Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

SCUOLOPOLI

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’ITALIA DELL’IGNORANZA

OSSIA, IL SAPERE DELL’ASINO

www.controtuttelemafie.it www.telewebitalia.eu

 

 

“L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati. L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie. La raccomandazione nel pubblico impiego è la negazione della meritocrazia e dell'efficienza, oltre ad essere un reato impunito e sottaciuto, dato che sono gli stessi raccomandati ad occuparsene. Cultura e scienza in mani improprie. Le scuole non mi invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese.

Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi.

Sia libera ogni attività economica, professionale, sociale, culturale e religiosa. Il sistema scolastico o universitario assicuri l'adeguata competenza, senza vincoli professionali di Albi, Ordini, Collegi, ecc. Il libero mercato garantirà il merito. Le scuole o le università siano rappresentate da un preside o un rettore eletti dagli studenti o dai genitori dei minori. Il preside o il rettore nomini i suoi collaboratori, rispondendo delle loro azioni".

di Antonio Giangrande

 

 

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

SCUOLOPOLI.

LAUREATI E ANALFABETI ?!?!?

 

 SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

MORTE A SCUOLA. FALLIMENTI E SUICIDI.

VIOLENZA A SCUOLA.

L’ITALIA DELL’ILLEGALITA’. MINORI DEI 14 ANNI ACCOMPAGNATI A SCUOLA: LO IMPONE LA LEGGE.

FOTO DI CLASSE? ADDIO!

A SCUOLA LIBRI FAZIOSI E SINISTRI.

CONCORSI, INSEGNAMENTO ED IMPUNITA’.

LA CAZZATA DELLA DOCENZA SENZA LAUREA.

DOCENZA: CHI TANTO; CHI NIENTE. DOCENTI PRECARI O CON IL DOPPIO LAVORO (ILLEGITTIMO).

LA SCUOLA DA ROTTAMARE.

IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).

LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.

LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.

VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.

IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.

CERVELLI IN FUGA.

ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.

ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.

LA SCUOLA AL FRONTE.

ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.

L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!

ADDIO AL CONGIUNTIVO.

LA DEMERITOCRAZIA.

QUALE FUTURO PER I LAUREATI?

I BAMBINI PRIGIONIERI DEGLI ADULTI INDOTTRINATORI IDIOTI.

LA GRANDE FUGA DALL'UNIVERSITÀ.

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.

LAUREATI: PRECOCI O FUORI CORSO?

IGNORANTI E LAUREATI. COLPA DELLA SCUOLA? APPELLO DEI GENITORI: NON BOCCIATE I NOSTRI FIGLI.

...E PROMOZIONE PER TUTTI SIA!

TITOLATI SI’, TITOLATI NO!

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

ISTITUZIONI IN CONFLITTO. LA GUERRA TRA GENITORI ED INSEGNANTI.

CHI GIUDICA CHI?

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

GITE: L'INCUBO DEI VIAGGI DI ISTRUZIONE.  

SCUOLA: ROBA DI SINISTRA CHE SFORNA STUDENTI ANALFABETI.

CAMBIARE LA SCUOLA? IMPOSSIBILE!

I COMUNISTI NON SI MANGIANO I BAMBINI: SI MANGIANO TUTTA LA SCUOLA!

OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

LAICITA' A SCUOLA: A FAVORE DELL'ISLAM E CONTRO LE TRADIZIONI CRISTIANE.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

GENERAZIONI DI IGNORANTI. L'ABBANDONO SCOLASTICO.

MENO STUDENTI E PIU' PROF DI RELIGIONE.

"LA BUONA SCUOLA" TRA ECCELLENZE E ASSENTEISMO.

SCUOLA E SUPPLENZA. GUERRA TRA POVERI. PUNTEGGIO E GRADUATORIE: TRUFFA O PREGIUDIZIO RAZZISTA?

CHI INSEGNA A CHI. "L'HA DETTO LA TELEVISIONE": MA NON E' VERO.

L'ITALIA CHE COPIA.

IL TEST INVALSI E IL FENOMENO DEL "CHEATING" (INGANNO). 

TEST INVALSI INUTILE E LA SCUOLA A COLORI.

CONCORSOPOLI. I BARONI REGNANO ALL'UNIVERSITA'.

GLI INCAPACI INSEGNANO.

IL PARADOSSO. RICERCATORI UNIVERSITARI BOCCIATI ALL’ABILITAZIONE MA COSTRETTI AD INSEGNARE.

INSEGNANTI EBBRI. SCATTA L’ALCOOL TEST PER I DOCENTI.

DISCRIMINARE I NORMALI. GAY POWER: IL POTERE AI DIVERSI.

PEDOFILIA, SUICIDI, BULLI, STUPRI E PROSTITUZIONE. LA SCUOLA DISEDUCATRICE.

IL BUSINESS A NERO DELLE RIPETIZIONI ALLE LEZIONI PRIVATE.

I FURBETTI DELLE BORSE DI STUDIO.

LA BUFALA DEI VOTI AL SUD DATI CON MANICA LARGA. PARLIAMO DEL BONUS MATURITA’: UN MODO PER FOTTERE GLI STUDENTI MERIDIONALI.

MERITOCRAZIA. IN UN ALTRO MONDO, FORSE. UNIVERSITA’. COSI’ SI ACCEDE AL NUMERO CHIUSO. L’APOTEOSI DELL’INETTITUDINE E DELL’INCAPACITA’.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

PARLIAMO DEI PROBLEMI DELLA SCUOLA, DELLA SCUOLA SENZA CONTROLLO E DELL’ASSEGNAZIONE DELLE CATTEDRE. GIUSTO PER DIRE: CHI INSEGNA A CHI?

PARLIAMO DEL CONCORSO PUBBLICO PER DIVENTARE DOCENTI.

INSEGNANTI E DIRIGENTI SCOLASTICI (PRESIDI), CONCORSO COL TRUCCO.

PARLIAMO DI INSEGNANTI DI SOSTEGNO AI DISABILI.

QUANDO I PROF VANNO IN TILT.

QUANDO I MINISTRI VANNO IN TILT.

MATURI O ABILITATI?

MA CHE MATURITA' E’ QUESTA?

L’ITALIA DEI COPIONI.

PARLIAMO DI DISPARITA’ DI TRATTAMENTO DEGLI STUDENTI.

L’ITALIA DELL’ANARCHIA. MALEDUCAZIONE ED INEDUCAZIONE. I PROFESSORI SOTTO L’ASSEDIO DEI GENITORI SINDACALISTI DEI FIGLI.

LA CORPORAZIONE DEGLI OCCUPANTI DELLE SCUOLE.

LA SCUOLA SIAMO NOI. MALFATTORI E BARONI.

“SCUOLA IN CHIARO”: ALLA RICERCA DEL LUOGO COMUNE.

PARLIAMO DI LIBRI: I FURBETTI DEI TESTI SCOLASTICI.

PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.

PARLIAMO DELL’ITALIA DELL’ISTRUZIONE TRUCCATA.

PARLIAMO DI UNIVERSITA'.

PARLIAMO DI SCUOLA.

PARLIAMO DELL’ITALIA DELLA DISCRIMINAZIONE SCOLASTICA.

PARLIAMO DELL'ITALIA DEI LAUREATI CHE NON SANNO SCRIVERE.

PARLIAMO DEI PROFESSORI CHE SANNO MENO DEGLI ALLIEVI.

PARLIAMO DELLE TRACCE E DEI TEST MINISTERIALI SBAGLIATI PER GLI ESAMI DI STATO.

PARLIAMO DEGLI ESAMI UNIVERSITARI.

PARLIAMO DEL PLAGIO ACCADEMICO.

PARLIAMO DEI CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI.

PARLIAMO DEGLI ALTRI CONCORSI SCOLASTICI TRUCCATI.

PARLIAMO DELLE LAUREE FACILI.

PARLIAMO DEI DIPLOMI FACILI.

PARLIAMO DELLA VALUTAZIONE NAZIONALE TRUCCATA.

PARLIAMO DI SICUREZZA NELLE SCUOLE.

AMIANTO: LA MORTE DEI PROFESSORI.

PARLIAMO DELLE RIFORME CHE NESSUNO VUOLE.

PARLIAMO DELL'OSTRACISMO DEI MEDIOCRI CONTRO I GENI.

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!

In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che fossimo. 

La generazione Wikipedia è ignorante. E vota politici ignoranti. Viviamo in un mondo in cui i problemi non sono mai stati così complessi. Ma il mondo dei social e di Wikipedia, con una conoscenza illimitata a portata di click, pensa che le soluzioni siano sempre e comunque semplici. E se i problemi non si risolvono, è sempre colpa di qualche complotto, scrive Francesco Francio Mazza il 19 Maggio 2018 su "L'Inkiesta". Se è vero che a Roma sono arrivati i barbari - come ha scritto in settimana il Financial Times - è vero anche che 17 milioni di barbari li hanno invitati, spedendogli un invito tramite scheda elettorale lo scorso 4 marzo. Esattamente come, in buona parte dell’Occidente, altre decine di milioni di barbari hanno affidato ad altri condottieri improbabili - capitanati da un certo Donald Trump – la gestione della cosa pubblica, senza essere minimamente turbati né dalla rozzezza della forma né dalla radicalità della sostanza. Continuare a scandalizzarsi come cicisbei serve a poco, se non a ribadire per l’ennesima volta la totale marginalità del ruolo giocato oggi dall’informazione mainstream. Più utile sarebbe cominciare a chiedersi come mai, ad ogni latitudine e a prescindere da ogni circostanza locale, nel secondo decennio del Ventunesimo Secolo la gente abbia preso ad andare a votare con lo spirito dei dirottatori degli aerei e l’unico minimo comune denominatore ideologico sembra la volontà di scatenare, ogni volta, un’ondata di caos. Un buon modo per cominciare, per esempio, è chiedersi che cosa abbiano in comune gli elettori del costruttore newyorkese Donald Trump con quelli di Giggino Di Maio da Pomigliano. E basta un rapido giro sui social per capire che a tenerli insieme c’è un evidente paradosso: in un mondo dove si spediscono auto elettriche su Marte che si guidano da sole e i problemi, a prescindere dalla tematica, non sono mai stati così complessi, “i barbari” pensano che le soluzioni siano semplici, talmente semplici da poter essere espresse e condivise in un paio di commenti su Facebook. Il welfare è alle corde perché gli Stati nazionali hanno finito i soldi? Nella Silicon Valley, ogni giorno, i cervelli migliori del pianeta ragionano su come buttare fuori dal mercato del lavoro un’intera categoria professionale? E che problema c’è? Basta gridare “reddito di cittadinanza!” o “make America great again” e passa la paura, almeno fino alla prossima tornata elettorale. E’ in atto un’ondata migratoria senza precedenti, conseguenza del modello di sviluppo asimmetrico messo in atto dal capitalismo negli ultimi due secoli? Basta un “Ruspaaa!”, magari usata per tirare su un bel muro al confine con il Messico, e si mettono le cose a posto. Il welfare è alle corde perché gli Stati nazionali hanno finito i soldi? Nella Silicon Valley, ogni giorno, i cervelli migliori del pianeta ragionano su come buttare fuori dal mercato del lavoro un’intera categoria professionale? E che problema c’è? Basta gridare “reddito di cittadinanza!” o “make America great again” e passa la paura, almeno fino alla prossima tornata elettorale. Allargando il campo, si osserva come questo fenomeno non riguardi solo l’arena della propaganda politica ma ogni settore del pubblico dibattito. Qualunque sia la problematica, non importa se frivola o serissima, buona parte del caro vecchio CMR - Ceto Medio Riflessivo - si è trasformato in un esercito di terribili UCLS - Uomini Con La Soluzione - che non mancano di esprimerla ad ogni pausa pranzo, spiattellandola sul social di riferimento avendo cura a non far cadere le briciole del panino sulla tastiera. Si pensi – per esempio - alle mamme anti-vaccini, che pur non avendo alcuna competenza scientifica si inerpicano quotidianamente in appassionati J’accuse contro i misfatti delle multinazionali farmaceutiche. O a quelli che, sempre più spesso, rifiutano le cure offerte dalla medicina tradizionale per buttarsi tra le braccia di guri e paraguri che asseriscono di curare il cancro coi centrifugati di verdura. Citare tabelle, dati o pareri di esperti autorevoli è completamente inutile e spesso genera effetti contrari: non c’è nulla come la figura del “professorone” per mandare fuori di testa un UCLS che si rispetti. Si perché, rifiutando ogni criterio di competenza, l’UCLS è convinto di giocarsela alla pari con chiunque su qualsiasi tema, sia che parli col suo portinaio del rigore dubbio per la Juve sia che discuta di robotica con Elon Musk. Sono questi gli effetti, anch’essi paradossali, dell’età dei social e di Wikipedia. La disponibilità immediata di informazioni a vantaggio di chiunque non ha portato, come si credeva, a un generale accrescimento della cultura e della capacità critica. Al contrario, da un lato – grazie al meccanismo delle bolle – ha favorito il conformismo e la chiusura intellettuale, dall’altro ha reso disponibile non una conoscenza diffusa ma una nociva infarinatura un tanto al kilo, generatrice di quel celebre fraintendimento noto in psicologia come “Dunning-Kruger effect”: meno hai conoscenze specifiche su una materia, più sopravvaluti le tue competenze, perché non ti rendi conto di quanto, in realtà, è complessa tale materia. In altre parole: credi che i problemi siano facili, che a complicarli siano i “professoroni” sulla base di chissà quali oscuri interessi e, di conseguenza, che le soluzioni sarebbero lì, a portata di mano, se solo lo si volesse davvero. Sono questi gli effetti, anch’essi paradossali, dell’età dei social e di Wikipedia. La disponibilità immediata di informazioni a vantaggio di chiunque non ha portato, come si credeva, a un generale accrescimento della cultura e della capacità critica. Al contrario, ha favorito il conformismo e la chiusura intellettuale e ha reso disponibile non una conoscenza diffusa ma una nociva infarinatura un tanto al kilo. Può sembrare un fenomeno innaturale ma si tratta invece di un comportamento comprensibilissimo. Il particolarismo esasperato del mondo moderno, che finisce per non avere, al suo interno, più nulla di umano, produce negli individui un senso di impotenza, un sentimento di emarginazione, ed è logico che in molti non vedano l’ora di gettarsi al seguito di pifferai capaci di rassicurarli, di dire loro che è stato solo un brutto sogno e che presto le cose torneranno come prima, con il posto fisso garantito, la pensione alta, l’immigrato a casa e al juke box Gianni Morandi che si fa mandare dalla mamma. Il problema – e qui sta la tragedia – è che questi pifferai, in ogni ambito, non sono mai “neutri” ma hanno i loro interessi, proprio come quei professoroni che gli eserciti mondiali di UCLS odiano. La pseudo-ricerca scientifica riportata dal sito web fighetto secondo cui l’avocado protegge dal cancro serve a gonfiare il prezzo dell’avocado stesso, e ad alimentare un’economia di cibo fighetto il cui effetto collaterale – ben lungi dal proteggere dal cancro – è distruggere le economie dei Paesi in via di sviluppo (contribuendo a peggiorare i problemi che determinano le migrazioni di massa). Proprio come il paraguru che lancia anatemi contro la chemioterapia e poi chiede qualche centinaia di euro per una boccetta di “miracolosa” acqua fresca, o il conferenziere terrapiattista che vende il suo libro di farneticazioni sul banchetto all’uscita. Del resto, basta guardare la nomenclatura appuntata da Donald Trump, o i nomi dei ministri che Di Maio inoltrò via email a Mattarella prima delle elezioni, così come quelli circolati per guidare il nascente governo giallo- verde. Nel primo caso, un ammasso di burocrati di seconda fila comandati da un paio di anziani generali; nel secondo, un governo Monti comprato alla Lidl. Pensare che siano questi coloro che scardineranno “le élites” per fare esclusivamente gli interessi di quegli “ultimi” tra i quali hanno fatto il pieno di voti è chiaramente una pia illusione, a cui però tutti gli UCLS sono cascati. A cambiare veramente, insomma, è la disponibilità della “generazione Wikipedia” a farsi strumentalizzare, e a non vedere l’ora di correre dietro al prossimo pifferaio: più sporco, più rozzo, più terra-terra del precedente. Peccato che prima o poi arriverà il momento della definitiva disillusione, della presa di coscienza che nessun pifferaio potrà guarirci il cancro con l’avocado o farci andare indietro nel tempo a quando si era tutti più “great” e soprattutto più giovani. Nella nostra Hamelin, il Novecento non tornerà mai più. Più che rabbia, c’è da aver paura a pensare cosa potrà accadere allora.

Italiani, da 150 anni tra i più ignoranti d’Europa. Le classifiche, impietose, ci dipingono come uno dei Paesi più ignoranti d’Europa. E noi stessi ci siamo abituati a definirci come tali. Ma l’Italia è davvero il Paese degli ignoranti. Il saggio di Antonio Sgobba prova a fare un po’ di chiarezza (o a complicarci le idee), scrive Antonio Sgobba l'1 Aprile 2018 su "L'Inkiesta". Questo è il primo articolo di una collaborazione tra Linkiesta e il Saggiatore, storica casa editrice milanese, di cui ogni settimana pubblicheremo l’estratto di un libro, non necessariamente una novità editoriale, che in qualche modo si lega all’attualità dei sette giorni appena trascorsi. Per il primo episodio di questa collaborazione abbiamo scelto il saggio di Antonio Sgobba dal titolo “Il paradosso dell'ignoranza da Socrate a Google” (Il Saggiatore, 2017), un’indagine sull’infinita possibilità di sfumature che colorano il concetto di «ignoranza», tra cavalieri che lottano contro gli ignoranti e ignoranti che diventano i signori del mondo. Buona lettura! Ogni anno l’Ipsos Mori diffonde il suo Index of Ignorance, rilevazione statistica in grado di indicarci il paese più ignorante del mondo: al fine di individuare questa terra di selvaggi, un campione di circa undicimila intervistati di ogni nazionalità viene sottoposto a una serie di domande. Per esempio: qual è la percentuale di occupati del tuo paese? Qual è l’aspettativa di vita? Qual è la percentuale di ragazze tra i 17 e i 19 anni che partoriscono ogni anno? Quanti sono gli immigrati? Quest’anno il tasso di omicidi è salito o sceso? Sapete qual è stata nel 2014 la popolazione con il maggior numero di risposte sbagliate? Tranquilli, non è una domanda del test. Risposta: l’Italia. Gli italiani credevano che nel loro paese i disoccupati fossero il 49 per cento. Erano il 12. Che gli over 65 fossero il 48 per cento. Erano il 21. Che gli immigrati fossero il 30 per cento. Erano il 7. Che le ragazze madri fossero il 17 per cento. Erano lo 0,5. Nella classifica mondiale battevamo tutti. Precedendo, nell’ordine, Stati Uniti, Corea del Sud, Polonia, Ungheria, Francia, Canada; quelli messi meglio erano invece gli svedesi. All’uscita della notizia, il 2 novembre 2014, suonavano le campane a morto per la conoscenza in Italia. Sulla prima pagina del principale quotidiano nazionale si poteva leggere il seguente commento: «Sappiamo proprio poco dell’Italia». Nelle pagine interne il titolo ribadiva: «Quell’indice dell’ignoranza primato senza gloria». Scriveva l’editorialista: «La politica – che pure dovrebbe conoscere la situazione – non si premura di ripetere i dati corretti. Usa la nostra ignoranza, invece». Che cosa hanno fatto politici e cittadini italiani dopo la diffusione di questo dato? Probabilmente la stessa reazione seguita all’appello del maestro Tedesco: una collettiva alzata di spalle. Eppure, l’ignoranza in Italia dovrebbe essere un problema sentito, come conferma anche una rapida ricerca bibliografica: Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia; Ignoranti. L’Italia che non sa, l’Italia che non va; L’età dell’ignoranza; Il costo dell’ignoranza; Alfabeti d’Italia. La lotta contro l’ignoranza nell’Italia unita; L’Italia dell’ignoranza. Crisi della scuola e declino del paese. Sono solo alcuni degli ultimi titoli sull’argomento, apparsi in libreria tra il 2011 e il fatidico 2014. Sembrerebbe proprio che l’Italia in questi anni abbia avuto a che fare con «una vera e propria emergenza», come dicono i giornali quando non c’è nulla né di vero né di proprio. Non sono stati sufficienti centocinquant’anni per risolvere questa emergenza. Poco dopo l’Unità d’Italia, lo storico meridionalista Pasquale Villari ammoniva: "bisogna che l’Italia cominci col persuadersi che v’è nel seno della Nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza". Apriamo per esempio uno di questi saggi, Ignoranti. Sin dalle prime pagine, l’autore non lascia spazio a dubbi: «Vecchi e nuovi analfabeti affollano dunque l’Italia. Sono da considerare analfabeti non per l’incapacità totale di leggere e scrivere, ma per la mediocre capacità di esprimersi e il ridotto bagaglio di conoscenze». Ci sono i dati a confermarlo: «L’Italia è un paese sistematicamente in coda nelle classi che europee o mondiali sul livello di istruzione. Che, dati alla mano, studia poco. Che disprezza con inflessibile continuità la scuola, l’università, la ricerca. Che stenta ad arricchire il proprio sapere». Non ci sono molte speranze in un paese così; leggiamo nell’ultima pagina: «L’Italia ignorante non è l’Italia che può prendere slancio. Non contrasta le diseguaglianze, non favorisce l’avanzamento sociale». Gli ignoranti italiani ostacolano il progresso e la redistribuzione. Nell’Età dell’ignoranza si citano indagini internazionali sulle competenze che la vita contemporanea impone ai cittadini (la capacità di leggere e comprendere un testo, per esempio): «L’Italia è ultima tra i paesi partecipanti, con un punteggio di 229 su 500, contro i 290 punti della Norvegia». Non è una tendenza che riguarda solo un paese: «Il mondo diventa sempre più confuso, incomprensibile, violento, in una parola ignorante». Troviamo analisi di tenore simile in Senza sapere, il cui autore scrive: «I dati ci descrivono un’Italia priva di conoscenze e di competenze, un paese “senza sapere”. Siamo talmente ignoranti da non comprendere per no quanto sia grave e pericoloso il nostro livello di ignoranza, e da non correre ai ripari. Ciò che inquieta di più è che anche i nostri governanti [...] non sembrano occuparsi o preoccuparsi [sic] del problema, non rendendosi conto del prezzo che quotidianamente l’intera società italiana è costretta a pagare per i guasti provocati dall’ignoranza». E non dimentichiamo che, secondo tutti questi studi, «ignorante» è sinonimo di «confuso, incomprensibile, violento» e che l’ignoranza è il «nemico più grande». L’Italia ignorante non è l’Italia che può prendere slancio. Non contrasta le diseguaglianze, non favorisce l’avanzamento sociale. Non sono stati sufficienti centocinquant’anni per risolvere questa emergenza. Ma se un fenomeno dura almeno un secolo e mezzo, lo possiamo definire davvero un’emergenza? No: «Sarebbe però sbagliato ritenere che l’ignoranza che oggi ci circonda sia un segno del degrado in cui la società italiana è precipitata: forse è vero anche questo, ma non bisogna dimenticare che le origini del fenomeno sono profonde e vengono da lontano». Poco dopo l’Unità d’Italia, lo storico meridionalista Pasquale Villari ammoniva: Bisogna che l’Italia cominci col persuadersi che v’è nel seno della Nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza. Era il 1866, e queste parole potrebbero persino aver ispirato Tedesco. Allo stesso modo, gli autori degli ultimi saggi sul tema avrebbero tutti potuto iscriversi alla Lega fondata dal maestro. Potremmo quasi farne un motto: italiani, ignoranti colossali dal 1861. Al primo censimento della sua storia la popolazione vantava un tasso di analfabetismo al 74 per cento. Oggi l’analfabetismo assoluto è praticamente scomparso, però «lo sviluppo della società italiana è ancora frenato da un basso livello di istruzione e da un pesante tasso di analfabetismo funzionale». Tutte le analisi di questo tenore riportano pagine e pagine di dati sull’istruzione: «Molte indagini confermano questo “allarme ignoranza”, sia per quanto riguarda i giovani e gli studenti che per quanto riguarda la popolazione adulta». Ma davvero gli italiani non se ne sono accorti? Non continuano a sentirselo ripetere da più di centocinquant’anni? Se ancora non avessero compreso, qui non saremmo di fronte semplicemente a un popolo di ignoranti, ma a generazioni e generazioni di scolari particolarmente duri di comprendonio. È possibile? Come si spiega una tale concentrazione di ultimi della classe nella stessa area geografica per un tempo così prolungato? Ogni anno l’Ipsos Mori diffonde il suo Index of Ignorance, rilevazione statistica in grado di indicarci il paese più ignorante del mondo. Sapete qual è stata nel 2014 la popolazione con il maggior numero di risposte sbagliate? Tranquilli, non è una domanda del test. Risposta: l’Italia. Gli italiani credevano che nel loro paese i disoccupati fossero il 49 per cento. Erano il 12. Che gli over 65 fossero il 48 per cento. Erano il 21. Che gli immigrati fossero il 30 per cento. Erano il 7. Che le ragazze madri fossero il 17 per cento. Erano lo 0,5. Chi ignora è digiuno di tutto, viene dalla Mecca o dalla Luna, è all’oscuro, non sa, non ha la più vaga, la benché minima, la più pallida, la più lontana idea. Cade dal pero o dalle nuvole. Fa l’indiano o l’inglese o l’albanese; fa il tonto, l’ingenuo, il dormi. Insomma fa finta di niente, orecchie da mercante, non prende in considerazione, non considera nemmeno, non ascolta, se ne frega, alza le spalle, se ne infischia. Evita, aggira, svicola domande e argomenti. Al massimo risponde o va a spanne, a lume di naso. Non vuol vedere, fa lo struzzo, mente a se stesso, si mette le fette di prosciutto sugli occhi, ha o procede con il paraocchi, vive fuori dal mondo, sta col capo nel sacco, ha le (quadruple) fette di salame sugli occhi, se proprio non ha gli occhi e le orecchie foderate di prosciutto. E non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Modi di dire: Beata ignoranza. La nebbia, la notte, le tenebre, il velo dell’ignoranza. Ecco, quando parliamo di ignoranza, ne parliamo così. Ma se volessimo capirci qualcosa in più? La descrizione delle costellazioni linguistiche che si raccolgono attorno alla parola non basta per farci un’idea della natura dell’ignoranza, forse abbiamo bisogno di qualche spiegazione aggiuntiva. Abbiamo bisogno di una definizione.

Vediamo che cosa dice il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro alla voce «Ignoranza». Vengono indicati tre significati: Il non conoscere o il conoscere molto poco, in modo insufficiente una materia, un argomento o ciò che riguarda la propria professione, la proprietà e simili: i. dei regolamenti, la legge non ammette i.; in questo campo confesso la mia i.; beata, santa i!, inconsapevolezza di chi, all’oscuro di fatti o situazioni, vive sereno senza apprensioni o dubbi. Mancanza di istruzione, di cultura: i. di usa, combattere l’i. Scortesia, villania.

Contrari: Conoscenza, consapevolezza, esperienza. Cultura, educazione, istruzione, sapienza. Educazione.

In sintesi l’ignoranza può essere tre cose: Non conoscere. Mancanza di istruzione. Scortesia.

Articoli, ricerche e saggi visti finora sembrano avere a cuore soprattutto il secondo significato: quando si definisce l’Italia «un paese ignorante», si parla soprattutto di un deficit di istruzione e cultura. Curiosamente il senso primario del termine passa quasi in secondo piano. Nelle polemiche sull’ignoranza viene messa al centro non la generica mancanza di conoscenza, bensì la mancanza di competenze in ambiti specifici.

Siamo un Paese di ignoranti. Ed è questo il primo problema dell’Italia. Il rapporto sulla conoscenza in Italia dell’Istat è una fotografia talmente brutale dei nostri problemi con cultura e sapere da lasciare sconfortati. Bisognerebbe prenderne atto e ripartire da lì, ma a quanto pare preferiamo far finta che il problema non esista, scrive Francesco Cancellato il 24 Febbraio 2018 su "L'Inkiesta". Se aveste una sola scelta, se vi chiedessero qual è IL problema dell’Italia, uno solo, cosa rispondereste? Pensateci bene. Probabilmente il molti parlerebbero di tasse e burocrazia, altrettanti di mafia e corruzione, qualcun altro punterebbe il dito sugli stranieri o sull’Europa, qualcun altro ancora direbbe la disoccupazione. Nessuno - o pochissimi, perlomeno - parlerebbero di scuola, formazione e conoscenza. Eppure è proprio lì che sta il problema dei problemi, quello che genera tutti gli altri: che siamo un Paese che non produce conoscenza, che non trasmette conoscenza e che non sa che farsene di quella che ha. E delle due, una: o non ce ne rendiamo conto. O, peggio, ce ne vergogniamo talmente tanto da negarlo. Lo diciamo partendo da un dato empirico abbastanza incontrovertibile. Che siamo tra i pochi Paesi al mondo, forse l’unica tra le economie sviluppate, che non considera il sapere e la conoscenza come valore aggiunto, ma che al contrario fa sfoggio della sua ignoranza, che irride i “professoroni” e i giovani che se ne vanno all’estero. L’unico che durante la più feroce crisi economica che abbia mai passato, decide di tagliare le poste di bilancio dedicate all’istruzione cinque volte più - il 10%, contro una media di tagli del 2% - di quanto non l’abbia fatto per tutti gli altri capitoli di spesa. L’unico in cui gli investimenti a doppia cifra finiscono in tutti i capitoli di spesa possibili tranne in quello della ricerca e della formazione, cui se va bene toccano le briciole. Siamo ultimi in Europa - ultimi, lo ripetiamo - per percentuale di popolazione dai 25 ai 64 anni con in mano un titolo di studio terziario, vale a dire almeno una laurea, l’unico in cui i laureati sono il meno del 20% della popolazione. Dietro la Grecia e la Romania. In quest’ottica, il Rapporto sulla Conoscenza 2018 dell’ISTAT è una specie di museo degli orrori, che mette in scena quarant’anni almeno di politiche scellerate, di malagestione e incuria. Di sopravvalutazione del nostro sistema formativo - che ancora ci ostiniamo a ritenere il migliore di tutti, nonostante i disastri nei test di valutazione comparati Pisa dell’OCSE. Di tutti i dati ne abbiamo scelti quattro, che raccontano meglio di qualunque altro come siamo messi. Il primo: siamo ultimi in Europa - ultimi, lo ripetiamo - per percentuale di popolazione dai 25 ai 64 anni con in mano un titolo di studio terziario, vale a dire almeno una laurea, l’unico in cui i laureati sono il meno del 20% della popolazione. Dietro la Grecia e la Romania. Dietro agli Stati Uniti e il Regno Unito, Paesi in cui alla laurea ci è arrivato il 46% della popolazione. Ripetete insieme a noi: il problema delle imprese italiane si chiama Europa, si chiama globalizzazione. E cercate di non ridere, mentre lo dite. O di non piangere. Se la domanda è scarsa - secondo punto - l’offerta lo è ancora di più: i laureati in Italia non li vuole nessuno, perché abbiamo un sistema produttivo che non sa che farsene. E che se li assume li demansiona. Anche qui, due dati: l’Italia è l’unico paese tra i grandi d’Europa ad aver visto decrescere, negli ultimi dieci anni, gli occupati in posti ad alta specializzazione. Uno di quelli in cui le professioni a media alta qualifica non arrivano nemmeno a coprire il 40% dei posti disponibili. Gli stranieri ci rubano il lavoro? La Slovacchia ci ruba le imprese? No, a rubarcelo è la nostra ignoranza. Il terzo dato è quello relativo alle risorse umane impiegate nella scienza e nella tecnologia, che ci posiziona al terzultimo posto, davanti alle sole Romania e Slovacchia. Curioso, no? Ci raccontiamo ogni due per tre che viviamo nell’era digitale, nel tecnocene e poi, ops, non siamo in grado né di formare addetti in questi ambiti, né di orientare gli studenti in quella direzione? Applausi. E il bello è che ce ne vantiamo pure, scrivendo sui programmi elettorali che la scuola non deve formare al lavoro, che giammai lo sterco del diavolo contamini il sacro monte del sapere. Sarà, ma intanto - quarto dato - la scuola ha smesso di essere un ascensore sociale, come per altro ha raccontato il vicedirettore del Corriere della Sera Federico Fubini nel suo ultimo libro “La maestra e la camorrista” (Mondadori Strade Blu, 2018). Fa specie e orrore vedere che per diamo tra le famiglie con più laureati, se i genitori lo sono. E uno di quelli con meno studenti universitari, se i genitori non lo sono stati. Ergo: quei pochi ragazzi che laureiamo qua in Italia rappresentano nella stragrande maggioranza dei casi uno strato sociale che già era ricco o benestante. E poi venite a parlarci di bomba sociale, per colpa di quattro sfigati fascisti. Un piccolo suggerimento: i venti miliardi all’anno che volete buttare per abolire la Legge Fornero o per il reddito di cittadinanza, buttateli nella scuola, una volta in Parlamento. Fatelo per innovare corsi e materiali didattici, per far crescere la formazione lungo l’arco della vita, per adattare programmi e metodologie al presente, per fare del sistema scolastico italiano un’eccellenza mondiale per la preparazione degli studenti. Poi vedete se le cose non cambiano davvero.

Italiani bocciati in economia: i più ignoranti di tutta Europa. Siamo il popolo che ha le maggiori difficoltà a risparmiare, a rispettare un budget e a comprendere temi finanziari I motivi? Bassa scolarità ed età media alta, scrive Marco Cobianchi, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale". L'ignoranza è una gran brutta cosa, e a noi italiani, in questo campo, non ci batte davvero nessuno. La bassa scolarità, la percentuale di abbandono scolastico, la bassissima percentuale di laureati non hanno riflessi sono sulla struttura sociale e sulla capacità di innovazione del Paese, ma anche sulla conoscenza delle più elementari regole economiche e finanziarie. Detta in parole povere: noi italiani di economia non ci capiamo assolutamente nulla. Anche per questo politici improvvisati ci possono raccontare qualsiasi immaginifica frottola (e noi ci crediamo) e anche per questo avventurosi finanzieri ci possono turlupinare con promesse immaginifiche (e noi ci crediamo) e anche per questo banche spegiudicate riescono a infinocchiare i risparmiatori vendendogli prodotti rischiosissimi spacciandoli come sicuri. Come è successo. Basterebbe questo per rendersi conto dell'arretratezza economica degli italiani, ma se non basta ci sono i numeri, quelli elaborati dal sito di datajournalism Truenumbers.it. Partiamo dalla scolarizzazione (perché tutto, come sempre, parte da lì). La percentuale di italiani in età lavorativa che hanno un qualsiasi tipo di laurea sono il 18%, quasi la metà della media europea. Abbastanza incredibile, oggettivamente. Ha meno laureati di noi, in percentuale sulla popolazione, solamente il Messico, tra i Paesi dell'Ocse. I laureati triennali sono, per esempio, il 4% della popolazione mentre sono il triplo in Germania e più del doppio in Francia. Da qui discende il fatto che se qualcuno si azzarda a fare un test sulle conoscenze economico finanziarie degli italiani e li mette a confronto con quelle degli altre nazioni, noi crolliamo. Lo ha fatto l'Infe, l'International Network for Financial Education. I risultati sono stati pubblicati dalla Banca d'Italia. E sono sconfortanti. I parametri presi a riferimento sono tre (gli stessi indicati nei grafici di queste pagine): la competenza, che valuta la capacità di calcolare semplici interessi; il comportamento, che valuta, ad esempio, la capacità di rispettare un budget, e l'attitudine, che riguarda, per esempio, la capacità di riuscire a risparmiare. Beh, sarà umiliante dirlo, ma sommando i punteggi l'Italia risulta essere penultima tra i Paesi considerati superata, in negativo, solo dall'Arabia Saudita. Nel parametro «Competenza» abbiamo raggiunto il punteggio di 3,5 (su 7 a disposizione). Nessuno ha fatto peggio, nemmeno l'Arabia Saudita. Una possibile spiegazione è che gli italiani sono un popolo anziano, la maggior parte vive in piccoli centri dove vivono molti pensionati. Per verificare se sono questi i motivi per i quali, complessivamente, gli italiani sono poco acculturati finanziariamente, si è proceduto a «normalizzare» il campione, ovvero: si sono prese persone con le stesse caratteristiche socio-demografiche e le si sono confrontate. E... niente: siamo in fondo anche se si prendono i dati normalizzati. Lo stesso gruppo omogeneo composto da italiani messo a confronto con i tedeschi perdono clamorosamente la partita. Ma la perdono anche con i Paesi Bassi, Francia, Regno Unito e Canada. Tutti ne sanno più di noi. Prendiamo uno di questi gruppi omogenei: gli ultra 60enni con almeno un diploma in tasca. Il confronto è addirittura umiliante: il punteggio degli uomini è 3,5 (le donne sono al 3,3) rispetto al 12,4 dei tedeschi, al 7 dei francesi, al 7,1 dei Paesi Bassi, all'11,8 dei britannici e all'11,3 dei canadesi. E il risultato non cambia per tutti (tutti!) i gruppi omogenei, compresi quelli composti da under 35. Se poi si scompongono i risultati in base alle caratteristiche socio economiche, di età e di residenza, si scopre che i chi ottiene i risultati migliori (all'interno del Paese, quindi non in confronto con le altre nazioni) sono i laureati che hanno tra i 55 e i 64 anni, lavoratori autonomi che vivono in una città del Centro o del Nord con più di 40mila abitanti. Ma, come abbiamo visto, se si prendesse questo italiano-tipo e lo si mettesse a confronto con un inglese con le sue stesse caratteristiche o con un francese o un belga, perderebbe il confronto: loro ne saprebbero enormemente più di lui. E per oggi, basta così.

L'ignoranza è la merce più preziosa (e qualcuno ci fa un cumulo di soldi). Altro che popolo contro élite: non siamo mai stati così contenti di consumare ciò che i ricchi producono. Cosa ci offrono? Cose a basso costo, ma dagli alti profitti. Così l'ignoranza - anche grazie anche ai social - è diventata un business che, dalla cultura alla politica, ha divorato tutto, scrive Francesco Francio Mazza il 26 Maggio 2018 su "L'Inkiesta". Il 2018 non è nemmeno arrivato al giro di boa, ma già si è capito quale sarà la parola dell’anno. Tutto, ma proprio tutto, ruota attorno al concetto di “ignoranza” e all’eterno ritorno dell’accusa di parteciparvi a vario titolo. C’è chi ne è terrorizzato, e si inventa “corsi di perfezionamento” negli USA per sembrare ancora più “professorone” di quanto già realmente sia. E chi invece la considera un simbolo di purezza da contrapporre alle malvagie coscienze corrotte dei professoroni: tipo Di Maio e Salvini (che però candidano a premier proprio il professorone-taroccone), ma anche, per restare negli USA, tipo Mark Zuckerberg e Steve Jobs, che non hanno mai smesso di rivendicare con orgoglio il loro status di drop-out, di studenti che hanno interrotto gli studi prima di arrivare alla laurea. C’è da riconoscere lo straordinario potere paragnostico di Adriano Celentano: si presentava come Re degli Ignoranti per creare scompiglio, mentre oggi, con quella stessa etichetta, avrebbe potuto aspirare a palazzo Chigi. Anche se a ben vedere il Molleggiato faceva il paraculo: per andare in TV assoldava tra gli autori Michele Serra, recentemente crocifisso per aver scritto che l’attuale esaltazione dell’ignoranza messa in atto dai movimenti populisti di tutto il mondo sarebbe parte di un complotto contro il popolo. Ma che si tratti di un terribile piano per inchiodare le masse popolari alla loro condizione subalterna o del viatico per un ritorno a un Paradiso Perduto, poco cambia. Quello che conta davvero è che l’ignoranza sia diventata un business, un settore di mercato che, a poco a poco, ha finito col divorare tutti gli altri. L’ignoranza, oggi, è la forma stessa del main-stream, e chiunque è obbligato a farci i conti, a prescindere da quale sia la propria area di competenza. Solo fino a pochi anni fa le cose funzionavano in modo completamente diverso: si consumavano prodotti di massa, ma nello stesso tempo esisteva una tensione, anche solo da parte di una nicchia, di fare una sorta di selezione all’ingresso e rivolgersi a un pubblico specifico. Attenzione: non un pubblico di ricchi che grazie al potere economico potevano permettersi il pezzo unico, proprio come oggi i ricchi non vanno all’Ikea ma comprano il mobile del designer quotato e invece di andare al villaggio turistico vanno al boutique hotel. Si postulava, al contrario, l’esistenza di un pubblico “di qualità” interno al ceto popolare, e ci si sforzava di andarselo a cercare. Il 2018 non è nemmeno arrivato al giro di boa, ma già si è capito quale sarà la parola dell’anno. Tutto, ma proprio tutto, ruota attorno al concetto di “ignoranza” e all’eterno ritorno dell’accusa di parteciparvi a vario titolo. Il disco dalle sonorità ricercate, come quelli dell’ultimo Battisti, da ascoltarsi rigorosamente su vinile e non su cassetta; il cineforum d’autore il mercoledì sera; l’intero settore dell’artigianato di qualità. Senza dimenticare le innumerevoli contro-culture giovanili che si sono alternate per tutta la seconda parte del Novecento, dai punk ai metallari, dagli hippie all’hip-hop. E la stessa cosa avveniva nel settore di mercato principale, quello della politica: leader e segretari erano perfettamente consci dell’importanza di comunicare direttamente con gli elettori (altrimenti la RAI non sarebbe stata sotto il guinzaglio dei partiti), ma c’era sempre un pudore di fondo, una mediazione verso l’alto esercitata dal linguaggio aulico, dall’esasperato rispetto della forma e delle Istituzioni. È vero che, in un secondo momento, con l’arrivo della TV commerciale, le cose cambiarono: ma esisteva, ancora, la mediazione del Conduttore e della famosa “linea editoriale”. Ci si poteva spingere verso il basso, come faceva Michele Santoro aizzando telerisse identiche a quelle organizzate da Aldo Biscardi, solo a patto di avere le spalle coperte sul versante “alto”, invitando in studio il filosofo o l’intellettuale a fare da garante circa la valenza culturale del programma. Era un mondo che ruotava attorno al concetto di foglia di fico, di cui l’intera programmazione Mediaset della seconda metà degli anni ’90 costituiva summa teorica e superamento, coerentemente con quello che era accaduto in America nel corso del decennio precedente. Col tempo, però, cominciò a farsi largo in maniera sempre più insistente una domanda: perché sforzarsi di tenere alta l’asticella della qualità, se abbassandola si possono abbattere i costi e aumentare il profitto? Bisognava omogenizzare i gusti del pubblico, desensibilizzare le persone al punto da renderle incapaci di cogliere dapprima le sfumature e poi la nozione stessa di differenza, e quindi di qualità. Una strategia di marketing che pareva irrealizzabile, e che tuttavia trovò straordinario impulso grazie all’esplosione del web 2.0 e all’avvento dei social. Eliminando ogni mediazione e dando origine ad un sistema economico quantitativo, dove il valore di qualsiasi cosa si misura solo ad esclusivamente sulla base del numero di click – a prescindere che tali click siano stati effettuati da membri della Scuola di Francoforte o da un branco di pecore - il mercato ha potuto sbarazzarsi, in pochissimi anni, di ogni foglia di fico, diventando libero di produrre solo contenuti neutri destinati a un pubblico generico e indifferenziato. Un pubblico che non solo non desidera la qualità perché incapace di riconoscerla, ma che, in un totale ribaltamento di prospettiva, riconosce nella quantità l’unica unità di misura per giudicare il valore di qualsiasi cosa, si tratti di un prodotto, di un’idea o di una persona. Per questo non è in atto alcuna guerra popolo contro élite: le élite economiche non sono mai state così forti, basta guardare le dimensioni di Leviatani come Google o Amazon; e il popolo non è mai stato così contento di consumarne i prodotti, di abbracciarne la logica. Un pubblico ignorante, insomma, per il quale è vera l’opinione che fa tanti like, non importa se espressa dall’esperto o dal primo che passa per strada; e per il quale esiste solo ciò che è abbastanza neutro da piacere a tutti, mentre quello che crea una reazione, e che quindi fa giocoforza selezione, non viene censurato ma è destinato a scomparire da solo, come sono scomparse le contro-culture. È il mondo della famosa puntata di Black Mirror dove si assegna a un feedback alle persone dopo ogni interazione quotidiana (esattamente come tra pochi anni si farà in Cina). È il mondo della trap, un genere musicale fatto apposta per essere ascoltato con cuffiette scadenti su impianti scadenti, che si è liberato delle costrizioni metriche del rap per renderlo alla portata di chi non era in grado di creare le rime. È il mondo del giornalismo gossipparo, che a sinistra mette le notizie serie e a destra una foto Instragram con la bonazza del giorno in bikini ultra-ridotto. È il mondo di Youtube, dove impazzano scoreggiatori seriali, stereotipi sui meridionali che mangiano tanta parmigiana o sui milanesi schiavi del lavoro, diciottenni con problemi di cuore romanzati come nei peggiori libri Harmony; e dove tuttavia detti Youtubers, che fanno dell’assenza di talento la loro unica cifra stilistica, invadono da protagonisti il mondo del cinema e dell’editoria, monopolizzando il catalogo della principale casa editrice italiana. Sono solo una serie di istantanee del gigantesco mercato dell’ignoranza globale, dominato dalle grandi aziende della Silicon Valley che, intuito l’andazzo, ci si sono fiondate per prime. Non c’è da arrabbiarsi né da gridare al gomblotto come fa Michele Serra: c’è da prendere atto che la strategia commerciale ha funzionato, il neo-liberismo ha abbassato l’asticella fino al livello del suolo e i consumatori hanno risposto positivamente. Anzi: hanno risposto così positivamente che le cose sono sfuggite di mano e il business dell’ignoranza ha finito per allargarsi anche alla politica; la quale, a sua volta, non ha fatto altro che mettersi a rimorchio del mercato: infatti, da anni, non c’è più un partito o un leader politico – e non solo tra le fila dei movimenti cosiddetti populisti, basta analizzare l’intera parabola di Barack Obama – che non faccia della demagogia e del gentismo più bieco la propria ragione sociale. Per questo non è in atto alcuna guerra popolo contro élite: le élite economiche non sono mai state così forti, basta guardare le dimensioni di Leviatani come Google o Amazon; e il popolo non è mai stato così contento di consumarne i prodotti, di abbracciarne la logica. La pigrizia, insomma, si è rivelata essere il motore del mondo. Tocca farsene una ragione, perché è probabile che le cose non cambieranno per molto tempo.

È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su L’Inkiesta. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo. Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.

Ocse: solo il 4% degli italiani è laureato, contro il 17% degli altri paesi. Nell'annuale Education at glance l'accento sul nostro ritardo nell'istruzione. Ma il 90% della fascia 6-14 ha completato la scolarizzazione, scrive Salvo Introvaia l'11 settembre 2018 su "La Repubblica". L’Italia è ancora in ritardo in materia di istruzione. Ma si intravede qualche timido segnale di ripresa. Il sistema di istruzione italiano arranca e non riesce a tenere il ritmo de sistemi scolastici e universitari dei paesi più industrializzati del globo e di quelli in via di sviluppo. E’ l’Ocse – l’Organizzazione (internazionale) per la cooperazione e lo sviluppo economico – che raggruppa una quarantina di paesi di mezzo mondo, a certificare lo stato di salute del nostro sistema di istruzione e formazione. Scattando una fotografia ad alta definizione, attraverso l’annuale Sguardo sull’Educazione (Education at a glance 2018), sui diversi aspetti dei sistemi formativi dei paesi più evoluti dal punto di vista economico. In un solo anno, non è certo possibile recuperare il divario accumulato in anni di politiche sull’istruzione che hanno allontanato il Belpaese dalle altre nazioni europee e non, ma è possibile avviare percorsi virtuosi in grado di invertire i trend negativi. Perché l’Ocse, che è una organizzazione principalmente dedita allo studio dei processi economici, sostiene la formazione dei singoli individui come motore di sviluppo sociale e economico. Per questa ragione raccoglie ogni anno in un ponderoso volume migliaia di dati e centinaia di grafici. Vediamo nel dettaglio lo stato di salute del sistema di istruzione e formazione italiano.

Il livello di istruzione della popolazione. Da sempre, uno dei talloni d’Achille del nostro paese. Mentre le altre nazioni puntano sull’accrescimento del livello di istruzione dei singoli cittadini, il nostro Paese resta indietro. E’ ancora troppo basso il livello di istruzione dei 25/64enni italiani: il 4 per cento con la laurea, contro il 17% dei paesi Ocse. Nel 2017, l’Italia ha solo 27 giovani di 25/34 anni su cento in possesso di laurea, contro una media Ocse del 44 per cento, superando soltanto il Messico. E tra i due generi sono i maschi i responsabili di questo disastro: nel 2017, meno laureati delle donne (20 per cento contro 33 per cento) e pochissimi progressi negli ultimi dieci anni. Eppure l’Ocse certifica con i numeri che studiare conviene: dà più opportunità di lavoro e consente guadagni maggiori. Ma in Italia la quota di laureati che lavora è tra le più basse al mondo: appena l’81 per cento. Anche sul fronte dell’educazione permanente l’Italia non fa una bella figura: appena 25 italiani su cento studiano e si aggiornano anche in età adulta. La media Ocse è esattamente il doppio.

Equità del sistema scolastico. Secondo gli esperti di Parigi, la scuola italiana boccia troppo. Col 3 per cento di bocciati alla scuola media e il 7 per cento alle superiori supera le rispettive medie internazionali, che sono del 2 e del 4 per cento rispettivamente. Anche se quello italiano appare come uno dei sistemi di istruzione più equi perché 71 ragazzi su cento con genitori non laureati proseguono gli studi all’università dopo il diploma, contro una media Ocse del 47 per cento.

Quanto finanziamo l’istruzione. L’Italia spende mediamente meno degli altri paesi per l’istruzione: in dollari Usa equivalenti per studente (il 28 per cento in meno dei paesi Osce) e in percentuale al Pil. Ma il trend, dopo anni di buoi, è nuovamente in crescita. Una spesa ancora rachitica che si ripercuote sugli studenti universitari: in Italia pagano ancora molto e ricevono poco. Basta fare un esempio. Uno studente italiano paga in tasse mediamente mille e 647 dollari (equivalenti) a testa e soltanto in 20 su cento ricevono un supporto economico: una borsa di studio o altro. In Finlandia non esistono tasse universitarie e il 55 per cento degli studenti riceve un sussidio.  L'Italia ha raggiunto un tasso di scolarizzazione completa (superiore al 90%) per i bambini di età compresa tra 5 e 14 anni e ha quasi raggiunto la piena scolarizzazione per i bambini di età inferiore.

Il sistema scolastico italiano in cifre. In media, gli alunni italiani passano in classe lo stesso tempo, in ore, a scuola dei compagni che frequentano nei paesi Ocse. Con un rapporto alunni/classi leggermente più basso della media internazionale. In questo caso influisce parecchio l’organizzazione del tempo-scuola nei diversi sistemi. Gli insegnanti italiani guadagnano in media dal 7 al 12 per cento, in base al livello di istruzione in cui insegnano, all’ingresso in cattedra. Ma poi questo divario si allarga al 25 per cento a metà carriera. E l’impegno lavorativo? Di poco inferiore alle media internazionali con l’età media più alta del mondo.

Italia, il Paese della laurea ereditaria. Le diseguaglianze cominciano all’asilo. Il rapporto Ocse disegna un Paese dove i giovani laureati sono svantaggiati, le donne fanno meno carriera degli uomini e chi viene da una famiglia poco istruita non arriva all’Università, scrivono Gianna Fregonara e Orsola Riva l'11 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". 

1. L’immobilità sociale. Un Paese arretrato, con un tasso di istruzione decisamente più basso della media Ocse, dove i laureati scarseggiano ma, nonostante la penuria di «dottori», il vantaggio relativo della laurea sul mercato del lavoro è inferiore che altrove. Non solo. La laurea, anziché funzionare da ascensore sociale, da noi si eredita come un titolo nobiliare: la percentuale di laureati «figli di» sfiora il 90 per cento, mentre fra chi ha genitori con la sola terza media solo uno su dieci riesce a raggiungere la meta. E ancora: in un Paese dove i pochi laureati sono per lo più donne, il 17 per cento di esse dopo l’agognato traguardo non fa più nulla: non lavora (né cerca lavoro) e non studia. E quand’anche lavorano guadagnano molto meno dei colleghi maschi. I cosiddetti Neet in Italia sono il doppio della media Ocse (30 per cento fra i 20-24enni contro il 16%) e la forbice fra Nord e Sud è massima (15 per cento nel Nordovest, 32 per cento nelle Isole). E’ questo il quadro, desolante anche se poco sorprendente, che esce dall’ultimo rapporto Ocse sullo Stato dell’educazione in Italia e nel mondo intitolato Education at a glance. Vediamolo nel dettaglio. Intanto: lo svantaggio dei poveri sui ricchi parte fin dall’asilo nido. Questione di costi (oltre che di resistenze culturali): non tutti possono permettersi i nidi che, va ricordato, sono a pagamento, anche quelli comunali.

2. Le differenze cominciano dal nido. Non sorprende quindi che i figli di madri laureate abbiano molte più possibilità di accedere al nido dei figli di madri non laureate.

3. Troppi pochi laureati. Se le diseguaglianze incominciano all’asilo, non c’è da sorprendersi che ora dell’università il destino sia ormai segnato. Siamo uno dei Paesi in cui la famiglia di origine, e in particolare l’avere almeno un genitore laureato, conta di più nell’accesso all’Università. Proprio perché la laurea da noi tende a essere ereditaria, per quanto il numero di giovani dottori sia aumentato negli ultimi dieci anni (passando dal 19 per cento del 2007 al 27% del 2017), il passo è stato troppo lento e ormai siamo maglia nera in Europa.

4. Uno su dieci. Ed eccola qui la fotografia dell’ascensore sociale bloccato: fra chi ha i genitori con la sola terza media appena uno su dieci riesce a ottenere la laurea contro una media Ocse che è doppia (21%). Mentre i figli di genitori laureati hanno praticamente la laurea in tasca (87% contro una media Ocse del 68%).

5. Peggio della Grecia. Altro triste record italiano: i giovani «Not in education employment or training», i cosiddetti Neet: fra i 20-24enni l’Italia è messa peggio anche della Grecia.

6. Le donne non lavorano. Se poi si va a guardare nella fascia d’età appena un po’ più «vecchia» (i 25-29enni) qui il gap maschi-femmine diventa drammatico con un 40 per cento di donne (quasi una su due!) che non lavora (ma non è disoccupata né studia). Non parliamo di disoccupate ma giovani donne che nemmeno lo cercano un lavoro.

7. Lo spreco delle ragazze. Lo svantaggio femminile diminuirà pure con il livello di studio, ma il 17 per cento di laureate inattive è un dato impressionante: uno spreco di capitale umano che vale alcuni punti di Pil.

8. Le donne non fanno carriera. Del resto anche le donne laureate che lavorano devono però subire l’ingiustizia di retribuzioni (e carriere) decisamente inferiori a quelle dei colleghi maschi. Peggio di noi in Europa fanno giusto i Paesi del gruppo di Visegrad (l’Ungheria di Orbán, la Repubblica Ceca e la Slovacchia; in Polonia lo svantaggio delle donne è appena un po’ meglio che da noi).

9. Tante laureate ma poche lavorano. Lo svantaggio delle ragazze è tanto più nocivo per tutti dal momento che, nella penuria generale di dottori, la parte del leone la fanno proprio le ragazze, che rappresentano il 55 per cento del totale dei laureati.

10. Il sistema non aiuta gli stranieri. E’ alto in Italia il divario tra gli adulti nati nel nostro Paese e qui istruiti e quello degli adulti immigrati che difficilmente hanno un livello di istruzione conveniente e non ci sono programmi di educazione per adulti sufficienti.

11. I Neet soprattutto al Sud. La percentuale di giovani «persi», cioè di Neet varia tantissimo da regione a regione, passando dal 40 per cento in alcune zone del Sud fino al 10-12 per cento nel Nord. Va detto che il dato risente della presenza di lavoro nero o sommerso che non riesce ad essere calcolato in queste stime.

12. Laureati e disoccupati. Prospettive fosche, che confermano i dati già pubblicati dall’Istat: per i giovani laureati la possibilità di trovare lavoro e di fare carriera continuano a diminuire: in parte dipende anche dal fatto che non sempre le facoltà scelte dai ragazzi forniscono le competenze richieste dal mercato.

13. La fuga. Sarà l’effetto Erasmus, sarà che la libera circolazione delle persone funziona, sarà anche che cresce la paura per il futuro nel nostro Paese: è impressionante il numero di studenti che vanno a fare l’Università fuori dall’Italia: + 36 per cento in soli tre anni.

14. Dove vanno gli italiani. Per chi vuole studiare all’estero si confermano le mete tradizionali, cioè gli Atenei di Regno Unito, Francia, Austria e Germania.

15. Pochi stranieri. Stenta l’internazionalizzazione del nostro sistema universitario: per sopperire alla fuga di cervelli che vanno a studiare all’estero, l’Italia dovrebbe attrarre studenti dagli altri Paesi: ma così non è, o meglio il numero di arrivi di studenti stranieri nei nostri atenei è ancora troppo basso.

16. Gli insegnanti più vecchi. Buone notizie per quanto riguarda il corpo insegnante: con le ultime assunzioni e con l’entrata a regime della legge Fornero, diminuisce l’età media dei prof.

Se nasci povero, resti povero: nessun Paese peggio dell'Italia per immobilità sociale. La possibilità di migliorare la propria condizione economica di nascita è praticamente un'utopia: tutti gli Stati occidentali sono messi meglio di noi. I numeri di un rapporto davvero preoccupante, scrive Roberto Carlini il 6 settembre 2018 su "L'Espresso". Esiste un record negativo italiano che non è misurabile in debito pubblico, deficit, giovani Neet, evasione fiscale. Ma a guardarlo da vicino fa paura almeno quanto i primi. È l’immobilità sociale, o meglio: quanto della tua vita dipende dalla famiglia in cui sei nato. Si può misurare in tanti modi ma, comunque la contiamo, l’Italia svetta in Europa, e di gran lunga. Lo rivelano i dati del più grande database sulla mobilità sociale nel mondo, costruito dalla Banca mondiale e illustrato nel rapporto “Fair Progress?”. Tra i quali, una buona parte viene dal progetto-partner a guida italiana di Equalchances.org: sul sito, creato dal Dipartimento di economia e finanza dell’università di Bari, ciascuno può divertirsi - diciamo così - a controllare, per il proprio e per gli altri Paesi, il funzionamento dell’ascensore sociale, scorrendo gli indici della diseguaglianza di opportunità, trasmissione del reddito e dello status tra generazioni, mobilità nell’istruzione. E una cosa è certa: qualcosa si è inceppato, servirebbe un ascensorista. Con particolare urgenza per l’Italia, dove quasi la metà del reddito dei figli è determinata dal livello di quello dei padri: condizione unica nell’Europa continentale, paragonabile solo a quella di Regno Unito e Stati Uniti, per i Paesi sviluppati. Ma, quanto a diseguaglianza delle opportunità, superiamo anche i regni di Brexit e Trump.

Di padre in figlio. «Ogni giorno nel mondo nascono 400 mila bambini. Nessuno di loro sceglie il genere, l’appartenenza etnica, il luogo in cui si è venuti al mondo. Né le condizioni economiche e sociali della famiglia. Il punto di partenza della vita è una lotteria». Così la Banca mondiale introduce il suo rapporto, che punta a dare il primo set di numeri a copertura mondiale sulla mobilità tra generazioni. Espressione con la quale si intendono due cose: quanto, nella media, il livello di vita e benessere di una generazione è migliorato rispetto a quella precedente; e quanto la posizione di ciascuna persona sulla scala economica dipende da quella dei suoi genitori. Normalmente, le due cose vanno insieme: periodi di forte crescita economica fanno fare salti di benessere da una generazione all’altra e rendono anche più facile ai figli emanciparsi dallo status dei genitori. È quello che è successo nel mondo occidentale negli anni Cinquanta, e sta succedendo ora in paesi come Cina e India. Ma attenzione, dice la Banca mondiale: non è automatico che questo succeda, e infatti anche in molti paesi in via di sviluppo la mobilità sociale da genitori a figli oggi è bloccata. E poi c’è il contrappasso, quando la crescita si ferma e la marea che portava avanti tutte le barchette si ritira. Come è successo in tutti i paesi sviluppati e con particolare evidenza in Italia. «Per un certo numero di anni la crescita ha consentito a tutti di migliorare le proprie posizioni, sono stati fatti molti passi avanti soprattutto nel rapporto tra titoli di studio», spiega Vito Peragine, professore di economia politica all’università di Bari e collaboratore del progetto della Banca mondiale. I cui numeri permettono anche di confrontare la mobilità tra generazioni di oggi con quella di ieri, e ci dicono che «negli ultimi venti anni, da quando si è fermata la pur debole crescita economica, si è evidenziato il blocco dell’ascensore sociale». Anzi, a dirla tutta lo stop ha evidenziato che quell’ascensore non ha mai funzionato bene: per esempio, l’Italia è uno di quei paesi nei quali non c’è uno stretto rapporto tra i progressi nel settore dell’istruzione e quelli nel reddito. In altre parole, il titolo di studio dei genitori è meno importante di prima nel definire quello che avranno i figli - l’operaio può bene avere il figlio dottore, si è avverato l’incubo della contessa di Paolo Pietrangeli - ma è anche poco rilevante nel determinare le opportunità relative di lavoro, reddito, benessere. In effetti, se si vanno a guardare i numeri di equalchances.org, e si confronta la generazione nata nel ’40 con quella dell’80 - l’ultima di cui si abbiano dati completi – si vede che a scuola l’ascensore ha funzionato. L’indice che misura la mobilità tra generazioni nell’istruzione - più alto il numero, più bassa la mobilità - è sceso da 0,57 a 0,33. È successo lo stesso in Francia, Germania, persino nel Regno Unito, mentre lo stesso indice è sceso di pochissimo, da 0,34 a 0,32, negli Stati Uniti dell’istruzione privatizzata. Eppure, questo buon andamento in Italia non ha migliorato sostanzialmente la mobilità tra generazioni nel reddito, e non ha ridotto le diseguaglianze di opportunità. L’indice che misura la mobilità intergenerazionale dei redditi è in Italia a quota 0,48, contro lo 0,35 della Francia e lo 0,23 della Germania. Vuol dire che da noi quasi la metà del reddito dei figli dipende da quello dei genitori. È il più alto d’Europa - vicino a quello inglese - e nel mondo sviluppato inferiore solo a quello degli Stati Uniti, paesi dai quali siamo tuttavia molto distanti nella struttura sociale ed economica.

Le diseguali opportunità. Da cosa dipende questa eccezione italiana in Europa? E perché il grande balzo in avanti nell’istruzione non ha avuto grandi effetti di reddito e benessere? La stessa Banca mondiale ci aiuta a rispondere, ridimensionando un po’ il peso del fattore “istruzione”: anche se tutto il rapporto è dedicato proprio alla mobilità educativa (sia come dati che come politiche auspicate), vi si spiega anche che ci sono altre motivazioni della persistenza del reddito e del benessere da una generazione all’altra. A parità di istruzione il peso della famiglia di origine - fatto di status sociale, conoscenze, relazioni amicali - torna prepotente e si fa sentire di più in contesti più fermi, con maggiore disoccupazione, minore apertura. Tutto ciò può spiegare il più scioccante dei numeri che si possono scoprire navigando nei dati: quelli della diseguaglianza di opportunità. Qui superiamo anche Gran Bretagna e Stati Uniti, e per trovare paesi più in alto dobbiamo confrontarci con il Brasile, il Sud Africa, la Bulgaria. In particolare, spiega Vito Peragine, abbiamo un livello molto alto di diseguaglianza “relativa” delle opportunità, ossia di quella parte delle diseguaglianze spiegato esclusivamente dalla propria origine, dalla lotteria della nascita. Numeri che ne introducono altri, stavolta più soggettivi: quelli sulla percezione della propria posizione e quella dei propri figli. Secondo una indagine citata dalla Banca mondiale, gli italiano sono al penultimo posto - seguiti solo dalla Slovenia in pessimismo - nella previsione “i bambini che nascono oggi staranno meglio di noi”: otto su dieci non la pensano così. Mentre quasi 4 su 10 ritengono comunque di stare meglio dei propri genitori. Tutto ciò, dice il rapporto, condiziona il futuro, il benessere, la tenuta sociale. Non a caso lo stesso gruppo di esperti della Banca Mondiale sfornerà a breve un altro rapporto sull’impatto delle diseguaglianze sul contratto sociale europeo, mettendo direttamente la mole dei numeri dell’ingiustizia sociale in correlazione con i rivolgimenti politici europei e l’ascesa dei nazional-populismi.

Catastrofe culturale: tre milioni e mezzo di studenti hanno abbandonato la scuola. Anticipiamo in esclusiva i dati elaborati dal dossier Tuttoscuola: ogni anno più di 150mila ragazzi lasciano le aule. I numeri impressionanti di un fallimento sociale ma anche economico, scrive Francesca Sironi il 7 settembre 2018 su "L'Espresso". A giorni le classi saranno formate, gli zaini pronti, 590 mila ragazzi inizieranno le scuola superiori. Evviva. Ma uno di loro su quattro non arriverà al diploma. Dirà addio agli studi prima di averli portati a termine. Un dossier della rivista specializzata Tuttoscuola che L’Espresso può anticipare in esclusiva mostra come l’Italia abbia perso lungo la strada tre milioni e mezzo di studenti, dal 1995 a oggi. È una voragine: il 30,6 per cento degli iscritti è scomparso prima di raggiungere il traguardo. Certo, in questi vent’anni sono stati alzati argini, spesso grazie a iniziative esterne, di volontari e associazioni. E il tasso di abbandono scolastico è diminuito: nel 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori 151mila ragazzi, il 24,7 per cento del totale, contro il 36,7 del duemila. È un miglioramento, ma non una vittoria. Perché l’incuria intorno e lo sconforto interno che portano gli adolescenti a far cadere i libri prima di averli compresi, sono gli stessi spettri che rischiano poi di trattenerli a lungo in quella macchia che è la conta dei Neet, dei giovani che non studiano né lavorano: il vuoto lattiginoso dentro cui è chiuso un ventenne su tre al Sud. «Si può evitare questa immane, ennesima catastrofe culturale, economica e sociale, che avviene proprio davanti ai nostri occhi disattenti e rassegnati?», si chiede Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, introducendo il dossier, “La scuola colabrodo”: «Per farlo di sicuro bisogna partire dal sistema scolastico». Inizia il nuovo anno scolastico e L'Espresso dedica la copertina al dossier su chi invece di sedersi sui banchi da questa scuola scappa: dal 1995 a oggi sono stati infatti 3 milioni e mezzo gli studenti delle superiori che non hanno completato il ciclo di studi. Ognuno di loro è costato in media 7mila euro allo Stato, per un totale di 55 miliardi di euro. Una sconfitta per la scuola e per le istituzioni che dovrebbero costruire un futuro di opportunità per quei ragazzi che, spesso senza averne colpa, non riescono a farcela e sono obbligati ad abbandonare i banchi. Poi, sul nuovo numero dell'Espresso, la situazione caotica in Libia e le storie dei bambini migranti arrivati invece in Italia e tenuti in ostaggio del ministro dell'Interno. Infine, il ritratto del presidente della Camera Roberto Fico, speranza o illusione del popolo di sinistra? A rafforzare l'urgenza del tema possono essere i conti. Tuttoscuola li ha fatti, in denaro: ha calcolato quanto ci costa questo spreco generazionale. Partendo dalla stima Ocse per cui lo Stato investe poco meno di settemila euro l’anno a studente, per l’istruzione secondaria, il costo degli abbandoni si misura allora in cinque miliardi e 520 milioni solo considerando i cicli scolastici 2009-2014 e 2014-2018. Cinque miliardi bruciati in nove appelli d’inizio settembre. Ancora non importa a nessuno, questo spreco? Guardando ai vent'anni presi in considerazione dal dossier, la cifra diventa addirittura vertiginosa: 55,4 miliardi di euro. È la misura di un fallimento sociale, oltre che economico, enorme. E che ne racchiude altri, perché come ricorda il rapporto, più istruzione significa anche più lavoro, più salute, più democrazia. Mentre lasciar seccare l’insegnamento, e la sua copertura, significa togliere strumenti e possibilità agli attuali e prossimi cittadini, quindi all’Italia come paese. Sull'Espresso in edicola il 9 settembre tutti i dati del rapporto insieme alle riflessioni e alle proposte di chi si occupa di dispersione scolastica. Oltre a un focus sull'altro aspetto della fuga: quella dei neo-laureati che cercano un futuro solo all'estero.

Il saluto romano di un bimbo scatena "Repubblica". Sulla vicenda avvenuta a Cantù difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica, scrive Paolo Granzotto su “Il Giornale”. In italiano, chiamasi grottesca la sensazione prodotta da ciò che è paradossale, sproporzionato. Squilibrato. Bene, su un episodio avvenuto in quel di Cantù - e del quale daremo subito conto - difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica . I fatti: la quiete e l'ordine di una scuola materna del canturino sarebbero stati turbati dalla presenza di un bimbo (quattro anni) che saluta i suoi amichetti e pare anche il bidello «col braccio proteso in avanti» e cioè, annota indignato il cronista Paolo Berizzi, «come Mussolini, come Hitler». Gesto che al bimbo (ripeto: quattro anni) avrebbe insegnato a fare il padre: un «nostalgico», come si dice. Anche scomodando Hitler e Mussolini, il saluto del «Baby Balilla» (così il Berizzi) altro non parrebbe che un inconsapevole e giocoso uzzolo infantile. Ma non a Cantù, dove diventa - e questo perché la vigilanza antifascista non dorme mai - un abominio democratico. La cui sinistra eco giunge alle orecchie dei repubblicones che ci si buttano sopra in maniera forsennata: un'intera pagina, con un richiamo in prima. Dividendo lo spazio fra la deprecazione del bambino (insisto: quattro anni) che fa il saluto romano e l'encomio per la ferma risposta della scuola materna alle provocatorie gesta del marmocchio. Stando al cronista, la prima reazione fu quella di inviare un'informativa al Provveditorato agli studi, cosa che si fa quando in normale svolgimento della attività didattica è seriamente minacciato. Ma alla fine, forse per non smentire lo spirito politicamente corretto che anima l'istituto, hanno ripiegato sullo strumento del dialogo&confronto: convocati i genitori, è stato loro fatto presente che «quel saluto è vietato dalla legge italiana». Pertanto «delle due l'una: o il bimbo (devo ripetermi: quattro anni) la smette di salutare come il Duce oppure non può più frequentare la scuola materna». In verità, reati non se ne vedono perché il saluto romano è sì vietato dalla legge del giugno 1993, ma «solo qualora compiuto con intento di rivolgere la sua attività alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del carattere fascista». Intenzioni che sarebbe arduo attribuire ad un quattrenne e di conseguenza determinarne l'espulsione dall'asilo, naturalmente ove non cessi di salutare come a lui piace. Obiezione di nessun conto per Paolo Berizzi il quale sfodera ben altro e più solido argomento a favore dell'allontanamento: essendo l'asilo scuola pubblica, esso «si riconosce, come è ovvio, nei valori sanciti dalla Costituzione italiana il cui carattere è rigorosamente antifascista». Per cui, Carta più bella del mondo alla mano, niente asilo per il «camerata in erba» (così il Berizzi). A meno che non faccia autocritica e come un Dario Franceschini non giuri in piazza sulla Costituzione di non salutare più col «braccio destro proteso in avanti». Il sinistro andrebbe bene. E anche il destro, purché flesso. È nei dettagli che l'antifascismo vive e lotta con noi.

L’orribile “fascismo” degli antifascisti, scrive “Francesco Maria del Vigo”. “Correggere”. Un parola che già mette i brividi. Se poi la “correzione” – la rieducazione – riguarda un bambino di quattro anni le tinte diventano ancora più fosche. Partiamo dal principio. Repubblica di oggi racconta, con un certo compiacimento, una storia delirante. A Cantù un bambino di quattro anni si presenta all’asilo salutando tutti, maestre e compagni, con il braccio teso. I responsabili della scuola materna convocano i genitori del microbalilla, i quali – senza indugi – ammettono di avergli insegnato il saluto fascista: “Vogliamo dargli un’educazione rigorosa”. Non pago il padre arrotola la manica della camicia (non è dato sapere se fosse nera) e mostra una svastica tatuata sull’avambraccio. Il primo colloquio finisce in un nulla di fatto e le maestre passano al contrattacco: i genitori devono “correggere” il bambino. Correggere, come si fa con gli errori. O smette di salutare romanamente o lo sbattono fuori dall’asilo. Ora, è evidente che imporre il saluto romano a un bambino di quattro anni è demenziale. Ma anche creare un caso e “rieducare” è un comportamento da colonia penale, più che da scuola per l’infanzia. La famiglia ha sbagliato, lo Stato anche. Ed è ancora più grave. Ma questa non è solo la storia di un’educazione sui generis, è la cartella clinica di un Paese ancora diviso dal muro dell’odio. Un Paese in balìa di una tensione antifascista costante. Quando l’antifascismo dovrebbe essere morto e sepolto per evidente mancanza di fascismo. A eccezione di qualche caso marginale come la famiglia di sopra, che non costituisce certamente un pericolo politico per la gloriosa repubblica italiana. Invece, specialmente in questo settantesimo anniversario della Liberazione, l’antifascismo è tornato. Arrogante. Totalitario. E scleroticamente conservatore. Con la sua ridicola retorica, le sue bandiere rosse, le sue Belle Ciao, e le tirate moralizzatrici delle Boldrini. Fascismo è tornato a essere l’insulto più quotato. Basta prendere in mano un qualsiasi quotidiano e sembra di sfogliare un numero del Popolo d’Italia del 34. Improvvisamente sono tutti fascisti. Berlusconi lo è per definizione, Renzi anche, Salvini figuriamoci. I poveri di parole hanno sempre un “fascista” in tasca da lanciare sul muso del primo che osi superare lo stop del politicamente corretto. Il termine “fascista” è il cartellino rosso. La squalifica. Il confino intellettuale e politico, giusto per non spostarci dal Ventennio. Perché il paradosso è proprio questo: secondo i loro parametri – quelli degli antifascisti che vedono ovunque camicie nere – loro stessi sono dei fascisti. Degli squadristi culturali che mettono all’indice il dissenso e ora si prendono la briga di “correggere” i bambini di quattro anni. Come nelle dittature. Come in Unione Sovietica. Ché poi – alla fine – il problema è sempre quello. 

"Saluto fascista del bimbo? Una bufala di Repubblica", scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. C’è del «nero» che si insinua nella tranquilla Cantù, turbando i sonni dei sinceri democratici? Mah. Per ora c’è un piccolo giallo che è interessante raccontare, riguardante un fascista in miniatura, un bambino con la passione per il Duce di cui molto si è discusso nei giorni scorsi. Martedì su Repubblica, con evidente richiamo in prima pagina, l'inviato Paolo Berizzi ha scritto che in una scuola materna pubblica di Cantù ci sarebbe un bambino di quattro anni con l’abitudine di fare il saluto romano. Lo maestre, indignate, avrebbero minacciato di cacciarlo dall’asilo se i genitori non fossero intervenuti. A cosa si deve tanta indignazione per il presunto Balilla? Al fatto che, suggeriva Repubblica, questo piccino è l’abominevole figlio di una «provincia “nera”». Ma perché Cantù sarebbe «provincia nera»? Lo ha scritto Berizzi: «Da due anni la cittadina in provincia di Como ospita il Festival Boreal, un raduno di ispirazione neonazista organizzato da Forza Nuova. (…) A scatenare polemiche sul raduno è stata l’autorizzazione - sorprendente - concessa dal sindaco di Cantù, Claudio Bizzozero. Il quale - in nome del “tutti hanno diritto di parola, anche i fascisti, da amministratore devo garantire questo principio democratico” - non solo ha dato il benestare all’evento (…) ma lo scorso anno si è addirittura presentato, in veste ufficiale, all’apertura del raduno per un saluto ai camerati». Capito che succede se un sindaco dà diritto di parola o di aggregazione ai fascisti? Poi il morbo si diffonde. Da genitori con le «svastiche tatuate» nascono dei bambini a loro volta fascisti, che sfoggiano il manganello al posto del ciuccio. La smentita del sindaco - C’è però un particolare che confligge con questa lettura della realtà fornita dal giornale di Ezio Mauro. Il sindaco di Cantù sostiene che, nella sua città, del bambino fascista non ci sia traccia. «Dopo che Repubblica ha pubblicato questa bufala», spiega a Libero, «ho fatto sentire tutti gli istituti e le scuole materne. E le dico che quel bambino di sicuro non frequenta una scuola di Cantù. Me lo hanno confermato i direttori e le direttrici delle scuole, che ho contattato uno per uno e che sono tenuti a dirmi le cose come stanno». Bizzozero dunque sostiene che Repubblica abbia scritto il falso: se davvero c’è un bambino che ama i saluti romani, di certo non è a Cantù. Motivo per cui il sindaco querelerà il giornale. «Ho il dovere di farlo», dice. «La bufala che ha pubblicato è allucinante». Anche al Provveditorato di Como sono sopresi. Rosa Siporso, sentita dalla Provincia di Como come referente dell’ufficio scolastico, ha spiegato: «Non abbiamo mai ricevuto segnalazioni simili». E ha aggiunto: «È strano, un dirigente scolastico di un qualsiasi nostro istituto comprensivo, a fronte di una storia del genere, quanto meno si sarebbe preoccupato di avvertire».  Dal canto suo, Paolo Berizzi conferma tutto: «È una notizia straverificata», ha ripetuto ieri a Libero. Spiega che non ha intenzione di dire di più per tutelare la sua fonte, e si professa certissimo di quanto ha pubblicato. Però non rivela quale sia la scuola. Ma come nasce questa strana vicenda? L’ha ricostruita un giornalista della Provincia, Christian Galimberti. Venerdì scorso, Paolo Berizzi si trovava a Como a presentare un suo libro. A moderare l’incontro c’era Barbara Rizzi di Ecoinformazioni, che ha raccontato: «Una maestra si è avvicinata prima dell’incontro a me e a Berizzi e ha raccontato quanto le è accaduto. Non so di quale scuola sia e di quale paese. Detta così potrebbe sembrare anche inventata? Può darsi, io non lo so». Dunque la fonte sarebbe questa signora apparsa alla presentazione del libro di Berizzi. Ed è qui che il sindaco di Cantù va su tutte le furie: «Ma non era il caso di verificare? Di chiamare il Provveditorato, per esempio? Adesso voglio proprio sapere, se questo bambino davvero c’è, che scuola frequenta, da che Comune viene. Se si trattasse di un Comune guidato dal Pd, Repubblica dirà che dove governa il Pd ci sono i bambini che fanno il saluto romano?». È una questione interessante. Perché se davvero il bambino c’è, ma non è di Cantù, la teoria della «Provincia “nera”» fa un po’ sorridere. C’è anche una curiosa coincidenza. Il libro che Berizzi è andato a presentare venerdì si intitola Bande Nere. Come vivono, chi sono, chi protegge, i nuovi nazisfascisti, e risale a qualche anno fa. Quando uscì, l’editore Bompiani fu costretto a ritirarlo. Come mai? Conteneva una foto, presentata come un documento esplosivo, che ritraeva Ignazio La Russa in compagnia di quello che veniva indicato come un uomo della ’ndrangheta. Peccato che il signore in questione fosse in realtà un carabiniere: dunque il libro dovette essere ristampato. A Repubblica i «fascisti» non portano molta fortuna.

Il responsabile scuola della Lega ha la terza media. Ed è capo della Commissione Istruzione. Il senatore Mario Pittoni ha scritto per il Carroccio la riforma che dovrebbe archiviare la Buona scuola. Ma nel curriculum, scritto a penna, non ha mai chiarito quale fosse il suo titolo di studio. E ora spiega: "Quello che c'è da sapere non si impara sui polverosi libri", scrive Elena Testi il 10 settembre 2018 su "L'Espresso". Il presidente della commissione istruzione al Senato, l'uomo che dovrebbe vigilare su abbandono, formazione e precariato, ha la terza media. A confermarlo, dopo mesi di voci sul suo conto, è lui stesso, il senatore Mario Pittoni, "l’uomo istruzione" della Lega di Matteo Salvini. E proprio Pittoni, al telefono con l'Espresso, spiega di essere stato fino ad oggi reticente per "paura della guerra social". Si sente una risata dall’altro capo: "Sa, sono figlio della contestazione globale, erano tempi in cui ci si opponeva. Ho un padre insegnante e un fratello professore, quindi ho sempre respirato scuola e per questo sono preparatissimo. Non mi sono diplomato per ribellione". Pausa. "Ripeto, preparatissimo. Ma questo non lo scriva che lodarsi non è bello". Per il Carroccio ha scritto il programma che rivoluzionerà la scuola italiana. Ed è per questo che è stato nominato presidente della Commissione Istruzione Pubblica al Senato. Mario Pittoni, classe ‘50, leghista di ferro, ha un curriculum vitae facilmente consultabile sul portale web del Comune di Udine. Poche voci, scritte in uno stampatello stentato e una calligrafia incomprensibile (sì, è compilato a mano). Tra le voci degne di nota ci sono: addetto stampa di Edi Orioli, campione della Parigi-Dakar e direttore responsabile di una rivista di annunci. Sempre nel cv si trova "nel 1991 ha creato Lega Nord Flash, opuscolo d’informazione di carattere nazionale". Tra le capacità e le competenze personali annovera "Senatore della repubblica nella XVI legislazione. Capogruppo Lega Nord in commissione istruzione". Alla voce "patente o patenti" ha inserito "X auto e moto". La "X" in questo caso dovrebbe essere la traduzione di "per". Ma è a "tipo di istruzione o formazione" che il senatore ha scritto "iscrizione albo dei giornalisti pubblicisti dal 1981", come se il titolo di studi, quello per cui lavora in commissione Senato, non abbia alcuna importanza e possa essere sostituito con altre diciture. Ma eccole le grandi rivoluzione proposte da Mario Pittoni in campagna elettorale e rese note, il 14 marzo scorso, da Matteo Salvini in una conferenza a Strasburgo: unificazione del ciclo di studi di elementari e medie (in poche parole diventeranno una cosa sola). Ritorno al "professore prevalente" che insegnerà le materie principali, seguendo gli alunni per tutto il percorso. Riavvicinare i docenti al proprio territorio e concorsi su base regionale, via alla chiamata diretta e infine ripristino del "valore educativo delle bocciature". Nel contratto di Governo qualcosa è stato mantenuto: chiamata diretta e trasferimenti. Aggiunti: l’abolizione delle classi "pollaio" e l’intensificazione delle ore di ginnastica. Lo stesso senatore ammette: «Stiamo lavorando per mantenere le promesse fatte e abbiamo già depositato due disegni di legge importanti che riguardano gli insegnanti». Il primo per l’eliminazione della chiamata diretta e l’altro per i posti vacanti. L’unificazione di medie ed elementari «è un progetto che stiamo portando avanti, perché se ne parla da anni ma ci vuole tempo, è solo due mesi che siamo al Governo». L’obiettivo è semplice «smontare la Buona Scuola punto per punto». La Buona scuola figlia, difficile dimenticare, di una ministra anch’essa al centro delle polemiche per il titolo di studio dichiarato. Quando la verità venne a galla, Movimento 5 Stelle e Lega (all’epoca Nord) chiesero le dimissioni immediate di Valeria Fedeli. Ma alla fine come dice il presidente della commissione "Istruzione Pubblica" del Senato quello che «c'è da sapere non si impara su polverosi libri». Vuole aggiungere altro? «Dovevo dirle qualcosa di importante, ma l’ho dimenticato». Qualche minuto dopo, via messaggio, il senatore ci comunica cosa si era dimenticato di aggiungere. «Quando, come nel mio caso, a spingerti è un'infinita passione, sei portato a studiare e approfondire ben più di quanto normalmente chiesto agli studenti. Di conseguenza sei facilitato nel trovare soluzioni». Prima di chiudere la telefonata, l’ostinata raccomandazione: «Mi metto nelle sua mani, mi raccomando». Alla faccia del "valore educativo delle bocciature".

Pittoni furioso con l'Espresso: "Mamma e fratello insegnanti, cresciuto a pane e scuola". Il senatore leghista con la terza media e capo della Commissione Istruzione di Palazzo Madama non ha preso bene l'articolo in cui segnalavamo la sua storia. E su Facebook si sfoga (con l'aiuto del team social di Salvini), scrive L'Espresso" l'11 settembre 2018. A Mario Pittoni il nostro articolo proprio non è piaciuto. Nella giornata di ieri l'Espresso, con un'intervista a firma di Elena Testi, raccontava il curioso caso del senatore del Carroccio, a capo della Commissione Istruzione di Palazzo Madama e responsabile per la scuola per la Lega che alla voce titolo di studio può annoverare solo la licenza media. Con un post su Facebook, Pittoni attacca l'Espresso segnalando che, avendo madre e fratello insegnanti, è "praticamente cresciuto a pane e scuola" e va avanti con un'enigmatica confessione: "I miei cinque anni di medie superiori li ho fatti, anche se in due scuole diverse". Il senatore Mario Pittoni ha scritto per il Carroccio la riforma che dovrebbe archiviare la Buona scuola. Ma nel curriculum, scritto a penna, non ha mai chiarito quale fosse il suo titolo di studio. E ora spiega: "Quello che c'è da sapere non si impara sui polverosi libri". Pittoni chiude definendo il Curriculum vitae formato europeo, scritto a penna, che ha presentato al comune di Udine come una "noticina buttata lì in 3 minuti su richiesta dell'impiegata comunale". Con tanti saluti all'importanza della trasparenza per chi riveste ruoli di responsabilità pubblica. La replica di Pittoni all'Espresso ha ricevuto anche un aiutino da parte di Luca Morisi, capo del team social al lavoro per Matteo Salvini, che oltre a mettere like al post lo ha condiviso su uno dei gruppi ufficiali della propaganda salviniana. Purtroppo, per Pittoni, senza ottenere grande eco.

Il curriculum scritto a penna del senatore leghista. Il senatore Mario Pittoni, capo della commissione Istruzione, ha come titolo di studio la licenza di terza media. A L'Espresso spiega di essere stato fino ad oggi reticente per "paura della guerra social". E aggiunge: "Sono figlio della contestazione globale, erano tempi in cui ci si opponeva. Ho un padre insegnante e un fratello professore, quindi ho sempre respirato scuola e per questo sono preparatissimo. Non mi sono diplomato per ribellione".

