. "Ho studiato tutta una vita, non volevo vivere con un bollino che non meritavo". "Se parliamo di baronati è tutto come prima - dice Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc della Cgil - E se le università non bandiscono concorsi, a pagare sono solo i ricercatori figli di nessuno". Il ministro Gelmini promette di trasformarne, con il nuovo piano di programmazione, diecimila in associato. Vuol cambiare la progressione di carriera con un contratto triennale, una successiva valutazione, e quindi un ulteriore contratto triennale per diventare associato. Ma per ora quelli che salgono di grado hanno sempre cognomi pesanti: a Cagliari è appena stato promosso ordinario Francesco Seatzu, figlio d'arte sardo. A valutarlo, in commissione, c'era Isabella Castangia, con la quale Seatzu ha lavorato gomito a gomito negli ultimi anni. "Tutto è come prima, più di prima", attacca Tommaso Gastaldi, professore di Statistica alla Sapienza, instancabile fustigatore del malcostume universitario.
L'ultimo esempio, racconta, è la nomina di due docenti: lui aveva previsto i loro nomi già nel 2008. I soliti noti, nonostant