E Giorgetti manda il broker all’Istruzione. Gli affari di Marco Lo Nero, segretario particolare del ministro Bussetti, ex promotore finanziario e amico del braccio destro di Salvini, scrive Vittorio Malagutti il 15 luglio 2018 su "L'Espresso". Si chiama Marco Lo Nero, viene da Varese, ed è un uomo d’affari molto noto in città. Il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti lo ha portato con sé a Roma come segretario particolare. La nomina, formalizzata a fine giugno, è stata accolta con una certa sorpresa anche negli ambienti della Lega, il partito che ha sponsorizzato la velocissima e inaspettata ascesa di Bussetti, ex direttore dell’ufficio scolastico regionale di Milano. La regia dell’operazione viene attribuita all’onnipresente Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio (nonché braccio destro di Matteo Salvini) che amministra il patrimonio di voti e potere leghista nella provincia di Varese, storica roccaforte del Carroccio da cui proviene anche Bussetti. È fuori discussione la preparazione del neoministro, 56 anni, che lavora da sempre nel mondo della scuola. Di Lo Nero invece non si conoscono competenze di sorta nel campo della formazione, così come in generale, nella pubblica amministrazione. Più noti, invece, sono i rapporti di Lo Nero con Giorgetti. Entrambi appassionati di sport, calcio e pallacanestro in particolare, condividono il tifo per la squadra di basket di Varese. Negli anni scorsi è capitato spesso di incontrare i due amici seduti fianco a fianco, nei posti di parterre, in occasione delle partite casalinghe del quintetto varesino. Pure Bussetti se ne intende di pallacanestro. Il ministro dell’Istruzione, che è un professore di educazione fisica, ha anche allenato alcune squadre giovanili della provincia di Varese. Sport a parte, Lo Nero, 47 anni, vanta esperienze da broker finanziario. Ha lavorato come promotore in forza a Fideuram del gruppo Intesa e nel recente passato, proprio a causa di questa sua attività, ha dovuto far fronte a qualche grana giudiziaria. Nel luglio del 2017 il segretario del ministro è stato assolto in un processo che lo vedeva imputato per truffa aggravata. Ad accusarlo erano due clienti che gli avevano affidato due milioni di euro. Un patrimonio in gran parte andato in fumo per via di una serie di investimenti sbagliati. A carico dell’allora promotore Fideuram gravava il sospetto di aver fornito documentazione falsa per nascondere le perdite. La vicenda penale si è chiusa con un’assoluzione, ma resta aperta una richiesta di risarcimento in sede civile. Carte alla mano, non sembra finita granché bene neppure l’esperienza di Lo Nero nel gruppo immobiliare della famiglia Monferini, molto attivo a Varese e dintorni negli anni scorsi. Dopo un’ascesa velocissima, sostenuta da generosi prestiti delle banche (in prima fila gruppo Intesa e Popolare Bari) la holding Fim dei Monferini ha dichiarato fallimento nel 2017. Un crack da oltre 60 milioni di euro, che ha coinvolto altre imprese minori del gruppo. Il nome di Lo Nero ricorre anche in società con base a Praga legate ai Monferini, come la Misenska sro. Un’altra sigla della repubblica Ceca, la M 5 management, è stata invece utilizzata dall’ex promotore finanziario per incassare i compensi di consulenze a favore di aziende italiane. Risale a qualche anno fa, invece, un’altra iniziativa dell’attivissimo uomo d’affari varesino. Una sua società, la Retail & co, gestiva un ristorante e un bar all’aeroporto bergamasco di Orio al serio. L’estate scorsa le azioni della Retail & co sono state cedute a Piero Galparoli, per dieci anni fino al 2015 consigliere comunale di Forza Italia a Varese. Lo stesso Galparoli che per alcuni mesi, prima della chiusura a dicembre 2017, rilevò il controllo del quotidiano varesino “La Provincia”. Acqua passata. Per Lo Nero, sponsorizzato dall’amico Giorgetti, era pronta una poltrona a Roma, a fianco del ministro Bussetti.

Più migliore e più peggiore.  Sarà un segno dei tempi, la diffusione crescente del «più deteriore»? A scuola ci si insegnava che è un comparativo, come «peggiore»; e dunque anche «più peggiore» è uno sbaglio di grammatica. Ma per dare un filo di speranza agli italiani, non si potrebbe tentare qualche «più migliore»? Scrive Alberto Arbasino il 18 dicembre 2010 su "La Repubblica”.

Fedeli, la ministra dell’Istruzione più migliore di sempre. Ecco la nuova perla grammaticale, scrive il 21 dicembre 2017 "Il Fatto Quotidiano". Stati Generali dell’Alternanza Scuola-Lavoro, a parlare è il capo del Miur, la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. Che cade nuovamente sulla grammatica, regalando un “sempre più migliori” alla platea riunita a Roma per parlare della tanto contestata alternanza. Lo strafalcione non è passato inosservato, e ha contribuito a rilanciare le polemiche sul curriculum della ministra.

2017. Annus horribilis, tutti gli strafalcioni della ministra Valeria Fedeli, scrive il 21 dicembre 2017 "Corriere Universitario". Siamo agli sgoccioli di questa XVII legislatura e anche in questo quinquennio la politica nostrana non si è risparmiata nella consueta collezione di strafalcioni da manuale. Quest’ultimo anno, poi, il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca ha collezionato una serie interminabile di gaffe: dalle clamorose “traccie” invece che tracce della maturità2017, al “battere” al posto di batterio. Dopo la storia dei titoli di studio mancanti alla Valeria Fedeli, la scorsa settimana abbiamo assistito all’ennesima caduta di stile del capo di Viale Trastevere: il congiuntivo errato nella lettera spedita al Corriere della Sera, fino all’ultimo “più migliori” durante un discorso agli insegnanti. Sul congiuntivo sbagliato nella lettera al Corriere due giorni fa era intervenuto il suo portavoce, spiegando che il tutto era sorto dalla fretta nel tagliare una parte della missiva. “La ‘gaffe’ da voi segnalata – aveva scritto il portavoce Simone Collini a questo giornale – è in verità frutto di un mio errore nel tagliare il testo scritto dalla Ministra per renderlo compatibile con gli spazi previsti ai fini della pubblicazione. Così, due proposizioni originariamente indipendenti sul piano grammaticale, sono diventate una principale («sarebbe opportuno») e due subordinate («che lo studio della Storia non si fermasse tra le pareti delle aule scolastiche ma prosegua anche lungo tutti i percorsi professionali»)”. Insomma una imprecisione del portavoce e non della Fedeli. Stavolta, però, non sembrano esserci scuse: nel video compare proprio la ministra. E la figura non è “più migliore”. “C’è il rafforzamento della formazione per i docenti – si vede in un video che sta facendo il giro della Rete – che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza. Perché offrano percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse”. E quel “sempre più migliori” non è sfuggito alle orecchie degli internauti, che si sono catapultati a condividere il filmato con l’errore da penna rossa del ministro dell’Istruzione.

[Il ritratto] La ministra “più meglio”: dai congiuntivi sbagliati all’errore sul re. Tutte le gaffe della Fedeli. Purtroppo anche la sua ultima decisione, quella di far entrare gli smartphone nelle aule scolastiche e di farne uso, che come tutti possiamo intuire per i giovani sono «più meglio» di qualsiasi libro, ha suscitato un vespaio, scrive Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore su "notizie.tiscali.it" il 21 dicembre 2017. Mentre gli insegnanti precari della scuola bivaccano in mandrie sperdute nei corridoi e sulle scale delle università per versare l’ultimo incomprensibile balzello allo Stato che non li sistema, la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli sfreccia sempre «più migliore» verso nuovi lidi, nuovi incontri, nuovi successi. E qualche gaffe. Ma come si dice: solo chi non lavora non sbaglia.

La Laureata. E dopo 40 anni nel sindacato, l’impatto col lavoro dev’essere traumatizzante per chiunque. Valeria Fedeli, detta la Laureata, da non confondersi con Il laureato, che è il soprannome preferito di Oscar Giannino e Renzo Bossi, è intervenuta l’altro giorno fra un dibattito e l’altro nel corso degli "Stati generali dell’alternanza scuola lavoro" con un discorso pregnante ripreso in videoconferenza e isolato maliziosamente su Youtube nella sua performance meno brillante: «C’è il rafforzamento della formazione per i docenti che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza. Perché offrano percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse». Non avendo detto niente il portavoce della ministra, detto «Prosegua», che di solito sbaglia congiuntivi e affini in vece sua, dai giornalisti è stato subito fatto notare che non si dice «più migliori» e che soprattutto non dovrebbe dirlo il ministro dell’Istruzione.

La biografia corretta. E’ la solita polemica di lana caprina. Come quella sulla sua laurea, anzi sul suo diploma di laurea, che qualcuno era andato a spulciare nel suo curriculum ai tempi dell’insediamento al ministero facendo notare che non era quello il titolo di studio appropriato. Valeria Fedeli aveva immediatamente corretto la biografia modificando il diploma di laurea in diploma triennale, mentre attorno si levavano alte le grida di scandalo, perché il ministro dell’istruzione avrebbe dovuto invece essere laureato. In una lettera all’Unità, la ministra - «Riesco a dirle di chiamarmi ministra? No? E’ complicato?...» - aveva spiegato giustamente che per fare la ministra la mancanza di una laurea non è poi così grave perché la sua capacità di ascolto l’ha messa sempre nella posizione di apprendere.

Il passato nel sindacato. Come poi si è visto «più meglio» con il seguito del suo mandato. «Posso fare la ministra - ministra, ci tengo - dopo una vita nel sindacato. Sono stata apprezzata, promossa, chiamata a Roma e poi a Bruxelles a guidare il sindacato europeo dei tessili. Ho contribuito a salvare grandi aziende, ho portato nella Cgil le competenze dei ricercatori della moda. Fino a quando questo governo esisterà, cercherò di migliorare la scuola, l’università, la ricerca 24 ore al giorno». L’unico problema è forse il sindacato, cioè un’organizzazione votata ormai a proteggere elefanti e assenteisti contro quei rompiballe di precari e cococo vari, ritoccandosi pure gli emolumenti prima di andare in pensione, come è successo alla Cisl, ma per il resto l’accorato intervento della ministra - posso chiamarla così? - non fa una grinza e la sua buona volontà è indiscutibile. 

Gli smartphone in classe. Nel dicastero dell’Istruzione si è in effetti data molto da fare. Anche se i suoi nemici sottolineano che si è data troppo da fare. «Ho 40 anni di vita rigorosa nel sindacato», ripete lei. E l’abitudine al lavoro non si perde dall’oggi al domani. Purtroppo anche la sua ultima decisione, quella di far entrare gli smartphone nelle aule scolastiche e di farne uso, che come tutti possiamo intuire per i giovani sono «più meglio» di qualsiasi libro, ha suscitato un vespaio. Mentre invece si tratta di una scelta modernissima, in linea con i tempi, come si auspicano moltissimi studenti che sperano anche di poter avere almeno un’ora di play station al posto della matematica o della fisica. I Codacons, non si capisce perché, sono andati giù pesantissimi definendo questo provvedimento «una follia pura», minacciando ricorsi e denunce: «Invitiamo già da oggi i professori, se non vogliono rispondere dei danni arrecati agli studenti, a rifiutare categoricamente l’uso dei cellulari a scuola».

I congiuntivo perduto. La verità è che qualsiasi cosa faccia la nostra ministra - è complicato chiamarla così? - finisce sempre nell’occhio del ciclone. Come per una bellissima lettera scritta al Corriere della Sera, in cui a un certo punto c’era l’evidenza effettivamente un po’ marchiana di un congiuntivo sbagliato, prosegua anziché proseguisse, ed è scoppiato il finimondo. Apriti cielo. Per fortuna, il suo portavoce, detto anche «Prosegua», si è subito pubblicamente scusato ammettendo di essere lui il colpevole dell’errore. Adesso non stiamo a guardare il pelo nell’uovo, che magari sarebbe meglio che un ministro dell’istruzione nemmanco laureato si scegliesse almeno dei portavoce che conoscano l’uso del congiuntivo, perché, che ne sappiamo noi?, forse il dottor Prosegua è uno bravissimo con lo smartphone, che, come spiega lei, «è uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata». Viva la modernità, santocielo. Viva la ministra. Anche se va al Premio Cherasco Storia e confonde Vittorio Emanuele III, un re abbastanza indimenticabile per tutto quello che ha combinato, con il povero Vittorio Amedeo III, che visse più di 200 anni prima e fu sconfitto da Napoleone. «Più meglio» 40 anni di sindacato e i telefonini a scuola, che ci divertiamo tutti un casino.    

No, il ministro Fedeli non ha fatto un errore di grammatica. Ecco perché. Cari correttori pedanti, andate a quel paese. Ecco qualche possibile interpretazione dell'ormai celebre “sempre più migliori” pronunciato dal ministro, scrive Adriano Sofri il 21 Dicembre 2017 su "Il Foglio”. Si arrangi lei, la signora Valeria Fedeli, io vorrei mandare a quel paese i suoi correttori. Fedeli, con la quale non ho dimestichezze private, mi sembra una donna in gamba: la ascoltai in occasioni drammatiche come certi disastri nei capannoni di Prato, la lessi a proposito della storia delle donne nelle istituzioni repubblicane. Molto in gamba. Non saprei dire di lei come ministro perché non ne so. Fedeli ha detto “sempre più migliori”, eccitando un universale scandalo. In molti hanno commentato: ecco che cosa succede a mettere a capo dell’istruzione pubblica una donna non laureata. Questi commentatori evidentemente sottintendono che chi abbia un diploma da maestra di scuola materna e uno da assistente sociale non debba sapere che non si dice più migliore. Altri commentano: ecco che cosa succede a mettere a capo eccetera una sindacalista della Cgil. Come se i sindacalisti della Cgil non sapessero che non si dice più migliore, salvi i casi magnanimi in cui le / i sindacalisti della Cgil siano lavoratrici o lavoratori intelligenti e capaci che parlino una lingua, non so, a Pozzuoli, che dica efficacemente che una clausola contrattuale è “cchiù meglio assaie” di un’altra. Ora dunque Valeria Fedeli in un discorso scritto e intervallato da considerazioni improvvisate, ha letto: “… perché offrono percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse”. Io, che non sono maramaldo, immagino due circostanze che spieghino l’errore madornale di Fedeli, della quale do per scontato che sappia che non si dice più migliore. (Si dice bensì meno peggio, contraddizione apparente alla quale esorto gli italiani, specialmente alla vigilia di elezioni orribili). Una possibilità è che quel “sempre più” sia un maldestro inciso, tra due virgole, maldestro per la posizione nel periodo che induce la lettrice a pronunciare il più vicino al migliore. Un’altra possibilità è che la mescolanza di letto e parlato abbia tradito la lettrice-parlatrice che avrebbe detto “sempre più adeguati”, o “sempre più ricchi”, o sempre più qualunque altro aggettivo di grado positivo, e si sia trovata poi a completare il suo “sempre più” con il malcapitato “migliori”. Ritenete cavillosa, gratuita, pretestuosa questa interpretazione? Ah, be’, fatti vostri: io leggo e ascolto sui giornali, alla radio, in televisione, tanti strafalcioni grotteschi e destinati a far razza, commessi prodigalmente dai censori di errori altrui, che mi torna in mente un vecchio venditore di semini dolcetti e corbezzoli agli scolari di un secolo fa, di cui mi fu raccontato, uomo risentito ed esacerbato, cui un gran vento un giorno fece volar via dal banchetto i cartoccini con le sue merci e lui le inseguiva invece che per raccoglierle per calpestarle furiosamente esclamando: “Bene! Così mi inasprisco!”. Così io leggo i giornali, non di rado anche dei libri, e ascolto la radio e guardo la televisione: così mi inasprisco. Ma voi che mi leggete (ce n’è almeno uno o una che mi legge, vedo dal sito, perché clicca Mi piace, e non sono io, vada a lei o a lui il mio saluto) e non fate errori, mai, e siete magari inflessibili con la signora Fedeli e la sua laurea mancata e graziosamente vantata, prima di prendere alla leggera la mia interpretazione del “sempre più migliori”, eseguite le seguenti due operazioni. A: cercate su Google, Treccani, sinonimi, “Vieppiù”; troverete “ancor più, sempre più”. Bene, ora, B: cercate su Google fra virgolette, che ve lo dia testuale, “vieppiù migliori”. Troverete una quantità di ricorrenze, a firma di autori letterari o scientifici affidabili assai. Come mai? Perché in Vieppiù, formato da via e più, il più è chiaramente riferito al via e non al migliori: analogamente al più riferito al sempre e non al migliori della signora ministro, che però il sempre e il più distanziati e la lettura di parole probabilmente scritte da altri hanno indotto a pronunciare con il più vicino al migliori, e voce dal sen fuggita più richiamar non vale. A proposito, pedanteria per pedanteria, cercate finalmente su Google “più meglio”, e troverete un bravo professore che avverte: “Quanto al popolarissimo ‘più meglio’, non manca un es. di Fogazzaro (1881): ‘Potevano metterci nome l’Alpe del diavolo ch’era più meglio’, e uno del ’500 di F. Belo (1529): ‘E lo mio è più meglio’”. Concludo con una citazione di Arbasino 2010, che aveva anticipato e scavalcato il probblema (non toglietemi le due b, siate gentili, è Natale): “Sarà un segno dei tempi, la diffusione crescente del ‘più deteriore’? A scuola ci si insegnava che è un comparativo, come ‘peggiore’; e dunque anche ‘più peggiore’ è uno sbaglio di grammatica. Ma per dare un filo di speranza agli italiani, non si potrebbe tentare qualche ‘più migliore’?”. Ecco: tentammo.

"Sempre più migliori" è sbagliato. Va bene giocare ma la ministra Fedeli ammetta lo svarione, scrive il 27 dicembre 2017 di Massimo Arcangeli su "Il Fatto Quotidiano". Da un po’ di tempo tutto sembra poter diventare un gioco. Lo scopo non è di arrivare alla verità ultima ma piuttosto di negare la penultima per scalzarla e sovrapporle la propria, senza cedere di un millimetro nemmeno di fronte all’evidenza. A essere implicata una post verità le cui mutevoli facce si moltiplicano ogni giorno di più. Può sembrare che stia facendo qui lo stesso gioco per aggiudicarmi la posta su quel che è uscito (sempre più migliori) dalla bocca della ministra Valeria Fedeli. Non ci può però esser dubbio, se valutiamo bene il tutto, che la ministra dell’Istruzione sia incappata in uno svarione. Può capitare a tutti, per carità, bisogna solo avere il coraggio di ammetterlo. Un coraggio che è mancato, almeno finora. Qualcuno si è intanto sostituito ai difensori d’ufficio per perorare una causa persa in partenza. Ecco ciò che ha detto la ministra: “C’è il rafforzamento della formazione per i docenti, che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza, perché offrono percorsi e assistenza sempre più migliori… [piccola esitazione] a studenti e a studentesse”. Adriano Sofri e Stefano Bartezzaghi sono fra quelli che hanno provato a difendere l’indifendibile. Il primo, nel suo intervento sul Foglio (21 dicembre), ha giocato il più classico dei giochi a somma zero: uno vince e l’altro perde (al massimo può scapparci un pareggio). Meglio allora attaccare subito, in apertura del pezzo, senza mezze misure: «Si arrangi lei, la signora Valeria Fedeli, io vorrei mandare a quel paese i suoi correttori». Ne ha mandati un bel po’ a quel paese, Sofri. Compreso il sottoscritto. Anch’io ho detto che sì, la ministra Fedeli è incespicata sulla grammatica, e invece lui, Adriano Sofri, ha scritto che no, che la ministra ha detto giusto. Perché sempre più potrebbe essere un inciso, «maldestro per la posizione nel periodo che induce la lettrice a pronunciare il piùvicino al migliore. Un’altra possibilità è che la mescolanza di letto e parlato abbia tradito la lettrice-parlatrice che avrebbe detto “sempre più adeguati”, o “sempre più ricchi”, o sempre piùqualunque altro aggettivo di grado positivo, e si sia trovata poi a completare il suo “sempre più” con il malcapitato “migliori”». Perché, continua Sofri, è normale dire o scrivere vieppiù migliori: quel vieppiù, composto da un antico vie (‘ancora, assai’) e da più, non significa forse ‘molto più’ o ‘sempre più’? Perché nel Cinquecento, infine, qualcuno ha pur scritto più meglio (1529, Francesco Belo), e la stessa forma avrebbe usato Antonio Fogazzaro, tre secoli e mezzo dopo, in quest’esempio: «Potevano metterci nome l’Alpe del diavolo ch’era più meglio» (1881). Peccato che in quel vieppiù non conti tanto che il più sia «chiaramente riferito al via e non al migliori», come pensa Sofri, ma piuttosto che si faccia fatica a riconoscerlo in quanto tale perché unito al vie precedente (per lo stesso motivo non ravvisiamo l’articolo lo in perlopiù e perlomeno, altrimenti scriveremmo per il più e per il meno). Peccato che la lingua italiana, anche solo dall’Ottocento a oggi, abbia avuto la sua bella evoluzione. Peccato che la ministra avesse di fronte un testo scritto, su cui c’era evidentemente scritto “sempre più migliori” (migliori, non ricchi e nemmeno adeguati). Si può anche essere liberi di pensare che quel testo recasse scritto «percorsi e assistenza, sempre più, migliori» (un assist per la ministra) ma ci si arrampica sugli specchi e, in ogni caso, Fedeli avrebbe allora letto male e, nuovamente, avrebbe sbagliato: chi abbia ascoltato bene l’audio del suo intervento si sarà accorto che le parole incriminate sono state scandite in questo modo: «sempre // più / migliori» (l’inciso non c’è, e la pausa fra sempre e più è addirittura maggiore di quella fra più e migliori).

Stefano Bartezzaghi, in uno scambio con Mattia Feltri, si è giocato così le sue carte:

22 Dic mattia feltri: #Buongiorno "I più migliorissimi" ovvero non solo Fedeli: breve storia degli strafalcioni.

Stefano Bartezzaghi: Mattia, so che sei molto scrupoloso. La ministra ha magari molte lacune, ma quello che ha detto non è "più migliori" e non è un errore. Ha detto "sempre più" che grammaticalmente equivale ad "avremo risultati migliori sempre più". Stavolta ha ragione lei. 08:02 - 22 dic 2017.

L’ipotesi è fra quelle ventilate da Sofri – riaffiora l’inciso –, ma è giocata diversamente. S’inverte la sequenza e, oplà, il gioco è fatto. Purtroppo no, non funziona così, e chi ha dimestichezza con le lingue lo sa bene. Altrimenti non si spiegherebbe la differenza, per fare un esempio banale, fra Nessuno me l’ha detto e NON me l’ha detto nessuno. Infine, e andrebbe ribadito: migliore equivale a più buono e un parlante colto, avvertendo in qualche modo l’equivalenza fra sempre più migliore e sempre più più buono, tenderebbe, in modo del tutto naturale, a dire e a scrivere sempre migliore in ogni occasione (e, dunque: inciso o non inciso). Lo sappiamo tutti, e lo sa anche la ministra Fedeli. Ammetta il suo errore, non le costa niente. Aiuterebbe anzi un po’ tutti noi a riconoscerci nell’esigenza di una verità che sembra sfuggirci sempre più, nelle piccole cose e nelle grandi. Noi intanto, anche per alleggerire un po’ la portata del tutto, giocheremo nelle prossime settimane, su questo blog, proprio con l’italiano.

"Sempre più migliori' non è un errore". Stefano Bartezzaghi "assolve" la ministra Fedeli. In un botta e risposta avvenuto su Twitter con Mattia Feltri, il giornalista ed ex docente di semiotica pone un'ipoteca sul dibattito che ha diviso l'Italia della purezza linguistica, scrive il 22/12/2017 Simone Fontana su "Huffingtonpost.it". Nei giorni scorsi aveva destato particolare scalpore il video - ripreso dalla diretta streaming del Miur - in cui la ministra dell'istruzione Valeria Fedeli si lasciava andare a quello che era stato considerato uno scivolone linguistico. La frase incriminata era: "C'è il rafforzamento della formazione per i docenti che svolgono le funzioni di tutor dedicati all'alternanza. Perché offrano percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse".

Il web, insomma, non aveva perdonato alla titolare del ministero della pubblica istruzione l'utilizzo di "più migliori", complice anche la disavventura che l'aveva vista protagonista appena qualche giorno prima di un congiuntivo sbagliato in una lettera inviata al Corriere della Sera.

Ecco, il web sbagliava. Almeno secondo Stefano Bartezzaghi, giornalista di Repubblica e vera e propria autorità in tema di lingua italiana, che rispondendo su Twitter a Mattia Feltri pone una seria ipoteca sul dibattito che in questi giorni ha diviso l'Italia della purezza linguistica:

22 Dic mattia feltri: #Buongiorno "I più migliorissimi" ovvero non solo Fedeli: breve storia degli strafalcioni.

Stefano Bartezzaghi: Mattia, so che sei molto scrupoloso. La ministra ha magari molte lacune, ma quello che ha detto non è "più migliori" e non è un errore. Ha detto "sempre più" che grammaticalmente equivale ad "avremo risultati migliori sempre più". Stavolta ha ragione lei. 08:02 - 22 dic 2017.

Il tweet si riferisce al Buongiorno odierno di Mattia Feltri su la Stampa, dal titolo "I più migliorissimi" e ovviamente ispirato dalla sventurata giustapposizione di parole: Secondo voi al ministro dell'Istruzione può scappare un «più migliori?». Certo che sì, se il ministro è Valeria Fedeli, donna così ben educata, così simpatica, ma un po' deboluccia sui fondamentali. L'utilizzo di "più migliori" decontestualizzato potrebbe apparire come un errore, ma nel caso specifico è la presenza del "sempre più" a restituirne dignità linguistica. Una costruzione esteticamente non brillantissima, come fa notare in una risposta lo stesso Feltri, ma sostanzialmente corretta. Garantismo linguistico, lo definisce ironicamente Bartezzaghi:

22 Dic mattia feltri In risposta a @SBartezzaghi @LaStampa

Mmmh, Stefano. "Perché offrano percorsi sempre più migliori"? Io non credo che tu lo scriveresti mai.

Stefano Bartezzaghi: Confermo, non lo scriverei: ma solo per evitare equivoci. Diciamo che "suona male". Grammaticalmente però non è un errore (anzi, è un errore considerarlo tale). Garantismo anche linguistico! 08:16 - 22 dic 2017.

E se gli errori linguistici della ministra Fedeli non fossero così rilevanti? Ai discorsi di chi ricopre la carica di Ministro dell’Istruzione viene fatto il pelo e il contropelo. Naturale. Ma non può diventare uno sport, perché cercare l’inettitudine in minuti errori di grammatica, esistenti o no, finisce per essere pedante e vacuo. Finisce per essere una distrazione. Vediamo tre casi che hanno riguardato la ministra Fedeli, scrive il 29 dicembre 2017 Giorgio Moretti su "Fan Page".

Il congiuntivo nella lettera al Corriere. "Sarebbe opportuno che lo studio della Storia non si fermasse tra le pareti delle aule scolastiche ma prosegua anche lungo i percorsi professionali". Ci sarebbe voluto un "proseguisse", è chiaro, ed è un brutto errore: figuriamoci, toppare malamente un congiuntivo scrivendo qualcosa che viene pubblicato sul Corriere della Sera, e non solo! sei perfino la ministra dell'istruzione. Classico scenario da incubo, in cui sei anche in mutande. Da harakiri, ma anche no. Se ne è presa la colpa il suo portavoce, ma poco importa. Chi si è mai trovato a dover scrivere notevoli moli di lettere, comunicati, articoli, specie se non come unico autore, ma dovendo sottoporre bozze, accogliere suggerimenti, trasmettere o applicare correzioni e via dicendo sa che l'incoerenza sintattica è un pericolo dietro a ogni angolo. A me succede non di rado: correggo una frase e non mi accorgo che in questo modo non torna più. Figuriamoci quanto è facile se i cuochi sono più di uno. Anche io in questi casi mi sento dire "che ignorante, si studiasse l'italiano!". Ma ci si deve ricondurre al "chi non fa non falla". Più scrivi, più parli, più è probabile che tu sbagli. Meglio se non succede, ma fossero questi i mali della lingua e della politica.

Il più migliore in streaming. "C’è il rafforzamento della formazione per i docenti, che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza, perché offrono percorsi e assistenza sempre più migliori a studenti e a studentesse". "Più migliore" non si dice, anche questo è chiaro. "Migliore" è un comparativo, e vale "più buono": sarebbe quindi un inaccettabile "più più buono". Qualcuno ha difeso la ministra (come Sofri e Bartezzaghi) notando che non si tratta di una regola scolpita nel marmo, che nella nostra storia letteraria non mancano eccellenti casi d'uso di "più migliore", e che verosimilmente si tratta della mera giustapposizione di "sempre più" a "migliori", come fosse un inciso (girandolo diventa un accettabile "migliori sempre più"). C'è chi le ha viste come difese inconsistenti (come Arcangeli). Qui stiamo parlando di un discorso letto: il testo è scritto bene ma magari parlando si fanno errori, o è scritto male e ce ne accorgiamo troppo tardi, o sono tutti un grande baraccone di ignoranti. Vista l'inverificabilità delle ipotesi che si possono fare in merito, senza spingersi a giustificare (in maniera plausibile) l'errore, la cortesia intelligente chiede indulgenza: è un errore che capita piuttosto di frequente, e non richiede di coprirsi il capo di cenere, assunzioni di colpa ufficiali. La sua rilevanza è infima, anche se lo fa un ministro. Anche se è brutto e sciocchino.

La nota di ringraziamento al comune di Cremona. "Sono stata onorata di essere stata invitata qui nel comune di Cremona città di cultura, di musica, di futuro." Si tratta di una nota di ringraziamento, scritta a mano. La ministra ha qui voluto esprimere il suo sentimento (umano o istituzionale): si è sentita onorata d'essere stata invitata a Cremona, grande città di grandi cittadini. Anche in questo caso, apriti cielo, "La Fedeli ci ricasca", "La ministra che non sa la grammatica colpisce ancora". Invece no. Troppa attenzione a queste minuzie, troppo rinforzo positivo sul fatto che è bello e giusto bacchettare la ministra porta a esagerare. "Sono stata onorata di essere stata invitata qui" significa "Mi sono sentita onorata di essere stata invitata qui". Non c'è errore. Magari non è la frase più liscia ed elegante ch'io abbia mai letto, magari avrei detto "Mi sento onorato di essere stato invitato a Cremona" per rimarcare che l'onore sentito al momento dell'invito perdura.

Parlare dei congiuntivi di Di Maio, della ministra Fedeli e di centinaia di altri politici non porta da nessuna parte. Si vede l'errore, si fa notare l'errore e avanti: di rado concentrarsi sull'ortografia schiude una visione critica d'insieme. E peraltro, fra una giusta correzione e il bullismo il passo è breve breve. Anche perché si parla di politica: la sostanza da criticare non manca mai, vogliamo davvero guardare la pagliuzza più della trave?

Diploma in quattro anni, ecco l'elenco delle 100 scuole dove sarà possibile sperimentare. Come annunciato ad agosto, partiranno dall'anno prossimo i 100 istituti tecnici e licei che offriranno la possibilità ai propri studenti di diplomarsi n 4 anni anziché 5. Le iscrizioni saranno possibili a partire dal prossimo 16 gennaio, scrive Valentina Santarpia il 28 dicembre 2017 su “Corriere della Sera”. C'è un'opportunità in più per le famiglie che dal mese prossimo iscriveranno i propri figli alla prima classe della scuola secondaria di secondo grado. Ovvero, tentare la strada del diploma in 4 anni, grazie a una sperimentazione già avviata in passato dal ministero dell'Istruzione, con 12 scuole, ma che dal prossimo anno diventa più massiccia. Saranno infatti ben 100 gli istituti, tra indirizzi tecnici e liceali, coinvolti: 44 al Nord, 23 al Centro, 33 al Sud, scelti tra i 200 che ne hanno fatto richiesta e che hanno dimostrato di aver messo al centro la qualità dei percorsi e l'innovazione didattica. Si tratta di 75 indirizzi liceali e 25 indirizzi tecnici. Sono 73 le scuole statali, 27 quelle paritarie. Ogni scuola potrà attivare una sola classe sperimentale. I percorsi partiranno con l'anno scolastico 2018/2019. Le iscrizioni saranno possibili a partire dal prossimo 16 gennaio, la stessa data prevista per le iscrizioni ai percorsi ordinari. Tra le scuole selezionate per offrire il diploma breve, ci sono il liceo classico Sannazzaro di Napoli, il linguistico Malpighi di Bologna, il classico Flacco di Bari, il Majorana di Brindisi. A Roma compaiono solo l'Iis Giovanni XXIII, il paritario linguistico Higlands Institute, lo scientifico (sempre paritario) Visconti, e l'Iis Salvini. A Milano, oltre al San Carlo dove la formula era già stata brevettata, c'è il Tito Livio (ma solo per l’indirizzo coreutico, non per il liceo classico) e l'economico multimediale (paritario) De Amicis.

Il «ripescaggio». Nessuno «sconto» sugli obiettivi formativi: le scuole partecipanti assicureranno il raggiungimento delle competenze e degli obiettivi specifici di apprendimento previsti per il quinto anno di corso, nel rispetto delle Indicazioni Nazionali e delle Linee guida. «I percorsi quadriennali non nascono oggi, sono il frutto di un dibattito che va avanti da tempo e di una riforma scritta nel 2000 quando era Ministro Luigi Berlinguer - sottolinea la Ministra Valeria Fedeli -. Quella riforma non è mai stata attuata, ma nel 2013 una commissione istituita dal Ministro Francesco Profumo ha ripreso il tema dei percorsi quadriennali. Successivamente la ministra Maria Chiara Carrozza ha dato il via libera alle prime sperimentazioni. Con il bando emanato a ottobre abbiamo deciso di imprimere una svolta. Di consentire una sperimentazione su grandi numeri, con una maggiore diffusione territoriale, nell'ottica di dare pari opportunità alle ragazze e ai ragazzi di tutto il Paese, e una maggiore varietà di indirizzi di studio coinvolti». E le scuole «scartate»? Potrebbero rientrare in seconda battuta, visto che il ministero chiederà al Consiglio superiore della Pubblica istruzione un parere sulla possibilità di allargare la platea.

"Moratoria sulla Buona scuola": l'appello degli insegnanti firmato da intellettuali e accademici. Diventato virale in Rete un documento che chiede di aprire discussione su riforme. Più di 1.200 sottoscrizioni, tra le firme: Cacciari, Urbinati, Galimberti, Settis, scrive Ilaria Venturi il 30 dicembre 2017 su "La Repubblica”. "L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica". Comincia così l'appello per la scuola pubblica promosso da sei insegnanti, un docente di Milano Bicocca, Andrea Cerroni, e una ex preside di Roma. Un documento di critica alla Buona scuola, ma non solo, in cui si chiede una moratoria - una pausa di riflessione - sui punti più contestati: i test Invalsi, l'alternanza scuola-lavoro, l'insegnamento delle materie in inglese, l'ennesima riforma dell'esame di Stato. Nato dal basso, in poco tempo è diventato virale, ha conquistato la rete, ma soprattutto mosso intellettuali e accademici. Firmano Salvatore Settis, Massimo Cacciari, Tomaso Montanari, Umberto Galimberti, Nadia Urbinati, Michela Marzano, Romano Luperini, il filosofo Roberto Esposito, gli storici Giovanni De Luna e Adriano Prosperi, il sociologo Alessandro Dal Lago, i pedagogisti Benedetto Vertecchi, Massimo Baldacci e tanti altri educatori e professori universitari, insegnanti e critici letterari e dell'arte. Un elenco che si allunga a oltre 1.200 firme. "Una risposta inattesa al nostro grido su quella che è un’emergenza culturale", commenta Rossella Latempa, tra le promotrici dell'appello, docente di matematica e fisica a Verona. "E' un documento per aprire una riflessione e contrastare il senso di impotenza che tanti insegnanti provano", spiega Renata Puleo, altra prima firmataria, attivista con la "passione per la scuola", dirigente scolastica in pensione. "Vogliamo andare oltre, animare un dibattito meno sclerotico, confidando in una moratoria e in futuri gruppi di lavoro parlamentari aperti a chi nella scuola lavora". In buona sostanza, l'appello è che si ritorni alla scuola della Costituzione. "La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale", si legge nel documento che si trova via web. "Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce?". Il documento affronta vari aspetti, tra cui il rapporto tra conoscenze e competenze ("una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Matematica, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo"); innovazione didattica e tecnologie digitali ("servono innovazioni che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola"); la lezione ("nell’era di instagram, twitter e dell’ e-learning, la relazione e la comunicazione “viva” allievo/insegnante - nella comunità della classe - rappresentano fortezze da salvaguardare e custodire"); scuola e  lavoro ("Non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione."); la valutazione ("È impensabile che enti terzi, estranei al rapporto educativo, entrino nel merito della valutazione formativa, come previsto dalla Buona Scuola").

Altro che Buona Scuola e alternanza-lavoro: la riforma più rivoluzionaria era quella di Bottai, scrive il 6 dicembre 2017 Edoardo Lorenzini su "Ilprimatonazionale.it". Quando si pensa alla politica scolastica del fascismo, subito (e giustamente) la mente corre alla Riforma Gentile, la grandiosa opera di trasformazione del sistema educativo concepita dal filosofo di Castelvetrano, il cui impianto, nonostante le picconate inferte dai governi di ogni estrazione politica negli ultimi 70 anni, ancora resiste. Sebbene essa fosse stata definita da Mussolini «la più fascista delle riforme», e recepisse molte istanze care al fascismo, promuovendo lo spirito comunitario, infondendo alti valori etici e morali con lo scopo di formare spiritualmente l’individuo, si muoveva tuttavia nel solco della tradizione idealistica italiana, tanto da meritare l’approvazione di Benedetto Croce, il quale aveva ricoperto l’incarico di ministro dell’Istruzione durante l’ultimo governo Giolitti (1920-21). Poco si parla invece del progetto di riforma promosso da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale dal 1936 al 1943, forse in ragione del giudizio negativo che anche fra gli eredi del fascismo, in ragione della condotta tenuta durante e dopo il 25 luglio, investe il personaggio, o forse perché l’ambizioso programma non fu attuato che in minima parte, anche se lasciò tracce significative destinate a sopravvivere al fascismo, come l’istituzione del calendario scolastico e l’ordinamento della scuola media, rimasto in vigore fino all’«unificazione» del 1962. Quella pensata da Bottai era una scuola fascista nel senso più profondo della parola, mirava cioè a formare l’«uomo nuovo», il cittadino, il soldato, il lavoratore, organicamente inserito nella nazione. Per questo nella prima dichiarazione della «Carta della Scuola», documento in 29 punti che, richiamandosi alla forma della «Carta del Lavoro» del 1927, intendeva delineare i caratteri, la struttura e le finalità della scuola italiana, si legge che questa costituisce il «fondamento primo di solidarietà di tutte le forze sociali, dalla famiglia alla Corporazione, al Partito». Uno degli elementi centrali della Riforma bottaiana era il lavoro: il ministro, fra i più entusiasti sostenitori del corporativismo, intendeva fare del lavoro – come lo stesso ebbe a dire nella relazione introduttiva alla Carta tenuta al Gran Consiglio del Fascismo – «il comune denominatore della scuola italiana». La Riforma istituiva ordini di studio volti a preparare le figure professionali necessarie a un Paese moderno e che stava conoscendo un processo di esponenziale industrializzazione come l’Italia, quali la «Scuola Artigiana», ordine post-elementare di durata triennale in cui si apprendevano i lavori manuali, e la «Scuola professionale», alternativa alla scuola media «unica» (poiché unificava i corsi inferiori del Liceo classico, dell’Istituto tecnico e dell’istituto magistrale), volta alla formazione delle figure professionali richieste nel campo dei servizi e della grande industria, e che dava la possibilità di frequentare un ulteriore biennio di «Scuola Tecnica». Tuttavia l’inserimento del lavoro nei programmi didattici non aveva scopi utilitaristici, non era finalizzato alla trasmissione di competenze specifiche e rigide, utili a «preparare al mondo del lavoro» il discente, come spesso si sente ripetere oggi. Quella immaginata da Bottai non era la «scuola delle tre “i” (inglese, impresa, informatica)» tanto cara a Berlusconi (e non solo a lui), non aveva nulla a che vedere con l’«alternanza scuola-lavoro» dei nostri tempi, che obbliga gli studenti a svolgere mansioni presso privati che nulla hanno di formativo. Nell’ottica della «Civiltà del Lavoro» che il fascismo aveva fondato, dove il lavoro viene considerato come «soggetto dell’intera società nazionale», questo non poteva rimanere estraneo al processo educativo. Come si legge nella V dichiarazione il lavoro «si associa allo studio e l’addestramento sportivo nella formazione del carattere e dell’intelligenza. Dalla Scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado, il lavoro ha la sua parte nei programmi». Il lavoro faceva il suo ingresso già nell’ultimo biennio della Scuola elementare, denominata «Scuola del lavoro», dove i discenti prendevano confidenza con gli utensili e le pratiche manuali, per poi cimentarsi nella pratica del lavoro agricolo. Per Bottai «il lavoro agricolo sarà il tipico lavoro di tutta la scuola». Fra le prove di esame allora previste per accedere alla Scuola media e a quella professionale, nonché agli Istituti superiori, veniva prevista una «prova di lavoro» con cui il candidato doveva dare prova delle abilità acquisite. Sempre nella V dichiarazione si legge: «Dalla Scuola elementare alle altre di ogni ordine e grado, il lavoro ha la sua parte nei programmi. Speciali turni di lavoro, regolati e diretti dalle autorità scolastiche, nelle botteghe, nelle officine, nei campi, sul mare, educano la coscienza sociale e produttiva propria dell’ordine corporativo». Pertanto anche gli studenti di Licei ed Università erano chiamati a svolgere attività lavorative, come attesta il seguente filmato tratto da un cinegiornale Luce. Secondo il ministro «coloro che formeranno la classe dirigente debbono conoscere non intellettualisticamente, ma con i propri muscoli le difficoltà, le gioie, le fatiche dei lavoratori». Ciò si proponeva anche lo scopo di favorire la rivalutazione sociale e culturale del lavoro manuale, svilito dalla mentalità borghese ma che trovava piena dignità nello Stato fascista, che con la «Carta del Lavoro» tutelava l’attività lavorativa in tutte le sue forme («esecutive, intellettuali, tecniche, manuali»), e proclamava ed attuava la parità sociale e giuridica fra datori di lavoro e lavoratori. Una scuola quindi che rifiutava il nozionismo pedantesco e ozioso, ma respingeva altresì l’idea di una formazione strumentale ed economicistica, il cui unico scopo sia sviluppare capacità spendibili nel mondo del lavoro. La scuola pensata da Bottai e dal fascismo era una scuola che nei suoi programmi e nei suoi metodi abbracciava sapere umanistico e scientifico, attività sportiva, educazione politica e militare, conoscenza e pratica del lavoro. Non la scuola-azienda che intende formare l’«uomo economico», ma un modello di formazione olistico, che vuole educare un uomo che è corpo e spirito, pensiero e azione, un uomo integrale, «che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero», per usare le parole di Mussolini.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

MORTE A SCUOLA. FALLIMENTI E SUICIDI.

La cultura del fallimento contro i suicidi degli universitari. Uno studente su tre mente alla propria famiglia circa lo svolgimento del proprio piano di studi e lo fa perché non ha imparato a perdere, scrive Barbara Massaro il 12 aprile 2018 su "Panorama". Nella cultura americana, scolastica e imprenditoriale che sia, se qualcuno fallisce gli viene chiesto: "Ok, è andata male, ma cosa hai imparato da questa esperienza?".

Un approccio costruttivo al fallimento. Questo approccio costruttivo al fallimento in Italia non esiste e, al contrario, prevale il bisogno di dimostrare di essere superiori al prossimo anche di fronte all'evidenza di un errore, di uno scivolone o di un passo indietro. Succede così fin dalla più tenera età quando i genitori sovraccaricano i figli di stimoli con l'idea di trovare il "talento" della propria prole già a 4 o 5 anni. Che sia a scuola, nello sport, nel canto o nella musica è come se l'importante fosse poter "sventolare" al prossimo quanto orgogliosi si è dell'eccellenza del proprio bambino. Si tratta di una spirale pericolosa che mette in atto un cortocircuito compensatorio dove l'asticella dell'aspettativa genitoriale è sempre al rialzo con figli spesso alla rincorsa di un ideale lontano cucito loro sul petto da genitori incontentabili che non contemplano la possibilità che il proprio figlio, semplicemente, non ce la faccia.  La mancanza di cultura del fallimento è determinante per comprendere l'emergenza sociale che si sta creando all'interno degli atenei italiani.

Emergenza suicidi nelle università italiane. Il suicidio della ventiseienne molisana Giada De Filippo che si è lanciata dal tetto dell'Università Federico II di Napoli nel giorno della sua (non) laurea è solo la punta dell'iceberg. Giada aveva invitato i genitori, il fidanzato e gli amici ad assistere alla sua discussione di laurea incapace di confessare che, nel corso dei 4 anni di Università da studente fuori sede, di esami ne aveva dati davvero pochi e che, quindi, la laurea in Scienze naturali, era quanto mai lontana. Vestita di tutto punto, mentre era al telefono col fidanzato, Giada è salita sul tetto della Facoltà e si è lanciata nel vuoto. Solo negli ultimi 15 mesi in Italia ci sono stati altri due casi identici: uno studente abruzzese iscritto alla facoltà di Giurisprudenza a Roma si è sparato in testa la sera prima della laurea: non ci sarebbe stata nessuna discussione perché gli esami non li aveva ancora finiti. Alla stazione di Rovigo, pochi mesi prima, un presunto laureando in Ingegneria all'università di Ferrara si è lasciato travolgere dal treno per motivi analoghi.

Tragiche similitudini. Il portale Skuola.net ha raccolto i casi di suicidi degli ultimi anni e sono decine, tutti con più o meno lo stesso copione. Si tratta per lo più di studenti fuori sede cui le famiglie hanno dato piena fiducia sobbarcandosi anche le spese di affitto e trasporti lontano da casa. Quei ragazzi, però, la fiducia giorno dopo giorno l'hanno tradita e mentre mamma e papà pagano rette e affitti loro passano il tempo tra feste, locali e attività varie che poco o nulla hanno a che fare con lo studio. Oppure ci sono i casi di coloro che non riescono a passare gli esami e per vergogna e paura di deludere i genitori tacciono infilandosi in una spirale di menzogne dalla quale, poi, non riescono più a uscire. 

La paura di deludere. Il tema della delusione è centrale per capire cosa scatti nelle mente di questi ragazzi lontani da casa e messi davanti alle responsabilità della vita adulta senza, forse, essere preparati a farlo. Un tempo il genitore era una sorta di autorità ieratica della quale si aveva un reverenziale timore. La "paura" della punizione in caso di fallimento era uno stimolo a dare il meglio affinché quel padre o quella madre venisse ripagato dei sacrifici fatti per crescere e far studiare i figli. Poi questo meccanismo si è inceppato o evoluto e comunque è cambiato e, dagli anni '70 in poi, i genitori sono diventati sempre più "amici" e confidenti dei propri ragazzi. Se da una parte questo ha fatto bene alla sfera affettiva dei giovani dall'altro proprio questo grande investimento in termini di affettività ha fatto sì che al timore della punizione in caso di fallimento venisse sostituita una paura ben più pericolosa ovvero quella di deludere il proprio padre e la propria madre. La delusione è un sentimento complesso e che implica il tradimento di promesse e aspettative. Fa più male un mese di castigo o aver deluso le persone che più ci amano?

Uno studente su tre mente a casa. Sempre Skuola.net ha pubblicato di recente un sondaggio condotto tra 1.000 studenti delle università italiane che ha messo in luce come il 35% degli interpellati abbia mentito almeno una volta in famiglia circa gli esiti della propria carriera accademica e il 17% dei bugiardi lo fa sistematicamente. I Pinocchio degli Atenei per lo più mentono sugli esiti degli esami (24%) gonfiando un po' i voti; mentre il 18% altera il numero degli appelli sostenuti e superati. Il 7%, infine, ha fatto intendere che la data della laurea fosse più vicina del previsto.

E' emergenza sociale? Secondo gli esperti parlare di emergenza sociale è lecito e doveroso e l'appello è rivolto sia agli insegnanti sia alle famiglie e ruota proprio intorno all'accettazione del concetto di "fallimento". E' un argomento che andrebbe trattato il prima possibile affinché anche gli studenti che ritengono il giorno della laurea le colonne d'Ercole della propria esistenza possano apprendere che il lancio del tocco non rappresenta la fine di tutto, ma l'inizio del resto della propria vita. Posati gli allori sulla mensola meglio illuminata della casa iniziano i veri problemi fatti di posti di lavoro difficili da trovare (e mantenere), di grande competitività in qualunque settore professionale, della necessità di continui aggiornamenti, di capi iniqui e colleghi invidiosi. Visto da una prospettiva più ampia il problema di non avere superato tutti gli esami all'Università appare in tutta la sua limitata gravità, ma chi lo vive non è attrezzato per gestire il fallimento e prendersi le responsabilità di deludere chi ha investito su di lui.

La mancanza della cultura dell'autonomia. Inoltre c'è da aggiungere che quasi tutti gli studenti che finiscono nel circolo vizioso delle bugie (con gli esiti estremi del suicidio) frequentano l'Università in una città differente da quella d'origine e in Italia è ancora scarsissima la cultura dei ragazzi che studiano e si autogestiscono lontano dal nido di mamma e papà. Nello spirito anglosassone i giovani già alle superiori tagliano il cordone ombelicale e iniziano a muovere (non senza sbagliare) i primi passi nell'età adulta e nell'autonomia. Alle nostre latitudini quel momento viene procrastinato quasi al paradosso con uomini di 35, 40 anni che vivono in casa (Mammoni? Disoccupati? Precari? Nati comodi?). Coloro che a 20, 25 anni si trovano lontani da casa sono quasi mosche bianche dalla scarsa adattabilità che si trovano impreparati a gestirsi, ma troppo orgogliosi per chiedere aiuto. In un momento storico, poi, dove la vita dei giovani è scandita da like, follower e consenso riflesso e moltiplicato via social network rimanere fermi al palo è un affronto difficile da sopportare e la vergogna del fallimento seduce i più deboli portandoli a decidere di scegliere il gesto estremo del suicidio.

VIOLENZA A SCUOLA.

 Milano, telefona alla prof che ha bocciato il figlio: "Ti ammazzo". Denunciato per minacce aggravate dal preside di un istituto professionale di Gorgonzola che ha riferito l'episodio ai carabinieri. Un altro episodio a Pogliano Milanese, scrive il 15 giugno 2018 "La Repubblica". Tanta la rabbia che ha preso il telefono e ha chiamato la professoressa di suo figlio minacciandola di morte, perché responsabile secondo lui della bocciatura del ragazzo. Un 50enne è stato denunciato dai carabinieri per minacce aggravate nei confronti dell'insegnante di un istituto professionale di Gorgonzola, nel Milanese. Ieri sera il genitore del 16enne ha chiamato la donna al telefono e, in uno accesso di ira, le ha detto che l'avrebbe uccisa. Questa mattina il preside della scuola ha avvertito i carabinieri dell'episodio e i militari della stazione locale hanno rintracciato l'uomo. Il 50enne, di origine albanese, ha ammesso le sue responsabilità e si è detto dispiaciuto per il proprio comportamento. Si tratta dell'ennesimo episodio che vede i docenti bersaglio di violenze. E non è l'unico. Nel pomeriggio, erano le 18.30, alla Ronchetti di Pogliano Milanese (nell'hinterland a nord-ovest di Milano), un uomo di 53 anni ha spintonato e minacciato una insegnante dopo aver scoperto che il figlio di 13 anni era anche lui stato bocciato. L'uomo si era presentato alla scuola primaria di secondo livello per ritirare la pagella, e lì ha saputo della mancata promozione del ragazzino. A quel punto ha cercato la prof che riteneva responsabile e, dopo averla incrociata nei corridoi dell'istituto, l'ha afferrata per il braccio insultandola, spintonandola e minacciandola ripetutamente. L'aggressione è durata diversi minuti. Quando sono arrivati i carabinieri del nucleo radiomobile della stazione di Nerviano lo hanno trovato ancora intento a urlare contro la donna che ha rifiutato il trasporto in ospedale. L'uomo è stato comunque denunciato d'ufficio per minacce e percosse. "Le aggressioni nei confronti dei docenti, del personale della scuola tutto, sono atti da condannare sempre duramente - aveva commentato ieri riferendosi ad altri episodi dello stesso tenore il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Marco Bussetti -. Non posso che essere vicino a chi le riceve. Credo sia un'esperienza devastante. Per chi la subisce e per chi assiste a questi atti che avvengono all'interno di un luogo che è di formazione ed educazione. Davanti a tutto questo vogliamo reagire e lavorare per ricreare un clima di serenità, per mettere la scuola in condizione di concentrarsi maggiormente sulla gestione del rapporto con le famiglie". Solo ieri un giovane professore di un istituto tecnico di Roma era stato assalito dal padre di un ragazzo bocciato, che lo ha prese a pugni e ha cercato di strangolarlo. Dall'inizio dell'anno sono così 19 le aggressioni a scuola da parte dei genitori.

Roma, difende il preside dall’aggressione di un genitore: giovane prof picchiato a sangue. Il docente 23enne si è trovato nel mezzo di una violenta lite tra il padre di uno studente, al quale avevano appena comunicato la bocciatura del figlio, e il dirigente di un Istituto romano. la madre dell’insegnante denuncia tutto su Facebook, scrive il 14 giugno 2018 Rinaldo Frignani su "Il Corriere della Sera". «Ci hanno accusato di aver falsificato i voti del figlio. Erano convinti che avesse tutti otto, e invece erano tutti quattro. E di averlo preso di mira perché straniero, perché diverso. Ma non è vero: anzi, io non chiederò mai l’espulsione di quell’alunno». Il preside Claudio Dorè tende la mano ai genitori del quattordicenne dell’istituto tecnico Di Vittorio-Lattanzio, al Prenestino, bocciato l’altro ieri. Una decisione che ha scatenato la reazione violenta dei genitori, di origine albanese. «Ma italiani a tutti gli effetti», hanno tenuto a sottolineare con la polizia, intervenuta dopo che il padre del ragazzino aveva sferrato un pugno contro il giovanissimo prof di disegno e grafica, Umberto Gelvi, 23 anni. A chiamare il 113 sono stati sia la scuola sia i genitori dello studente. «In realtà voleva colpire me — racconta ancora il dirigente scolastico —, lui e la moglie avevano perso il controllo, hanno insultato prima la coordinatrice della classe del figlio, poi anche me. Ma il professor Gelvi si è messo in mezzo per difendermi e si è beccato il pugno». A rendere nota la vicenda, l’ennesima aggressione a un insegnante di scuola superiore, è stata la madre del 23enne, Monika Wilmer, anche lei prof, che su Facebook ha scritto: «Al docente portato in ospedale in ambulanza veniva riscontrato trauma cranico rachide cervicale e segni di tentato soffocamento. Ora è sotto osservazione. Il docente in questione ha soli 23 anni, è al suo primo anno di insegnamento ed è mio figlio. Questa è l’Italia? — ha aggiunto — Chi tutelerà i docenti che sono i formatori della società di domani?». Un post che in poche ore ha ricevuto quasi 2.400 condivisioni. E ieri il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha sottolineato come «le aggressioni ai docenti sono atti da condannare sempre duramente». Sul caso indagano gli agenti del commissariato Prenestino che hanno interrogato e poi denunciato i genitori dell’alunno per interruzione di pubblico servizio, in quanto al momento dell’aggressione erano in corso gli scrutini di fine anno. Il prof picchiato, che i medici hanno giudicato guaribile in otto giorni, si è invece riservato di sporgere querela. Ha 90 giorni di tempo. «E noi saremo al suo fianco — assicura il preside —. Vogliamo andare fino in fondo a questa storia. Da febbraio abbiamo contattato più volte i genitori di quel ragazzo per parlare con loro, segnalare che l’andamento del figlio era tutt’altro che soddisfacente. Avrebbero potuto scoprirlo anche collegandosi con il registro elettronico. Ma ora è importante che a pagare non sia il loro ragazzo».

Scuola, consegnare le pagelle con la scorta? Per i sindacati basterebbe intervenire con fermezza, scrive il 15 giugno 2018 (Teleborsa) "Qui finanza". Le aggressioni verso gli insegnanti e i dirigenti scolastici non si contano più: in questi giorni di fine anno, con l’esposizione dei giudizi finali, derivanti dagli scrutini, l’ira dei genitori per le bocciature dei figli si sta riversando in misura crescente sui pubblici ufficiali che operano nella scuola. L’apice della violenza gratuita si è toccato a Roma, dove due giorni fa all’istituto superiore Di Vittorio Lattanzio prima il preside e poi un docente sono stati aggrediti dai genitori di uno studente non ammesso all’anno. Sugli episodi deprecabili che si stanno ripetendo nelle scuole si è espresso anche il neo Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, ricordando che “le aggressioni nei confronti dei docenti, del personale della scuola tutto, sono atti da condannare sempre duramente”. “Davanti a tutto questo – ha aggiunto il Ministro – vogliamo reagire e lavorare per ricreare un clima di serenità, per mettere la scuola in condizione di concentrarsi maggiormente sulla gestione del rapporto con le famiglie, di adottare metodi di recupero”. L’Anief ricorda che da tempo nelle scuole esiste un accordo scuola-famiglie, denominato “patto di corresponsabilità”, che entrambi le parti sono tenute a rispettare, in funzione del successo formativo degli studenti. Laddove questo non avviene, è ovvio che occorra intervenire. Venendo meno al “contratto” sottoscritto in sede di iscrizione dei figli, si rompe qualcosa nel rapporto e bisogna assolutamente prendere provvedimenti adeguati, sempre rapportati alla gravità dell’infrazione. “Soprassedere, rimandare o, peggio ancora, minimizzare, ci ha portati ad un progressivo decadimento del ruolo dell’istituzione scolastica, dei docenti e dei dirigenti perché parallelamente alle aggressioni dei genitori verso gli operatori della scuola, stanno crescendo anche gli episodi di bullismo, che hanno come protagonisti negativi degli studenti che si possono scagliare sia contro i compagni di classe, sconfinando in certi casi addirittura nel reato di stalking, sia contro i docenti, i dirigenti e il personale scolastico” dichiara Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e Udir.

Docenti aggrediti da genitori, reati gravi. Giannelli ANP, ci costituiremo parte civile, scrive Elisabetta Tonni su "Orizzonte Scuola" il 15 giugno 2018. Sul fenomeno delle aggressioni da parte di alcuni genitori verso i docenti interviene anche Antonello Giannelli, presidente dell’Anp, l’associazione nazionale dei dirigenti scolastici. Le aggressioni a danno degli insegnanti – si legge sul sito dell’associazione – sono reati molto gravi e procedibili d’ufficio, aggravati dal fatto che, quasi sempre, le cause sono da ricondursi a futili motivi come un voto basso, o questioni disciplinari che riguardano i figli degli aggressori. “Data la gravità dei fatti – sostiene Giannelli – l’Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola, inizierà a costituirsi come parte civile nei procedimenti contro gli aggressori”. Giannelli mette assieme, contandoli, tutti i casi registrati solo nell’ultimo anno didattico, a partire dal primo giorno di scuola per arrivare all’ultimo. “Dall’inizio dell’anno scolastico – scrive Giannelli – sono 34 i casi di aggressioni da parte di genitori ai danni di presidi e insegnanti”. Ad aprire l’infausto bilancio è stato il caso registrato in una scuola di Palmi, in provincia di Cosenza. L’ultimo della serie è invece quello avvenuto a Roma in cui un professore, intervenuto a sostegno del preside, è stato quasi strangolato. Un caso che è arrivato a ridosso dell’aggressione subita a Padova dalla docente di inglese per aver rifilato un 4 a un alunno. Questi ultimi due casi stanno anche scuotendo l’opinione pubblica, sia per la violenza usata, sia per la tempistica così ravvicinata. Chissà quante altre sono state le aggressioni subite, magari solo verbali ma non per questo meno violente, che non sono arrivate alla ribalta mediatica. I professori difficilmente trovano nel genitore un alleato nell’educazione del ragazzo; anzi, si assiste al rovesciamento del patto educativo in cui il genitore è sempre e solo dalla parte del figlio che è vittima (agli occhi di mamma e papà) del docente cattivo. Nel conteggio del presidente Giannelli non sono rientrati i casi di aggressione dei docenti da parte degli studenti stessi che, forse, proprio in virtù del rovesciamento dell’alleanza educativa, potrebbero sentirsi più forti nelle azioni di bullismo. Nell’esprimere solidarietà all’ultimo docente aggredito per aver difeso il suo preside, il presidente Giannelli ha detto che l’Anp “sta valutando di proporre un inasprimento delle pene nei confronti degli aggressori”.

Scuola, da settembre 33 casi di violenza contro i prof. Un lungo anno di aggressioni. È uno dei primi problemi che dovrà affrontare il nuovo ministro dell’Istruzione Marco Bussetti. Secondo i calcoli della rivista Tuttoscuola, gli episodi sono stati molti di più: la stima è di quattro a settimana, scrive Virginia Della Sala il 10 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Scuole chiuse, o quasi, dopo un anno di battaglia. E non in senso figurato. Gli ultimi nove mesi sono stati scanditi da notizie di aggressioni agli insegnanti da parte di alunni e genitori. È uno dei primi problemi che dovrà affrontare il nuovo ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti. Politici, educatori, dirigenti ed esperti concordano: la figura dell’insegnante ha perso autorevolezza. Sottopagati, considerati meri esecutori dei capricci dei genitori, vittime della disintermediazione che illude di non aver bisogno di professionisti. Viene chiamata “fine dell’alleanza educativa” tra scuola e famiglia, di cui l’istituzione non riesce più a farsi mediatore.

Il bilancio – 33 violenze fisiche accertate e 81 stimate. La rivista Tuttoscuola ha perciò attivato un contatore che ha raccolto, durante l’anno scolastico, i casi di aggressione ai docenti. “Non sono poche e tendono ad aumentare – spiega la rivista –. E per ogni aggressione di cui si ha conoscenza certa, si stima che ve ne siano almeno altre tre non rese pubbliche. Per non parlare delle violenze verbali, ancora più diffuse come ci confermano diversi dirigenti scolastici”. Dal settembre 2017, si contano 33 violenze fisiche accertate e 81 violenze fisiche stimate. Una media di quattro episodi a settimana.

Paola, settembre ‘17 – Primo giorno, la figlia chiama e lei attacca la prof. La madre di una ragazza di 16 anni entra in classe e strattona e spintona l’insegnante davanti agli alunni dopo essere stata chiamata dalla figlia in lacrime. La ragazza era stata rimproverata. La mamma si difenderà sostenendo che la professoressa “perseguitava” la ragazza dall’anno precedente.

Mirandola, ottobre ‘17 – Lanciano il cestino contro la professoressa. C’è un video: un 15enne afferra il cestino dell’immondizia e lo scaraventa contro la docente che sta spiegando alla cattedra. Un altro, tira delle penne, un terzo riprende la scena. I tre minorenni vengono denunciati per violenza a pubblico ufficiale e interruzione di pubblico servizio.

Monserrato, Ottobre ‘17 – “Via lo Smartphone” e lo prende a pugni. Un alunno, rimproverato dall’insegnante, le sferra un pugno in pieno volto. “Il ragazzo stava dando dei colpi con un pezzo di cartone ai compagni, forse un album da disegno o un quaderno, non ricordo bene – ha raccontato la docente –. A quel punto l’ho ripreso e invitato a comportarsi bene dicendogli che se non avesse smesso gli avrei preso il cellulare”. Il quattordicenne ha preso il suo telefonino e le ha sottratto la borsa. Quando lei si è avvicinata, l’ha colpita. La donna è caduta a terra e ha perso i sensi. È stata portata in ospedale.

Avola, gennaio 2018 – In due per rompergli le costole all’uscita. Il professore di educazione fisica di sessan’anni rimprovera l’alunno di 12, irrequieto. Gli dice di chiudere la finestra e di stare composto, il ragazzino – sostiene il docente – gli tira un libro. Lui chiama i genitori che lo fermano in cortile e lo prendono a calci e pugni fino a che l’uomo non finisce all’ospedale con una costola rotta. Nella loro versione, sosterranno che sarebbe stato il professore a lanciare il libro contro il ragazzo.

Como, gennaio 2018 – Insulti e bestemmie perché gli avrebbe rotto il telefono. Esiste un video: 84 secondi di insulti, bestemmie, minacce e accuse. Secondo il ragazzo, il professore sarebbe colpevole di aver danneggiato il suo smartphone, probabilmente ritirato dal docente in precedenza.

Caserta, Febbraio 2018 – Maestra percossa per un consiglio. Una mamma di una bambina di quattro anni picchia la maestra, sbattuta ripetutamente con la testa contro il muro, perché non è d’accordo con il suggerimento dato. La maestra aveva solo spiegato alla bambina come fare delle “stanghette”.

Caserta, Febbraio 2018 – L’interrogazione va male, lui la accoltella. Uno studente di 17 anni accoltella in classe l’insegnante di 54 anni che voleva interrogarlo per permettergli di recuperare una insufficienza. Lui si rifiuta, lei gli impedisce di uscire. È una escalation: dalle proteste alla nota disciplinare. Fino alla ferita al volto, un lungo taglio con un coltellino tascabile. La professoressa viene ricoverata.

Alessandria, Febbraio ‘18 – Legato alla sedia, ripreso e insultato. Una insegnante supplente di prima superiore in un istituto tecnico, con difficoltà motorie, viene legata alla sedia della cattedra con lo scotch, presa a calci e sbeffeggiata da un gruppo di studenti mentre altri riprendono la scena con uno smartphone. Ad allertare il bidello, uno studente di un’altra classe che passava per caso.

Foggia, Febbraio 2018 – Percosse al vicepreside di una scuola media. Trenta giorni di prognosi dopo essere stato picchiato con calci e pugni dal padre di uno degli alunni che frequentano la prima della scuola media dove insegna. L’uomo lo ha aggredito all’uscita. Il giorno prima aveva rimproverato il figlio di otto anni perché spingeva e rischiava di far cadere le compagne in fila.

Lucca, Aprile 2018 – “Inginocchiati e mettimi la sufficienza”. Due video che mostrano violenza contro lo stesso professore in un istituto tecnico di Lucca: nel primo, uno studente prova a strappargli di mano il registro elettronico, gli intima di inginocchiarsi e di mettergli sei sul registro. “Prof non mi faccia inc…re. Metta 6”. I compagni riprendono la scena col telefono. E ancora: “Lei non ha capito nulla. Chi è che comanda? Si inginocchi”. Dopo pochi giorni, inizia a circolare un altro video in cui alcuni studenti indossano un casco integrale in classe, provando a prendere a testate il professore.

Pesaro, Aprile 2018 – Accendini al volto, i ripetenti: “Ti brucio”. Uno tiene un accendino acceso davanti al volto del professore, l’altro lo spinge, i compagni li incitano a dargli fuoco e riprendono la scena. Il docente, molto scosso, non dice nulla. La preside lo scopre solo tramite il video su Whatsapp di un conoscente. Oltre ai due studenti, ripetenti, è stato identificato un terzo studente che incitava più di altri ad appiccare il fuoco.

Torino, Aprile 2018 – Punizione in biblioteca, il papà gli sferra un pugno. Il padre di uno studente, mandato in biblioteca come sanzione per un ritardo, colpisce con un pugno alla mandibola il professore, che finisce al pronto soccorso.

Velletri, Aprile 2018 – “Ti mando all’ospedale e ti sciolgo nell’acido”. “Te faccio scioglie in mezzo all’acido, te mando all’ospedale professore’”: il video è girato in un Istituto Tecnico di Velletri e a parlare è uno studente, rivolto alla sua professoressa. Il diverbio è del 2017, ma è diventato virale solo quest’anno. Dieci minuti di discussione, l’insegnante ha minacciato di spedirlo dal preside per l’ennesima nota. “Ma chi sei tu per dirmi che devo stare zitto. Ma voi volete proprio finire all’ospedale – dice il ragazzino –. Ti faccio squaglià in mezzo all’acido, ti faccio squaglià”. I compagni ridono e riprendono. “Mo ti alzo tutto il banco ti alzo, vuoi vede’? Non mi provocà professore che poi la macchina non te la ritrovi”. E quando lei esce per chiamare il preside, lui prende a calci la porta.

Palermo, Aprile 2018 – Picchia il prof ipovedente: emorragia cerebrale. Un professore di 50 anni ipovedente viene picchiato e ferito gravemente dal padre di una studentessa di terza media di un istituto comprensivo di Palermo. Il professore avrebbe ripreso l’alunna in classe e lei, all’uscita dalla scuola, avrebbe riferito al padre che l’insegnante l’avrebbe picchiata. Salvo poi ritrattare e ammettere di essere solo stata allontanata dall’aula.

Milano, Maggio 2018 – “Ha graffiato mio figlio”: malmena la maestra. Una mamma milanese quarantenne prende a “schiaffi” e a “calci” e tira i capelli alla maestra durante un’ora di supplenza nella classe del figlio di 8 anni. “La maestra ha stretto il braccio di mio figlio, che è un bambino vivace, seguito dai servizi sociali, per tenerlo fermo. Gli affondava le unghie. Lui si era agitato dopo aver saputo che non sarebbero andati in ludoteca”, ha detto la mamma. La scuola ha dato un’altra spiegazione: “Il bimbo soffre di un disturbo oppositivo-provocatorio. Quel giorno si stava azzuffando con un compagno e la maestra è intervenuta per separarli. Lo ha allontanato per proteggerlo, il bambino ha cercato di morderla e l’ha presa a calci. E nella concitazione si è ferito, graffiandosi”.

Taranto, Maggio 2018 – Propone la sospensione per il bullo, lo schiaffeggiano. Il padre di un alunno di scuola secondaria di I grado aggredisce con schiaffi e pugni il professore che aveva proposto la sospensione per 5 giorni del ragazzo che, richiamato perché picchiava i compagni, si era rivolto in modo minaccioso al docente.

Padova, Giugno 2018 – La figlia va male in inglese, lei picchia l’insegnante. La madre di un alunno di scuola media aggredisce l’insegnante di inglese che aveva dato un voto insufficiente al figlio. Allo scontro verbale nel cortile della scuola prima delle lezioni è seguito uno schiaffo in faccia. La professoressa è caduta a terra, si è ferita al labbro e, con un livido in volto, si è fatta medicare all’ospedale.

Aggressioni in classe, ha vinto la burocrazia e perso la scuola, scrive il 16 febbraio 2018 su "Il Fatto Quotidiano" Alex Corlazzoli, Maestro e giornalista. Colpa della Tv! Colpa dei genitori e delle famiglie! Colpa della società! Colpa, come sempre, della ministra! Ho atteso qualche giorno prima di scrivere qualche riga su quanto sta accadendo nelle scuole italiane perché mi son preso del tempo per riflettere, per leggere ogni articolo uscito sulle vicende che vedono protagonisti ragazzi e insegnanti che mettono le mani addosso ai professori! Avevamo appena finito di puntare gli occhi sui docenti che chattano messaggi erotici ed ecco un “nuovo” fenomeno. So che deluderò qualcuno ma non c’è alcuna novità in queste notizie. Da sempre esistono maestri, professori, dirigenti che non sanno essere all’altezza del loro ruolo. Allo stesso tempo da che mondo e mondo esistono ragazzi che non sanno controllarsi e genitori che perdono le staffe. Il problema è un altro: questi casi (rari e da sempre esistenti, ripeto) sono la punta dell’iceberg di un clima di malessere che trova fondamenta in altro. Distinguiamo le situazioni. Partiamo dagli studenti. Il ragazzo che ha sfregiato la professoressa così come quell’allievo delle medie di Piacenza che ha strattonato la docente sono dei violenti? Dei criminali da mettere in galera? Quanti ragazzi, bambini abbiamo in classe che manifestano la loro rabbia, la loro delusione, il loro malessere? Tanti, troppi. I motivi sono i più svariati: situazioni famigliari complicate; problemi psicologici; incapacità di relazionare con gli altri. E la scuola che fa per loro? Li etichetta. Quelli come il bambino di Piacenza sono Bes, Dop e chi più ne ha più ne metta. In questi anni mentre eravamo costretti a compilare verbali, piani personalizzati, carte e carte per dire che Marco è uno con bisogni educativi speciali e Luigi ha disturbi oppositivi provocatori, ci hanno impedito di fare il nostro mestiere: i maestri, gli insegnanti (coloro che lasciano una traccia), gli educatori. Una delle educazioni più vitali è quella delle emozioni e della vita effettiva. Si chiama educazione all’affettività (da non confondere con quella alla sessualità che pure servirebbe) e serve a scoprire le emozioni, ad imparare a gestire la rabbia, a lavorare su di sé, sulle reazioni e sulle relazioni. Non c’è più tempo a scuola per fare questo: c’è da compilare, c’è da terminare il programma (che non c’è più), ci sono le prove delle prove Invalsi da fare prima che arrivino i test. Tutto utile, magari, ma poi non diamo la colpa alla TV, alle famiglie, alla società se Marco strattona l’insegnante. Altra questione quella dei genitori. Partiamo da un’affermazione scontata, superficiale, stupida ma che vale la pena ricordare: non sono tutti uguali. Il maestro è uno e i genitori sono tanti. Diffido sempre dell’insegnante che va bene a tutti i genitori. Ma anche qui il problema è un altro. Dietro la violenza di uno cosa si nasconde? Nei giorni scorsi una maestra mi ha scritto chiedendomi aiuto: “Subiamo continue aggressioni. Entrano e urlano”. Negli stessi giorni una mamma dopo aver ritirato la pagella del figlio mi ha pure scritto: “Ti pare questo il giudizio da dare ad un bambino?”. Tra i due c’è un muro. Il cancello della scuola è la separazione fisica e psicologica delle due categorie che invece dovrebbero lavorare insieme. Nella mia esperienza mi son capitate colleghe e dirigenti che imponevano di “tener fuori dalla scuola i genitori” e di parlare con loro solo nei giorni dei colloqui. Spesso mamme e papà puntano dritti al “vado dal preside” e gli altri, i prof, intimoriti dai loro capi d’istituto sempre pronti a difendere i genitori, si proteggono come possono. Qualche volta allontanando mamme e papà, altre volte con l’aiuto della burocrazia. Il vero problema è la partecipazione. Quest’ultima parola nella scuola si traduce negli organi collegiali: consigli di interclasse, d’istituto dove i genitori dovrebbero essere protagonisti. Non è così. Avete presente come vengono scelti i rappresentanti di classe: “Signora lo faccia lei quest’anno, non dovrà perdere molto tempo”; “Dai fallo tu, io l’ho già fatto lo scorso anno”. La vogliamo chiamare partecipazione? L’esperienza degli organi collegiali è fallita da tempo ma nessun ministro ha avuto il coraggio di mettere mano a questo capitolo. Risultato? Son tutti attaccanti, tutti allenatori e nessuno fa squadra.

La violenza nella e della scuola, scrive Paolo Mottana il 19 aprile 2018 su "comune-info.net". Paolo Mottana Docente di Filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca, si occupa dei rapporti tra immaginario, filosofia e educazione. Tra i suoi ultimi libri La città educante (Asterios). Possiamo affrontare senza retorica e scorciatoie, senza assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni miopi, il tema della violenza nella scuola? Secondo Paolo Mottana, docente di Filosofia dell’educazione alla Bicocca, le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se risultano spesso poco visibili: gli ambienti della scuola sono quasi sempre poco accoglienti ed estranei a bambini e ragazzi, i diversi tempi di apprendimento raramente vengono assecondati, per effettuare attività principalmente cognitive si fa ricorso a una disciplina esigente accompagnata da minacce di valutazioni e punizioni, a volte si aggiunge anche l’atteggiamento autoritario di alcuni adulti insegnanti. Nello stesso tempo gli insegnanti si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi. Intanto la società continua ad essere un luogo di conflitti e di guerra “sempre più individualizzata e disorganizzata per il lavoro, per il successo e per il denaro….” Per questo “non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione…. Questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione…”. Come è noto in questi tempi quasi ogni giorno si ha notizia di violenza nella scuola. La cronaca ne è piena, con una particolare sottolineatura per quanto riguarda la violenza di ragazzi nei confronti di altri ragazzi ma anche di ragazzi verso i professori e di genitori verso i professori. Meno si ha notizia di violenza da parte di professori nei confronti dei ragazzi e meno ancora di violenze di professori verso i genitori. Cerchiamo, senza retorica, senza scorciatoie, senza l’enfasi che la voglia di schierarsi imprime al dibattito, dividendo tra assoluzioni facili e altrettanto colpevolizzazioni facili e talora miopi. La questione è molto complessa e richiede di tenere conto di un grande insieme di variabili, in assenza delle quali il giudizio è semplificatorio e inutile. Anzitutto chiediamoci. A che tipo di violenze assistiamo nella scuola e, in secondo luogo, è la scuola un luogo violento? Io credo che le violenze nella scuola e della scuola sono molteplici anche se molte di esse risultano spesso poco visibili e ignorate, mentre di fatto vanno chiamate in causa per capirci qualcosa. La scuola è un’istituzione normativa e, in parte, violenta. Lo è anzitutto in quanto “obbliga” bambini e ragazzi a trasferirsi massicciamente dai loro ambienti propri in ambienti fortemente regolati e estranei che non hanno scelto e all’interno dei quali sono tenuti a osservare moltissime norme che limitano pesantemente la loro libertà di muoversi, di essere soggetti a pieno titolo e di esprimersi spontaneamente. Questo non dobbiamo mai dimenticarlo. La nostra società ha scelto, con piena corresponsabilità di tutti, genitori compresi, di rinchiudere bambini e ragazzi all’interno di una struttura che loro non hanno scelto e riguardo alla quale hanno una possibilità molto limitata di incidere e di far valere il proprio punto di vista. Questo vale anche per i genitori e per alcuni insegnanti più sensibili a questo ordine di obblighi non sempre sensati per quanto attiene i processi di apprendimento che dovrebbero verificarsi al suo interno. Noi chiediamo ai nostri bambini e ragazzi (e mi scuso se ogni volta non aggiungo, come sarebbe giusto, bambine e ragazze ma è per semplicità) di alzarsi molto presto la mattina (cosa che in molti casi è una vera e propria violenza ai loro ritmi biologici) e di trasferirsi dai loro luoghi famigliari in luoghi non proprio esaltanti sotto il profilo estetico, del clima umano e dell’ospitalità, che noi chiamiamo scuole. All’interno di questi luoghi poi vengono concentrati in gruppi che non scelgono, di fatto al comando di adulti, gli insegnanti, che hanno il compito di far rispettare una disciplina piuttosto esigente (silenzio, ordine, riduzione radicale del libero movimento e della libera espressione ecc.) per effettuare attività principalmente cognitive non sempre gradite sotto la minaccia di valutazioni, sanzioni, procedure punitive ecc. I corpi e le menti dei bambini e dei ragazzi trattati in questo modo soffrono di una palese repressione e di una costante vigilanza che spesso travalica anche il buon senso, arrivando a censurare abbigliamenti, linguaggi, gesti che appartengono di fatto alla pienezza di espressione dei piccoli in crescita. Ciò che si fa nella scuola è spesso fratturato in piccole unità difficili da ricomporre e delle quali comprendere il senso, è appesantito da compiti e prove continue o comunque molto frequenti non sempre rispettose delle esigenze individuali di tempi di apprendimento non standardizzabili specie su grandi numeri. A tutto questo e altro che ora non posso, per esigenze di spazio, mettere in luce (organizzazione del tempo libero e delle uscite dalla classe, tempi fisiologici di riposo e “ricreazione”, tempo di libera espansione corporale ed espressiva ecc. ecc.), si aggiunge talora l’atteggiamento autoritario e minaccioso di alcuni adulti insegnanti, il che non fa che aumentare il carico di umiliazioni, soggiogamento e minaccia talora gratuita che i piccoli devono sopportare sempre in assenza di un loro spontaneo e attivo consenso. Noi non possiamo mai dimenticare tutto questo, in special modo se teniamo conto, come dimostrano innumerevoli studi, del ruolo che la libertà relativa, il clima affettivo e supportivo e soprattutto il coinvolgimento appassionato ha sul processo di apprendimento, su qualsiasi processo di apprendimento. Intendiamoci, non che queste norme non valgano in parte anche per gli insegnanti, che si trovano a dover regolare gruppi troppo grandi per le loro risorse, a dover impartire insegnamenti che appunto impattano nel disinteresse dei soggetti in carico e di dover, sempre in ragione della strutturazione disciplinare e ricattatoria dell’insegnamento, trattare una popolazione sofferente e poco propensa a seguirli. E tuttavia è chiaro che le punizioni, le sanzioni e la minaccia aumentano in proporzione diretta con il grado di sofferenze, di mancato coinvolgimento e di libertà che i soggetti in apprendimento sperimentano all’interno della struttura “concentrazionaria” nella quale sono obbligati a restare per una parte preponderante del loro tempo di vita. In un contesto di tale genere io credo che si debba parlare di violenza diffusa, con gradazioni e sfumature anche molto diverse ma intrinseca al funzionamento dell’istituzione stessa. I bambini e i ragazzi sono molto diversi gli uni dagli altri, come è normale che sia, e reagiscono a questo trattamento in maniera molto diversa. Ci sono alunni che, per ragioni anche di ordine psicologico, beneficiano di una strutturazione anche rigida, cioè trovano nella “funzione quadro” garantita dal contesto, come spiega René Kaes in un testo ormai vecchio ma sempre verde, L’istituzione le istituzioni, un ancoraggio rassicurante e funzionale. Per altri invece una tale strutturazione, spesso imbastardita dall’eccesso di controllo e di sanzioni, è insopportabile. In mezzo ci sono molte sfumature. Fino a qualche decennio fa tutto questo sembrava pacifico. Secondo una visione piuttosto ottusa, mi si conceda, della psicologia dei bambini, si riteneva che l’obbligo, la frustrazione, il sacrificio, fossero in sé cosa buona e giusta per farli crescere. Un’idea antica e profondamente legata a una formazione adattiva per contesti di vita molto difficili e conflittuali che teneva in considerazione l’individualità e la soggettività dei bambini ben poco. Nel giro di alcuni decenni, a partire dagli anni Sessanta ma anche molto prima in modo meno massiccio, si è allargata la nostra visione (anche grazie ai molti studi di pedagogia nuova e attiva che apparivano via via e alle sperimentazioni ad essi legate) a una comprensione più ampia del bambino e della necessità di tenere più conto di un processo che dobbiamo chiamare di soggettivazione individuale, di scoperta e coltivazione dei suoi talenti specifici e di autonomia. Pedagogisti, educatori e molti genitori si sono andati via via sensibilizzando intorno questa diversa comprensione e non hanno più colluso con un trattamento educativo fondato sulla sofferenza, sul rigore e sulla frustrazione. Nel contempo tuttavia la società ha continuato ad essere un luogo di conflitti, di vera e propria guerra sempre più individualizzata e disorganizzata per il lavoro, per il successo e per il denaro. Teniamo conto anche di questo perché è questo che vedono, manifesto in ogni luogo, i nostri cuccioli intorno a loro, spesso nei loro genitori o nei ragazzi più grandi o, in mole davvero pervasiva, attraverso i media. Tutto ciò non può che fare cortocircuito. Oggi molte famiglie sono sensibili alla salute psichica, fisica e affettiva dei propri figli (quello che viene chiamato il fenomeno della “famiglia affettiva” nei confronti della quale francamente non riesco a trovare nessun elemento di recriminazione perché finalmente è una famiglia che “vede” i propri bambini, o almeno ci prova e non è più disposta a delegarne completamente l’educazione a una struttura così poco comprensiva come quella scolastica). Gli insegnanti stessi, in una misura notevole, hanno cominciato a rendersi conto che occorre cambiare registro, anche se l’organizzazione scolastica ha fatto ben poco per venire loro incontro e, di fatto, il funzionamento dell’istituzione è cambiato, specie sotto il profilo disciplinare, ben poco. Come poco è cambiato sul piano dei saperi da apprendere, del modo di trattarli e delle prove di valutazione, che semmai sono diventate ancora più invasive e persecutorie. Noi non possiamo dare la colpa ai ragazzi se talvolta si ribellano. Possiamo non assolverli se assumono comportamenti chiaramente violenti ma dobbiamo aprire gli occhi su quello che accade nel mondo scolastico, a parte qualche felice eccezione. La scuola è un luogo violento, dove si consuma violenza quotidiana, dove le libertà essenziali dei bambini e dei ragazzi sono ridotte al minimo vitale. È chiaro che oggi nel mondo c’è un clima che tende anche a incoraggiare questa ribellione, c’è più comprensione, c’è più contraddizione. Ma intendiamoci, e qui mi permetto di prendere posizione, questa ribellione è sostanzialmente giusta. Almeno fintanto che le nostre strutture educative non decideranno di cambiare drasticamente modalità di accoglienza, di ospitalità, di attenzione, di proposta, di ritmi, di coinvolgimento, di partecipazione. I bambini e i ragazzi sono soggetti a pieno titolo che hanno il diritto di essere accolti nel migliore dei modi possibile, di essere incoraggiati a trovare e intraprendere le “loro” strade, che devono essere valorizzati nelle loro differenze e ascoltati, che devono avere tempi di riposo, di libertà, di scatenamento come è consono con le esigenze dei loro corpi e della loro età. Finiamola con il moralismo becero del tipo che occorre frustrarli perché altrimenti se ne occuperà la società. Un bambino frustrato non sarà per questo più capace di affrontare le frustrazioni della vita. Si abituerà solo a sopportarle e a non criticarle, a non cercare di cambiarle, avendo introiettato gli schemi della sottomissione e dell’accettazione. Perché mettiamo i nostri figli al mondo se davvero crediamo che la realtà faccia schifo e che loro devono imparare da subito a essere sanzionati, normati, privati delle loro libertà? Stiamo scherzando? Con questo non voglio giustificare nessuno. Ognuno deve assumersi le sue responsabilità ma non dobbiamo dimenticarci mai quale sia l’origine del problema, dove si annidi, chi siano i suoi attori primari. Il resto sono conseguenze, più o meno folli. Ma il punto di scaturigine sta in un meccanismo sbagliato ab initio. Occorre cambiare, se vogliamo che domani cambi anche una società che non ha di meglio da dire ai suoi cuccioli se non imparate oggi a soffrire perché domani sarà peggio.

Che sta succedendo nella scuola italiana? Prof pestati e bullizzati. La deriva nera della scuola, con la complicità delle famiglie. L'episodio di Lucca è solo l'ultimo di una serie impressionante. E' saltato il rapporto di fiducia tra scuola e famiglia, ovvero il patto di corresponsabilità educativa? Scrive Daniela Amenta il 19 aprile 2018 su "Globalist.it". Deve essere saltata una diga, ma importante, se i ragazzini bullizzano i professori in classe. Accade sempre più di frequente, decine e decine di casi. Il rischio è che fra un po' non ci faremo più caso. E gli insegnanti saranno lasciati ancora più soli in queste classi dove vengo derisi, umiliati, mortificati. Deve essere saltata la diga della famiglia. Perché spesso a pestare gli stessi insegnanti sono proprio i genitori dello studente che pretende un buon voto o assoluta libertà d'azione a dispetto della disciplina. In un appello su Change.Org al capo dello Stato Mattarella, un gruppo di docenti scrive: "Sono fatti che evidenziano quanto sia profondamente mutato il rapporto di fiducia tra scuola e famiglia, che interrompono bruscamente quel patto di corresponsabilità educativa e che vanno condannati con forza. È sconvolgente pensare che un genitore possa entrare in una scuola e compiere atti simili o che uno studente si possa permettere di picchiare da solo o in gruppo un docente". Vorrebbero una norma capace di difenderli. I professori italiani dicono: "Occorre una legge che comporti delle sanzioni che siano da esempio educativo per le generazioni future, serve una norma che tuteli il libero esercizio dell’insegnamento quale base per la crescita delle generazioni che verranno. Serve una legge atta a prevenire episodi del genere che si aggiungono alla non facile situazione del comparto scuola maltrattato sul piano economico, giuridico e sociale". Ma una legge può cambiare un clima, un modo di essere, questa violenza che striscia? Botte, poi l'immancabile video. L'ultima storia è accaduta in un Ict di Lucca. Qui il docente è stato aggredito verbalmente da un alunno che aveva ricevuto un pessimo voto. "Prof non mi faccia arrabbiare, metta sei", gli ha urlato il giovane. Poi puntandogli il dito in faccia: "Qui comando io. Si metta in ginocchio". Naturalmente tutto questo è stato ripreso e postato in Rete, con assoluta faccia tosta, un senso di totale impunità.  Oggi viene fuori un'altra vicenda inquietante, accaduta un anno fa ai Castelli Romani. Viene fuori perché il video è diventato virale. Istituto Tecnico di Velletri. L'immancabile coatto che si rivolge alla prof e la minaccia con queste parole: "Te faccio scioglie in mezzo all'acido, te mando all'ospedale professore'". Un piccolo, arrogante mafioso. 

Storie terribili. Dalla professoressa disabile "bullizzata" e derisa dai suoi alunni in una scuola di Alessandria (con tanto di video postato su WhatsApp), alla maestra di Palermo presa a pugni dal genitore di un alunno perché aveva lamentato le troppe assenza di suo figlio. Solo lo scorso 7 aprile a Torino, istituto tecnico Russel Moro, due persone hanno aggredito un docente, "colpevole" di non aver fatto entrare un alunno in classe perché arrivato tardi alla lezione. Il ragazzo ha avvisato il padre, che si è presentato assieme ad altre due individui che hanno colpito con un pugno alla mandibola il professore, per poi fuggire.

Il caso di Giuseppe Falsone. Peggio è andata a Giuseppe Falsone, insegnante di matematica alla scuola media Casteller di Paese in provincia di Treviso. Ha accompagnato un ragazzino nel cortile esterno, nonostante l'alunno non volesse alzarsi dalla sedia. Morale: è stato preso a schiaffi dai genitori mentre la scuola ha aperto un procedimento disciplinare contro il professore. Falsone ha scritto alla Fedeli. «Gentile Ministro, è ammissibile per buonsenso e messaggio educativo che un docente aggredito, ingiuriato, minacciato e abbandonato a se stesso debba anche difendersi dal fuoco amico? Mi chiedo come mai la parola di minorenni diseducati e le minacce di famiglie aggressive mettano in discussione la serietà di chi ogni giorno lavora per costruire conoscenza e competenza ma anche le donne e gli uomini di domani». 

Febbraio nero. Solo a febbraio una sequenza di episodi gravissimi. 1° febbraio, Caserta. Un 17enne accoltella la professoressa di italiano al volto. Motivo: la docente voleva interrogarlo per fargli recuperare una insufficienza. 10 febbraio Foggia: vicepreside aggredito dal genitore di un alunno. Ricoverato con trauma cranico e addominale. Il prof aveva ripreso il ragazzino che spintonava una compagna. 

14 febbraio, Piacenza. Qui l'insegnante è stata aggredita da uno studente di prima media, che 'ha colpita ripetutamente ad un braccio. Come riporta il quotidiano locale "Libertà", la donna è stata portata in ospedale con una prognosi di sette giorni. Il ragazzino è stato sospeso con obbligo di frequenza e la scuola ha presentato una denuncia per infortunio sul lavoro e una segnalazione ai servizi sociali. E poi in Sicilia, e nel Lazio, in Campania. E' saltata una diga, ma bisogna intervenire. Non serve solo una legge ma un profondo ripensamento dei rapporti tra famiglie e scuola. Restituire valore all'insegnamento e a chi insegna, a questi docenti malpagati e maltrattati che sono il primo mattone dell'educazione anche civica dei nostri figli. Pensiamoci ora, subito, prima che sia troppo tardi.

Lucca, il secondo video del professore bullizzato: mimano testate, insultano e svuotano bidoni di immondizia, scrive il 19 Aprile 2018 "Libero Quotidiano". Emergono nuovi video dopo quello messo in rete mercoledì dagli studenti di una scuola di Lucca in cui si vede un alunno insultare e minaccia un professore, intimandogli addirittura di mettersi in ginocchio. Le nuove immagini mostrano due studenti che, galvanizzati dall'incitamento dei compagni, insultano pesantemente l'insegnante e addirittura versano i due bidoni dell'immondizia sulla cattedra. E ancora, mimano di colpirlo con una testata. Dopo la diffusione dei video, i tre minorenni colpevoli frequentanti l'Itc di Carrarà della cittadina toscana sono stati indagati per atti di bullismo e prepotenza ai danni del professore sessantaquattrenne. Sia la polizia postale che la Digos sono intervenute nelle indagini ed anche il preside dell'istituto è intervenuto sporgendo formalmente denuncia.

Bullismo, nuovo allarme dopo Lucca. A Velletri minacce in classe a professoressa: "Ti sciolgo nell'acido". Nel comune laziale aperta indagine per minacce e oltraggio. A Chieti, obbligo di dimora per due minori che picchiavano un compagno. La ministra Fedeli: "Nei casi più gravi, escludere i ragazzi dagli scrutini. E i docenti non minimizzino", scrive il 19 aprile 2018 "la Repubblica". "Te faccio sciogliere nell'acido professorè". È allarme bullismo: da Lucca a Venezia, da Chieti a Velletri, dai professori ai compagni di scuola, si moltiplicano le vittime dei violenti. Studenti, adolescenti, coetanei si trasformano in classe in aguzzini dei loro compagni, dei loro insegnanti. Spesso, per postare poi le loro "imprese" in rete.  Un nuovo episodio è venuto ora alla luce, dopo il caso del docente di Lucca minacciato: è accaduto a Velletri, alle porte di Roma. "Te faccio scioglie in mezzo all'acido, te mando all'ospedale professorè", ha detto uno studente di un Istituto Tecnico all'insegnante, riprendendo tutto col telefonino e condividendo sui social, con tantissime visualizzazioni. Il caso è avvenuto un anno fa ma ora, dopo che il video è diventato virale, le autorità si sono attivate. I carabinieri hanno inviato infatti ieri un'informativa in Procura, che ha aperto un'indagine per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ipotizzando anche il reato di minacce. Gli inquirenti dovranno ora accertare le modalità con le quali è stato realizzato e diffuso in rete il video. Le indagini cercheranno anche di capire se la docente è stata oggetto di minacce anche successivamente all'episodio in questione.

Sempre in zona Castelli romani, i carabinieri hanno sgominato una banda, formata da minorenni o poco più che maggiorenni e capeggiata da un ragazzo di 16 anni. Oltre a compiere atti di bullismo, con l'uso sistematico e reiterato della violenza il gruppetto faceva spacciare stupefacenti a minori per suo conto, facendosi poi consegnare il ricavato.

Altri episodi violenti sono stati sanzionati a Chieti. Il Tribunale per i minorenni dell'Aquila ha infatti emesso un ordine di dimora per due studenti bulli, che per mesi hanno reso la scuola un inferno ad un compagno di classe. Pugni, testa sbattuta sui banchi, insulti, minacce. La vittima dei loro soprusi è stato un ragazzo di 14 anni, che beneficia del sostegno per un ritardo cognitivo, iscritto alla prima classe.

Dall'inizio dell'anno le angherie nei suoi confronti sono state continue, ma a lungo il ragazzo non ha detto nulla. Sua madre, allarmata dal fatto che il ragazzo si rifiutava di andare a scuola, è riuscita finalmente a farsi raccontare tutto. Fino alla scoperta di alcuni lividi sul suo corpo. Una visita al pronto soccorso è stata sufficiente ad accertare le violenze subite dal ragazzo, con una prognosi di una settimana.

Ma gli incubi in classe, per lui, non erano finiti. Sul gruppo di Whatsapp, infatti, nuove minacce: "Se torni ti massacriamo di botte e ti buttiamo dalle scale antincendio", gli scrivevano. La madre è stata costretta a ritirare il figlio dalla scuola, ma ciò non le ha impedito di denunciare i fatti ai carabinieri, che in sinergia con la scuola hanno ascoltato i compagni di classe. I ragazzi erano stati testimoni dei fatti ma, per timore dei due bulli, non avevano mai riferito a nessuno ciò che si stava verificando. Da lì i primi provvedimenti della scuola contro gli studenti violenti, fino ai provvedimenti restrittivi emessi oggi dal Tribunale.

E se nel veneziano una ragazzina esasperata dagli insulti via chat si è gettata dalla finestra, salvandosi, nei giorni scorsi anche a Bologna undici ragazzini fra i 14 e i 15 anni - italiani e stranieri - sono stati denunciati alla Procura dei minori dai carabinieri di Borgo Panigale per i reati di minacce, violenza privata, percosse, lesioni personali e, in un caso, tentata rapina. I fatti sono avvenuti fra dicembre e febbraio al centro commerciale Meridiana di Casalecchio. I ragazzini, anche a piccoli gruppi, prendevano di mira le vittime e le picchiavano anche per futili motivi, anche solo per uno sguardo non gradito. Tre, in particolare, gli episodi denunciati. Ma i carabinieri sospettano che siano molti di più.

L'escalation di violenze nelle scuole non ha lasciato indifferente il ministero dell'Istruzione. La titolare del dicastero, Valeria Fedeli, ha rivolto un appello alle famiglie, chiedendo maggiore rispetto per chi è incaricato di formare le nuove generazioni: "L'autorevolezza dell'insegnante - ha spiegato la ministra - si intreccia in modo stretto, agli occhi delle ragazze e dei ragazzi, con quella dei genitori". La ministra ha preso poi una posizione netta riguardo ai gravi casi di violenza che si verificano nelle scuole: "È necessaria - ha spiegato - una linea rigorosa nelle sanzioni. Chi infrange le regole, chi ricorre alla violenza verbale o fisica nei confronti dei professori va sanzionato secondo le norme vigenti, che prevedono la sospensione dalle lezioni per periodi di tempo diversi fino alla non ammissione allo scrutinio finale". Riguardo al caso di Lucca, che tanto ha fatto discutere, la titolare del Miur ha detto che il docente avrebbe dovuto "chiedere alla preside di convocare il consiglio di classe e sospendere e sanzionare quei ragazzi". Non solo chi ha commesso le violenze, ma "anche chi girato il video senza intervenire". "I docenti - ha continuato poi Fedeli - non devono subire simili episodi di violenza, e vanno sostenuti da colleghi, dirigenti e società. La figura del docente deve essere adeguatamente riconosciuta, rispettata, valorizzata". Fedeli, infine, ha sottolineato l'importanza di non minimizzare mai episodi del genere, quando si verificano: "Denunciare subito episodi di violenza verbale o fisica, linea rigorosa nelle sanzioni: ecco la strada da seguire affinché non si debba più assistere a immagini come quelle che ci sono giunte da Lucca e da Velletri".

Ancora violenza in una scuola campana: bambino delle elementari manda all’ospedale la maestra, scrive Roberta Magliocca il 20 aprile 2018 su "Corrierece". È diventato davvero un mestiere pericoloso, quello dell’insegnante. E sembra proprio che la violenza sembra appartenere ai grandi, quanto ai piccini. In una scuola dell’agro atellano, un bambino della prima elementare – 6 anni appena, di Frattamaggiore – ha scaraventato addosso alla maestra il suo banchetto, non prima però di averla insultata con parolacce. Trasportata in ospedale, la maestra è stata dimessa in serata con una prognosi di 7 giorni. Intanto la preside della scuola ha chiamato la madre del bambino che non sembrava mortificata da quanto fosse successo. Così, la dirigente scolastica, è stata costretta a chiamare i carabinieri.

Perché i video dei bulli di Lucca parlano di noi e di quello che la scuola non è più capace di fare. Aumenta il numero di studenti che aggrediscono e si prendono gioco dei loro docenti. Ma il problema non sono né la morale, né le regole. Serve un'educazione della persona, scrive Mario Leone il 19 Aprile 2018 su "Il Foglio". Staranno già facendo qualche bando, lì a viale Trastevere sede del Miur, per combattere la nuova frontiera del bullismo. Infatti, mentre non è ancora scemata la “moda” del bullismo e cyber bullismo tra ragazzi (di cui parlavamo qui), ecco comparire il bullismo sul docente. Il mezzo di trasmissione è il solito: la rete. Un video girato in classe che riprende un professore vittima delle angherie dei propri studenti. L’escalation è stata rapida. Un primo filmato di qualche giorno fa raccontava di un ragazzo che sbraitava contro un prof. intimandolo di modificare il cinque in sei e, non contento, di mettersi genuflesso ai suoi piedi. Un secondo vede protagonista lo stesso docente che mentre prova a dire qualcosa in classe è spintonato da un ragazzo con il casco, insultato più volte, affrontato a muso duro. Immagini accompagnate dalla colonna sonora del vociare dei ragazzi che ridacchiano e indicano possibili e nuove soluzioni d’offesa al bullo di turno. Sono evidentemente immagini tristi non solo per il malcapitato ma perché specchio di una china inarrestabile nella quale scivola una buona parte della scuola italiana. Il bullismo sui professori è sempre esistito. Tutti noi abbiamo avuto dei docenti nelle cui ore succedeva di tutto. Forse con modalità meno esplicite. Sino a vent’anni fa i cellulari non potevano documentare certe scene e i social non erano così utilizzati. E qui, forse, sta il primo punto. Siamo di fronte a una degenerazione della società dello spettacolo. Il bullo è ripreso con la vittima tra le mani e via con lo show. In diretta Facebook, Instagram o sulle chat di WhatsApp. Una modalità che evidentemente esalta chi compie l’atto rendendolo idolo non della classe ma del mondo della rete che lo guarderà e, dopo like o un commento spiritoso, condividerà compiaciuto. Ma quei due video rivelano molto altro: la totale assenza di una reazione significativa del professore. Ci sono sempre più professori soli, che chiudono quella porta sperando che l’ora passi velocemente. Altro che consiglio di classe e corpo docenti unito. A questa solitudine si unisce uno smarrimento di quel principio di autorità che sempre più genera zampilli di violenza a scuola come in famiglia. Cosa fare? Non esistono ricette perché la questione è complessa. La morale non serve a nulla. Come non serve appellarsi all’aumento delle regole o al presunto ruolo di pubblico ufficiale di un professore. La questione è piuttosto il soggetto, ragazzo o professore che sia. Lo smarrimento di una educazione della persona ha prodotto una sterminata flotta di docenti che navigano smarriti nei corridoi delle nostre scuole, privi di una proposta chiara, vissuta, appassionata, certa. Per questi educatori (non sono tutti così per fortuna) i ragazzi di oggi sono un problema. Quei ragazzi che si concepiscono inadatti, martellati da un potere estetizzante che li vuole al top in tutto quello che fanno. In balia di una realtà, vera o virtuale, che li segna anche duramente. Ragazzi soli perché si son divertiti a smantellare anche la famiglia. Così hanno riempito le scuole di esperti, psicologi, “Circle Time”, attività per l’integrazione, il recupero contro la dispersione scolastica (ancora altissima in Italia), screditando ancora di più i professori e non capendo che il problema è degli adulti. Non serve una grande scienza per coglierlo. Il “Rapporto giovani 2018” dell’Istituto Toniolo edito da pochi giorni lo chiarisce bene. I ragazzi vogliono essere più protagonisti del loro presente, coinvolti in un cambiamento che reputano possibile; vorrebbero contare di più nella vita privata ma soprattutto in quella sociale, desiderosi che ci siano persone che riconoscano loro un valore e non una persona da cambiare. La scuola ha perso questa capacità di riconoscere ai suoi studenti un valore. Il problema non è sociale ma è dell’io. La società come la scuola si fonda sull’educazione dell’io. Quando si oblitera questa responsabilità la primissima conseguenza è un alunno che prende a testate un professore.

La scuola: dalle stelle alle stalle, scrive Raffaele Bonanni venerdì 20 aprile 2018 su "In Terris". Cosa sta accadendo nella scuola italiana? Quotidianamente o alunni o genitori picchiano gli insegnanti; bene che vada i docenti vengono offesi e sbeffeggiati. Basta un nonnulla a un genitore aizzato da suo figlio: per un rimprovero, per un voto non gradito, succede il finimondo. Ad Alessandria, giorni fa, un'insegnante è stata legata dai suoi alunni a una sedia e poi presa a calci. La conseguenza? Il consiglio d'istituto ha punito i teppisti solo con la sospensione di un mese dalle lezioni con obbligo di frequenza.  A Palermo, un genitore ha preso a pugni e calci un docente solo perché la figlia gli aveva riferito via sms dei di essere stata rimproverata. Di violenze simili, avvenute negli ultimi tempi, se ne possono raccontare a centinaia, e le motivazioni sono sempre le stesse. Quando ero bambino io, mi guardavo bene da raccontare ai miei genitori di un rimprovero a scuola, o di una bacchettata sulla mano; regolarmente ci guadagnavo uno schiaffo casalingo o un'altra punizione. Cosa è successo di così sconvolgente nella società italiana per far cambiare così profondamente il modo di pensare e di fare dei padri e delle madri? Perché i genitori non danno credito al ruolo della scuola ed al compito cardine dell’insegnante nell'ambito pedagogia educativa? I ragazzi di ogni generazione sono irrequieti, ma quelli di un tempo non picchiavano i propri docenti come accade oramai ripetutamente. Nulla togliendo allo sgretolamento progressivo della famiglia, che a questo punto viene meno al suo naturale compito educativo. 

Piccolo manuale anti-bulli per i prof La fionda e il moscone della quinta C. Nel libro autobiografico di Giovanni Mosca, «Ricordi di scuola» la storia di un giovane prof alle prese «con quaranta diavoli organizzati», scrive il 19 aprile 2018 "Il Corriere della Sera". Avevo vent’anni quando, tenendo nella tasca del petto la lettera di nomina a maestro provvisorio, e sopra la tasca la mano, forte forte, tanto era la paura di perdere quella lettera così sospirata, mi presentai alla scuola indicata e chiesi del Direttore. Il cuore mi faceva balzi enormi. «Chi sei?», mi domandò la segretaria. «A quest’ora il signor Direttore riceve solo gli insegnanti». «So... sono appunto il nuovo maestro...» dissi, e le feci vedere la lettera. La segretaria, gemendo, entrò dal Direttore il quale subito dopo uscì, mi vide, si mise le mani sui capelli. «Ma che fanno», gridò, «al Provveditorato? Mi mandano un ragazzino quando ho bisogno di un uomo con grinta baffi e barba da Mangiafuoco, capace di mettere finalmente a posto quei quaranta diavoli scatenati! Un ragazzino invece... Ma questo, appena lo vedono, se lo mangiano!»

Quaranta diavoli organizzati. Poi, comprendendo che quello era tutt’altro che il modo migliore di incoraggiarmi, abbassò il tono di voce, mi sorrise e, battendomi una mano sulla spalla: «Avete vent’anni?», disse. «Ci credo, perché altrimenti non vi avrebbero nominato; ma ne dimostrate sedici. Più che un maestro sembrate un alunno di quinta che abbia ripetuto parecchie volte. E questo, non ve lo nascondo, mi preoccupa molto. Non sarà uno sbaglio del Provveditorato? C’è proprio scritto Scuola “Dante Alighieri”?». «Ecco qui», dissi mostrando la lettera di nomina. «Scuola Dante Alighieri». «Che Iddio ce la mandi buona!», esclamò il Direttore. «Sono ragazzi che nessuno, finora, è riuscito a domare. Quaranta diavoli, organizzati, armati, hanno un capo, si chiama Guerreschi; l’ultimo maestro, anziano, e conosciuto per la sua autorità, se n’è andato via ieri, piangendo, e ha chiesto il trasferimento...».

«Credo che costruiscano barricate». Mi guardò in faccia, con sfiducia: «Se aveste almeno i baffi...», mormorò. Feci un gesto, come dire ch’era impossibile, non mi crescevano. Alzò gli occhi al cielo: «Venite», disse. Per corremmo un lungo corridoio fiancheggiato da classi: quarta D, quinta A, quinta B... quinta C... «E’ qui che dovete entrare» disse il direttore fermandosi dinanzi alla porta della V C dalla quale sarebbe poco dire che veniva chiasso: si udivano grida, crepitii di pallini di piombo sulla lavagna, spari di pistole a cento colpi, canti, rumore di banchi smossi e trascinati. «Credo che costruiscano barricate», disse il Direttore. Mi strinse forte un braccio, se n’andò per non vedere, e mi lasciò solo davanti alla porta della V C. Se non l’avessi sospirata per un anno, quella nomina, se non avessi avuto, per me e per la mia famiglia, una enorme necessità di quello stipendio, forse me ne sarei andato, zitto zitto, e ancora oggi, probabilmente la V C della scuola «Dante Alighieri» sarebbe in attesa del suo dominatore: ma mio padre, mia madre, i miei fratelli attendevano impazienti, con forchetta e coltelli, ch’io riempissi i loro piatti vuoti; perciò aprii quella porta ed entrai. Improvvisamente silenzio.

Il primo scacco. Ne approfittai per richiudere la porta e salire sulla cattedra. Seduti sui banchi, forse sorpresi dal mio aspetto giovanile, non sapendo ancora bene se fossi un ragazzo o un maestro, quaranta ragazzi mi fissavano minacciosamente. Era il silenzio che precede le battaglie. (...). I ragazzi mi fissavano, io li fissavo a mia volta come il domatore fissa i leoni, e immediatamente compresi che il capo, quel Guerreschi, di cui mi aveva parlato il Direttore, era il ragazzo di prima fila, – piccolissimo, testa rapata, due denti in meno, occhietti piccoli e feroci – che palleggiava da una mano all’altra un’arancia e mi guardava la fronte. Si capiva benissimo che nei riguardi del saporito frutto egli non aveva intenzioni mangerecce. Il momento era venuto. Guerreschi mandò un grido, strinse l’arancia nella destra, tirò indietro il braccio, lanciò il frutto, io scansai appena il capo, l’arancia s’infranse alle mie spalle, contro la parete. Primo scacco: forse era la prima volta c he Guerreschi sbagliava un tiro con le arance, e io non m’ero spaventato, non m’ero chinato: avevo appena appena scansato il capo, di quel poco che era necessario.

Il moscone. Ma non era finita. Inferocito, Guerreschi si drizzò in piedi e mi puntò contro – caricata a palline di carta inzuppate con saliva – la sua fionda di elastico rosso. Era il segnale: quasi contemporaneamente gli altri trentanove si drizzarono in piedi, puntando a loro volta le fionde, ma d’elastico comune, non rosso, perché quello era il colore d el capo. Mi sembrò di essere un fratello Bandiera. Il silenzio si era fatto più forte, intenso. I rami carezzavano sempre i vetri delle finestre, dolcemente. Si udì d’improvviso, ingigantito dal silenzio, un ronzio: un moscone era entrato nella classe e quel moscone fu la mia salvezza. Vidi Guerreschi con un occhio guardare sempre me, ma con l’altro cercare il moscone, e gli altri fecero altrettanto, sino a che lo scoprirono, e io capii la lotta che si combatteva in quei cuori: il maestro o l’insetto? Tanto può la vista di un moscone sui ragazzi delle scuole elementari. Lo conoscevo bene il fascino di questo insetto: ero fresco di studi e neanch’io riuscivo ancora a rimanere completamente insensibile alla vista di un moscone.

«A me la fionda». Improvvisamente dissi: «Guerreschi» (il ragazzo sobbalzò, meravigliato che conoscessi il suo cognome), «ti sentiresti capace, con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?» «È il mio mestiere», rispose Guerreschi, con un sorriso. Un mormorio corse tra i compagni. Le fionde puntate contro di me si abbassarono, e tutti gli occhi furono per Guerreschi che, uscito dal banco, prese di mira il moscone, lo seguì, la pallina di carta fece; den! contro una lampadina, e il moscone, tranquillo, continuò a ronzare come un aeroplano. «A me la fionda!», dissi. Masticai a lungo un pezzo di carta, ne feci una palla e, con la fionda di Guerreschi, presi, a mia volta, di mira il moscone. La mia salvezza, il mio futuro prestigio erano completamente affidati a quel colpo. Indugiai a lungo, prima di tirare: «Ricordati», dissi a me stesso, «di quando eri scolaro e nessuno ti superava nell’arte di colpire i mosconi». Poi, con mano ferma, lasciai andare l’elastico: il ronzio cessò di colpo e il moscone cadde morto ai miei piedi. «La fionda di Guerreschi», dissi, tornando immediatamente sulla cattedra e mostrando l’elastico rosso. «è qui, nelle mie mani. Ora aspetto le altre». Si levò un mormorio, ma più d’ammirazione che di ostilità: e a uno a uno, a capo chino, senza il coraggio di sostenere il mi o sguardo, i ragazzi sfilarono davanti alla cattedra, sulla quale, in breve, quaranta fionde si trovarono ammonticchiate. Non commisi la debolezza di far vedere che assaporavo il trionfo.

Il capo vinto. Calmo calmo, come se nulla fosse avvenuto: «Cominciamo a ripassare i verbi» dissi «Guerreschi, alla lavagna». Gli diedi il gesso: «Presente del verbo essere» cominciai a dettare “io sono, tu sei...” E così di seguito, mentre gli altri, buoni buoni, ricopiavano sui quaderni, in bella calligrafia, quanto Guerreschi, capo vinto e debellato, andava scrivendo sulla lavagna. E il Direttore? Temendo, forse, dall’insolito silenzio, che io fossi stato fatto prigioniero e imbavagliato da quaranta demoni, entrò a un certo punto in classe e fu un miracolo se riuscì a soffocare un grido di meraviglia. Più tardi, usciti i ragazzi, mi domandò come avessi fatto, ma si dovette accontentare di una risposta vaga: «Sono entrato nelle loro simpatie, signor Direttore». Non gli potevo dire che avevo ucciso un moscone con un colpo di fionda: ciò non rientrava nei metodi scolastici previsti dalle teorie e dai regolamenti.

Giovanni Mosca, Ricordi di scuola (1939), cap. II: La conquista della Quinta C. Giovanni Mosca (1908-1983), giornalista e scrittore, iniziò la sua carriera di maestro presso la Scuola elementare Dante Alighieri della natia Roma. Dopo aver collaborato al Marc’Aurelio, fu direttore del Bertoldo. Rinchiuso nel carcere di Novara nel 1943, dopo la guerra fondò con Guareschi Il Candido di cui fu anche condirettore. Nel 1951 venne chiamato al Corriere della Sera, con cui collaborava già dal 1937, dove oltre all’attività di umorista vignettista per il quotidiano, gli venne affidata la direzione del Corriere dei Piccoli. I suoi articoli e le sue caricature furono pubblicate anche sul Corriere d’Informazione, di cui fu anche critico teatrale e cinematografico.

Violenza a scuola, lo specchio della società, scrive Karen Rubin, Sabato 17/02/2018, su "Il Giornale". La strage nel liceo americano rievoca pericolosamente la crisi che attraversa la nostra scuola, in cui nelle ultime settimane presidi e insegnanti sono stati minacciati, insultati, accoltellati e presi a pugni da genitori ed alunni non contenti del loro operato. Percepiscono di essere bersaglio dei ragazzi perché hanno perso il prestigio sociale e l'autorità. Presi in giro dalle riforme che si susseguono senza essere realizzate e dall'ultimo rinnovo contrattuale, che ha previsto pochi euro di aumento, lavorano in uno stato di frustrazione che ha tolto loro la serenità necessaria per svolgere una professione d'aiuto tra le più delicate. Ma se in questo periodo si parla d'insegnanti maltrattati, nei mesi e negli anni scorsi le forze dell'ordine hanno arrestato maestre che riportavano il silenzio tra i bambini dell'asilo chiudendoli nei bagni, trascinandoli a terra come sacchi di patate, percuotendoli e irridendoli senza un perché. I due fenomeni non sono scollegati. Attribuire la colpa per ogni episodio di cronaca ai docenti o ai ragazzi non spiega la crisi in corso che riguarda tutta la società. Quella tra docente ed alunno è una relazione che va al di là dell'impartire la lezione e dell'apprenderla. Al centro dell'attività d'insegnamento c'è la disposizione mentale e la vicinanza emozionale reciproca. L'insegnante ha il compito emotivo di contenere le paure e le ansie di bambini e ragazzi con una personalità ancora in formazione, influenzata dallo stato emotivo dell'altro, dalla capacità di sintonizzarsi, ascoltare e farsi ascoltare con empatia. Non si può insegnare nulla in uno stato d'animo negativo e la responsabilità del rapporto e del clima che si vive in classe dipende dall'abilità e dal vissuto emotivo del professore. La scuola non può diventare teatro di mille conflitti che hanno la loro origine nella cattiva politica. In un muro contro muro i docenti rimproverano agli alunni di essere viziati, prepotenti e iperprotetti da una famiglia che non educa più. I ragazzi criticano e soffrono il disagio dei docenti, la mancanza di passione e l'incapacità di trasformare la lezione in un momento stimolante e condiviso. Se è vero che bulli e arroganti si sono moltiplicati e anche vero che scarseggiano insegnanti che comunichino fiducia, ottimismo e partecipazione, in grado d'insegnare a cogliere l'attimo che fugge. Se la società non rimette la scuola tra le sue priorità, dando risorse e sostenendo il corpo insegnante, la scuola non recupererà l'amore per se stessa e la sua funzione. Sarà impossibile ritrovare la relazione con i più giovani, cui passare le competenze che sono necessarie per il futuro della nostra società.

Matera, sua figlia non va bene a scuola: aggredisce un professore durante il colloquio. L'episodio è avvenuto nel liceo scientifico Dante Alighieri: il docente aveva riferito al genitore dello scarso rendimento della studentessa nel primo periodo dell'anno scolastico, scrive il 14 dicembre 2016 "La Repubblica". Sembrava un normale colloquio scuola-famiglia tra un professore e i genitori di una studentessa di una classe terza di un liceo scientifico con voti bassi in matematica e fisica. Poi però la discussione è degenerata: il padre dell'alunna ha aggredito il docente, che ha riportato la lussazione di una spalla con una prognosi di 30 giorni. E se non fosse stato per l'intervento di un altro genitore, che ha fermato l'uomo, le conseguenze sarebbero state ancora più gravi. L'episodio - su cui sono in corso indagini - è avvenuto nel liceo scientifico Dante Alighieri di Matera: "Una scuola - spiega il preside Vincenzo Duni - che ottiene spesso riconoscimenti nazionali e nella quale i rapporti con le famiglie dei nostri alunni sono ottimi. E ora c'è grande rammarico per quanto è successo". Dal Comune l'assessore alle Politiche giovanili, Massimiliano Amenta, ha evidenziato "il corto circuito educativo che si verifica in alcune realtà familiari della città, per fortuna poche". A poche ore di distanza dall'aggressione l'alunna è stata regolarmente in aula mentre il docente, Michele Ruscigno (con un passato anche da assessore comunale nella città dei Sassi) ha trascorso il suo primo giorno di malattia rispondendo a diversi messaggi di solidarietà, "anche da genitori - rimarca il preside - di alunni con un rendimento non ottimale nelle sue materie". "Mai successo niente di simile in 25 anni", ha ripetuto più volte il professor Ruscigno. Il colloquio con i genitori era stato teso, con il padre che chiedeva "spiegazioni" per i voti bassi, "nonostante la ragazza vada anche a ripetizione", ma tutto sembrava finito. Pochi attimi dopo, però, l'uomo si è avventato sul docente, colpendolo diverse volte prima di essere fermato da un altro genitore. Il docente è stato soccorso dagli operatori del 118: all'ospedale Madonna delle Grazie gli è stata ridotta la lussazione. Trenta giorni di prognosi, è scritto nel bollettino.

Punisce un alunno perché disturbava la lezione: genitori lo aggrediscono a calci e pugni fuori da scuola. “Non mi aspettavo tanta violenza per una punizione che rientra nella normale routine”, ha confidato l’insegnate di una scuola media di Palermo, scrive la Redazione Tiscali il 21 novembre 2016. Ha punito un alunno mandandolo fuori dall’aula perché disturbava la lezione e da allora non esce più di casa. Il motivo? I genitori del ragazzo lo hanno aggredito a pugni e calci e lasciato a terra, davanti alla scuola, quasi privo di sensi. “Non mi aspettavo tanta violenza per una punizione che rientra nella normale routine della vita scolastica”, ha confidato al sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone che lo ha chiamato per esprimere la sua solidarietà l’insegnante di Scienze e Matematica della scuola media Antonino Caponnetto di Tommaso Natale, di Palermo. "Sono stato accompagnato subito in ospedale e ho deciso di denunciare perché ho riconosciuto tra gli aggressori il padre e la madre del mio allievo e un'altra coppia. Non deve passare il concetto che si possa essere così violenti senza pagarne le conseguenze. In cinque anni di insegnamento non mi era mai capitato", ha spiegato l'insegnante. Il 49enne a fine lezione ha distribuito caramelle alla classe, e "ovviamente anche ai due che avevo mandato fuori dalla classe". La reazione di uno dei ragazzi, che ha rifiutato la caramella con un gestaccio, - scrive La Repubblica - ha colto di sorpresa il prof. "Gli ho detto che non me lo aspettavo da lui, è stata sempre un ragazzo educato. Pensavo fosse finita lì". Invece, due mattine dopo, all’entrata dell’istituto, l’insegnante è stato chiamato ad alta voce da un uomo mentre posteggiava la moto dentro il parcheggio della scuola. “Mi sono voltato ed è arrivato anche il papà del mio alunno e subito dopo la madre e un’altra donna. Hanno cominciato a picchiarmi. Ho ancora la testa molto dolente, forse hanno utilizzato alcuni oggetti per ferirmi. Ma ero spaventato, non ne sono sicuro". Sotto shock anche i colleghi del professore. “Siamo molto turbati. Non sospettavamo — ammette la dirigente scolastica Graziella La Russa — che dietro al nostro alunno ci fosse una famiglia così violenta. Quello che è accaduto — dice — è molto preoccupante. Bene hanno fatto docente e dirigente a sporgere denuncia”.

Scuola, docente aggredito da una mamma: Mio figlio è vittima di bullismo, scrive Luigi Rovelli il 24 settembre 2016 su "Blastingnews". Sappiamo bene, purtroppo, come i docenti siano vittima di attacchi verbali o addirittura fisici da parte dei genitori dei loro alunni. Spesso, infatti, la cronaca ha riportato notizie di aggressioni o di insulti indirizzati agli insegnanti, persino all'interno degli edifici scolastici. Anche il nuovo anno scolastico 2016/2017, purtroppo, non sembra iniziare bene, sotto questo punto di vista, perchè a Genova si è già verificato un episodio di questo genere. La vicenda è accaduta nel pomeriggio di mercoledì 21 settembre, davanti ad una#Scuola media dell'Alta Val Polcevera. Come riportato dall'edizione odierna de 'Il Secolo XIX', una donna di 36 anni è stata denunciata per lesioni ai danni di un docente e della moglie. All'uscita dei ragazzi, la donna avrebbe aspettato l'insegnante di suo figlio, reo (secondo lei) di aver sottovalutato episodi di #bullismo di cui il ragazzino, che frequenta la classe seconda, sarebbe stato vittima. Agli schiaffi dati al docente sono seguiti quelli alla moglie del professore, anch'ella insegnante, intervenuta nella discussione per difendere il marito. Il giovane avrebbe raccontato ai genitori di aver subito, durante la ricreazione, un nuovo atto di bullismo da parte di alcuni compagni. La madre avrebbe, dunque, chiesto al figlio se il professore avesse visto qualcosa di quanto accaduto e se fosse intervenuto: "No, mamma, il prof non ha fatto nulla, anzi ha minimizzato il fatto". Da qui la decisione della donna di andare a 'chiarire' il tutto con il docente: "Succede sempre con quel professore - avrebbe in seguito dichiarato alla Polizia la donna - lascia sempre che i bulli se la prendano con mio figlio. Si tratta di episodi che accadono solamente in alcuni momenti della giornata e soltanto alla presenza di alcuni professori. La mia intenzione era quella di parlare con il docente: poi, delusa dal suo atteggiamento, ho perso la testa". Il docente e la moglie sono stati accompagnati al vicino Pronto Soccorso. Il professore è stato medicato e poi dimesso con 10 giorni di prognosi: per la moglie, invece, la prognosi è di soli cinque giorni.  

Napoli, professoresse tentano di fermare occupazione degli studenti e finiscono all’ospedale. Cinque giorni di prognosi per contusioni. Questa la diagnosi per le due insegnanti del Liceo Classico "Plinio Seniore" di Castellammare di Stabia travolte da un migliaio di studenti, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 dicembre 2016. Cinque giorni di prognosi per contusioni. Questa la diagnosi per due insegnanti che ieri hanno tentato fermare l’occupazione degli studenti. Le due professoresse del Liceo Classico “Plinio Seniore” di Castellammare di Stabia (Napoli), sono state travolte da un migliaio di studenti e sono finite in ospedale. Tutto è iniziato da una protesta degli studenti che lamentavano la carenza di aule. Cinque docenti hanno tentato di arginare gli alunni ma nel pigia pigia due prof, tra le quali la vice preside, sono cadute. Sul posto sono sopraggiunti polizia e carabinieri che hanno riportato la pace, mentre la dirigente scolastica ha convocato i rappresentanti dei genitori per chiarire l’accaduto. Nel pomeriggio, anche il sindaco, Antonio Pannullo ha fatto visita all’istituto per incontrare gli studenti e i professori ai quali ha promesso un aiuto per risolvere il problema della carenza delle aule. L’ex Pretura di Castellammare di Stabia potrebbe, infatti, presto diventare succursale del Liceo classico “Plinio Seniore”, questa la proposta del sindaco. “Abbiamo solo tentato di evitare che i ragazzi potessero farsi male e, nel contempo, abbiamo ritenuto di dover preservare un accesso ai disabili e a chi desiderava entrare per fare lezione” ha raccontato la professoressa Giovanna Domestico, vicepreside, finita al pronto soccorso. I ragazzi sono riusciti a entrare e a prendere possesso di aule, corridoi e palestra dove hanno avviato corsi di lezione autogestiti in cinema, musica, teatro, cultura antidroga e così via. Contrariata la preside, Fortunella Santaniello: “Mettiamo in campo tante iniziative e ora si parla di noi in maniera negativa. È inaccettabile”. “Il nostro istituto è aperto fino alle ore 18,30 ed offre attività formative con certificazioni linguistiche gratuite – ricorda la preside Santaniello – inoltre offriamo corsi di formazione per facoltà a numero chiuso. Ma, soprattutto, è annoverato tra i primi istituti d’Italia per numero di studenti iscritti al corso in lingua cinese. Sono più di 300 su una platea di 1.200. Per questo motivo, il Seniore di Castellammare è stato scelto dal ministero della Pubblica istruzione per un accordo con la Cina. Facciamo parte di una commissione che deve dare vita a uno sorta di ‘Erasmus’ con questo grande paese asiatico”. Parzialmente soddisfatti dalle risposte delle istituzioni, gli studenti hanno indetto per oggi un’altra assemblea con tutta la platea scolastica per decidere se proseguire con l’autogestione o riprendere le lezioni.

Tumulti durante l'occupazione: insegnante e dirigente scolastica all'ospedale. Durante l'occupazione del Gian Battista Vico di in via Salvator Rosa in due sono stati costretti a ricorrere alle cure: choc e alcune contusioni. La ricostruzione, scrive il 12 novembre 2014 "Napoli Today". Durante l'occupazione di un istituto scolastico superiore di Napoli, la dirigente scolastica e una docente sono state costrette a ricorrere a cure ospedaliere: la prima per uno choc subito, la seconda per alcune contusioni riportate. Questa la ricostruzione della vicenda: intorno alle 12.30, il 113 veniva contattato dalla preside del liceo "Gian Battista Vico", in via Salvator Rosa, perché un folto gruppo di studenti intendeva di occupare la scuola. Giunti sul posto, gli agenti si sono imbattuti nella donna e in alcuni docenti fermi dietro il cancello dell'istituto per evitare che gli studenti entrassero; ma questi erano già entrati attraverso un ingresso secondario. Il liceo risulta ancora occupato. Incerta la dinamica della contusione della docente, che non risulta abbia rilasciato dichiarazioni su aggressioni. La preside invece ha avuto problemi di pressione.

Infermieri, medici e prof aggrediti. Violenza e sfiducia nell’autorità, scrive Salvatore Parlagreco su "Sicilia Informazioni" il 5 dicembre 2016. Una infermiera viene minacciata con il coltello e malmenata all’Ospedale Di Cristina di Palermo. Era colpevole di che cosa? Di avere fatto il proprio dovere, a quanto pare, e non avere corrisposto alle sollecitazioni, insistenti dei parenti di un bambino, giunti al pronto soccorso in ambasce. E’ l’ultimo episodio di una serie di aggressioni che hanno obbligato le rappresentanze sindacali degli operatori sanitari a porre la questione – sicurezza nel posto di lavoro – in cima al loro quaderno di lamentele. Una decina di giorni fa, sempre a Palermo, presso l’istituto comprensivo Antonino Caponnetto, un insegnato è stato pestato a sangue da quattro persone, congiunti di un suo alunno. La punizione è arrivata, puntuale, a causa di un rimprovero del prof, del tutto lecito e giustificato, perché l’alunno era più vivace del dovuto ed il suo comportamento lasciava a desiderare. Gli insegnanti devono svolgere un ruolo educativo, non solo mettere i voti sulla materia che insegnano. L’episodio, come nel caso sella infermiera, è l’ennesimo che capita: il numero di casi in cui i genitori, o i familiari, degli alunni se la prendono con il prof e danno ragione al discente piuttosto che al docente non si contano più. Talvolta i prof vengono malmenati, talaltra rimproverati aspramente ed altre volte ancora denunciati, in molti casi, pretestuosamente. Le aggressioni negli ospedali e quelle nelle scuole sono suscitate da ragioni ben diverse, ma alla base degli intollerabili episodi di violenza, ci sono motivazioni che li accomunano. Anzitutto l’arroganza e la cattiva educazione, quando si tratta di insulti naturalmente, la violenza e l’aggressività, quando si tratta di punizioni corporali, la mancanza di rispetto verso coloro che esercitano un compito delicato ed importante, o verso l’autorità che in qualche misura sia gli operatori sanitari quanto i prof rappresentano. Non viene riconosciuta alcun potere decisionale, e prevale il bisogno, individuale, di trovare una risposta pronta. Se così non è, si reagisce in malo modo, e talvolta finisce pure male per i malcapitati infermieri, medici, professori e presidi. Sono in tanti, perciò, a porsi il quesito di prammatica, se cioè siamo diventati violenti e poco rispettosi dell’autorità e del lavoro altrui, se la prepotenza stia prevalendo sul rispetto e il lavoro altrui, e quanto questo comportamento prepotente incida sulla vita familiare? Fra le mura domestiche, insomma, nasce e cresce il sentimento di prevaricazione, che suscita comportamenti violenti. E’ assai probabile che difendendo la famiglia – nel torto o nella ragione, recita un proverbio siciliano – la si voglia perfino proteggere dai soprusi, e si finisca con il farne la causa di soprusi rivolti agli altri. Alcune persone illuminate hanno colto nei comportamenti prepotenti o nel semplice non riconoscimento dell’autorità dei professionisti – infermieri, medici, prof – una contraddizione insanabile. Se si affida il proprio figlio ad un insegnante e non si riconosce all’insegnante il potere decisionale, di educarlo, gratificando quel che di buono riesce a fare e rimproverandolo o punendolo (nel modo lecito) quando invece sbaglia o non fa la sua parte, la scuola ne esce delegittimata e l’istruzione che si cerca di impartire, del tutto vanificata. A diseducare gli alunni, insomma, ci pensa la famiglia. In un clima delegittimante dell’autorità degli insegnanti – cui i congiunti delegano l’educazione dei figli – non sorprende per nulla il fatto che i prof si siano persuasi – il 96 per cento di loro secondo un sondaggio – che i genitori dei loro alunni siano interessati a proteggere i loro figli piuttosto che il livello di apprendimento raggiunto. I prof non hanno alcuna possibilità di “educare” la famiglia quando la tutela è così marcata da delegittimare l’autorità degli insegnanti. Può invece incidere l’educazione scolastica, fino ad arrivare tra le mura di caso, quando la competenza ed il ruolo di chi insegna, viene riconosciuto. Se si affida il proprio congiunto ad un operatore sanitario, ma non gli si riconosce il potere di decidere il da farsi, o si pretende addirittura, che il paziente riceva più attenzioni di altri, salta il sistema sanitario. E’ il medico o l’infermiere che ha la responsabilità, piene ed ineludibile, di ciò che va fatto, e subito, e non il familiare del paziente, che non ha le competenze per decidere, ma solo una pur comprensibile ansia sulla sorte del proprio caro. Sono riflessioni elementari, che dovrebbero essere scontate, ed invece non lo sono affatto. Questo non vuol dire che i casi di cosiddetta malasanità o di malascuola non debbano essere segnalati, nelle forme e nei modi che la civiltà e le regole ci indicano, tutt’altro. E’ un bene che si pretenda la buona istruzione e la buona assistenza sanitaria, ma questa è una cosa diversa, addirittura opposti, dal legarsela al dito, quando le cose, a nostro avviso, non vanno come desideriamo, e il nostro problema non venga affrontato nel modo che noi crediamo giusto ed a prescindere dal contesto in cui si opera. L’uso della violenza, ma il semplice dar ragione all’alunno, nel caso dei problemi scolastici, provoca un gran danno al discente ed al paziente, delegittimando il ruolo e precarizzando la funzione. Insomma, un autentico boomerang. La buona educazione, infatti, non è questione di forma, ma di sostanza. Un’ultima considerazione, anzi – detto senza reticenze – un dubbio ci assale: non è che il populismo anarcoide che sfiducia l’autorità, ovunque venga esercitata, stia contagiando le relazioni sociali?

Violenza a scuola, i docenti si ribellano. Una petizione al presidente Mattarella ha superato 52 mila firme: "Serve una legge che dia più potere agli insegnanti e con pene più dure". La Flc Cgil: "Ci costituiamo parte civile contro i genitori violenti". Nel 2018 ventiquattro aggressioni a maestri e professori, scrive Corrado Zunino il 12 aprile 2018 su “La Repubblica". Gli insegnanti si ribellano, alla fine. Le ventiquattro aggressioni subite da maestri e professori in questo scorcio di 2018 - e ventiquattro sono quelle diventate pubbliche, solo una parte - non sono più sopportabili. Gradualmente, iniziano ad arrivare i segnali di risposta. Il portale "Professione insegnante" ha lanciato sulla piattaforma Change.org una petizione al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui si chiede una nuova legge sul tema "aggressioni a scuola". Nella petizione si legge: "Serve una norma che istituisca e soprattutto rafforzi la figura dell'insegnante quale pubblico ufficiale, che inasprisca le pene laddove ci sono episodi di violenza conclamati, che tuteli la libertà di insegnamento e restituisca agli insegnanti un ruolo di primo piano". Ancora: "Occorre una legge che comporti sanzioni che siano da esempio educativo per le generazioni future, serve una norma che tuteli il libero esercizio dell'insegnamento quale base per la crescita delle generazioni che verranno. Serve una legge atta a prevenire episodi del genere che si aggiungono alla non facile situazione del comparto scuola, maltrattato sul piano economico, giuridico e sociale". Una petizione politica, che sottolinea il peggioramento del ruolo del docente "stretto tra i dirigenti scolastici e le famiglie". Questa mattina, ha superato le 52 mila firme. L'appello è utile per ripercorrere alcuni degli episodi registrati nelle ultime settimane, e citati nel testo. La professoressa con difficoltà motorie legata alla sedia ad Alessandria lo scorso 28 marzo e, andando a ritroso, la maestra di Palermo colpita con un pugno dal genitore di un alunno (nonché bidello dello stesso istituto) infastidito dai rimproveri dell'insegnante per le troppe assenze del figlio. Il professore di Treviso, ancora, picchiato dai genitori di uno studente e punito dalla scuola, il vicepreside di Foggia aggredito, il professore di educazione fisica colpito ad Avola da una mamma, la professoressa d'Italiano accoltellata in classe a Santa Maria Vico, provincia di Caserta: il diciassettenne con il coltello in tasca, appena rientrato dalla settimana bianca, non aveva sopportato una nota. La ministra Valeria Fedeli ha consegnato alla professoressa - Franca Di Blasio - l'onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica. Sulla questione la Federazione della conoscenza della Cgil ha dichiarato che si costituirà parte civile in ogni episodio di violenza subita da un insegnante: "Una volta, ma evidentemente non più oggi, le famiglie consegnavano alle scuole bambini e adolescenti abituati al "no" e al rispetto delle regole", dice il segretario Francesco Sinopoli. "Il patto educativo tra scuola e famiglia una volta era implicitamente e socialmente accettato, ora è drammaticamente messo in discussione". Scrive Cosimo Scarinzi del sindacato Cub: "Se è normale aggredire un insegnante significa che la funzione docente ha un deficit di autorevolezza". Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda: "Le leggi già ci sono, il responsabile legale della sicurezza dei docenti, in quanto lavoratori, è il dirigente scolastico".

Torino, prof picchiato per aver punito alunno: altro caso dopo aggressione al docente nella scuola di Palermo. In un istituto tecnico un insegnante ha ricevuto un colpo alla mandibola, scrive il 7 aprile 2018 Carmine Massimo Balsamo su "Il Sussidiario". Un altro episodio di violenza è avvenuto nelle scorse ore nelle scuole italiane. Dopo il caso recentissimo di Palermo, in cui il genitore di un’alunna ha picchiato un professore, provocandogli un’emorragia celebrale (è fortunatamente fuori pericolo), oggi è la volta di Torino. Presso l’istituto tecnico Russel Moro, due persone hanno aggredito un docente, "colpevole" di non aver fatto entrare un alunno in classe perché arrivato tardi alla lezione. Il ragazzo ha avvisato il padre, che si è presentato assieme ad altre due persone, e due di loro hanno colpito con un pugno alla mandibola il professore, per poi fuggire. Come riferito dai colleghi di TgCom24, il prof è stato subito portato in ospedale per essere soccorso, e sul posto sono giunti gli agenti di polizia, chiamati dalla scuola stessa. Il docente ha inflitto una punizione consona all’errore commesso dall’alunno, ma ovviamente il tutto è stato percepito quasi come un oltraggio, causando la sconsiderata quanto inadeguata reazione violenta. Un caso purtroppo non unico nel nostro paese, visto che stanno diventando sempre più frequenti le aggressioni di genitori a insegnanti o educatori, a seguito di punizioni o rimproveri di questi ultimi nei confronti dei loro figli. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

BULLISMO E CYBERBULLISMO. Il tema del bullismo - e in questi ultimi anni più allargato quello del cyberbullismo - è un tema purtroppo sempre aggiornabile con i fatti nuovi della cronaca che ogni settimana riempiono il nostro Paese. Ma se il bullismo poi raggiunge anche i genitori, allora il problema da urgente diventa emergenziale e, in una parola, profondamente educativo. Il caso di Palermo si unisce a tanti, troppi, casi che negli ultimi mesi vedono i professori messi nel mirino da genitori aggressivi, intolleranti o spesso semplicemente “in balia” dei propri figli. Proprio come quanto avvenuto all’istinto Abba-Alighieri, è bastato un racconto (inventato, si è scoperto poi) di una ragazzina per far crollare subito la fiducia tra la scuola, i genitori e i professori e il padre in questione si è scagliato rischiando di mandare all’altro mondo il docente ipovedente. Un bullismo ancora più difficile da combattere perché riguarda gente tra i 30 e i 50 d’età che hanno spesso la presunzione di sapere già tutto e non voler più “imparare” dalla realtà: l’emergenza educativa è un fattore molto serio e non riguarda solo gli adolescenti ma tutti, proprio tutti, dai professori fino ai genitori, ognuno col “compito” di non pensare di avere sempre la ragione nelle proprie “tasche”. Come ha spiegato la segretaria della Flc Cgil Sicilia, Graziamaria Pistorino, «Quanto accaduto giovedì alla scuola Abba-Alighieri è gravissimo. Si tratta di un fenomeno preoccupante che si verifica ormai quasi quotidianamente e che bisogna comprendere e affrontare». (agg. di Niccolò Magnani)

ASSESSORE LAGALLA, “AGGRESSIONE INAMMISSIBILE”. Certamente un brutto episodio di violenza, probabilmente gratuita, quello che ha visto protagonista, sul malgrado, un professore dell'istituto Abba-Alighieri di Palermo, aggredito fisicamente dal padre di una sua alunna. La sua unica colpa sarebbe stata quella di aver ripreso la giovane durante la lezione. Peccato però che la versione riferita dalla ragazzina al padre non sia stata del tutto veritiera e questo avrebbe portato il genitore, senza neppure sentire le ragioni del prof ipovedente, a picchiarlo mandandolo in ospedale. La situazione non sembra grave come inizialmente annunciato poiché, malgrado l'emorragia cerebrale intercettata dai medici, la prognosi è stata sciolta. L'insegnante avrebbe anche ricevuto le scuse del suo aggressore. Sull'episodio, come rivela BlogSicilia, si è espresso anche l'Assessore all’Istruzione e alla Formazione professionale Roberto Lagalla che è intervenuto con un commento: "Esprimo la più sincera solidarietà del governo e mia personale al docente oggetto di una così violenta ed inammissibile aggressione. Il comportamento del responsabile di un simile atto, non solo è segno di un disvalore educativo e civico ma, soprattutto, dimostra un evidente deterioramento del rispetto da tutti dovuto all’Istituzione scolastica, prima agenzia di formazione civile e sociale", ha asserito. Lagalla ha ovviamente condannato l'episodio con la speranza che siano appurate le responsabilità dell'aggressore e che il docente possa presto rimettersi da questa brutta esperienza. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

FUORI PERICOLO DOPO EMORRAGIA CEREBRALE. È fortunatamente fuori pericolo il professore 50enne ipovedente picchiato dal padre di una sua studentessa nella giornata di ieri, presso l'istituto comprensivo Abba Alighieri di Palermo. Secondo una prima ricostruzione, pare che la giovane studentessa di terza media, all'uscita di scuola abbia riferito al padre di essere stata picchiata dal professore. Da qui la reazione violenta dell'uomo che si è scontrato con il docente, sferrandogli un pugno in pieno viso, talmente violento da aver reso necessario il trasporto in ospedale per via di una emorragia cerebrale. Questa mattina, come rivela RaiNews, i medici dell'ospedale Civico palermitano che hanno tenuto sotto osservazione l'uomo per un'intera notte, hanno sciolto definitivamente la prognosi, ritenendo l'insegnante guaribile in 25 giorni, mentre la polizia continua ad indagare sull'ennesimo caso di violenza nelle scuole che vede sempre più spesso protagonisti genitori violenti contro i professori dei propri figli. Gli agenti, tuttavia, fino ad ora avrebbero appurato come durante le ore di lezione il prof si fosse limitato a riprendere la ragazzina. Solo in seguito l'alunna avrebbe detto di non essere stata picchiata ma solo allontanata dall'aula e, secondo quanto riferito da BlogSicilia, il padre avrebbe poi chiesto anche scusa per il suo comportamento eccessivamente istintivo. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

PROGNOSI DI 25 GIORNI. Palermo: prof rimprovera la figlia, il padre lo picchia. Follia all’istituto comprensivo Abba Alighieri della città siciliana, situato in via Ruggero Marturano: ieri, giovedì 5 aprile 2018, si è verificato un nuovo episodio di violenza a scuola, protagonista un professore ipovedente picchiato dal genitore di una studentessa. Il cinquantenne ha rimproverato la studentessa e l’ha allontanata dalla classe, poche ore dopo la violenza: all’uscita dall’istituto, il genitore è stato aggredito. L’insegnante è stato trasportato all’ospedale Civico e gli esami hanno evidenziato una emorragia cerebrale, sottolinea Palermo Today. Il professore è stato tenuto in prognosi riservata fino a ieri sera, fino a quando è stata sciolta e diventata di 25 giorni. La polizia di Palermo ora sta indagando sull’accaduto, con la segnalazione giunta dallo stesso docente e dopo gli accertamenti dello staff sanitario. Secondo le prime indiscrezioni, il 50enne avrebbe ripreso l’alunna per i suoi comportamenti, la quale avrebbe confidato al padre: “Il professore mi ha alzato le mani”.

PALERMO: PROF RIMPROVERA LA FIGLIA, IL PADRE LO PICCHIA. Dopo le parole della figlia, il padre è andato dal professore ipovedente per chiedere conto della vicenda: volano parole grosse e il genitore decide di colpirlo senza pensarci due volte. Dopo pochi minuti la situazione è tornata sotto controllo, grazie anche all’intervento dei presenti, con la studentessa che ha successivamente ritrattato la versione, affermando di essere stata semplicemente allontanata dalla classe. La Tac ha evidenziato uno sversamento di sangue nel cervello e una frattura allo zigomo, con la prognosi di 25 giorni. Anna Maria Pioppo, dirigente scolastica dell’istituto Abba Alighieri, ha commentato così la vicenda ai microfoni di Palermo Today: “Siamo vicini al professore e profondamente amareggiati per l’accaduto. Ci spiace che questo episodio, il primo dall’apertura della scuola risalente a 22 anni fa, possa in qualche modo segnare la serenità della comunità scolastica. Questi fatti si ripetono sempre più spesso su scala nazionale e ci preoccupa la perdita di fiducia che registriamo nei confronti del ruolo educativo della scuola”.

Nel prendervela con gli insegnanti non fate il bene dei vostri figli, scrive Enrico Galiano il 10.04.2018 su "Il Libraio". "Non fate il bene dei vostri figli se, quando tornano a casa con un brutto voto, quello contro cui ve la prendete è chi glielo ha messo". Mentre in tutta Italia si verificano episodi di violenza ai danni degli insegnanti da parte dei genitori, lo scrittore Enrico Galiano si rivolge a questi ultimi. Ora, cerco di dirvelo con calma, perché anche a me sono capitate negli anni un paio di situazioni in cui ho avuto un po’ di paura.

Non fate il bene dei vostri figli se li difendete anche di fronte all’indifendibile.

Non fate il bene dei vostri figli se dite loro cose tipo “Ma sì cosa vuoi che capisca quel cretino del tuo professore!”.

Non fate il bene dei vostri figli se quando tornano a casa con un brutto voto, quello contro cui ve la prendete è chi glielo ha messo. I rimproveri servono. I compiti in classe andati male servono. È anche così che si diventa forti.

Non fate il loro bene se a casa parlate degli insegnanti come di una masnada di nullafacenti. Anche se magari qualcuno che non ha voglia di lavorare c’è, se parlate così fate solo del male ai ragazzi. I ragazzi hanno bisogno di tante cose: ma di scuse, di posti dove scaricare le proprie colpe, quello proprio no.

Non dico di fare quello che a volte senti in giro, un ceffone o cose simili, figuriamoci. Ognuno ha il suo metodo, non ce n’è uno più giusto. Ce n’è solo uno sbagliato: prendersela col prof. Credete di averli difesi. In realtà gli avete fatto più male voi di quanto potrebbe fargliene qualsiasi brutto voto.

Violenza, non è nella scuola la radice del problema, scrive il 18-02-2018 su "lanuovabq.it" Marco Lepore. Le crescenti violenze nelle scuole italiane sono soltanto il riflesso di una violenza generalizzata che c'è nella nostra società e che tutti respiriamo. È violenza l'ideologia gender, la dissoluzione della famiglia perseguita sistematicamente, l'eutanasia, l'equiparazione delle unioni gay al matrimonio tra un uomo e una donna.

"Caro direttore, alcuni giorni fa c’è stata l’ennesima strage in una scuola americana, ad opera di uno studente che ha sparato all’impazzata su compagni e compagne di scuola, uccidendone ben 17. Una tragedia della follia, che però negli Usa purtroppo non è più una novità. Ne ha scritto in modo commovente e con grande lucidità padre Vincent Nagle proprio ieri su questo giornale".

Fortunatamente, nel nostro Belpaese simili gesti non accadono. In questi ultimi giorni, tuttavia, si fa un gran parlare della violenza che si manifesta sempre più frequentemente nelle scuole, e non solo nel rapporto fra alunni, ma anche nei confronti dei docenti da parte dei loro studenti o di genitori inferociti per presunti torti subiti dai figli. Fino a poco tempo fa certi episodi erano davvero rari e confinati in scuole collocate in realtà sociali già note come problematiche. Oggi scopriamo che la violenza si sta diffondendo e manifestando ovunque. Su un altro quotidiano online è stato riportato un riepilogo di questi episodi che non può non far riflettere: nei primi 45 giorni del 2018, in Italia ci sono stati numerosi episodi di bullismo scolastico e para-scolastico e almeno 5 casi gravi di aggressioni contro i professori compiute da studenti o genitori. Un professore di educazione fisica di Avola è finito all'ospedale con le costole rotte dai pugni e calci dei genitori di un alunno rimproverato. Una professoressa del casertano ha ricevuto una coltellata in faccia da un 17enne furibondo per una nota sul registro. Un vicepreside di Foggia ha avuto una prognosi di trenta giorni per trauma cranico, rottura del setto nasale e lesioni all'addome provocate da un babbo indignato per il rimprovero ricevuto dal figlio. Una professoressa di prima media ha ricevuto un pugno in faccia da un suo alunno, mentre un'altra professoressa è stata presa d'assalto a colpi di chewing-gum nei capelli. Questi sono i più eclatanti, ma tanti altri, magari di minore entità o di pura violenza psicologica, accadono quotidianamente e nel silenzio fra i banchi e persino nelle sezioni di scuola materna, dove sempre più spesso si ha a che fare con bambini la cui irrequietezza sfocia in atteggiamenti fortemente aggressivi verso i compagni e le stesse maestre, provocando talvolta danni fisici. Le analisi degli “esperti” portano tutte alle medesime conclusioni: i giovani non sono più in grado di reggere lo stress e sopportare l’insuccesso; i genitori sono diventati troppo protettivi e concedono tutto ai figli, difendendoli a oltranza anziché punirli quando necessario; la scuola da parte sua ha perso prestigio e autorevolezza, e così pure chi vi lavora….Tutte cose vere, per carità, ma ritengo che il problema stia più a monte e pertanto la soluzione vada cercata altrove, perché la violenza non nasce nei microcosmi della scuola o della famiglia, che ne sono semmai i terminali ultimi, ma è la filigrana vera e propria della società contemporanea. I giovani respirano quotidianamente violenza - spesso edulcorata sotto altri nomi - senza accorgersene, e poi la vomitano perché è un veleno che intossica l’anima. Vediamone alcuni esempi, che toccano anche il mondo della scuola. Violenza spacciata per libertà è l’ideologia gender che viene ormai diffusa a pioggia sulla scuola italiana dalle materne alle superiori, perché nega in modo arbitrario e irrazionale un dato di realtà incontrovertibile: l’essere umano nasce maschio o femmina e negarlo porta a drammi esistenziali inenarrabili. Violenza spacciata per conoscenza è la negazione di ogni verità assoluta, insegnata da tanti docenti ogni giorno a piccoli e grandi, e affermata a livello sociale come emancipazione da ogni dogma, sia perché è a sua volta una affermazione presentata in modo apodittico, sia perché l’uomo senza verità non può vivere e affonda nella melma del relativismo e del non-senso. Violenza spacciata per uguaglianza è l’orribile pretesa di femminilizzare nomi maschili e viceversa, per affermare una pretesa parità di genere fra uomo e donna, producendo in realtà – oltre a disgustose o ridicole distorsioni linguistiche - una esasperazione della contrapposizione fra maschio e femmina, anziché esaltare l’assoluta complementarietà nella diversità. Non mi piegherò mai a scrivere “Ministra”! Violenza spacciata per amore è la dissoluzione della famiglia, calpestata dai politici e dai governi che si susseguono e rovinata da una cultura edonista e godereccia, che priva i bambini dei genitori biologici facendoli vivere con figure di riferimento provvisorie, mutevoli e perlopiù inaffidabili, a causa di adulti che vanno dietro ai propri capricci e sono pronti a mandare all’aria il nucleo familiare di fronte alla prima difficoltà. Violenza spacciata per felicità è una legge che ha equiparato le unioni omosessuali alle famiglie composte dalla unione di un uomo e di una donna (l’unica realtà che possa definirsi famiglia), aprendo la strada alle adozioni da parte di coppie omosessuali e facendo in modo che i bambini possano crescere in contesti affettivi in cui è tragicamente assente l’elemento insostituibile della diversità e complementarietà dei sessi. Violenza spacciata per compassione è la possibilità di mettere fine alla propria esistenza o a quella di un’altra persona perché in condizioni ritenute non più adeguate a una vita di “qualità”, mentre questa ha un valore intangibile e su questo si fonda(va) la sicurezza del valore trascendente del proprio esserci. Violenza camuffata da accoglienza è il fragoroso stracciarsi le vesti del politically correct e del ministro di turno, che in nome di parole d'ordine usate per fini ideologici come inclusione e integrazione, hanno messo alla gogna un dirigente scolastico solo perché ha detto una cosa elementare, evidente a tutti e, in ogni caso, desunta dalla realtà, e cioè che nelle classi senza alunni stranieri si riesce a lavorare meglio. Qualsiasi alunno può verificare e confermare che la presenza di alunni con gravi difficoltà di comprensione linguistica rallenta il cammino di tutti. Potrei continuare a lungo, purtroppo. Ma preferisco fermarmi qui, penso che sia sufficiente a far comprendere quanta violenza sia intrecciata ormai nelle maglie della nostra società: quella peggiore, mascherata sotto altri nomi, di fronte a cui si abbassano le difese e, senza rendersene conto, la si assimila. La violenza esplicita, che ci propina continuamente la televisione, in confronto è roba da ridere...E allora, di cosa possiamo stupirci se i nostri ragazzi (o i loro genitori) si permettono di prendere a calci e pugni un docente? Forse, nella loro testa, anche questa è una forma di libertà e progresso…Quella speranza di cui ha scritto in modo così profondo padre Vincent Nagle, allora, non è necessaria solo negli USA. Anche qui, come in ogni parte del nostro pianeta, l'uomo ha bisogno non tanto di leggi migliori, non solo di sistemi di sicurezza adeguati, ma innanzitutto di una "speranza vissuta comprovata sulla nostra stessa pelle". Quella Speranza che la tradizione cristiana ci ha donato per secoli e che l'uomo moderno ha deciso improvvidamente di buttare alle ortiche.

VIOLENZA A SCUOLA. Fragili e pieni di rabbia: che differenza c'è tra noi e gli Usa? Nei primi 45 giorni del 2018 ci sono state sparatorie in 19 scuole Usa. Niente di paragonabile all’Italia. Ne siamo sicuri? Nessuno ci ha rimesso la vita, ma quanta rabbia, scrive Maurizio Vitali il 16 febbraio 2018 su "Il Sussidiario". Nei primi 45 giorni del 2018 ci sono state sparatorie in 19 scuole statunitensi. Un pazzesco far west con 22 morti. I dati sono dell'Everytown for Gun Safety. Negli ultimi cinque anni, le sparatorie a scuola sono state, incredibile, 273 (praticamente una alla settimana), con 121 morti e 318 feriti. Negli Usa, si dirà, c'è la pistola facile, ed è vero. Ma nell'elenco delle stragi compiute a scuola negli ultimi anni non mancano, per esempio, Regno Unito e Germania, e persino la Finlandia. Veniamo a noi. Nei primi 45 giorni del 2018, in Italia ci sono stati numerosi episodi di violento bullismo scolastico e para-scolastico e almeno 5 casi gravi di aggressioni contro i professori compiute da studenti o genitori. Il prof di educazione fisica di Avola è finito all'ospedale con le costole rotte dai pugni e calci dei genitori di un alunno rimproverato. La prof del casertano s'è presa una coltellata in faccia da un 17enne furibondo per una nota sul registro. Trenta giorni di prognosi al vicepreside di Foggia, per trauma cranico, rottura del setto nasale e lesioni all'addome provocate da un babbo indignato per il rimprovero ricevuto dal figlio. Una prof di prima media ha ricevuto un pugno in faccia da un suo alunno. Un'altra prof è stata presa d'assalto a colpi di chewing-gum nei capelli. Qualcuno dirà: d'accordo, brutte cose, ma niente a che vedere con l'America. Vero, se la mettiamo sul lato delle pistole in classe. Qui a scuola con la pistola in tasca – che si sappia – non ci si va. Ma se la mettiamo sul lato delle persone violente, adolescenti o paparini che siano, è possibile riconoscere nei ragazzi disagiati e violenti dei vuoti fragilissimi imbottiti di rabbia, in tutto o in parte ineducati a riconoscere il valore dell'autorevolezza. La prima risposta che viene in mente d'istinto è quella diciamo così disciplinare-repressiva: basta buonismi, perdiana, il reo va punito, che impari a comportarsi e che sia di monito anche agli altri. Regole e legalità vanno fatte rispettare. Ragazzi e soprattutto genitori. Chi pensa così, non ha tutti i torti. Però non basta. Non siamo neanche a metà strada. La scuola, come la famiglia, hanno il compito di educare, tirar su persone che imparino a stare da uomini nella realtà, non possono né proteggere dei vuoti a perdere né gettare la spugna. Stare nella realtà comporta anche imparare a vivere il limite, la sconfitta, il dolore, l'insuccesso, l'esistenza stessa dell'altro, come una condizione dell'umano e non come la prova del proprio fallimento e della propria nullità. Ci interrogano i vuoti pieni di rabbia che non sanno sentire il proprio io se non facendo violenza agli altri. Come ci interrogano i vuoti pieni di disperazione che si suicidano per un brutto voto. Il mito dell'autosufficienza e dell'autodeterminazione dell'individuo, che è il dogma (anche inconsapevole) del nostro tempo, ci può portare a simili tornanti pericolosi, oltre che alla mediocre, normale malinconia di un quotidiano opprimente mal sopportato. Dico di noi adulti. Occorre ridestare l'umano, cioè ultimamente il senso religioso. Perché l'uomo dipende, non ce n'è di balle. E i ragazzi, o li metti in riga con la paura del castigo (auguri!), o gli testimoni che è possibile l'esperienza della bellezza e della positività ultima della realtà. Qui nessuno ha la ricetta, figuriamoci. Tuttavia, se ci si mette su questa traiettoria, ci possono intessere dialoghi, collaborazioni e alleanze invece che palleggiarsi colpe e responsabilità. Prima fra tutte, l'alleanza tra insegnanti e genitori, orrendamente sfigurata nel tedio formalistico di assemblee di condominio fatte a scuola e poi da genitori sindacalisti dei figli. I quali genitori avrebbero da ricercare e riguadagnare una propria reale autorevolezza, nel senso di ciò che fa crescere, rispetto ai propri figli, e così aiutare a riconoscere l'autorevolezza altrui. Nel frattempo, meno pistole girano e meglio è per tutti. Di Luca Traini, ahimè, non ce n'è uno solo in circolazione.

Alunni violenti contro insegnanti. Cosa devono fare i genitori e la scuola e qual è il ruolo dei talent show? Scrive Maura Manca il 18 febbraio 2018 su "L'Espresso". La scuola sembra sotto assedio, presa di mira da parte di bambini, adolescenti e genitori. Non è il fenomeno del momento come molti credono, è solo il chiasso mediatico che rende visibile e alla portata di tutti un problema che, a noi clinici e psicologi che lavorano con le scuole e nelle scuole, è purtroppo chiaro ed evidente già da diverso tempo. Sulle motivazioni ne abbiamo disquisito a sufficienza, c’è un degrado educativo, troppi bambini sono orfani di valori, contenimento e regole, non c’è più un coordinamento genitoriale, un tira e molla, un sì e un no, un puoi e non puoi, un va bene e va male, che crea solo confusione e deriva nello sviluppo emotivo, cognitivo e comportamentale. Un disallineamento anche con l’istituzione scolastica che ha perso il suo valore pedagogico-formativo ed è diventata un centro di prima accoglienza e un pronto soccorso educativo. Purtroppo stanno per finire anche i cerotti e i rimedi rapidi e ci troveremo davanti ad un problema che non si vuole vedere perché troppo complesso da arginare in quanto richiede una vera e propria rivoluzione, della scuola e della famiglia.

Ci siamo mai interrogati sull’influenza delle “scuole” in tv dei talent show? Non ci dimentichiamo dell’influenza e della potenza mediatica di alcuni programmi televisivi di punta che sono visti e seguiti da milioni di bambini e adolescenti. Ovviamente non sono la causa, come Gomorra non è la “causa” delle baby gang, però possono essere un rinforzo negativo in un contesto già vulnerabile e favorente questo tipo di condotte. Troppe volte anche nelle “scuole televisive” si vedono ragazzi ribellarsi ai docenti, rispondere male, arrogarsi il diritto di “voler insegnare ai loro maestri”, di accusarli di non essere compresi e valorizzati, senza capire che se sono dietro quel banco, un motivo ci sarà e magari che andrebbero anche ringraziati per gli insegnamenti che gli vengono dati. Non significa subire a bocca chiusa, ma tollerare anche un dissenso, una rigidità nell’insegnamento, una durezza e non cercare sempre un sostituto materno, visto che in questa vita non ci regalerà niente nessuno e che dovremo fare i conti con giudizi, critiche e valutazioni, anche piuttosto dirette e dure.

Cosa si deve fare per arginare questa deriva? Come devono intervenire i genitori per bloccare questa aggressività e violenza dei propri figli nei confronti di maestri e professori? Il ruolo della famiglia è primario e se non partiamo da loro, non potremo mai essere efficaci con i ragazzi. Se vogliamo curare le patologie dei figli dobbiamo prima curare prima i genitori, è una delle frasi che ripeto più spesso. Alcuni consigli da seguire:

1. UN PADRE, UNA MADRE, NONNI COMPRESI, visto il ruolo educativo che oggi rivestono per i nipoti-figli, SMINUIRE, CRITICARE, DERIDERE LA FIGURA DEL MAESTRO O DEL PROFESSORE DAVANTI AL FIGLIO. Non si può mettere in discussione tutto ciò che un insegnante dice o fa, sia da un punto di vista personale che professionale. Se ci sono dei problemi con uno o più docenti, si deve ascoltare il figlio perché ha diritto e bisogno di sapere che in casa ha uno spazio di ascolto e comprensione e contestualizzare il problema, analizzare l’accaduto filtrando anche il racconto di un figlio da emozioni e frustrazioni e ragionare sulle possibili strategie, senza prendere senza ragionare e riflettere l’armatura e lo scudo del “come ti dei permesso” e andare in preda agli impulsi ad attaccare la scuola e l’insegnante. Si deve chiedere un incontro per confrontarsi con i professori, cercando di risolvere il problema attraverso una mediazione. In questi anni di lavoro nelle scuole ho assistito anche a condizioni in cui obiettivamente maestri o professori era meglio venissero allontanati dall’insegnamento, casi in cui, si può intervenire con gli specialisti qualora la scuola non tuteli il minore e prenda i dovuti provvedimenti. La maggior parte delle volte, però, devo dire che si trattava di genitori che pretendevano di controllare anche i contenuti e le modalità di insegnamento di maestri e professori, creando più danni che altro.

2. IL LIVELLO DI TOLLERANZA DEL BAMBINO E DELL’ADOLESCENTE DIPENDE PRETTAMENTE DA COME È STATO EDUCATO IN FAMIGLIA. Se viene educato come un piccolo principe con tanti diritti e pochi doveri a cui non si può dire un NO per evitare tragedie successive, o non si può imporre un limite ed una regola, è implicito che vivrà i paletti, che giustamente si devono ancora mettere nella scuola basati sul rispetto dei compagni, del docente, del silenzio, delle regole di convivenza comune, come una condizione stressante o addirittura come un abuso.

3. IL MODELLO EDUCATIVO CHE SI DEVE TRASMETTERE NON PUÒ ESSERE QUELLO BASATO SULLA GESTIONE DEL CONFLITTO ATTRAVERSO LA FORZA, LO SCONTRO E L’INTOLLERANZA. Si dovrebbe far capire ai figli che non tutto può andare sempre come ci piace o come vorremmo, non tutte le persone che incontreremo davanti a noi si comporteranno come ci aspettiamo e questo non significa che non vadano bene, ma che sono altro con cui a volte, non sarebbe sbagliato imparare a convivere. Questa è la base su cui lavorare se vogliamo educare adulti sufficientemente equilibrati in grado di integrarsi nei vari ambienti che frequenteranno.

4. NON CREDO ABBIA SENSO CAMBIARE SCUOLA CON ESTREMA FACILITÀ IN TERMINI DI INSEGNAMENTO PEDAGOGICO perché significa non voler vedere il proprio coinvolgimento nel problema e non voler mai assumersi una responsabilità. A volte è faticoso intervenire per risolvere un problema, ci vuole tempo e sembra che oggi siano rari i genitori che abbiano voglia di “perdere tempo dietro ai figli”. Ci si arroga troppo spesso la libertà di non riconoscere e quindi rispettare le figure educative che ruotano introno al figlio. Si dà la colpa sempre a terzi e con estrema facilità, colpa del professore, dell’allenatore, sembra di vivere in un mondo di mostri e che questi bambini siano compresi solo a casa, sotto le ali iperprotettive di mamme, papà e nonni che li lasciano soli in balia dei veri pericoli della rete ad un metro di distanza da loro. Il paradosso educativo di oggi.

5. UN ALTRO ASPETTO FONDAMENTALE, ASSOLUTAMENTE DA NON SOTTOVALUTARE, È LEGATO AL COME VENGONO ABITUATI A RELAZIONARSI IN CASA CON I GENITORI. Se vengono cresciuti con l’abitudine di rispondere male, in maniera arrogante, con le pretese, a non rispettare le decisioni prese perché l’adulto in primis, dice una cosa poi ne fa un’altra, a non riconoscere l’autorevolezza di un ruolo o a mettere in discussione tutto ciò che viene detto, impareranno quella modalità di interazione come corretta. Quanti bambini e adolescenti sono strafottenti in classe con i professori e con i compagni, sono arroganti ed irrispettosi perché lo sono in primis a casa con i familiari? Non quindi maleducati ma mal-educati.

E la scuola cosa dovrebbe fare? L’obiettivo comune dovrebbe diventare quello di terminare questa inutile guerra tra scuola e famiglia perché ci rimettono solo ed esclusivamente i bambini e i ragazzi e ricreare una alleanza, rispettando pienamente il patto educativo di corresponsabilità. La scuola dovrebbe arginare queste ondate quotidiane di genitori che invadono le scuole italiane riempiendole di critiche e di insulti. Si dovrebbero mettere paletti anche ai genitori e tollerare di meno questi attacchi diretti per riprendere un ruolo ormai messo troppo spesso in discussione. Questo però si può fare se si monitora in maniera più approfondita l’operato delle risorse interne affinché non siano attaccabili e criticabili, che si vada ad abbattere l’omertà tra insegnanti quando ci sono le mele marce, tale da segnalare le problematiche e risolverle per il bene degli allievi, senza aver paura che possa cambiare la nomea della scuola e che possano calare le iscrizioni. Non basta una laurea per diventare Insegnanti con la I maiuscola, servono competenze personali e professionali certificate e valutazioni sistematiche fatte da personale competenze e non da tuttologi. L’insegnamento è un lavoro soggetto a burnout e il tasso di stress lavoro correlato è alto per via della numerosità delle classi e del tasso di diagnosi, certificati e di bisogni particolari di ogni bambino o adolescente in classe. Un’unica persona non può sopperire a tutte le esigenze. Però, i genitori andrebbero lasciati fuori dalla ruotine scolastica per inserirli maggiormente negli organi istituzionali in modo tale da dare spazio anche al loro punto di vista e riconoscere la loro posizione in quanto portavoce anche degli altri genitori.

In conclusione. Stiamo affrontando una crisi educativa profonda che sta mandando alla deriva genitori e figli e una scuola che non ha i mezzi e risorse per sopravvivere a tutto questo decadimento. Ognuno deve riprendere il proprio ruolo, come quando salpa una nave, “ognuno ai propri posti”, con un unico obiettivo, altrimenti succede il caos a bordo e si rischia di non raggiungere mai la meta o di affondare. È una questione di DISTANZA, genitori e insegnanti sono o troppo vicini o troppo distanti dai figli-alunni, troppo amici, troppo alla pari, alcuni docenti aprono addirittura le porte delle loro case, della loro intimità, chattano e condividono la propria vita sui social con gli allievi, oppure sono troppo distanti dai problemi e dal punto di vista dell’infanzia e dell’adolescenza. Comunque, se non si investe su figure professionali competenti e specializzate che siano veramente di aiuto a famiglie e istituzione scolastica, prevedo che questa escalation di violenza non si riesca più a fermare.

“Picchiate i professori! Così imparano!”. Non sono casi isolati, c’è un piano organizzato! Scrive Jacopo Fo il 15 febbraio 2018. Jacopo Fo. Scrittore, teatrante, regista, disegnatore, è Direttore creativo di People For Planet. Sono fatti casuali? Scollegati? Schegge impazzite? Oppure qualcuno sta lavorando alacremente per scatenare la violenza a scuola? Io sono per la tesi del complotto: ministri, presidi e sindacati degli insegnanti hanno complottato per anni per mantenere la scuola il più possibile lontana dagli studenti e per distruggere il rispetto verso i docenti e l’istituzione. La possibilità di consultare il Web e trovare facilmente buona parte dello scibile umano ha distrutto l’aurea di sacralità della scuola. E al tempo degli smartphone è facile accorgersi che un professore è un asino. Certo, la maggioranza degli insegnanti sono brave persone, che si impegnano veramente per uno stipendio misero. Ma non si può far finta che non esista il problema rappresentato da migliaia di insegnanti indegni, inamovibili anche se il loro titolo di studio lo hanno rubato. Nella storia scolastica delle mie due figlie ho incontrato 4 insegnanti veramente straordinari ma anche veri cialtroni: il prof alcolizzato, l’insegnante cocainomane che iniziava le frasi a metà… e non si capiva niente. Quando la mia bimba è andata a protestare dalla preside perché l’insegnante di inglese non sapeva assolutamente l’inglese la preside le ha risposto: “Porta pazienza… Non posso mica licenziarlo!” E che dire dell’insegnante pedofilo che non si è riusciti a cacciare neanche con la mobilitazione dei genitori? Mancavano le prove… Non c’era una vera e propria violenza, solo atteggiamenti sgradevoli… Mica puoi incriminare uno per come guarda le ragazzine…Io credo che dovrebbero essere gli insegnanti i primi a combattere all’ultimo sangue, con tutti i mezzi, contro questi ladri di stipendio. Invece la reazione più comune è quella di difenderli. E poi bisognerebbe esporre al pubblico ludibrio quei sapientoni che scrivono i programmi scolastici. La loro legge è: tutto quello che è interessante e fondamentale per la crescita degli studenti NON può assolutamente essere insegnato a scuola! Niente sesso perché è peccato. Che importa se dietro la violenza dei giovani c’è sempre la tensione psicologica e ormonale, determinata dallo sviluppo, ingigantita dalla totale ignoranza sulla sessualità e sulla vita emotiva. La cosa più stupida che ho visto è stato un seminario sul bullismo durante il quale gli oratori erano vivamente invitati a non parlare di sesso agli studenti: logico no? Che rapporto c’è tra bullismo e ossessione sessuale? Nessuno!!! E mi raccomando mai un’informazione neanche sulla salute, su come si devono assumere gli antibiotici, sulla necessità di non esagerare con gli accertamenti clinici e i farmaci, sulle pratiche elementari di pronto soccorso…E perché mai a scuola si dovrebbe imparare come funziona una truffa bancaria, una busta paga, un contratto di lavoro o la ratealizzazione truffaldina per l’acquisto di un telefono? Bravi scemi! Ai vertici del sistema educativo non è ancora arrivata l’idea che solo la passione può fare evolvere positivamente i giovani e che solo se si parte da questioni concrete, vere, si può risvegliare l’interesse e la partecipazione. E non è giunta neppure l’idea avveniristica che per fare i professori sia necessario non solo sapere ma anche saper raccontare. Non esistono neppure lezioni per parlare in pubblico, sceneggiare una lezione, usare correttamente la voce. Non esiste un blog del Ministero che raccolga i canovacci delle migliori lezioni di storia, italiano, matematica proposti dai professori e magari anche da attori, registi, cantanti… Non esiste nessun tirocinio per affrontare casi di grave disagio, gestire situazioni di emergenza, lavorare sull’empatia. Non sono cose che basta imparare teoricamente. E come è possibile che si paghino così poco gli insegnanti? I nostri figli sono il tesoro più grande e li affidiamo a persone troppo spesso impreparate e sempre mal pagate? E poi ci si stupisce che i professori debbano andare a scuola col martello per difendersi? E si scrivono fiumi di astruse teorizzazioni sulla crisi dei giovani e l’alienazione moderna! Ma dite le cose come stanno: la scuola è noiosa, antiquata e autoritaria, i programmi sono fuori dalla realtà: veleggiano nell’Empireo della cultura classica, a eoni di distanza dalla vita dei giovani. In questa situazione alcuni ragazzini con gravi disturbi della personalità, che nessuno ha capito e cercato di arginare hanno sclerato completamente e hanno picchiato o accoltellato i professori. È orribile ma è così. E se non si cambiano le cose potete ben vedere negli Usa come si va a finire: massacri nelle scuole con i fucili di assalto. Forse è ora di parlare ai giovani di senso della vita, di amore, passione e sesso.

Ps: Non è la prima volta che affronto questo tema. E ogni volta che ne parlo ricevo decine di commenti di insegnanti che protestano accusandomi di sostenere che tutti gli insegnanti sono impreparati. Chi vorrà leggere onestamente quel che ho scritto può ben vedere che non dico questo. Chi non lo capisce dimostra di essere impreparato. A posto, 4!

Gavirate: maltrattamenti in un asilo nido, scrive il 19 aprile 2018 Giovanni Casareto su "Notizie.it". I carabinieri hanno accertato ben 46 casi di maltrattamento su bambini tra i 6 mesi e i 6 anni di età. La scoperta che hanno fatti i carabinieri presso un asilo nido privato di Gavirate è terribile. Nella struttura, i bambini accolti, di un’età compresa tra i 6 mesi e i 6 anni, venivano costretti a subire gravi violenze. Tra i 46 casi accertati dai militari spintoni, violenze psicologiche e anche lancio di ciabatte contro i poveri bimbi. La titolare dell’asilo nido di Gavirate è finita ai domiciliari. Le indagini erano partite all’inizio dell’anno, in seguito alla denuncia da parte di alcuni genitori, insospettito dallo strano comportamento dei figli. Gravissimo cosa di maltrattamenti sui minori a Gavirate, in zona Varese. Un asilo nido privato, chiamato Imparare è un gioco, è stato chiuso in seguito a quanto i carabinieri hanno accertato. La struttura era un vero e proprio incubo per i poveri bambini, tutti aventi un’età compresa tra i 6 mesi ed i 6 anni. Per tutta la durata del tempo trascorso nell’asilo nido, le piccole e povere vittime erano costrette a subire violenze di ogni tipo. La titolare, italiana, era l’unica educatrice della sua struttura. I carabinieri sono riusciti a documentare ben 46 episodi di inaudita ed illogica violenza. In particolare, è stato riscontrato che la titolare arrivava anche a lanciare ciabatte contro i poveri piccoli. Tutti i giorni, la donna si lasciava andare a spintoni e violenze psicologiche di vario tipo sulle sfortunate vittime. Nella giornata di mercoledì 18 aprile, i carabinieri, giunti in possesso di prove più che sufficienti, hanno effettuato un blitz nell’asilo Imparare è un gioco. L’educatrice è finita ai domiciliari. I militari stavano analizzando la situazione dall’inizio del 2018. Hanno deciso di indagare sull’asilo nido in seguito alla denuncia di alcuni genitori. Questi si erano seriamente insospettiti e preoccupati dopo aver notato uno strano comportamento da parte dei propri figli. Purtroppo, casi come questo non sono proprio una rarità in questo periodo. Soltanto il 9 aprile scorso, una maestra di asilo di 45 anni è stata messa in manette dai carabinieri di Desio. La donna, che lavorava presso una struttura di Varedo nella zona di Monza, aggrediva fisicamente e verbalmente i suoi alunni. Si trattava di bambini con un’età compresa tra i 4 e i 6 anni. I militari hanno agito in seguito ad un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. Questa è stata emessa dal gip di Monza, per maltrattamenti su minorenni. Da tempo erano iniziate le indagini su questo caso, partite in seguito alla denuncia di alcuni genitori dei bimbi coinvolti. Molto utili sono state le intercettazioni, che hanno permesso ai carabinieri di Desio di riscontrare la condotta violenta della maestra d’asilo. Queste violenze consistevano in strattonamenti e schiaffi, ed erano anche “verbalmente aggressive, prevaricatrici e capaci di determinare nei bambini una condizione di timore, sottomissione e continua costrizione”. Un vero e proprio incubo per i poveri bambini. Adesso però siamo quasi alla fine. Quasi perché le povere vittime necessitano di sostegno per poter superare quello che è stato un grosso trauma per loro, il cui ricordo, con ogni probabilità, li accompagnerà per tutta la vita.

«Violenza psicologica sui nostri figli». Gruppo di famiglie accusa un insegnante di una scuola elementare: «Lo fa da 10 anni». Lei replica: «Sono tutte falsità», scrive Vera Mantengoli il 19 agosto 2014 su "Nuova Venezia". Uno sfogo trattenuto per dieci anni contro una “cattiva” maestra di una scuola elementare veneziana è arrivato ieri via lettera alle redazioni di giornali e televisioni, firmato da sei famiglie che si dicono esasperate «dalla violenza psicologica» esercitata sui loro figli. Un fiume di parole che elenca una serie di angherie che la docente avrebbe inflitto ai bambini che, dopo molti anni, sono ancora traumatizzati al solo ricordo dell’insegnante. La maestra cade dalle nuvole, rispondendo subito che si è rivolta a un avvocato per tutelarsi da chi le sta gettando addosso queste accuse: «Non mi risulta nulla di tutto quello che scrivono», ha detto, «e sono sempre disponibile con tutti. Sono circondata da bambini, tanto che quelli che oggi frequentano le medie mi chiamano ancora, chiedendomi di partecipare alle attività che propongo». Il dirigente scolastico, arrivato un anno fa, dice di non aver ricevuto mai nessuna segnalazione. Le famiglie scrivono: «Buona parte di responsabilità è anche dei dirigenti che, nonostante fossero al corrente del modo di comportarsi disumano di questa maestra, non hanno mai preso provvedimenti per tutelare i minori». L’unico neo della vicenda è che le famiglie hanno inviato la denuncia via posta cartacea e firmato con sei cognomi diffusissimi in tutta Venezia che rendono difficile arrivare alla fonte diretta. «Come dirigente chiedo ai genitori di contattarmi subito», ha detto il preside, «in modo da parlare con loro. Per adesso posso dire che non ho mai avuto problemi con questa docente». Lo stesso ha detto la maestra: «Io quando dichiaro qualcosa metto la mia faccia, con nome e cognome. Se loro non lo hanno fatto potrebbero anche essere genitori di altri classi dato che a me non risulta che siano stati spostati dei bambini». Nella lettera si legge infatti che i genitori hanno deciso di togliere i piccoli dalla scuola in questione, ma per ora non risultano trasferimenti. Un brutto scherzo? La lettera descrive una maestra che ridicolizza i bambini e li umilia, per esempio non facendoli andare in bagno «con la conseguenza sovente che questi fanciulli rientrano a casa sporchi dei loro bisogni e presi in giro dai compagni perché puzzano». Non solo. Sembra che se non dimostrano di avere 38º di febbre sia vietato loro andare a casa, anche se vomitano e hanno diarrea. «Soltanto una volta una nonna si è lamentata che suo figlio non era stato mandato a casa», ha detto il preside, «ma poi tutto era rientrato». «Non è mai successo niente di simile», taglia corto la maestra, «una volta soltanto un bambino voleva andare a casa, ma siccome mancavano 10 minuti alla campanella è rimasto in classe e non era nemmeno nelle mie ore».

Chi sono le maestre violente, come si comportano e quali sono i danni che generano? E’ giusto mettere le telecamere nelle scuole? Scrive su "adolescienza.it" il 30 aprile 2017 Maura Manca. Maestre violente, che dovrebbero educare, cioè tirare fuori dai bambini risorse e potenzialità. Maestre che trascorrono tanto tempo con loro, un tempo che per tanti bambini non è gioco, condivisione, sorriso ed espressione delle proprie risorse interne, ma diventa paura di sbagliare, di parlare, di fare la cosa sbagliata, di essere sgridati, puniti, presi a urla, insultati, derisi, denigrati e addirittura, in svariati casi, picchiati. Ci sono bambini che subiscono urla, scatti d’ira, strattonate, sguardi cattivi e di rabbia, che vengono sgridati anche senza motivo, perché semplicemente fanno i bambini e anche purtroppo picchiati. Ho visto genitori disperati e ragazzi che venivano puniti nei modi più impensabili, umiliati davanti a tutti, messi in mezzo, a volte anche alla gogna, presi in giro dai docenti anche per un disturbo o per una qualche disabilità o problema di apprendimento. Ho seguito ragazzi presi di mira, vittime della violenza da parte del corpo docente, perseguitati. Ho visto tanti adolescenti che avevano subito violenza da bambini e che oggi si portano ancora i segni addosso. Tutto questo senza che i genitori possano minimamente immaginare che hanno affidato i loro piccoli a delle persone disturbate che scaricano le loro problematiche e frustrazioni sui più deboli, incapaci di difendersi, approfittando del loro ruolo, spalleggiate da troppa omertà. Nel nostro Paese sono veramente troppi gli “educatori” che non hanno le competenze psichiche e la formazione adeguata per fare un lavoro così delicato che richiede dedizione e tolleranza allo stress.

Un problema sottostimato: perché? La violenza subita dai bambini e dagli adolescenti all’interno delle mura scolastiche è indubbiamente sottostimata per due motivi: quando sono molto piccoli NON hanno ancora sviluppato le competenze linguistiche per riferire ciò che accade durante lo svolgimento delle attività scolastiche e quando sono più grandi, tendono a non parlare direttamente o lo fanno in maniera superficiale con il rischio che il genitore non capisca la reale gravità della situazione. Tante volte, infatti, i bambini subiscono in silenzio le angherie delle maestre e si portano dentro un calvario che dura anche anni, di cui i genitori sono spesso all’oscuro. Bisogna fare molta attenzione perché sono anche molto frequenti questi casi di violenza da parte del corpo docente anche alle scuole primarie e secondarie. Anche se si tratta di ragazzi più grandi e in teoria in grado di difendersi, non si devono sottovalutare i danni che creano da punto di vista emotivo e psicologico.

I dati della violenza da parte del corpo docente in Italia. Nell’anno scolastico 2016/17 l’Osservatorio Nazionale Adolescenza ha svolto un’indagine su un campione nazionale di 8.000 adolescenti dai 14 ai 19 anni, e il 20% di questi ragazzi, ossia 2 su 10, dichiarano di essere stati trattati male, denigrati o insultati da una maestra o da un professore nel corso della loro carriera scolastica. Parliamo anche di violenze fisiche, il 7%, infatti, è stato strattonato o picchiato da una maestra o da un professore e il 10% addirittura è stato costretto a dover cambiare scuola per colpa di questi comportamenti violenti. I danni del subire violenza psicologica o fisica da parte delle maestre o dei professori. Sono violenze che segnano la psiche e lo sviluppo di questi poveri bambini, sia a breve che a lungo termine, lasciando anche dei segni indelebili da un punto di vista psicologico a lungo termine. Si può arrivare a sviluppare una perdita di fiducia negli altri, una paura di lasciarsi andare, di esprimersi in pubblico e del giudizio degli altri. Si può manifestare una remissività da un punto di vista caratteriale che spesso può portare a subire anche altri tipi di prevaricazioni, anche da parte dei compagni. Se i bambini presi di mira sono invece oppositivi e provocatori, spesso accumulano tanta rabbia e frustrazione che la possono scaricare in casa con i genitori o con eventuali fratelli o sorelle, fino anche ad arrivare a farsi del male da soli quando vengono puntiti o sgridati. Questo tipo di aggressioni vanno ad intaccare profondamente l’autostima di questi bambini che svilupperanno una sensibilità maggiore alle critiche e alle reazioni violente. Tante volte perdono la fiducia nel corpo docente, si inibiscono e si chiudono per paura di essere ripresi davanti alla classe, sgridati e aggrediti. Ho seguito svariati adolescenti vittime di violenza da parte delle maestre quando erano piccoli e tanti di loro hanno sviluppato una profonda inibizione in classe, paura di esprimersi, di andare alle interrogazioni per timore di fare qualcosa di sbagliato perché purtroppo l’imprinting rimane e il corpo e la mente ricordano. Secondo un’indagine svolta sempre dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza, i ragazzi che hanno subito nel corso della loro vita aggressioni e violenze sono anche quelli che dichiarano di essere stati in cura da uno psicologo o di aver ricorso a farmaci per contenere vissuti ansiosi ed emotivi in maniera significativa rispetto a coloro che non hanno subito questo tipo di violenze. Essere presi di mira da coloro che dovrebbero educarti, stimolarti, sostenerti ed insegnarti destabilizza profondamente. Ho visto ragazzi quasi convincersi di ciò che gli veniva detto dagli insegnanti, che arrivavano a pensare di essere loro il problema, che sono arrivati a odiare la scuola e somatizzare ogni forma di violenza subita. Ancora oggi tanti adulti si portano dentro i danni di un’educazione e di una formazione scolastica sbagliata, che pagano troppo caro il prezzo della follia del corpo docente.

Cosa fare quando i figli raccontano a casa ciò che subiscono a scuola? I bambini non sempre parlano immediatamente di ciò che gli accade a scuola, hanno paura. Però usano un canale comunicativo non verbale, utilizzano il linguaggio del corpo, per esempio attraverso tutta una serie di sintomi psicosomatici come per esempio il mal di pancia, il mal di testa, il dormire male o fare “brutti sogni”. Cambiano le loro abitudini, anche minime, si ammalano più spesso o rifiutano la scuola. Si deve fare sempre molta attenzione soprattutto ai disegni e al gioco perché sono due canali espressivi che soprattutto i bambini più piccoli usano per comunicare il disagio che hanno interiormente. Quando sono più grandi e raccontano ciò che gli viene detto o fatto da un professore, non si deve mai sottovalutare ciò che dicono, non si deve fare l’errore di pensare che visto che sono grandi non vengano toccati nel profondo anche loro. A volte subiscono, altre tornano a casa arrabbiati ed imbestialiti per le ingiustizie subite. Non dategli contro, non date sempre ragione ai professori solo perché sono i professori. Non ditegli che devono stare zitti e che i docenti hanno sempre il coltello dalla parte del manico perché i soprusi da parte da chi è pagato per educare ed insegnare non possono essere minimante tollerati. I figli vanno ascoltati e va capito cosa sta succedendo e poi intervenire per risolvere il problema. Quando il figlio racconta di una violenza o di un sopruso a scuola, bisogna innanzitutto rassicurarlo e dargli la certezza che il problema verrà risolto nel più breve tempo possibile, che non gli accadrà niente e se servirà gli si cambierà scuola e andrà in un altro istituto dove le maestre sono buone perché non sono tutte così. Il figlio va messo in una condizione di sicurezza tale da non perdere la fiducia in se stesso e nel mondo che lo circonda, e che sappia che sul genitore può contare. Nello stesso momento non è tutto colpa delle maestre o dei professori, i figli non hanno sempre ragione e bisogna sempre capire parlando con loro cosa realmente accade dentro le mura scolastiche. Non ci si deve allarmare per tutto e che non si deve mai e poi mai agire di impulso perché se il figlio sviluppa la paura delle reazioni eccessive di un genitore, non parlerà più di ciò che gli accade. Non ci si deve preoccupare solo dei voti e del rendimento scolastico ma di come un figlio vive la scuola perché i problemi in classe lasciano dei segni indelebili da un punto di vista psicologico.

È giusto mettere le telecamere dentro le scuole? Inserire le telecamere a scuola rappresenta il fallimento dell’istituzione scolastica che ha al suo interno personale che diseduca nascosto dietro il ruolo di educatore. Si assiste quindi ad un fallimento da un punto di vista formativo, valutativo ed etico della scuola italiana. Se si arriva a dover monitorare il lavoro di chi si prende cura dei minori significa che si sta mettendo dentro le scuole personale disturbato da un punto di vista mentale, violento e pericoloso visti gli esiti psicopatologici e i danni emotivi e psichici che genera una scarsa qualità di vita vissuta all’interno delle mura scolastiche. Fatta questa premessa è indubbio che ci troviamo davanti ad un problema emergenziale che è ora di risolvere in via preventiva e non curativa come sempre si tende troppo spesso a fare. La prevenzione deve essere primaria, cioè deve avvenire prima che si verifichi il problema, soprattutto quando si tratta di minori che verranno condizionati da un punto di vista psichico. Continuo a sostenere che le telecamere sono indubbiamente un buon deterrente che può indurre una diminuzione dell’aggressività e violenza utilizzata come metodo “educativo”, però non sono la risoluzione al problema. Forse potrebbe aiutare la videocamera nei luoghi in cui ci sono i più piccoli, che non sono ancora in grado di parlare o comunque di essere efficaci nelle loro comunicazioni potrebbe aiutare. Insegnare ed educare ai bambini e agli adolescenti è un mestiere indubbiamente difficile, il rapporto non è uno a uno, ma uno ad un gruppo classe per cui si devono tenere in considerazione le variabili individuali e gruppali. Tante volte ci sono situazioni difficili, i bambini non sono tutti uguali, alcuni hanno anche dei problemi di apprendimento, emotivo o comportamentale e tanti sono privi di educazione di base e di regole. Il fatto che sia un lavoro molto impegnativo, però, non giustifica mai e poi mai nessun tipo di condotta violenta e di abuso nei confronti di un minore. Se sono sottopagati, se lavorano troppo, se devono gestire bambini mal-educati, la colpa non è dei minori, lo hanno scelto loro di fare quel mestiere e quindi devono tutelare, educare e rispettare quelle povere creature e quei ragazzi. Per questo nella formazione del personale, si deve curare l’aspetto formativo, si devono preparare da un punto di vista emotivo e psicologico e, nel momento che il lavoro dell’insegante è un lavoro con un importante rischio di burn out, ossia di specifiche forme di stress legate al proprio lavoro, bisognerebbe creare degli spazi di sostegno all’interno delle scuole anche per le maestre e i professori, non solo per gli studenti.

Più qualità e valutazioni sistematiche sul corpo docente. Si devono quindi fare delle selezioni accurate sul personale che andrà a lavorare con i bambini, effettuato da persone competenti, non solo per valutare gli aspetti formativi ma soprattutto quelli psicologici, andando a valutare l’integrità psichica, la struttura di personalità, la motivazione e le attitudini sociali e relazionali. Tra i vari criteri di selezione bisogna valutare gli aspetti motivazionali e la competenza umana ed etica. Purtroppo, nel nostro Paese, si dà troppa importanza agli aspetti formativi e non al resto ed ecco i risultati. Deve essere istituita una formazione specifica per il personale di ogni ordine e grado, soprattutto per quello dell’infanzia, non basta un diploma e non basta solo una aurea fine a se stessa. Ma la cosa più importante e fondamentale, è che ci sia un controllo più frequente e he le valutazioni vengano effettuate ciclicamente, non un’unica volta nella fase iniziale, perché le condizioni di vita di ciascuno di noi cambiano, per esempio le persone possono aver subito perdite, separazioni, particolari stress, traumi emotivi e quindi destabilizzarsi e non essere più affidabili. Quindi, anche coloro che prima risultavano idonei all’insegnamento, potrebbero non esserlo più. Maura Manca Presidente Osservatorio Nazionale Adolescenza

Violenza fisica e verbale dei prof a scuola, i racconti choc degli studenti, scrive Martedì 9 Dicembre 2014 Leggo. Ben 1 studente su 4 racconta di prof che alzano le mani, il 56% sostiene di essere stato umiliato davanti a tutta la classe. Tra le storie dei ragazzi non mancano esempi di insulti razzisti, su problemi fisici o sulle condizioni familiari. Quando si è vittime di bullismo, andare a scuola può diventare un incubo. Si viene presi di mira per l'aspetto o addirittura per una disabilità. A volte per la razza o la provenienza. Altre volte per l'orientamento sessuale o, le ragazze, per la loro presunta "facilità" a concedersi. Tutto questo, poi, trova il suo culmine in episodi di vera e propria violenza fisica. E cosa succede se a macchiarsi di questi comportamenti non è un gruppo di studenti, ma il prof? Secondo una ricerca di Skuola.net su ben 7.500 studenti, non sono casi rari: il 56% confessa di essere stato brutalmente insultato o umiliato davanti a tutta la classe da un professore. Uno su 4 denuncia invece casi di violenza, di cui è stato vittima lui stesso o un compagno. Abbiamo raccolto le storie di questi ragazzi e ne abbiamo riportate alcune davvero agghiaccianti.

LA VIOLENZA DEI PROF - Ben 1 ragazzo su 4 ricorda un prof che abbia alzato le mani in classe. Di questi, il 9% circa sostiene che l'episodio lo ha riguardato personalmente, mentre il 14% ha visto picchiare qualcun altro dei suoi compagni. Di che tipo di violenze si tratta? Skuola.net lo ha chiesto direttamente ai ragazzi. Tra i loro racconti, sono state selezionate e riportate le storie più significative: schiaffi, quaderni tirati sul viso, teste sbattute sulla lavagna o addirittura le mani schiacciate nella fessura tra un banco e un altro.

VIOLENZA PSICOLOGICA - Secondo la ricerca di Skuola.net, nella maggioranza dei casi i prof non si limitano ai rimproveri. Il 56% degli intervistati infatti si è sentito almeno una volta insultare pesantemente ed umiliare davanti a tutta la classe. Quando Skuola.net ha chiesto loro di scrivere la propria esperienza, in molti hanno risposto all'appello. Sono emersi casi di insulti razzisti, di umiliazioni su difetti come la dislessia o la balbuzie. Non mancano le derisioni pubbliche di ragazzi in forte sovrappeso, di quelli considerati "brutti" o di coloro ritenuti poco attraenti sessualmente. A volte si prendono in causa le condizioni familiari difficili. Altre volte si ricorre a pesanti giudizi sulle capacità intellettive del ragazzo o sulla presunta disponibilità "sessuale" della ragazza. E per finire, volano poi le parolacce vere e proprie.

VIOLENZA FISICA - Dai racconti degli studenti riguardo ai casi di violenza fisica dei professori raccolti da Skuola.net, emerge che questi fatti riguardano soprattutto scuole medie e superiori. Ma purtroppo non sono rari anche episodi di violenza alle scuole elementari.

"Il prof ha messo il mio compagno sopra al balcone della finestra seduto sulla sedia minacciandolo di buttarlo giù".

"Un mio compagno delle elementari aveva preso una nota, e si era messo a piangere. La maestra per farlo smettere gli ha dato uno schiaffo, e subito dopo gli ha proposto che se non avesse detto niente ai suoi genitori dello schiaffo, avrebbe cancellato la nota. Che schifo...veramente".

"La mia compagna era stata interrogata in Tecnologia, quando la professoressa la chiama 'ciuccia' e gli tira uno schiaffo. Perché non sapeva una cosa."

"Un prof non sapendo gestire una ragazza che voleva altre informazioni sulla lezione, le ha tolto la sedia e tenendola per un braccio l'ha spinta verso il termosifone e per poco non ha sbattuto la testa."

"Un mio vecchio prof delle medie che ha preso a schiaffi ripetutamente un alunno che lo canzonava, creando una vera e propria rissa tra lui e il ragazzo, conclusasi dalla dirigente che ovviamente non ha minimamente reagito per non fomentare ulteriori lamentele all'interno della scuola."

"Sono stato picchiato dal mio prof di storia e umiliato (a parole) è successo solo una volta a, ma è stato bruttissimo." "Avevo suggerito una risposta durate il compito in classe quando improvvisamente la prof di inglese mi molla uno schiaffo in pieno volto".

"Parlo inglese molto bene, sono stata più volte in Inghilterra e amo le lingue in generale, durante la lezione di chimica in inglese ho una discussione col professore su una frase grammaticalmente terrificante, e lui, colto in fallo, si sente "preso in giro" perché l'ho corretto, e mi tira uno schiaffo in pieno viso...Ho dimenticato di dirvi che sono una ragazza? Comunque tutta la mia classe chiude un occhio sull'accaduto, ed io per paura di eventuali ripercussioni non lo denuncio alla presidenza. Giustizia? Ah, giusto, siamo in Italia."

"Un professore mentre stavo alla lavagna con una mia compagnia ci ha sbattuto la testa contro la lavagna perché non eravamo riuscite a fare un problema, mentre ad altri dava delle sberle."

"Una mia amica stava giocando con il filo del correttore a striscia ormai finito, la mia professoressa ha afferrato il filo e gliel'ha avvolto al collo lasciando degli evidenti segni viola. La professoressa ha in seguito negato tutto, trasferita in un'altra scuola ha picchiato un altro ragazzo mandandolo in ospedale per una ferita alla testa."

"Una professoressa di Italiano impediva a noi alunni di andare in bagno durante le lezioni, mi ricordo di una ragazza con dei problemi che fu costretta a rimanere in classe, che si fece la pipì addosso (poverina...) e la professoressa le diede due schiaffi. Successe più volte, si metteva in piedi sulla cattedra e urlava, e tirava schiaffi a coloro che parlavano o disturbavano...o quelli che non capivano le lezioni e chiedevano spiegazioni. La professoressa fu spostata dalla classe ad insegnare, alla mensa a servire, e qui ci furono problemi simili. Ora è stata spostata in un'altra scuola. Perché lo Stato, pur conoscendo queste situazioni, non licenzia queste persone? (Il medico della professoressa specificò che avesse dei problemi di salute mentale)."

"Ero in prima media… quando il prof di matematica mi tirò il quaderno in faccia dopo aver visto il disastro che avevo fatto su un'espressione, mi diede una spinta seguita dalla quadernata in faccia, tornai al mio posto piangendo e nessuno disse nulla. Quando c'era lui non si poteva fiatare."

"Frequentavo il terzo anno di Liceo Classico, la mia insegnante di Latino durante la correzione di una versione, mi chiese di tradurre un paragrafo senza leggere dal quaderno, avendo alcune difficoltà con la traduzione, mi chiese di consegnarle il mio testo per verificare, la traduzione era scritta in maniera corretta (avevo iniziato da poco a frequentare le ripetizioni) senza che avessi il tempo di spiegarmi iniziò ad urlare e avendo in mano il mio quaderno me lo tirò violentemente in testa e mettendosi a ridere."

"Stavo parlando con un mio compagno e per farmi finire di parlare mi ha preso per il collo e mi ha sbattuto con la testa sul banco."

"Il mio compagno di classe è stato chiamato "stronzo" dal mio professore di arte e si è arrabbiato, iniziando a fare polemica, il professore allora gli ha alzato il banco e gli ha chiuso la mano tra una scrivania e l'altra."

"Il mio prof. di matematica mi ha chiesto se avessi fatto o meno il compito e se mi fosse riuscito o meno. Al che gli ho risposto che sì, avevo provato a farlo (mentre gli mostravo la "brutta") ma che non sapendo come finirlo mi ero fermato. La sua reazione? Schiaffi nei denti e insulti a manetta per solo Dio sa quale ragione."

"Il mio professore di educazione fisica ha cercato di "stimolare" una ragazza non brava fisicamente con delle pallonate e dei calci. Mi stupisco ancora che i genitori non le abbiano creduto e che la scuola non sia intervenuta."

"Frequentavo ancora le elementari e la mia maestra dopo che per sbaglio avevo rovesciato la brocca dell’acqua mi prese per i capelli mi alzo dalla sedia a peso e mi spinse al muro facendomi restare in piedi e urlandomi in faccia che così avrei imparato a stare a tavola come si deve..."

INSULTI E UMILIAZIONI - Dalle storie di violenza verbale e psicologica di professori raccontate dagli intervistati da Skuola.net, emerge che gli insulti e le derisioni non riguardano solo il rendimento scolastico ma investono anche la vita privata e la sfera personale degli adolescenti. Ecco alcuni esempi:

"Mi ha chiamato "Asina" e sosteneva che i miei genitori non mi comprano mai niente."

"La prof mi ha insultato sulla mia razza e sulla povertà della mia famiglia."

"Un professore mi ha detto che non avrei mai fatto nulla nella vita, perché avevo un blocco verso le materie scientifiche, e che ero - letteralmente - una "cogliona". Tutto davanti ad altri miei compagni."

"Andavo molto bene nello studio ma il prof di grammatica mi prendeva sempre in giro per il mio fisico."

"Una volta un professore ha sottolineato il fatto che fossi obesa davanti alla classe, togliendomi di mano il pacchetto di cracker che stavo mangiando..."

"Mentre facevo ginnastica, non sono riuscita a fare correttamente un esercizio e urlò davanti a tutti che non peso poco e che devo allenarmi di più."

"La prof di italiano mi ha fatto passare come una malata di malattie infettive davanti a tutta la classe."

"Durante la lezione di educazione fisica non riuscivo a fare un esercizio e la prof ha iniziato ad insultarmi per il mio aspetto fisico davanti a tutti i miei compagni."

"La prof disse alla mia amica che non doveva mangiare perché era chiatta".

"Ha offeso una ragazza dicendole di essere grassa".

"Ero in seconda a fare ed. fisica e il professore con gli altri compagni maschi (eravamo solo in due ragazze) faceva notare a tutti quanto io non avessi seno."

"Leggeva il suo tema in classe (della mia amica) e la derideva."

"Commenti ed espressioni razziste nei miei confronti."

"Vengo continuamente insultata dalla mia professoressa di arte senza alcun motivo. Lei non può vedermi e mi urla dietro costantemente che sono una bambina viziata, che sono vuota e stupida, che non mi picchia solo perché si sporcherebbe le mani e continua a mettermi insufficienze immeritate. Vado a scuola col terrore di incontrarla."

"Una volta la prof di francese mi fece stare tutta l'ora di lezione sulle punte perché ero bassa e dovevo crescere (a 17 anni!)...un' altra volta invece mi portò in un'altra classe e mi invitò a leggere un brano dicendo "leggi questa pagina, ragazzi lei balbetta...ora ci facciamo quattro risate!"...volevo morire!"

"Sono stata offesa per il mio aspetto fisico."

"Il prof ha iniziato a dire che ero grasso e ignorante e poi che Napoli (dove sono nato, adesso abito a Latina) deve bruciare."

"Hanno dato della prostituta ad una mia amica, solo perché usciva spesso dalla classe per andare in bagno, e l'insegnante ha esordito con "Scusami sulla statale non ci sono bagni che devi venire qui".

"La prof mi diceva di buttarmi in un fiume perché non servivo a niente: così avrei fatto contento i miei genitori".

"Un ragazzo obeso è stato offeso chiamandolo ciccione, mangione, babbo natale e amico palla."

"Ha preso in giro il suo peso paragonando il ragazzo a una foca di un circo che ingurgita panini."

"La prof ha iniziato a parlare male di noi di colore dicendoci che dovevamo tornare tutti nei nostri paesi."

"Mi è stato dato della cicciona, brutta e permalosa alle scuole medie."

"Mi ha dato della troia senza futuro, o almeno un futuro da prostituta."

"Una ragazza con problemi psichici e mentali è stata sgridata davanti a tutti e mandata fuori dall'aula, davanti alla porta (aperta) per due ore, senza sedia, perché non era attenta".

"Discutendo di omosessualità, un ragazzo dichiaro di essere "diverso". Il prof lo allontanò schifato."

"Battute sarcastiche sulla sua disabilità."

"Una professoressa si è messa a correggere una verifica di una ragazza con problemi di dislessia ad alta voce urlandole nel momento in cui aveva fatto un errore e mettendola a disagio con il resto della classe."

Violenze psicologiche nella scuola… due storie che devono far riflettere, scrive Federica Cirillo su "Radio Made in Italy" il 4 novembre 2013. È un’orrenda storia questa, che viene spesso nascosta in questa società. Se ne parla poco e si fa soprattutto poco per aiutare coloro che hanno subìto mobbing. Il termine significa “emarginazione” e precisamente “violenza psicologica”. Sono tantissimi i casi in Italia, si verificano maggiormente in campo lavorativo ma spesso nelle scuole di qualsiasi ordine e grado. I bambini più piccoli che vengono trattati in maniera differente dai loro maestri, non raccontano certe volte ai propri genitori cosa accade nelle aule. Casi orrendi del genere capitano di più nelle scuole secondarie di secondo grado. Alcuni docenti sono capaci di rovinare psicologicamente un/a alunno/a, approfittando magari della debolezza della persona, della timidezza, della troppa bontà. I professori hanno un ruolo importantissimo nella vita di uno studente, in particolare quel docente che passa più ore in una classe, perché l’umore quotidiano, il carattere, i modi di pensare e di agire influiscono sulla psicologia di un adolescente, che ha molto da imparare nella vita e spesso non si accorge di aver di fronte gente sbagliata. È purtroppo facile per un insegnante essere la causa di un male. Un professore è in grado di abbattere uno studente ed è in grado allo stesso tempo di gratificarlo. Ci sono ragazzi che hanno un ricordo pessimo degli anni del liceo, a questo punto ci si chiede il perché. Perché uno studente deve ricordare con angoscia gli anni più belli della propria vita? Tutto questo per colpa di un professore che si è permesso di “giocare”, di “scherzare” con la mente tenera di un alunno in fase di crescita. A questo punto riportiamo le parole di un ragazzo di diciannove anni che ha subito mobbing da parte di un docente al liceo: “È inammissibile che un docente debba approfittare della sua carica senza mettersi minimamente nei panni di uno studente. A me nel primo anno di liceo ad esempio è capitato di essere stato più volte messo da parte da alcuni docenti per farmi poi dire che io ero l’elemento più negativo della classe intera. Mai una volta che mi chiedessero se il mio rendimento fosse dovuto al fatto che avessi bisogno di una mano. Peggio ancora quanto mi accadde l’anno dopo in cui, in mia assenza, la docente esortò letteralmente gli alunni a tenermi in disparte in quanto secondo lei ero un elemento non adatto ad un liceo, ma bensì da riformatorio. Delle volte vorrei tornare di qualche anno indietro per poter denunciare tutto. I professori per approfittare della loro carica superiore alla nostra si prendono la briga di usare aggettivi troppo pesanti da dover attribuire agli alunni, come “animali” o “malati”. Nella mia scuola, per delle difficoltà che avevo a capire delle cose hanno preferito sostenere che io fossi malato, avessi bisogno di uno psicologo piuttosto che aiutarmi. Addirittura è capitato che alcuni insegnanti si siano permessi di dire ai genitori che il proprio figlio avesse bisogno di farmaci. Così non fanno altro che distruggere un adolescente moralmente. Sono dell’idea che molti complessi di molti adolescenti derivino anche dall’atteggiamento di molti professori”.

Un’altra esperienza negativa, da parte di una studentessa, è qui riportata:” Durante il biennio al liceo, ho avuto una docente che è stata capace di farmi sentire una perfetta idiota. Avevo perso la stima in me stessa, credevo di non avere capacità. Questa insegnante mi ha fatto paura sin da subito, ancora oggi torna nei miei incubi di notte. Mi è capitato addirittura di prendere voti molto bassi per delle interrogazioni per me invece andate a buon fine. Ma per la mia insegnante avrei dovuto limitare la mia esposizione orale. La volta successiva ho preso lo stesso voto e per la mia docente questa volta avevo parlato troppo poco. Una vera, grande contraddizione! Ancora oggi non ho capito cosa andava male nelle mie interrogazioni. So solo che, cambiando classe, trovando dei professori umani ho ritrovato la mia pace, la stima in me stessa, ho ritrovato la gioia andando a scuola, la felicità avendo voti che merito davvero. Oggi sono tornata ad essere quella di sempre, felice, allegra e gioiosa, devo molto ad una mia nuova insegnante che sin dall’inizio ha compreso il mio tormento, la mia paura, per lei inesistente e inammissibile tra i banchi di scuola. Di questa brutta storia ho solo ricordi cattivi, che si stanno allontanando sempre di più da me. Consiglio a tutti i ragazzi che si trovano in una situazione simile di far presente tutto, di denunciare simili episodi e di non perdere mai la fiducia in se stessi”. Dopo queste dichiarazioni si arriva alla conclusione che la vita spensierata dei giovani a scuola non può essere rovinata dai docenti. Il percorso di crescita deve essere progressivo, non portare i ragazzi allo sconforto, la presenza di un insegnante serio ma soprattutto umano è molto importante. Per gli insegnanti è quasi normale andare a scuola, far ricadere sulla classe tutti i problemi della propria vita e prendersela con qualcuno di loro. Ogni studente può reagire in maniera differente, ma quando si tratta di violenza psicologica, quasi fissazione, voglia di stuzzicare un alunno, un adolescente non riesce più ad avere una vita serena nella scuola. I docenti dovrebbero riflettere un po’ di più prima di fare violenza psicologica, perché andare a scuola significa imparare a vivere bene con gli altri, apprezzando se stessi, comprendendo i propri errori sbagliando, non per essere isolati, non per essere aggrediti, non per essere maltrattati. Lo studente è un essere umano che ha dei diritti. Se alcuni docenti lo hanno dimenticato è bene farlo presente. 

L’ITALIA DELL’ILLEGALITA’. MINORI DEI 14 ANNI ACCOMPAGNATI A SCUOLA: LO IMPONE LA LEGGE.

Scuola media. A scuola da soli o accompagnati? Cosa dice la legge, come la pensa la ministra, cosa fanno i presidi Una sentenza della Cassazione, che ha confermato la condanna di presidi e docente di una scuola, fa tornare di attualità il tema dell'accompagnamento a scuola dei ragazzini della scuola media, scrive Giovanna Antonelli il 27 ottobre 2017 su "Rai News". Gli studenti minori di 14 anni vanno consegnati a un maggiorenne alla fine delle lezioni. I genitori che la pensano diversamente, secondo la ministra Fedeli, dovranno farsene una ragione e trovare soluzioni alternative se non possono prenderli loro al termine dell'orario scolastico. "Questa la legge. Credo che anche i genitori devono esserne consapevoli. Le scelte dei presidi sono collegate a leggi dello Stato italiano. Per cambiarle serve un'iniziativa parlamentare". La ministra dell'Istruzione, Valeria Fedeli, interviene così sul dibattito relativo all'obbligo di vigilanza sui minori all'uscita dagli istituti scolastici, anche in seguito a una recente ordinanza della Cassazione.

Cosa ha detto la Cassazione La vicenda su cui la suprema Corte ha espresso la sentenza è relativa alla morte di un ragazzino di 11 anni a Firenze quindici anni fa. Era uscito da scuola ed è stato investito da un autobus. La Cassazione ha ritenuto che il coinvolgimento di un minore in un incidente fuori dal perimetro scolastico non esclude la responsabilità della scuola. Secondo i giudici l'obbligo di vigilanza in capo all'amministrazione scolastica, discendeva da una precisa disposizione del Regolamento d'istituto, ma il ministero dell'istruzione precisa che la responsabilità della scuola sussiste non solo se il Regolamento di istituto impone al personale scolastico compiti di vigilanza: "In realtà - si legge in una nota del ministero di Viale Trastevere - la responsabilità della scuola si ricollega più in generale al fatto stesso dell'affidamento del minore alla vigilanza della scuola". Cosa dice la Legge La differenza tra un alunno delle scuole medie e uno delle superiori è nell’art. 591 del codice penale, che recita testualmente: "Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici [...] e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni". Nel codice penale è specificato che per i minori di quattordici anni è prevista una presunzione assoluta di incapacità. Quindi seppure entrambi minori, esiste una differenza sostanziale tra un tredicenne e un sedicenne. Quest'ultimo infatti può tranquillamente uscire da solo da scuola, può prendere la patente per il motorino e se, vuole, può anche andare all'estero da solo.

Se un genitore firma una liberatoria?  E sempre secondo la legge a nulla servirebbero le cosiddette “liberatorie” firmate dai genitori che solleverebbero la scuola da ogni responsabilità Questo perché secondo la legge il minore di 14 anni sarebbe considerato “incapace” e quindi la sicurezza dei minori non sarebbe un bene giuridicamente disponibile, né da parte dei genitori né da parte del personale scolastico.

"Abbandono di minore" Il tema dunque è delicato, e pur davanti alla recente sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna di un docente e un preside per non aver consegnato a un adulto un bambino uscito da scuola (e poi morto investito da un bus), l’art 591 del codice penale può essere oggetto di interpretazioni diverse in quanto nello specifico si parla di “abbandono di minore”. E nel caso di un tragitto casa scuola ben definito, di cui sono consapevoli sia genitore che docente, possibilmente anche monitorato tra mite le nuove tecnologie (smartphone) e in presenza di una dichiarazione in cui il genitore solleva la scuola di ogni responsabilità una volta terminato l’orario scolastico, probabilmente la giurisprudenza potrebbe rilevare che l’abbandono di minore” in questo caso non sussista.

Cosa dice la ministra "Le scelte e le decisioni dei presidi, in materia di tutela dell'incolumità delle studentesse e degli studenti minori di 14 anni – ha continuato la ministra Fedeli - sono conformi al quadro normativo attuale, come interpretato ed applicato dalla giurisprudenza.  Una questione di assunzione di responsabilità nell'attuazione di norme che regolano la vita nel nostro Paese, pensate per la tutela più efficace delle nostre e dei nostri giovani". "Le leggi e le pronunce giurisprudenziali, come quella della Cassazione, vanno rispettate - prosegue la ministra - e se si vuole innovare l'ordinamento su questo tema occorre farlo in Parlamento, introducendo una norma di legge che, a certe condizioni, dia alle famiglie la possibilità di firmare liberatorie che sollevino da ogni responsabilità giuridica, anche penale, dirigenti e personale scolastico al termine dell'orario di lezione".   Quindi allo stato dell’arte l’unica cosa possibile è una correzione della legge che permetta al genitore di sollevare completamente la scuola dalle responsabilità di affido. Simona Malpezzi, responsabile Scuola del Partito Democratico ha annunciato di essere al lavoro per preparare una proposta di legge “che intervenga per risolvere una situazione che sta creando comprensibili disagi tra i genitori e il personale della scuola".

Scuola e genitori. A scuola da soli o accompagnati? Un genitore su due viola la legge secondo sondaggio di Rainews.it Il 56 per cento dei nostri lettori ha ammesso di mandare i propri i figli minori di 14 anni a scuola da soli. Il 22 per cento soltanto se necessario e il 22 ha detto di mandarli accompagnati. Un'altissima percentuale, dunque, ha ammesso seppure anonimamente di violare una legge dello stato. Quella stessa legge che la ministra Fedeli ha sottolineato essere a tutela del minore e quindi da rispettare. A scuola da soli o accompagnati? Cosa dice la legge, come la pensa la ministra, cosa fanno i presidi Scuola, Fedeli: sull'accompagnamento dei minori si attuano le leggi dello Stato, scrive Giovanna Antonelli il 28 ottobre 2017 su "Rai News". Tra i genitori di figli adolescenti in questi giorni non si parla d'altro. Mandare i figli a scuola da soli: un azzardo, un diritto, una necessità o soltanto una possibilità? Una cosa è certa: nelle chat di classe è un botta e risposta continuo tra chi posta sentenze della Cassazione, chi invia circolari ministeriali e informative dei presidi e chi fa battute sulla ministra Fedeli e sulla sua idea di coinvolgere i nonni nell'accompagnamento dei figli. E poi ci sono gli estremisti: quelli che ritengono pericoloso permettere a dei tredicenni di andare e venire da soli da scuola e quelli invece che bollano come anticostituzionale la pretesa dei presidi di affidare il minore a un adulto. Il sondaggio che abbiamo lanciato ieri su twitter tra i nostri lettori ci offre uno spaccato che, seppure non indicativo, sottolinea l'esigenza da parte dei genitori di poter gestire autonomamente le entrate e le uscite dei propri figli.  Il 56 per cento dei nostri lettori ha ammesso di mandare i propri i figli minori di 14 anni a scuola da soli. Il 22 per cento soltanto se necessario e il 22 ha detto di mandarli accompagnati. Un'altissima percentuale, dunque, ha ammesso seppure anonimamente di violare una legge dello stato. Quella stessa legge che la ministra Fedeli ha sottolineato essere a tutela del minore e quindi da rispettare.   Un tema che fa discutere. E servirebbe una legge A prescindere dal risultato del sondaggio di sicuro il tema divide. E se è vero che le cose cambiano da nord a sud e differenti sono gli approcci dei genitori a seconda anche del posto in cui si vive, è anche vero che da una certa età in poi si sente l'esigenza di rendere i propri figli più indipendenti anche sperimentando uscite solitarie o in compagnia dei coetanei. Giusto sarebbe, a questo punto, che la decisone ultima spettasse al genitore soltanto. E a lui soltanto fosse demandata la responsabilità nei confronti del figlio minore. Una legge che contemplasse questa possibilità e che liberasse una volta per tutte l'istituzione scolastica dall'obbligo di vigilanza al di fuori delle mura scolastica e al di fuori dell'orario canonico probabilmente sarebbe sacrosanta.  E darebbe a ogni genitore la possibilità di scegliere in completa autonomia e responsabilità. 

MINORI ACCOMPAGNATI A SCUOLA: LE LEGGI NEGLI ALTRI PAESI EUROPEI, scrive Paolo Padoin sabato 28 ottobre 2017 su "Firenze post". Una recente sentenza della Cassazione ha confermato la condanna di un docente e di un preside per non aver consegnato a un adulto un bambino uscito da scuola (e poi morto investito da un bus). Subito un putiferio di polemiche sociali e politiche in Italia, mentre la situazione negli altri paesi europei presenta risvolti e caratteristiche diversi. Non ci sono leggi particolari in Europa sull’entrata e l’uscita dei minori, in particolare degli alunni delle medie, da scuola, e sono tanti i bambini e i ragazzi che vanno per loro conto alle lezioni. Anche se, segno dei tempi, il livello di attenzione è salito ed è aumentato il numero di famiglie che normalmente accompagna i propri figli, specie i più piccoli.

BELGIO: a Bruxelles, nella scuola pubblica, a partire dai 12 anni, gli studenti possono lasciare l’edificio da soli al termine delle lezioni. Lo spiegano dall’ufficio dell’assessorato alla Scuola della città. Lo stesso vale per tutta la regione francofona della Vallonia. E anche nelle Fiandre, fanno sapere dall’ufficio stampa del governo fiammingo, non ci sono leggi che regolano la questione e gli studenti dai 12 anni in poi possono lasciare la scuola da soli. Fanno eccezione le scuole private: in alcune occorre l’autorizzazione dei genitori.

GRAN BRETAGNA non c’è una legge particolare che obblighi i genitori ad accompagnare a scuola i figli: la decisione è affidata al buon senso delle singole famiglie. Negli anni comunque l’atteggiamento dei britannici è cambiato radicalmente. Basta pensare che negli anni Settanta quasi ogni 11enne nel Regno andava a scuola da solo mentre oggi solo il 55% lo fa. Molte amministrazioni locali consigliano alle famiglie di accompagnare i loro figli se hanno meno di 8 anni.

FRANCIA: non c’è nessuna legge o nessun regolamento che impedisca ai ragazzi delle scuole medie di uscire da soli da scuola al termine dell’orario. L’unica condizione riguarda proprio l’orario d’uscita. I genitori, all’inizio dell’anno, devono prendere conoscenza – comprovandolo con la firma – dell’orario delle lezioni del proprio figlio. Poi, devono autorizzare – sempre per scritto e una volta per tutto l’anno – il ragazzo a lasciare la scuola da solo. Un’ulteriore autorizzazione è richiesta per consentire allo studente di lasciare in anticipo rispetto all’orario previsto l’istituto in caso di assenza di un professore all’ultima ora.

GERMANIA: non esiste una legge che regoli l’età a partire dalla quale un bambino possa andare da solo a scuola. Ma la prassi è quella di incentivare il ritorno a casa dei bambini da soli, a partire dal sesto anno di età. A spiegarlo all’ANSA è il portavoce dell’Amministrazione del Senato di Berlino, del reparto Istruzione Scuola e giovani. Ovviamente molto dipende dal caso: si valuta la maturità del bambino e il tratto da percorrere per raggiungere la scuola. La normativa prevede il cosiddetto “Aufischtpflicht”, l’obbligo di supervisione per i genitori regolato dall’articolo 1631 del codice civile. È dovere del genitore, infatti, curare educare e vigilare sul minore. Ma il legislatore pone attenzione anche al diritto di sviluppare l’autonomia del bambino: l’articolo 1626 del codice dispone che nella cura e nell’educazione si debba tenere conto dello sviluppo crescente delle capacità e del crescente bisogno del bambino di agire in modo autonomo e consapevole della responsabilità.

Come si può notare solo in Italia legislatori mammoni e giudici mammoni tengono fermo un vincolo che ormai appare anacronistico, anche se purtroppo i pericoli che un ragazzo potrebbe incrociare durante il percorso casa – scuola sono fortemente aumentati.

Il 7% degli alunni raggiunge l'aula da solo. In Germania il 70%... siamo genitori apprensivi e ci ostiniamo a chiuderli in auto. Perché soltanto noi italiani accompagniamo i bambini a scuola, scrive Antonio Pascale il 14 marzo 2013 su “Il Corriere della Sera". Noi genitori italiani accompagniamo i nostri figli a scuola. Siamo in tanti, una moltitudine, rispetto agli altri Paesi. Lo conferma anche lo studio dell’Istc-Cnr promosso dal Policy Studies Institute di Londra — un’indagine che riguarda 15 Paesi del mondo, tra cui Italia e Germania. Ebbene, l’autonomia di spostamento dei bambini italiani nell’andare a scuola è passata dall’11% nel 2002 al 7% nel 2010. Per fornire un metro di paragone l’autonomia dei bimbi inglesi è al 41% e quella dei tedeschi al 40%. È uno dei pochi casi di studi superflui. Basta osservare le dinamiche del traffico in orario scolastico. Noi italiani causiamo ingorghi a croce uncinata e spesso posteggiamo le macchine in doppia fila perché non ci basta avvicinare i ragazzi alla scuola, no, desideriamo portarli per mano fino in classe. E non finisce qui.

Noi genitori italiani ci azzuffiamo nei consigli di classe con i professori se lo zaino dei nostri figli supera un certo peso. Non siamo rubricati tra i lettori forti di studi medici e scientifici ma siamo pronti a citare i risultati degli ultimi report che spiegano perché uno zaino troppo pesante potrebbe causare irreversibili danni psicofisici ai nostri figli.

Noi genitori italiani parcheggiamo in doppia fila, causiamo ingorghi — oltre a produrre smadonnamenti e urla di disperazione degli altri cittadini — e in questo bailamme, noi, con calma zen aspettiamo che escono da scuola i nostri pargoli e ci accolliamo il loro zaino, così che possano fare i cento metri che separano scuola da casa liberi da pesi ingombranti. Noi genitori italiani parliamo continuamente di cibo e vogliamo che i nostri figli assaggino solo quello sano, genuino e biologico, sempre a chilometro zero, però come ci piace cucinare per loro porzioni abbondanti, come se il cibo «sano» non contenesse calorie, e come poco ci piace, invece, costringerli a muoversi a piedi: no, poveri figli, piove, nevica, c’è l’uragano, copriamoli bene e accompagniamoli, in macchina che tra l’altro lo zaino è pesante.

Noi genitori italiani, naturalmente riconosciamo che sì, accompagnare i figli è motivo di stress per noi e per il traffico italiano, però riuniti in conciliaboli nei bar (macchina in doppia fila) dopo aver accompagnato i figli a scuola, discutiamo e stabiliamo che purtroppo, vista e considerata la situazione odierna, non c’è rimedio: i nostri figli a scuola a piedi no, proprio no. Ma naturalmente siamo lirici: ah, ai nostri tempi, allora sì che la città era sicura e si poteva andare a piedi, non come oggi.

Noi genitori eravamo forti e tosti, giocavamo nella terra, facevamo a botte (ancora oggi facciamo a gara: chi ha più punti per ferite da sassaiole), sfidavamo maniaci e altri loschi figuri e purtroppo, ora, i nostri figli tutto questo non possono farlo: la città è così trafficata si può finire sotto una macchina (vero, visto tutti i genitori che accompagnano i figli a scuola), dovunque zingari, strane figure, e lestofanti vari. Niente, ci tocca proteggerli, chiuderli in macchina. Purtroppo.

Poi a qualcuno di noi genitori a volte capita di finire in Germania, in Inghilterra, in Francia e di notare lunghe file di bambini e ragazzi che vanno a scuola, da soli, fin da piccoli, a piedi. Che sorpresa. Forse, pensiamo, in quelle città civili non esistono criminali per le strade e tutto è più ordinato e civile. Poi ci rendiamo conto che lì, sì, è tutto più civile, perché nei consigli di classe invece di pesare con bilance al quarzo lo zaino dei figli, si lotta anche e soprattutto per avere più bus in alcune fasce orarie, per ottenere percorsi protetti per bambini, o ci si organizza per il trasporto con mezzi comuni. Anni fa, quando nacque mio figlio e spingevo di notte la culla per farlo addormentare, mi capitò di vedere in tv un’intervista a Colin Ward. Gli chiedevano del pensiero utopistico, se esisteva o non esisteva. Lui rispose sì, esiste, ma si occupa di tre cose, le città, come le costruiamo e per chi le costruiamo, i bambini e le automobili (come fare a prenderle il meno possibile). L’utopia dunque si sposava con buone pratiche quotidiane, e quest’ultime, purtroppo, dipendono da noi e non da generici altri: tocca muoverci, quindi. A piedi, si intende.

Si cresce se si è accompagnati all’autonomia più che nel tragitto casa-scuola, scrive il 28 ottobre 2017 Stefania Andreoli il 28 ottobre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il giovedì ricevo in studio Edoardo, dodici anni. Lo scorso anno scolastico - frequentava la prima media - non è mai rientrato dalle vacanze di Pasqua. Aveva la media del nove, e tanta paura. Grazie alla sua condotta esemplare, alle mancate assenze fino a quel momento e ai risultati scolastici eccellenti, il lavoro di rete tra la scuola, la famiglia ed io ha fatto sì che chiudesse l’anno con una promozione. Comunque, meritata. A giugno non era andato nemmeno a vedere i quadri, troppa ansia. Anche se già conosceva l’esito favorevole del suo annus horribilis, per lui la scuola era diventata comunque infrequentabile. Fino all’11 settembre 2017. Nel mio mestiere - anche se taluni lo credono! - non ci viene data in dotazione la capacità di leggere né nella mente, né il futuro. Tuttavia è certamente vero che conoscere il funzionamento degli esseri umani e sapere fare diagnosi corrette, consente anche di immaginare la prognosi. La mia personale previsione in consiglio di classe e con la famiglia era stata: che l’estate ci assista. Se Edoardo finito l’anno scolastico riuscirà ad andare qualche volta in piscina con gli amici, verrà invitato almeno ad una festa, riceverà le notifiche WhatsApp del gruppo dei compagni su come vanno le vacanze, ci sarà di grande aiuto per uscire da questa empasse. Ovvero: ci serviva un po’ di adolescenza. Meno famiglia e più coetanei. Meno mondo interno e più mondo esterno.

«Sai che ho trovato la mia cura?» Edoardo ad oggi non ha mancato un giorno di scuola e ha persino preso un bellissimo quattro in geografia. Non credo ci vedremo ancora per molto, ma i saluti - si sa - sono una faccenda seria, di cui avere rispetto. «Vai, dimmi tutto». «…Sono i miei amici. Mi passano a prendere in bici la mattina, e poi torniamo a casa insieme. Facciamo un po’ gli scemi, te ne racconto una dell’altro giorno tanto so che non puoi dirlo alla mamma…». La Ministra Fedeli intervistata durante la trasmissione Tagadà ha dichiarato che i genitori dovranno prendere i figli fino a quattordici anni fuori da scuola alle due, o comunque mandare un adulto a cui l’istituzione è tenuta a consegnare gli studenti, a seguito delle circolari di cui le scuole si sono dotate per tutelarsi dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso del Ministero, condannato a pagare parte dei danni morali ad una famiglia che perse il figlio undicenne alla fermata del bus quattordici anni fa. Dura lex sed lex. Non ammette ignoranza né insurrezioni dei genitori sui social. Sul fatto che possa intervenire solo il Parlamento, naturalmente sto. Non entro nemmeno sulle incongruenze della questione, che pur ci sono. Condivido piuttosto una riflessione, maturata lavorando con i ragazzi (di cui Edoardo, non crediate il contrario, è un esempio ampiamente rappresentativo), e la psicologia delle famiglie e delle istituzioni.

Uno degli scopi degli adulti è di crescere altri adulti. Oltre ad essere la natura a stabilirlo, conviene anche alla cultura perché tra le caratteristiche dell’essere adulti, una è che il requisito stesso per rispettare la legge è una conquistata maturità, il raggiungimento di una competenza morale che finisca per farci trovare connaturato - o quasi - allinearci al codice condiviso che regola l’ordine sociale. Faccio un esempio: non piace a nessuno prendere una multa, è una bella seccatura. I più adulti non si metteranno nelle condizioni che nemmeno accada. (Alcuni anziché particolarmente maturi, saranno forse solo un po’ troppo nevrotici, ma il risultato non cambia). I più sani perlopiù non commetteranno infrazioni, ma quella volta con le quattro frecce in doppia fila se la concederanno. Proprio perché può capitare, è prevista una sanzione. La pagheranno, rovinandosi un pezzettino di giornata. I meno adeguati moralmente prenderanno la multa e ignoreranno cosa doversene opportunamente fare. Come i bambini, penseranno di essere nel giusto e di dover avere il diritto di rispondere solo ai propri bisogni, senza ammettere che nulla li perturbi, né ricambiare in alcun modo. Luigi Zoja, li chiamerebbe i “lattanti psichici”.

Se per diventare prima grandi e poi adulti occorre prendere le misure del mondo, trovo un cortocircuito nel fatto che la società si regga su un impianto di regole per conformarsi in modo felice alle quali, occorra essere adulti. Quegli stessi adulti che non mi sembra stiamo più favorendo i nostri figli a diventare, tenuti dipendenti e irresponsabilizzati persino nel tragitto tra scuola e casa. Tra quelle che da sempre sono le due maggiori agenzie educative al servizio della crescita.

FOTO DI CLASSE? ADDIO!

Chi non conserva la foto di gruppo della sua classe delle elementari o delle medie? Siamo stati fortunati. Non c’erano ancora la privacy e dirigenti scolastici che ne hanno fatto un tabù, applicandola a sproposito.

Foto di classe di spalle, docenti e sindacati: «Il rito non va cancellato. È tra i ricordi più belli»

Il mondo della scuola, tra “prof” e sigle, si schiera largamente per la tradizione. Pure il vademecum dell’Authority predica attenzione ma salva lo scatto di fine anno, scrive Marco Ballico l'8 giugno 2018 su “Il Piccolo”.  La prima volta, metà marzo di quest’anno, a Borgo San Lorenzo nel Mugello in Toscana: la preside della direzione didattica locale vieta via circolare «foto e riprese a minori in ambito scolastico, compresa la foto di classe». Quelle immagini che teniamo infilate nelle pagelle vintage, negli album ingialliti, nel trumeau, e che adesso, secondo qualcuno, non si possono più scattare. Perché così imporrebbe la privacy (ma non è così, come vedremo, in base alla regolamentazione vigente). Dopo la Toscana, anche il Friuli Venezia Giulia, dunque. Nell’era dei selfie ovunque, di Facebook e WhatsApp, la dirigente scolastica del comprensivo di Cervignano Tullia Trimarchi si pone il problema, ne discute in Consiglio d’istituto e condivide la decisione di «regolamentare» la foto: niente clic di gruppo all’interno dell’edificio scolastico, perché non si tratta di attività che rientra nel Pof, il Piano triennale dell’offerta formativa. E poi arriva Grado, l’immagine che non t’aspetti, la provocazione per fare emergere un problema che Ugo Previti, segretario regionale della Uil Scuola, riassume così: «Quando è troppo, è troppo». Mentre Igor Giacomini, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale, taglia corto: «Le foto di fine anno scolastico sono uno dei più bei ricordi della vita, non capisco perché volerli cancellare. E poi non costano, non sono reato, non violano le norme, mi pare che su questo tema si stia facendo una polemica sterile». A sentire gli uffici del Garante per la protezione dei dati personali, infatti, non c’è alcun bisogno dell’altolà. Il Gdpr, il nuovo Regolamento sulla privacy applicato dal 25 maggio, non introduce alcun cambiamento rispetto alla precedente normativa. Dall’Autorità presieduta da Antonello Soro rimandano così al vademecum “La scuola a prova di privacy” del novembre 2016 in cui si precisa che «non violano la privacy le riprese video e le fotografie raccolte dai genitori durante le recite, le gite e i saggi scolastici». E dunque, verosimilmente, anche le foto di fine anno. «In questi casi – prosegue il vademecum – le immagini sono raccolte per fini personali e destinate a un ambito familiare o amicale e non alla diffusione». Attenzione va però prestata, insiste il Garante, all’eventuale pubblicazione delle stesse immagini su internet, in particolare sui social. «In caso di comunicazione sistematica o diffusione diventa infatti necessario, di regola, ottenere il consenso informato delle persone presenti nelle fotografie e nei video». Cesira Militello, la dirigente scolastica del liceo Petrarca di Trieste, insiste proprio sulla regolarità delle operazioni di raccolta delle autorizzazioni dei genitori dei minori e cita le immagini pubblicate nel sito della scuola, a partire dalle Petrarchiadi. «Sarebbe un peccato non documentare questa e altre straordinarie manifestazioni – osserva la professoressa –. L’autorizzazione, che faccio in modo di verificare sempre in situazioni del genere, ci consente di procedere. Così come, per quel che riguarda l’annuario, che è in circolazione esclusivamente nel perimetro della scuola, non ci sono mai state criticità». E così Anna Condolf, dirigente al Polo liceale e reggente al D’Annunzio - Fabiani di Gorizia: «Sono una preside di buon senso: non mi pare che, dopo tanti chiarimenti del garante, sia necessario enfatizzare ancora un presunto rischio foto. A inizio anno è buona norma farsi autorizzare da famiglie e studenti e poi vigilare che le immagini non escano dall’ambito scolastico. La provocazione di Grado? Non conosco i fatti, presumo tuttavia che si sia agito dopo un confronto, che è sempre la cosa migliore da fare». A difesa della foto ricordo sono anche i sindacati. Previti è il più deciso: «Arriviamo sempre all’estremo in Italia, mai che si riesca a trovare un equilibrio serio. Non so a cosa porterà la provocazione di Grado, ma chi l’ha voluta ha fatto bene – rimarca il segretario di categoria della Uil –. Ragazzi e insegnanti sono contenti di farsi una foto e di tenersela come ricordo. A questo punto arriveremo a vietare tutto ciò che abbiamo in archivio». «I mezzi informatici sono micidiali – interviene anche Adriano Zonta, segretario della Cgil Flc del Fvg –: se utilizzati male, sono disastrosi per l’educazione. E dunque è auspicabile che a scuola si faccia innanzitutto formazione sul loro uso. Non solo sui bambini, ma pure sugli adulti. Dopo di che, se c’è il consenso, non c’è dubbio che la foto ricordo è qualcosa che resta tutta la vita e non crea alcun pericolo». Sulla stessa linea Donato Lamorte della Cisl Scuola: «A fine anno tutti i ragazzi sono contenti, festeggiano il momento di andare in vacanza e la fine di un periodo lungo mesi fatto di impegni e studio. Credo che parlare di tutela della privacy, tanto più con la possibilità dell’autorizzazione dei genitori, sia in questo caso del tutto esagerato».

Grado, foto di classe proibita per la privacy: alunni di schiena per protesta. I ragazzini della prima elementare della località in provincia di Gorizia hanno trovato l'escamotage per avere almeno una immagine a fine anno scolastico. il preside aveva infatti detto no per rispettare il diritto alla riservatezza, scrive l'8 giugno 2018 "La Repubblica". Foto di fine anno scolastico. Tutti ne abbiamo, per la gioia di giochi di memoria, tra faticosi tentativi di riconoscersi in quei ragazzini spettinati tanti anni dopo. Adesso tutto è cambiato, e per gli alunni di una prima elementare di Grado, come racconta Il Piccolo, sarà veramente difficile, nonostante occhiali o impegno, identificare chi era la vicina di banco, dove era lo studioso, quello spiritoso o anche semplicemente riconoscersi. Avranno insomma una bella difficoltà a capire chi era chi. Perché? si sono fatti immortalare tutti di schiena. Tra risate e sfottò, davanti ai genitori che hanno assistito alla scena filmando con i telefoni e mandando poi le immagini sui social. Il motivo di questa rivoluzione stilista e fotografica che rompe con tradizioni quasi secolari? La preside dell'Istituto Adriana Schioppa, la dirigente scolastica già agli onori della cronaca per aver obbligato per mesi i genitori a venire a prendere di persona i figli alla fine delle lezioni delle medie di Grado e Ronchi dei Legionari - è più importante la privacy di un bel ricordo. Il risultato è la foto vista dal lato B. Sembra che tutte le famiglie avessero dato la liberatoria d’inizio anno ma la preside ne pretendeva altre, di volta in volta. Ma trovare sempre tutti i genitori non è facile. Ecco allora che le maestre, pur di poterla fare e vedersela pubblicare, la foto ricordo, hanno trovato l’escamotage.

Grado, i bambini di spalle nella foto di classe e la polemica sulla privacy. La scuola: «Strumentalizzata». L’immagine ritrae i bimbi di una prima elementare, ripresi di spalle durante un evento di fine anno. Il dirigente scolastico però spiega: «Faceva parte di un progetto, è stata scattata così volontariamente, non è la foto di fine anno», scrive Annalisa Grandi l'8 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Una foto di una classe, bambini e insegnanti ripresi di schiena. Uno scatto che immortala una prima elementare dell’Istituto Comprensivo Marco Polo di Grado. Ed è subito polemica. Perché nell’immagine, tutti i bambini sono di schiena, non si vedono le facce. Una scelta per «tutelare la privacy» dei bambini, per non mostrare i loro volti, si legge in Rete. Una decisione della preside Silvana Schioppa, in assenza di una liberatoria di tutti i genitori, si legge ancora. E quindi ecco che maestre e bimbi si sono messi di spalle, per avere comunque una foto ricordo. Seppur senza volti, naturalmente. Un’immagine che è presto rimbalzata sui social, e che ha scatenato commenti e polemiche. La versione della scuola, su quanto accaduto, è però diversa. Il collaboratore del dirigente scolastico e la preside stessa spiegano che quell’uscita dei bimbi faceva parte di un progetto, e che i piccoli stavano svolgendo il «Gioco dell’oca delle Quattro Stagioni». «È una delle tante foto, che immortala un momento di quella giornata». Non la foto ricordo di fine anno, che spiega «Ci sarà, e con i bambini ripresi in volto», ma un’occasione precisa, e un’immagine scattata così volontariamente, spiegano dall’Istituto. Ed è la stessa preside ad aggiungere: «Siamo indignati per questa strumentalizzazione al fine di speculare su un argomento fortemente sentito in questo periodo come quello delle regolamento europeo sulla privacy».

Privacy, niente foto di classe all’interno della scuola: si farà fuori dall’istituto. “Per salvaguardare i ragazzi”. La decisione è del comprensivo di Cervignano, in provincia di Udine. Per la dirigente scolastica si tratta di una scelta per tutelare i dati degli studenti. Contrario Vincenzo Squeo, rappresentate di classe: "Questione risolvibile con l’autorizzazione dei genitori", scrive Alex Corlazzoli il 4 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Addio alla foto di classe fatta dietro ai banchi. La cosiddetta “privacy” è riuscita ad archiviare una tradizione decennale. La decisione che è destinata a far discutere arriva dal consiglio d’istituto del comprensivo di Cervignano, in provincia di Udine. Di fronte alla richiesta del vecchio caro scatto l’organo collegiale per conciliare il diritto alla riservatezza e le richieste di mamme e papà ha deciso che la foto da quest’anno potrà essere fatta ma all’esterno della scuola. Non è la prima volta che un istituto si pone questo problema: nei mesi scorsi una circolare della preside della direzione didattica di Borgo San Lorenzo nel Mugello impediva “foto e riprese a minori in ambito scolastico, compresa la foto di classe”. Già allora la scelta della preside aveva attirato l’attenzione dei media nazionali tanto che anche Massimo Gramellini sul Corriere della Sera aveva ironizzato sulla vicenda. Ora si torna a parlare della questione della foto di classe. A spiegare il tutto è la dirigente del comprensivo di Cervignano, Tullia Trimarchi: “Non l’abbiamo vietata ma regolamentata. Le foto e le riprese all’interno della scuola possono essere divulgate solo ad uso famigliare ma io non posso certo controllare dove vanno a finire. Vogliamo salvaguardare la divulgazione di queste immagini: è una tutela nei riguardi dei bambini. È stata una scelta condivisa e presa dal consiglio d’istituto”.

E quando le si fa notare che lo scatto fa parte della storia di ciascuno non fa un passo indietro: “La foto di classe è una consuetudine ma non serve per forza il banco per farla. Le tradizioni e le opinioni sono una cosa ma io ho il dovere di salvaguardare i dati dei ragazzi. È una precauzione: vogliamo educare alla riservatezza delle immagini che sono dei dati. Alcuni genitori si sono schierati a favore, altri contro ma qui non si tratta di difendere un’opinione ma di tutelare ciò che va garantito. Quest’anno abbiamo fatto un’intensa attività di prevenzione trasmettendo ai ragazzi e ai genitori una consapevolezza del diritto alla riservatezza propria e altrui. Abbiamo coinvolto anche polizia postale e carabinieri”. Intanto c’è già un’idea per il prossimo anno. Il consiglio d’istituto ha pensato di riproporre la foto sotto forma di attività facendola fare ai ragazzi più grandi: un percorso che avrà una valenza didattica ed educativa che andrà oltre il ricordo. Contrario alla decisione presa è Vincenzo Squeo, rappresentate di classe della scuola: “In aprile ho fatto richiesta per avere il fotografo in classe. È stata negata con la motivazione che la foto di classe non rientra nel piano dell’offerta formativa e che non si possono favorire attività private all’interno dell’edificio. A quel punto il consiglio d’istituto ha indetto una sorta di bando per identificare un professionista per fare il servizio. Giovedì scorso avremmo dovuto fare la foto ma le insegnanti mi hanno detto che la dirigente non aveva dato l’autorizzazione. Di là di tutto la questione della privacy è risolvibile con l’autorizzazione data dai genitori. Se ci sono mamme o papà che condividono sui social quella foto non è certo responsabilità della scuola”. Intanto per quest’anno i genitori si vedono costretti a contattare la proprietaria di un parco vicino alla scuola per fare la foto fuori dall’orario di lezione. A dare una mano ai genitori è Filomena Albano, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza: “Ciascuna scuola è libera di determinarsi rispetto alle attività da svolgere all’interno dell’istituto. In termini più generali si può dire che le fotografie di classe sono destinate a divenire ricordi di momenti piacevoli di gruppo e di condivisione, in cui i bambini sono ritratti in contesti positivi. Se c’è il consenso dei genitori e i ragazzi sono d’accordo lo scatto può avvenire tranquillamente. È importante che le persone di minore età siano ascoltate rispetto alla loro volontà di essere o meno fotografate, come prevede la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che stabilisce il divieto di interferenze arbitrarie nella vita privata”.

Foto a scuola, c’è un nuovo caso: anche a Fiumicello scatti vietati. La protesta dei genitori degli alunni delle medie: così ci viene negato un bellissimo ricordo. L’istituto precisa: bisogna rispettare la privacy, basta firmare la liberatoria che ancora non c’è, scrive Elisa Michellut il 9 giugno 2018 su "Il Messaggero Veneto". Dopo Cervignano scoppia il caso Fiumicello, dove i genitori sono sul piede di guerra. Ieri, alle scuole medie, si è concluso l’anno scolastico senza le foto di classe. Le famiglie puntano il dito contro la scuola ma il preside spiega che è necessario richiedere una liberatoria poiché la fotografia di classe non rientra nelle attività didattiche. «I problemi sono altri – si sfoga una mamma -. Ogni anno, l’ultimo giorno di scuola, venivano fatte le foto di classe. Era un bellissimo ricordo, una tradizione e un’occasione per immortalare un momento felice. Ora è stato vietato anche questo. Pare che le autorizzazioni dei genitori, rilasciate all’inizio dell’anno, non siano valide». Un'altra mamma aggiunge: «Nel mio album dei ricordi ho ancora la foto di classe. Sono passati tanti anni eppure mi fa sempre piacere ricordare i tempi della scuola e i miei insegnanti. Ora abbiamo tolto ai nostri figli anche questa possibilità in nome della legge sulla privacy. Nel frattempo, sui social network pullulano fotografie di ogni tipo». Il dirigente scolastico, Aldo Durì, spiega che in tutte le classi e le sezioni delle scuole afferenti al comprensivo Don Lorenzo Milani è stato rispettato il tradizionale rito delle foto ricordo. Tutte, tranne la scuola media di Fiumicello. «È una cerimonia cui genitori e alunni tengono moltissimo e non senza ragione – le parole del preside -. Nessun problema da parte della direzione, salvo il rispetto delle norme sulla privacy, che si son fatte più stringenti con la recente approvazione dei regolamenti europei. Fermo restando che all’atto dell’iscrizione i genitori sottoscrivono una liberatoria per l’utilizzo delle immagini che ritraggono gli alunni impegnati nell’attività didattica, in questo specifico caso, che non rientra nel quadro della documentazione pedagogica, il preside richiede prudenzialmente una liberatoria ulteriore, che tutte le famiglie sottoscrivono di buon grado». Unica eccezione, ribadisce il dirigente, la scuola media di Fiumicello. «Giovedì, alle 8 – dichiara Durì - si è presentato a scuola un signore, che si è presentato come fotografo e che pretendeva di fotografare le classi. Nessuno era al corrente dell’iniziativa, forse concordata con un insegnante che ha agito senza consultare nessuno. La coordinatrice ha spiegato che si può fare ma solo in presenza di una liberatoria firmata dai genitori. L’iniziativa, anche se improvvisata, si poteva fare il giorno seguente. Massima disponibilità. Il sospetto è che si tratti di una provocazione studiata per guadagnarsi un po’ di visibilità. La scuola si preoccuperà, nei prossimi giorni, di produrre le foto ricordo e fornirle alle famiglie che ne faranno richiesta».

Regolamento europeo Privacy: non cambia nulla per foto minori, scrive l'8/06/2018 Gianfranco Scialpi su "Tecnicadellascuola.it". Foto minori nel Web, cosa cambia con l’introduzione del nuovo regolamento europeo per la protezione dei dati? Praticamente nulla. Eppure… Foto minori nel Web, partiamo da lontano. Sono solito ad inquadrare il problema! Ad allargare la visuale fino a contemplare il quadro e meno il particolare (=il caso). In questo modo si è liberi da condizionamenti. Detto questo, il minore è tutelato da convenzioni, leggi internazionali e locali. Il primo riferimento è La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991 n. 176. L’articolo 3 può essere definito il fondamento di tutto il documento. Si legge: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente.” Nello specifico e nel nostro caso il riferimento è l’art. 16 che recita: “Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti”. Detto in altri termini: le foto e i video, che svelano alcuni dati della sua privacy, non possono essere pubblicate “ipso facto”, considerando la possibilità che attraverso la condivisione possono ledere la sua reputazione e la sua dignità. Questi principi sono nella   nostra Costituzione e precisamente all’art. 31 che sancisce l’’infanzia e non solo come un’età che deve essere protetta.

Scendiamo di livello…Da questi principi discendono l’attenzione e la cura che devono essere rivolte al minore. Atteggiamenti che devono essere più stringenti in caso di pubblicazione di materiale fotografico nel Web. Quest’ultimo rappresenta una grande opportunità di interazione e condivisione di materiale (2.0) finalizzato alla formazione culturale. E non solo. Di contro esiste un vasto mondo virtuale (Deep Web) non rilevato dai comuni motori di ricerca (90%) dove accanto a interessi leciti, ne esistono altri, come i siti pedopornografici, store dove si vendono farmaci, droghe, armi, applicazioni che garantiscono l’anonimato. Ecco le ragioni che hanno spinto il Garante della Privacy (dicembre 2016) a formalizzare il criterio della prudenza nella pubblicazione di foto o video nel Web. Si legge a pag. 21: “Va però prestata particolare attenzione alla eventuale pubblicazione delle medesime immagini su Internet, e sui social network in particolare. In caso di comunicazione sistematica o diffusione diventa infatti necessario, di regola, ottenere il consenso informato delle persone presenti nelle fotografie e nei video”. Ora questo consenso può essere dato solo da chi esercita la patria genitoriale. In altri termini dai due genitori, anche se separati o divorziati (Sentenza tribunale Mantova 19 settembre 2017).

Regolamento europeo sulla Privacy, nulla cambia! Il 25 maggio è entrato in vigore il Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali. Documento lungo e complesso. In sostanza reitera continuamente i principi del trattamento, del consenso e delle sanzioni. E’ stringente sulle procedure, confermando però la necessità di un consenso genitoriale al trattamento dei dati dei minori o alla loro divulgazione attraverso immagini o video. Lo si evince indirettamente da questo passaggio a pag. 7: “I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali. Tale specifica protezione dovrebbe, in particolare, riguardare l’utilizzo dei dati personali dei minori a fini di marketing o di creazione di profili di personalità o di utente e la raccolta di dati personali relativi ai minori all’atto dell’utilizzo di servizi forniti direttamente a un minore. Il consenso del titolare della responsabilità genitoriale non dovrebbe essere necessario nel quadro dei servizi di prevenzione o di consulenza forniti direttamente a un minore.” Detto questo non si comprende l’ansia di qualche Dirigente Scolastico diretta ad eliminare o oscurare questo materiale da siti, pagine social afferenti la scuola.

Alcune indicazioni. Premessa la necessità di centellinare queste pubblicazioni, è indispensabile che l’Istituto faccia firmare ad entrambi i genitori una liberatoria ben articolata (trasparenza, legittimità, proporzionalità), richiedendo anche la fotocopia dei loro documenti. Non è sufficiente! La cautela istituzionale deve concretizzarsi possibilmente nella protezione di materiale in aree riservate (siti) o in pagine social con impostazioni della privacy non “pubbliche”. Infine, è consigliabile evitare di riprendere singoli minori. E’ preferibile la modalità gruppo, dove quest’ultimo è ripreso almeno in secondo piano. Ovviamente la lista non termina qui. Le suddette indicazioni, però, costituiscono il minimo che deve caratterizzare una istituzione formativa statale. E non solo!

Foto per strada e privacy: cosa prevede la legge? Scrive il 27 dicembre 2017 "Legge per tutti". Foto di nascosto a una persona o ai passanti: cosa rischia il fotografo che, con lo smartphone o la camera, filma o immortala chi non ha dato prima il consenso. Un tempo si usciva di casa con la spada. Oggi con lo smartphone. Il cellulare è diventato un oggetto di difesa e di attacco. E se anche ad essere in pericolo non è più la tua vita, ma la privacy, le conseguenze a volte non sono meno lesive. Hai mai pensato a quante volte, senza volerlo, sei “entrato” in una foto scattata da altri a monumenti, strade, musei, cortei ove ti trovavi? Tutte le volte in cui sei stato ad una conferenza, a un evento o a una festa e qualcuno ha usato il cellulare per fare un video o scattare una foto, è molto probabile che tu sia stato ripreso e che ora il tuo volto sia da qualche parte su internet. Se un tempo gli scatti restavano dentro gli album fotografici di famiglia e si traducevano in documenti “analogici” (la carta fotografica), ora invece le foto sono documenti digitali, pubblicati sui social e sottoposti ai software di riconoscimento facciale. In altre parole se anche tu stesso non sai di essere stato fotografato lo potrebbe sapere un motore di ricerca o Facebook. Un domani che questi software verranno potenziati e la loro capacità di mettere in relazione persone e immagini sarà totale, la tua riservatezza potrebbe essere a serio rischio. Vuoi davvero lasciare un’arma di questo tipo nelle mani di sconosciuti? Se anche non puoi fermare il corso della tecnica e della scienza, puoi nel frattempo sapere quali sono oggi i tuoi diritti e se esistono limiti alla possibilità di scattare fotografie agli sconosciuti. In questo articolo cercheremo di riassumere cosa prevede la legge per quanto riguarda le foto per strada e la privacy. Ma procedimento con ordine.

Il doppio consenso alla fotografia. Ogni volta che si scatta una fotografia, sia essa in un luogo pubblico o privato, bisogna chiedere sempre il consenso a tutti coloro che entrano nell’obiettivo. Il consenso non deve essere necessariamente scritto, ma può essere fornito anche con comportamenti inequivoco come il semplice fatto di mettersi in posa davanti alla fotocamera. Se l’autore della foto vuol poi pubblicare l’immagine su un social deve chiedere un secondo e autonomo consenso. Chi ha autorizzato lo scatto non è detto infatti che autorizzi anche il caricamento dell’immagine su un internet. Anche in questo caso il consenso può essere desunto da comportamenti concludenti come, ad esempio, la condivisione dell’immagine sul proprio profilo Facebook. Se il consenso allo scatto non può più essere revocato (essendo un fatto storico che ormai si è consumato e non torna più indietro), può invece esserlo – in qualsiasi momento e senza termini – quello alla pubblicazione. Così, se inizialmente autorizzo la pubblicazione di una mia immagine su un social network posso poi chiedere che la stessa venga rimossa o oscurata.

Fotografie fatte a persone famose. Regole diverse riguardano le persone famose come volti dello spettacolo, del cinema, della televisione, politici, scienziati, ecc. Per loro, infatti, vige una privacy più attenuata. Difatti, è possibile fotografarli nel rispetto delle seguenti condizioni: lo scatto deve essere effettuato in luoghi pubblici o luoghi aperti al pubblico: ad esempio per strada, in un negozio, in un ristorante o in occasione di una manifestazione; non è legale la foto scattata dal paparazzo che sia riuscito a intrufolarsi nell’ufficio del personaggio noto; lo scatto non deve recare offesa all’onore, alla reputazione o al decoro della persona ritratta: ad esempio, è illecita una foto a un personaggio famoso subito dopo un incidente stradale che lo ha visto coinvolto. Rispettando questi limiti la fotografia può anche essere venduta a terzi (è il caso del fotografo che cede i propri scatti alle agenzie).

Fotografie in occasione di eventi. Non c’è bisogno dell’autorizzazione della persona ritratta nella foto (salvo che si tratti di minorenne) se lo scatto viene eseguito in occasione di avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico cui quest’ultima abbia partecipato [2]. Ad esempio, se una persona fa una foto ad un corteo, i presenti non posso vietare lo scatto. È tuttavia necessario che la persona apparsa sulla foto non sia il vero e proprio soggetto dello scatto e l’evento solo l’occasione, ma viceversa; ad esempio, se un fotografo riprende un particolare di uno spettatore che, durante una rappresentazione teatrale, si mette le dita nel naso o si addormenta e russa non può pubblicare l’immagine senza il suo consenso di quest’ultimo. Insomma, i partecipanti all’evento devono essere solo lo “sfondo” dell’evento stesso”, uno degli elementi del fatto storico in sé e non i veri e propri soggetti. Non si può sfruttare un’occasione pubblica per scattare foto ai volti delle perone in modo da aggirare la necessità del loro consenso. In ogni caso, perché la foto di uno sconosciuto sia lecita non è sufficiente che sia fatta in occasione di avvenimenti e cerimonie, ma è necessario che le stesse si svolgano in un luogo pubblico o aperto al pubblico. Una festa privata ad esempio non consentirebbe al fotografo di scattare immagini. Cosa si intende per luogo pubblico o aperto al pubblico? È «pubblico» un luogo al quale si possa accedere liberamente e senza limitazioni (ad esempio un giardino pubblico, una piazza, una strada) mentre è luogo aperto al pubblico un posto di proprietà privata al quale l’accesso sia consentito secondo le condizioni dettate dal proprietario o dal gestore (ad esempio il cinema, il teatro, il centro commerciale, il bar e via dicendo).

Fotografie e giornalismo. La legge non richiede il consenso dell’interessato (salvo che si tratti di minorenne) quando la foto viene scattata per ragioni di carattere culturale, scientifico o, più in generale, giornalistico. Attenzione però: quando si parla di giornalismo si intendono solo le testate registrate in tribunale e aventi il carattere del giornale tradizionale (periodicità di pubblicazione, professionalità, ecc.). Non fa giornalismo l’autore del blog su internet che pubblica le immagini dei passanti su una strada nell’ambito di un articolo, ad esempio, dedicato allo shopping natalizio.

Fotografie per strada. Lo scatto fatto per strada ai passanti senza che vi siano particolari avvenimenti, manifestazioni, feste popolari, ecc. è illegale. E ciò anche se la strada, una piazza o un marciapiede sono luoghi pubblici. Quindi, non è lecito fotografare le persone per strada a loro insaputa; tantomeno lo è pubblicare gli scatti su internet. Anche quando l’intenzione del fotografo non è fotografare il viandante ma il panorama, la via o un palazzo, se una persona entra nello scatto ed è perfettamente riconoscibile va oscurata o cancellata a sua richiesta. Se applicassimo però, alla lettera, questa regola si avrebbe che in nessuna strada o piazza si potrebbe scattare una foto a meno che non sia completamente deserta, il che è ovviamente impossibile. Allora, per non commettere un illecito è sufficiente che i passanti non siano riconoscibili o, quantomeno, non siano l’oggetto principale della fotografia. Se una coppia si fa un selfie su una panchina del parco e, di sfondo, appaiono altre persone non commettono illecito, ma queste ultime possono comunque pretendere che l’immagine sia cancellata. Se una persona vuol scattare una foto a una strada cittadina non può chiedere a tutti i passanti di andare via, ma ben può fare lo scatto; non potrebbe però farlo se l’oggetto principale della sua foto è proprio il passante, magari mentre acquista la frutta al mercato o esce da un negozio con le buste dello shopping.

Foto fatte da investigatori privati. Se è vero che la foto a una persona che cammina per strada è vietata senza il suo consenso, allora perché i detective privati possono fare indagini, munirsi di un obiettivo con zoom e scattare foto all’insaputa degli altri? La ragione è sempre: uno dei casi in cui la legge consente le foto senza l’autorizzazione dell’interessato è quello della finalità di giustizia. Per cui se l’investigatore viene assoldato per recuperare le tracce di un altrui illecito da produrre in una causa (un tradimento, un dipendente che ha presentato un falso certificato di malattia, ecc.), il suo comportamento non è vietato e le immagini possono essere utilizzate come prova nel processo davanti al giudice. Ad esempio, il datore di lavoro può far fotografare un dipendente in malattia o durante i giorni di permesso per vedere se le giustificazioni rilasciate all’azienda siano veritiere o meno e, in quest’ultimo caso, procedere al licenziamento. Le fotografie così ottenute possono essere utilizzate in causa nel caso di contestazione del suddetto licenziamento. L’azienda non può fotografare i dipendenti nel corso della loro attività lavorativa per verificare la qualità della prestazione eseguita, poiché vietato dallo Statuto dei lavoratori. Allo stesso modo l’agente assicurativo può fotografare il cliente per verificare che l’invalidità per cui questi ha presentato richiesta di risarcimento sia vera o fittizia. In ogni caso, il soggetto non deve mai essere minorenne.

Foto di situazioni imbarazzanti. La foto è ancor più vietata quando mette in imbarazzo il soggetto immortalato, anche se lo scopo è umanitario, di sensibilizzazione della società o di denuncia. Tanto per fare un esempio, secondo la Cassazione, pubblicare la foto di un mendicante, senza la sua autorizzazione, costituisce reato di diffamazione. La coscienza comune, infatti, pone questi soggetti in uno dei gradini più bassi della cosiddetta scala sociale e, pertanto, è naturale che chi sia costretto dalla necessità a praticare la carità si senta mortificato e gravemente ferito nella sua onorabilità. Dunque, l’eventuale pubblicazione della sua immagine sarebbe per lui fonte di una sicura diffamazione. La Corte ha poi dato un suggerimento ai fotografi: quando le esigenze di cronaca impongono la pubblicazione di immagini di persone in qualche modo coinvolte in fenomeni su cui grava un pesante pregiudizio della collettività, è necessario sgranare la foto o coprire il volto della persona ritratta per renderla non identificabile. Ciò al fine di evitare che si crei un preciso collegamento tra il fenomeno in generale e la persona fisica, evitando per quest’ultima il conseguente disonore sociale.

Foto di bambini e minori. Inutile dire che se le foto di adulti sono vietate, lo sono ancor di più quelle dei minori. A riguardo, però, le sanzioni sono più elevate per via del fatto che si tratta di soggetti indifesi. Anche l’entità del risarcimento del danno riconosciuto al genitore è superiore rispetto a quello che potrebbe scattare per una foto fatta a un adulto senza il suo consenso, e ciò a prescindere dall’eventuale lesione prodotta dallo scatto.

Si può fotografare la polizia o i carabinieri? È lecito fotografare un poliziotto o un carabiniere o qualsiasi altro pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni (si pensi, ad esempio, alla volante della municipale impegnata nelle operazioni di rilevamento della velocità tramite autovelox, le forze militari durante una parata, i poliziotti in un posto di blocco, i carabinieri mentre arrestano qualcuno). L’importante è che le operazioni non siano coperte da segreto istruttorio. Lo stesso dicasi per qualsiasi altro pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni: ad esempio un controllore dell’autobus mentre verifica i biglietti dei passeggeri. Nello stesso tempo non è possibile fotografare tali soggetti quando sono in borghese, ossia fuori dall’esercizio delle proprie funzioni.

Che si rischia a pubblicare le foto di altre persone? La legge sulla privacy punisce con la reclusione fino a due anni chi esegue un illecito trattamento di dati personali tramite internet. È proprio il caso di chi pubblica la fotografia del volto di un altro soggetto senza il suo consenso. Lo scopo della pubblicazione deve però essere quello di trarne profitto e di arrecare un danno alla vittima, ma questa espressione è stata interpretata in senso lato dalla giurisprudenza, secondo cui è sufficiente – ai fini del reato – un semplice fastidio o un turbamento alla vittima. Insomma, il penale scatta anche senza che vi sia un danno di natura patrimoniale. Se la pubblicazione illecita dell’immagine o del video offende la reputazione di chi vi è ritratto, chi l’ha diffusa, oltre a dover risarcire il danno, deve rispondere anche del reato di diffamazione aggravata e rischia la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro. Quando l’attività investigativa avviene all’interno della proprietà privata della persona oggetto del pedinamento: in tal caso scatta il reato di illecita interferenza nella vita privata. Nel caso in cui un privato pubblichi un’immagine altrui senza aver ottenuto il consenso di chi vi è ritratto, commette un illecito di natura esclusivamente civile (non quindi un reato) e l’interessato può chiedere al Tribunale di ordinare all’autore della pubblicazione o al gestore dello spazio online la cancellazione immediata delle immagini o dei video. Se poi la pubblicazione delle immagini ha provocato un danno (anche solo morale) a chi vi è ritratto, questi può chiedere il risarcimento. Il risarcimento e la rimozione possono essere richiesti anche dai genitori, dal coniuge o dai figli della persona ritratta.

A SCUOLA LIBRI FAZIOSI E SINISTRI.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

È morto lo storico Rosario Villari, sui suoi libri si sono formate generazioni di studenti. Lo studioso aveva 92 anni, era stato anche deputato del Partito comunista. Domani a Cetona si terrà una cerimonia omaggio organizzata dal Comune, scrive Raffaella De Santis il 18 ottobre 2017 su "La Repubblica". Rosario Villari, morto all’età di 92 anni, non era certo il tipico storico accademico che disdegnava il dibattito pubblico. La sua vita di studioso è al contrario stata accompagnata fin dalla giovinezza dalla passione politica e dall’attenzione ai problemi sociali. Villari era un uomo del sud, nato a Bagnara Calabra (Reggio Calabria), dove aveva partecipato ai movimenti dei contadini per la riforma agraria. Il Sud, la questione meridionale, le tematiche dello sviluppo, sono stati alcuni dei temi centrali dei suoi saggi, tra cui “Mezzogiorno e contadini nell’età moderna” (Laterza, 1961) e “Il Sud nella storia d’Italia” (Laterza 1961, seconda edizione aggiornata, 1978). Era uno storico di formazione marxista, anche se di un marxismo aperto, mai ortodosso, riformista. Era stato membro del Comitato centrale del Partito comunista e deputato dal 1976 al 1979. Ma a Firenze, ai tempi dell’università, aveva seguito le lezioni di un filosofo controcorrente come Galvano Della Volpe, che faceva dialogare materialismo e esistenzialismo. Non è un caso che Villari abbia spesso preso posizioni coraggiose. Come quando ha polemizzato con Eric J. Hobsbawm, lo storico del “Secolo breve”, icona di successo della storiografia di sinistra: “La ricerca storica ha regole e modi diversi dall’azione politica”. Villari, studioso dell’età barocca e autore di saggi fondamentali come “La rivolta antispagnola a Napoli” (1967), era noto soprattutto per i suoi manuali di storia, sui quali hanno studiato generazioni di studenti.  La prima edizione era stata pubblicata da Laterza alla fine degli anni Sessanta, vendendo due milioni di copie. Lo storico l’aveva anni dopo rivista e aggiornata. Lo aveva fatto spinto dai cambiamenti del mondo che osservava intorno a sé, dando più spazio al tema della formazione dell’Europa. Sosteneva che la complessità del mondo contemporaneo lo aveva costretto a rielaborare molte categorie, tra cui quelle di “progresso”, “utopia” e “rivoluzione”. Un nuovo capitolo del manuale riguardava la storia dei partiti comunisti occidentali, ben diversi, spiegava Villari, da quelli sovietici. Ma proprio quei manuali, scritti con un’attenzione massima alla storia sociale, finirono sotto gli strali della destra berlusconiana, accusati di essere simbolo dell’egemonia culturale di sinistra. Villari, che dell’egemonia gramsciana aveva un’altra considerazione, non si scompose e difese il pluralismo dei suoi testi: “Io so che il giudizio storico nasce solo dalla libera ricerca svolta in una dimensione internazionale, nasce dal libero confronto delle idee, che la scuola deve recepire con la più piena e completa autonomia”. Per poi liquidare la questione con un invito: “Vogliono scrivere altri testi? Li scrivano ma lascino poi agli insegnanti piena autonomia nella scelta”. Per Villari la storia era movimento, apertura, nei limiti del rigore storiografico. Lo impauriva quella che definiva la “frammentazione e trivializzazione della storiografia” e anche un certa spettacolarizzazione dilagante. Una curiosità: Villari era anche un appassionato di letteratura. I suoi esordi erano stati sulle pagine del “Politecnico” di Elio Vittorini, come autore di una poesia e tre racconti. Per ricordarlo, domani a Cetona si terrà una cerimonia omaggio organizzata dal Comune.

Morto Rosario Villari, autore del celebre manuale di Storia (che dimenticò le foibe). Generazioni di studenti se lo ricordano soprattutto per il manuale di Storia, utilizzato in migliaia di classi delle scuole superiori e università (due milioni di copie vendute), scrive Matteo Sacchi, Giovedì 19/10/2017, su "Il Giornale". Generazioni di studenti se lo ricordano soprattutto per il manuale di Storia, utilizzato in migliaia di classi delle scuole superiori e università (due milioni di copie vendute). Ma Rosario Villari, storico di impostazione marxista morto ieri a 92 anni, era soprattutto un esperto di storia barocca. Tutti i suoi contributi scientifici più rilevanti erano relativi al Regno di Napoli nel corso dell'età moderna. Tra questi vanno ricordati Mezzogiorno e contadini nell'età moderna e La rivolta antispagnola a Napoli (Laterza 1967, poi ampliato nel 2012). Erano per l'epoca studi innovativi, soprattutto il secondo, che metteva in rilievo le componenti sociali ed economiche che avevano portato alla sollevazione «capeggiata» da Masaniello, spogliandole delle incrostazioni romantiche che vi aveva sovrapposto la storiografia risorgimentale. Lavori che gli avevano consentito di affermarsi all'estero e di diventare visiting professor a Oxford e Princeton. A quell'impostazione marxista, che schiaccia sul concetto di classe epoche caratterizzate da ceti e da una marcata dimensione non «economica», Villari continuò a restare legato anche quando iniziò ad apparire datata. Essa caratterizzò anche i suoi manuali scolastici, che davano largo spazio alla storia sociale. Ma che su determinati temi erano ferocemente selettivi (limite che non fu solo di Villari ma di una generazione di storici). Quindi Villari finì sotto accusa sul finire degli anni '90 per pesanti omissioni presenti nei testi: tanto per dire, la parola «foibe» era praticamente ignorata. C'è anche chi lo ha accusato di preconcetti antiborbonici. Di certo nella sua impostazione ebbe largo peso la militanza: fu membro del Comitato centrale del Pci. Ma i suoi testi sulla politica barocca restano di alto livello scientifico.

I libri di storia sono faziosi? Lo decidano gli insegnanti, scrive Alessandro di Nuzzo giovedì 12 Settembre 2002 su Kataweb. Torna alla ribalta - ormai periodicamente, si potrebbe dire - la polemica sui libri di testo "faziosi". Al di là delle prese di posizione, dei commenti espressi da fonti più o meno competenti, dei botta e risposta fra storici e politici, vediamo di capire qual è la sostanza della discussione. "Faziosi" sarebbero alcuni manuali di storia fra i più in uso nei licei e nelle scuole superiori italiane. Naturalmente la faziosità non riguarda periodi storici lontani e incerti come l'età antica o il Medioevo: non è in discussione il modo in cui vengono trattate la Guerra delle Due Rose, o lo scontro fra Ugonotti e Cattolici in Francia. L'accusa è tutta concentrata su un momento particolare e cruciale della storia contemporanea del nostro Paese, e cioé il periodo che va dal 1943 alla fine della seconda guerra mondiale e all'immediato dopoguerra. In sostanza, dunque, la faziosità riguarda il delicato capitolo Resistenza-Liberazione-Dopoguerra. I capi d'accusa rivolti ai manuali di storia sembrano essere essenzialmente tre: 1) Nessun accenno ai cosiddetti "delitti del dopoguerra" nel Nord Italia, e cioé alle vendette politiche e/o private che sarebbero state compiute dai "vincitori" all'indomani del conflitto 2) in particolare, nessun accenno alla tragica pagina delle "foibe" 3) una visione unilateralmente eroica e gloriosa della Resistenza. Quali sarebbero, poi, in concreto questi libri "incriminati" non è molto chiaro: la lista non è sempre univoca. Di certo pare di capire ci siano il Camera-Fabietti (libro un po' datato, per la verità, e non solo per quel che riguarda la storia contemporanea); il Villari; in qualche modo anche il Giardina, per quanto qui l'accusa sia più sfumata, forse anche per la difficoltà di affibbiare un'etichetta di "estremisti di sinistra" ai suoi autori. Se qualcuno dunque ha voglia di farsi un'idea propria e più precisa sulla questione, può prendere questi tre manuali in una qualsiasi biblioteca scolastica, leggerli e confrontarli. A noi la questione suggerisce almeno tre piccole considerazioni. 

1) L'oggettività di indagine e di giudizio è uno dei grandi problemi della ricerca storica: connaturato, si potrebbe dire, alla storiografia. Ma più in generale alla letteratura e alla cultura umanistica tout court. Forse Dante non è "fazioso", quando parla di storia contemporanea? O non lo è il Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica? Se dobbiamo fare un'educazione al giudizio critico e alla parzialità delle fonti (e anche dei documenti, perché no?), dobbiamo farla per tutti i grandi argomenti di storia. Dunque dobbiamo e possiamo farla anche sui manuali, che sono fonti indirette anch'essi, e non sono certamente, si spera per nessuno, testi inviolabili. In altre parole, è l'insegnante, come sempre, che ha il diritto-dovere di filtrare i testi didattici, e di proporne, sempre e comunque, un uso critico e integrato. 

2) La paura che gli studenti, con le loro giovani menti così deboli e facilmente plasmabili, possano essere inesorabilmente "plagiati" da certi libri di testo o da certi professori, è un mito duro a morire che non si sa se sia più stupido o interessato. Chiunque abbia frequentato le aule di scuola negli ultimi anni sa bene che il vero problema è quello di promuovere nei ragazzi un minimo di coscienza e di memoria storica. Il dato di partenza, lo sappiamo, è un'indifferenza generalizzata, di cui i ragazzi non sono tanto colpevoli quanto vittime. Dunque, come insegnante, sarei ben più contento di una accesa discussione in classe sui temi della Resistenza fra studenti "di destra" e di "sinistra", che di un deserto di stimoli e di emozioni. 

3) Un'ultima cosa, questa sul merito della questione e delle accuse di cui si diceva sopra. L'omissione di alcune pagine importanti e tragiche della storia contemporanea ci può essere stata, e la si può verificare e giudicare. La visione "eroica" della Resistenza potrà anche essere stata unilaterale, e aver tralasciato quei caratteri di guerra civile di cui gli storici più aggiornati (anche di sinistra) ci parlano da alcuni anni. Però il sospetto, ed è un sospetto forte, è che in discussione siano non tanto dei singoli punti, quanto una visione generale, più che storica, etica: l'impostazione antifascista, con tutti i valori, anche educativi, che questa si porta con sé. Allora qui la questione si fa molto chiara, e la domanda da fare ai revisori è: vogliamo mettere in dubbio, o cancellare, l'impostazione antifascista? L'antifascismo a scuola è un valore, sì o no? Lo dobbiamo insegnare, o no? 

Perché in tal caso, più che censurare Villari dovremo censurare i Costituenti. E dopo aver emendato un povero manuale di storia, saremo costretti ad emendare il più importante testo di storia dell'Italia contemporanea: la Costituzione repubblicana. 

DOSSIER FOIBE ED ESODO UNA STORIA NEGATA A TRE GENERAZIONI DI ITALIANI a cura di Silvia Ferretto Clementi. Tratto dal Dossier Foibe ed Esodo, curato da Silvia Ferretto Clementi, Consigliere Regionale della Lombardia. LE RESPONSABILITA' POLITICHE 

Il silenzio degli alleati. Per non inimicarsi la Jugoslavia che, all'epoca, in piena guerra fredda, faceva parte dei "Paesi non allineati, gli americani, così come i loro alleati non indagarono su ciò che gli Jugoslavi avevano compiuto durante la guerra, né pubblicizzarono quanto gli stessi continuarono a compiere nei periodi immediatamente successivi alla sua conclusione. La necessità di utilizzare la Jugoslavia come "paese cuscinetto" tra i due blocchi, per contrastare l'egemonia sovietica nei Balcani, fondamentale per gli Alleati, portò a scelte molto difficili che migliaia di italiani pagarono sulla loro pelle. Anche a "giochi finiti" non vi fu mai alcuna ammissione esplicita ed ufficiale di quanto "avallarono". Sarebbe stato infatti estremamente difficile riuscire a spiegare all'opinione pubblica mondiale per quale motivo gli Alleati, pur sapendo della pulizia etnica in corso nella Venezia Giulia, non intervennero per scongiurare o comunque mettere fine a quella tremenda carneficina. Ma non solo. Gli Alleati consegnarono al Maresciallo Tito, così come fecero con Stalin per coloro che fuggivano dai russi stessi, decine di migliaia di profughi, civili e militari, segnandone il tragico destino. Questi ultimi infatti, riusciti con enormi difficoltà a passare il confine sfuggendo alle persecuzioni comuniste, vennero barbaramente massacrati e costituirono l'ennesimo tributo degli anglo americani a Tito e Stalin.

Il Governo italiano. Anche i vari governi italiani del dopoguerra preferirono mettere a tacere questi fatti per non doversi confrontare su alcune imbarazzanti questioni legate ai debiti di guerra nei confronti dei privati. I beni espropriati agli abitanti delle zone interessate dall'esodo del dopoguerra non furono risarciti equamente, ma con avvilenti elemosine. Riprendere la questione avrebbe significato indennizzi definitivi agli esuli con fondi sottratti alla ricostruzione dell'Italia devastata dalla guerra; si preferì, quindi, accantonare il problema insabbiandolo.

Le responsabilità del Partito Comunista Italiano. Il PCI, che doveva a tutti i costi evitare di far entrare nella coscienza comune l'idea che alcuni dei suoi leader potessero aver dato un tacito appoggio agli autori degli infoibamenti e delle deportazioni, negò sempre, anche di fronte all'evidenza, quanto stava accadendo in quelle terre, tacciando di falso chi tentò di renderlo noto all'opinione pubblica. Studiando attentamente la documentazione e le informazioni sulla storia giuliana che stanno via via venendo alla luce, appare logica ed evidente la conclusione che il PCI fosse totalmente appiattito sulla posizione di Tito. Da un lato questo atteggiamento poteva essere spiegato con lo spirito internazionalista che caratterizzava il PCI, alimentato tra l'altro dalla comune ideologia e dalla necessità di combattere un comune nemico come il nazi-fascismo. Ma dall'altro non si può non rilevare che questa sudditanza contribuì notevolmente ad assecondare le mire espansionistiche di Tito nei confronti della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia. Questa sudditanza, infatti, favorì l'occupazione e la sottrazione di parte del territorio nazionale da parte della Jugoslavia e avallò la persecuzione della popolazione giuliano dalmata, che non risparmiò neanche antifascisti o compagni di partito contrari all'annessione slava. Indicativi la vicenda della strage di Porzus ed i numerosi casi di "delazioni utili" all'eliminazione di coloro che si opponevano al monopolio di Tito sul movimento partigiano. Significativa anche la lettera scritta dal vicepresidente dei Ministri Palmiro Togliatti il 7 febbraio 1945 al Presidente Ivanoe Bonomi, con la quale il leader comunista minacciò 25 persino la guerra civile se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia Giulia, impedendo così l'occupazione e l'annessione jugoslava. Mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al C.L.N.A.I. una comunicazione, in cui si invita il C.L.N.A.I. a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell'esercito partigiano jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera... è a prima vista evidente che una direttiva come quella che sarebbe contenuta nella comunicazione di Gasparotto è non solo politicamente sbagliata, ma grave, per il nostro paese. Tutti sanno, infatti, che nella Venezia Giulia operano oggi unità partigiane dell'esercito di Tito, e vi operano con l'appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s'intende, contro i tedeschi e i fascisti. La direttiva che sarebbe stata data da Gasparotto equivarrebbe quindi concretamente a dire al C.L.N.A.I. che esso deve scagliare le nostre unità partigiane contro quelle di Tito, per decidere con le armi a quale delle due forze armate deve rimanere il controllo della regione. Si tratterebbe, in sostanza, di iniziare una seconda volta la guerra contro la Jugoslavia. Questa è la direttiva che si deve dare se si vuole che il nostro paese non solo sia escluso da ogni consultazione o trattativa circa le sue frontiere orientali, ma subisca nuove umiliazioni e nuovi disastri irreparabili. Quanto alla nostra situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste, secondo le mie informazioni, segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da dare è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti. Solo se noi agiremo tutti in questo modo creeremo le condizioni in cui, dimenticato il passato, sarà possibile che le questioni della nostra frontiera siano affrontate con spirito di fraternità e collaborazione fra i due popoli e risolte senza offesa nel comune interesse. …credo sia bene ti abbia precisato qual è il proposito della nostra posizione, la sola, io ritengo, che rifletta i veri interessi della Nazione italiana. Soltanto a questa posizione corrisponderà l'azione del nostro partito nella Venezia Giulia e non a una direttiva come quella accennata, soprattutto poi se emanata senza nemmeno la indispensabile previa consultazione del Gabinetto. L'atteggiamento del PCI nei confronti dei profughi giuliani, in linea con la posizione dei compagni slavi, fu di condanna totale e coloro che fuggirono dal comunismo vennero additati come fascisti. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.

L'ostilità del partito si manifestò anche con atti di perfidia. Famosa in tal senso fu la manifestazione di ostilità dei ferrovieri di Bologna, i quali, per impedire che un treno carico di profughi provenienti da Ancona potesse sostare in stazione, minacciarono uno sciopero. Il treno non si fermò e a quel convoglio, carico di umanità dolente, fu rifiutata persino la possibilità di ristorarsi al banchetto organizzato dalla Pontificia Opera Assistenza. I "comitati d'accoglienza" organizzati dal partito contro i profughi all'arrivo in Patria furono numerosi. All'arrivo delle navi a Venezia e ad Ancona, gli esuli furono accolti con insulti, fischi e sputi e a tutti furono prese le impronte digitali. A La Spezia, città dove fu allestito un campo profughi, un dirigente della Camera del lavoro genovese durante la campagna elettorale dell'aprile 1948 arrivò ad affermare "in Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani". Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l'ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d'origine perché temono d'incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali. Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. Non possiamo coprire col manto della solidarietà coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con l'assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli. Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici. L'unica piccola concessione che venne fatta dal quotidiano fu il riconoscimento che, in effetti, tra coloro che fuggirono vi potessero essere anche persone non criminali, terrorizzate, però, non tanto dagli orrori subiti o di cui furono spettatori, bensì "da fantasmi". Ma dalle città italiane ancora in discussione, non giungono a noi soltanto i criminali, che non vogliono pagare il fio dei delitti commessi, arrivano a migliaia e migliaia italiani onesti, veri fratelli nostri e la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere. Vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte. È doveroso precisare che i profughi non crearono mai, in nessun luogo dove trovarono rifugio, problemi di criminalità. Al contrario si distinsero per la laboriosità e per il rispetto delle leggi. Il PCI ha enormi responsabilità anche nella vicenda dei loro più fidati compagni di partito, come lo furono gli operai monfalconesi (e non solo per aver organizzato un controesodo allo scopo di fornire manovalanza specializzata ai compagni slavi), bensì perché, dopo aver fatto leva sui loro sogni, sulla loro passione, sul loro entusiasmo e sulla loro buona fede, li ha dapprima abbandonati nel gulag di Goli Otok e poi, ai superstiti che riuscirono a rientrare in Italia, ha riservato un crudele trattamento. Queste persone furono, infatti, trattate come una vergogna da nascondere, fastidiosi testimoni di un fallimento che a molti costò non solo la perdita di un sogno romantico a cui avevano dedicato l'intera esistenza, ma la vita stessa. L'atteggiamento di acquiescenza ed omertà verso i crimini commessi dai "compagni slavi" del PCI è proseguito nell'immediato dopo guerra, ma anche nei decenni successivi. Un indirizzo politico fatto proprio anche da numerosi storici vicini al partito.

Il dibattito sulla faziosità dei libri di testo. Il dibattito sui libri di testo faziosi ebbe inizio solo nel febbraio del 1997 quando, in occasione del cinquantenario del Trattato di Pace, il ''Comitato per il diritto alla verità storica" promosso da Marcello De Angelis61 e da Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, organizzò a Roma, insieme a numerose organizzazioni di esuli, un sit-in ''per denunciare la vergognosa latitanza dello Stato italiano nella difesa e nella memoria delle terre perdute", citando esplicitamente l'esempio delle foibe. In quell'occasione emerse che nei principali manuali di storia in uso presso i licei non si faceva menzione "della più grande tragedia che ha colpito il nostro popolo in questo secolo: il genocidio subito dagli italiani della Venezia Giulia ad opera dei partigiani comunisti slavi''. Gli esponenti di "Area" citarono alcuni dei più diffusi manuali di storia e sostennero che la mancanza di notizie sulle foibe era una chiara dimostrazione che ''sono scritti da storici faziosi o incompetenti ''.(62) Una petizione per la messa al bando dalle scuole dei testi in questione, inoltre, alla quale avevano aderito in molti, venne inviata al ministro Luigi Berlinguer. Contro le iniziative di Alleanza Nazionale, che dalla Regione Lazio si estendevano un po' in tutte le regioni, furono sottoscritti anche numerosi appelli. "Giustizia e libertà" raccolse migliaia di firme con un appello (riportato di seguito) scritto da Umberto Eco e firmato anche da Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Enzo Biagi, Alessandro Galante Garrone, Franzo Grande Stevens, Claudio Magris, Guido Rossi, Giovanni Sartori, Umberto Veronesi. I Garanti di "Libertà e Giustizia" assistono con viva preoccupazione alla proposta ventilata in commissione parlamentare di un controllo esercitato dal Ministero della Pubblica Istruzione sui manuali di storia per le Scuole. Rilevano che l'idea di un controllo governativo sulle idee espresse da libri di testo evoca stagioni evidentemente non ancora remote, in cui i regimi fascista, nazista e stalinista esercitavano tale diritto censorio, e giudicano l'idea indegna di un paese democratico. La responsabilità della stesura dei libri di testo compete agli editori e agli autori e la responsabilità della loro adozione compete agli insegnanti, alla cui oggettività e senso critico si delega il compito di giudicare se un testo sia valido, e in che misura possa essere eventualmente criticato e integrato in sede di lezione, addestrando così gli studenti non solo ad apprendere ma anche a giudicare le loro fonti di apprendimento. Questo è l'unico controllo che in un paese libero si può e si deve esercitare sui manuali scolastici. …si confida che la proposta rimanga semplicemente nel limbo delle cattive intenzioni. Tuttavia non si può fare a meno di rilevare che il fatto stesso che qualcuno l'abbia ventilata suscita serie preoccupazioni sullo stato di salute del nostro sistema democratico. Altri appelli per contrastare le "campagne contro i libri di testo faziosi" vennero sottoscritti anche da numerosi esponenti politici, sindacalisti, professori universitari, scrittori e associazioni.

Le opinioni degli storici. Giorgio Spini, chiamato in causa dalla rivista ''Area'', che lo citò tra gli storici ''faziosi o incompetenti o tutte e due le cose insieme'', si difese parlando di ''sciocchezze che si condannano da sole'' e di polemica ''messa su un piano inaccettabile e con un linguaggio che rivela la matrice nazista. E coi nazisti, che purtroppo esistono, non si discute''. Per quel che riguarda il discorso storico sulle foibe, che, secondo Spini, i manuali comunque affrontano, egli invitò a (…) ricordarci di tutte le aggressioni e atrocità commesse dagli italiani nell'ultima guerra a cominciare da quelle seguite alla conquista fascista dei Balcani. L'atroce reazione, che nessuna persona civile può approvare, con infoibamento di italiani, spesso innocenti, venne appunto dopo che furono gli italiani a gettare nelle foibe in notevole quantità i balcanici. Aggiungendo anche che, se dopo la guerra (…) ci fu in Italia tendenza a oscurare un po' quegli avvenimenti, fu perché altrimenti avremmo dovuto consegnare come criminali di guerra gli italiani che lì si erano macchiati di orrendi delitti. Un'ammonizione chiara a chi volesse rivisitare la storia in quel modo. Gabriele De Rosa, dopo aver messo in guardia l'opinione pubblica dal rischio dei "roghi", si dichiarò disponibile ad un confronto sui temi proposti, ma non a rispondere ad una condanna di precisa provenienza politica e ideologica, assolutamente illegittima. Sostenne inoltre che, considerato che i manuali parlavano di quel periodo, per tornarci sopra con più chiarezza bisognava ricordarsi di farlo con una ricostruzione globale, che tenesse conto del prima e del dopo e quindi anche degli "orrori di quella guerra e del fascismo ''. Rosario Villari dichiarò di aver dato conto sul suo manuale delle "modificazioni politico-territoriali provocate dalla seconda guerra mondiale, la cui responsabilità risale primariamente al nazifascismo, e sulle tragiche conseguenze che esse hanno avuto in Italia e in altri paesi" e di averlo fatto nella misura e nei termini da lui ritenuti convenienti alla trattazione manualistica, sulla base delle informazioni tratte dalle opere storiche citate nella bibliografia.

Le prese di posizione dei politici. Il presidente della Camera Luciano Violante, in un confronto tenutosi presso il Teatro Verdi a Trieste il 14 marzo '98 con il Presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, sul tema "Democrazia e identità nazionale: riflessioni dal confine orientale", affermò: Pochi sanno che questa terra ha avuto la deportazione, l'esodo e l'esilio. Non so se nel resto d'Italia si sa che questa terra è quella che ha pagato di più in termini di vite umane, di violenze. Non tutti sanno che la sconfitta della Seconda guerra è stata pagata qui e solo qui. Qui c'è stato un dolore non condiviso dall'altra parte d'Italia. Un dolore che si è separato e che è stato separato. I presidente di Rifondazione Comunista Armando Cossutta replicò duramente alle dichiarazioni di Violante sostenendo che fosse (…) una ignobile revisione della storia (…) Noi di Rifondazione siamo disposti a discutere dei crimini, delle violenze e delle tragedie di cui si sono macchiati i comunisti in tutto il mondo. Ma in Italia i fascisti hanno portato la guerra e la dittatura. Mentre, sempre qui, in Italia, i comunisti - ha chiesto polemicamente - di cosa dovrebbero vergognarsi? L'incontro di Trieste venne fortemente contestato da Rifondazione Comunista, anarchici e centri sociali, che lo definirono il "culmine di una campagna tendente a falsificare la storia con fini pacificatori", un episodio del revisionismo storico congruo "alla necessità per Fini di incassare una definitiva legittimazione dopo Verona e al tentativo di Violante di strappare un consenso anche a destra in vista della corsa verso la presidenza della Repubblica". Una risposta alle dichiarazioni di Violante arrivò anche da ben 75 storici italiani, che espressero in merito un netto dissenso, sottolineando in un documento "l'infondatezza storica dell'argomentazione e l'inconsistenza delle richieste avanzate". (…) sarebbe tanto semplicistico quanto unilaterale far ricadere la responsabilità delle foibe, soltanto sui partigiani dell'esercito di liberazione jugoslavo. (…) Non si può dimenticare, infatti, che la responsabilità della trasformazione di frizioni e conflitti interetnici, consueti e scontati in zone di confine, in contrapposizioni politiche irriducibili e risolvibili solo con la violenza, ricade prima di tutto sul regime monarchico-fascista che resse l'Italia dal 1922 in poi. (…) Delle foibe e delle espulsioni di massa deve essere considerato almeno corresponsabile il fascismo mussoliniano, con la sua politica imperiale ed aggressiva. (…) Iniziative come quella di Trieste sono incompatibili con la verità storica e con i valori fondamentali della Costituzione e suonano come un'offesa alla memoria di quanti hanno pagato con la vita la costruzione della democrazia in questo paese e nel resto d'Europa. (…) Faremo di tutto per impedire che delle mistificazioni diventino il fondamento della nuova memoria collettiva degli italiani. (documento firmato, tra gli altri, da Aldo Agosti, Francesco Barbagallo, Cesare Bermani, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Luigi Cortesi, Domenico Losurdo, Salvatore Lupo, Gianni Oliva e Claudio Pavone). Al documento replicò Violante: Consentitemi di esprimere il mio rincrescimento per la leggerezza con la quale un gruppo di autorevoli storici ha sottoscritto un documento contenente falsità facilmente verificabili. Risulta evidente che se i toni ed i metodi utilizzati per denunciare la faziosità dei libri di testi e le numerose omissioni possono essere stati in alcuni casi discutibili, al contrario l'utilità ed i risultati positivi di tale azione sono chiaramente riscontrabili dando un'occhiata alle edizioni dei libri di testo pubblicate dopo al dibattito.

Libri di testo di storia faziosi, scrive il 27 gennaio 2008 Francesco Agnoli. Tempo addietro alcuni personaggi cercarono di proporre all’opinione pubblica il problema dei libri di testo di storia delle scuole superiori. Ci volle poco per sottolineare la faziosità di gran parte di quelli in circolazione, ma poi la discussione venne lasciata cadere. Eppure il problema è grave: i testi scolastici sono afflitti da mentalità ideologica. Per questo la caratteristica più tipica è la classificazione semplicistica, la contrapposizione manichea, l’adozione di pregiudizi come chiavi di interpretazione onnicomprensiva. L’ideologia infatti non guarda la realtà, rifiuta di coglierne la complessità, non ricerca né tanto meno verifica. Per questo, solitamente, produce odio, gratuito. Eppure ha un “pregio”: incasellando tutto precisamente dà l’illusione di comprendere tutta la realtà. E’ così facile, anche per l’insegnante, catalogare, classificare, dividere fascisti e antifascisti, buoni e cattivi…Eppure la verità è ben diversa, sia perché non tutti sono così etichettabili, sia perché, a ben vedere, tantissimi sono gli elementi di somiglianza tra le ideologie del Novecento, di destra e di sinistra. Basti pensare alla provenienza politica e culturale di Mussolini, leader del socialismo massimalista, direttore de l’Avanti, ammirato da Lenin come l’unico grande rivoluzionario italiano. Accanto a lui, al fondatore della destra fascista, troviamo numerose personalità provenienti dal mondo della sinistra, come Farinacci, dell’Unione socialista italiana, Arpinati, di provenienza anarchica, o, all’epoca dell’RSI, Bombacci, uno dei fondatori del PCI nel 1921. Analogamente si riscontrano tante suggestioni socialiste nel partito di Hitler. Nei giorni di Weimar, nel caos generale, compare ad esempio un movimento di personaggi col volto dipinto e penne sul capo, detti “Uccelli Migratori”: sodomiti, nudisti, orientaleggianti, antenati degli indiani metropolitani. Di lì a poco finiranno nelle Sa di Hitler. In questi gruppi paramilitari nazisti vi sono forti convinzioni marxiste, sia perché molti degli aderenti provengono dai “Vecchi combattenti rossi”, sia perché il loro capo, il potentissimo Rohm, afferma: “Noi non abbiamo fatto una rivoluzione nazionale, ma una rivoluzione nazionalsocialista, e poniamo l’accento sulla parola socialista”. Il gerarca Goebbels sostiene la superiorità del bolscevismo sul capitalismo, mentre Gregor ed Otto Strasser, figure guida del nazismo nel nord della Germania, prevedono, nel loro programma, “il passaggio della grande industria in proprietà parziale dello Stato e dei comuni”. Inoltre, in ambienti nazisti, “si manifestava molta comprensione per la dottrina marxista della lotta di classe… (così che) il bolscevismo ed il nazionalsocialismo, visti come i due movimenti rivoluzionari del XX secolo, erano posti in così ampia misura su piani paralleli che il loro contrasto risultava esclusivamente nel fatto che Lenin avrebbe voluto con il mondo redimere anche la Germania, mentre Hitler avrebbe voluto redimere il mondo attraverso la Germania” ( E.Nolte, “Nazionalsocialismo e bolscevismo”, Rizzoli). Questa breve premessa può aiutarci a capire un altro fenomeno: il passaggio, in Italia, a fine guerra, di moltissimi intellettuali dal fascismo ai partiti di sinistra, specie al PCI filo-sovietico. E’ un altro capitolo di storia che, sfuggendo alle classificazioni semplicistiche, viene occultato dai libri di scuola. Occorre invece riflettere, cercar di capire. Vi possono essere state persone che cambiarono opinione, cosa legittima, anzi, indice, spesso, di onestà intellettuale. In altri casi invece sarebbe semplicistico parlare solo di opportunismo: più esatto riconoscere l’intercambiabilità esistente, spesso, tra atteggiamenti ideologici apparentemente contrapposti. Dal fascismo, o dalle riviste fasciste, vengono Argan, Bilenchi, Bocca, Buzzati, Contini, Flora, Fò, Pavese, Pratolini, Quasimodo, Vittorini, Zavattini…Fascisti duri e poi comunisti sono gli intellettuali e scrittori Malaparte, Cantimori, Bontempelli, Piovene, Chilanti, Santarelli, Fidia Gambetti, Lajolo…, alcuni dei quali passano da “La difesa della razza” a ruoli importanti ne “l’Unità”. Il buon Davide Lajolo, ad esempio, prima di diventare vice-direttore de “l’Unità”, affermava: “(Mussolini) è nella sala. La sala è piena di Lui. Non esistiamo che in Lui…bisogna guardarlo estasiati”. Poi i tempi cambiarono, e l’eroe divenne Stalin. Ma rimase spesso la mentalità ideologica, settaria, la stessa di molti libri di storia scolastici, e dei vari Camera-Fabietti che li scrivono.

Storia, manuali faziosi ma la politica ne stia fuori. I nostri studenti hanno una visione parziale dell’intera storia d’Italia, dal Risorgimento a Berlusconi. A questa deriva sinistrorsa bisogna opporre una severa critica culturale. Senza interventi dall’alto, scrive Mario Cervi, Venerdì 15/04/2011, su "Il Giornale". Gabriella Carlucci ha ieri difeso con impeto, sul Giornale, la sua proposta d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sull’imparzialità dei libri di testo scolastici. Nonostante l’appassionata perorazione, resto del parere che l’istituenda commissione sarebbe nel migliore dei casi una creatura inutile, e nel peggiore una creatura dannosa. Cercherò di spiegare i motivi del mio «no». Sono anzitutto d’accordo con Marcello Veneziani nel ritenere che le commissioni d’inchiesta non servano a niente (o servano soltanto ad assegnare qualche ulteriore auto blu e qualche appannaggio). La loro superfluità è dimostrata dall’esperienza. Trattandosi d’organismi che riproducono su scala ridotta gli equilibri delle assemblee, le deliberazioni dipendono, nei casi controversi, dal criterio secondo cui la maggioranza prevale sulla minoranza. Il che si addice perfettamente a decisioni politiche, non a decisioni che coinvolgano problemi di principio o di giustizia o etici. Si rischia insomma d’avere, con le commissioni parlamentari d’inchiesta, pronunce altalenanti in sintonia con la maggioranza del momento. Non nego - mi contraddirei se lo facessi perché questo dei libri di testo è stato un cavallo di battaglia del Giornale montanelliano - la faziosità di certi manuali scolastici ispirati a un conformismo politicamente corretto quando non a convinzioni ideologiche di una sinistra scatenata. Quei testi possono influenzare fortemente gli studenti, propinando loro come verità accertate quelle che sono soltanto asserzioni di parte, e magari dichiarazioni di fedeltà a idee e ideali demoliti, per fortuna, dalla Storia. Ma il rimedio a questo evidente e concreto pericolo sta in una scelta oculata da parte degli insegnanti e in una vigilanza attenta delle famiglie, non in misure che sappiano anche lontanamente di volontà censoria e che legittimano reazioni ammantate di nobili ideali. Un elemento mi rende particolarmente perplesso, nel proposito della Carlucci. Il suo evidente ispirarsi alle polemiche antiberlusconiane, ossia a un momento importante ma per forza di cose contingente - vi includo l’anagrafe - delle vicende nazionali. Siamo avvolti e frastornati da polemiche sulla personalità e sulle qualità umane e politiche del Cavaliere. Ma siamo anche avvolti e frastornati da tante altre polemiche che incidono profondamente nel tessuto della nostra identità e della nostra italianità. Negli scaffali delle biblioteche si allineano, è vero, pamphlet antiberlusconiani. Ma s’allineano anche, e in gran numero, saggi che contestano i momenti fondanti dello Stato e immiseriscono le vicende che accompagnarono l’Unità. Ho recensito di recente libri che descrivono il Risorgimento come un periodo in cui l’identità italiana, formata e affermata dalla Chiesa, fu violentata da un laicismo imperversante, dalla massoneria, dal Piemonte sabaudo e dai suoi alleati stranieri. Non condivido nemmeno un po’ quei giudizi, ma mi sembrerebbe arbitrario depennarli se fossero inseriti in qualche manuale. Ho letto saggi che annichiliscono le figure dei padri della Patria, saggi che mettono sotto accusa, vedendovi la causa di molti mali, la Prima Repubblica (insieme ad altri che invece della Dc, protagonista di mezzo secolo, tessono le lodi). Questo materiale immane viene affrontato e sviscerato, con esiti diversi, da molti storici e divulgatori, ciascuno di loro portandovi i suoi personali punti di vista: non di rado con intenti dissacratori e revisionisti. Può un’indagine del Parlamento - dove, a quanto risulta da alcune irriverenti domande, la conoscenza della storia non è d’alto livello - dirimere le innumerevoli questioni sul tappeto, e servirle belle che risolte a docenti e discenti? Figurarsi. È esistita, e in parte esiste tuttora, la famosa e famigerata egemonia culturale della sinistra. La vulgata cui si abbeverano gli studenti ha molto spesso un’impronta progressista che magari è invece passatista, visto che il comunismo e i suoi derivati appartengono al passato. Negletto il liberalismo, osannato a parole da tanti e nella pratica onorato da pochissimi. Ma alla deriva d’un sinistrismo di maniera si deve e si può opporre la critica, non una forma seppure attenuata di controllo dall’alto. Quella tanto evocata egemonia culturale deriva anche dal fatto che molti «moderati» - così come la Dc un tempo - attribuiscono poca importanza alla lettura e alla curiosità intellettuale, ritenute un impaccio al fare. Il fare, quando è di prima scelta, non fa impaccio a niente. Ma vale la pena di occuparsi anche d’altro. Un ultimo rilievo. Non so quanto Gabriella Carlucci sia consapevole della disistima degli italiani nei confronti del Parlamento. Se lo è, può facilmente immaginare lo scarso o nullo appeal che l’idea dì una Commissione parlamentare arbitra di temi intellettuali ha per gli italiani.

Quei libri di storia da bruciare, scrive Marina Cavalleri il 24 aprile 1997 su "La Repubblica". L'annuncio fatto ieri dagli studenti di An evoca scenari apocalittici: "La prossima settimana saremo in piazza a bruciare i libri di parte, davanti ad alcune scuole romane, al ministero della Pubblica istruzione e al Senato per chiarire che non siamo disposti ad accettare l'intolleranza ideologica dell'Ulivo". Libri al rogo, manuali di storia faziosi che meritano le fiamme. Gli studenti di destra minacciano azioni simboliche, annunciano gesti dal fosco sapore nazista o forse solo cinicamente pubblicitari. Ma invece dei libri ardono le polemiche e l'iniziativa libri al rogo, appena annunciata, annega in una pozzanghera di polemiche. Si gioca sulla Storia l'ultima guerra scolastica e dai banchi parte una crociata contro il governo. I giovani che aderiscono ad 'Azione studentesca' protestano contro il recente provvedimento che prevede la revisione dei programmi di storia e contro il ministro Berlinguer al quale si contesta di 'gestire la memoria della storia a fini di partito' . "E' una provocazione forte ma necessaria - spiega Marco Marsili responsabile nazionale di Azione studentesca - per richiamare l'attenzione sul grave rischio di indottrinamento culturale che corre la scuola pubblica". Così dopo le accuse di Ernesto Galli Della Loggia al ministro Berlinguer ("Programmi di storia nel segno della vulgata marxista"), arrivano i giovani di destra a tacciare di dittatura ideologica la sinistra alla Pubblica istruzione. Dovrebbero finire nelle fiamme testi come quelli di Spini o il Camera Fabietti. Ma il rogo annunciato però non piace ad Alleanza nazionale che sconfessa l'iniziativa: "E' una sciocca provocazione. I libri si possono confutare, ma in ogni caso i giovani, compresi quelli di Azione studentesca, farebbero meglio a leggerli". Ma la tirata d' orecchi di Fini è ancora più violenta. "Chi annuncia il rogo dei libri è un ignorante che non conosce la storia. A destra non c' è posto per cretini di questo genere". Finisce male per gli studenti di An, le fiamme non ardono. Ma già prima della stroncatura del partito c' erano state prese di distanze, polemiche, bocciature. Ernesto Galli Della Loggia precisa: "Citare i miei articoli in margine all' annuncio del rogo dei libri di testo di storia è un tipico caso di strumentalizzazione. I libri non si devono bruciare e il signor Marsilio forse non sa di avere tra i suoi progenitori i nazisti, cui è andata piuttosto male". "Sono fuori luogo", dice Marcello Veneziani, ex direttore dell'Italia settimanale, "non darei eccessiva importanza alle dichiarazioni di un gruppo il cui atteggiamento estremista non è condiviso dalla maggioranza della destra giovanile". E Giuseppe Malgieri, direttore del Secolo d' Italia: "La faziosità di alcuni libri autorizza a posizioni intransigenti: ma un conto è la denuncia, un conto i roghi".

Onestà intellettuale? Ignoranza insensibilità e faziosità dei testi scolastici i libri di testo delle scuole sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante, scrive Francesco Lamendola il 29 settembre 2010. All’insegnante che abbia un po’ di esperienza e un minimo di colpo d’occhio non sfugge il fatto che gli strumenti di cui si serve quotidianamente nella sua professione, i libri di testo delle scuole, sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale. Egli, pertanto, è costretto a insegnare ai propri studenti servendosi di uno strumento peggio che difettoso: di uno strumento assolutamente scorretto e fuorviante, il quale tende sistematicamente a falsare la percezione della realtà, sia quella del presente che del passato. Si dirà che basta scegliere con cura i libri di testo e che ogni insegnante, dopo tutto, gode della massima libertà di optare per un libro, anziché per un altro. Verissimo: ma il fatto è che i libri di testo oggi in circolazione, praticamente senza eccezione, sono un po’ come i canali televisivi: ce ne sono tantissimi, ma tutti suppergiù si equivalgono quanto a ignoranza, insensibilità e faziosità; tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante. Nel corso di un paio d’ore di lezione, ad esempio, può capitare che un professore di liceo, rimanendo all’interno di una singola classe, debba scontrarsi più di una volta con la grossolana tendenziosità e con l’ottusa arroganza intellettuale dei libri di testo.

Supponiamo che la prima ora di lezione sia di italiano e che la seconda sia di storia. Ora di letteratura italiana: si parla del Seicento, si parla di Galilei, si parla del «Saggiatore». Si legge l’immancabile «favola dei suoni», in cui Galilei, dietro l’apparenza di celebrare la modestia intellettuale dello scienziato e l’infinità del sapere, esalta invece la manipolazione delle cose, il dominio brutale sulla natura, l’orgoglio sconfinato dell’uomo di scienza che si sente al di sopra della morale, del bene e del male. Si parla della vivisezione di una cicala, perché lo scienziato vuole comprendere l’origine del suo frinire: non una parola di rammarico per il crudele trattamento inflitto alla bestiola; non una parola di dispiacere per quella piccola meraviglia della natura che viene distrutta. L’unico rammarico è di non aver compreso come si produca il suono. Questo, da parte di Galilei. I curatori dell’antologia scolastica, tutti senza eccezione, presentano il fatto senza batter ciglio. Addirittura, la sofferenza e l’uccisione dell’animale vengono ignorati; sono un semplice inciso all’interno di una proposizione molto più ampia e complessa; tutta l’attenzione e tutta l’ammirazione del giovane lettore sono indirizzati verso l’intrepido scienziato, esploratore dell’ignoto, novello Ulisse che agisce sospinto da una santo amore di conoscenza, tanto pura quanto disinteressata. Nessun curatore di testi scolastici fa notare che questo è un esempio di scienza senza coscienza; che dallo “stupore” di Galilei verso la natura non derivano né umiltà, né compassione, né senso della bellezza; che la moderna vivisezione di milioni di cavie animali e, più in generale, l’implacabile manipolazione di esseri viventi da parte della tecnoscienza, sono la logica conseguenza di questo modo di porsi davanti alle cose, iniziato con la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo: meccanicista, razionalista, riduzionista, utilitarista e tendenzialmente materialista.

Seconda ora di lezione: storia. Si parla dell’espansione europea negli altri continenti fra il XVI e il XVIII secolo; più precisamente, si parla dell’espansione inglese in India e in Australia. Ebbene, nemmeno una parola sullo sconvolgimento sociale ed economico portato dalla presenza britannica in India; peggio ancora, nemmeno una parola sul genocidio degli aborigeni australiani, sulla caccia all’uomo dei Tasmaniani, fino alla loro estinzione totale, allorché l’ultima rappresentante di quel popolo mite e inoffensivo, contro la sua esplicita volontà, venne imbalsamata dopo la morte ed esposta in una sala del museo di antropologia di Hobart, per la delizia della scienza e del pubblico pagante. Qui c’è qualcosa che non quadra. Qualcosa di profondamente sbagliato sia sul piano storiografico, sia sul piano etico. Si parla dell’Australia come se fosse stata disabitata, come se fosse stata “res nullius”. Non si dice che i suoi abitanti erano il popolo più antico dell’umanità e che occupavano quei luoghi da qualcosa come 40.000 anni; non si dice che i bianchi li sterminarono a freddo, per impiantare le loro fattorie e i loro allevamenti di pecore. Eppure, quello consumato contro di loro fu un genocidio. Ma l’unico genocidio di cui si parla sui libri di testo scolastici è quello degli Ebrei ad opera dei nazisti. Solo la Germania, secondo gli autori dei nostri libri di testo, porta un simile peso sulla coscienza; la Gran Bretagna no, quando mai: gli Inglesi sono “buoni”, hanno sempre combattuto guerre giuste, guerre per la libertà altrui. Hanno salvato l’Europa e il mondo dal nazismo, quindi sono i “liberatori” per eccellenza. Sarà per questo che non si dice, su quei libri di testo, che il primo esercito ad impiegare le armi batteriologiche fu quello inglese, nel 1755, allorché il generale Edward Braddock fece distribuire agli indiani del Nord America delle coperte infettate dal vaiolo, provocando deliberatamente la morte di migliaia di uomini, donne e bambini inermi? Tutti, oggi, conoscono i nomi di Hitler, di Himmler, di Eichmann; nessuno conosce il nome di Braddock.

Davvero, c’è da rimanere disgustati. Abbandonati in balia di simili libri di testo, la mente e la coscienza degli studenti sarebbero perdute, se qualche insegnate non si prendesse la briga di farli riflettere e di insegnare loro l’uso critico delle fonti. Gli stereotipi che vengono perpetuati da questa impostazione didattica sono volutamente funzionali ai poteri forti oggi dominanti: la tecnoscienza, il capitalismo selvaggio dell’alta finanza e delle multinazionali, l’Impero americano e il sionismo internazionale, con tutte le sue tentacolari diramazioni. Analoghe sconcezze si trovano, purtroppo, nei testi di quasi tutte le discipline scolastiche, in particolare in quelli di storia della filosofia, che sono redatti, la maggior parte delle volte, in maniera semplicemente oscena.  Vengono esaltati acriticamente sempre gli stessi pensatori, magari proprio in ciò che vi è di maggiormente discutibile nel loro pensiero (vedi Galilei); e vengono ignorati quelli che presentano un punto di vista alternativo all’attuale Pensiero Unico. Non parliamo poi della filosofia dell’Asia, di cui non si sa nulla, quindi nulla si insegna: la storia della filosofia è rimasta profondamente etnocentrica.

Forse solo i libri di matematica, alla fine, si salvano; perché in quell’ambito è difficile, se non impossibile, fare certi giochetti. Sia chiaro che non pretendiamo che gli autori dei libri di testo sposino, necessariamente, una visione del reale di tipo olistico, spirituale, ecologicamente sostenibile e via dicendo; sarebbe troppa grazia. Ci accontenteremmo di vedere un minimo di problematicità, un minimo di contraddittorio, un minimo di consapevolezza che, nella modernità, vi sono le luci, ma anche le ombre; vi sono le conquiste del progresso, ma vi è anche il ritorno della barbarie; le maggiori comodità materiali, ma anche la bomba atomica, la catastrofe ambientale, lo sconvolgimento climatico. Ci basterebbe che, in quei benedetti libri, non si intonassero sempre e solo i peana dei vincitori; che vi fossero un po’ di spazio, un po’ di attenzione e, perché no, un po’ di compassione anche per i vinti. Che si parlasse anche delle ragioni della cicala vivisezionata, della vecchia tasmaniana il cui cadavere fu ridotto ad attrazione da museo, dei pellerossa che morirono come mosche per il vaiolo portato alle coperte del generale Braddock. Che sui libri di storia della seconda guerra mondiale si parlasse dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti, ma anche dei sette fratelli Govoni fucilati dai partigiani. Che si parlasse della distruzione di Amsterdam e Varsavia da parte dei nazisti, ma anche di quella di Amburgo e Dresda da parte degli Alleati. Che si parlasse della Risiera di San Saba, ma anche della foiba di Ugovizza; che si parlasse delle migliaia di Italiani assassinati a guerra finita, per vendetta, senza una tomba su cui i loro cari potessero posare un fiore.

Che si parlasse di Auschwitz e di Dachau, ma anche di Hiroshima e Nagasaki. Quanta falsità istituzionalizzata; quanta ipocrisia; quanta cattiva coscienza. E con questa mancanza di serietà didattica e morale, con questo servilismo verso la Vulgata dei vincitori, con questa faziosità senza pudore e senza vergogna, vorremmo insegnare qualcosa ai nostri ragazzi? Tutto quel che possiamo insegnare loro, in simili condizioni, sono il più piatto conformismo intellettuale e la più bieca ipocrisia; e i frutti li vediamo ogni giorno, osservando la spudoratezza con cui la stampa si adopera per manipolare il pubblico, senza che si levi una sola voce di virile indignazione e di protesta sacrosanta. Prendiamo il caso di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte nel suo Paese per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. I media occidentali ne hanno fatto una bandiera di libertà e l’hanno quasi santificata, inorriditi all’idea della sua lapidazione. Ora che, come sembra, l’esecuzione avverrà invece mediante impiccagione, il fuoco di fila delle proteste, diplomatiche oltre che di opinione pubblica (e il governo italiano, come sempre in questi casi, brilla per la sua crociata in favore della “civiltà”), si è spostato dal modo della pena alla pena in se stessa: Sakineh non dev’essere uccisa, punto e basta. Encomiabile umanitarismo; peccato che non si spenda una parola per i condannati e le condannate a morte negli altri Paesi del mondo, e specialmente per quelli degli Stati Uniti d’America, la madre di tutte le democrazie, minorenni compresi (ma li si fa aspettare nel braccio della morte finché diventino maggiorenni, prima di sopprimerli). Si vede che assassinare legalmente un uomo è meno grave che se si tratta di una donna; oppure assassinarlo con una iniezione letale o fulminandolo sulla sedia elettrica è ritenuto meno esecrabile che farlo con le pietre o con il cappio. A nessuno, pare, viene in mente che il vero problema non è umanitario, ma politico: si vuol dipingere il governo iraniano come una banda di carnefici, cosa che potrebbe anche essere: ma non per la condanna di Sakineh; lo si vuole screditare e infangare per favorire il sionismo, che vede in lui il suo peggior nemico. E questo mentre le scavatrici israeliane, con furia indecente, allo scadere della moratoria si sono rimesse febbrilmente al lavoro per costruire nuove abitazioni destinate ai coloni ebrei in Cisgiordania, con buona pace delle trattative di pace e di innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite in favore dei Palestinesi.

Dunque: libri di scuola menzogneri, conformisti, culturalmente disonesti; futuri cittadini ignoranti, intellettualmente pigri e facilmente manipolabili. Una volta i libri di testo li scrivevano fior fior di specialisti; quelli di storia, ad esempio, li scrivevano insigni storici; quelli di storia dell’arte, illustri storici dell’arte. Oggi i libri di scuola li firmano non più singoli autori, ma équipe di intellettualini a un tanto il chilo, gente che nelle scuole non ci ha mai messo piede: lo si vede da come scrivono, costringendo gli insegnati a spiegare quasi ogni riga e ogni parola e a tradurle in un italiano comprensibile al pubblico cui, in teoria, sono destinati: dei giovani dal modesto retroterra culturale. Ma tanto si sa che quello dei libri scolastici è un business delle case editrici, una specie di mafia altamente sofisticata: l’ultimo ritrovato è quello di cambiare qualche paragrafo qua e là ogni due-tre anni, per impedire che il libro possa passare di mano dal fratello maggiore al fratello minore e permettere, così, alle famiglie di risparmiare qualche migliaio di euro. Insomma, per dir le cose come stanno: siamo in presenza di un panorama desolante e deprimente, di uno squallore assoluto. Tutto quello che si può sperare è che gli insegnanti, insieme al veleno, forniscano ai loro studenti anche l’antidoto: ossia che mostrino loro come ci si deve porre in maniera critica di fronte ad un libro di testo, anzi, di fronte a qualsiasi libro; così come bisognerebbe fare di fronte a qualsiasi giornale, a qualsiasi programma televisivo, a qualsiasi film. Ma ne avranno la capacità, la voglia, l’onestà intellettuale? Oppure, figli di un Sessantotto che è stato esiziale per l’università, per la cultura e per il pensare in modo non conformista, molti di loro sono i primi a sposare il Pensiero Unico; magari rimangiandosi molti dei loro ideali di allora, ma fedeli - in compenso - al servilismo intellettuale di sempre? 

Articolo già pubblicato su “il Corriere delle Regioni” il 12/05/17 e su Arianna Editrice il 29/09/2010

Libri Faziosi - Quando la storia diventa una favola... sinistra! Scrive Azione Giovani Matera. Bertold Brecht diceva "il libro è un’arma". E aveva ragione. Un’arma estremamente efficace, soprattutto se utilizzata contro chi non ha scudi per difendersi. Nelle scuole italiane quest’arma è stata usata per oltre cinquant’anni, e ha sortito l’effetto desiderato, cioè quello di indottrinare generazioni attraverso l’omissione di intere pagine della nostra storia e la mistificazione di altre. Per anni Azione Studentesca, e prima ancora Fare Fronte, si sono battuti contro la faziosità con la quale vengono scritti molti dei testi adottati negli istituti superiori, testi che trattano in particolare la storia, la letteratura, la filosofia e l’arte. Abbiamo denunciato il silenzio colpevole, quando non la connivenza, degli storici, dei docenti, della stampa e del Ministero della Pubblica Istruzione. Nulla. La situazione è addirittura peggiorata con l’entrata in vigore del Decreto sul ‘900, che impone, durante l’ultimo anno delle superiori, lo studio del XX secolo fino ai giorni nostri. Scorgendo alcuni dei testi che vengono adottati nelle scuole superiori, non si ha difficoltà a incontrare mistificazioni, commenti faziosi, veri e propri falsi storici, fino ad arrivare a una evidente campagna elettorale. In questo dossier vengono riportati alcuni esempi che dimostrano come sia facile fare propaganda ideologica, politica e partitica utilizzando la scuola pubblica. Così, come qualcuno ha detto, "la storia è stata sottomessa alla corsa al potere dell’ex PCI". Questo Dossier non rappresenta il tentativo di scagionare alcuni personaggi o fatti storici e di condannarne altri, perché non faremmo niente di diverso da quello che è stato fatto finora. La nostra unica volontà è quella di dimostrare come anche una certa cultura imposta nelle scuole abbia contribuito ad alimentare una guerra civile, spesso latente, che in Italia dura da cinquant’anni, e che ha causato lo scontro, spesso durissimo, tra intere generazioni, divise in nome di ideali e appartenenze anacronistici. Le case editrici, gli autori, i docenti e il Ministero della Pubblica Istruzione che permettono la stampa di alcuni libri di testo, devono assumersi la responsabilità di voler alimentare questo scontro, e di impedire che il popolo italiano possa ricostruirsi una sua identità comune, che può nascere solo da una lettura obbiettiva e serena della sua storia. Non si tratta di scrivere libri "di sinistra" o di "destra" (alla denuncia di Azione Studentesca l’ineffabile Ministro Berlinguer ha risposto suggerendo di scrivere libri di destra per contrastare quelli di sinistra – COMPLIMENTI!), chiediamo solo la verità.

Un esempio: nella maggior parte dei libri di storia non c’è una parola sulle migliaia di nostri connazionali uccisi nelle foibe dai comunisti di Tito per la sola colpa di essere italiani. Noi non chiediamo che se ne parli per riportare il numero esatto delle vittime del comunismo nel mondo sui libri di storia. Non ci sogniamo una edizione scolastica del "libro nero del Comunismo", non ci interessa. Noi chiediamo che se ne parli perché è vergognoso che una Nazione degna di questo nome sia disposta a dimenticare i suoi martiri in nome di un interesse di parte. Né si può dare credito a quanti sostengono che determinate pagine di storia siano state omesse per permettere proprio la costruzione di una nuova identità nazionale sul mito – debole - della Resistenza, perché, se anche questa teoria fosse credibile (e non lo è), non sarebbe più valida dopo cinquantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Nulla giustifica la faziosità con la quale spesso si parla di determinati fatti e personaggi dei giorni nostri.

Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, è vero anche che costoro hanno vinto più di cinquant’anni fa. Ora basta. E’ tempo che le nuove generazioni abbiano la possibilità di confrontarsi per ricucire una ferita che ha sanguinato troppo a lungo.

C’ERA UNA VOLTA…Qui di seguito riportiamo alcuni degli esempi più significativi (riportarli tutti avrebbe voluto dire scrivere centinaia di pagine!) di mistificazione dei principali testi di storia adottati nelle ultime classi delle scuole superiori.

"ELEMENTI DI STORIA – XX secolo" di Augusto Camera e Renato Fabietti IV Edizione per ZANICHELLI. Pag. 1575 "Quanto alla pretesa di una parità etico-politica delle due parti in lotta [Combattenti della Repubblica Sociale e Partigiani – ndr], si vorrà riconoscere (e i più avveduti militanti di provenienza fascista hanno effettivamente riconosciuto) che da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per il totalitarismo e per la schiavitù. Né si dica che se da una parte ci si schierava per i Lager dall’altra ci si batteva per i Gulag, perché, in primo luogo, i Lager erano solo la conseguenza estrema, ma logica e necessaria, di un regime che si fondava sulla disuguaglianza degli uomini, sulla sopraffazione e l’eliminazione delle "razze inferiori", sull’asservimento degli Untermenschen, mentre in linea di principio il comunismo esprimeva l’esigenza di uguaglianza come premessa di libertà (e l’ignominia dei Gulag non è dipesa da questo sacrosanto ideale, ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla "conversione di Stalin al tradizionale imperialismo); in secondo luogo, i militanti comunisti italiani certamente non si battevano per importare anche in Italia i Gulag ma per eliminare ingiustizie e privilegi." Ecco quello che non temiamo di definire un bieco tentativo di giustificare l’ingiustificabile. Facciamo rispondere per noi ad Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel per la letteratura nel 1970, privato della cittadinanza sovietica ed espulso nel 1974. Scrive Solzenicyn, affrontando un aspro parallelismo tra i servi della gleba dell’epoca zarista e i detenuti nei Gulag dell’epoca "dell’illuminato impero sovietico": "[…] Non gli è permesso il più piccolo temperino, non gli è permesso avere una scodella, di animali domestici è autorizzato a tenere solo i pidocchi. Il servo della gleba poteva di tanto in tanto buttare le reti, pescare qualcosa. Il detenuto pesca solo con il cucchiaio, nella sbobba. Il servo della gleba aveva la sua mucca, o una capra, polli. Il detenuto non si unge neppure le labbra con il latte, mai, non vede un uovo per decenni, potrebbe addirittura non riconoscerlo se lo vedesse."

Pagg. 1564-1566 "L’8 settembre 1943, nel vuoto di potere determinato dallo sfacelo dello Stato Italiano, furono uccise, soprattutto in Istria 500/700 persone. Per quanto gravi, quei fatti non corrispondevano però a un disegno politico preordinato: essi furono piuttosto la conseguenza di uno sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti, paragonabile alla strage di fascisti perpetrata nel Nord Italia dopo il 25 aprile, nella quale certo non intervennero motivazioni etniche di nessun genere." […] Eccoci davanti a un vero falso storico. Tutti ormai sanno che la triste pagina delle Foibe venne scritta dai soldati di Tito tesi ad una vera e propria pulizia etnica. Le vittime italiane non erano fascisti, ma gente comune, contadini ed abitanti del luogo; donne e bambini. "[…] Noi non abbozzeremo un bilancio degli "infoibati" e dei soppressi in vario modo e in varie circostanze, in primo luogo e soprattutto perché le cifre fornite dalle varie fonti sono disparate e malcerte; in secondo luogo perché l’abitudine invalsa di usare come argomento politico il cumulo dei cadaveri gravante sulla coscienza di questo o quel partito ci sembra disgustosa." Bravi! Finalmente un po’ di onestà intellettuale… peccato solo che il disgusto che gli autori del libro provano in questa specifica circostanza non sia sorto spontaneo in tutte le altre circostanze in cui, a commettere crimini contro l’umanità sono stati esponenti della parte politica a loro avversa. "[…] Altrettanto inammissibile ci sembra il fatto che osino chieder conto della ferita sofferta dall’Italia nelle sue regioni nord-orientali coloro che di tale ferita sono stati i primi responsabili o coloro che di tali primi responsabili si dichiarano eredi e continuatori." Vergogna! Non ci sarebbe bisogno di nessun commento, se non fosse che gli autori, non paghi, accanto all’immagine della lapide commemorativa eretta sulla Foiba di Basovizza pubblicata sul loro volume, hanno scritto: "[…] Dopo la prima guerra mondiale fu usata come discarica [la Foiba di Basovizza ndr], anche di materiale bellico; ed ebbe una sua triste fama come meta di suicidi. E’ stata dichiarata come monumento nazionale nel 1992." Sul massacro di Basovizza il giornale Libera Stampa in data 1.8.1945 pubblicava un articolo dal titolo: "Il massacro di Basovizza confermato dal CLN Giuliano". Piena luce sia fatta in nome della civiltà. Una dettagliata documentazione trasmessa alle autorità alleate della zona e al Governo Italiano." L’articolo riportava un documento sottoscritto da tutti i componenti del CLN che denunciava i crimini accaduti a Trieste tra il 2 e il 5 maggio 1945: "Centinaia di cittadini vennero trasportati nel cosiddetto Pozzo della Miniera in località prossima a Basovizza e fatti precipitare nell’abisso profondo 240 metri. Su quei disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli".

Pag. 1569 "[…] I partigiani esercitarono le rappresaglie sempre e soltanto sui nemici nazisti e fascisti fatti prigionieri, non mai sulla popolazione civile, neppure quando questa si dimostrava attesista e opportunista." Altro falso storico, stavolta addirittura clamoroso. Tanto per citare solo uno dei fatti, il 7 febbraio 1945 un gruppo di partigiani italiani della brigata comunista Garibaldi compiva il triste eccidio di Malga-Porzus a danno di 19 partigiani della brigata cattolica Osoppo, che ostacolavano l’attuazione del progetto jugoslavo, teso all’annessione di territori italiani alla Jugoslavia comunista di Tito. "[…] è anzi importante rilevare come i combattenti anti-fascisti si preoccupassero di non compromettere invano la popolazione civile". E la favola - o la farsa - continua. Se è vero che i combattenti anti-fascisti si preoccupavano di non compromettere la popolazione civile, come è possibile che abbiano piazzato una bomba in Via Rasella uccidendo, oltre a 32 militari tedeschi, anche civili italiani compreso un bambino? E come è possibile che non avvertirono il dovere morale di costituirsi quando appresero della rappresaglia che sarebbe scattata a danno di 335 civili innocenti? Anche i "combattenti per la libertà" dovrebbero sapere che non è ammissibile far pagare alla popolazione inerte le scelte che si fanno in guerra.

Pag. 1663 "[…] Al terrorismo nero si salda presto il terrorismo che si dichiara rosso e proletario, ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria di ispirazione fascistoide." Siamo al delirio! Al di là dei nonsensi contenuti in questa frase (non si capisce perché in ambienti universitari e della piccola borghesia non si possa essere comunisti!), la "capriola" mentale degli autori non può che far ridere come un buon numero di cabaret: il terrorismo rosso non esiste. Anche quello che si proclama tale, a ben vedere, è fascista. Bah!

Pag. 1674 "[…] La volontà di cambiamento e la protesta contro la partitocrazia e contro il consociativismo si espressero anche nei consensi relativamente numerosi ottenuti dal Movimento Sociale Italiano (5%) […] Notevole fu invece il successo ottenuto da Rifondazione Comunista (6%), da interpretare però non come protesta contro il sistema dei partiti, ma come rifiuto della società esistente e come espressione di fedeltà ai vecchi ideali della lotta proletaria." Veramente degna di due storici questa lucida analisi. "[…] Il tracollo del comunismo in URSS e nei paesi satelliti contribuì certo a ridimensionare il vecchio PCI e, almeno in un primo tempo, il nuovo PDS (i cui militanti venivano spesso detti tendenziosamente "ex-comunisti" anziché democratici di sinistra)." Non riconoscere le "mutazioni" storiche dei partiti e dei suoi militanti è pratica molto diffusa in Italia. Allo scopo segnaliamo nello stesso libro il passo che segue. Pag. 1680 Accanto all’immagine dell’etichetta comparsa su alcune bottiglie di vino prodotte a Predappio nei tardi anni ‘80, gli autori scrivono questa didascalia: "Sino agli inizi degli anni novanta, il Movimento Sociale Italiano si richiamò esplicitamente ai contenuti e allo stile del Fascismo Repubblicano. L’etichetta qui riportata, per esempio, se anche non fu esplicita iniziativa dell’MSI, certo si ispirò alla sua linea politica […]" Per dovere di cronaca, vi riportiamo quanto scritto sulla citata etichetta: Nero di Predappio – bevo e me ne frego – dona giovinezza. Vino del camerata. Ci sorge un dubbio: gli autori avevano forse assaggiato, e magari abusato, di questo vino quando hanno scritto la loro didascalia? Non paghi, comunque, continuano: "Il sillogismo implicito, insomma, assumeva nella conoscenza di molti una formulazione di questo tipo: "la Prima Repubblica è stata una vergogna; la Prima Repubblica è nata dalla Resistenza; la Resistenza è una vergogna; rivalutiamo il fascismo". A questo "revisionismo" inconsapevole della gente si saldava da tempo sia il revisionismo critico messo in cantiere da alcuni storici di professione, come il citato Renzo de Felice […]" Se de Felice fu chiaramente storico di professione, proprio non ci riesce di capire quale sia la professione di Camera e Fabietti. Inizia la campagna elettorale… "a proposito di Berlusconi".

Pag. 1682 – scheda 51.3 - Pag. 1683/1684/1690 "[…] L’articolo 1 della nostra Costituzione dichiara: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione." Nelle parole di Berlusconi e dei suoi portavoce la fondamentale riserva da noi corrivata venne sistematicamente omessa, e non si trattò certo di un’omissione casuale e irrilevante: così mutilato, infatti, l’art. 1 non garantisce più che la sovranità popolare sia esercitata nel rispetto delle regole previste a tutela delle minoranze, e il "popolo" si trasforma nella "gente", la cui opinione è accertata giorno per giorno mediante i cosiddetti sondaggi." "[…] L’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla direzione generale anti-mafia, alla Banca d’Italia, alla Corte Costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica [Scalfaro ndr] , condotti da Berlusconi o dai suoi portavoce, esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal Governo alle pensioni, alla sanità e in genere alle spese statali per la previdenza sociale[…]" "[…] Tali pronunciamenti [di Berlusconi ndr] , rafforzati da altre dichiarazioni simili di Fini e dei Cristiani Democratici, miravano esplicitamente a ridurre o a vanificare la libertà di scelta del Presidente della Repubblica […]" "[…] Di là di tutte le argomentazioni, del resto, Berlusconi aveva urgente bisogno di recuperare il potere e di varare quella riforma della giustizia ch’egli riteneva necessaria e che pensava l’avrebbe messo al riparo dagli avvisi di garanzia e da eventuali condanne." "[…] Da destra e da sinistra si ripeteva giustamente che le regole generali della vita politica dovevano essere concordate tra tutti i partiti, ma, dopo che la Commissione ebbe concluso i lavori ed ebbe approvato quasi all’unanimità un documento unico in cui si prospettavano le riforme da varare, d’un tratto Berlusconi e i suoi alleati mutarono atteggiamento, cosicché l’esito concreto della Bicamerale fu del tutto deludente." Senza commento.

Pag. 1688 – 1884 (didascalia fig. 56.33) …continua la campagna elettorale…"[…] A meno che – grazie a un’intesa internazionale – non si diminuiscano le ore settimanali di lavoro (come è stato fatto in alcuni paesi e proposto anche in Italia) […]" Il richiamo alla proposta di Rifondazione Comunista circa le 35 ore lavorative settimanali, è fin troppo evidente. Ce li immaginiamo Camera e Fabietti sotto il palco di Bertinotti a spellarsi le mani con gli applausi ogni volta che il leader di Rifondazione Comunista prende la parola. "[…] Nella Cina uscita dalle riforme varate da Den Xiao Ping nel 1978, le vecchie copie cartacee del Libretto Rosso sono merce da bancarella di souvenir, così come i grandi ritratti di Mao, Lenin, Stalin, Engels, Marx ingialliscono nei magazzini delle librerie di stato. E’ invece possibile la lettura in CD grazie l’edizione multimediale delle opere complete di Mao realizzata nel 1998." Ci piange il cuore per le opere cartacee di siffatti statisti, ma ci consoliamo tutti con l’opera multimediale di Mao. Un solo rimprovero agli autori: già che c’erano, potevano dirci dove trovarle per un "acquisto democratico e proletario"…Quasi a voler rispondere a questo nostro opuscolo, gli autori Camera e Fabietti, nel triste tentativo di difendersi dalla loro stessa incapacità a scrivere un testo di storia con quell’obiettività che si richiede ad uno storico serio, scrivono:

Pag. 1563 "Perché dunque la Repubblica potesse essere proposta come patria comune di tutti gli italiani, è stato necessario, per un verso, alterare la prospettiva storica trasformando la maggioranza afascista in maggioranza antifascista, che avrebbe opposto all’occupazione tedesca almeno una resistenza passiva, e per l’altro verso, si è dovuta negare la qualifica d’italianità ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, degradandoli a semplici mercenari al servizio degli invasori nazisti. Ed è stato altresì necessario ignorare quanto è accaduto sul nostro confine giuliano, dimenticare le stragi perpetrate da Tito , e dai suoi partigiani, dimenticare l’ignominia delle foibe, perché l’attenzione rivolta verso questi eventi e verso questi problemi avrebbe costretto a prendere atto delle lacerazioni interne alla Resistenza e a rompere ogni rapporto di collaborazione, sia pure polemica, con Togliatti e col suo partito, che a proposito della Venezia Giulia avevano assunto (o erano stati costretti ad assumere, dati i loro rapporti di sudditanza nei confronti dell’URSS) posizioni non conciliabili con gli interessi della nazione italiana. Ma la rottura con i comunisti, che nella Resistenza avevano svolto una parte di primo piano, avrebbe tolto uno dei supporti fondamentali all’inevitabile "mito" della Resistenza come fondamento unitario – comunista, "azionista", socialista, cattolico e liberal-democratico – della patria repubblicana." Ipocriti!

"MANUALE DI STORIA 3 L’Età contemporanea" A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto per Editori Laterza, nuova edizione aggiornata. Pag. 866 "[…] Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di P.zza Fontana, vi furono le bombe in P.zza della Loggia a Brescia, nel maggio ’74, e quelle sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno, l’attentato alla stazione di Bologna (con oltre 80 morti) nell’agosto ’80. La ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica che attribuisce le stragi ad esponenti della destra eversiva sostenuti dai servizi segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non ha trovato ancora (salvo che per Bologna) una conferma nella magistratura giudicante […]." Vorremmo ricordare agli autori che la "ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica" non è storia.

Pag. 943 Anche qui siamo in campagna elettorale…"[…] Le ragioni della vittoria di Berlusconi, una vittoria confermata e anzi accresciuta nelle elezioni europee di giugno, furono attribuite non solo al sostegno delle sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi – con efficaci messaggi al tempo stesso popolari e populistici – come l’unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato via dagli scandali di tangentopoli […]".

Pag. 945 "[…] I referendum erano intesi a ridimensionare il potere televisivo di Berlusconi e la sconfitta dei proponenti fu interpretata come un successo anche politico dell’imprenditore milanese e della sua capacità di influenzare il grande pubblico. […]"

Pag. 946 "[…] Rimaneva invece aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell’ordine giudiziario e settori della classe politica, che criticavano il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. […]"

Pag. 947 "[…] Proprio una maggiore capacità di aggregazione e una maggiore credibilità dei candidati aveva consentito allo schieramento di centro-sinistra di riconquistare nelle elezioni amministrative della primavera-autunno 1997 la guida di molti altri centri come Torino, Roma […]"

"L’ETA’ CONTEMPORANEA – il novecento e il mondo attuale" P. Ortoleva, M. Revelli. Nuova periodizzazione per Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori. Pag. 310 "[…]Nell’esaltazione della figura di Stalin che raggiunse aspetti di un vero e proprio "culto della personalità" (come sarebbe stato definito questo fenomeno negli anni cinquanta), non si trovava, infatti, solo il rapporto capo-seguaci tipico di tutti gli stati autoritari di quegli anni ( e pure di stati meno autoritari, come gli USA), ma anche la risposta a un profondo bisogno di stabilità e di certezza: in quel clima di continui e violenti mutamenti, la figura di Stalin appariva rassicurante nella sua immensa autorità e nella sua salda permanenza al potere. Il timore da essa ispirato poteva quasi essere sentito positivamente, come il rispetto dovuto a un’autorità dura ma giusta. Il ritmo continuo delle trasformazioni sociali e politiche, che continuavano ad abbattere senza sosta ceti, come i kulàki, e figure fino a poco prima onnipotenti come i leader man mano liquidati da Stalin, poteva anche essere interpretato come la prova di una grande volontà di eguaglianza, pronta a colpire il privilegio ovunque si formasse: Stalin diveniva, in tal senso, l’incarnazione di una rivoluzione giusta e livellatrice. […]" Il passo si commenta da solo, quindi non ci dilunghiamo più di tanto. Ci preme però ricordare che i kulàki uccisi dal regime stalinista furono cinque milioni. Cinque milioni di esseri umani sterminati di cui nessuno parla e che nessuno ricorda né commemora.

Pag. 315 "La politica staliniana in tema di nazionalità comunque non fu solo di carattere repressivo. Bisogna tener conto che, nella lista dei popoli perseguitati dal regime, compaiono solo etnie nettamente minoritarie, spesso isolate nella loro zona di insediamento." Ah, bè, allora massacriamoli, sono minoritari!!!

Pag. 657 "[…] E’ stato ormai accertato che le stragi, spesso affidate a una "manovalanza neofascista", trovarono forti complicità all’interno dei servizi segreti e in alcune aree dell’apparato istituzionale e militare dello Stato. […]" No, signori "storici"… non è stato ancora accertato. E finché ci sarà chi continua a darlo per scontato, di accertarlo davvero non interesserà a nessuno… o quasi.

Pag. 662 "[…] All’emergenza fecero appello le forze di governo e il PCI per approvare una legislazione d’eccezione, che venne molto discussa e criticata; essa si rivelò del tutto inefficace nei confronti del terrorismo di destra e della "strategia della tensione", ma ebbe l’indubbio effetto di portare alla sconfitta del terrorismo di sinistra. […]"

Un libro molto interessante, arrivato alla sua settima od ottava edizione, L’eskimo in redazione, di Michele Brambilla ed. Oscar Saggi Mondadori, affronta molto bene il tema di chi, negli "anni di piombo" tentò di mettere su due piani il terrorismo di destra e il terrorismo di sinistra, arrivando quasi a giustificare quest’ultimo, o almeno a camuffarlo come un’inevitabile sbocco della ribellione giovanile. Questi "pietosi" intellettuali non sapevano che guasti gravissimi un simile atteggiamento avrebbe causato. Qualcuno non lo sa ancora, e continua così… Centinaia di giovani vite spezzate, sentitamente, ringraziano.

"POPOLI E CIVILTA’ 3" Antonio Brancati. Nuova Edizione per La Nuova Italia. Pag. 210 "L’avvento di una dittatura in Germania non costituiva per l’Europa una novità assoluta, visto che analoghi movimenti totalitari o dittatoriali si erano venuti nel frattempo insediando e consolidando anche in altri Paesi come in Italia con Mussolini, in Spagna con Primo de Rivera, in Portogallo con Antonio Salazar, in Grecia con Joannis Metaxas, in Austria con Engelbert Dollfuss, in Romania con Jon Antonescu e in Turchia con Mustafà Kemal Atatürk, fondatore della repubblica turca da lui retta con poteri dittatoriali sino alla morte.[…]" Per caso abbiamo dimenticato che nel 1924 andò al potere un certo Iosif Dzuga_vili, meglio noto come Stalin?

Pag. 565 "La strategia della tensione o del terrore, inaugurata a P.zza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per molti anni una costante nella cronaca politica del nostro Paese. Una lunga serie di attentati, di stragi e di violenze compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e neonaziste (Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero) avrebbe insanguinato le città italiane, intrecciandosi a manovre preparatorie golpiste. Nel corso degli anni settanta l’attacco allo Stato fu però sferrato anche da un estremismo di segno opposto. Al terrorismo nero, già operante, si aggiunse il terrorismo praticato da organizzazioni clandestine che si proclamavano "comuniste" (Nuclei Armati Proletari, Prima Linea e soprattutto, Le Brigate Rosse)". Ovviamente "si proclamavano"! Che lo fossero anche? Leggendo la frase sopra riportata, chissà come dovranno sentirsi stupidi tutti i giovani di sinistra, finiti per scelta o per caso nelle spire del terrorismo, e che hanno pagato le loro idee comuniste e le loro scelte estreme con la prigione e a volte la vita.

Pag. 599 "[…] dopo avere avuto un ruolo di grande rilievo nella Resistenza (il PCI n.d.r.), nella stesura della Carta Costituzionale e nella storia della Repubblica con particolare riguardo agli anni in cui aveva dato un contributo fondamentale alla lotta contro il terrorismo […]" Beh… "contributo fondamentale" ci sembra appena appena un’esagerazione…

"STORIA E STORIOGRAFIA 3" di A. Desideri e M. Themelly nuovissima e dizione per C. Editrice D’Anna. Pag. 1355 "[…] Alla fine di quel "terribile 1977" E. Berlinguer chiese l’ingresso a pieno titolo dei comunisti al governo; intendeva dare un indirizzo nuovo – non di mero restauro – alla politica della maggioranza […]" Qui la campagna elettorale è un po’ retroattiva, ma chissà che non funzioni ugualmente…

Pag. 1370 "[…] Già prima dell’esplosione del terrorismo "rosso" aveva fatto la sua comparsa in Italia il terrorismo "nero", ispirato a gruppi estremisti di destra viventi all’ombra del MSI e già operanti nella Repubblica di Salò. […]" E questi sarebbero "storici"??? Ma per favore, un po’ di serietà! Qualcuno ricorda per caso che quel MSI "ombreggiante" richiese la pena di morte per i terroristi di destra?

Pag. 1377 "[…] Nel primo Ordine Nuovo, infatti, venivano privilegiati gli aspetti più propriamente ideologici della lotta politica, con la proclamata adesione al pensiero di autori di forte impronta reazionaria (soprattutto Giulio Evola, ma anche esponenti di un pensiero genericamente spiritualista, nei quali "si mescolavano insieme la cultura occulta, la divinazione, i fenomeni medianici, la magia nera, lo yoga, le società segrete, la cabala, l’esoterismo"). […]" Evola come il mago Otelma? Un concetto interessante, più "medianico" che storico, però…

PILLOLE. Nel manuale "DIRITTO COSTITUZIONALE SIMEONE" (XIV Edizione) a proposito delle elezioni politiche del 1994 a pagina 315 si legge: "Le elezioni, svoltesi con il nuovo sistema imperfettamente maggioritario, hanno portato alla vittoria una composita coalizione in cui precariamente si armonizzavano istanze secessioniste, destra neofascista e partito azienda. Il Presidente della Repubblica ha assunto immediatamente il ruolo di difensore dei valori costituzionali della solidarietà, della democrazia parlamentare e dell’unità nazionale, esercitando una sorta di tutela presidenziale sul Governo Berlusconi". Aberrante è dire poco.

Alla voce "foiba" del "VOCABOLARIO DELLA LINGUA PARLATA IN ITALIA" di Carlo Salinari si legge: "Dolina con sottosuolo cavernoso e indica particolarmente le fosse del Carso nelle quali, durante la guerra 40-45, furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista" Qui addirittura siamo al "ribaltone". Salinari avrebbe qualcosa da insegnare a qualcuno? E magari il vocabolario bisogna anche pagarlo…

Dal testo "LA STORIA: RETE E NODI – Manuale per una didattica modulare" di A. Brancati e T. Pagliarani. "Per il coraggio, la fermezza e la coerenza dimostrati in tante occasioni, Prodi ha saputo guadagnare la stima di altri Governi e partner internazionali" "Con l’affermazione in Gran Bretagna del laburista Tony Blair e in Francia del socialista Lionel Jospin si sono addirittura aperte le prospettive per un dialogo della sinistra moderata europea, al quale si è dimostrato interessato anche Bill Clinton" Che bello! Siamo tutti contenti se viene anche Chelsea.

Dalla postfazione al "DIZIONARIO GIURIDICO ITALIANO – INGLESE" di Francesco de Franchis, editrice Giuffré. Pag. 159 "E si arriva al colmo: nell’agosto 1994 – fatto mai accaduto in nessun paese democratico dell’Occidente (in corsivo nel testo n.d.r.) e misura dell’assoluta impresentabilità di una coalizione che deve, all’evidenza, cercare i propri modelli nei regimi sudamericani – il governo Berlusconi invia un "esposto" al Presidente della Repubblica in cui si denuncia un attentato al funzionamento degli ‘organi costituzionali perpetrato dalla procura di Milano con le sue indagini sulla criminalità organizzata: qui va rilevata, oltre alla grossolanità degli uomini, la sfacciata ribellione alla legge (in corsivo nel testo n.d.r.) da parte delle forze di governo e l’ostilità verso una sia pur piccola pattuglia di magistrati indipendenti. In un crescendo di vendetta macbethiana si colloca la vicenda di Antonio di Pietro, inquisito, oggetto di una lunga e implacabile persecuzione da parte della forza legale". E hanno avuto il coraggio di scomodare anche Shakespeare!

Pag. 173 "Resta il fatto che – a prescindere dall’individuo – il caso Berlusconi appare, sul piano politico, come il primo e il più grave nella storia di tutte le democrazie occidentali di un imprenditore che assume funzioni di governo. Si è opportunamente osservato che: “Il nuovo Governo Berlusconi si presenta come una compagine all’altezza dei propositi; dal decreto salvaladri al condono edilizio al vecchio regime dei lavori pubblici alla virtuale abolizione del Secit: un free for all degno dei fratelli Somoza” (l’autore non indica la fonte della citazione)…e un pensierino degno di Gianni e Pinotto!

Dal libro FARE STORIA di A. Brancati, ed. Nuova Italia. "Gli Ebrei, popolo ormai emarginato e separato, divennero nel Basso Medio Evo anche coloro che profanavano di nascosto i misteri cristiani (rubando e disprezzando le ostie consacrate) e che compivano omicidi rituali di bambini per poter fare con il loro sangue il pane azzimo, fatto cioè senza lievito e da essi usato nei giorni pasquali" L’autore del libro si è giustificato dicendo che nello scritto incriminato, stava riferendo solamente le calunnie che venivano rovesciate addosso al popolo ebraico. Va bene, ma è difficile che questo venga compreso da uno studente della media inferiore.

Dal libro LEGGERE EUROPA di Sambugar-E., ed. Nuova Italia. Parlando del futurismo e di Martinetti: "Affermazioni paradossali che non indicano assolutamente realistici programmi, per questo diedero cita a sfortunati e inevitabili fanatismi, esaltando ideologie violente come quella fascista. Un rinnovamento artistico che sfocia spesso nel suono un po’ vuoto di slanci verbali, e che non esita a cadere nel decisamente brutto. Il movimento futurista mancava comunque di profondi contenuti spirituali." Non molto obiettivo come commento nei confronti di quella che è stata un’avanguardia artistica dal valore universalmente riconosciuto.

Dal libro VERSO IL 2000 di D. Materazzi, ed. Thema. A proposito del Movimento Sociale Italiano. "Suo segretario politico nazionale è Giorgio Fini, mentre l’ala intransigente e nostalgica del nazional-socialismo che fa capo a Pino Rauti, è relegata al ruolo di opposizione interna" A parte la divertente miscela che l’autore ha creato tra i nomi di due diversi segretari dell’MSI, e cioè Giorgio Almirante e Gianfranco Fini, è da notare che nemmeno i più feroci detrattori del MSI sono mai arrivati ad accostare gli iscritti del partito a dei nazisti militanti.

Dal libro STORIA E STORIOGRAFIA di A. Desideri, ed. D’Anna. Nel capitolo dedicato alla Rivoluzione Francese "[…] e ciò nel momento stesso in cui la Vandea insorgeva contro la leva di 300.000 uomini, ordinata dalla convenzione. Nell’insurrezione dei contadini vandeani si possono cogliere molteplici spinte: oscuri fermenti di lotta di classe paradossalmente combattuta sotto le insegne della reazione, sobillazione nobiliare, appoggi inglesi ed europei alla causa degli insorti." Interessante notare la capacità di sintesi dell’autore che liquida una lunga e sanguinosa guerra civile in meno di tre righe nel testo. A. Desideri, da studente, avrà sicuramente vinto una medaglietta nella gara di riassunto.

Dal libro SPRINT FINALE di Attalienti, ed Ferraro. A proposito di D’Annunzio "Per quanto riguarda poi la poesia del D’Annunzio, se qua e là possiamo restare ammirati di fronte a tanta dovizia di parole e tanta abilità stilistica, raramente essa ci commuove, perché la sua perfezione estetica, come disse il Serra, è una perfezione che suona falso (al maschile sul testo)." C. Attalienti usa con una certa superficialità un plurale majestatis che sfugge alla nostra comprensione. "Raramente ci commuove…" Attalienti, invece, ci fa piangere. E tanto!

CONCORSI, INSEGNAMENTO ED IMPUNITA’.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”.

UNISALENTO: IL GIOCO DELLE PARTI.

I sindacati, Laforgia e Mantovano. Università del Salento. Una grande famiglia. Tanto rumore per nulla. E’ tutto truccato e si accapigliano per tre compiti truccati. Omertà invece per i concorsi in avvocatura, magistratura e notariato. Università del Salento: una grande famiglia. Si intitolava un servizio di Tele Rama. I grappoli di famiglie che hanno fatto il nido nell'Università del Salento, il nepotismo che rischia di soffocare l'ateneo leccese e le contromisure che il rettore Domenico Laforgia ha cercato di mettere in campo, senza troppo successo. Scheda a cura di Danilo Lupo e Matteo Brandi, andata in onda nell'Indiano del dicembre 2008 dedicato all'università e condotto da Mauro Giliberti. Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito." Che una vera corazzata di parlamentari italiani sottoscriva una dichiarazione di guerra contro un ateneo di provincia è un caso più unico che raro. Porta la firma di ben cinquantacinque deputati, infatti, la richiesta di ispezione ministeriale da eseguire nell’Università del Salento. L’interpellanza urgente, ideata dall’ex sottosegretario agli Interni, il pidiellino Alfredo Mantovano, è stata inoltrata ai ministri dell’Istruzione e della Funzione Pubblica, Francesco Profumo e Filippo Patroni Griffi. Di mezzo ci sono presunte condotte illecite e ragioni di trasparenza da ripristinare. Ci sono anche gli appalti che si accingono ad essere portati in gara. Tanti. Molti. Del valore, all’incirca, di cento milioni di euro. Nell’interpellanza si parla del Tar di Lecce. Tar che spesso adotta decisioni contrastanti tra loro, pur aventi lo stesso oggetto. E pur la stampa pubblica: Indagato presidente del TAR Lecce solo per abuso d’ufficio e solo lui. Antonio Cavallari, presidente del Tar di Lecce indagato per abuso d’ufficio per aver favorito un’azienda in odor di mafia difesa dal noto amministrativista leccese, avv. Pietro Quinto. Ahhh... Quante volte io e tutti gli avvocati non principi del foro che bazzicano le aule del Tar di Lecce avremmo desiderato un atto di sospensiva di sabato ed in 24 ore!!!!!!!! Poi si parla della Procura di Lecce. Mi astengo dal dare giudizi sull’esito delle mie denunce contro i concorsi truccati, ma mi riporto a quanto detto dal Procuratore Capo di Bari: «Non posso non rilevare che questo tipo di accertamenti è iniziato un anno fa, ma un’indagine a carico di un procuratore non può durare tanto. Occorre dare risposte rapide sia che siano stati commessi reati, sia che non siano stati commessi, soprattutto per la credibilità dell’ufficio». La pensano allo stesso modo migliaia di persone indagate che vivono in un «limbo» e che chiedono senza fortuna di potere dire la loro. La giustizia non è uguale per tutti? «Capita a me quello che accade a tanti cittadini. Rappresento, però, che, indipendentemente dalla vicenda personale, la questione si riverbera sull'intero ufficio. Non sostengo che la mia posizione è diversa, ma lamento che così si mette a rischio la credibilità della giustizia e delle istituzioni. Una situazione che deve essere definita in tempi rapidi. Per questo voglio subito essere interrogato». Tanto rumore per nulla. Certo è che nessuno, tanto meno l’On. Alfredo Mantovano più volte interpellato, va a chiedere ispezioni ministeriali per vagliare le risultanze dell'esame di abilitazione di avvocato o di notaio o di professore universitario, ovvero di verificare la legalità delle procedure di accesso alla magistratura. Compiti non corretti? Per le commissioni d'esame: Fa niente, conta il nome e l'accompagno. Il TAR, intanto, da parte sua sforna sentenze antitetiche tra loro su domande aventi lo stesso oggetto. Basta leggere il libro del  dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CONCORSOPOLI".  Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI IN ITALIA.

"Quel mio allievo da sistemare in cattedra..." Spunta una lettera di 40 anni fa all'ex ministro. Mentre l'inchiesta sulla spartizione dei posti nelle Università scuote il mondo accademico, l'Espresso scopre una raccomandazione diretta all'ex ministro Fantozzi da parte di un potente barone. Che dimostra come il sistema duri da decenni, scrive Alfredo Faita il 6 Ottobre 2017 su "L'Espresso". La spartizione delle cattedre universitarie a tavolino, arrivando perfino a corrompere le commissioni come sostiene la procura di Firenze nella sua indagine sul mondo del diritto tributario, forse non è solo un male dei giorni nostri, ma affonda nella prima Repubblica. Quella del Caf (Craxi Andreotti Forlani) inossidabile al potere e della Milano da Bere, spazzata via da Tangentopoli. Almeno questa è l'impressione che si ha leggendo una lettera, che L'Espresso ha potuto consultare in esclusiva, tra due dei protagonisti dell'indagine penale fiorentina: Augusto Fantozzi e lo scomparso Victor Uckmar, i due pesi massimi del diritto tributario in Italia. «Caro Augusto, in relazione all'attribuzione della cattedra di diritto tributario a Siena, ti preciso – cosa che d'altronde ti è già nota – che il dottor Lovisolo non è giuridicamente in grado di assumere la supplenza, ai sensi dell'articolo 114 del dpr...perché ha veste giuridica di contrattista... Il dott. Lovisovo può tuttavia vedersi attribuito l'insegnamento, ai sensi dell'articolo 116, assumendo la veste giuridica di professore a contratto...». È Victor Uckmar a prendere carta e penna per vergare al “caro” Augusto Fantozzi i suggerimenti su come poter attribuire al suo allievo un insegnamento presso l'antico ateneo toscano, perché “meritevole” di essere “sistemato”.

Siamo nel 1980 - la lettera è datata 16 ottobre - ed è su carta intestata dell'Università di Genova, ma il suo contenuto suona decisamente attuale con quello dell'inchiesta della procura di Firenze. Che vede tra gli indagati, come si diceva, proprio Fantozzi, il quale, scherzosamente, parlava della necessità di «una nuova cupola» di persone «di buona volontà» che si sostituissero di fatto ai commissari per le abilitazioni nelle cattedre universitarie. Oltre all'ex ministro dei governi Dini e Prodi, nonché attuale Rettore dell'Università Giustino Fortunato di Benevento risultava indagato anche Uckmar, com'è emerso dagli atti, ma la sua dipartita nel dicembre dello scorso anno lo ha sollevato dall'incombenza di doversi difendere dalle pesanti accuse di corruzione mosse ai 59 accademici finiti nelle indagini dopo la denuncia di Philip Laroma Jezzi. Nella lettera Uckmar detta la strategia per arrivare alla nomina senese di Antonio Lovisolo, suo allievo prediletto, attualmente professore a Genova nonché titolare di uno dei più importanti studi tributari d'Italia, ma non indagato nell'inchiesta fiorentina. Innanzitutto, dice, bisogna che non venga prorogato il vecchio professore, poi che nessuno “stabilizzato” faccia domanda per una supplenza, e poi che la «facoltà deliberi l'attribuzione dell'incarico a un professore a contratto, designato nella persona del dott. Lovisolo... che sarebbe poi sottoscritto dal Rettore» scrive Uckmar, sottolineando che la strada intrapresa è “ad hoc” per sistemare qualche giovane “meritevole”. «Come vedi, quindi, la possibilità di sistemare il mio allievo non manca, certo occorre un po' più di impegno da parte di tutti, di quanto non richiederebbe un certo conferimento di supplenza» si congeda l'ex professore genovese.

Come andò a finire allora lo si vede leggendo il curriculum vitae pubblicato dal Antonio Lovisolo sul sito internet del suo studio: «Negli anni accademici 1980/1981, 1981/1982 e 1982/1983, Antonio Lovisolo ha rivestito la qualifica di professore a contratto di Diritto finanziario presso la facoltà di Scienze economiche e bancarie dell'Università di Siena». Il trampolino di lancio di una lunga carriera universitaria che lo ha (ri)portato fino a Genova.

Trentasette anni fa il metodo di assegnazione delle cattedre somiglia a quello tratteggiato oggi dai pm fiorentini, criteri che appaiono simili e gli stessi personaggi di vertice nel mondo tributario che come una “cupola” assegnava posti per cooptazione, sfruttando bene i cavilli normativi per evitare le barriere delle commissioni ministeriali di abilitazione. Cambia solo il linguaggio, meno sguaiato di quello che ci ha consegnato la cronaca di quest'indagine portata svolta dalla Guardia di Finanza e coordinata dai pm Luca Turco e Paolo Barlucchi, che vede in questi giorni il susseguirsi degli interrogatori di garanzia per tutti i docenti sottoposti a misure cautelari. Peraltro proprio dalle cronache del 1980 emerge qualche altro indizio che le pratiche nel mondo accademico del diritto tributario – ma non solo in quello - già da allora non fossero così limpide. In una interrogazione parlamentare del novembre 1980, l'onorevole pugliese Stefano Cavaliere, avvocato dal passato monarchico poi confluito nella Democrazia Cristiana, si rivolgeva così al ministro dell'Istruzione: «Scandaloso deve definirsi l'operato della commissione del concorso a cattedre di diritto tributario. Qui si è partiti male con la formazione della commissione, perché dei cinque membri tre erano allievi del professor Victor Uckmar, di cui due appartengono allo studio professionale dello stesso professore. È stato così possibile spartirsi le cattedre tra i protetti dei capi scuola … accontentare un notaio o qualche figlio di industriali cliente di questo o di quel caposcuola, senza preparazione scientifica e primi di esperienza didattica. Nei verbali si legge che questa commissione si sarebbe riunita presso la facoltà di economia e commercio dell'Università di Roma, mentre svolse i lavori in una camera dell'hotel Excelsior di cui era ospite anche il professor Uckmar che, al termine di questa nobile impresa, offriva ai commissari un lauto pranzo». Cavaliere in quell'interrogazione parlava di risultati scandalosi dell'operato di quelle commissioni che «meriterebbero il vaglio della magistratura penale». A trentasette anni di distanza quel vaglio è arrivato, e l'impressione è che da quell'anno ad oggi poco sia cambiato. Nel frattempo gli indagati smentiscono le accuse loro rivolte. Lo ha fatto anche Augusto Fantozzi, per bocca del suo avvocato Antonio D'Avirro, secondo il quale il professore, ex commissario di Alitalia, è «completamente e indubitabilmente estraneo ai fatti in contestazione in primo luogo perché era già andato in pensione all'epoca degli avvenimenti oggetto di indagine. La sua integrità è altresì testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica». Ce lo dirà la magistratura.

ITALIA BARONALE. I concorsi truccati di un Paese ancora feudale. Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato», considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI. L’AUTODENUNCIA DI UN PROFESSORE.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

Nel seguire attentamente la dichiarazione autodenunciante del professore universitario, si tenga conto del fatto che la categoria dei Professori Universitari è una componente necessaria per tutte le Commissioni di Esame Pubblico abilitante o di un Concorso Pubblico.

Ergo: tutti i concorsi e gli esami pubblici sono truccati o truccabili.

Concorsi universitari, il prof: "Li trucco e continuerò a farlo". Ammissione-autodenuncia di un noto docente universitario: "Non sono raccomandazioni, premiamo chi lo merita". Concorsi universitari: "Sì, li trucco, altri professori li truccano e continueremo a farlo fino a che non ci arresterete. Perché va bene così". E' l'autodenuncia-confessione del professor Vincenzo Zeno Zencovich, uno dei giuristi più noti e importanti in Italia in materia di Diritto Internazionale che insegna a Roma 3. Una lettera aperta pubblicata dal quotidiano il Foglio e indirizzata alle procure della Repubblica che da qualche tempo stanno indagando sui concorsi universitari truccati (ultimo caso quello della "cupola dei costituzionalisti" su cui si indaga da Bari). Ebbene: Zeno Zencovich, con piglio autoironico, si autodenuncia, non risparmiando di citare tutti i reati di cui potrebbe essere ritenuto responsabile. “Concorsi truccati”, “concorsopoli”, “parentopoli” sono gli immaginifici titoli che alle sue inchieste forniscono i giornali e le televisioni. Poiché io di questo sistema faccio parte, quei reati li commetto da anni, e continuerò, se non arrestato, a commetterli, sento il dovere di autodenunciarmi", dice il professore. Secondo il docente bisognerebbe smetterla di parlare di raccomandazioni in ambiti accademici, o meglio: bisognerebbe smetterla di pensare che la raccomandazione sia una brutta cosa. Ecco, secondo il professore, come funzionano le raccomandazioni in ambiente universitario. Un docente raccomanda un giovane studioso perché ne apprezza e loda (“commenda”) le qualità, fa affidamento su di esse, ma al tempo stesso impegna la propria figura, la propria credibilità. Da questo punto di vista tutti i docenti universitari sono “raccomandati” e più sono “raccomandati” più significa che godono di una stima diffusa. Non vi sono candidati “sconosciuti” e se lo sono ci si deve chiedere perché lo sono, e perché tutto d’un tratto dovrebbero essere scoperti come un tesoro sepolto. Il concetto, spiega Zeno Zencovich, andrebbe capovolto: in ambiente accademico se non sei raccomandato è un problema. Nel senso che nessuno ti conosce, nessuno ha avuto l'occasione di vedere chi sei e come te la cavi. E perciò, probabilmente, non hai fatto nulla che valga la pena raccontare. La lettera si conclude - ironicamente - con l'arrivo della Guardia di Finanza nell'abitazione del professore per arrestarlo dei reati di cui si è autoaccusato.

«Illustre Signor Procuratore, mi è stato riferito che Ella (o qualche suo collega: tanto, la competenza territoriale è ormai ubiqua) ha disposto la intercettazione sulle varie utenze telefoniche a me riferibili. Vorrei risparmiare a Lei, ai suoi sostituti, ai sempre vigili ufficiali di polizia giudiziaria una fatica inutile. E alla collettività una spesa che meglio potrebbe essere impiegata per altre finalità di giustizia. Lo dichiaro apertamente: sono reo confesso. Associazione per delinquere. Abuso in atti d'ufficio. Corruzione, attiva e passiva. Traffico di influenza. Adsum qui feci. E se Lei vorrà aggiungere, per sovrammercato, i reati di attentato ai diritti politici e di associazione di stampo mafioso e camorristico (per via dei miei innegabili legami con la Sicilia e la Campania), non mi sottrarrò, cavillando, alle mie responsabilità. Ella, come molti altri suoi colleghi, è impegnato da tempo nello sradicare la mala pianta che cresce nei giardini dell'università italiana: "Concorsi truccati", "concorsopoli", "parentopoli" sono gli immaginifici titoli che alle sue inchieste forniscono i giornali e le televisioni. Poiché io di questo sistema faccio parte, quei reati li commetto da anni, e continuerò, se non arrestato, a commetterli, sento il dovere di autodenunciarmi. Non posso più continuare a vivere come centinaia di miei colleghi che, in queste settimane conclusive delle procedure dell'Abilitazione scientifica nazionale (il 30 novembre dovranno essere tutte terminate), vivono nel terrore: di fare una telefonata, di scrivere un biglietto, di mandare un messaggio di posta elettronica, di incontrarsi. Se lo fanno, sembra una scena dalla migliore spy story: entrare da due ingressi separati in un albergo; casualmente scambiare alcune parole durante il buffet di un convegno; rigorosamente togliere la batteria dal telefonino o lasciarlo in un'altra stanza. E ancor più delle manette li spaventa finire sbattuti in prima pagina, come di recente è capitato a una serie di "saggi" nominati per la revisione della Costituzione e tirati in ballo per una oscura vicenda concorsuale. Perché - ai fini della contestazione delle aggravanti di legge - lei abbia contezza della intensità del dolo che mi anima le dirò che: 1. Penso che sia dovere di ogni professore universitario dire in pubblico e in privato quello che pensa dei propri colleghi e di coloro che aspirano a esserlo. Esprimere il suo giudizio sui loro lavori, sulle loro capacità didattiche e organizzative, sul loro carattere. 2. Soprattutto deve farlo nei momenti in cui è in atto un processo di selezione e nei confronti dei selezionatori. Non si tratta di una indebita pressione ma di un necessario complemento alla formazione del convincimento di chi è chiamato a decidere. Di un contributo a una discussione che spetta a tutta la comunità scientifica di cui la commissione non è un giudice imperscrutabile e inavvicinabile, ma un "organo tecnico". 3. L'ambiente accademico è quel che si definisce un "mercato reputazionale": ben prima di guadagnarsi i gradi ci si è fatti conoscere, apprezzare o deprezzare, si è data prova concreta di operosità e competenza. Qui la parola "raccomandazione", che altrove appare esprimere la progressione degli incompetenti, assume il suo significato più veritiero. Un docente raccomanda un giovane studioso perché ne apprezza e loda ("commenda") le qualità, fa affidamento su di esse, ma al tempo stesso impegna la propria figura, la propria credibilità. Da questo punto di vista tutti i docenti universitari sono "raccomandati" e più sono "raccomandati" più significa che godono di una stima diffusa. Non vi sono candidati "sconosciuti" e se lo sono ci si deve chiedere perché lo sono, e perché tutto d'un tratto dovrebbero essere scoperti come un tesoro sepolto. Signor Procuratore, perché sia chiaro che non intendo sfuggire a nessuna delle imputazioni che mi verranno elevate, non mi nasconderò dietro il facile argomento che in tutto il mondo civile, soprattutto in quei paesi che vengono additati come modello di eccellenza accademica, succede così. Apertamente ci si pronuncia, come apertamente i decisori ascoltano, riflettono, scelgono. Certamente ci si fanno degli amici e dei nemici, le maldicenze corrono, taluni soccombenti sospettano una congiura ai loro danni. Ma anche in questo caso quel che conta è il giudizio della comunità, non di un tribunale o, peggio, di qualche incompetente giornalista i cui titoli di studio probabilmente andrebbero esaminati con attenzione. Né mi sfiora l'idea di utilizzare una retorica di basso conio chiedendo a Lei, Signor Procuratore, se quando si è apprestato a sostenere l'esame orale per l'accesso alla Magistratura qualcuno l'ha "raccomandata" (nel senso di cui sopra) alla sua commissione di concorso; se quando dalla sua prima e disagiata sede periferica ha chiesto il trasferimento presso un ufficio giudiziario più grande e prestigioso qualcuno o più d'uno ne abbia lodato l'impegno, l'assiduità, la perspicacia; e infine se risponde al vero che nel concorso per assumere il prestigioso incarico di Procuratore capo che ora ricopre in diversi siano intervenuti presso il Consiglio superiore della magistratura indicando in Lei, senza ombra di dubbio, la persona più meritevole. Ma devo interrompere questa lettera. Hanno suonato al citofono e dalla finestra vedo la inconfondibile uniforme di un ufficiale della polizia giudiziaria che deve notificarmi, in tempo reale, un provvedimento restrittivo della libertà che riporta quasi testualmente il contenuto della missiva. Sono lieto che le intercettazioni, anche ambientali e telematiche, funzionino con una efficienza da fare invidia alla National Security Agency. Mi dispiaccio solo che domani non mi sarà consentito leggere i titoli cubitali sull'organizzazione criminale che è stata smascherata. In ogni caso, buon lavoro! Mi creda suo, e rispettosamente mi firmo Vincenzo Zeno-Zencovich Ordinario di diritto comparato nell'Università di Roma Tre Rettore dell'Università degli Studi internazionali - Roma (UNINT).»

CHI GIUDICA CHI? Università, commissione zero titoli per giudicare chi diventa professore. Chi vuole diventare docente universitario deve convincere esaminatori che spesso vantano meno meriti scientifici di lui. Un paradosso previsto dalla legge, con conseguenze nefaste. Perché così il merito non viene premiato. E i nostri atenei sfigurano nelle classifiche mondiali, scrive Stefano Vergine il 31 agosto 2017 su "L'Espresso". Professori universitari senza nemmeno una citazione scientifica. Chiamati a giudicare candidati-professori che di citazioni ne hanno centinaia. È la storia paradossale della commissione che un mese fa ha annunciato chi saranno i nuovi docenti ordinari di geografia in Italia. Ruolo ambitissimo; stipendio di partenza da oltre 3 mila euro netti al mese. Ma non è il salario a essere messo in discussione qui. Piuttosto il metodo attraverso cui vengono scelti i professori del domani, più precisamente la statura scientifica di chi li seleziona. Tutto legale, meglio dirlo subito. È infatti la legge a prevedere questa contraddizione in cui si è trovato stritolato Marco Grasso, novarese di 51 anni, professore associato di geografia economica e politica all’università Bicocca di Milano. In aprile, insieme a centinaia di colleghi, ha inviato la candidatura per diventare ordinario. Si chiama abilitazione scientifica nazionale ed è una sorta di patentino, indispensabile per poter poi partecipare a concorsi ed essere eventualmente assunto come docente presso le università italiane. Un filtro anti-raccomandati, insomma, frutto della riforma voluta nel 2010 dall’allora ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. L’abilitazione aveva infatti l’obiettivo dichiarato di frenare il nepotismo imperante negli atenei italiani. Perché, centralizzando il processo di selezione, fino ad allora appannaggio esclusivo delle singole università, promuovere l’amico dell’amico sarebbe risultato più difficile e il merito avrebbe avuto finalmente un riconoscimento. Così almeno si diceva. Le cronache giornalistiche, i ricorsi alla giustizia amministrativa e le inchieste giudiziarie degli ultimi anni hanno dimostrato che le cose non sono andate come l’ex ministro auspicava. Professori che hanno truccato il curriculum per far parte delle commissioni, conflitti d’interesse fra giudici e giudicati, accordi sottobanco tra membri di diverse giurie. Scandali che hanno costretto Stefania Giannini, succeduta alla Gelmini, ad apportare alcune modifiche alla riforma.

La storia dell’ultimo concorso per diventare professore di geografia mostra però che i problemi sono ancora tanti. E fornisce una spiegazione in più per capire come mai, ancora una volta, fra i primi 100 migliori atenei del mondo (selezionati nell’Academic Ranking of World Universities) anche quest’anno non ce ne sia nemmeno uno italiano. Il profilo di Grasso è quello di un tipico cervello in fuga. Proprio coloro che il nuovo sistema punta in teoria a far tornare indietro. Economista e geografo, è un esperto di cambiamenti climatici. Studia gli effetti del surriscaldamento globale. Per esempio. Dove si trasferiranno gli abitanti di quelle zone del mondo che già stanno diventando invivibili? Che cosa si potrà coltivare in Italia quando la temperatura si sarà alzata mediamente di 2 gradi?

Laurea in economia alla Bocconi di Milano, corso di specializzazione in sistemi dinamici e ambiente al Politecnico della Catalogna, dottorato di ricerca in geografia al King’s College di Londra, Grasso ha insegnato all’estero per parecchi anni: Sydney, Amsterdam, Stati Uniti e Inghilterra. «Poi sono diventato papà, volevo far crescere mio figlio in Italia e ho fatto di tutto per poter tornare qui», racconta davanti a una granita in un bar di Milano. Pantaloncini corti e maglietta, Grasso sembra il tipico prof che si potrebbe incontrare in un campus universitario del Nord Europa, lontano dallo stereotipo del barone italiano. Dalla sua ha decine di pubblicazioni su riviste scientifiche autorevoli. La sorpresa di Grasso è stata quella di essere bocciato da una commissione con “zero tituli”, per citare l’ex allenatore dell’Inter, José Mourinho. Uno degli aspetti cruciali per decidere se concedere l’abilitazione è infatti la produzione di documenti scientifici da parte dell’aspirante professore, prova tangibile della capacità di fare ricerca. Ai candidati per il posto di ordinario di geografia, quello a cui ha partecipato Grasso, era richiesta la pubblicazione negli ultimi 15 anni di almeno due articoli su riviste di classe A. Fanno parte di questa categoria, per dire, Nature e Geoforum: pubblicazioni di qualità indiscussa. Quanti articoli devono aver scritto i commissari su questo tipo di riviste? Zero. Lo prevede l’Anvur, l’agenzia del ministero dell’Istruzione responsabile del processo di selezione dei nuovi docenti. Il risultato paradossale è che Grasso, con all’attivo tre pezzi su riviste di fascia “A”, è stato valutato da persone che su quei giornali non hanno mai scritto una riga. Una contraddizione che potrebbe aver penalizzato molti altri candidati: scorrendo la lista dei requisiti richiesti ai commissari si vede infatti che sono moltissimi i settori per i quali non sono previste pubblicazioni in riviste di fascia “A”. Tanto per citarne alcuni: storia moderna, scienza delle finanze, economia applicata, statistica, demografia. Ma c’è di più. Un’altra variabile presa generalmente in considerazione per valutare le qualità di uno studioso sono le citazioni, cioè il numero di volte in cui un suo lavoro scientifico viene menzionato da altri articoli accademici. Anche qui Grasso pensava di avere il terreno spianato. Su Scopus, una delle banche dati più usate per la letteratura scientifica, il geografo novarese conta infatti 18 articoli e 212 citazioni. E i membri della commissione chiamata a giudicarlo? Questo il loro palmares. La presidente della giuria, Emanuela Casti, tre articoli e diciannove citazioni. Il segretario, Gian Marco Ugolini, due articoli e nessuna citazione. Girolamo Cusimano e Laura Federzoni: un articolo a testa e nessuna citazione. Chiude la cinquina Gavino Mariotti, il cui nome sulla banca dati non compare. Il sito del ministero dell’Istruzione mostra che Grasso non è stato il solo a essere bocciato da questa commissione. Lo stesso è capitato per esempio a Francesco Chiodelli, Cecilia Pasquinelli e Oreste Terranova: tutti e tre candidati al ruolo di professore di geografia (associato, in questo caso), tutti e tre respinti nonostante una produzione scientifica molto maggiore rispetto a quella dei commissari. 

Va detto che per diventare docente non basta essere un prolifico ricercatore. I requisiti sono parecchi, dalle esperienze di insegnamento alle partecipazioni a convegni. Nelle motivazioni della bocciatura di Grasso i commissari scrivono che, «seppure di discreta qualità», i titoli posseduti dal candidato «quasi sempre non sono collocabili all’interno del settore concorsuale di geografia». Come dire: ha fatto cose accettabili, ma spesso riguardavano altri ambiti. Il punto qui non è però giudicare se sia stato giusto non concedere l’abilitazione a certi candidati, ma se è autorevole un sistema universitario in cui un aspirante professore viene valutato da studiosi con una produzione scientifica molto più bassa della sua. Perché, come in ogni ambito, maggiore è l’autorevolezza di chi giudica e maggiore sarà quella dell’istituzione stessa. E quella dell’università italiana, stando alle classifiche, non è proprio delle più invidiabili.

Università, l'ossessione della produttività può danneggiare i migliori. "Quanto vali? significa adesso "Quanto sei in grado di produrre". Accade nelle istituzioni universitarie in balia di agenzie di valutazione chiamate a misurare quanto siano produttivi docenti e dipartimenti. Così si riduce l'arbitrio dei baroni, ma si rischia di penalizzare non solo i fannulloni, ma i professori più dotati, scrive Roberto Esposito il 10 luglio 2017 su "L'Espresso". Può sorprendere, in una società che sembra perdere ogni rapporto con i propri valori, l’espandersi inarrestabile dell’ideologia della valutazione. Ormai siamo tutti valutati. Non ascoltati, considerati, sostenuti nelle nostre fragilità pubbliche e private. Ma valutati sì. In termini economici di utilità, di performance, in cui occorre misurare il “capitale umano” che ciascuno, potenziale imprenditore di se stesso, può vantare. Del resto la trasmigrazione del concetto di valore dall’ambito etico a quello economico non poteva portare ad altro. “Quanto vali?” significa adesso “quanto sei in grado di produrre?”. Tutto ciò non solo a prescindere da considerazioni sociali, contestuali, personali. Ma anche in base a dati puramente quantitativi, misurabili e appunto valutabili in maniera numerica. Se in campo economico tale indagine di mercato è comprensibile, trasferita ad altri settori rischia di determinare effetti controproducenti e vere e proprie storture. Per esempio valutare in questi termini la situazione di un malato in una struttura sanitaria pubblica può portare a conseguenze catastrofiche. Ma l’impatto – per usare un vocabolo amato dai valutatori – su altri ambiti può risultare del pari devastante. È quanto accade da tempo nelle Università, ormai in balia, per i loro finanziamenti, di agenzie di valutazione destinate a misurare il “valore” dei singoli docenti e dei Dipartimenti in cui essi operano. Numero degli studenti, numero delle pubblicazioni dei docenti, numero delle citazioni dei loro lavori, numero dei brevetti, degli stage attivati, degli sbocchi professionali. Nulla sfugge alla griglia approntata dalle agenzie di valutazione allestite ovunque – prima l’Aeres in Francia poi l’Anvur in Italia. Ciò che esse si ripromettono è misurare in maniera oggettiva, perché numericamente definita, il valore quantitativo prodotto da singoli e da collettivi, finanziati in base a tale indice. Da quel momento i dossier, le schede, i formulari prodotti dalle strutture accademiche e dai docenti superano di gran lunga quello dei prodotti stessi della ricerca. Ciò che conta è che questi entrino nelle griglie prefissate, dando luogo a una cifra superiore, pari o inferiore a una serie di “mediane” preventivamente fissate. Chi le supera passa – nei ruoli accademici superiori, nelle abilitazioni scientifiche nazionali, nei Collegi dei Docenti dei Dottorati. Chi non ha gli stessi numeri – di articoli, citazioni, brevetti – resta fuori. Ciò, si dice, non senza qualche ragione, ha finalmente abolito l’arbitrio dei vecchi baroni, gli accordi sottobanco, i privilegi che effettivamente caratterizzavano il sistema universitario precedente. Oggi tutto ciò è finito, dissolto dalla nuova neutralità oggettiva. Basta contare. I numeri non tradiscono. La giustizia accademica è infine instaurata. Restano, però, aperte alcune domande. Chi valuta i valutatori? Essi – si risponde – sono valutati con le medesime mediane adoperate per i candidati da valutare. Ogni valutatore, a sua volta, si avvale di numerosi sottovalutatori che egli stesso individua in base alle proprie valutazioni delle loro capacità valutative. Sembra uno scioglilingua. Ma le cose stanno davvero così. Un sistema volto all’oggettività del giudizio si basa su una serie di scelte soggettive discendenti di cui sfugge solo il primo anello, che riguarda il vertice dell’Agenzia, di nomina governativa. Del resto su tutto sorveglia il Miur, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, a sua volta garantito dall’alta responsabilità del Ministro in carica, scelto dai partiti di governo in base a criteri del tutto esterni a quelli applicati a valutandi e valutatori e anzi, possibilmente, mai sottoposto ad esami di pubblico rilievo. Non basta. La cornice dell’intero quadro si è evoluta nel tempo. Mentre fino a poco fa si poteva pensare che, per chi fa ricerca scientifica, almeno nell’ambito delle scienze umane, i “prodotti” più rilevanti fossero i libri – in gergo accademico, “le monografie” – a un certo momento si è stabilito che non è più così. Ciò che conta sono solo gli articoli – anche di due-tre pagine – pubblicati in riviste collocate preventivamente, in base a una apposita valutazione, nella cosiddetta fascia A. Soltanto chi le dirige o chi è suo buon conoscente, può pubblicare in esse articoli che, s’intende, verranno neutralmente valutati dai valutatori che gli stessi direttori hanno scelto. Ma non basta. Queste riviste, ai fini della valutazione, non sono uguali. Valgono solo quelle del settore disciplinare del valutando, cosicché, se questi ha interessi di tipo interdisciplinare – che so, di architettura se insegna storia dell’arte o di filosofia politica se insegna filosofia morale – va severamente punito con l’esclusione dall’ambito dei salvati e precipitato in quello dei sommersi.

L’esito, borgesiano, di questo sistema è che la Commedia di Dante non otterrebbe la valutazione positiva perché non attinente a un settore disciplinare specifico, visti i suoi riferimenti, appunto “interdisciplinari”, filosofici, cosmologici, politici, etc. Ancora, Francesco De Sanctis sarebbe bocciato in un’abilitazione in Storia della Letteratura Italiana, perché, insieme alla sua grande “Storia” non ha scritto sufficienti articoli; Einstein non passerebbe perché, rompendo paradigmi e convenzioni scientifiche del tempo, non avrebbe potuto organizzare lo scambio di citazioni necessarie con i colleghi. E così via. Tutto ciò, naturalmente, questi effetti perversi, non sono ignorati da chi ha messo in piedi, magari anche in buona fede, il sistema. Ma sono considerati danni collaterali rispetto ai suoi aspetti positivi. Che in effetti ci sono, soprattutto per i peggiori: coloro che non pubblicano abbastanza vengono adesso giustamente esclusi. A pagare il prezzo sono tuttavia i migliori, cioè coloro il cui prestigio internazionale spinge a scrivere i propri libri, spesso tradotti in diverse lingue, senza preoccuparsi delle griglie, delle fasce, delle citazioni e così via. Ve li immaginate, per restare nel campo della filosofia, Habermas e Derrida che cercano le riviste di fascia A per scrivere dodici articoletti? E coloro che fanno ricerca scientifica perché dovrebbero tentare di innovare il proprio campo, rischiando di non essere citati dai colleghi più tradizionali? Questo spiega perché sta nascendo un silenzioso movimento di protesta, sfiducia, stanchezza che porta diversi professori, soprattutto in area umanistica, a lasciare l’Università. Per dedicarsi finalmente alla ricerca. Non per non essere valutati, ma per non finire preda di un dispositivo inefficiente e contraddittorio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Chi tocca i baroni rossi finisce sotto processo. L'odissea di un giornalista querelato: raccontò la strana carriera di una professoressa vicina al Pd, scrive Stefano Filippi, Giovedì 28/09/2017, su "Il Giornale". Oggi che Concorsopoli è diventata una vergogna nazionale con baroni arrestati e sospesi dall'insegnamento, la denuncia del sistema corrotto è un atto benemerito, anticasta e trasparente. Non sempre è stato così. Per aver raccontato nel 2011 i sistemi di cooptazione all'università di Viterbo un giornalista che allora lavorava al quotidiano Italia Oggi, Giampaolo Cerri, invece che applausi si è preso una querela e il processo è ancora in corso. L'accusa è diffamazione ma suona come lesa maestà. Perché i chiamati in causa sono una professoressa con tessera e ruoli di responsabilità nel Ds/Pd e il capo dipartimento per l'università del ministero dell'Istruzione, all'epoca rettore dell'ateneo e presidente della Conferenza dei rettori. Nonché compagno della docente in questione. Lei si chiama Flaminia Saccà. Laurea in sociologia politica nel 1995 con tesi sul controllo sociale della sessualità, relatore il professor Umberto Melotti. Dottorato di ricerca in sociologia della cultura nel 2001. Ricercatrice all'università La Sapienza di Roma. Dal 2002 al 2005 è responsabile nazionale università e ricerca dei Ds e guida la contestazione all'allora ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti. Nel 2006 diventa co-coordinatrice della Scuola di formazione politica del Pd e nel 2007 viene nominata presidente di Filas spa, società della Regione Lazio a sostegno della ricerca, dello sviluppo e dell'innovazione. Piero Marrazzo, allora governatore, la giudicò «una nomina di alto profilo che conferma la sensibilità del sistema Regione nei confronti del sostegno alle imprese». Negli stessi anni Saccà ottiene un incarico di ricerca in sociologia all'università di Cassino. E nel 2010-11 partecipa a un concorso per un posto da associato all'ateneo della Tuscia a Viterbo, il cui rettore è il suo compagno, Marco Mancini. Qui scoppia il caso rivelato da Italia Oggi che è costato il processo per diffamazione. Uno dei cinque docenti della commissione giudicatrice, il professor Marcello Fedele, ordinario alla Sapienza, dopo una prima valutazione favorevole si corregge. E produce un tomo singolare: ampi stralci del lavoro presentato da Flaminia Saccà e a fianco, in imbarazzanti tavole sinottiche, testi di Francesco Amoretti, Gianfranco Bettin, Gianpietro Mazzoleni, Gabriel Almond e Sidney Verba. Uguali. L'accusa è semplice: la candidata ha copiato eminenti sociologi senza citarli. Il professor Fedele mette a verbale la volontà di cambiare giudizio perché «la produzione si configura priva di originalità e dunque con un valore scientifico in larga misura inesistente». Gli altri quattro commissari «prendono atto» ma non battono ciglio e ribadiscono la valutazione positiva per l'aspirante associata in sociologia targata Pd «in considerazione del curriculum, dei titoli presentati e delle due prove orali». Chiamato a testimoniare al processo per diffamazione, Fedele ha confermato tutto. Il decreto di nomina è firmato dal rettore viterbese, Marco Mancini, che era anche il presidente della Conferenza dei rettori e compagno della professoressa Saccà. Concorso confezionato su misura? Il sospetto esiste. Ora entrambi hanno fatto carriera: lei presiede il corso di laurea in Scienze politiche e relazioni internazionali a Viterbo mentre lui dall'agosto 2013 ha lasciato il rettorato (dove si era insediato nel 1999) per diventare capo del dipartimento per la formazione superiore e la ricerca al dicastero dell'Istruzione, cioè il braccio destro del ministro per le questioni universitarie.

Docente universitario. In Italia esistono due categorie di docenti universitari: i professori di seconda fascia o “associati” e quelli di prima fascia o “ordinari”. Si tratta delle due tappe successive a quella di ricercatore nella carriera universitaria. Per accedere a entrambi i ruoli è previsto un concorso, le cui modalità di svolgimento sono state recentemente riformate da un decreto del ministero dell’università e della ricerca scientifica.

PROFILO. I docenti universitari svolgono prioritariamente attività didattica e di ricerca. Nell’anno accademico, il docente svolge due corsi della durata di circa una quarantina di ore ciascuno. L’incidenza dell’attività di ricerca è molto variabile e dipende dalla disciplina di riferimento e dall’anzianità del docente. Ogni professore universitario è libero di scegliere fra l’impegno a tempo pieno o l’impiego a tempo determinato. In Italia, diversamente da quanto accade in altri paesi, i professori, oltre a svolgere attività didattica e di ricerca, si occupano anche della gestione delle università in cui operano, con ruoli che vanno dal direttore di istituto al direttore di dipartimento, dal presidente del corso di laurea al preside di facoltà, fino ad arrivare al rettore, la massima carica istituzionale di un’università.

REQUISITI. Le competenze e le attitudini richieste sono:

- un’ottima conoscenza della propria materia; 

– capacità di divulgare in modo chiaro e sintetico i risultati della propria attività a studenti, ricercatori e docenti; 

– disponibilità ai trasferimenti o, quantomeno, agli spostamenti frequenti. 

FORMAZIONE. Un laureato può diventare docente universitario anche senza passare dal dottorato, ma solo se ha svolto lavoro di ricerca presso istituti e centri studio privati, e ha pubblicato i risultati del suo lavoro.

SBOCCHI PROFESSIONALI. La carriera universitaria di un docente di fatto si esaurisce con l’ottenimento di una “cattedra”, ossia con il conseguimento del titolo di professore di prima fascia (ordinario). A questo ruolo si accede tramite la partecipazione a un concorso: ogni università che necessita di un nuovo professore bandisce un concorso. La commissione giudicatrice, composta da professori ordinari eletti da tutti i docenti della materia, nomina un vincitore e due “idonei”. Questi ultimi, pur non avendo diritto al posto, possono essere chiamati, nel corso dei tre anni successivi, da altre università senza dover nuovamente sostenere il concorso.

L'INCHIESTA. Sono i docenti titolari di corsi ma ingaggiati a contratto, spesso con compensi minimi. Il boom degli ultimi anni. Ma il decreto Mussi li ridurrà drasticamente: reggerà il sistema?

L'Università dei prof "esterni" in molti atenei sono più della metà, scrive Massimiliano Papasso il 19 marzo 2007 su "La Repubblica". Il ministro Mussi qualche settimana fa li ha definiti come "lo zoccolo duro dell'università". Senza di loro molti rettori sarebbero costretti a chiudere bottega e alcuni studenti molto probabilmente non potrebbero nemmeno laurearsi. Eppure dal prossimo anno accademico, quella dei docenti a contratto, sarà una figura destinata a ridimensionarsi radicalmente nel panorama accademico italiano. Lo prevede il decreto approvato in questi giorni e che fissa un tetto molto rigido all'utilizzo dei cosiddetti "contrattisti": in pratica per ogni corso di laurea, vecchio o nuovo che sia, le università dovranno garantire che almeno il 50% del personale docente utilizzato per la didattica sia di ruolo. Stop quindi ad insegnamenti appaltati a personale esterno, esperti e professionisti di vario genere che le università ingaggiavano con contratti di diritto privato per poche centinaia di euro all'anno. Un fenomeno che negli ultimi tempi ha fatto registrare un vero e proprio boom dato che i docenti a contratto sono arrivati ad avvicinarsi pericolosamente alla somma dei professori ordinari, associati e ricercatori, a cui normalmente dovrebbe essere affidato il settore della didattica nelle università italiane. I dati. Secondo di le cifre raccolte dall'ufficio di statistica del Ministero dell'Università, nello scorso anno accademico sono stati 48.797 i docenti a contratto reclutati dagli atenei. Di questi a ben 33.008 è stata affidata la titolarità di un insegnamento ufficiale. Ovvero per 12 mesi esperti di un determinato settore, liberi professionisti o semplici laureati dal curriculum accattivante hanno svolto in tutto e per tutto le funzioni di un docente universitario tenendo lezioni, presenziando alle sessioni d'esame, ricevendo gli studenti e assegnando tesi di laurea. Un lavoro che normalmente ai docenti di ruolo frutta migliaia di euro l'anno e che invece ad un "contrattista" viene riconosciuto con una retribuzione, nella migliore delle ipotesi, di appena mille euro ad incarico. Un fenomeno in continua ascesa visto che negli ultimi cinque anni il numero dei docenti a contratto si è moltiplicato del 126%, passando da quota 21.536 del 2000 ai quasi 50 mila del 2005 (ultimo dato disponibile). Gli atenei a contratto. La moda di affidare a non accademici moduli didattici o un intero corso universitario ha contagiato quasi tutti, senza molte differenze tra atenei pubblici e privati. In testa a questa speciale classifica c'è l'Università di Bologna con 2.744 docenti messi sotto contratto nel 2005, di cui 1148 erano titolari di insegnamenti ufficiali. Seguono la Cattolica di Milano con 2706, l'Università di Padova con 2124 e quella di Pavia con 2124 contrattisti. Ma se per alcuni di questi atenei la proporzione tra docenti di ruolo e a contratto è ancora a favore dei primi (la somma dei professori ordinari, associati e ricercatori dell'Alma Mater bolognese è di 3092) per altre università, soprattutto quelle più piccole, la realtà è completamente ribaltata. E' il caso, tra gli altri, dell'ateneo di Ferrara dove a fronte di 678 docenti di ruolo quelli a contratto sono 1400, di cui quasi il 90% è titolare di insegnamenti ufficiali. Oppure di alcune facoltà della Sapienza di Roma (Architettura, Psicologia, Scienze della comunicazione, Sociologia) dove il numero di docenti a contratto supera quello di tutti i docenti di ruolo messi insieme, inclusi i ricercatori. Questione di budget. Le cause che hanno spinto gli atenei a ricorrere ad un così massiccio utilizzo di docenti a contratto sono soprattutto di natura economica. Visto che molto spesso chi accetta di insegnare all'università, svolgendo molto spesso un altro lavoro, si accontenta anche di poche centinaia di euro. Facendo risparmiare così alle università cifre considerevoli. "Non tutti i docenti a contratto vengono sottopagati - spiega Alessandro Perfetto, dirigente dell'area amministrativa dell'ateneo emiliano - . Soprattutto nelle facoltà di nuova istituzione, le retribuzioni possono anche adeguarsi attorno ai 10/15 mila euro l'anno. Dipende dai singoli casi. Più in generale, poiché la stragrande maggioranza di questi docenti sono dei professionisti o esperti che svolgono anche un altro lavoro, gli stipendi possono essere anche al di sotto dei mille euro. Certo in linea generale i docenti a contratto per le università italiane rappresentano sicuramente un vantaggio in termini economici, visto che il loro stipendio incide diversamente sulle casse dell'ateneo rispetto a quello di un professore di ruolo. Ma non dimentichiamo che le università negli ultimi cinque anni hanno dovuto fare i conti con una crescita senza freni dell'offerta formativa. E quella dei docenti a contratto era l'unica strada percorribile per tenere i bilanci sotto controllo". Tutta colpa del "3+2". In effetti se il decreto del 21 maggio del 1998 parlava di docenza a contratto solo nel caso in cui le università dovessero "sopperire a particolari e motivate esigenze didattiche", lasciando quindi intendere la straordinarietà della norma, gli atenei nella realtà si sono fatti prendere un po' la mano facendo ricorso ai contrattisti senza pensarci su due volte. Soprattutto perché con l'entrata in vigore del sistema del "3+2" la priorità era diventata quella di assicurare l'insegnamento di migliaia di nuovi corsi di laurea senza pesare eccessivamente sulle casse dell'ateneo. "La volontà del ministro Mussi di mettere un freno a questo fenomeno ci trova abbastanza d'accordo - dice Silvano Focardi, rettore dell'Università di Siena, che lo scorso anno aveva poco più di mille docenti a contratto - Già da quest'anno nel nostro ateneo abbiamo previsto un taglio del 20% alle supplenze e ai singoli contratti. Sicuramente le università in questi anni hanno abusato di questo istituto ma è tutto collegato all'entrata in vigore del "3+2", visto che con il ricorso ai docenti a contratto si poteva facilmente far fronte a qualche carenza dal punto di vista organico. A mio avviso però considerare tutti le tipologie di docenti a contratto come dei precari dell'università è sbagliato. Tra di loro, è vero, ci sono molti professionisti che tengono degli interi corsi universitari e seguono i ragazzi anche durante le tesi, ma ce ne sono anche altri che entrano in aula solo per qualche ora". "Più ore ai prof". Ma adesso che il decreto varato dal ministro Mussi riporterà la situazione alla normalità, il vero rischio per gli atenei è che il taglio dei contrattisti finisca con il compromettere del tutto i già traballanti bilanci delle università. "Soldi in più soprattutto in questo particolare momento non ce ne sono - assicura il rettore Focardi - Come faranno gli atenei a sostituire i contrattisti non lo so. Un'idea potrebbe essere quella individuata dalla legge 230 sullo status giuridico della docenza che prevedeva un aumento delle ore di insegnamento dei professori universitari fino a 120 ore, contro le 60 attuali. La priorità adesso è non incidere ulteriormente sui bilanci". 

PARENTOPOLI: DIVIETO PER PARENTI ED AFFINI; AMMESSI CONIUGI, CONVIVENTI ED AMANTI. Università, vietato assumere i parenti. Tranne le mogli. Bari, 31 assunzioni all’università. La legge vieta congiunti dei professori fino al quarto grado. Ma il rettore annuncia: «L’interpretazione non è univoca», scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. La moglie è una parente? «Che razza di domanda!», direte voi. All’università di Bari, invece, indifferenti alle risate di scherno, la domanda se la pongono sul serio: d’accordo che la legge vieta l’assunzione in facoltà di «parenti e affini fino al quarto grado» ma perché mai escludere le mogli? Passi pure per i cognati, ma i mariti? Il tormentone di Parentopoli, all’ateneo «Aldo Moro» di Bari, va avanti da tempo immemorabile. «Per anni giornali, settimanali, libri e tv hanno elevato agli onori della cronaca i casi di alcune famiglie particolarmente portate alla carriera accademica - scrive Roberto Perotti già nel 2008 -. Nella facoltà di Economia sono noti i casi della famiglia Girone, con l’ex magnifico rettore Giovanni professore di Statistica, la moglie Giulia Sallustio, tre figli, un genero tutti docenti nella stessa facoltà; o della famiglia Massari, con Lanfranco professore di Economia aziendale, due fratelli, e almeno cinque tra figli e nipoti, a Bari e atenei limitrofi; o della famiglia Tatarano, con il padre Giovanni e due figli, tutti docenti di Diritto privato e tutti nello stesso corridoio». «Meno noto è il fatto che non ci sono soltanto loro - insiste il docente della Bocconi -. Nella facoltà di Economia almeno 42 docenti su 179 (quasi il 25 per cento) risultano avere almeno un parente stretto nella stessa facoltà; altri parenti sono sparsi per le altre facoltà dell’ateneo, e altri ancora insegnano negli atenei satelliti, nella sede staccata di Taranto, a Lecce, a Foggia. Tutte queste sono stime prudenziali, perché in parecchi casi fortemente sospetti non sono riuscito a rompere il muro di omertà e ad accertare al di là di ogni dubbio l’esistenza di un legame di parentela. E non c’è soltanto Economia: a Medicina e Chirurgia i cognomi che ricorrono almeno due volte sono 40, su 417 docenti». L’anno dopo, nel libro Parentopoli, Nino Luca rincara: «Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio (vale uno nonostante il doppio nome), Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela Monica Danila (tre nomi ma vale sempre uno) e Stefania. Totale otto Massari: Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari e Massari. Nell’ordine: ordinario, associato, ricercatore, associato, associato, ordinario, ricercatore e straordinario. Facoltà di Economia, economia, economia, economia, tutti ad economia. Stessa facoltà, stesso cognome, stessa famiglia, stesso mestiere, la stessa città. Anche se qualcuno, forse per frenare le malelingue, si è dovuto sobbarcare una piccola trasferta a Lecce e a Casamassima. Ma gli otto Massari portano l’università di Bari nel guinness dei primati». Macché record! Tre anni dopo, nel 2012, Striscia la notizia becca il direttore amministrativo Giorgio De Santis, via via consolato nella sua solitudine dall’arrivo all’ateneo barese della moglie, della figlia, di un fratello, della cognata, della sorella della cognata e di sette nipoti. Totale: dodici. «Ma no! Ma no!», si affrettavano via via a precisare dopo ogni scandalo i più rocciosi difensori del buon nome dell’università. «È tutta roba vecchia, un accumulo di casi isolati che non possono essere messi insieme. È il passato! Adesso c’è il codice etico!». Giusto, dal gennaio del 2007. Quando l’allora rettore Corrado Petrocelli benedisse le nuove regole, che vietavano le assunzioni dei parenti prima ancora che arrivasse la legge nazionale firmata da Maria Stella Gelmini, con parole di esultanza: «È un momento altissimo per l’intera comunità accademica barese. Bari adesso si pone come capofila nazionale per la lotta ai mali dell’università. Spero che da oggi in poi si parli più della bravura dei nostri ricercatori che degli scandali che in passato han travolto l’intera istituzione». Nel 2010, replay. Col trucco. Codice etico alla mano, Medicina è costretta infatti a negare l’assunzione di Maria Luisa Fiorella, prima al concorso per un posto da associato ad Otorinolaringoiatria. «Non è giusto!», si ribella il padre, Raffaele Fiorella, otorinolaringoiatra lui pure, professore e primario del Policlinico. E perché non sarebbe giusto? «Non è una legge, è un regolamento». E spiega al nostro Corriere del Mezzogiorno: «Mi verrebbe voglia di dimettermi, ma non lo faccio solo per rispetto dei miei pazienti e degli studenti». Poi ci ripensa, si dimette, va in prepensionamento e fa strada alla figlia. Il tempo che Maria Luisa si insedi e lui torna ad insegnare, con un contratto a tempo, nel dipartimento che dirigeva. Tié! Ma, ahinoi, il 30 dicembre 2010 l’insieme di «Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento», meglio nota appunto come legge Gelmini, sembra spazzare via ogni scappatoia. Dice infatti che «in ogni caso, ai procedimenti per la chiamata non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo». Chiaro? Non bastasse, una sentenza dell’Abruzzo annulla due anni dopo un’assunzione furbetta all’università di Teramo, basata proprio sul fatto che la legge non cita espressamente tra i parenti mogli e mariti, spiegando che «se l’affinità presuppone il coniugio, la ragione di incompatibilità riferita all’affinità (si badi, fino al quarto grado), a maggior ragione, deve valere per il coniugio». Linguaggio buro-giudiziario orrendo, ma chiaro. O no? No, pensa qualche testa fina a Bari. Tanto è vero che, essendo in arrivo i bandi per assumere trentuno nuovi professori associati, un’occasione in altri tempi unica per infilare un po’ di parenti, il problema è stato sollevato dal Collegio dei garanti, deciso a sciogliere le «incongruenze» appunto tra il codice etico dell’ateneo che precisa il divieto per i coniugi e la legge Gelmini che lascerebbe, per quanto sia ridicolo, questo pertugio. Il presidente del Collegio Ugo Villani ha invitato in una lettera i colleghi a interpretare la legge Gelmini in modo costituzionalmente corretto: «Sarebbe irragionevole il divieto per gli affini entro il quarto grado e non per il coniuge». Insomma, ha spiegato alla Gazzetta del Mezzogiorno, «non posso chiamare in dipartimento il cugino di mia moglie, che magari non ho mai visto in vita mia, ma posso chiamare mia moglie. È una situazione assolutamente irragionevole». Ovvio, agli occhi di tutti gli italiani. Ma non a quelli di tutti i docenti di Bari. Tanto che il rettore Antonio Uricchio, spiegando che «quella del Collegio dei garanti non è una interpretazione univoca» (testuale!), ha convocato il Senato accademico. Il tema è quello che dicevamo: la moglie è una parente? Chissà se questa dotta disquisizione contribuirà a rafforzare il profilo internazionale dell’università barese. Nell’ultimo ranking «Times Higher Education World» è tra il 351º e 400º posto in Europa. E quella mondiale è ancora più umiliante. Auguri.

«Parentopoli» All'Università di Bari, il caso di mariti e mogli, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Forse si è trattato di una svista. Forse, ed è più probabile, di un calcolo ben ponderato. Fatto sta che la legge Gelmini ha un buco, un buco che sta spaccando il mondo accademico e in particolare l’Università di Bari, dove sono in arrivo i bandi per reclutare 31 nuovi professori associati. Nell’eterna lotta al familismo universitario si pone un problema non da poco: sebbene sia vietato assumere chi ha «parenti o affini fino al quarto grado» nello stesso dipartimento, quel divieto non vale per mogli o mariti. E a Bari, tra quanti aspirano a un posto da professore, ce ne sono parecchi. Il problema è stato sollevato dal Collegio dei garanti, che ha fatto emergere le incongruenze tra la legge (e il nuovo regolamento di Ateneo) e il codice etico dell’Università di Bari, in cui - oltre ai parenti fino al quarto grado - è vietata anche l’assunzione del coniuge. In una lettera, il presidente del Collegio, Ugo Villani, ha dunque invitato i colleghi a una interpretazione «costituzionalmente orientata» della legge Gelmini: «Sarebbe irragionevole - scrive - sancire il divieto per gli affini entro il quarto grado e non per il coniuge». Al telefono, il professor Villani è ancora più esplicito: «Non posso chiamare in dipartimento il cugino di mia moglie, che magari non ho mai visto in vita mia, ma posso chiamare mia moglie. È una situazione assolutamente irragionevole, ed ecco perché mi sembrava giusto sollevare una questione che ha una indubbia rilevanza etica: per questo proponiamo una interpretazione della legge Gelmini che a noi pare giusta, ed è sostenuta da una sentenza del Consiglio di Stato». I giudici amministrativi hanno infatti annullato un assegno di ricerca che l’Università di Teramo aveva assegnato alla moglie di un ricercatore dello stesso dipartimento: «Se l’affinità presuppone il coniugio - hanno scritto i giudici -, la ragione di incompatibilità riferita all’affinità a maggior ragione vale per il coniugio»: in caso contrario, hanno avvertito, si rischia di istituzionalizzare «il biasimevole, ma non infrequente, fenomeno detto del familismo universitario». Ma per il momento il corpo docente barese si è mostrato scettico. Il codice etico, fanno notare in molti, è obsoleto (è stato emanato prima della legge 240, quando esistevano ancora le facoltà, e parametrava le incompatibilità ai settori scientifico-disciplinari), e spesso le relazioni personali tra colleghi nascono proprio in dipartimento. Altre Università (Milano Bicocca, Firenze, Venezia) hanno però emanato regolamenti che vietano anche mariti e mogli, seppur con sfumature diverse (in alcuni casi il divieto vale solo per i nuovi ingressi e non per le progressioni di carriera). Bari, invece, ha emanato un regolamento - non ancora in vigore - che richiama parola per parola il testo della legge Gelmini, e dunque salta a piè pari il problema dei coniugi. «Sono impegnatissimo a difendere il codice etico - dice il rettore Antonio Uricchio - ma quella del Collegio dei garanti non è una interpretazione univoca. Per questo motivo ho convocato per venerdì il Senato accademico, in quella sede il professor Villani rappresenterà le sue conclusioni e decideremo». È probabile che si arrivi a una votazione, ed a quel punto potrebbe accadere di tutto: anche che il Senato voti per ammettere ai concorsi mariti e mogli. Anche perché le prime 31 assunzioni secondo la legge Gelmini preludono a una successiva infornata di professori associati: se i vincitori dei concorsi (una procedura comparativa telematica) risulteranno già in servizio presso l’Università, infatti, i singoli dipartimenti potranno utilizzare le risorse economiche liberate per effettuare chiamate dirette a chi ha conseguito l’idoneità nel concorso nazionale. A Bari i casi di marito professore e moglie ricercatore nello stesso dipartimento (o viceversa) sono diverse decine. A Giurisprudenza, a Medicina, ma anche (e forse soprattutto) nelle facoltà scientifiche. La legge Gelmini ha eliminato la figura del ricercatore a tempo indeterminato, quelli che ci sono destinati a diventare tutti (prima o poi) professori. E c’è una vera guerra per chi deve entrare per primo. La questione è tutto sommato semplice, ma - qualunque sia la soluzione - si rischia di scontentare qualcuno. Venerdì il Senato accademico dell’Università di Bari, chiamata a reclutare 32 nuovi professori associati, dovrà scegliere come regolarsi sul caso dei coniugi che in queste ore sta spaccando la comunità accademica: se vietare l’assunzione di moglie e mariti - come chiede il garante del Codice etico, Ugo Villani - o se invece scegliere di adeguarsi al testo letterale della legge Gelmini che al proposito è vago, continua Scagliarini. Dopo i 32 bandi per associati, cui potrebbero far seguito un certo numero di chiamate dirette, arriveranno le assunzioni dei professori ordinari. E di coniugi che lavorano nello stesso dipartimento, a Bari ce ne sono tantissimi: quasi tutti, guarda caso, in possesso dell’abilitazione nazionale e dunque interessati agli imminenti bandi. Il direttore del dipartimento di Psicologia, Rosalinda Cassibba, è ad esempio moglie di Giuseppe Moro, professore associato di Sociologia. A Biotecnologie, la ricercatrice Grazia Paola Nicchia è sposata con il professore associato Antonio Frigeri (Fisiologia). Ad agraria, sono marito e moglie i ricercatori Agata Gadaleta e Giuseppe Ferrara. Il preside di Giurisprudenza, Massimo Di Rienzo, è il marito di Francesca Vessia, professore associato di Commerciale (in attesa di abilitazione). La legge 240 prevede il divieto di assumere nello stesso dipartimento «parenti o affini fino al quarto grado», senza far riferimento ai coniugi. Ma nella lettera che ha fatto scoppiare il caso, il professor Villani ha evidenziato che il rapporto di coniugio è alla base del concetto di affinità, e - soprattutto - che secondo il Consiglio di Stato il divieto va esteso anche a marito e moglie. Quello stesso divieto, peraltro, è contenuto anche nel Codice etico dell’Università di Bari, mentre il nuovo regolamento per le chiamate dei docenti non ne fa menzione: si limita a richiamare la norma di legge. È per questo che il rettore Antonio Uricchio ha demandato tutto al Senato che si riunirà venerdì. In quella occasione, dovrebbero essere votati i criteri delle assunzioni: la comunità accademica rischia dunque, indirettamente, di votare per l’assunzione di mogli e mariti. Il problema è che a Bari c’è un precedente, un precedente pesante. Nel precedente concorso per associati, a marzo 2013, uno dei 37 vincitori era la professoressa Stefana Santelia, moglie dell’allora rettore Corrado Petrocelli. All’epoca l’Università ha temporeggiato (l’assunzione di parenti del rettore non può avvenire in alcun dipartimento): la professoressa Santelia è stata chiamata a novembre 2013, dopo la scadenza del mandato di Petrocelli. Una procedura formalmente ineccepibile. Il problema è che la legge Gelmini era in vigore già allora, ma all’epoca nessuno si era posto il problema: e dunque c’è sul tavolo un precedente fortissimo.

Parentopoli in Ateneo, oltre venti cattedre per mogli e mariti prof. Scontro sul codice etico. Il presidente del Collegio dei garanti, Ugo Villani sarà ascoltato dal Senato accademico. "Il regolamento va modificato perché va prevista l'incompatibilità tra i coniugi", scrive Antonio Di Giacomo su “La Repubblica”. In pole position ci sarebbero circa venti docenti pronti a saltare in cattedra. Peccato, però, che sembra si tratti di mogli e mariti di professori già in servizio nell'Università di Bari. A meno che, venerdì prossimo, il Senato accademico durante la sua riunione straordinaria non accolga le sollecitazioni di Ugo Villani, presidente del Collegio dei garanti dell'Ateneo barese, che ha preso carta e penna e fornito chiare indicazioni sul regolamento per la chiamata dei professori di ruolo: "Il Collegio raccomanda al Senato accademico di modificare la normativa interna dell'Università di Bari per rendere esplicito divieto fondato sul rapporto di coniugio". Il peccato originale, infatti, è nell'articolo 18 della legge 240/10, meglio nota come riforma Gelmini, che fra le cause di esclusione dai procedimenti per chiamata dei professori, dal conferimento di assegni e dalla stipulazione di contratti considera incompatibili i parenti e affini anche non stretti (fino al quarto grado) e non il coniuge di "un professore appartenente al Dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero del rettore, del direttore generale o di un componente del Consiglio di amministrazione dell'Ateneo". Figli, cugini, nipoti, fratelli e sorelle no, insomma, ma mariti e mogli sì. Fatto sta che, sebbene curiosamente l'articolo 18 della Gelmini abbia lasciato proprio una finestra interpretativa aperta, il 15 settembre scorso il Senato accademico barese ha approvato un regolamento che richiama alla lettera la stessa legge. Superando così le più strette maglie del codice etico che pure l'Ateneo si era dato. Ma qui Villani invoca l'autorevole parere del Consiglio di Stato che, rispetto alle cause di esclusione, ha già parlato chiaro nella sentenza 1270 del 2013, giudicando "irragionevole considerare ai fini dell'incompatibilità, un rapporto di parentela e affinità anche non stretto (fino al quarto grado) ed escluderlo invece per il coniuge ". A meno che non si ritenga "che il biasimevole, ma non infrequente, fenomeno del familismo universitario, vada addirittura istituzionalizzato". Ed è appellandosi a questo pronunciamento che Villani, anche alla luce di una delibera assunta dal Collegio dei garanti lo scorso 21 ottobre, ha osservato, come sarebbe "irragionevole sancire il divieto per gli affini entro il quanto grado e non per il coniuge, essendo invero il rapporto di coniugio il presupposto giuridico della affinità". Ma qual è il parere della comunità accademica? Per Giovanni Lapadula, direttore del dipartimento di Medicina, "l'osservazione di Villani è giusta, visto che marito e moglie sono due persone inizialmente estranee fra cui si crea un legame affettivo forte che va poi sottoposto a valutazioni etiche quando si parla di carriere. Ma credo ci sia pure il problema di quei legami affettivi, come le convivenze, non registrati ufficialmente e che pure pongono questioni etiche, le convivenze nel quale non c'è vincolo matrimoniale ma lo stesso vincolo. Ritengo, quindi, che laddove ci siano dei dubbi debba poter esistere una commissione etica indipendente, costituita da componenti esterni all'Ateneo, perché i singoli casi siano analizzati con serenità ". Mentre Massimo Di Rienzo, direttore di Giurisprudenza, osserva che "escludere qualcuno da una procedura in assenza dei presupposti di legge significa adottare delle decisioni delle quali si può essere responsabili ai fini risarcitori. Le incompatibilità devono essere quelle stabilite dalle norme: ogni decisione non potrà che essere coerente al dettato legislativo". Non ha dubbi, invece, il Codau, l'associazione dei direttori generali delle università italiane che, richiamando il Consiglio di Stato, in un documento del novembre 2013 scrive: "Il rapporto di parentela e coniugio devono essere considerati tra le incompatibilità".

TANTO BRAVO DA INSEGNARE ALL’ESTERO? PENALIZZATO. Insegnavi a Yale? Mettiti pure in coda. All’Università del Salento più punti a chi ha avuto cattedre nei nostri atenei, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Vale di più una cattedra ad Harvard o all’ateneo di Villautarchia? Dipende. All’Università del Salento, pare impossibile, il concorso per assumere 16 professori riconosce più punti a chi ha già insegnato nelle nostre aule piuttosto che ai docenti di Berkeley o Yale. Che gli atenei italiani possano essere sottovalutati dalle classifiche mondiali, come sospirano i rettori, è possibile. Anche l’ultimissimo «World University Ranking» del Times Higher education vede nelle prime 200 addirittura 74 università statunitensi, 29 britanniche, 12 tedesche, 11 olandesi, 8 canadesi, 8 australiane, 7 svizzere, 7 francesi, 5 giapponesi, 4 turche (quattro!) e una sola italiana. Cioè la Normale di Pisa che si piazza al 63º posto e, nella classifica pro capite, tenendo conto del numero degli studenti, starebbe molto più in alto. Seguono, nella seconda fascia, l’ateneo di Trieste e la Bicocca di Milano: nelle prime 250, a dispetto di tutte le vanità sulla «patria della cultura», non abbiamo altro. Domanda: allora come mai, se le università italiane sono così scarse, i nostri ragazzi appena mettono il naso al di là della frontiera fanno spessissimo un figurone in tutto il mondo? Risposta: perché evidentemente, nonostante tutti i difetti, tutti i concorsi truccati, tutte le Parentopoli, nelle nostre aule si insegna e si impara meglio di quanto si pensi. Il problema della reputazione, però, resta. Ed è pesante: come possiamo rassegnarci ad avere tra le prime 400 università d’Europa solo 17 italiane? Fatto sta che, non contentandosi di contestare la sacralità di queste classifiche, l’Università del Salento ha deciso di andare oltre. E di valutare di più i curriculum «caserecci» che non quelli di profilo internazionale. Lo dice il bando di selezione «per la copertura di 16 posti di professore universitario di ruolo di 2ª fascia» firmato dal rettore Vincenzo Zara. Già il documento, va detto, è un capolavoro del delirio burocratese in cui affoga l’Italia: prima di arrivare al nocciolo, la delibera vera e propria, elenca infatti 42 «visto» e «vista» (da «vista la legge 23 agosto 1988 n.370 - esenzione dell’imposta di bollo...» a «vista la legge 9 maggio 1989 n.168-istituzione del ministero dell’Università...») più due «considerato» e un «ritenuto» per un totale di 189 righe di logorrea «codicillica». Il seguito, però, è perfino peggio. Già alla prima delle cattedre messe in palio, infatti, quella di Archeologia, il massimo riconosciuto per l’«attività di docenza svolte in Italia» è di 20 punti, quello per le «attività di docenza e attività di ricerca all’estero» compresi gli «incarichi o fellowship ufficiali presso atenei e centri di ricerca esteri di alta qualificazione» e la «partecipazione a convegni internazionali in qualità di relatore», solo di 4. Cinque volte di meno. Col risultato, ad esempio, che se un fuoriclasse celebre nel mondo come Andrew Stewart, specializzato in «Ancient Mediterranean Art and Archaeology», volesse prendersi lo sfizio di lasciare l’Università di Berkeley per venire a Lecce (ammesso che fosse accettato nonostante il passaporto straniero) avrebbe per la sua esperienza didattica 4 punti rispetto ai 20 riconosciuti a un ipotetico professor Tizio Caio che abbia insegnato in un’università telematica di Rocca Cannuccia. Assurdo. Tanto più di questi tempi, coi docenti delle «telematiche» che paiono (ma ci torneremo) moltiplicarsi miracolosamente. E se può essere spacciato come una scelta sensata lo squilibrio (16 punti agli «italiani», cinque agli «stranieri») per la cattedra di letteratura italiana contemporanea, anche se ci sono fior di stranieri che la conoscono meglio di tanti italiani, appare folle la sproporzione, ad esempio, per la cattedra di Econometria (20 punti a 10), di «Meccanica applicata alle macchine» (30 punti a 10), di Botanica (20 punti a 5) o di «Misure elettriche ed elettroniche» dove lo squilibrio è ancora quintuplo: 10 punti ai «casalinghi», 2 agli eventuali acquisti dall’estero. Un terzo del punteggio che l’aspirante professore potrebbe guadagnare dimostrando di sapere l’inglese! E non è tutto. Un ricercatore ha generalmente un punteggio uguale a quello del capo-ricerca e in alcune discipline perfino più alto. Peggio: a «Progettazione industriale» chi ha avuto la «responsabilità scientifica di progetti di ricerca, nazionali e internazionali ammessi al finanziamento sulla base di bandi competitivi» ottiene un punto. Chi ha solo partecipato ne ottiene nove! Che razza di criterio è? Per carità: evviva l’Italia ed evviva gli italiani! Ma se all’estero vanno a cercarli apposta gli stranieri (compresi moltissimi dei nostri, soprattutto giovani) per dotare il proprio ateneo di una classe accademica più variegata e internazionale e multiculturale possibile, perché mai noi dobbiamo fare il contrario? A Flavia Amabile che ne ha scritto nel blog de La Stampa, il direttore del dipartimento di fisica leccese ha spiegato che era importante «avere personale docente con esperienza didattica in Italia che possa da subito svolgere al meglio i corsi e, eventualmente, ricoprire cariche accademiche» (testuale!) e che c’era da «valorizzare i ricercatori (italiani e non) che in questi anni di blocco dei concorsi hanno consentito il normale svolgimento delle attività didattiche». Per carità, sarà anche vero... Ma all’estero come la vedranno, questa faccenda? Ci farà guadagnare o perdere altri punti nelle classifiche?

UNIVERSITA'. DOTTORATI DI RICERCA. ANCHE A SINISTRA ROBA NOSTRA? Dottorato di ricerca al figlio del senatore e il prof cambia la sim del cellulare. Nelle intercettazioni della Guardia di Finanza il ruolo di Loiodice per favorire Procacci (Pd), scrive Gabriella De Mattei e Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Non ci sono soltanto scambi di favore tra docenti per spartirsi le cattedre italiane. Nell’inchiesta Do ut Des - la maxi indagine della Guardia di Finanza sui concorsi italiani nelle facoltà di Giurisprudenza - ci sono anche nomi e favori ad alcuni politici. Tra gli indagati c’è l’ex ministro, Anna Maria Bernini, che aspirava a un posto da ordinario. Ma negli atti si parla anche di un ex senatore del Partito democratico, Giovanni Procacci, oggi dirigente regionale del partito, e di suo figlio, Pasquale. Il ragazzo (che non è indagato) secondo l’accusa sarebbe stato favorito dal professor Aldo Loiodice per superare una prova per il dottorato di ricerca in diritto Pubblico, con le prove svolte tra il 18 e il 22 dicembre del 2009. Nel fascicolo della Procura è ricostruita tutta la storia di questa prova. Non una qualunque non fosse altro perché, secondo la ricostruzione del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, segna la rottura all’interno dell’organizzazione, e cioè tra il gruppo dei professori baresi e quella del ras della Giustino Fortunato, Angelo Colarusso. Secondo la ricostruzione, dopo le polemiche su alcuni concorsi sollevate da Repubblica, si erano creati due posti schieramenti, uno che faceva capo a Gaetano Dammacco e l’altro ad Aldo Loiodice. A svelare quello che accade è una cimice piazzata all’interno dello studio del professor Dammacco. Sia lui sia Loiodice sarebbero interessati a piazzare propri uomini all’interno della commissione. Dove, con un colpo di spugna, viene nominata il 17 dicembre del 2009 la figlia di Loiodice, Isabella, a scapito di due protetti di Dammacco. Che infatti si infuria sostenendo che si tratti di una grossa mancanza di rispetto nei suoi confronti. Da qui partono una serie di conversazioni tra il gruppo dei docenti pro Dammacco, che vedono minata la posizione della loro protetta. Non avevano tutti i torti. Il 18 dicembre la figlia di Loiodice, Isabella, chiama il padre aggiornandolo sulle procedure: gli dice che è stata fatta la prova scritta dove è avvenuta la prima scrematura e c’è un elenco di promossi all’orale. Tra loro c’è anche Procacci, come spiega la figlia al padre seppur con un linguaggio criptico. Gli investigatori ricostruiscono infatti i rapporti tra Loiodice e il senatore Procacci, sostenendo che i due fossero amici. E come si deduce dalle ambientali intercettate nello studio di Dammacco, Loiodice avrebbe apparecchiato la commissione soltanto per favorire il figlio del senatore. «Ti sto pensando» diceva l’amministrativista al suo allievo al telefono, utilizzando il solito linguaggio criptico. Loiodice sapeva dell’indagine. Ed era convinto di essere intercettato. Lo dimostra il fatto che a fine dicembre del 2009 attiva una nuova scheda sim, che utilizza soltanto lui, ma che viene intestata a un collaboratore di studio. Scheda che gli investigatori riescono comunque a intercettare. Tornando al concorso, si svolgono le prove orali. E le cose vanno come dovevano. È il 22 dicembre quando Giovanni Procacci, avendo saputo di aver passato la prova, chiama immediatamente il suo mentore Loiodice per ringraziarlo e gli preannuncia una visita allo studio insieme con il padre. Subito dopo Loiodice chiama Isabella facendo una telefonata, secondo gli investigatori da manuale: «Non sapevo niente le dice, in sintesi - non mi sono mai permesso di dire niente come sei eppure ora mi ha telefonato Pasquale Procacci per dirmi che aveva vinto. Sono proprio contento, vuol dire che il ragazzo è bravo». Questa parte del fascicolo di Do ut Des è quella che è rimasta a Bari. Mentre gran parte delle altre prove sotto inchiesta sono state spacchettate e mandate per competenza in altre procure: da Milano a Lecce, a troppi anni di distanza e nonostante il lavoro ciclopico del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, c’è la prova di come i baroni italiani (molti ormai andati in pensione, altri che invece ricoprono gli stessi ruoli se non addirittura più prestigiosi) scambiavano l’Università pubblica per cosa loro, trasfor-mando le prove in qualcosa che nulla aveva a che fare per il merito. Un concorso per, appunto, un do ut des.

"Pronti a sospenderci dal Pd se Procacci non rimetterà il suo incarico e se Michele Emiliano, da segretario regionale, non sia lì a pretendere le sue dimissioni da coordinatore della segreteria". Lo afferma, a proposito del coordinatore della segreteria del Pd pugliese, Giovanni Procacci, questa mattina con una lunga nota su Fb l’assessore regionale e candidato alle primarie Guglielmo Minervini (Pd), a seguito dell’inchiesta sugli scandali che riguardano i concorsi all’Università di Bari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I nomi di Procacci, padre e figlio, - secondo quanto si è appreso da fonti giudiziarie – non risultano nell’elenco degli indagati, pur essendo menzionati in una intercettazione telefonica.  "Un partito di quelli che raccomandano i propri figli - aggiunge - è il principale avversario del cambiamento della Puglia. Procacci dovrebbe avvertire il bisogno di togliere il Pd dall'imbarazzo dimettendosi dall'incarico di rappresentanza. Il segretario regionale (Michele Emiliano, anche lui candidato alle primarie del 30 novembre ndr) spero glielo abbia chiesto. Altrimenti - aggiunge Minervini - ci sospenderemmo noi dal Pd. Su questo punto non si transige. Non si può transigere. Sulle questioni di fondo non si bara". "E' evidente – aggiunge – che il fesso sono io. Dieci anni assessore regionale, nientepopodimeno, e una figlia a Milano ancora a sbattersi in giro, con tutte le sue energie, per cercare uno stage non retribuito, dopo un lavoro precario in condizioni da sfruttamento". "In fondo, come ci ricorda Procacci, se sei un politico di punta basta una telefonata all’amico barone, et voilà, dottorato vinto per tuo figlio, primo passo – continua Minervini – di una carriera luminosa spianata in forza di un cognome che sfonda i traguardi come un ariete. Con buona pace di chi quel posto lo meritava davvero, ma essendo privo del supporto di una buona famiglia, si è visto sorpassato a destra: gli auguriamo, davvero di cuore, migliore successo. Quelle intercettazioni tra l’accademico e il coordinatore della segreteria regionale del PD, l’uomo più vicino di Michele Emiliano (anche lui in corsa nelle primarie del centrosinistra alla presidenza della Regione Puglia,ndr), sono una ferita profonda". "Ovviamente – aggiunge – non ci interessa il rilievo penale della vicenda ma esclusivamente i due nodi politici che solleva. Il primo riguarda la credibilità di una classe dirigente", il secondo riguarda il nepotismo e il clientelismo che "sono il male oscuro del paese". Sempre su Fb la replica di Procacci: "Caro Guglielmo, non pensavo che arrivassi a tanto, strumentalizzando una vicenda - afferma – che non mi vede minimamente coinvolto E» possibile che un figlio di persona nota sia capace e meritevole? O per forza i suoi traguardi sono dovuti all’influenza dei genitori? Anche un altro mio figlio sta facendo concorsi e andrà lontano, come è già avvenuto in passato". "Non ricopro ruoli istituzionali, e nel partito coordino la segreteria. Non esiterei un attimo a dimettermi se questo non dimostrasse una mia qualche colpevolezza. Hai scritto la tua nota – aggiunge Procacci – dimenticando che la mia vita pubblica è stata sempre esemplare. Non sono mai stato sfiorato da nessuna ombra e tu conosci bene la mia onestà e la mia correttezza". Il senatore del Pd Giovanni Procacci si è autosospeso dal ruolo di coordinatore regionale del partito "rimettendo la questione alla direzione regionale dopo le primarie", in relazione alle accuse mossegli dall’assessore regionale e candidato alle primarie del centrosinistra per la presidenza della Regione Puglia Guglielmo Minervini (Pd). Era stato quest’ultimo a chiedere ufficialmente che Procacci si dimettesse. I nomi di Procacci, padre e figlio, compaiono - ma senza che siano indagati, secondo fonti giudiziarie – in una intercettazione dell’inchiesta della procura di Bari su presunti favori nell’assunzione di docenti universitari. "Era per me impensabile – sostiene Procacci nella nota in cui comunica la decisione di dimettersi – che un amico con cui ho condiviso tante cose potesse strumentalizzare una vicenda del 2009 che non mi vede minimamente coinvolto nè sul piano giudiziario nè su altri piani attinenti le questioni dell’Università. Non ricopro ruoli istituzionali e il mio unico impegno, di mero volontariato, è quello di coordinare la segreteria regionale. Tuttavia – aggiunge – non posso neanche consentire che si strumentalizzi la mia persona per colpire obiettivi politici in vista delle primarie". Nella seconda parte della nota Procacci attacca il suo accusatore. "Minervini – dichiara il senatore – dovrà trovare altri argomenti per proseguire la sua campagna elettorale. Il tentativo di sciacallaggio di Minervini nei miei confronti ha un riscontro oggettivo: come mai Guglielmo non chiede le dimissioni di suoi colleghi di giunta che sono indagati e che - sinceramente spero di no! – potranno essere rinviati a giudizio? Le chiede a me, che non sono nemmeno indagato, solo perchè ho la colpa di sostenere Emiliano: una ferocia d’animo che non distingue più il piano della politica da quello dell’odio e del rancore personale". Procacci sostiene quindi che Minervini non avrebbe agito allo stesso modo se non ci fossero state le primarie e lo stesso senatore non avesse sostenuto Emiliano nella corsa alla candidatura per il centrosinistra alla presidenza della Regione Puglia". "Nè si è preoccupato di acclarare la verità – conclude Procacci riferendosi all’assessore – semplicemente non ha resistito alla ghiotta occasione di poter colpire attraverso di me il suo avversario, incurante delle ferite morali e psicologiche che avrebbe inferto a me ed alla mia famiglia".

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti. Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso? Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato. E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

«Vai in prigione, professore», scrive Domenico Battista il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio". “Cupola” dei professori: condanna definitiva, ma il processo deve ancora iniziare. In merito alla vicenda dei professori tributaristi, immediatamente è scattato il meccanismo: tutti certamente colpevoli, condanna già definitiva, si tratta soltanto di lasciare al giudice (quello vero!) un margine di discrezionalità per stabilire l’entità della pena (che comunque dovrà essere esemplare). Ognuno ha pensato «io lo sapevo- lo sapevano tutti», finalmente è arrivato un giudice che ha messo fine allo schifo. “Cupola” dei professori: condanna definitiva, ma il processo deve ancora iniziare. Premetto che conosco poco o nulla del procedimento pendente a Firenze, nel corso del quale il GIP ha emesso una lunga e complessa ordinanza di custodia cautelare nei confronti solo di alcuni dei numerosi indagati dei reati di «corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio» o per «induzione indebita» o ancora per «turbata libertà del procedimento di scelta del contraente». Non sono, quindi, in grado di dire se effettivamente siano giustificati i provvedimenti cautelari emessi dal GIP su richiesta dei pm fiorentini. Ma non è questo il tema del mio intervento: le ipotesi di reato, se troveranno conferma in sede processuale, sono certamente gravi ed è giustificato l’allarmismo e lo sconcerto che una notizia tanto clamorosa determina nell’opinione pubblica. Nelle aule giudiziarie si raccoglieranno le prove e si stabilirà se gli odierni indagati, forse un domani imputati, meritino o meno una condanna e se la qualificazione giuridica delle condotte loro attribuite sia corretta o meno. Giusto dunque informare e altrettanto legittimo commentare la notizia degli arresti. Ma nella vicenda fiorentina si è manifestato qualcosa di diverso e, a mio avviso, di preoccupante: siamo ormai tristemente abituati alla deriva dei cosiddetti processi mediatici, con trasmissioni televisive che si affannano non a svolgere una attività di supplenza dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria ( sulla quale ci sarebbe già molto da discutere) ma a sostituirsi ai giudici, anticipando, sulla base di qualche elemento sensazionale, certezze che tali non sono, ma che influenzano ed alimentano non la ‘ sete’ di giustizia, ma la ‘ voglia’ di vendetta di tanta parte degli spettatori. Creando talvolta situazioni paradossali, di vero e proprio tifo ultrà tra innocentisti e colpevolisti, i primi pronti a fischiare i giudici che, nelle sedi proprie e sulla base di regole che, come si conviene in uno stato di diritto, sono predeterminate, pervengono ad affermazioni di responsabilità. Gli altri pronti ad insultare e finanche aggredire i giudici che, sulla base di una diversa convinzione, non hanno aderito alle tesi accusatorie giungendo a decisioni assolutorie. E’ venuto fuori infatti un nervo scoperto e si sa che anche sfiorarlo determina un sussulto. E’ sensazione diffusa, ed aggiungo non ingiustificata, che il sistema universitario – ricco di quelli che in gergo definiamo sprezzantemente ‘ baroni’ ed altrettanto popolato da allievi pronti ad eventuali compromessi che consentano progressioni di carriera – sia affetto da una grave patologia, da forme di chiusura in un mondo di pochi eletti che spesso taglia le gambe ai più meritevoli e favorisce i più scaltri. D’altra parte se le cause sono tante, l’effetto è evidente: le Università, salvo come sempre poche ma esemplari isole felici, sono allo sfascio; ed il ‘ prodotto’ che sfornano ormai da molti anni, i laureati, quando va bene poco preparati, ma per tanta parte incolti e finanche ignoranti (e non solo nella materia prescelta!) sono sotto gli occhi di tutti. La notizia degli arresti e delle interdizioni è arrivata improvvisa, ma non inaspettata e non ha colto di sorpresa, per quella ‘ consapevolezza inconscia’, come la ha definita qualcuno, che il marcio esisteva e che finalmente il pozzo nero era stato scoperchiato. Coinvolgendo tutti: arrestati, interdetti e finanche solo indagati (nei confronti dei quali, quanto meno perché non raggiunti da alcun provvedimento anticipatorio – che, in concreto, significa carenza di gravi indizi e/ o di esigenze cautelari dovremmo essere indotti ad un minimo di maggior prudenza). Immediatamente è scattato il meccanismo: tutti certamente colpevoli, condanna già definitiva, si tratta soltanto di lasciare al giudice (quello vero!) un margine di discrezionalità per stabilire l’entità della pena (che comunque, per soddisfare il palato delle novelle tricoteuses, dovrà essere esemplare). Ognuno ha pensato «io lo sapevo, io lo sospettavo, lo sapevano tutti, lo sospettavano tutti», finalmente è arrivato un giudice (in questo caso a Firenze e non a Berlino) che ha messo fine allo schifo. Pochi hanno riflettuto che è difficile immaginare che oltre una cinquantina di persone sparse su tutto il territorio nazionale fossero tutte d’accordo, pronte a delinquere. Può darsi che sia effettivamente accaduto un tale inconsapevole accordo, ma il dubbio, evocato nella denominazione di questo giornale, non fa parte della coscienza collettiva di certa opinione pubblica. E siccome ognuno di noi ha ormai – ed è un bene anche se talvolta utilizzato male un nuovo mezzo di comunicazione immediata e diretta del proprio pensiero e delle proprie opinioni, i Social, la condanna mediatica ha già fatto il suo corso: paradossalmente è già passata in giudicato finanche prima ancora di conoscere le imputazioni e la loro complessa articolazione (imputazioni che, se lette, forse qualche dubbio almeno agli addetti ai lavori dovrebbero suscitare). Un tempo, senza internet, era più complicato: occorreva preparare un palco in piazza, allestire una gogna, far sfilare il malcapitato, colpevole o innocente che fosse, tra due ali di folla urlante e ringhiosa, e sottoporlo al pubblico ludibrio. In tempi più vicini, in un impeto di esaltazione collettiva, i maoisti inventarono una forma più raffinata di gogna, appendendo cartelli ed orecchie d’asino ai controrivoluzionari: ironia della sorte anche in quel caso si trattava di molti professori universitari; e chi di noi sotto sotto non odia o non ha odiato un professore….

Oggi tutto è più semplice, ma le conseguenze sono drammaticamente peggiori: per i diretti interessati, vittime della gogna mediatica, ma anche, mi sia consentito di dirlo, per la civiltà di un paese che dovrebbe aver messo al bando da molto tempo l’idea della vendetta e dell’odio per chi ha sbagliato (se ha sbagliato), scegliendo in modo definitivo la cultura del processo propria di uno Stato di diritto moderno e democratico. Leggere i giornali cartacei o on- line, ascoltare giornali radio non è sufficiente per rendersi conto di quanto sta accadendo: occorre fare un giro su Facebook, sulle studiate condivisioni di foto degli indagati, sui commenti al limite del sanguinario per scoprire od avere conferma della degenerazione in atto. Ma c’è qualcosa di nuovo e ‘ di più’ che ho notato rispetto a tanti altri casi di giustizia popolar- mediatica (antitesi della giustizia vera, a cui tutti dicono di volersi ispirare che in troppi disdegnano). Il nervo scoperto di un sistema universitario che, a voler essere buoni, constatiamo tutti essere non funzionante, ha aperto un nuovo cantiere giustizialista. Non basta spiegare che una ordinanza di custodia cautelare non equivale ad una sentenza di condanna, che i gravi indizi non sono equiparabili alle prove certe al di là di ogni ragionevole dubbio, che le prove devono essere raccolte in contraddittorio tra le parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale ( auspicabilmente un domani anche separato in carriera dal pm), che devono ancora essere espletati gli interrogatori di garanzia, che un indagato non soggetto a misure cautelari è in posizione processuale evidentemente diversa da altro indagato raggiunto da provvedimenti restrittivi o interdittivi. Tutto questo non interessa: alla condotta penalmente rilevante, agli elementi costitutivi di ogni reato, alla responsabilità penale necessariamente individuale (e non collettiva, salvo che nei casi di reati associativi, nel caso di specie non contestati) si è istantaneamente aggiunta una nuova categoria giuridica: la prassi. La prassi era quella, anzi è quella: lo sappiamo tutti quello che accade nei concorsi universitari, i favoritismi, il clientelismo, il nepotismo e via dicendo. Si è arrivati tardi, come hanno fatto i pm a non accorgersi prima che quella era la prassi e che quella andava e va punita? Ma il malcostume può da solo essere sufficiente a trasformare un comportamento scorretto in un condotta illegittima con caratteristiche tali da assumere rilevanza penale?

E’ un sofisma da giuristi o è un principio di civiltà prevedere che non qualsiasi condotta riprovevole, ma solo quella che integra gli elementi costitutivi di una fattispecie codificata costituisce reato? Si invoca tanto, e tante volte a sproposito, la Costituzione e poi ci dimentichiamo che esiste un sacrosanto principio, quello di legalità, sancito dall’articolo 25 della nostra Carta fondamentale, che a sua volta nasce da secoli e secoli di progressivo avanzamento della civiltà giuridica. Le prassi sono una cosa diversa; in certi casi, pur andando contro una specifica previsione normativa, possono finanche essere virtuose. Ma non è pensabile che possano assumere autonoma valenza penale e giustificare il pubblico ludibrio dell’intera classe di professori universitari. Attenzione a non cadere in questa ulteriore forma di populismo (già in parte coltivata dai nostri disattenti legislatori che sembrano fare a gara, per solleticare la pancia di un elettorato che sanno essere giustizialista e forcaiolo, ad inventare nuove imperdibili figure di reato destinate o a rimanere solo sulla carta, come altrettante grida manzoniane, o ad aggravare ulteriormente lo stato comatoso della nostra giustizia penale). Teniamo ben distinti, in conclusione, i giudizi morali dalle statuizioni penali: i primi sono del tutto soggettivi e, in quanto tali, possono essere privi di regole, ancorché necessariamente espressi nelle dovute forme, per non cadere nella diffamazione o peggio nella calunnia; le seconde necessitano di regole, di garanzie, di prove certe acquisite nel rispetto delle leggi, di aule giudiziarie dove non solo vengano celebrati processi, ma ‘ giusti processi’, come oggi ci impongono sempre di più non solo i principi costituzionali, ma anche quelli sanciti dalle carte sovranazionali e dalle Corti che ne sono i loro interpreti...

Crimini accademici senza pudore né pentimento, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, il 2 aprile 2011 su "Il Fatto Quotidiano". È di questi giorni la notizia che 22 docenti universitari in 11 città italiane siano stati indagati, perquisiti e accusati di aver gestito un sistema di concorsi nazionali truccati. Il primato più triste nel crimine universitario spetta all’ateneo di Siena, dove è stato chiesto il rinvio a giudizio di 27 persone per peculato, truffa e abusi. Non si attenda ora che la giustizia faccia il suo corso, lento e lungo com’è quando gli imputati con i soldi sottratti e i rapporti realizzati nel periodo aureo si possono poi permettere difese di lusso per prescrizioni di comodo! Borsellino docet: quanti disonesti non sono mai stati condannati perché mancavano le prove? Eppure gravi sospetti sul loro conto dovrebbero bastare a impedirne l’assunzione a incarichi che richiedono specchiata moralità. Su questo equivoco giocano soprattutto le toghe accademiche, dimostrandosi indegne di cattedre e non meritando neppure rispetto umano! Siena ne è l’esempio clamoroso e sconcertante: dopo tutto quello che è successo, nessuno dei rettori o presidi vecchi e nuovi ha speso una parola di ammissione di responsabilità proprie o altrui! E mi riferisco alle responsabilità ben più gravi di quelle di livello solo penale di coloro che hanno tentato di spacciare i criminali comportamenti in voga nel sistema senese per disattenzioni e banalità. Il presidente dei rettori italiani, una volta scoperto e smascherato, rimosso dalla forza pubblica per interdizione giudiziaria, rinviato a giudizio, condannato in un primo processo, ha la faccia di definire “disattenzioni” e “banalità” i reati all’origine dell’interdizione e della condanna, con oscena ostentazione della propria proterva persistente volontà di ripetere e pure offendere le vittime, oltre a chi, come il sottoscritto, andò per Procure a esporre il malaffare imperante sotto la rigida regia rettorale. Il clima nazionale, del resto, è quello di azzerare nei fatti ogni eccellenza, come quella di Francesco Lanzillotta, direttore d’orchestra italiano in Bulgaria, solo per citare l’ultima scoperta dalla stampa. Che testimonia la sfortuna di essere governati, a Siena e in Italia, da maldestri senza scrupoli legittimati da una casta accademica complice e corrotta e una popolazione italica di ignavi e indifferenti! E su chi osa gridare che il re è nudo incombono – per il gioco delle parti – danno e beffa aggiuntivi di pretestuose iniziative giudiziarie, perchè (Manzoni docet) “il prepotente offende e si ritiene offeso”! Così gli ex rettori Berlinguer e Tosi annunciano querela nei confronti di chi li ha coinvolti nel dissesto dell’Università di Siena. Minacciosi, disastrosi e incorreggibili questi signori e (ex) padroni dell’università italiana, certamente e tristemente da non inviare a trattamenti di recupero!

Soldi, sesso e ricatti: il lato oscuro delle università italiane. Dall'ordinanza di custodia cautelare della procura di Firenze esce uno spaccato inquietante sulle trame dietro ai concorsi. Lettere anonime, faide tra luminari e un suicidio: le carte dell'inchiesta, scrivono Alessandro Da Rold e Luca Rinaldi il 27 settembre su "Lettera 43". Sesso, ricatti, faide tra luminari del diritto, lettere anonime per infangare e mettere fuori gioco dai concorsi altri candidati a incarichi da professore. Persino il sospetto da parte degli inquirenti che le spartizioni baronali, con l'intento di favorire candidati associati agli studi legali, fossero un modo per qualificarli così da giustificare poi parcelle più onerose di svariate milioni di euro. In pratica, soldi, sesso e ricatti, come nei più classici romanzi di James Ellroy. E per di più l'ombra di un suicidio, causato da una fuga di notizie per informare uno degli indagati. Dall'ordinanza di custodia cautelare dell'inchiesta della procura di Firenze - che ha sgominato la presunta cricca di tributaristi che si spartivano i posti da professori nelle università italiane - emerge un quadro inquietante del mondo accademico.

L'indagine, partita grazie alle registrazioni con il cellulare del ricercatore Philip Jezzi Laroma, ha già portato agli arresti domiciliari sette professori, facendone interdire dalle lezioni altri 22. Le accuse sono di corruzione e abuso d'ufficio. Ma, in attesa del processo, gli strascichi rischiano di farsi sentire nel lungo periodo soprattutto nel mondo dei luminari del diritto tributario. Nelle carte firmate dal gip Angelo Palazzi c'è di tutto. Non solo le ormai note frasi del professore Pasquale Russo a Laroma, con i riferimenti nemmeno troppo velati a farsi da parte («È il mercato delle vacche» o «non fare l'inglese, fai l'italiano») abbandonando le speranze nella meritocrazia nostrana, ma c'è persino un caso di depistaggio organizzato ad arte durante un concorso universitario per screditare un altro candidato. Le parole pronunciate dal presidente della Commissione sono inequivocabili. Egli parla senza mezzi termini di "ricatto". C'è infatti una lettera anonima diretta a mettere in luce l'incompatibilità della candidata del professor Fabrizio Amatucci, ordinario di Diritto tributario a Napoli ai domiciliari, con l'accusa di corruzione. A farla preparare è il professor Adriano Di Pietro, presidente della commissione che deve decidere sulle candidature. E chi la prepara? Uno dei suoi candidati, Giangiacomo D'Angelo, perché da una parte lo stesso Amatucci ha «qualche debolezza, perché si dichiara a tempo pieno però lavora nello studio del padre», e poi «c'è una delle candidate che lavora sempre lì nel suo studio». Fatte verificare le informazioni dal proprio candidato, Di Pietro dà indicazioni perché lo stesso scriva una lettera e la faccia pervenire anonimamente al suo studio così da poterla aprire nel corso della seduta della commissione del primo aprile 2015. Una strategia che, dice Di Pietro intercettato, «fa parte del ricatto che devo fargli», altrimenti Amatucci si impunterà per l'abilitazione dei suoi. Annotano i magistrati: «Le parole pronunciate dal presidente della commissione sono inequivocabili. Egli parla senza mezzi termini di "ricatto"».

Di Pietro - scrivono i pm - ha pertanto bisogno di avere le informazioni richieste perché vuole ricattare Amatucci per ottenere che egli non si impunti per avere l'abilitazione dei candidati Selicato e Tundo. Dopo appena due giorni, il 28 marzo 2015, Di Pietro ottiene dal candidato D'Angelo le informazioni richieste. Quest'ultimo spiega al commissario: «Senta prof, io ho chiesto informazioni, ieri ho fatto qualche telefonata... sembrerebbe che la tipa in realtà collabora... collaborava con loro, veramente con un ruolo di sottordine, nel senso che... eh sì sì sì, ma con un ruolo di sottordine... portava delle cose, cioè non ha... non aveva.... era professionalmente soda/e, sostanzialmente... però senza un ruolo di...». Come se nulla fosse la lettera arriva a Di Pietro, viene aperta e mostrata ai commissari in coda alla riunione del primo aprile. Al termine della seduta mostra la lettera dicendo di averla aperta lì davanti a tutti. Giuseppe Cipolla, altro membro della commissione, dopo averla letta, la definisce «bruttissima». E, come previsto, mette in difficoltà Amatucci che nega ci siano incompatibilità con la candidata Ciarcia, segnalando che lui lavora a tempo pieno per l'università e che se anche la candidata collabora con lo studio del padre la cosa non lo riguarda. Seguendo la narrazione di Russo, l'abilitazione della ricercatrice sarebbe stata portata avanti quindi da Fransoni su richiesta di Boria, in assenza dei necessari requisiti.

Russo si distingue sempre per il modo di parlare. Annotano sempre gli inquirenti: il professore, senza mezzi termini, nel corso della telefonata del 4 aprile 2015, racconta a Di Pietro che la mancata abilitazione di Francesco Padovani, nel corso della prima tornata della commissione, è stato il «prezzo pagato» per «lasciare spazio come commissario» a Guglielmo Fransoni e per consentire, quindi, a quest'ultimo «di fare le porcherie per i candidati romani». Si ricorda che, una volta accertato che sussiste l'incompatibilità, Fransoni induce Padovani a ritirare la sua candidatura. Tra "i candidati romani", Russo annovera pure una delle ricercatrici del dipartimento di Diritto ed economia delle attività produttive de La Sapienza, a suo dire abilitata su richiesta di uno degli indagati, il professore ordinario di Diritto tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Roma Pietro Boria, nonostante la mancanza delle necessarie capacità. Russo si domanda quali meriti possa vantare la candidata («ehhhh che c'ha? Meriti fisici ehhh non lo so...») e rievoca il momento in cui lui le ha «bocciato» «la tesi in dottorato» dicendole: «Mi sembra modesta questa, questa tesi, mi sembra modesta, cerca di arricchirla, lavoraci un anno ancora». Russo continua il suo racconto dicendo: «Dopodiché, come parole al vento, dopo due mesi gliel'hanno fatta pubblicare, poi si è messa a scopare con Boria ed è diventata meritevole». Seguendo la narrazione di Russo, «l'abilitazione della ricercatrice sarebbe stata portata avanti quindi da Fransoni su richiesta di Boria, in assenza dei necessari requisiti». 

Una parte dell'ordinanza di custodia cautelare è dedicata a Gianni Zamperini, 42enne esperto di computer. Chiamato dagli amici BBK, e gestore del dominio salviniescalar.it utilizzato dallo studio professionale romano “Salvini - Escalared”, era amico di Livia Salvini, professoressa della Luiss, spesso ospite a Ballarò come esperta di tasse e già nel collegio sindacale del Pd. La guardia di finanza lo sente il 13 settembre, lui nega di aver avvisato la professoressa di indagini a suo carico, ma la polizia giudiziaria ritrova, sul suo apparecchio telefonico, delle comunicazioni con l'avvocato Liliana Spartera, amica sua e di Livia Salvini, nelle quali egli afferma con chiarezza di aver avvisato quest'ultima. Zamperini viene indagato per il reato previsto e punito dall'art. 378 del codice penale, cioè favoreggiamento. Il giorno dopo si suicida.

Si legge nell'ordinanza. «L'evento è stato comunicato a Livia Salvini da un tal Fabio. Costui, quando ha rinvenuto il cadavere di Gianni Zamperini, ha potuto prendere visione del decreto di intercettazione a carico di Livia Salvini. Dalla conversazione del 17 settembre 2014 si intuisce che Livia Salvini effettivamente sia stata rnessa a conoscenza della richiesta di intercettazione. Commentando con il compagno Eugenio il suicidio di Gianni Zamperini, ha affermato prima: "...magari era anche turbato da... da questa cosa della guardia di finanza" e poi: "...non posso fare a meno di pensare che é colpa mia" e "quanto meno sono stata l'occasione scatenante"». «Queste parole», scrivono gli inquirenti, «non avrebbero alcun significato se Livia Salvini non avesse saputo dell'intercettazione e sembrano confermare lo stato di disagio psicologico che possa essere provato il suo informatore dopo essere stato scoperto».

Concorsi truccati, Adi: "Succede in tutti i settori, dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione". Il segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, Giuseppe Montalbano, non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario: "Sfogarsi cercando di restare è impossibile", scrive Giorgia Pacino il 26 settembre 2017 su "La Repubblica". "Succede in tutti i settori accademici in modo trasversale e in tutta la filiera del precariato della ricerca. Dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione nazionale". Giuseppe Montalbano è segretario nazionale dell'Adi, l'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università, partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario.

Ha letto il racconto del ricercatore di Firenze?

"Una storia come quella non è affatto nuova, non è la prima volta che ci vengono segnalati casi di questo genere. Attenzione: non tutti i docenti sono baroni. Delle nicchie in cui prevale trasparenza e merito ci sono. È vero, però, che in molti settori avere un professore che ha seguito un candidato per anni e vuole investire su di lui costituisce un canale di accesso preferenziale".

Quant'è diffuso il sistema?

"Parecchio. È un problema con radici strutturali che affondano nella ricattabilità dei ricercatori precari, il prodotto di un sistema che come Adi denunciamo da sempre. La ricattabilità è stata introdotta con la riforma Gelmini, portata avanti con la promessa di sgominare i baroni. Non solo i baroni sono rimasti al loro posto, ma, introducendo una serie di figure contrattuali precarie, tagliando le risorse e dando più potere a chi tiene i cordoni della borsa e controlla l'accesso ai bandi - per di più limitati con il blocco del turn over - alla fine la riforma ha rafforzato quelle stesse baronie che a parole intendeva combattere".

Va cambiato il metodo di selezione?

"Un sistema così complesso, fatto di tanti indicatori e passaggi, è insufficiente rispetto alle necessarie garanzie di trasparenza. Va riformato coinvolgendo tutta la comunità accademica, a partire proprio dai segmenti meno tutelati come i ricercatori precari. Alla base, però, c'è sempre il sottofinanziamento che fa da cornice a tutto il resto. È giusto intervenire sui meccanismi di reclutamento e sulla trasparenza dei concorsi, ma bisogna prima affrontare il nodo del finanziamento e dello sblocco del reclutamento. Perché se i posti sono sempre meno e le opportunità per i giovani ricercatori si restringono, cresce la loro ricattabilità".

Allora aumentano i ricorsi?

"Per fortuna tanti colleghi, con parecchio coraggio, hanno la volontà di contestare decisioni di tipo arbitrario, spesso mettendo a repentaglio la loro stessa carriera. Si sta diffondendo una certa capacità di rispondere ai torti subiti, innanzitutto attraverso il ricorso. Di certo sono meno quelli disposti a denunciare alle autorità".

Il problema resta la prova.

"Quella spetta alle autorità. Consiglierei di prendere tutte le precauzioni possibili e raccogliere la la documentazione, anche attraverso strumenti come le registrazioni o altre modalità per dimostrare cos'è avvenuto. Sarebbe la prova migliore, certo, ma quando si fa un concorso dotarsi di microfoni non è la prima preoccupazione di un candidato. Riceviamo molte segnalazioni in forma confidenziale o anonima. Ma una cosa è una denuncia, un'altra una lettera di sfogo di chi magari decide di abbandonare il mondo dell'università. Il problema è che sfogarsi cercando di restare diventa impossibile".

Università: c'è corruzione nei concorsi per l'abilitazione all'insegnamento. Con questa accusa sette professori sono stati arrestati e 22 interdetti. Tutti i dettagli dell'indagine della Procura di Firenze, scrive il 25 settembre 2017 Nadia Francalacci su "Panorama". La meritocrazia? In Italia, in generale, è un vocabolo “poco conosciuto” ma in alcuni ambienti universitari, secondo quanto è stato accertato dalla Procura di Firenze, è stato addirittura “cancellato”. Ventinove professori, molti dei quali di diritto tributario con cattedra presso diversi atenei italiani e con incarichi di pubblici ufficiali in quanto componenti di Commissioni nazionali nominate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, invece di valutare i candidati per meriti curriculari avrebbero assegnato l’Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento di Diritto tributario, secondo logiche di spartizione territoriale e in base a reciproci scambi di favori personali, professionali e persino associativi.  

Manette e interdizione all'insegnamento. Con l’accusa di corruzione, infatti, questa mattina la Guardia di Finanza del Nucleo di Polizia Tributaria del Comando Provinciale di Firenze, ha arrestato 7 professori universitari e ha fatto scattare l’interdizione allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico, per la durata di 12 mesi, per altri 22 docenti. Altri 30 insegnanti, invece, sono attualmente indagati per aver usufruito e beneficiato delle 'agevolazioni' durante i concorsi pubblici. I 59 soggetti coinvolti a vario titolo dall'operazione della Finanza, risultano avere la cattedra o ruoli specifici in ambito accademico, in numerose e prestigiose università italiane. Quelle interessate dai provvedimenti restrittivi sono l'Università di Firenze (facoltà di Giurisprudenza), l'Università di Pisa, Siena, Cassino, Foggia e la Federico II di Napoli.  

Le pressioni sui candidati al concorso. A far scattare le indagini della Finanza sono state le “pressioni” subite da un ricercatore fiorentino “eliminato” perché "troppo bravo" e quindi "pericoloso". Alcuni professori universitari, oggi agli arresti domiciliari, avrebbero indotto il ricercatore universitario, candidato al concorso per l’abilitazione all’insegnamento del Diritto tributario, a “ritirare” la propria domanda per favorire un terzo soggetto in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, e gli avrebbero promesso che si sarebbero adoperati con la competente Commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata.  Ma la successiva “tornata”, per i docenti e commissari in questione, si svolgerà in carcere o quanto meno nelle aule del Tribunale di Firenze.

Un giro di favori e incarichi. Gli approfondimenti investigativi, durati alcuni mesi, hanno consentito ai finanzieri di ricostruire tra i vari docenti di diritto tributario finiti in manette sistematici accordi corruttivi, scambi di favori ed incarichi sia in ambito accademico che nell’esercizio privato della professione.

“Non abbiamo riscontrato nel corso dell’inchiesta passaggi di denaro ma solo uno scambio di “favori” relativamente ai candidati che ciascun professore “promuoveva” - spiega a Panorama.it, il colonnello Adriano D’Elia, comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di Firenze - ovvero si suddividevano i soggetti da abilitare in quella sessione d’esame oppure in quella successiva”. “Abbiamo esaminato i bandi di concorso per l’abilitazione relativi agli anni 2012-13 e 2016 e sono stati individuati i soggetti, attualmente indagati, che hanno beneficiato degli accordi - prosegue il colonnello della Finanza - accordi che “davano la precedenza” ai docenti che risultavano essere iscritti ad una associazione italiana specifica per docenti di diritto tributario”. Una sorta di “lobby” che avrebbe sponsorizzato chi apparteneva alla solita associazione e poteva contraccambiare il “favore”. Ma quali saranno, invece, i provvedimenti nei confronti di chi ha conseguito l’abilitazione attraverso l'eventuale "corsia preferenziale"? “Dipenderà dai provvedimenti disciplinari e amministrativi delle singole università - conclude il colonnello D’Elia - le quali sono risultate totalmente ignare alle attività corruttive messe in atto dai loro docenti. Saranno loro, assieme al Ministero, a stabilire se revocare o meno l’abilitazione all’insegnamento ai soggetti indagati”.

Concorsi truccati, retata di docenti. Le intercettazioni: «Qui il merito non esiste: questo è mio, questo è tuo», scrive Sara Menafra, Martedì 26 Settembre 2017, su "Il Mattino". Gli accordi partono persino prima che venga sorteggiata la commissione che «abiliterà» i professori universitari (l’abilitazione deve essere seguita dalla effettiva «nomina» da parte di un dipartimento, perché il candidato diventi effettivamente professore). E si trascinano, anno dopo anno, con riunioni ed accordi successivi, tanto che l’applicazione dell’intesa per i concorsi 2012 e 2013 si allunga fino al 2015. Al ricercatore universitario Philip Jezzi Laroma, da anni nel dipartimento fiorentino, che osa chiedere l’abilitazione, risponde esplicito il professor Pasquale Russo, ordinario di Foggia con incarico a Firenze: «Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano. Non siamo sul piano del merito! Non è che si dice “è bravo o non é bravo” no, si fa, questo è mio, questo è tuo.», dice registrato proprio da Laroma, che con le sue denunce ha dato il via all’inchiesta. Anche se il meccanismo alle spalle delle minacce al ricercatore, scoperchiato dal Nucleo tributario della Guardia di finanza, è ben più ampio. A guidarlo, spiega il gip Antonio Pezzuti nell’ordinanza, sarebbero nomi di primissimo piano: da un lato Augusto Fantozzi ministro del commercio con il governo Prodi ex professore di diritto tributario alla Sapienza, ora a capo dell’ateneo on line Giustino Fortunato. Dall’altro, Francesco Tesauro dell’università Milano Bicocca, definito «ukmariano» facendo riferimento al defunto Viktor Ukmar.

Università, concorsi truccati – “Se fai ricorso ti giochi la carriera”. La “logica di scambio” dei professori indagati. "Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve anda' avanti per cui..." diceva il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell'Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l'abilitazione scientifica, scrive Giovanna Trinchella il 25 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il “prezzo da pagare”, “la logica di scambio”, “partite trasversali”. Tutte manovre da ordire sulla pelle di ricercatori meritevoli che dovevano perdere la loro possibilità di abilitarsi perché l’abilitazione scientifica fosse conseguita dai raccomandati di turno, raccomandati di professori che si scambiavano favori e cui la Procura di Firenze ha dato il nome di corruzione. A leggere le intercettazioni contenute nel provvedimento del gip di Firenze parlano come criminali questi i docenti, con le espressioni tipiche dei tangentari. Sono tutti finiti nel registro degli indagati della Procura di Firenze per corruzione e per sette di loro sono stati decisi gli arresti domiciliari.

 “Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve anda’ avanti per cui…” diceva il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell’Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l’abilitazione scientifica. Conversazione di questo tenore sono state captate dagli uomini della Guardia di Finanza anche da altri protagonisti di questo scandalo partito dall’Università di Firenze e che si è allargato ad altri atenei e che sono contenute nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato agli arresti domiciliari sette professori. Russo chiama la “scuola” la sua cerchia di allievi e che erano anche suoi associati nel suo studio professionale.

È del 14 aprile 2015 scorso invece la conversazione di Giuseppe Marino, che dopo aver raccontato a Claudio Sacchetto l’andamento dei lavori della Commissione, lo invita ad incontrare Adriano Di Pietro: “nno, no, no, no devi andare, guarda Claudio … ormai bisogna cioè partite trasversali lasciano un po’ il tempo che trovano. Quindi le partite sono Cipolla e l’innominato, punto. E poi ovviamente anche Fabrizio e, e Zizzo per dire: “Guarda io ho parlato con l’innominato e, ed ho dato precise indicazioni anche di, di attribuzione di, di gargliadetti cioè per, perché vada Marino cosa bisogna fare poi? Qual è il prezzo da pagare? Parliamone … e certo è una logica di scambio, c’è tutto l’internazionale, su Bologna probabilmente con la sua uscite, eh loro su questo avranno bisogno di una maggiore mano e gliela si darà”.

“Non siamo sul piano del merito, non siamo sul piano del merito, Philip”, “Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano”, “tu non puoi non accettare”, e “che fai? fai ricorso? … però ti giochi la carriera così…”. Le frasi registrate col telefono cellulare in un colloquio da uno degli studiosi cui era stato chiesto di ritirarsi, era il 21 marzo 2013. Jezzi Philip Laroma però non rinunciò e venne bocciato. Laroma, che allegò le conversazioni da lui registrate alla denuncia alle Fiamme Gialle, si sentì rispondere in questo modo dal professor Pasquale Russo. Laroma era andato a chiedere spiegazioni a Russo sul perché si dovesse ritirare e a favore di chi, scoprendo che nella lista c’era un associato dello studio di Russo, Francesco Padovani. “C’è una priorità che veniva da… tante cose”, spiegò Russo a Laroma e quindi “la scuola”, ossia la cerchia di allievi di Russo, aveva “deciso di portare avanti Francesco”. Alle insistenze di Laroma di non voler ritirare la domanda, il professor Russo gli spiega che ciò serve “per mantenerti integra la possibilità di farlo in un secondo momento, e quindi poter ripresentarla alla tornata successiva. “Ognuno ha portato i suoi … o dei suoi amici – aveva tentato di spiegare Russo – ciascuno ha chiesto e tutti hanno dato agli altri; insomma, quindi c’è stato un do ut des“. Del resto un altro concetto che appare chiaro è quello “dell’eredità” che si accumula tornata dopo tornata. E quindi se qualcuno da abilitare è rimasto indietro viene recuperato come eredità.

In un altro colloquio registrato col cellulare che le trattative tra i commissari sui nomi da favorire non lo hanno proprio riguardato perché escluso in partenza. “In realtà la negoziazione – dice Fransoni a Laroma che stava registrando – è stata legata esclusivamente al fatto che si doveva cedere qualche cosa per avere qualche cosa sulla tornata successiva, oppure persone che io non potevo proprio vedere, e che ho dovuto digerire come Comelli, oppure qualche altra situazione che si è cercato di sistemare e ci si è riusciti più o meno, ma nient’altro. Nient’altro. Perché gli schieramenti sono assolutamente chiari, erano assolutamente chiari”. E ancora il professar Russo non esitò a raccontare che, nel passato, anche lui “i principi” invocati dal suo interlocutore se li era messi “sotto i piedi” avendo favorito Francesco D’Ayala Valva (“l’ho fatto ordinario io”) nel tentativo di ottenere, successivamente, l’abilitazione dei candidati a lui riconducibili (“nella speranza poi di poter aver avere un po’ di spazio per i miei”. Mai in discussione bravura, la capacità, né titoli: “Non siamo sul piano del merito! non siamo sul piano del merito, Philip”. E invece lo studioso fece l’inglese e disse al professore che “se loro (le commissioni giudicatrici, ndr) gestiscono la cosa pubblica in questa maniera, penso che sia una cosa che interessi l’autorità giudiziaria”. Ed così che il ricercatore, che non rispettava “i criteri del vile commercio dei posti”, ha fatto partire l’inchiesta.

Ci sono nomi grossi, anche se magari sconosciuti al di fuori degli addetti ai lavori, tra le decine di professoroni indagati in quella che verrebbe da definire un’“Universitopoli”, scrive Stefano Sansonetti per La Notizia il 26 settembre 2017. Ovvero una specie di accordo corruttivo, almeno così ritiene la procura di Firenze, il cui principale ingrediente sarebbe stato un mix di concorsi alterati e spartizione di cattedre. Inutile nascondersi che il nome più rumoroso è quello di Augusto Fantozzi, già ministro delle finanze e del commercio estero negli anni ‘90. In tempi più recenti il giurista è assurto agli onori della cronaca per essere stato commissario straordinario dell’Alitalia. Spesso, però, si fatica a mettere a fuoco che Fantozzi occupa tutt’ora poltrone importanti, come quella di presidente del big dell’azzardo Sisal. Inoltre è fondatore e partner del mega studio tributario Fantozzi e Associati, presso il quale si sono forgiati giuristi poi diventati boiardi di Stato del massimo livello.

E’ il caso soprattutto di Ernesto Maria Ruffini, nello studio addirittura dal 1998 al 2015, ultimo amministratore delegato di Equitalia e oggi direttore dell’Agenzia delle entrate. Altro nome importante, all’interno del gruppone di accademici finiti nel mirino della magistratura, è quello di Roberto Cordeiro Guerra, ordinario di diritto tributario all’Università di Firenze e avvocato di clienti eccellenti. Tra questi c’è il gruppo farmaceutico Menarini, anch’esso con sede nel capoluogo toscano, che Cordeiro assiste da tempo nelle sue vicende giudiziarie e fiscali.

Ma Cordeiro ha assistito anche l’ex bomber Bobo Vieri in un’altra vertenza fiscale. L’avvocato, tra l’altro, proprio come Fantozzi non è estraneo al grande mondo dei consigli di amministrazione: da qualche mese, con Oscar Farinetti (il patron di Eataly) è entrato a far parte del Cda di Starhotels, catena alberghiera del lusso con sede legale a Milano ma anima fiorentina. In base allo stato attuale delle indagini, però, c’è una differenza tra la posizione di Fantozzi e quella di Cordeiro: il secondo è stato interdetto dall’insegnamento universitario per 12 mesi, mentre il primo al momento non è ricaduto nella misura (dovrà essere interrogato dal gip, che si è riservato la valutazione).

Tra gli indagati-interdetti c’è un terzo grosso nome. Si tratta di Livia Salvini, professoressa alla Luiss ma soprattutto numero uno del super studio legale-tributario Salvini Escalar e Associati. Quest’ultimo è noto tra gli specialisti per essere stato fondato da un altro ex ministro delle finanze, Franco Gallo, in passato anche presidente della Corte costituzionale.

La Salvini, tra l’altro, è probabilmente una delle figure con maggiore confidenza con poltrone in consigli di amministrazione e collegi sindacali. Al momento, infatti, risulta essere consigliere di amministrazione del Gruppo Sole 24 Ore (che fa capo a Confindustria), consigliere di amministrazione di Igd Siiq (società che si occupa di investimenti immobiliari, soprattutto in supermercati e centri commerciali in Italia e in Romania), presidente del collegio sindacale di Coopfond Spa (sulla carta il fondo mutualistico della coop rosse legate a Legacoop, nella sostanza una holding ormai accreditata di più di 200 partecipazioni) e sindaco effettivo di Atlantia (la holding della famiglia Benetton che tra le altre controlla Autostrade per l’Italia). Naturalmente rispetto a ciascuno di questi profili l’indagine dovrà fare il suo corso. E l’impianto accusatorio sarà tutto da dimostrare. Da ieri, però, si può dire che su alcuni dei fiscalisti più in voga del Paese si è acceso il faro della magistratura. Con quali esiti si potrà capire soltanto nei prossimi mesi.

Concorsi truccati all’università. “Diamo vita a una nuova cupola”. Così parlava l’ex ministro Fantozzi. Le intercettazioni dell’indagato: «Servono uomini di buona volontà». Ricatti, favori e corruzione. E spuntano pure viaggi premio a Venezia, scrive Grazia Longo il 26/09/2017 su "La Stampa". “La Stampa”. Professori apparentemente rivali, in realtà alleati per spartirsi la ricca torta delle cattedre universitarie. Prima ancora che venisse sorteggiata la commissione nominata dal Miur per l’abilitazione scientifica nazionale per cattedre universitarie di diritto tributario. Una maxi corruzione per truccare concorsi grazie a un sistema ai limiti del mafioso. Definito non a caso la «nuova cupola» da uno degli indagati più illustri, l’ex ministro Augusto Fantozzi. Un meccanismo che, come emerge dalle intercettazioni, ruotava intorno a un inossidabile gioco di favori, il «do ut des», la «logica di scambio», spietate «partite trasversali» e il «prezzo da pagare». Pur essendo schierati su due fronti distinti, l’Associazione italiana professori diritto tributario e la Società studiosi diritto tributario, i presunti professori corrotti, membri della commissione, stringevano inciuci a tutto spiano lasciandoli «in eredità» ai colleghi tra il 2013 e il 2015. Da una parte Fantozzi e la cordata «romana», dall’altro il gruppo di Francesco Tesauro dell’Università Milano Bicocca. Le 172 pagine dell’ordinanza firmata dal gip Angelo Antonio Pezzuti, sulla scorta dell’inchiesta del procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e i pm Luca Turco e Paolo Barlucchi, ricostruiscono il sistema che il professor Fantozzi definisce «seppure in modo scherzoso, come la “nuova cupola”». Si legge che l’ex ministro (per il quale il gip si è riservato la valutazione dell’interdizione all’esito dell’interrogatorio) «trova dunque opportuno, se non necessario, che le future abilitazioni siano gestite, non dai commissari di volta in volta nominati, ma “da un gruppo di persone più o meno stabili”, da un gruppo di garanzia... uomini di buona volontà oltre che ...qualche, possano stare in una nuova cupola”». L’obiettivo, si legge nelle carte, è «precostituire le condizioni per far conseguire, in assenza di reale concorrenza, ai propri allievi e o associati i posti di professore ordinario o associato che sarebbero stati successivamente banditi dalle varie università in sede locale per partecipare ai quali costituiva requisito necessario la relativa abilitazione in prima o seconda fascia». Al bando la meritocrazia: il candidato Fabio Graziano pur avendo 193 pubblicazioni viene scartato. Funzionano solo spintarelle e corruzione. «Non è che si dice è bravo o non è bravo… Questo è mio, questo è tuo» afferma il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell’Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l’abilitazione scientifica. L’orecchio investigativo della Guardia di Finanza di Firenze ha registrato questo e altro. «Qual è il prezzo da pagare? Parliamone…» chiede il 14 aprile 2015 Giuseppe Marino, che dopo aver raccontato a Claudio Sacchetto l’andamento dei lavori della Commissione, lo invita ad incontrare Adriano Di Pietro. Mentre di fronte al ricercatore Philip Laroma, escluso dal concorso e autore della denuncia da cui è partita l’inchiesta, il professor Pasquale Russo esclama: «Che fai ricorso? Però così ti giochi la carriera. Non siamo sul piano del merito, Philip. Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano». E a giustificazione della sua condotta afferma: «Anche io mi son piegato... a certi baratti per poter mandare avanti i miei allievi...», «ero ingenuo all’inizio» ma «la logica universitaria è questa... è un mondo di merda... è un mondo di merda... quindi purtroppo è un do ut des». Un altro docente sentenzia: «I miei principi? Sotto i piedi». Il merito non esiste, anzi si aiuta persino chi viene considerato un incapace. Il professor Giuseppe Cipolla, a proposito di un suo protetto dice: «Qui non c’è nessun merito, ognuno ha i suoi... Tra l’altro dico, vai a leggere pure il mio giudizio che si vede che quello è proprio disgraziato». Le strade della corruzione sono molteplici e varie. Per convincere Carlos Maria Lopez Espadafor, professore di Diritto tributario presso l’Università De Jean in Spagna, membro Ocse, quinto membro della commissione che ha concluso i lavori della tornata 2013, gli vengono offerti «un soggiorno a Venezia con falsa attestazione di una riunione accademica per coprire l’assenza in Spagna, la promessa di un aiuto per la revisione in italiano dei suoi articoli e un intervento in un incontro accademico da organizzare a Venezia, un incarico di visiting professor all’università di Bologna in cambio del proprio voto». Tra i docenti interdetti c’è anche Livia Salvini, della Luiss Guido Carli di Roma, nonché membro del Cda del Sole 24 Ore.  

Concorsi truccati all'università, le intercettazioni choc: "La nuova cupola". I professori al telefono: "Già scelto chi passa", scrive Stefano Brogioni il 26 settembre 2017 su "La Nazione”. La trattativa. Il compromesso. Il patto. I più illustri docenti universitari del Belpaese parlavano liberamente al telefono, s’accapigliavano se necessario e «svilendo la loro funzione» mutuavano pure i termini delle pratiche commerciali, ma alla fine riuscivano a spartirsi le cattedre di diritto tributario, secondo una logica di potere che risponde a due grandi e potenti associazioni accademiche o ai loro interessi privati. Una vera e propria «chiamata alle armi» per garantire potere e privilegi alla casta dei baroni, far andare avanti i propri allievi e garantire il prestigio degli studi professionali e onorari zeppi di zeri.

Appuntamento ai Parioli, la sera del 9 giugno del 2014, per una cena che, secondo le fiamme gialle in ascolto delle conversazioni, serve a «gestire» i concorsi del futuro. È l’ex ministro Augusto Fantozzi, che insegna a Benevento, a dettare la linea, a suggerire ai colleghi presenti (Pietro Boria, Andrea Fedele, Leonardo Perrone ed Eugenio Della Valle) di individuare «un gruppo di persone di garanzia» che non esita a definire, seppur in modo scherzoso – annota il gip – «la nuova cupola». "Non si può muovere una paglia se tu non sei d’accordo... nella tua metà campo che decidi te", captano ancora gli investigatori con le ambientali. "Se uno fa i concorsi così non ci sarà mai un minimo di... perché naturalmente nessuno ha la responsabilità di niente e ognuno va lì col coltello alla gola e dice ‘O mi dai quello o ... quindi voi capite...’". La cena del 9 giugno 2014 era servita anche a ristabilire armonia tra i baroni, dopo alcune frizioni per le candidature. Parlando di un aspirante professor, viene definito da Boria «al limite dell’impresentabilità». Ciononostante, annota il gip, questi «è pronto a promettere a Eugenio Della Valle» l’appoggio suo e del suo gruppo per consentire al medesimo l’abilitazione. «Ormai è andata, ammettiamo anche che vi sia stata una discriminazione... ma adesso… che possiamo fare? Vuoi che ci definiamo un pagherò? Se questo serve vediamo come farlo». Particolarmente significativa, scrive il gip Antonio Pezzuti nella sua ordinanza, una conversazione intercettata nel 2015 tra gli indagati Francesco Tesauro e Adriano Di Pietro dove Tesauro dice in riferimento a una commissione giudicante: «Ma lì poi... anche se io mi dimisi abbastanza presto... avevamo concordato chi doveva passare e chi non doveva passare». Il commissario Adriano Di Pietro anticipa, in un colloquio con il suo allievo Thomas Tassani, come intende valutare il candidato Paolo Puri. Dice che non voterà in suo favore salvo che non riceva «delle pressioni straordinariamente forti» oppure possa essere utilizzato come «merce di scambio». Tassani fa notare che alla ‘scuola romana’ Ssdt «ci tengono più a Puri che alla Rossi». Il prof risponde: «Allora hanno da capire che l’abbiamo messi noi». Sempre Di Pietro fa il resoconto al professor Giuseppe Maria Cipolla di un incontro avuto con Giuseppe Zizzo. «Giuseppe è inutile che ci nascondiamo, ciascuno di noi ha delle sollecitazioni, vediamo di metterle a confronto». Fabrizio Amatucci pone una proposta corruttiva al commissario Espadafor. «La Parlato tu sai che è figlia di Parlato, il professor di Palermo che è stato il mae… un po’ per certi versi, il maestro no, ma si è laureato Zizzo, cioè Zizzo è un po’ legato a Parlato, ma moltissimo è legato Parlato a Di Pietro. Di Pietro e Parlato sono sempre stati molto uniti. Quindi lui può essere che poi ad un certo punto, non lo farà all’inizio, farà il nome della Parlato che è debole, vatti a vedere il curriculum. Quindi non abbiamo un’altra arma se lui ci chiede la Parlato allora io gli comincio a chiedere di tutto perché vuol dire che il livello, hai capito? Scende. Il livello è basso».

E il prof disse: "Uno a uno e palla al centro". Così si spartivano le cattedre universitarie. Ecco le intercettazioni dell'inchiesta della Finanza sui concorsi truccati. Parlato voleva piazzare la figlia, Sammartino i suoi allievi. E fu scontro, scrive Salvo Palazzolo il 25 settembre 2017 su "La Repubblica”. Non usa mezzi termini il gip di Firenze Antonio Pezzuti nella sua ordinanza che mette sotto accusa il sistema delle abilitazioni per l’insegnamento all’università. Siamo di fronte «a un conflitto per la spartizione delle abilitazioni per le cattedre universitarie di diritto tributario». Le prime avvisaglie del caso siciliano arrivano il 3 marzo 2015. Sotto intercettazione telefonica c’è il professore Andrea Colli Vignarelli, che è stato componente della commissione nazionale. Dice al suocero, il professore in pensione Andrea Parlato, che il commissario Giuseppe Cipolla, palermitano pure lui ma docente a Cassino, è «totalmente dalla parte di Sammartino» e vuole favorire i suoi. A Palermo, lo scontro è fra Parlato e Salvatore Sammartino, ordinario ancora in servizio. Ognuno dei due vuole favorire i propri pupilli. E, adesso, sono indagati per concorso in corruzione. Parlato puntava tutto sulla figlia Maria Concetta; Sammartino sponsorizzava due suoi allievi, Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco. Sono «tutti d’accordo», dice Colli Vignarelli. E’ un allarme per l’anziano professore Parlato, che decide di agire. Va dritto al cuore del problema, uno dei componenti più influenti della commissione nazionale per le abilitazioni, Adriano Di Pietro. E non sospetta che è già entrato dentro il Grande fratello imbastito dalla procura di Firenze. Perché anche Di Pietro, docente a Bologna, è intercettato. «Senti, io ti dico… per telefono non si può dire, è chiaro no?». Parlato spiega perché ha preferito un incontro di persona. E giù con le accuse a Sammartino: «Sta per la Mazzagreco, divulgando la notizia che lui ha già il posto... lui pensa di sistemare per subito la Mazzagreco e ovviamente non Mariù, Mariù non lo farebbe un concorso là, perché lui l’aspetterebbe col cannone». Mariù è la figlia del docente palermitano. Scrive il giudice: «Parlato non intende arrendersi per la figlia». E accusa il suo “rivale” di sostenere un candidato poco preparato: «Per quando lui potrà fare le barriere, mettendosi in commissione, facendo venire chi vuoi tu, guarda che obiettivamente la Mazzagreco è debole, perché si presenta sempre lì, sempre col volume sullo Statuto, volume che lei ha rifatto in edizione provvisoria per partecipare al concorso di ricercatore». Parlato prova anche a piazzare l’assistente del genero, la ricercatrice Patrizia Accordino. Ma su questo aspetto Di Pietro è risoluto: «Non è disposto a fare entrare altri soggetti nelle trattative con gli altri commissari», scrive il gip. Ed emette la sua sentenza. «Così è il discorso - spiega - “uno a uno, palla al centro”». Ovvero, un nome sarà in quota Parlato, l’altro in quota Sammartino. Però, consiglia a Parlato di fare comunque un altro passaggio: dovrà rivolgersi anche al «padre di Fabrizio Amatucci e a un tale Gasparino»: «In maniera tale che facciamo fare pressioni sugli altri componenti della commissione».

"Uno a uno e palla al centro". Le intercettazioni dei prof siciliani, scrive Riccardo Lo Verso 1l 25 settembre 2017 su "Live Sicilia”. Sammartino e Parlato arrivarono allo scontro. Ecco la parte siciliana delle indagini di Firenze. Meriti e curriculum avrebbero avuto il valore della carta straccia. A giudicare dalle conversazioni telefoniche intercettate dai finanzieri l'unico criterio per l'abilitazione all'insegnamento di Diritto tributario nelle università italiane sarebbe stato “il vile commercio dei posti”. L'inchiesta della Procura di Firenze coinvolge anche gli atenei di Palermo e Messina. Gli atti giudiziari ricostruiscono lo scontro fra due cognomi pesanti nel mondo accademico siciliano. I professori Salvatore Sammartino e Andrea Parlato sponsorizzarono i loro candidati. Alla fine “l'abilitazione a coppie” accontentò entrambi i contendenti. L'inchiesta smaschera il principio del “do ut des” applicato su scala nazionale: i prof si scambiavano i favori. Oggi a me, domani a te. Chi faceva ritirare un candidato sapeva che l'anno successivo qualcun altro avrebbe fatto la stessa cosa, alimentando la catena di favori. La logica della spartizione avrebbe spazzato via ogni concorrenza. Sono quattro i docenti universitari sospesi dall'esercizio della professione con una misura interdittiva. Si tratta di Salvatore Sammartino, Daniela Mazzagreco e Maria Concetta Parlato dell'Università di Palermo e Andrea Colli Vignarelli dell'Università di Messina. Andrea Parlato, oggi in pensione, è solo indagato. Agli arresti domiciliari sono finiti altri due professori siciliani che insegnano lontano dall'Isola: il palermitano Giuseppe Maria Cipolla e il trapanese Giuseppe Zizzo. Il patto verrebbe già fuori nelle prime intercettazioni fra Vignorelli, sposato con Maria Concetta Parlato, e il commissario Gugliemo Fransoni, che gli spiegava: “Ma insomma, l'obiettivo non è proteggere me e te, l'obiettivo è proteggere il risultato del concorso per le persone che sono, di cui sappiamo... la trasparenza del procedimento mi sembra che sia un po' venuta meno in questo momento allora vorrei prima essere sicuro che il procedimento continui a svolgersi in modo trasparente, equo e corretto insomma avere una reiterazione dell'impegno presi in partenza”. A Palermo attendevano con ansia la nomina delle commissioni. Quando si seppe che la scelta era caduta su Cipolla e Zizzo qualcuno esultò. “Allora se le cose stanno così è un trionfo”, dicevano Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco, legati a Sammartino. Il professore tentò subito di mettersi in contatto, senza successo, con i commissari. Poi dettò a Cimino la lettera di congratulazioni per la nomina in commissione da indirizzare, in particolare, ad un commissario spagnolo. Le manovre erano iniziate, tanto da fare dire a Fabrizio Antonucci, altro commissario, sull'abilitazione di Mazzagreco che “ci tiene moltissimo Salvatore Sammartino”, che “ci ha sempre aiutato”. Nel marzo 2015 i finanzieri iniziarono a registrare lo scontro tutto siciliano. “L'abilitazione di una candidata di seconda fascia, Maria Concetta Parlato, moglie di Vignarelli, ex commissario e professore ordinario di Tributario a Messina, e figlia del professore Andrea Parlato, anch'egli a Messina - annotano gli investigatori - sconta l'avversità di Salvatore Sammartino che intendeva ottenere l'abilitazione dei suoi candidati Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco”. Andrea Parlato temeva il peggio e al genero Vignarelli raccontava che il commissario Cipolla era “totalmente dalla parte di Sammartino” e che “erano tutti d'accordo”. Non si poteva restare a guardare. E così Parlato contattò al telefono alcuni commissari, mentre altri li incontrò di persona. Il 16 marzo 2015 si trovava nell'ufficio del commissario Adriano Di Pietro in compagnia della figlia Maria Concetta: “Senti io ti dico... per telefono non si può dire, è chiaro no?”. Di Pietro sembrava avere recepito il messaggio. L'abilitazione di Maria Concetta sarebbe stata “scambiata” con quella di un candidato di Sammartino: “Così è il discorso, uno a uno e palla a centro”. Parlato non era tenero con il collega Sammartino che “sta per la Mazzagreco divulgando la notizia che lui ha già il posto. Cioè lui ha fatto, va bene, un concorso, che ha un certo ruolo nel suo dipartimento di Diritto tributario, dove lui pensa con ciò di sistemare subito la Mazzagreco, e ovviamente Mariù non lo farebbe un concorso là, perché lui li aspetterebbe con cannone proprio... parliamo chiaro il momento in cui bandisce un concorso a Palermo, 50 persone si presentano. Per quanto lui potrà fare le barriere, mettendosi lui in commissione, facendo venire chi vuoi, guarda che obiettivamente la Mazzagreco è debole, perché la Mazzagreco si presenta lì, sempre col volume sullo Statuto, volume che lei ha rifatto in edizione provvisoria per partecipare al concorso di ricercatore”. Parlato proseguiva le sue manovre chiamando Zizzo: “Poi tu comprendi che io ho pensato molto di chiamarti o no, poi ho ritenuto doveroso chiamarti, invece”. Zitto lo tranquillizzava: “Ma senta professore non c'era bisogno, certo”, e Parlato aggiungeva: “Poi ti chiamerà mio genero che ti vuole pure salutare”. In contemporanea anche Sammartino, secondo l'accusa, attivò quello che gli inquirenti definiscono un negoziato. Il 3 febbraio 2015 chiamò Antonucci: “È inutile dirti che conto su di te in maniera fortissima... diciamo nel senso che devi essere fermissimo perché la Commissione ha la sua composizione”. Il 25 febbraio il docente palermitano si spostò a Roma per incontrare Zizzo e quindi il professore spagnolo. Il messaggio da dare ai commissari doveva essere chiaro: “o passano questi o noi diciamo no a tutti ed allora gli altri doveranno per forza cadere”. E a Mazzagreco Sammartino spiegava come si era mosso. Parlava di "tattica” e “strategia”, aggiungendo che Zizzo era andato da Di Pietro per trovare "una linea comune”. Alla fine si trovò la quadra. Furono tutti abilitati nel 2015 agli esami di Bologna.

"Si è messa a scopare con lui ed è...". Concorsi truccati e baronato. Le intercettazioni choc dei prof, scrive il 26 Settembre 2017 su “Libero Quotidiano”. Sette docenti universitari, titolari di cattedre di diritto tributario in numerosi atenei italiani, finiti agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione e altri 22 docenti interdetti dallo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle "connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi".  In totale sono 59 le persone indagate per reati di corruzione, tra le quali figura anche l'ex ministro Augusto Fantozzi. Il Tempo pubblica una serie di intercettazioni nelle quali emergono anche i dubbi dei protagonisti, come chi "si è domandato quali meriti potesse vantare la candidata: Che c' ha? Meriti fisici". Del resto l'interlocutore ricordava il momento in cui un docente aveva bocciato la tesi della candidata: "Mi sembra modesta, cerca di arricchirla, lavoraci un anno ancora". "Dopo due mesi gliel'hanno fatta pubblicare, poi si è messa a scopare e con P.B. ed è diventata meritevole". Ecco come si ottengono i "criteri per far passare i nostri". Spesso però i rapporti si complicavano. Così Fantozzi suggeriva: "L'idea è quella di fare la prova di resistenza, cioè di dire se voi volete questi noi vogliamo questi e se non ci date questi non vi diamo quelli e non passa nessuno. Punto". E ancora: "Tu sai che abbiamo sempre rispettato una regola, la quale diceva che quando c'erano delle opportunità o delle scorciatoie da cogliere, esse venivano colte nell'interesse dei nostri", avrebbe detto Fantozzi, "specificando che ciò era già accaduto, nel passato, con riferimento ai professori Tremonti, Lupi e Fransoni". Alcuni docenti indagati "hanno condiviso l'intenzione di non parlare per telefono dei fatti inerenti l'abilitazione". "Il telefono è meglio abbandonarlo (...) perché non si sa mai, però insomma, con quello che sta succedendo, che è successo attorno ai concorso. Non penso che il giorno dopo in cui viene estratto, subito mettano di default il tuo telefono sotto controllo. Sarebbe, come dire, una cosa eccessiva, però..." E ancora: «Se dobbiamo parlare ci certe cose mi raccomando, solo su Skype..è meglio essere prudenti". "Se qualcuno un domani chiede l'accesso agli atti non possa andare a vedere tutta l'evoluzione".

Il ricercatore con il microfono che ha incastrato i baroni: "Se fai ricorso addio carriera". Philip Laroma Jezzi ha rifiutato di ritirarsi e ha mandato alla Finanza le registrazioni: "È il vile commercio dei posti", scrive Michele Bocci il 26 settembre 2017 su “L’Espresso”. Essere il migliore può rivelarsi non un pregio ma un difetto da penalizzare. Almeno nel mondo alla rovescia dell'università italiana. "Con che criterio sei stato escluso dal concorso? Col vile criterio del commercio dei posti". È quasi aulico il noto ex docente di diritto tributario Pasquale Russo, maestro di decine di colleghi e oggi dedito solo all'attività del suo studio fiorentino, quando spiega al ricercatore che vorrebbe diventare professore associato come funzionano le cose. "Non è che tu non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando". Russo non sa, quel 21 marzo del 2013, che chi sta ascoltando la sua lectio magistralis sul mondo dei concorsi dopo la riforma del 2010 ha acceso il registratore sul telefono. Sono proprio le parole memorizzate sul cellulare di Philip Laroma Jezzi a far partire l'inchiesta che ha travolto un intero settore scientifico di Giurisprudenza.

Laroma Jezzi è un tributarista con studio in un grande palazzo nel centro fiorentino, in via Maggio, che si è opposto alla strada segnata per lui e per tanti suoi colleghi dai professori della sua materia. Non solo ha registrato due conversazioni fondamentali, ha anche tenuto costantemente informati procura e Gardia di finanza su quello che avviene all'università, su bandi e concorsi. Già anni fa una sua segnalazione aveva dato il via a un'indagine della procura, quella sull'ex direttore provinciale dell'Agenzia delle entrate fiorentina Nunzio Gargozzo, poi condannato ben tre volte per corruzione. Prendeva mazzette e in cambio si prodigava per far risparmiare le imposte a imprenditori e professionisti colpiti da accertamenti fiscali.

Il 22 novembre del 2012, Laroma Jezzi presenta la domanda per l'abilitazione sia a professore associato che ordinario. Il 21 marzo del 2013 Pasquale Russo lo chiama e lo invita nel suo studio. L'ex professore sa bene chi ha davanti, tanto che a un collega, Adriano Di Pietro, spiegherà: "Laroma come intelligenza e come laboriosità vale il doppio" degli aspiranti associati che partecipano alla selezione. Bene, Russo cerca di convincere il migliore a ritirarsi dalla corsa dell'abilitazione, perché i vincitori sono già stati decisi e far passare lui potrebbe metterli in difficoltà quando ci saranno i concorsi. Il vecchio professore è consapevole di quanto sia pesante quello che chiede, e del resto l'altro minaccia di fare un esposto, ma aggiunge: "Come si fa ad accettare una cosa simile? Tu non puoi non accettare. Che fai, ricorso? Però così ti giochi la carriera. Qui non siamo sul piano del merito Philip. Smetti di fare l'inglese e fai l'italiano". Il riferimento è alla doppia nazionalità dell'interlocutore. "È stata fatta una lista e tu non ci sei", ribadisce Russo. Laroma Jezzi non ritira la domanda e a dicembre 2013 viene regolarmente bocciato. Fa ricorso al Tar e vince. Ora è abilitato come associato.

La prima registrazione è seguita da un'altra, nel gennaio 2014. In questo caso, oltre a Russo, il ricercatore incontra Guglielmo Fransoni, uno dei commissari che l'hanno bocciato, nonché socio di studio dello stesso Russo. Gli spiegano che un potente professore fiorentino, Roberto Cordeiro Guerra, è contro di lui perché vuole fargli passare avanti un suo discepolo a una nuova selezione. "Io non ho capito la tua scelta di restare dopo che ti era stato dato il messaggio di ritirarti - dice Fransoni - cioè se uno ti dà il messaggio il motivo c'era, una consapevolezza di com'era orientata la commissione".

È Russo a illustrare il meccanismo: "Funziona così: a ogni richiesta di un commissario corrispondono tre richieste provenienti dagli altri commissari: io ti chiedo Luigi e allora tu mi dai Antonio, tu mi dai Nicola e tu mi dai Saverio". È, appunto, tutto un do ut des tra i vari atenei. "Ogni professore aiuta l'altro - spiega poi Fransoni - perché è chiaro che se il prof di procedura civile dice: "Scegliamo il miglior tributarista in assoluto", rischia che poi il tributarista dica: "Scegliamo il miglior processualista in assoluto". Allora tutti quanti hanno convenienza a dire "no certo, il tributarista dev'essere il tributarista tuo", perché così il tributarista dirà: "no, certo, esimio collega, il processual-civilista sarà il tuo allievo", e così si aiutano a vicenda". Russo sintetizza alla perfezione: "Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa: questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve andare avanti per cui...". Più chiaro di così.

Concorsi truccati, l’uomo della denuncia: «Raccontando tutto ho fatto la mia parte». Le parole del ricercatore Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese, e lavora al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze. È stato lui, con la sua denuncia a far scattare l’inchiesta, gli arresti e le raffiche di avvisi di garanzia, scrive Marco Gasperetti il 25 settembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il ricercatore da cui tutto è iniziato si chiama Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese, e lavora al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze. È stato lui, con la sua denuncia e le sue registrazioni con il telefonino, a far scattare l’inchiesta, gli arresti e le raffiche di avvisi di garanzia.

Professore, come va? 

«Professore? Non scherziamo, sono e resto un ricercatore e dunque un dottore».

E a lui che hanno chiesto di ritirarsi da un concorso per diventare professore: ha rifiutato e ha deciso che era arrivato il momento di denunciare. Da anni è considerato uno dei migliori tributaristi fiorentini, già tra gli allievi di Pasquale Russo, luminare dell’università di Firenze che oggi appare nel registro degli indagati. Nello studio di Laroma Jezzi hanno iniziato il praticantato da avvocato la ministra Maria Elena Boschi e il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi. Lo troviamo mentre sta aspettando i figli davanti a scuola.

Dottor Laroma Jezzi, tutto inizia da lei. E sembra il classico vaso di Pandora. Crede ci saranno sviluppi?

«Guardi, la ringrazio per il suo interessamento ma oggi preferisco non parlare».

Qualche suo collega dice che lei è stato molto coraggioso...

«Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati, ho fornito loro le prove sulle mie affermazioni e adesso mi voglio mettere da parte perché ho trovato persone straordinarie che stanno ancora lavorando e parlare adesso ai giornali mi sembrerebbe di fare loro un torto. Eventualmente ci sarà tempo».

Pochi mesi fa una ricercatrice dell’ateneo di Pisa ha denunciato presunte irregolarità in un concorso per diventare prof. Conosce il caso?

«Sì, l’ho seguito con interesse sui giornali, anche se mi sembra diverso da questa inchiesta».

La sua collega ha detto di voler fare la sua battaglia perché legalità e trasparenza siano imprescindibili nei concorsi pubblici...

«Io ho fatto la mia parte. Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati. E adesso preferisco non parlare».

Ed effettivamente il dottor Laroma Jezzi, che amici e colleghi descrivono come un infaticabile studioso e uomo dalla schiena perennemente dritta, ne ha raccontate molte nella sua denuncia. Tra queste c’è il colloquio (che ha registrato con lo smartphone) con uno dei professori inquisiti che gli chiedevano di ritirarsi dal concorso. «Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano», perché se fai ricorso «ti giochi la carriera».

"Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano". In una frase, tutto il marcio del nostro Paese, scrive il 26 settembre 2017 Mauro Munafò su "L'Espresso". Credo che nessuno, dico nessuno, si stupisca particolarmente per la storia dei concorsi truccati all'Università che fino ad oggi ha portato a 7 arresti, 150 perquisizioni e indagati eccellenti come l'ex ministro Fantozzi. Il sospetto che la vittoria di un candidato rispetto a un altro sia motivata da ragioni clientelari piuttosto che da quelle di merito è stato confermato negli anni da decine di inchieste della magistratura, giornalistiche, denunce e libri. Quello che però in questo specifico caso salta agli occhi sono i dialoghi catturati e registrati dal ricercatore Laroma Jezzi, che ha denunciato tutto il sistema, e che potete leggere su Repubblica. È il ritratto di un sistema illecito talmente sicuro della sua inevitabilità che si lancia in riflessioni filosofiche, giudizi di merito, consigli. Una frase tra tutte mi ha colpito e, oserei quasi dire, indignato. È quando un vecchio professore cerca di spiegare al ricercatore a cui non permetteranno di ottenere l'abilitazione come funziona il mondo, come ci si comporta. Lo fa dicendo questo: «Che fai, ricorso? Però così ti giochi la carriera. Qui non siamo sul piano del merito Philip. Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano». In questa battuta c'è sì un riferimento alla doppia cittadinanza di Laroma Jezzi, appunto inglese e italiana, ma c'è anche tutto un mondo. Un mondo che si divide tra i "precisini" inglesi, che fanno le cose secondo le regole, e gli "italiani" che invece fatta la legge trovano l'inganno e aggiustano le cose in base alla convenienza. Ho messo "italiani" tra virgolette perché questa è l'immagine e lo stereotipo che sistemi illeciti come questo contribuiscono e puntano a rafforzare. Sistemi in cui tutti sono complici di illegalità, incluse le vittime. Perché, non dimentichiamolo, se queste strutture baronali continuano a perpetrarsi è anche perché tanti giovani ricercatori si sottomettono al loro potere. Sono vittime anche loro ma, quando accettano certe regole non scritte, diventano un po' anche complici. La notizia che qualcuno si sia ribellato a questa cupola, abbia registrato ogni dialogo, abbia chiamato le forze dell'ordine e contribuito a smascherare questo marcio è una di quelle che ti restituiscono fiducia nelle persone. Il coraggio di parlare e rifiutare l'omertà che protegge questi meccanismi oggi è un atto rivoluzionario. E ogni ricercatore che contribuisce ad eliminare quelle virgolette intorno alla parola "italiani" merita tutto il nostro sostegno.

L'avvocato castiga-baroni con lo studio pieno di vip. Philip Laroma Jezzi è diventato un eroe dei social. In passato ha lavorato con illustri esponenti del Pd, scrive Nino Materi, Mercoledì 27/09/2017, su "Il Giornale". Il cosiddetto «popolo dei social» (entità quanto mai indeterminata) lo ha già incoronato «Il Volto Più Pulito Dell'Italia», con le iniziali tutte rigorosamente in maiuscolo. Dal web spunta addirittura un fan che lo candida a futuro ministro dell'Istruzione. E certo Philip Laroma Jezzi, qualche titolo accademico appena superiore a quelli che può vantare Valeria Fedeli, ce l'ha. Il 47enne avvocato anglo-italiano (come il pm Henry John Woodcock) che con la sua denuncia ha bombardato «Raccomandopoli» - per nulla ridente cittadella del nepotismo - ieri si è conquistato sul Fatto Quotidiano una paginata di complimenti. Elogi meritatissimi, considerato che grazie alle «registrazioni choc» di questo stimato avvocato tributarista con studio in Firenze, «la mafia dei baroni e dei concorsi universitari truccati» sarebbe stata smascherata. Intanto i 7 professori arrestati e i 59 indagati (tra cui l'ex ministro Augusto Fantozzi) ripetono il solito refrain difensivo in tre atti: 1) di «essere completamente estranei ai fatti contestati»; 2) di «avere piena fiducia nella magistratura»; 3) di «chiarire al più presto la propria posizione». Nel frattempo la bacheca Facebook dell'irreprensibile avvocato Laroma Jezzi è stata inondata da messaggi di sobrio incoraggiamento del tipo: «È lei l'italiano di cui il nostro Paese ha bisogno», «Le persone oneste sono tutte con te», «Stima e ringraziamenti sinceri. Da cittadino», «Sei un eroe»; «Sei un esempio che tutti i meritevoli dovrebbero seguire per non accontentarsi di una mediocrità imposta»; «Ho profonda stima di te...è l'ora di reagire perché in gioco c'è quello che siamo ed il nostro futuro... ti sono vicino». L'avvocato «gola profonda» - che assicura di «non voler assolutamente rilasciare dichiarazioni ai giornalisti» - ieri ha dichiarato al Corriere della Sera: «Io ho fatto la mia parte. Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati». Un po' più ciarliero Philip si era mostrato invece l'anno scorso con il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, cui il 7 gennaio inviò una torrenziale mail nella quale dava conto di una sua denuncia che aveva portato all'arresto del direttore dell'Agenzia delle Entrate. A dimostrazione del carattere modesto e del tono per nulla autocelebrativo dello scritto, ricordiamo il seguente passaggio: «Io sono nato nel Regno Unito. Ho studiato (bene e tanto) sia in Italia che a Londra e quel mondo mi manca tanto. Ma piuttosto che fare l'italiano in Inghilterra ho preferito fare l'inglese in Italia. In questo modo riesco, con molta più facilità, a distinguermi, a essere eccentrico. Non ho bisogno di fare il punk, mi basta fermarmi alle strisce pedonali». Come dire: altro che voi automobilisti italiani, che davanti alle strisce pedonali accelerate per sturare i poveri pedoni. Parole, quelle dell'avvocato dal doppio cognome, che lasciano il segno, tanto che Il Fatto Quotidiano nella titolazione finisce anche per vantarsi di avere un siffatto lettore; occhiello in prima pagina: «Il blitz a Firenze su input di un abbonato al Fatto». Nessun accenno invece al fatto che nello studio Laroma Jezzi, ai tempi in cui Renzi era sindaco di Firenze, siano passati come praticanti illustri personaggi del «Giglio magico»: dalla ministra Maria Elena Boschi al tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi. Per non parlare dei vip, della bella gente e dei molti altri giovani rampanti vicini al «Matteo nazionale», arrivati a quell'indirizzo sicuramente senza nessuna raccomandazione. Del resto, se solo avesse sentito un vago odore di nepotismo, l'adamantino avvocato anti-baroni, li avrebbe sicuramente messi alla porta. O no?

Quel silenzio (complice) dei sindacati. Snals: «Danneggiati dallo scandalo. Faremo un comunicato molto duro», scrive Nino Materi, Mercoledì 27/09/2017, su "Il Giornale". C'è un silenzio assordante che sta accompagnando lo scandalo dei «professori imbroglioni» appena scoperchiato a Firenze, ma tristemente endemico in tutta Italia. I sindacati che operano nel mondo dell'istruzione, non hanno nulla da dire? Perché a 48 ore dal pentolone scoperchiato di «Universopoli» nessuno si è sentito in dovere di «diramare una nota» contro i baroni delle clientele? Lo Snals (il sindacato più rappresentativo nella scuola), interpellato dal Giornale, tiene a precisare di «sentirsi parte lesa e di essere al lavoro per stilare un comunicato molto duro». Se ciò accadrà, sarà sempre meglio tardi che mai. Si sbilancia un po' di più invece Giuseppe De Nicolao, in rappresentanza dell'associazione Roars composta da ricercatori e docenti universitari: «Il caso di Firenze non ci sorprende. I rettori sono dei piccoli monarchi. Il sistema italiano accentra il potere ed è aggirabile». Il tutto si inquadra in uno scenario drammatico, come evidenziano i professori Stefano Allesina e Jacopo Grilli: due ricercatori nostri connazionali autori (all'Università di Chicago) di uno studio sul nepotismo negli atenei del Belpaese. Allesina e Grilli si sono concentrati sulle facoltà di Medicina e Chimica, ma non sono nuovi a questo tipo di indagine: nel 2011 avevano pubblicato un altro dossier, dimostrando come alcune discipline (Giurisprudenza, Agraria e Ingegneria) mostrassero la «presenza sospetta di identici cognomi». Si tratta degli stessi cognomi relativi a rettori, professori e altre «figure apicali». «La ricerca aveva causato un certo scalpore in Italia - ricorda Allesina - anche perché la pubblicazione era avvenuta immediatamente dopo la riforma Gelmini». Sulla cui efficacia i giudizi restano però discordanti. «Oggi assistiamo a un fenomeno di vecchio malcostume combinato a una nuova forma di baronaggio accademico, cioè proprio quei bubboni cui la nostra riforma del 2010 aveva cercato di porre un freno», sottolinea l'ex ministro della Ricerca, Mariastella Gelmini. Ma, al di là delle buone intenzioni, il «virus del familismo» non è stato debellato. La conferma viene pure dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone: «Siamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, soprattutto sui concorsi con cui vengono distribuiti cattedre e incarichi. C'è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione». Approvata durante il primo governo Berlusconi, la riforma Gelmini ha introdotto il divieto di assumere nello stesso dipartimento parenti e affini fino al quarto grado di docenti già in ruolo. Secondo il giudice Cantone, la riforma di sette anni fa avrebbe addirittura peggiorato le cose. Motivo? «Quel testo di legge è come se avesse istituzionalizzato il sospetto. Mi spiego meglio: l'idea che non ci possano essere rapporti di parentela all'interno dello stesso dipartimento, ha portato a situazioni paradossali». Un esempio? «In una università del Sud è stato regolarizzato uno scambio intollerabile: in una facoltà giuridica è stata istituita una cattedra di storia greca e in una facoltà letteraria una cattedra di istituzioni di diritto pubblico. Entrambi i titolari erano i figli di due professori delle altre università. Uno scandalo. L'ennesimo.

L'eroe anti-baroni «premier subito»? Ci stuferemmo presto. Sicuri di volere il ricercatore italo-inglese Jezzi, che ha combattuto i maneggi universitari, a capo dell'Italia? Il popolo del web (e non) reclamerebbe qualche messia da Bar sport. Nel quale è più facile riconoscersi, scrive Lia Celi su Lettera 43 il 27 settembre 2017. «A un antipode si colloca la separazione che potremmo chiamare “endosoggettiva”, ossia che non altera le imputazioni giuridiche delle situazioni avente contenuto patrimoniale…». Siamo sicuri che Philip Laroma Jezzi, l’avvocato e ricercatore italo-inglese che ha smascherato i maneggi dei baroni universitari, sia «l’uomo di cui il Paese ha bisogno», incoronato dai social come «piccolo eroe», tipo lo scrivano fiorentino celebrato da De Amicis?

RICERCATORE A 49 ANNI: SOLO IN ITALIA... Intanto: piccolo un corno, visto che ha 49 anni, età in cui solo in Italia si è ancora ricercatori. Secondo: questo signore è uno studioso di vaglia nel campo del diritto tributari, l’intimidatorio incipit è tratto dal suo saggio Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, acquistabile in rete su Amazon. Laroma Jezzi è uno che, potendo, si sarebbe risparmiato il ruolo di Masaniello dell’università italiana o, per usare un riferimento inglese, di Guy Fawkes che fa saltare in aria il castello di connivenze incrociate su cui si reggono i concorsi accademici, ma doversi mettere a pecora a cinquant’anni per far posto all’ennesimo raccomandato meno competente fa scattare l’«enough is enough».

INVESTITURA DA FAR INVIDIA A DI MAIO. Un telefonino acceso al momento giusto, una denuncia ai magistrati, un servizio al tiggì e lo sconosciuto tributarista diventa il premier che l’Italia social vorrebbe, con un’investitura digitale più limpida e cospicua di quella di Luigi Di Maio. Ma per piacere. Se mai approdasse a Palazzo Chigi una persona seria, preparata e allergica ai compromessi come Laroma Jezzi - un esperto di tasse, per di più, e che usa termini come «endosoggettivo» -, nel giro di una settimana il popolo del web e non del web chiederebbe la sua testa e reclamerebbe il ritorno di qualche messia da Bar sport con tutte le soluzioni in tasca (o sulla felpa), nel quale, alla fin fine, è più facile riconoscersi. È già molto che al coraggioso ricercatore anglo-toscano sia toccato il quarto d’ora di celebrità cui in Italia raramente hanno diritto quelli che non abbassano la testa e alzano la voce. Come Giulia Romano, economista e ricercatrice pisana che appena due mesi fa aveva denunciato alla magistratura, con tanto di registrazione, il bando per una cattedra confezionato su misura per un certo candidato, con il barone di turno che la invitava ad abbozzare per non rovinarsi la carriera. Uguale a Jezzi.

DATE A GIULIA LA VICE PRESIDENZA. Per Giulia, che ha «fatto l’inglese» pur essendo tutta italiana, dal web non sono arrivati osanna né «premier subito», ma un diluvio di commenti minimizzanti, «succede ovunque, sai che scoperta». Magari da parte degli stessi che oggi incensano Philip. Professor Jezzi, se mai diventerà presidente del Consiglio, per piacere, dia alla dottoressa Romano almeno la vicepresidenza. A meno che non la consideri l’ennesima raccomandazione.

«Concorso su misura? Questi erano gli accordi». Prof (registrato) nei guai. Il caso all’Ateneo di Pisa, la denuncia di una ricercatrice, scrive Marco Gasperetti il 26 luglio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Nei corridoi dell’università di Pisa da qualche giorno non si parla d’altro. E qualche «maligno» l’ha già ribattezzato il «bando fotografia», che in gergo significa un concorso, irregolare, realizzato ad hoc su una persona: il vincitore designato. Adesso però le cose si sono complicate e le ironie rischiano di trasformarsi in sospetti e tremori. Su quel concorso, per un posto di professore ordinario al dipartimento di Economia e management, è stata aperta un’inchiesta della procura di Pisa. Il sospetto è che la commissione d’esame avesse già deciso a priori chi far vincere e i magistrati vogliono capire se esiste un sistema di potere baronale che influisce sui concorsi pubblici. Sospetti generati da una registrazione clamorosa nella quale il presidente di una delle commissioni esaminatrici, uno stimatissimo professore universitario, sembra ammettere le presunte irregolarità. A registrarle il marito dell’esclusa, anche lui docente universitario, ma a Verona. La moglie ha poi presentato una denuncia alla procura allegando oltre alla registrazione altri documenti. Sul caso c’è anche un ricorso al Tar e l’avvio di indagini della commissione etica dell’ateneo pisano, considerato tra i più validi d’Europa, dove studiano oltre 50 mila studenti. Protagonista e presunta vittima della vicenda è Giulia Romano, tra le migliori ricercatrici del dipartimento di Economia e management. È stata lei a firmare la denuncia contro Luciano Marchi, presidente della commissione d’esame, Silvio Bianchi Martini, membro della commissione e direttore del dipartimento di Economia e management, e contro l’ex rettore Massimo Augello. Insieme ai documenti, Giulia Romano e il suo avvocato, Francesco Agostinelli del foro di Livorno, hanno prodotto le registrazioni avvenute tra il professor Marchi, presidente della commissione, e Andrea Guerrini, marito della ricercatrice. Registrazioni nelle quali, almeno apparentemente, Marchi ammetterebbe che il profilo del concorso era stato studiato per il vincitore precedentemente designato «perché rientrava negli accordi». Nella registrazione Marchi poi spiega che basta un semplice «litigio» con «chi conta» per essere tagliato fuori. E in tal caso, per continuare a sperare di far carriera all’interno dell’università, «è importante recuperare il rapporto». E chi osa opporsi e fare ricorso corre il rischio di rimanere ricercatrice a vita perché nessuno mai più l’avrebbe appoggiata, in quanto sarebbe come «dare un premio a chi ha remato contro». Perché «il rischio è quello dell’isolamento... in queste vicende una ha ragione, però appare come quella che rompe i cazzi e in questo caso tutto l’ateneo è coalizzato perché tu vai a rompere una logica». Già, la logica. Un sistema? È proprio quello che stanno accertando i magistrati. «Abbiamo sottoposto al vaglio della procura la registrazione — dice l’avvocato Agostinelli — che è una valida prova documentale, affinché verifichi la violazione delle norme che regolano il reclutamento del personale accademico. Nella denuncia si chiede inoltre che si verifichi l’esistenza o meno di sistematiche condotte discriminatorie per l’accesso alle cattedre. Ci auguriamo che venga fatta luce nel più breve tempo possibile. Non solo nell’interesse della mia assistita, ma per tutelare tutti quei candidati meritevoli che aspirano all’importante ruolo di professore nel prestigioso ateneo pisano». Il rettore dell’università, Paolo Mancarella, non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

Il presidente di Asa fa il detective e smaschera il concorso contestato. Guerrini registra il colloquio con il presidente della commissione che parlerebbe di un bando truccato all'Università di Pisa: la moglie era in corsa per la cattedra e presenta denuncia, scrive Gianni Tacchi il 28 luglio 2017 su "Il Tirreno". Quando il presidente della commissione d’esame gli ha chiesto un incontro ed è andato addirittura nel suo ufficio di Verona, ha capito subito che quella poteva essere l’occasione giusta per smascherare un concorso dell’Università di Pisa che considerava già sospetto. Così Andrea Guerrini, presidente del consiglio di gestione di Asa dallo scorso novembre e anche docente universitario in Veneto, ha registrato con lo smartphone quel colloquio con il presidente della commissione, il docente di economia Luciano Marchi, che parlerebbe di un bando truccato e costruito praticamente su misura per un vincitore già designato. La moglie di Guerrini - la livornese Giulia Romano, ricercatrice di economia - sperava di conquistare un posto da docente ordinario tramite quel concorso, ma poi si è insospettita e quel file audio l’ha portata a presentarsi dai magistrati per denunciare tutto insieme al suo avvocato Francesco Agostinelli: la convinzione della ricercatrice è che ci fosse un patto tra il rettore dell’epoca Massimo Augello e i vertici del Dipartimento di economia e management dell’Università di Pisa per escluderla dalla corsa alla cattedra. E così la Procura, una volta ricevuto l’atto e la registrazione che era stata fatta nell’ufficio di Guerrini, ha aperto un’inchiesta su quanto accaduto. Gli indagati sono tre: oltre a Marchi e Augello, nel registro spunta anche il nome di Silvio Bianchi Martini, membro della commissione e direttore del dipartimento di Economia e management dell’ateneo pisano. La selezione risale a ottobre 2016 e Romano, in un primo momento, presentò un ricorso al Tar «per delle presunte contraddizioni rispetto a quanto prevede la legge Gelmini». Chiedeva l’annullamento, la ricercatrice livornese. Ma lo scorso marzo la vicenda ha cambiato decisamente faccia. «Dopo l’esclusione di mia moglie - ha raccontato Guerrini - il presidente della commissione (Marchi, ndr) è venuto a trovarmi e in quella occasione ha ammesso che il bando era stato fatto su misura. Ho registrato quella conversazione, durata oltre un’ora, e poi sono andato dall’avvocato insieme a mia moglie. E alla fine abbiamo presentato denuncia in Procura». Ma cos’avrebbe detto Marchi a Guerrini? Il presidente della commissione parlerebbe di un esito già scritto «perché rientrava negli accordi» e che ribellarsi non sarebbe servito a niente. Anzi, avrebbe sbarrato la strada alla moglie, con il rischio di una sorta di «isolamento» per lei all’interno dell’università. «In queste vicende una ha ragione - avrebbe detto Marchi - però appare come quella che rompe i c... e in questo caso tutto l’ateneo è coalizzato perché tu vai a rompere una logica». E questa registrazione è stata consegnata ai magistrati, facendo partire l’inchiesta. «Crediamo che quella sottoposta alla Procura sia una valida prova documentale - ha detto l’avvocato Agostinelli - nella denuncia chiediamo di verificare l’esistenza o meno di condotte discriminatorie sistematiche». L’indagine della magistratura su un presunto concorso truccato ha scatenato polemiche alimentato sospetti all’interno dell’ateneo pisano. E Romano, ricercatrice che si occupa di analisi dei gestori idrici, è sconvolta per quanto accaduto: «Ho letto alcuni commenti sul web e mi hanno sorpresa - ha detto - molti dicono che succede ovunque, che non è una novità. Cosa significa? Che dobbiamo arrenderci agli illeciti? La nostra Costituzione dice che quella dei concorsi è la strada per l’accesso agli incarichi nella pubblica amministrazione, quindi io mi attengo alla legge». E appena sentita la registrazione, ha informato il nuovo rettore Paolo Mancarella e ha denunciato subito il caso.

«Favorì il figlio di Zecchino». Indagato il rettore D’Alessandro. Suor Orsola, coinvolti tre professori. La replica: sono sereno, ho fiducia nei magistrati, scrive Titti Beneduce il 27 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Avrebbe favorito un figlio dell’ex ministro Zecchino nell’assegnazione di un posto di ricercatore alla facoltà di Lettere: Lucio d’Alessandro, rettore dell’università Suor Orsola, ha ricevuto un avviso di chiusura delle indagini preliminari per abuso di ufficio; oltre a lui sono indagati altri tre docenti: Giovanni Coppola, Anna Giannetti e Alessandro Viscogliosi. La notizia si è diffusa ieri sera, proprio mentre il professore d’Alessandro era ospite di Bruno Vespa a «Porta a porta» per commentare l’inchiesta della Procura di Firenze sulla spartizione delle cattedre.

La vicenda 13 anni fa. La vicenda al centro dell’interesse degli investigatori è abbastanza datata: risale infatti al 2004 ed è anche particolarmente complessa. Secondo la ricostruzione del pm Graziella Arlomede, che indaga con il coordinamento del procuratore aggiunto Alfonso D’Avino, tredici anni fa, quando era prorettore, d’Alessandro avrebbe formato una commissione ad hoc per agevolare Francesco Zecchino, figlio di Ortensio, docente del Suor Orsola e ministro dell’Università e della Ricerca scientifica tra il 1998 e il 2001, all’epoca dei governi D’Alema e Amato (padre e figlio non sono indagati). La commissione era composta da Giovanni Coppola, Anna Giannetti e Alessandro Viscogliosi; docenti molto vicini all’allora prorettore e a Zecchino: alcuni, infatti, condividono con loro anche l’impegno nel Cesn, il Centro europeo di studi normanni. Tra i vari candidati, il posto di ricercatore a Lettere andò al figlio del politico. La notizia, com’era prevedibile, suscitò polemiche e malumori nell’ateneo. Ci furono ricorsi e dalla faccenda si occupò la magistratura amministrativa con sentenze non favorevoli a Zecchino; nonostante tutto, però, il Suor Orsola non cambiò orientamento. Francesco Zecchino, come si legge sul sito del Suor Orsola, è tuttora ricercatore al corso di laurea in Conservazione e restauro dei Beni culturali, facoltà di Lettere.

E il rettore: «Sono sereno». Tredici anni dopo, quella vicenda diventa oggetto di un’indagine penale. Notificati gli avvisi di chiusura delle indagini preliminari, il pm della sezione reati contro la pubblica amministrazione si avvia dunque a chiedere il rinvio a giudizio per i quattro docenti, che hanno ora venti giorni di tempo per chiedere di essere interrogati o depositare memorie difensive. Il fatto che dal presunto illecito sia trascorso tanto tempo induce comunque a ritenere che presto sarà dichiarata la prescrizione. Il professore d’Alessandro, difeso dall’avvocato Vittorio Manes, che ieri sera ha preso parte alla trasmissione «Porta a porta» proprio per commentare il malcostume che emerge dall’inchiesta fiorentina sulle abilitazioni all’insegnamento universitario, non intende entrare nello specifico ma commenta: «È una vicenda molto vecchia e risalente nel tempo, sulla quale mi sento davvero sereno. Non desidero rilasciare dichiarazioni perché non intendo in alcun modo interferire con il delicatissimo lavoro della magistratura»...

Suor Orsola, indagato il Rettore: «Al concorso universitario favorito ​il figlio dell’ex ministro Zecchino», scrive Leandro Del Gaudio il 26 settembre 2017 su "Il Messaggero". Viene bollato come regista morale di una operazione finalizzata ad assicurare un posto di ricercatore al figlio dell’ex ministro della pubblica istruzione Ortensio Zecchino. Nel pieno dello scandalo nazionale sulle cattedre universitarie (parliamo dell’inchiesta nata a Firenze), non passa inosservata la svolta investigativa impressa di recente dalla Procura di Napoli: sotto inchiesta finisce il rettore dell’università Suor Orsola Benincasa Lucio D’Alessandro, che deve rispondere di un’ipotesi di abuso di ufficio; ma anche gli altri membri della commissione, vale a dire Giovanni Coppola, Anna Giannetti, Alessandro Viscogliosi, per i quali è ipotizzata anche l’accusa di falso. Ai quattro indagati è stato notificato un avviso di chiusa inchiesta, al termine delle indagini condotte dal pm Graziella Arlomede, magistrato in forza al pool guidato dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino. Una inchiesta che si insinua nel pieno di un contenzioso dinanzi al Tar aperto dal ricorso di una candidata al ruolo di ricercatore assegnato - nell’ormai lontano 2004 - a Francesco Zecchino. Né Ortensio Zecchino, né il figlio Francesco sono indagati, mentre l’iter amministrativo è approdato per due volte dinanzi al Tar e al Consiglio di Stato e non è ancora concluso. Ma entriamo nel merito dell’inchiesta sulla valutazione resa in questi anni da due commissioni di concorso in favore di Francesco Zecchino. In ballo il posto di ricercatore a Lettere (storia dell’architettura e storia dei giardini), in prima battuta la commissione premia Zecchino jr. Scatta il ricorso della competitor Maria Losito, per il quale sia il Tar che il Consiglio di Stato dichiarano la valutazione dei prof come un atto illegittimo, «in considerazione dell’evidente svalutazione dei titoli accademici e della prova d’esame della concorrente Maria Losito, di cui riconosceva la prevalenza». Siamo nel 2008, quando la stessa commissione, nonostante le pronunce del Tar e del Consiglio di Stato, si riunisce per confermare la prima valutazione: quel posto di ricercatore - insistono i giudici - deve andare a Francesco Zecchino. Scatta un nuovo ricorso, dal mondo degli studi e della ricerca scientifica, si passa di nuovo alla giustizia amministrativa, che dispone una nuova valutazione dei candidati da parte però di una diversa commissione, «sì da assicurare neutralità e imparzialità dei giudizi, invero carenti nella prima valutazione». Ed è a questo punto - siamo nel 2011 - che entrerebbe in gioco - come «concorrente morale» e come «regista» - il rettore D’Alessandro. Qual è l’accusa? Avrebbe individuato come nuovo commissario un docente del suo istituto - parliamo del professor Coppola - che è anche fondatore e componente di un organismo di studi che ha tra i suoi vertici sia Ortensio Zecchino, che il figlio Francesco. Una sorta di conflitto di interessi, secondo la Procura, che rileva che i criteri di imparzialità e neutralità del giudizi sono tutt’altro che garantiti. Scrivono i pm: «Coppola è fondatore e componente del consiglio direttivo del Cesn, Centro europeo di studi normanni di Ariano Irpino, istituto a cui partecipano il contro interessato Francesco Zecchino ed il padre di questi Ortensio, fondatore anch’egli e presidente del Consiglio di amministrazione dell’ente». Quanto basta, nell’ottica della Procura, ad ipotizzare la volontà di favorire il figlio dell’ex ministro. Di tutt’altro avviso docenti e commissari coinvolti. 

COME SI TRUCCA UN CONCORSO UNIVERSITARIO.

Concorsi truccati: revisori amici e bandi «ad personam». Così si ottiene una cattedra in ateneo. Dal sistema delle pubblicazioni ai candidati già scelti, ecco i metodi per condizionare i risultati delle prove, scrive Valentina Santarpia il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Dopo lo scandalo cinque anni fa delle riviste improbabili selezionate dall’Anvur per valutare gli scritti degli aspiranti docenti, gli esperti hanno reso, almeno all’apparenza, molto più difficile conquistare quei punteggi necessari per candidarsi all’abilitazione scientifica nazionale, e quindi aspirare a un posto da professore all’università. Ma, come è noto, fatta la legge, trovato l’inganno. E così anche oggi il sistema di accreditamento ha le sue falle. A partire proprio dalle pubblicazioni. Se nelle materie scientifiche, da matematica a medicina, sono le citazioni dei propri lavori a contare, nelle materie umanistiche e in settori come giurisprudenza o economia valgono tre criteri: i libri scritti, le pubblicazioni, e quante di queste sono ospitate da riviste considerate di qualità. Servono almeno due elementi su tre. Come fa un aspirante professore a pubblicare? Prima di tutto deve mandare il proprio lavoro all’editor della rivista, che a sua volta lo sottoporrà ai revisori anonimi. Questo meccanismo è usato anche nelle riviste internazionali, dove però la revisione viene affidata a ricercatori, dottorandi o professori. In Italia si ritiene doveroso far valutare il testo solo ad un docente associato o ordinario. Ma c’è un’altra, più evidente differenza: in un ambiente ristretto come quello italiano è facile che revisore e direttore della rivista conoscano chi sta presentando il lavoro. La commissione indipendente è sicuramente una garanzia, ma deve tener conto dei criteri oggettivi delle citazioni e delle pubblicazioni. C’è sempre il controllo successivo degli atti, ma documenti e motivazioni restano online solo 60 giorni. In ogni caso, anche superata l’abilitazione, resta il concorso. Se il bando viene scritto a immagine e somiglianza del candidato prescelto, il posto è praticamente suo. E se si presenta qualcun altro? Come nel caso del ricercatore che ha fatto partire l’indagine, lo si dissuade dal partecipare. «Nel suo interesse», ovviamente.

Università: il ministero e i concorsi a fotografia, scrive Alessandro Figà Talamanca il 21 marzo 2014 su Roars. Siamo in regime di blocco del reclutamento universitario, ma qualche concorso viene ancora bandito. Si tratta di concorsi a posti di “ricercatore a tempo determinato” una nuova figura che, secondo la recente riforma dovrebbe costituire il canale principale di reclutamento dei giovani alla carriera universitaria. I concorsi dovrebbero essere aperti a tutti i giovani qualificati, ma molti professori, con il consenso delle università e del Ministero hanno trovato il modo di riservarli a priori ad alcuni predestinati. Lo strumento è ben noto, si tratta del cosiddetto “concorso a fotografia” per il quale nel bando viene disegnato un “profilo” del futuro vincitore che corrisponde esattamente al profilo scientifico del predestinato, ad esempio corrisponde al titolo e all’argomento della sua tesi di dottorato. Questa pratica furbesca che consente di prescindere dal merito scientifico dei concorrenti è talmente ben nota che la legge la proibisce esplicitamente.  La Legge 240 del 2010 stabilisce che un eventuale “profilo” può essere specificato “esclusivamente tramite indicazione di uno o più settori scientifico disciplinari”, per fare un esempio si potrà specificare che il candidato debba essere un esperto di “Probabilità e Statistica Matematica” ma non necessariamente un esperto di “Processi di diffusione negli spazi ultrametrici”. I bandi che non rispettano la legge dovrebbero essere censurati dal Ministero, ma questo non avviene; anzi il Ministero stesso incoraggia questo tipo di bando consentendo la descrizione del profilo nel sito ufficiale del Ministero. La violazione della legge potrebbe essere eliminata attraverso il ricorso di un candidato ai Tribunali Amministrativi, ma i ricorsi costano e nessuno può garantire che il ricorrente che ottenga dal tribunale la cancellazione del “profilo” dal bando, risulti poi vincitore. Complice il Ministero si sta diffondendo quindi una prassi illegale che può portare solo danni al sistema universitario. Naturalmente le scuse per violare la legge sono molte, ma tutte legate a una caratteristica negativa del sistema universitario e scientifico in Italia e cioè la sua struttura gerarchica, che prevede che gli argomenti e la direzione della ricerca siano indicati da un anziano “grande capo”, mentre i giovani nell’età più creativa vengono mantenuti in una situazione di dipendenza. Secondo questa prassi il posto di ricercatore appartiene quindi ad un “grande capo” che ha diritto di scegliersi il “collaboratore”. Localismo e nepotismo, i mali dell’università italiana sono casi estremi di questa assurda prassi.

Scandalo concorsi universitari, quel sistema che resta impunito. La vicenda che a Firenze ha condotto all’arresto di sette professori universitari è solo l’ultima di una lunga lista. Finirà con la solita prescrizione, dopo anni di processi? Scrive Gian Antonio Stella il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Riusciranno i giudici a portare fino in fondo il processo ai baroni arrestati per l’ennesima «concorsopoli»? O finirà con la solita prescrizione dopo i soliti undici o dodici anni di lungaggini e rinvii? Ecco il dubbio. Perché, certo, di arresti ne abbiamo visti. Tanti. Ma le condanne per le troppe selezioni «pilotate» sono state più rare degli ippopotami nel Garda. Prendiamo solo uno degli ultimi casi. Ansa, giugno 2016: «Il Tribunale di Bari ha archiviato per prescrizione di tutti i reati una delle indagini sui presunti concorsi truccati alla facoltà di Medicina dell’Università...». L’inchiesta era «sui concorsi per ordinari in Medicina interna risalenti agli anni 2005-2007. Gli indagati, tutti docenti universitari, rispondevano di associazione per delinquere, falso, interesse privato in atti pubblici e abuso d’ufficio...». Titoloni sparati in prima pagina all’inizio, titolini se non il silenzio assoluto col passare delle settimane, dei mesi, degli anni... Con la rimozione totale, spesso, di documenti, testimonianze, intercettazioni che da soli, al di là del profilo penale e processuale, sarebbero stati sufficienti, in una università seria, a espellere persone chiamate a «educare» generazioni di ragazzi avvelenati dall’elogio della furbizia.

Intimidazioni. Basti ad esempio la sfuriata del rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, vicepresidente della Conferenza dei rettori (sic...), contro Giuliano Grüner, uno dei due ricercatori (con Pierpaolo Sileri) che avevano ricorso al Tar per la «chiamata» di colleghi che, scrisse Il Fatto, erano «senz’altro titolati ma incidentalmente figli di professori di Tor Vergata». Ecco stralci della registrazione, purgata delle parole più «esuberanti» del Magnifico: «Lei sta sputando nel piatto in cui mangia! Sta facendo una causa contro il suo rettore, (censura)! Non è mai accaduto! Quando mi chiamava il mio rettore io tremavo (censura)!». «O ritira il ricorso oppure noi qui non ci parliamo! Per i prossimi anni per quello che mi riguarda si cerchi un altro Ateneo! Finché faccio io il rettore, lei qui non sarà mai professore!».

Omertà diffusa. Un caso isolato? Per niente. Lo dicono le storie di ordinari passati dopo quattro giudizi negativi su cinque e altri bocciati da commissari con molte meno pubblicazioni. O quella di Maria Luisa Catoni, che dopo esser stata fellow a Berlino e senior fellow alla Columbia e aver presieduto (unica donna italiana) una commissione dell’European Research Council è stata scartata per «poche esperienze internazionali»...Un’Ansa del dicembre 1991 racconta «le vicende di due concorsi di ematologia e di pediatria invalidati per volontà del ministro della università Antonio Ruberti, dopo che su una rivista scientifica erano state pubblicate le prove dei “brogli”». Indimenticabili i commenti. «È vero, in Italia per diventare professore d’università bisogna aver un padrino», si sfogò la docente di pediatria Luisa Busingo confidando il senso di umiliazione, «io stessa, se sono associato lo devo a un padrino. Se morisse lui avrei la certezza di non diventare mai di ruolo». «Il problema è l’omertà», accusarono Antonio Fantoni e Ferdinando Aiuti, famosi per le ricerche sull’Aids, «tutti i docenti sanno che le cose funzionano così ma la maggior parte dei nostri colleghi non protesta perché è d’accordo con questo sistema». Fenomenale l’intervento di Luigi Frati: «È un problema di moralità che non riguarda solo i concorsi universitari, ma la società intera». Pochi anni dopo, eletto rettore, si sarebbe circondato di tutta la famiglia: moglie, figlio, figlia...

Cervelli fuggiti. «Nonostante la retorica dei “pochi episodi di malcostume”», ha scritto Roberto Perotti nel libro L’Università truccata, «tutti i professori dell’università italiana sanno di decine di concorsi truccati, e moltissimi vi hanno partecipato, spesso acconsentendo loro malgrado a promuovere il protetto del barone locale per riuscire a promuovere in cambio almeno un candidato serio». Una scusa per tacitare la coscienza. «Come nelle società mafiose, l’omertà e la connivenza di fatto imposte alla maggioranza degli onesti non sono percepite come atto di complicità, ma come sacrificio personale per evitare guai peggiori ad altre persone». Ma perché tante università, con luminose eccezioni, ovvio, si sono riempite negli anni di figuri di statura modesta o modestissima invece che di fuoriclasse, costretti a emigrare all’estero? Possibile che un giovane cervello come Clemente Marconi, come ha raccontato il nostro Marco Imarisio, riceva lo stesso giorno un rifiuto («Gentile collega, siamo giunti alla conclusione che Lei non possiede i requisiti...») dall’ateneo di Palermo e la lettera di assunzione della Columbia di New York? Perché per anni troppe università, per fare un paragone calcistico, hanno rinunciato a prendere Ronaldinho preferendogli un brocco tirato su nel cortile di casa?

Villautarchia. La risposta, spiegano ne Lo splendido isolamento dell’università italiana Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri e ancora Perotti, è questa: «La “squadra” di Villautarchia non gioca un campionato, ma solo amichevoli, spesso truccate; riceve un contributo fisso dalla federazione indipendentemente dai risultati; e gli spettatori di Villautarchia non hanno alternative: o vanno allo stadio locale, o non vedono partite di calcio. Prendere Ronaldinho scombussolerà la tranquilla vita dei giocatori, che si allenano solo una volta alla settimana; toglierà la leadership della squadra al vecchio capitano quarantenne; e farà risaltare l’inadeguatezza dell’allenatore... Perché crearsi tutti questi problemi, quando prendendo un giocatore di serie C si fa piacere a un dirigente locale, che è amico del sindaco in scadenza e che farà vincere il presidente del Villautarchia alle prossime elezioni comunali?».

Impuniti. Fatto è che il nuovo scandalo è sale sulle ferite di tantissimi ordinari, associati, ricercatori perbene che fanno il loro mestiere davvero con dedizione, disciplina, onore e vivono malissimo questi scandali. Tanto più che anche chi viene condannato se la cava con un buffetto. Il caso simbolo è quello di un concorso per Otorinolaringoiatria. Bandito nel 1988, vinto da sedici parenti o raccomandati, sanzionato da condanne in Assise, in Appello e in Cassazione (tredici anni dopo i fatti) non fu mai seguito da provvedimenti seri. Non solo restarono tutti impuniti sulle loro cattedre (nonostante le «plurime e prolungate condotte criminose» denunciate nelle sentenze) ma qualche anno dopo il direttore generale del Miur, Antonello Masia, mise per iscritto che «l’annullamento di un atto non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità, ma deve tener conto della sussistenza di un interesse pubblico». Tutti salvi. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto, scurdammoce ‘o passat’...

Concorsi truccati, Adi: "Succede in tutti i settori, dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione". Il segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, Giuseppe Montalbano, non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario: "Sfogarsi cercando di restare è impossibile", scrive Giorgia Pacino il 26 settembre 2017 su "La Repubblica". "Succede in tutti i settori accademici in modo trasversale e in tutta la filiera del precariato della ricerca. Dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione nazionale". Giuseppe Montalbano è segretario nazionale dell'Adi, l'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università, partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario.

Ha letto il racconto del ricercatore di Firenze?

"Una storia come quella non è affatto nuova, non è la prima volta che ci vengono segnalati casi di questo genere. Attenzione: non tutti i docenti sono baroni. Delle nicchie in cui prevale trasparenza e merito ci sono. È vero, però, che in molti settori avere un professore che ha seguito un candidato per anni e vuole investire su di lui costituisce un canale di accesso preferenziale".

Quant'è diffuso il sistema?

"Parecchio. È un problema con radici strutturali che affondano nella ricattabilità dei ricercatori precari, il prodotto di un sistema che come Adi denunciamo da sempre. La ricattabilità è stata introdotta con la riforma Gelmini, portata avanti con la promessa di sgominare i baroni. Non solo i baroni sono rimasti al loro posto, ma, introducendo una serie di figure contrattuali precarie, tagliando le risorse e dando più potere a chi tiene i cordoni della borsa e controlla l'accesso ai bandi - per di più limitati con il blocco del turn over - alla fine la riforma ha rafforzato quelle stesse baronie che a parole intendeva combattere".

Va cambiato il metodo di selezione?

"Un sistema così complesso, fatto di tanti indicatori e passaggi, è insufficiente rispetto alle necessarie garanzie di trasparenza. Va riformato coinvolgendo tutta la comunità accademica, a partire proprio dai segmenti meno tutelati come i ricercatori precari. Alla base, però, c'è sempre il sottofinanziamento che fa da cornice a tutto il resto. È giusto intervenire sui meccanismi di reclutamento e sulla trasparenza dei concorsi, ma bisogna prima affrontare il nodo del finanziamento e dello sblocco del reclutamento. Perché se i posti sono sempre meno e le opportunità per i giovani ricercatori si restringono, cresce la loro ricattabilità".

Allora aumentano i ricorsi?

"Per fortuna tanti colleghi, con parecchio coraggio, hanno la volontà di contestare decisioni di tipo arbitrario, spesso mettendo a repentaglio la loro stessa carriera. Si sta diffondendo una certa capacità di rispondere ai torti subiti, innanzitutto attraverso il ricorso. Di certo sono meno quelli disposti a denunciare alle autorità".

Il problema resta la prova.

"Quella spetta alle autorità. Consiglierei di prendere tutte le precauzioni possibili e raccogliere la la documentazione, anche attraverso strumenti come le registrazioni o altre modalità per dimostrare cos'è avvenuto. Sarebbe la prova migliore, certo, ma quando si fa un concorso dotarsi di microfoni non è la prima preoccupazione di un candidato. Riceviamo molte segnalazioni in forma confidenziale o anonima. Ma una cosa è una denuncia, un'altra una lettera di sfogo di chi magari decide di abbandonare il mondo dell'università. Il problema è che sfogarsi cercando di restare diventa impossibile".

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un dottore di ricerca spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio il 16 marzo 2015 su "La Repubblica". Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni, “che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente. Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”. Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. Sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.

Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.

Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Libri universitari. Self–publishing. “Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.

Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.

Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.

E poi avviene l’apoteosi dell’ipocrisia. Marmaglia di italiani, vincitori di concorsi truccati ed abilitati con esami di Stato truccati, che inneggiano alla legalità.

Concorsi truccati, la Rete incorona l’uomo della denuncia: «È l’italiano di cui il Paese ha bisogno». Philip Laroma Jezzi, 49 anni, è il ricercatore dell’università di Firenze che ha fatto scoppiare il caso. Sui social Network decine i commenti di ringraziamento e ammirazione. E c’è anche chi lo propone come ministro dell’Istruzione, scrive Paolo Decrestina, su "Il Corriere della Sera" il 26 settembre 2017. La Rete lo ha scelto come l’italiano di cui l’Italia ha bisogno. La sua denuncia e le sue registrazioni, che a Firenze hanno dato il via all’inchiesta per i concorsi truccati e le assegnazioni di cattedre, hanno mosso l’interesse e il sentimento di “onestà” del web. Perché Philip Laroma Jezzi, il ricercatore che ha fatto esplodere il caso, è oggetto da qualche ora di commenti e ringraziamenti sui social network.

I commenti su Facebook. Dopo gli arresti di sette docenti il ricercatore ha preferito non parlare dei dettagli del caso. Neanche in Rete, per il momento, ha pubblicato qualcosa in merito. Ma la sua pagina Facebook riceve comunque decine commenti, e tutti pubblicati nelle ultimissime ore. Al post più recente, che è dello scorso 12 settembre (una petizione che non ha nulla a che fare con Firenze) stanno arrivando risposte che invece si riferiscono proprio alla denuncia e al suo “coraggio”. «Grazie Philip! L’Italia ha bisogno di cittadini come te», scrive Andrea. «Le persone oneste sono tutte con te! Hai tutta la mia stima e te lo dice uno che ha pagato sulla sua pelle comportamenti come il tuo», commenta Vito. E poi ancora: «Stima e ringraziamenti sinceri. Da cittadino», «Ho profonda stima di te... è l’ora di reagire perché in gioco c’è quello che siamo ed il nostro futuro..ti sono vicino».

Su Twitter. Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese e un posto al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze, non ha un personale profilo su Twitter. Ma anche l’altro colosso dei social network, come Facebook, lo celebra. L’inchiesta di Firenze è tra le più discusse, tanto che l’hashtag #concorsitruccati è tra i trend topic di Twitter. Il ricercatore viene definito “piccolo eroe”, “un esempio che tutti i meritevoli dovrebbero seguire per non accontentarsi di una mediocrità imposta”; c’è anche chi azzarda un #jesuisphilip e chi lo propone come prossimo ministro dell’Istruzione.

Concorsi truccati, arrestati 7 docenti universitari. Indagato anche Fantozzi. Chi sono i professori sotto accusa. Ventinove provvedimenti cautelari personali nei confronti di docenti universitari: ci sono anche 52 indagati, fra cui alcuni interdetti allo svolgimento delle funzioni di professore, scrive Fiorenza Sarzanini il 25 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Spartizione di cattedre universitarie e concorsi truccati: con l’accusa di corruzione sono stati arrestati e messi ai domiciliari sette docenti di importanti atenei italiani. Fra gli indagati anche l’ex ministro Augusto Fantozzi. I professori finiti in manette sono residenti uno a Milano, uno a Livorno, tre a Roma, uno a Bologna e uno a Napoli e sarebbero titolari di cattedre nelle università di Siena, Napoli, Cassino, Bologna e Castellanza (Varese). L’inchiesta, condotta dalla Procura di Firenze, guidata da Giuseppe Creazzo, è stata svolta dalla Guardia di Finanza, che all’alba di oggi ha eseguito le misure cautelari. Oltre ai 7 agli arresti domiciliari, ci sono 52 indagati e interdetti allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi) per reati di corruzione. Più di 150 perquisizioni domiciliari sono state eseguite presso uffici pubblici, abitazioni private e studi professionali. È il bilancio di un’operazione della Guardia di Finanza di Firenze che ha dato esecuzione ad una vasta operazione di polizia giudiziaria su tutto il territorio nazionale. Nei confronti di altri 7 docenti universitari, il gip di Firenze si è riservato la valutazione circa l’applicazione della misura interdittiva all’esito dell’interrogatorio degli stessi. Le misure coercitive sono state disposte dal gip del Tribunale di Firenze, Angelo Antonio Pezzuti, su richiesta della locale Procura della Repubblica, a seguito di articolate investigazioni svolte dai finanzieri del nucleo di Polizia tributaria di Firenze, coordinate dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal sostituto procuratore Paolo Barlucchi. Il contesto investigativo dell’operazione denominata «Chiamata alle armi» ha preso le mosse dal tentativo di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore universitario, candidato al concorso per l’Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento in Diritto tributario, a «ritirare» la propria domanda, per favorire un terzo soggetto in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, promettendogli che si sarebbero adoperati con la competente Commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata. Gli approfondimenti investigativi hanno consentito di accertare sistematici accordi corruttivi tra numerosi professori di diritto tributario - alcuni dei quali pubblici ufficiali in quanto componenti di diverse commissioni nazionali (nominate dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) per le procedure di abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore scientifico diritto tributario - finalizzati a rilasciare le necessarie abilitazioni secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi. I sette docenti di diritto tributario finiti agli arresti domiciliari sono: Guglielmo Fransoni, tributarista di uno studio fiorentino e professore a Lecce; Giuseppe Zizzo (Università Carlo Cattaneo di Castellanza, Varese); Fabrizio Amatucci, professore a Napoli; Alessandro Giovannini (Università di Siena); Giuseppe Maria Cipolla (Università di Cassino); Adriano Di Pietro (Università di Bologna); Valerio Ficari (professore a Sassari, supplente a Tor Vergata-Roma).

Firenze, concorsi truccati: arrestati sette docenti universitari. Maxi operazione per un'inchiesta della procura: 150 perquisizioni in tutta Italia. Per altri 22 professori è scattata l'interdizione dall'insegnamento per un anno. L'ipotesi d'accusa è corruzione. Tra gli indagati anche l'ex ministro Fantozzi. L'elenco completo dei 44 nomi, scrivono Massimo Mugnaini e Franca Selvatici il 25 settembre 2017 su "La Repubblica", ha collaborato Gerardo Adinolfi. “Sistematici accordi corruttivi tra professori di diritto tributario finalizzati a rilasciare le abilitazioni all'insegnamento secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi”. Sulla base di questa ipotesi accusatoria della procura di Firenze, i finanzieri hanno eseguito stamani 29 misure cautelari a carico di altrettanti docenti universitari di diritto tributario su tutto il territorio nazionale: 7 sono finiti agli arresti domiciliari, 22 interdetti dall'attività per 12 mesi, quindi non possono insegnare. Tra loro anche dei componenti delle commissioni ministeriali nominate dal Miur per i concorsi in quella disciplina giuridica. Per altri 7 docenti il gip Angelo Antonio Pezzuti valuta altre misure cautelari. Eseguite anche 150 perquisizioni da parte di 500 finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Firenze. Gli indagati sono complessivamente 59. L'accusa per tutti è corruzione. Tra gli indagati anche l'ex ministro Augusto Fantozzi. "Il professore è completamente e indubitabilmente estraneo ai fatti in contestazione in primo luogo perché era già andato in pensione all'epoca degli avvenimenti oggetto di indagine. La sua integrità è altresì testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica", ha affermato l'avvocato Antonio D'Avirro, difensore di Fantozzi. "Il professore - prosegue l'avvocato - sarà lieto di fornire tutti i chiarimenti necessari nell'incontro con i magistrati, che auspica possa avvenire il prima possibile". L'indagine, spiegano gli inquirenti, è nata a Firenze dal tentativo di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore, candidato al concorso per l’abilitazione all’insegnamento nel settore del diritto tributario, a “ritirare” la propria domanda, allo scopo di favorire un altro ricercatore in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, promettendogli che si sarebbero adoperati con la competente commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata. E' stato il ricercatore universitario a far partire l'inchiesta con la sua denuncia. I vincitori del concorso nazionale venivano scelti con una "chiamata alle armi" tra i componenti della commissione giudicante, e non in base a criteri di merito. Secondo quanto emerso, in un'intercettazione uno dei docenti, componente della commissione giudicante, affermerebbe di voler favorire il suo candidato, contrapposto a quello di un collega, esercitando la sua influenza con una vera e propria "chiamata alle armi" rivolta agli altri commissari a lui più vicini. "Fatto sorprendente che deve far riflettere sulla situazione dell'Università oggi", ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella.

I docenti arrestati. I sette arrestati sono Guglielmo Fransoni, tributarista dello studio Russo di Firenze e professore a Foggia ma anche ex collaboratore di Stefano Ricucci, Fabrizio Amatucci, professore di Napoli, Giuseppe Zizzo, dell'università Carlo Cattaneo di Castellanza (Varese), Alessandro Giovannini, dell'università di Siena, Giuseppe Maria Cipolla dell'università di Cassino, Adriano Di Pietro dell'università di Bologna, Valerio Ficari, ordinario a Sassari e supplente a Tor Vergata a Roma. 

I docenti interdetti Massimo Basilavecchia dell'Università Luiss di Roma, Mauro Beghin dell'Università di Padova, Pietro Boria della Sapienza di Roma, Andrea Carinci dell'Università di Bologna, Andrea Colli Vignarelli dell'Università di Messina, Roberto Cordeiro Guerra, ordinario di diritto tributario a Firenze e nel cda di Starhotels, Giangiacomo D'Angelo dell'Università di Bologna, Lorenzo Del Federico dell'Università di Chiati, Eugenio Della Valle dell'Università Sapienza di Roma, Maria Cecilia Fregni dell'Università di Modena e Reggio Emilia, Marco Greggi dell'Università di Ferrara e consulente ufficiale della commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna nonché docente presso la Scuola superiore della Magistratura, Giuseppe Marino dell'Università di Milano, delegato di Confindustria presso l'Ocse, Daniela Mazzagreco dell'Università di Palermo, Francesco Padovani dell'Università di Pisa, Maria Concetta Parlato dell'Università di Palermo, Paolo Puri dell'Università del Sannio, Livia Salvini della Luiss Guido Carli di Roma, Salvatore Sammartino dell'Università di Palermo, Pietro Selicato della Sapienza di Roma, Thomas Tassani dell'Università di Bologna, Loris Tosi dell'Università di Venezia Ca' Foscari, Francesco Tundo dell'Università di Bologna. 

I docenti per i quali il gip si è riservato la valutazione dell'interdizione all'esito dell'interrogatorio. Augusto Fantozzi, ex ministro e dal 2009 rettore dell'Università Giustino Fortunato di Benevento. Andrea Fedele, Giovanni Eugenio Marongiu, Andrea Parlato, Pasquale Russo, Francesco Tesauro, Carlos Maria Lopez Espadafor.

I docenti indagati per i quali il gip ha rigettato la richiesta di misure cautelari. Roberta Giuseppina Antonietta Alfano, Angelo Contrino, Manlio Ingrosso, Giuseppe Marini, Andrea Mondini, Maria Pia Nastri, Giovanan Petrillo, Claudio Sacchetto.

Nell'inchiesta era coinvolto anche il professor Victor Uckmar, che è morto alla fine del 2016 e quindi è uscito dalle indagini.

Dall'ex collaboratore di Ricucci agli avvocati delle grandi aziende: chi sono i sette docenti arrestati per i concorsi truccati. Il più noto alle cronache è Guglielmo Fransoni, avvocato d'affari e collaboratore di Stefano Ricucci. Nell'elenco anche docenti di Bologna, Cassino, Tor Vergata e Napoli, scrive il 25 settembre 2017 "La Repubblica". Tra i sette arrestati nell'inchiesta della procura di Firenze sui concorsi truccati all'Università il più noto alle cronache è probabilmente Guglielmo Fransoni, 53 anni, professore ordinario all’università di Foggia. Laureato in giurisprudenza oltre che in economia e commercio, Fransoni, avvocato d'affari, è stato uno dei più stretti collaboratori di Stefano Ricucci: nel febbraio 2005 il professore fu bloccato al confine con la Svizzera, a Ponte Chiasso, mentre in compagnia di Luigi Gargiulo, altro stretto collaboratore di Ricucci, cercava di portare in Italia una valigetta piena di titoli e di documenti relativi alle società off shore dell'immobiliarista romano.

Alessandro Giovannini, laureato all'università di Pisa, a Siena è professore universitario di diritto tributario, ha scritto otto monagrafie, oltre a saggi e voci di enciclopedie del settore, svolge libera professione e siede in consigli di amministrazione di aziende di primo piano. Così come del resto fanno anche gli altri arrestati.

Giuseppe Maria Cipolla è avvocato e professore ordinario di diritto tributario presso la facoltà di giurisprudenza dell’università degli studi di Cassino dove insegna anche sistemi fiscali comparati e di diritto tributario degli enti locali. Nel curriculum, oltre a pubblicazioni e vari incarichi, annovera l’esperienza di membro della commissione esaminatrice del concorso per il conferimento di 162 posti di dirigente nel ruolo del Ministero delle finanze e delle commissioni di esami istituite dal Ministero della Giustizia per l’abilitazione all’esercizio della professione di dottore commercialista e per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato.

Fabrizio Amatucci svolge la libera professione ed è professore ordinario di diritto tributario presso la Seconda università di Napoli, incaricato di diritto finanziario nella facoltà di Giurisprudenza dell’università di Napoli Federico II. E’ stato direttore del dipartimento di scienze giuridiche della seconda università di Napoli II. Alberto Di Pietro, anche lui campano, è ordinario di diritto tributario alla facoltà di giurisprudenza dell'Alma Mater Studiorum dell’università di Bologna e docente nel Master in diritto tributario dell'università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Ordinario di diritto tributario presso l'Università di Sassari e supplente presso l'Università di Roma "Tor Vergata", Valerio Ficari è autore di numerose monografie. Ha redatto circa centocinquanta tra articoli, note e sentenze in materia tributaria, oltre a essere curatore di opere collettanee in materia tributaria.

Infine Giuseppe Zizzo, avvocato tributarista con studio a Milano in zona Conciliazione e professore ordinario di diritto tributario all'Università Liuc di Castellanza (Varese).

Università, concorsi truccati a Firenze. Arrestati sette docenti, 22 interdetti, scrive il 25 settembre 2017 Il Secolo XIX. Sette docenti universitari sono stati arrestati per reati corruttivi dalla Guardia di Finanza di Firenze, nell’ambito di un’inchiesta su concorsi truccati. Le misure sono scattate a seguito di un’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari, disposta dal gip su richiesta dei pm fiorentini Luca Turco e Paolo Barlucchi. Sei indagati anche a Bologna. Oltre all’arresto del professor Adriano Di Pietro, insegnante di diritto tributario e finanziario, ai domiciliari, i finanzieri della polizia tributaria hanno eseguito anche due misure interdittive a carico di altrettanti docenti dell’ateneo. Una decina le perquisizioni, tra abitazioni, studi e uffici universitari. Secondo quanto spiegato, le indagini sono partite dal presunto tentativo da parte di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore, candidato al concorso per l’abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore del diritto tributario, a ritirare la propria domanda, allo scopo di favorire un altro ricercatore, in possesso di un curriculum notevolmente inferiore, promettendogli in cambio l’abilitazione nella tornata successiva. Le indagini, spiega la GdF in una nota, hanno consentito di accertare «sistematici accordi corruttivi tra numerosi professori di diritto tributario», - alcuni dei quali pubblici ufficiali poichè componenti di diverse commissioni nazionali nominate dal Miur -, finalizzati a rilasciare abilitazioni «secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori», per soddisfare «interessi personali, professionali o associativi». Questa mattina i finanzieri hanno eseguito oltre 150 perquisizioni domiciliari in uffici pubblici, abitazioni private e studi professionali. Per 7 docenti che figurano tra gli indagati il gip Antonio Pezzuti si è riservato la valutazione circa la misura interdittiva dalla professione all’esito dell’interrogatorio. Ai domiciliari sono finiti Fabrizio Amatucci, docente alla Federico II di Napoli, Giuseppe Maria Cipolla (Università di Cassino), Adriano di Pietro (Università di Bologna), Alessandro Giovannini (Università di Siena), Valerio Ficari (Università di Roma 2), Giuseppe Zizzo (Università Carlo Cattaneo di Castellanza, Varese), Guglielmo Fransoni (Università di Foggia). Tra i 59 indagati, invece, anche l’ex ministro Augusto Fantozzi. Per Fantozzi, anche lui docente di diritto tributario, i pm Paolo Barlucchi e Luca Turco hanno chiesto l’interdizione e il gip, Antonio Pezzuti, si è riservato la decisione all’esito dell’interrogatorio, che verrà fissato nei prossimi giorni. Altri 22 sono stati colpiti dalla misura dell’interdizione dalle funzioni di professore universitario e da quelle connesse ad ogni altro incarico accademico per la durata di 12 mesi. Nell’inchiesta, che riguarda tutto il territorio nazionale, risultano indagate complessivamente 59 persone.

La “regola del do ut des”: ovvero lo scambio di favori. Sarebbero stati scelti in base alla regola del “do ut des”, uno scambio di favori tra commissari, i vincitori del concorso per l’abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore del diritto tributario. Secondo quanto emerso, intercettazioni eseguite nel corso delle indagini condotte dalla guardia di finanza, che hanno portato all’arresto di 7 docenti, tra i commissari vigeva un «patto», un accordo per scambiarsi reciprocamente i voti e favorire i candidati sponsorizzati da ciascuno.

Le intercettazioni. «Non è che non sei idoneo... Non rientri nel patto», questa la frase, secondo quanto si legge nelle carte dell’inchiesta, che un ricercatore dell’Università di Firenze, la cui denuncia ha fatto scattare le indagini, si sarebbe sentito rivolgere da un docente dell’Ateneo fiorentino, che lo invitava a ritirarsi dal concorso, il cui superamento è necessario per l’accesso ai bandi da docente di prima e seconda fascia. In cambio sarebbe stato promosso alla tornata successiva. «Non sei nella lista», afferma il professore durante il colloquio, invitando il ricercatore a ritirare la candidatura e spiegandogli che non sarebbe stato comunque scelto. «Non siamo sul piano del merito - spiega -, ognuno ha portato i suoi». Il docente accusa poi il ricercatore di non rispettare «il vile commercio dei posti». Dalle indagini emerge che l’esito dei concorsi sarebbe stato regolato da una mera logica di spartizione territoriale: commissario riceveva l’ok all’abilitazione del proprio protetto - di solito un allievo o associato del proprio studio professionale - solo promuovendo i candidati sponsorizzati dagli altri.

Firenze, concorsi truccati: ecco come funziona l'abilitazione scientifica nazionale. A giudicare i candidati è una commissione di cinque membri sorteggiati tra i professori ordinari di quel settore, scrive Valeria Strambi il 25 settembre 2017 su "La Repubblica". Alcuni professori avrebbero indotto un ricercatore dell'Università di Firenze a ritirare la propria domanda di partecipazione al concorso per l'abilitazione scientifica nazionale all'insegnamento di diritto tributario per fare posto a un altro candidato. Ma come funziona il meccanismo dell'abilitazione? Se in passato esistevano concorsi a livello locale, ora la procedura è nazionale. Esistono due fasce distinte, sia quella per il passaggio da ricercatore a professore associato, sia quella per passare da associato a ordinario. La commissione che decide se un candidato ha diritto o meno all'abilitazione viene individuata attraverso un sorteggio tra i professori ordinari di tutta Italia che operano in quel preciso settore. Per poter essere sorteggiato occorre avere un curriculum di un certo livello e aver soddisfatto determinati criteri (ad esempio aver pubblicato un numero minimo di articoli entro un periodo di tempo). Una volta entrati nella lista dei sorteggiabili, avviene l'estrazione e si formano le commissioni, composte da cinque docenti. A questo punto i candidati interessati a ottenere l'abilitazione presentano la domanda corredata da curriculum. La commissione valuta i titoli e poi indica, con un "sì" o con un "no" i nomi di coloro che sono abilitati. Non c'è un limite di abilitati, in teoria tutti, se hanno i requisiti, possono superare la prova. Ma non è finita: il ricercatore che ha in tasca l'abilitazione, che comunque ha una scadenza e non dura per sempre, se vuole ottenere un posto da professore in un'università deve partecipare a un concorso, che può essere chiuso e quindi solo tra interni a quell'ateneo, oppure aperto anche a candidati esterni che si sono abilitati in altre università. I finanziamenti sono limitati e i posti disponibili sono sempre pochi. C'è quindi il rischio che l'abilitazione ottenuta scada prima che il ricercatore sia riuscito a entrare.

Università e concorsi truccati: inchiesta sui “cinque saggi”, scrive il 5 ottobre 2013 Il Secolo XIX. Avrebbero pilotato decine di concorsi universitari dal 2006 al 2011 creando una sorta di circoli privati all’interno dei quali si decideva il destino degli aspiranti docenti attraverso accordi, scambi di favori, sodalizi e patti di fedeltà. L’inchiesta della procura di Bari è ormai alle battute finali dopo l’informativa conclusiva depositata dalla Guardia di Finanza nel maggio scorso e ora al vaglio dei pm Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli. Negli atti dei finanzieri spuntano i nomi di noti costituzionalisti, di un ex ministro, dell’ex garante della Privacy e di cinque dei “saggi” incaricati di supportare il governo nella definizione delle riforme costituzionali. Il loro coinvolgimento emergerebbe dal contenuto di alcune intercettazioni telefoniche. Nel dettaglio, risulterebbero coinvolti l’ex ministro Anna Maria Bernini, l’ex Garante della Privacy Francesco Maria Pizzetti, e i “saggi” Augusto Barbera, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar e Lorenza Violini. Sono 38, complessivamente, i docenti universitari di cui parla l’informativa della Gdf con riferimento a decine di concorsi per docenti di prima e seconda fascia in diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. Nel fascicolo, aperto nel 2008 e vicino alla chiusura - l’ultima proroga delle indagini risale al 21 dicembre 2012 - la Procura di Bari ipotizza, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, falso e truffa. Nell’ambito di questa indagine, nel marzo 2011 sono state eseguite perquisizioni in 11 città (Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo), a carico di 22 docenti. Gli accertamenti della Gdf si sono, però, avvalsi soprattutto di intercettazioni telefoniche. Da alcune di questa sarebbe emersa persino l’intenzione, da parte di alcuni indagati, di esercitare pressioni sull’allora ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini, per ostacolare la riforma dell’Università, poi approvata in via definitiva nel dicembre 2010. Dell’opportunità di “convincer” il Governo a rivedere quella riforma, i docenti avrebbero parlato tra di loro al telefono, ignari che ad ascoltarli ci fossero i militari della Guardia di Finanza. La riforma universitaria cui si fa riferimento è quella che riguardava, tra le altre cose, l’adozione di un codice per evitare incompatibilità e conflitti di interesse legate a parentele. La riforma modificava, inoltre, le procedure di valutazione degli aspiranti professori universitari di prima e seconda fascia e dei ricercatori attraverso l’introduzione di criteri di sorteggio per i membri delle commissioni esaminatrici, con lo scopo -dichiarato - di impedire la rideterminazione dell’esito dei concorsi. Gli accordi tra i “baroni” sarebbero avvenuti, stando sempre alle intercettazioni telefoniche, anche durante congressi nazionali in cui i referenti di ciascun ateneo potevano incontrarsi e dare indicazioni su svolgimento ed esito delle prove. Non un’unica cabina di regia, dunque, ma una rete di favori incrociati.

Scambio di favori tra docenti. Cattedre e concorsi truccati, scrive il 31 marzo 2011 Il Secolo XIX. Favori, sodalizi e «patti di fedeltà», in cambio di cattedre ottenute truccando i concorsi. Così funziona la lobby affaristica di docenti universitari sulla quale la Procura di Bari ha aperto un’inchiesta. Nel mirino dei magistrati - che ieri hanno emesso i primi avvisi di garanzia - non ci sono però solo professori pugliesi.

Le perquisizioni dei finanzieri, incaricati dalla Procura, hanno riguardato docenti delle più prestigiose università d’Italia. Tra questi Giuseppe Ferrari, ordinario di Diritto pubblico e comparato dell’Università Bocconi, e Giuseppe Casuscelli e Enrico Vitali, entrambi docenti di Diritto canonico ed ecclesiastico all’Università Statale di Milano. Mentre risultano indagati, quattro docenti che insegnano a Milano, tre a Napoli, due a Roma, due a Piacenza e due a Reggio Calabria; uno a Bologna, a Firenze, Macerata, Teramo e Messina. Tutti i professionisti finiti sotto inchiesta - secondo quanto ipotizzato dai pm Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli - avrebbero manipolato «l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite» attraverso «accordi, scambi di favore, sodalizi e patti di fedeltà». I docenti baresi (componenti delle commissioni giudicatrici), destinatari dell’avviso di garanzia, sono invece Aldo Loiodice, docente di diritto costituzionale alla facoltà di giurisprudenza; Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Roberta Santoro della facoltà di Scienze politiche e Maria Luisa Lo Giacco, ricercatrice di diritto ecclesiastico. Ventidue gli avvisi di garanzia notificati nella ieri e decine di perquisizioni in uffici e abitazioni private sono state eseguite dalla guardia di Finanza nella facoltà barese di Giurisprudenza e poi ancora negli Atenei di mezza Italia. Pesanti le contestazioni dei magistrati: associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, falso ideologico e abuso d’ufficio. I fatti riguarderebbero la presunta manipolazione di concorsi pubblici dal 2006 ad oggi per docenti di prima e seconda fascia. Le indagini sono partite nel 2008 in seguito alla denuncia di una ricercatrice che non superò il concorso. Da qui si sono addensati sospetti sulle prove di diritto ecclesiastico e diritto costituzionale. L’indagine è solo alla battute iniziali. Si tratta della tranche di una più ampia inchiesta che coinvolge altri Atenei. Lo scandalo dei concorsi truccati e della compravendita di esami a Bari fece clamore due anni fa con il caso battezzato Esamopoli scoppiato nella facoltà di Economia e commercio. Il 12 gennaio di quest’anno è cominciato il processo: 32 imputati. Tra loro ci sono docenti, dipendenti, studenti e genitori. Le indagini avrebbero accertato l’esistenza di un’organizzazione gestita soprattutto dai bidelli, che ritiravano le bustarelle dagli studenti e facevano da tramite con i professori. Un giro d’affari da 50mila euro in 8 mesi, con un costo tra i 700 e i 3.000 euro per ogni esame superato. Clienti tipo erano studenti fuori corso o stranieri, soprattutto greci, che per concludere in breve gli esami avrebbero preferito comprarli.

Le indagini sono state fatte dalla Guardia di Finanza…

Allievo maresciallo GdF: «Trucco il concorso se mi dai 40 mila euro». Intercettazioni: qui si entra solo così. Cinque persone arrestate: due sottufficiali della Guardia di Finanza, due imprenditori e un dipendente della scuola nazionale dell’amministrazione di Caserta, scrive Titti Beneduce il 24 marzo 2015 su "Il Corriere della Sera". Promettevano il superamento del concorso in cambio di denaro. Con quest’accusa sono stati arrestati un sotto ufficiale ed un ex sotto ufficiale della Guardia di Finanza. Per altre due vicende illecite sono finiti in manette anche due imprenditori e un dipendente della scuola nazionale dell’amministrazione di Caserta. Tre, dunque, gli illeciti accertati. Il più grave è relativo al concorso per allievi marescialli della Guardia di Finanza dello scorso anno. I due sottufficiali arrestati, Bruno Corosu e Ciro Del Giudice, ex militare della Gdf, ex assessore al Comune di Pozzuoli, oggi ristoratore, avrebbero ricevuto 40.000 euro dal padre di un candidato in cambio del superamento del concorso. La Procura aveva ipotizzato la corruzione, ma secondo il gip si tratta di millantato credito. Le indagini sono state svolte dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza con il coordinamento del procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli e dal sostituto Henry John Woodcock. L’inchiesta è partita da un servizio televisivo delle Iene: nel ristorante che Del Giudice gestisce a Pozzuoli, un giornalista si finse aspirante finanziere e chiese aiuto al ristoratore il quale accettò di intervenire in cambio di denaro.

Riforma Gelmini, inefficace contro i concorsi accademici truccati, ma almeno utile contro parentopoli? Macchè!! Da “Il Messaggero” e dal “Il Corriere della Sera” un ampio resoconto.

Per qualcuno potrebbe essere l’ultimo colpo di coda di parentopoli. Per altri la continuazione di una saga inarrestabile che si tramanda di padre in figlio passando per i nipoti (rare volte spingendosi fino ai trisavoli). E’ successo, dunque a poche ore dalla verosimile approvazione da parte del Senato della legge Gelmini che prevede la proibizione di chiamate universitarie per parenti di dirigenti accademici fino al IV grado.

Università Roma 2, Ateneo di Tor Vergata, quello della spianata, che ospitò la Giornata mondiale della gioventù nel Giubileo 2000. La grande croce è sempre lì. Il rettore no, è cambiato. Da quasi due anni c’è Renato Lauro, 71 anni, preside della Facoltà di Medicina eletto con 727 preferenze. La stessa università che ha chiamato come professore associato alla cattedra di Malattie dell’apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani. Chi è? E’ la nuora del rettore. Il posto che arriva in zona Cesarini delimita un’epoca. A ridosso del Natale, sotto l’albero, riunisce suocera, figlia e nuora, in pratica mezza famiglia. Nella stessa facoltà e nello stesso dipartimento infatti c’è anche il marito della signora, nonché figlio del rettore, Davide Lauro, 41 anni, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre. E ci sarebbe anche il “nipote”, il dottor Alfonso Bellia, ricercatore di medicina interna. Ma il Magnifico nega quest’ultimo ramo di parentela. «Con il professor Bellia - chiarisce una volta per tutte - non c’è nessun legame neanche leggero di parentela, mi viene attribuito solo perché è siciliano come me». Già. In fatto di parentopoli non esiste una geografia. I legami travalicano qualsiasi confine, le nostre regioni, così diverse tra loro, nel malcostume etico si somigliano più o meno tutte. Renato Lauro, preside della facoltà di Medicina dal 1996 al 2008, oltre a essere rettore e anche direttore del dipartimento clinico di Medicina, quello nel quale lavorano i suoi congiunti, del Policlinico Tor Vergata. La nuora chiamata in cattedra in extremis. Come lo spiega? «Lei scherza? Sono concorsi regolarmente banditi nel 2008, quando io non ero ancora rettore. Inoltre, faccio notare che la legge Gelmini, non ancora approvata, non abolisce i professori, stabilisce solo che i ricercatori sono una qualifica ad esaurimento». «Per gli stessi bandi - continua il rettore - sono stati chiamati già una ventina di vincitori di concorso. Ma vincere non vuol dire prendere servizio visto che ci sono, come è noto, problemi di budget».

In altri punti la legge Gelmini potrebbe prestarsi ad interpretazioni.

Su questo punto è chiara: prevede che nelle assunzioni per ordinario e associato siano esclusi i consanguinei dei professori appartenenti al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata. Di docenti ma anche di rettori, direttori generali e consiglieri di amministrazione. E fissa anche un limite per i rettori: potranno rimanere in carica un solo mandato, per un massimo di 6 anni. Nel caso di Tor Vergata, se approvata la legge, Renato Lauro potrebbe avere una proroga di 2 anni dell’incarico rettoriale e restare in carica dunque fino alla quasi venerabile età di 74 anni. Di lui si parlò come «lo zio» cui faceva riferimento nelle intercettazioni l’ex direttore dei Lavori pubblici Angelo Balducci finito in carcere per gli appalti del G8 alla Maddalena. Finito in pasto ai taccuini in quei giorni “caldi”, Lauro rispose: «E allora? Sì, sono io “lo zio” di cui si parla nelle intercettazioni, ma io sono un medico, non sono Provenzano». Durante un incontro con il corpo accademico dell’Ateneo romano, il rettore era stato duramente contestato. E già in passato era finito nell’elenco dei parentopolati per la chiamata del figlio Davide, vincitore, circa 4 anni fa, di un concorso di professore ordinario, non di Medicina interna, ma di tecnologie biomediche, poi passato in endocrinologia. Lauro commenta: «Mio figlio se n’era andato negli Usa a studiare e lì stava benissimo. Basta guardare il suo curriculum per mettere tutti a tacere. Stesso dicasi per gli altri professori associati che hanno vinto i concorsi del 2008: controllate, sono tutti figli di nessuno».

Vigilia dell'approvazione della riforma Gelmini, ultimi colpi di coda dei Baroni. Infatti ecco che spuntano nuove assunzioni e promozioni di parenti negli atenei La Sapienza e Tor Vergata. I protagonisti: i familiari dei rettori: Luigi Frati e Renato Lauro. A poche ore dall'approvazione del ddl università, che impone lo stop alle parentopoli (purtroppo solo attraverso un emendamento dell'ultim'ora) che vieta a padri, figli e parenti di stare negli stessi dipartimenti, sembrerebbe che nei due atenei capitolini si pensi di più a sistemare le famiglie che ai problemi dell'università.

SAPIENZA - Alla Sapienza, Giacomo, 36 anni appena, figlio del rettore Luigi Frati, sta passando da professore associato a quello di ordinario. Le procedure formali sono andate in porto il 19 novembre 2010. Appena in tempo per schivare l'approvazione del ddl. Giacomo Frati, dunque, sarà ordinario a Medicina, la stessa facoltà dove fino a poco tempo fa insegnava la madre e dove insegna anche la sorella Paola, ordinario, laureata in Giurisprudenza. Stessa facoltà di cui il padre è stato preside per anni. Stessa facoltà dove fino a poco tempo fa, prima di andare in pensione, insegnava Storia della medicina la madre di Giacomo e Paola. Cioè Luciana Rita Angeletti, professoressa ordinaria moglie del Magnifico Frati. Proprio lei che prima di approdare nell'università del marito per occuparsi di Storia della medicina, insegnava Lettere al liceo. Quindi ci fu un momento in cui Luigi, Rita, Giacomo e Paola lavoravano allo stesso indirizzo. Anzi festeggiavano il matrimonio di quest'ultima nell'aula Grande di Patologia Generale. Oggi tutta la famiglia Frati può fregiarsi dello straordinario titolo di ordinario.

TOR VERGATA - A Tor Vergata sarebbe stata assunta come professore associato alla cattedra di malattie dell'apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani, nuora del rettore Renato Lauro, 71 anni, ex preside di Medicina e Chirurgia (stesso percorso di Frati), che respinge le accuse spiegando che i concorsi sono stati banditi «nel 2008», molto prima delle norme anti-parentopoli della Gelmini. Il rettore ha anche il figlio Davide, 41 anni, ordinario di Endocrinologia. Come il padre prima di lui.

I PRECEDENTI - Prima di Lauro era stato Magnifico per 12 lunghi anni Alessandro Finazzi Agrò che si ritrovava nella solita facoltà di Medicina e Chirurgia del suo ateneo non solo il figlio Enrico (professore associato) ma anche i nipoti di primo grado Calogero Foti e Gaetano Gigante (entrambi professori di Medicina riabilitativa con tanto di cattedra e primariato al Policlinico Tor Vergata). Mentre l’altro figlio, Ettore, è ordinario alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, tanto per dare il quadretto familiare al completo. Il binomio padri-figli non è però un'innovazione introdotta dagli ultimi rettori. Alla Sapienza Frati ha illustri predecessori: Renato Guarini prima (con le figlie Maria Rosaria e Paola Paola, e il genero Luigi Stedile nei ruoli tecnici) e prima ancora Giuseppe D’Ascenzo (con il figlio Fabrizio) tenevano famiglia in università. Insomma una tradizione che si tramanda da generazioni rettoriali.

Su "Repubblica", su "L'Espresso", su "Panorama" e su altri organi di stampa non si fa che approfondire il fenomeno del nepotismo accademico. Di seguito il riporto delle varie inchieste. Il 13 Settembre 2010 a Palermo, un ragazzo, un cervello italiano, è volato dall'ultimo piano della facoltà di Filosofia. Si è suicidato. Aveva 27 anni, si chiamava Norman Zarcone, era un dottorando in Filosofia del linguaggio e, racconta il padre, da qualche tempo era particolarmente deluso, depresso: gli avevano fatto capire, senza mezzi termini, che per lui non c'era spazio nell'università italiana. Qualche mese prima un altro ragazzo, cinque anni più giovane, Gianmarco Daniele, aveva presentato a Bari, capitale del nepotismo accademico italiano, una tesi di laurea: "L'università pubblica italiana: qualità e omonimia tra i docenti", una ricerca nata per raccontare come le università italiane siano in mano a un gruppo di famiglie. E per documentare come esista un nesso scientifico tra nepotismo e il basso livello della didattica e della ricerca. Daniele ora è all'estero, con una borsa di studio europea. Ma davvero nell'università italiana non c'è spazio per questi talenti, solo per i parenti? Quali sono le grandi dinastie di casa nostra? E a due anni dalla "svolta anti-baroni" annunciata dal ministro Maria Stella Gelmini - che ora torna a invocarla per giustificare nuovi tagli - i baronati stanno davvero segnando il passo? O sono ancora loro a comandare?

LA TOP TEN

A Bari, nella facoltà di Economia, la stessa dove si è laureato Daniele, è cambiato poco. L'economista Roberto Perotti, italiano formatosi al Mit di Boston, in un saggio del 2008 "L'università truccata" (Einaudi) aveva indicato quello come il caso limite, "tanto incredibile da raccontare in tutto il mondo". A Economia 42 docenti su 176 hanno tra loro legami di parentele, il 25 per cento, record assoluto in Italia. I leader indiscussi a Bari e in Italia nella classifica delle famiglie restano così i Massari. Commercialisti affermati, con un passato nel Partito socialista di Craxi, in cattedra hanno almeno otto esponenti, tutti economisti. Uno di loro doveva essere anche in commissione durante la laurea di Daniele, peccato che quel giorno avesse un impegno. "Abbiamo vinto tutti concorsi regolarissimi", rispondono loro, quando vengono tirati in ballo. I capostipiti della dinastia sono i tre fratelli, Lanfranco, Gilberto e Giansiro, che hanno in mano il dipartimento di Studi aziendali e giusprivatistici e, seppur nell'ombra, l'intera facoltà. Le nuove leve sono invece Antonella (ordinaria a Lecce), Stefania, Fabrizio (tutti e tre figli di Lanfranco), Francesco Saverio e Manuela. A fare concorrenza ai Massari, in facoltà, c'è la famiglia Dell'Atti (6) e quella dell'ex rettore Girone, con cinque parenti in cattedra: ci sono Giovanni e la moglie Giulia Sallustio, ormai in pensione, il figlio Gianluca, la figlia Raffaella e il genero Francesco Campobasso. A Foggia conta ancora molto la dinastia dell'ex rettore, Antonio Muscio, secondo con 7 parenti nella top ten nazionale con la new entry Alessandro, assunto nell'ultimo giorno di rettorato del papà e nella sua stessa facoltà, Agraria. Nell'ateneo lavoravano anche mamma Aurelia Eroli (dirigente amministrativa, ora in pensione), la figlia Rossana, la nipote Eliana Eroli, il genero Ivan Cincione e la sorella Pamela. A Roma le grandi casate sono due: i Dolci e i Frati. Un figlio di Giovanni Dolci, uomo chiave dell'odontoiatria italiana, è Alessandro, ricercatore a Tor Vergata. La moglie, Alessandra Marino, è ricercatrice alla Sapienza. Dove lavora anche il genero di Dolci, Davide Sarzi Amedè, marito di Chiara, a sua volta odontoiatra al Bambin Gesù. Un altro figlio di Dolci, Federico, lavora a Tor Vergata, mentre Marco è ordinario a Chieti. Accanto a papà Frati invece c'è sua moglie Luciana Angeletti e sua figlia Paola (insegnano a medicina, ma non sono medici) e il figliolo Giacomo. Sempre molto forti le famiglie a Palermo, come aveva avuto modo di accorgersi Norman Zarcone. Il record è dei Gianguzza, cinque tra Scienze e Medicina. Ma le dinastie palermitane sono cento, sparse in tutte le facoltà, per un totale di 230 docenti "imparentati". Economia è il regno dei Fazio (Vincenzo, Gioacchino, Giorgio), a Giurisprudenza ci sono i Galasso (Alfredo, il figlio Gianfranco, la nuora Giuseppina Palmieri), a Lettere i Carapezza (i fratelli Attilio e Marco, ora associato, il cugino Paolo Emilio, suo figlio Francesco), a Ingegneria (18 famiglie, 38 parenti) i Sorbello o gli Inzerillo, a Matematica i Vetro (Pasquale, la moglie Cristina, il figlio Calogero), Agraria è nelle mani di 11 nuclei familiari. Coincidenze statistiche? Davvero è così nel resto d'Italia e in tutta Europa?

LA RICERCA

Secondo i dati raccolti nella tesi di Daniele, no. Lo studente ha infatti sviluppato un indice medio che misura la percentuale di omonimia in ogni facoltà di ogni ateneo e la percentuale media di omonimia in campioni della popolazione italiana in numero uguale ai docenti presenti nella facoltà osservata. Il risultato è incontrovertibile: in quasi tutti gli atenei l'indice di omonimia è più elevato rispetto alla media nazionale. Dieci volte di più a Catania, poco meno a Messina. Molto superiori alla media sono anche la Federico II di Napoli, Palermo, Bari, Caserta, Sassari e Cagliari. Le più virtuose sono invece Trento, Padova, il Politecnico di Torino, Verona, Milano Bicocca. Certo: non sempre avere lo stesso cognome significa essere parenti. Ma considerando anche che spesso molti familiari di professori hanno cognomi diversi, il dato è un'attendibile quantificazione statistica, per approssimazione, della diffusione del nepotismo. Anche perché gli atenei segnati con la penna rossa da Daniele sono proprio quelli al centro delle inchieste giornalistiche e della magistratura. "Il dato italiano - spiega Daniele - è in controtendenza con il resto d'Europa: quasi ovunque il tasso di omonimia nelle università è minore della media nazionale. Gli atenei tendono ad attrarre docenti da fuori, con cognomi diversi da quelli locali". Lo studio confronta poi i dati sulle omonimie con le valutazioni del Censis sulla qualità delle università. E in media gli atenei con più omonimi sono quelli che producono meno e viceversa. Ma davanti a questi numeri, la politica e il mondo accademico come si comportano? Sono nemici o complici delle grandi famiglie che hanno in mano l'università italiana?

LA RESISTENZA

"Ci prendono in giro", ha tuonato il presidente della conferenza dei Rettori, Enrico Decleva, la cui moglie Fernanda Caizzi è stata condannata in appello, e poi prescritta, per aver pilotato un concorso a Siena nel 2001. "Il qualunquismo sulle parentopoli è una giustificazione per uccidere l'università pubblica". La legge Gelmini approvata al Senato a luglio prevede un codice etico obbligatorio per tutti. Ma a Bari (il primo ateneo ad approvarlo, quattro anni fa) gli escamotage fanno scuola. Virginia Milone è stata assunta quando il padre si è impegnato a trasferirsi nella sede decentrata di Taranto. "Capirai: la nostra facoltà è diventata la valvola di sfogo dei parenti", dice il rappresentante degli studenti Francesco D'Eri.

La docente Maria Luisa Fiorella, otorino come il padre, era stata respinta dalla facoltà (a scrutinio segreto). Ora, con un colpo di coda, i baroni vogliono tornare a votare: con l'alzata di mano. Il codice è servito solo a Farmacia: Giulia Camerino ha rinunciato al concorso da ricercatrice bandito nel dipartimento della madre. "Ho studiato tutta una vita, non volevo vivere con un bollino che non meritavo". "Se parliamo di baronati è tutto come prima - dice Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc della Cgil - E se le università non bandiscono concorsi, a pagare sono solo i ricercatori figli di nessuno". Il ministro Gelmini promette di trasformarne, con il nuovo piano di programmazione, diecimila in associato. Vuol cambiare la progressione di carriera con un contratto triennale, una successiva valutazione, e quindi un ulteriore contratto triennale per diventare associato. Ma per ora quelli che salgono di grado hanno sempre cognomi pesanti: a Cagliari è appena stato promosso ordinario Francesco Seatzu, figlio d'arte sardo. A valutarlo, in commissione, c'era Isabella Castangia, con la quale Seatzu ha lavorato gomito a gomito negli ultimi anni. "Tutto è come prima, più di prima", attacca Tommaso Gastaldi, professore di Statistica alla Sapienza, instancabile fustigatore del malcostume universitario.

L'ultimo esempio, racconta, è la nomina di due docenti: lui aveva previsto i loro nomi già nel 2008. I soliti noti, nonostante i proclami del Governo, continuano a comandare. E non vogliono lasciare il campo ai giovani. Che si ribellano: l'Air, l'associazione italiana dei ricercatori, ha indetto una petizione per bloccare "l'eccessiva "discrezionalità" nei criteri di valutazione dei concorsi universitari".

GLI OVER 70

Molti docenti con più di 70 anni ricorrono ai tribunali amministrativi per posticipare il loro pensionamento, accelerato da una norma voluta dall'ex ministro Fabio Mussi. Vuole rimanere in servizio Emilio Trabucchi, ordinario di Chirurgia e presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Nipote dell'omonimo luminare della Biomedicina e deputato Dc morto nel 1984, Trabucchi ha due nipoti nell'università, Emilio Clementi, straordinario nel dipartimento di Scienze precliniche "Lita Vialba", e Francesco Clementi, ordinario di Farmacologia. "Abbiamo specializzazioni diverse. E in tutti i casi parlano le pubblicazioni", precisa Trabucchi. Ha scelto di ritirarsi, invece, Vittorio La Grutta, nobiltà accademica palermitana: medico il nonno, professore il padre, rettore il fratello (dell'ultima leva è rimasta la figlia, Sabina, psicologa). "Quando siamo saliti in cattedra, eravamo orfani. Ma ce l'abbiamo fatta lo stesso, senza favori". Diverso il destino dei Cannizzaro, altra famiglia storica siciliana. "Stanislao, il grande chimico, era un mio avo - racconta Gaspare, che ora è in pensione ma ha due figli docenti - ma io non sono figlio d'arte. In famiglia c'è sempre stato interesse per la scienza: è una tradizione". A Sassari resistono al pensionamento Mariotto Segni (il cui padre, Giovanni, oltre che presidente della Repubblica è stato rettore) e Giulio Cesare Canalis, il papà della showgirl Elisabetta, direttore della Clinica radiologica. Ma soprattutto l'ex rettore Alessandro Maida, tuttora potentissimo - spinge per bandire 52 concorsi - e ancora per un po' collega dei figli Carmelo e Ivana, piazzati nella sua facoltà, Medicina, del cognato, Giorgio Spanu, della moglie Maria Alessandra Sotgiu, e di altri nipoti e cugini. A Udine, dopo la fusione tra ospedale e università, sono stati nominati i nuovi direttori di dipartimenti. Nessuna sorpresa: i manager, ben pagati, sono tutti baroni di lungo corso come l'ultrasettantenne Fabrizio Bresadola, che ha piazzato il figlio Vittorio, la nuora Maria Grazia Marcellino e un altro figlio, Marco.

Laureato in Filosofia ma non per questo escluso: insegna storia della Medicina.

Quattro pronostici azzeccati sui primi cinque concorsi per ricercatore universitario presi in esame da Andrea, il curatore del sito pronosticailricercatore.blogspot.com. Giovane studioso di matematica espatriato per carenza di cattedre (o forse di sponsor adeguati), Andrea ha lanciato il totoconcorsi delle selezioni accademiche svolte con il nuovo sistema. Naturalmente può trattarsi di una coincidenza, o forse i vincitori sono davvero i candidati più qualificati, pertanto non era difficile indovinarne i nomi. Sta di fatto che, esattamente come accadeva con il vecchio sistema, le selezioni accademiche non riservano sorprese.

Per sgombrare il campo da sospetti di combine e favoritismi, la riforma Gelmini del reclutamento universitario (la legge è la numero 1 del 2009) aveva introdotto il principio di casualità nella composizione delle commissioni universitarie. Ovvero, i quattro commissari esterni (due per i ricercatori) non vengono scelti più tramite elezione, ma con un sorteggio tra i primi dodici più votati (i primi sei tra i ricercatori).

Eppure anche in questo caso bisogna registrare un'anomalia. Dal Corriere della Sera si viene a sapere che nelle 1786 commissioni formate per sorteggio per i concorsi da ordinario e associato, si sono dimessi 342 commissari. In sostanza, uno ogni cinque commissari, ed è stato perciò necessario procedere alla sostituzione. In passato le rinunce erano nell'ordine delle decine. Come mai si è arrivati a un tasso di morbilità che sfiora il 20%?

Naturalmente perché prima le nomine venivano «concordate», e in qualche caso pilotate. Oggi, invece, è possibile ritrovarsi commissario anche contro la propria volontà. Ma c'è anche chi avanza un altro sospetto: «Una scuola forte, in cui ci sono gruppi di potere consolidati – spiega Giovanni Grasso, docente e animatore del blog Il Senso della misura - può anche condizionare le dimissioni, magari per favorire commissari più malleabili.

Sono tanti con lo stesso nome. Troppi. E anche quando non si chiamano nello stesso modo, spesso sono parenti. Mogli, nipoti, cugini, cognati. Sono loro i padroni dell´Università.

Solo Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Palermo è davanti a Catania e a Messina, a La Sapienza di Roma, a Torino, a Milano e a Bari. E il luogo di provenienza dei docenti, come spiega il professore della Bocconi Roberto Perotti nel suo libro «L´università truccata» (Einaudi), è il principale metodo «per quantificare più sistematicamente, anche se indirettamente, il ruolo del nepotismo e delle connessioni nell´università italiana».

L´altro metodo consiste nello studiare la frequenza dell´omonimia.

Se in vita vostra avete solo collaborato a un lavoro «scientifico» di una pagina (una!) scritto con altre cinque persone e presentato a un convegno, ma mai pubblicato su una rivista internazionale, non disperate: potete sempre vincere un concorso universitario - dice Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera" - basta esser nati sotto la giusta congiunzione astrale. Come successe al «professor» Giovanni Lanteri. Che vinse appunto un posto da «associato» all'Università di Messina presentando 2 pubblicazioni. La prima («Studio preliminare sull'espressione immunoistochimica dell'Eritropoietina...») fu subito scartata dagli stessi commissari: «Non venga presa in considerazione ai fini della presente valutazione». La seconda («A new outbreak of photobacteriosis in Sicily») è finita nel fascicolo dell'inchiesta giudiziaria col giudizio del Ministero dell'Università consultato dai magistrati: «Priva di rigore metodologico. Non è possibile individuare il singolo apporto di ciascuno dei sei autori».

L'episodio, sconcertante, è uno dei tantissimi raccolti da Nino Luca, un giornalista del «Corriere.it», in un libro edito da Marsilio: «Parentopoli». Quando l'università è affare di famiglia. Un reportage durissimo e spassoso su uno degli aspetti più controversi dell'università, quello dei concorsi sospetti. Che troppo spesso finiscono col consegnare la cattedra a mogli, figli, cognati, amici e amici degli amici. Immaginiamo già l'obiezione: non ci son solo i baroni e le clientele e le apocalittiche classifiche internazionali! Giusto. È vero che la situazione «cambia drasticamente se si concentra l'analisi sulle singole aree disciplinari» (come ricorda Domenico Marinucci, direttore del Dipartimento di Matematica di Tor Vergata, 19° in Europa tra le eccellenze del settore e meno afflitto dalla cronica povertà di docenti stranieri), vero che nelle «hit parade» avulse la «Normale» è stabilmente nelle prime venti al mondo, vero che tanti ragazzi usciti dai nostri atenei vanno alla conquista del mondo.

Il reportage di Nino Luca, però, proprio per l'abbondanza di episodi così incredibili da risultare irresistibilmente comici, mette spavento. A partire dalla disinvolta e allegra spudoratezza con cui tanti rettori irridono alle perplessità di chi non riesce a capacitarsi di come, ad esempio, possano essere circondati da tanti parenti. Come Gennaro Ferrara, da 22 anni alla guida della Parthenope di Napoli: «Ma lei vuole fare un articolo serio o un articolo scherzoso? No, perché se lei vuole fare un articolo scherzoso, io ci sto». Come mai ha portato con sé all'università la seconda moglie, il di lei fratello, la figlia e i mariti delle due figlie? La risposta: «Se trattiamo “parentopoli” in termini scandalistici non va bene». Poveri figli, poi...«Devono dimostrare ogni giorno di valere...». Alcuni casi raccontati sono noti, come quello d'una torinese bocciata a un concorso che mesi fa si sfogò con «La Stampa» d'esser stata trombata, scusate il bisticcio, perché non aveva «più voluto compiacere sessualmente» il direttore della scuola di specializzazione. O quello della famiglia Massari che «porta l'Università di Bari nel Guinness dei primati» grazie al piazzamento nei dintorni della facoltà di economia di otto-Massari-otto: Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio, Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela e Stefania. O quello del preside di Medicina e rettore della «Sapienza» Luigi Frati («Parentopoli? Voi giornalisti sapete fare solo folclore!», ha urlato a Luca), un uomo tutto casa e ufficio dato che nella sua facoltà lavorano la moglie Luciana Angeletti, il figlio Giacomo e la figlia Paola, che nell'aula magna di Patologia ha fatto la festa di nozze. Altri casi sono meno conosciuti. Come quello di un recentissimo concorso per due posti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia della Bicocca di Milano con cinque soli concorrenti tra i quali tre figli (due vittoriosi, ovvio) di docenti della stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia. O quello della condanna a un anno di reclusione per abuso d'ufficio (pena sospesa) e a uno d'interdizione dai pubblici uffici (per aver danneggiato la professoressa Antonina Alberti durante un concorso) di Fernanda Caizzi Decleva, moglie del presidente in carica della Crui, la conferenza dei rettori.

La cosa più interessante del reportage, però, al di là della sottolineatura di certe bizzarrie (come quella che riguarda l'ex rettore di Bologna Fabio Roversi Monaco, che ha incassato 11 lauree honoris causa da vari atenei mondiali distribuendone in parallelo 160 a gente varia, da Madre Teresa di Calcutta a Valentino Rossi), sono le chiacchierate tra l'autore e alcuni dei protagonisti del mondo accademico italiano. Come quella con Augusto Preti, che diventò rettore a Brescia nel lontanissimo 1983, quando erano ancora vivi Garrincha e David Niven, e scherza: «Io sono il potere assoluto». O Pasquale Mistretta, il rettore di Cagliari, secondo il quale «molti figli illustri, proprio a causa dei complessi d'inferiorità verso i padri, a volte si sono smarriti: alcuni sono finiti anche nel tunnel della droga», quindi forse «quando un padre va in pensione, come un tempo succedeva in banca o all'Enel, è logico che ci sia un occhio di riguardo» per i figli. Il meglio, però, lo dà il professore Giuseppe Nicotina spiegando come il suo Ludovico avesse vinto in solitaria un concorso per ricercatore: «I figli dei docenti sono più bravi perché hanno tutta una "forma mentis" che si crea nell'ambito familiare tipico di noi professori». Insomma: è una questione quasi genetica. Se poi una spintarella aiuta la forma mentis...

CONCORSI TRUCCATI: DIMOSTRAZIONE MATEMATICA

Del prof. Quirino Paris, University of California,

Introduzione

Nella relazione intitolata “L’Università vive il Paese” (20 settembre 2005), il professor Piero Tosi, rettore dell’Università di Siena e presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) ha scritto che i concorsi-truffa sono solo degli episodi nella vita dell’università italiana (pagine 10-11). Il professor Tosi ha ripetuto questa sua affermazione in una trasmissione radiofonica sui concorsi truccati il giorno 21 settembre 2005 durante la quale il sottoscritto ha sostenuto la tesi opposta, vale a dire che i concorsi truccati costituiscono un fenomeno generale del reclutamento universitario italiano. Se così non fosse, non si capirebbe la necessità di riformare ancora una volta la procedura del reclutamento universitario. A dimostrazione della mia tesi, presento in questo articolo un’analisi matematico-statistica di tutte le votazioni nei concorsi di prima fascia del settore AGR/01 (economia ed estimo rurale) tenutisi tra il 1999 e il 2003. Le votazioni per professore associato e per ricercatore mostrano un andamento identico. L’analisi matematico-statistica può essere estesa facilmente a tutti gli altri settori disciplinari, dato che in quasi tutte le votazioni per le commissioni di concorso si sono ottenuti risultati simili a quelli evidenziati nel settore AGR/01.

Concorsi di Prima Fascia in Economia Agraria

Le votazioni per i membri delle commissioni di valutazione comparativa di prima fascia del settore disciplinare AGR/01, condotte nel periodo 1999-2003, mostrano risultati strabilianti. Negli ultimi anni, i professori di prima fascia votanti in queste elezioni sono stati all’incirca un centinaio. In tutte le 27 votazioni (nel 2004 e 2005 altre votazioni mostrano lo stesso andamento), solo i quattro membri eletti hanno ricevuto un consistente numero di voti, e questi voti sono divisi tra i quattro componenti eletti secondo una distribuzione quasi uniforme. Questi risultati, ripetuti per commissione dopo commissione, suggeriscono l’ipotesi che le votazioni siano state rigidamente pilotate: non solo che esista la comunicazione a tutti i cento professori da parte del “pilota” dei quattro nomi da votare; ma anche che i cento professori ordinari (di prima fascia), pur non comunicando tra di loro, abbiano votato disciplinatamente le indicazioni del “pilota” distribuendo i loro voti in modo quasi uguale tra i quattro candidati.

Come argomenteremo dettagliatamente nel corso dell’articolo, i risultati di questo tipo di votazioni attestano la presenza di un disegno da parte di “un’unica fonte” e di un sistema di ferrea disciplina per convincere/costringere i cento professori ordinari a votare secondo le indicazioni fornite dalla “fonte unica” che ha anche determinato quanti e quali voti vadano a ciascun candidato. Dato che ciascun votante ha a sua disposizione un solo voto, i risultati si possono ottenere solo se la “fonte unica” fornisce a ciascun elettore il nome da votare e se costui esegue l’ordine disciplinatamente.

Il motivo ultimo (o primo) del pilotaggio di tutte le votazioni per le commissioni di concorso corrisponde all’obiettivo della “fonte unica” di far dichiarare idonei individui selezionati e predeterminati vincitori (inclusi figli, figlie, mogli, nipoti, fedelissimi, ecc.) prima ancora che tali concorsi siano stati banditi. Tutto questo è avvenuto e tutt’ora avviene in Italia e potrebbe costituire una violazione dell’articolo 97 della Costituzione italiana e dell’articolo 323 del Codice Penale.

La dimostrazione matematico-statistica dell’esistenza di un ferreo disegno di pilotaggio sarà fatta secondo tre distinte argomentazioni:

1. La presentazione dei risultati delle 27 votazioni in forma di istogrammi. Questa discussione fornisce una prima indicazione di tipo informale (ad occhio) della natura improbabile dei 27 eventi (votazioni).

2. La seconda argomentazione si fonda sull’indice di Gini (famoso statistico italiano che ha lavorato nei primi decenni del secolo scorso). L’indice di Gini misura il grado di concentrazione (dispersione) caratteristico di una distribuzione empirica, come è appunto la distribuzione dei voti in una elezione.

3. La terza argomentazione è la più formale dal punto di vista matematico-statistico.

Calcoleremo, infatti, la probabilità che, date le indicazioni di votare per quattro candidati (come si fa nelle liste elettorali di un partito), gli N votanti (che non comunicano tra di loro per ovvie difficoltà di collegamento) distribuiscano i loro voti in modo tale che i quattro eletti ricevano all’incirca lo stesso numero di voti.

Conclusione

L’evidenza matematico-statistica presentata in questo studio per tutti i 27 concorsi di prima fascia del settore AGR/01 (economia ed estimo rurale) tenutisi nell’arco di tempo 1999-2003 conferma l’ipotesi di un disegno preciso e di un ferreo pilotaggio delle votazioni al fine di dichiarare idonei dei già predeterminati candidati. Tra queste votazioni ci sono anche quelle che interessano i parenti e i fedelissimi dei numerosi membri di commissione che compaiono come commissari un numero di volte sproporzionato rispetto a quello di molti altri professori eleggibili.

Il dato matematico-statistico dimostrerebbe come il pilotaggio sia stato preordinato in modo evidente ai fini dell’abuso e per avvantaggiare nel percorso accademico persone di famiglia ed associati privilegiati e prestabiliti al fine di ottenere ingiusti vantaggi.

Per questo motivo, il dato matematico-statistico e le formule/istogrammi che precedono servono a corroborare l’elemento soggettivo del dolo e dunque l’intenzionalità di chi ha manovrato tutto il sistema per avere commissioni ben orchestrate per suonare uno spartito ben preciso, senza mai che vi sia stata una nota stonata. La dimostrazione scientifica serve per indicare gli strumenti dell’abuso nella formazione delle commissioni che sono “mezzo” per giungere al “fine”. Sembra quindi di poter concludere con un alto grado di fiducia, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il pilota e il gruppo dei suoi compiacenti collaboratori nelle commissioni di valutazione comparativa del settore AGR/01 si sarebbero procurati ingiusti vantaggi e avrebbero causato danni ingiusti per un lungo periodo di tempo e su tutto il territorio della Repubblica Italiana.

Non riesce proprio a farsene una ragione, l'oncologo Massimo Federico. "E' come se un calciatore avesse vinto la coppa Davis", dice. A Modena è accaduto di recente un fatto assai curioso: un professore associato in dermatologia è diventato ordinario in una prova bandita dal corso di laurea in odontoiatria. L'idoneo ha 36 anni e si chiama Giovanni Pellacani. E' il figlio del rettore, Giancarlo Pellacani (che ha anche un altro figlio docente a Giurisprudenza).

Durante la seduta per la chiamata, tre professori hanno votato contro. Uno di questi è l'ex preside della facoltà di Medicina, Maurizio Ponz de Leon: "Non si è mai verificato, almeno negli ultimi trent'anni di storia della nostra facoltà, che un ricercatore riuscisse a diventare ordinario in soli 6 anni e 4 mesi dalla nomina a ricercatore. Certo, potrebbe avvenire per meriti eccezionali. Ma, come visto dall'esame del curriculum, questi meriti non esistono".

Il docente insegna da sei anni, ha un'esperienza all'estero di soli due mesi e i suoi punti di Impact factor (il riscontro dell'attività di ricerca nelle pubblicazioni scientifiche), riguardano solo la dermatologia: non il Med50, il settore, cioè, per il quale ha vinto il concorso. Altra stranezza: "Il concorso non ha visto la partecipazione di nessuno degli associati e dei ricercatori della nostra facoltà". Federico dal canto suo fa osservare che "in Italia esistono 26 professori associati" di quel settore ma nessuno ha fatto domanda. E aggiunge: "Data la delicatezza della decisione, trattandosi di un procedimento che riguarda il rettore, chiedo che la votazione avvenga dopo che la facoltà sia stata edotta delle conseguenze di una chiamata che potrebbe rientrare nel campo della presunzione di nepotismo".

Federico chiede informazioni su dodici punti e qualche settimana dopo, non ottenendo risposte, denuncia tutto alla Procura. Da allora sta perdendo ogni incarico: dalla presidenza della commissione contratti e contenzioso alla direzione della scuola di oncologia. Una convenzione con l'Istituto superiore di sanità, che ha promesso 148mila euro all'università per le ricerche da lui coordinate, è bloccata. E persino nel giornalino dell'università si evita accuratamente di parlare della pur prolifica attività di Federico e dei suoi collaboratori. Il professore, però, non molla. E pochi giorni fa è tornato a chiedere le dimissioni del rettore.

Il magnifico, dal canto suo, reagisce: ha querelato il professore ribelle, che aveva illustrato, in un incontro pubblico, le analogie tra le sue ricerche sulle sindromi familiari e "l'albero genealogico della famiglia Pellacani".

Quello di Modena è solo uno dei tanti fronti caldi della protesta contro i presunti casi di nepotismo nelle università. L'altro è la Sapienza di Roma, dove le polemiche per il mancato incontro con papa Benedetto XVI sono riuscite a far passare in secondo piano la bufera che s'era addensata sul rettore, Renato Guarini. Pochi giorni prima dell'invito del pontefice, Guarini è stato iscritto nel registro degli indagati per abuso d'ufficio: la procura di Roma indaga su un possibile scambio di favori con l'architetto Leonardo di Paola, docente di Estimo ma anche presidente della Cpc, la società che si è aggiudicata i lavori (8,8 milioni di euro) per la realizzazione del parcheggio della città universitaria.

Di Paola è anche il presidente della commissione che ha promosso Maria Rosaria Guarini, figlia del rettore, a ricercatrice in Estimo.

Anche in questo caso la denuncia è partita da un docente universitario, Antonio Sili Scavalli, già autore di un'altra denuncia sull'intreccio tra cattedre e appalti.

Alla Sapienza insegna anche Tommaso Gastaldi, ricercatore di Statistica. Mesi fa previde: una rivoluzione sta per scuotere l'università italiana. "Si sta creando un incredibile fronte compatto di persone di buona volontà che va da Napoli a Siena... Possiamo veramente creare un'onda sismica... - scrisse nel suo blog, Concorsopoli". I casi di Modena e Roma mostrano che il terremoto è già in atto: è la rivolta contro il sistema di cooptazione dei professori universitari, spesso assimilato all'affiliazione mafiosa.

Dopo i primi scandali di Bari, Bologna, Firenze, Siena, Macerata, Messina e le inchieste che sono seguite, la parola d'ordine è attaccare la "razza barona", la casta che manda in cattedra figli, nipoti, cugini e amanti - ma anche amici e compagni di partito, frammassoni, colleghi di cordata.

Siti come quello di Gastaldi (che ha creato un osservatorio per segnalare in anticipo i concorsi sospetti) si moltiplicano. Si chiamano Ateneo pulito, Malauniversitas, Università degli orrori, Ateneo palermitano. Diari dell'indignazione accademica curati da chi non regge più lo strapotere degli ermellini.

Il pretesto può essere anche un convegno, come quello che si terrà sabato a Pisa, organizzato dalla massoneria toscana. Su Il Senso della misura, il blog curato dal docente Giovanni Grasso, si fa notare che "a Roma e a Pisa l'università si apre al mondo in modo diverso. Credete che la libertà di parola dei massoni sarà messa in discussione a Pisa? Credete che frange estremistiche si ricorderanno che la Toscana è stato il cuore territoriale, quanto meno, della P2?".

Nel suo Universitopoli, Marco Lanzetta, primo chirurgo italiano ad aver effettuato un trapianto di mano, ha pubblicato invece la sentenza del consiglio di Stato che lo proclama finalmente vincitore contro l'università di Varese. "I giudici riportano la legalità nei concorsi universitari", scrive. La sua, alla vigilia della riforma del sistema concorsuale - annunciata dal ministro Fabio Mussi per le prossime settimane - è una convinzione diffusa. E così il Tar di Palermo ha restituito a Maria Rita Gismondo, microbiologa della clinica Sacco di Milano, il posto da ordinario che le era stato soffiato da docenti che, è risultato poi, avevano spacciato per pubblicazioni scientifiche dei semplici atti congressuali. Lo stesso è successo a Bari, dove alcuni docenti di Diritto si sono presentati a un concorso, vincendolo, con fotocopie "edite" da un'anonima stamperia di Benevento. Sempre a Bari è stato necessario l'intervento del Tar perché un professore di biochimica ottenesse il laboratorio che gli spettava, negatogli dall'endocrinologo Francesco Giorgino, peraltro indagato dalla procura, insieme al padre, per il suo concorso da ordinario, grazie al quale ha ereditato la direzione del reparto.

Molti docenti "arrabbiati", ora, cercano di organizzarsi in un network. Fanno il tifo per i magistrati e trovano alleati anche oltre gli atenei.

Come Paolo Padoin, prefetto di Padova, che alle nefandezze universitarie dedica una sezione del suo sito Rinnovare le istituzioni, scrivendo: "Manteniamo fiducia nell'azione della magistratura che, anche se in tempi biblici, dovrebbe arrivare alla definizione delle tante azioni penali pendenti in diverse sedi universitarie. Soprattutto la vicenda di Trieste, nella quale sono coinvolti quasi tutti i big di agraria, denunciati dal professor Quirino Paris... ".

Paris, docente della University of California: è emigrato lì dopo un feroce scontro con i suoi colleghi italiani proprio sulle procedure di selezione. Ha inventato un modello matematico delle parentopoli italiane e lo ha fatto pubblicare su una rivista on line americana.

Ovunque si grida alla prova truccata. I professori scrivono ai magistrati, avvertono carabinieri e finanzieri: la vita accademica procede per via giudiziaria. Chiami un docente e ti risponde: "Non posso parlare, sono in procura". Un ricercatore romano segnala in continuazione al ministero - che le gira ai pm - le sue previsioni sui vincitori dei concorsi. "In questo momento - anticipa - ce ne sono in corso due a Roma. In uno è stato richiesto, addirittura, che i candidati presentassero solo tre pubblicazioni. Una follia: significa tagliar fuori chi vanta decine di pubblicazioni internazionali".

Il Tar di Palermo, del resto, ha già sentenziato che non si può scendere, per decenza, sotto una soglia minima di dieci pubblicazioni. A Messina, l'università dove si sono laureati molti figli della 'ndrangheta, non si riesce invece a concludere un concorso di audiologia, in gestazione dal 2002. Tra i candidati, quattro nomi eccellenti: i due fratelli Motta, figli dell'otorinolaringoiatra napoletano Giovanni, e i due fratelli Galletti, figli dell'otorino messinese Cosimo.

Due di loro (uno per famiglia) sono vincitori del famigerato concorso del 1988 annullato dalla Cassazione perché sfacciatamente truccato.

A giudicarli, in commissione, saranno tre professori universitari messi in cattedra dai loro genitori. Intanto, nel capoluogo siciliano s'indaga su un altro concorso, quello di Veterinaria, per il quale un gip ha deciso di sospendere il rettore Tomasello. A Siena, invece, una docente, assistita dall'avvocato Massimo Rossi, ha fatto aprire una nuova inchiesta: le è bastato allegare alla denuncia una mail, da lei intercettata, scambiata tra i commissari di un concorso. "Non mi sono sentita in imbarazzo nell'avanzare la proposta di scorrimento della professoressa T. a professore di prima fascia. La candidata ha un curriculum serio".

In effetti, otto mesi dopo la professoressa ottiene lo "scorrimento" a professore ordinario. Ma in Italia divinare il nome del vincitore è quasi la norma: il nome dell'idoneo è deciso in anticipo dalla facoltà nel momento in cui "chiede" il posto. Tutto il resto (pubblicazione del bando in gazzetta ufficiale, elezione dei commissari, loro convocazione nella sede con relativa ospitalità in albergo, prove scritte e orali) è un'inutile messa in scena che per ogni "valutazione comparativa" costa, in media, 20mila euro alle casse dello Stato.

Mentre l'università vive la sua "Mani pulite", i concorsi languono. I posti da associati e ordinari non si bandiscono da maggio del 2006, quelli per ricercatore sono stati, nel 2007, 1188 contro i 1618 del 2006 e contro i 2514 del 2005. Ora, però, stanno per ripartire: Mussi ha stanziato 40 milioni di euro e ha varato un nuovo regolamento che dovrebbe limitare la sfera d'influenza dei commissari, sottoponendo in prima battuta tutti i candidati al giudizio di revisori anonimi. E si torneranno anche ad assumere associati e ordinari. Ma non con il vecchio sistema di concorsi, considerato "un atto di ostilità che ha devastato qualità e bilanci": la riflessione è di Pier Ugo Calzolari, rettore di Bologna, e apre un altro sito di "controinformazione" sugli scandali accademici, Scienzemedicolegali.

L'ateneo bolognese è stato il primo a tentare di reagire agli scandali con un codice etico per prevenire le assunzioni di parenti negli stessi dipartimenti, molto frequenti durante il rettorato precedente del potentissimo Fabio Roversi Monaco. In Paesi come la Nuova Zelanda o il Canada norme di questo tipo già da anni correggono i conflitti d'interesse non solo tra parenti ma anche tra amici o tra colleghi di studi professionali privati che insegnano nell'università. Lo rivendicano anche molti docenti che vogliono il cambiamento.

A Bari, per esempio, è la battaglia del magistrato (e docente di diritto canonico) Nicola Colaianni e dell'associato Carlo Sabbà, che ha fatto aprire, con le sue denunce, l'inchiesta sui concorsi pilotati a Medicina interna nella quale figurano, tra gli indagati - oltre all'ordinario di Medicina interna Giuseppe Palasciano - anche nomi eccellenti, come il milanese Pier Mannuccio Mannucci. Nel capoluogo pugliese, però, dove famiglie come i Massari o i Girone hanno fatto il pieno di cattedre e dove i baroni avevano, fino a poco tempo fa, persino i posti barca gratuiti sul lungomare, le resistenze sono ancora fortissime. Una prima bozza, però, è stata approvata a dicembre e vieta esplicitamente l'assunzione di parenti e altri docenti all'interno delle facoltà. Forse qualcosa cambierà.

«Che faccia i nomi!», protestarono i rettori quando il ministro della Salute Girolamo Sirchia osò osservare come a Medicina e Chirurgia imperassero baroni e nepotismo, «in cattedra vanno tuttora i figli e i cognati». Eppure non era difficile, basta guardarsi un po’ attorno. L’ultima viene del Tar della Sardegna, la sentenza depositata il 9 settembre ha annullato il decreto di nomina a professore associato di Roberto Puxeddu, firmato dal rettore il 7 agosto 2001, e condannato l’Università di Cagliari a 3000 euro di spese legali. I giudici, accogliendo il ricorso d’un candidato escluso, parlano di «illegittimità conseguente a difetto di imparzialità». Il fatto è che nella commissione c’erano due professori, Antonino Roberto Antonelli (ordinario a Brescia) e Alberto Rinaldi Ceroni (Bologna), che il papà di Puxeddu, Paolo, oggi ordinario nella stessa università di Cagliari, aveva promosso in un concorso bandito il 4 agosto ’88, un concorso truccato. I casi della vita: allora Paolo Puxeddu era presidente della commissione e nel frattempo è stato condannato in via definitiva a un anno per falso e abuso d’ufficio. La sentenza d’appello del Tribunale di Roma, citata dal Tar, parlava di «delirio di potere», «interessi sfacciatamente nepotistici e di rafforzamento del potere personale o della fazione di appartenenza», «feudi baronali di famiglia» e «Repubblica delle banane» ma condannati e beneficiati sono al loro posto, stanno nelle commissioni giudicatrici e si presentano pure ai concorsi di altre cattedre perché non si sa mai, con la sentenza definitiva potrebbero perdere la loro.

Storia vecchia, almeno nel campo dell’Otorinolaringoiatria, che in compenso regala ogni giorno delle novità. Nel concorso dell’88 c’erano in palio sedici cattedre e passarono figli di papà e protetti. Bisogna partire da qui, dal padre di tutti gli imbrogli, per capire cosa sta succedendo ancora adesso, come in un gioco di specchi, da Cagliari a Messina, da Roma a Napoli. Lo scandalo scoppiò solo nel ’95, al processo furono condannati cinque docenti, tre della commissione più due padri di candidati. Altri tre professori, per abuso d’ufficio e violenza privata, furono riconosciuti colpevoli per un concorso del ’92, nove cattedre. La pena più alta, un anno e otto mesi, toccò a un luminare dell’Otorinolaringoiatria, Giovanni Motta, ordinario a Napoli e definito dai giudici «despota» della specialità; alla fine vinse anche suo figlio, Gaetano Motta, tuttora ordinario alla seconda università di Napoli. Le condanne della Corte d’Appello, il 1° dicembre 2000, sono state confermate in Cassazione 5 novembre 2001. Il ministero ha chiesto un parere al consiglio di Stato che ha risposto il 20 marzo 2002: il concorso dell’88 è nullo. E allora perché non succede niente?

«Semplice: perché la Corte d’Appello deve annunciare l’annullamento a tutti e 16 i docenti promossi col trucco, solo che a febbraio non erano arrivate quattro notifiche, non li avevano trovati!», sospira il professor Giorgio Molinari, uno dei candidati bocciati nell’88. Ora ha sessantotto anni, «ero associato di Audiologia a Padova e tre anni fa me ne sono andato in pensione anticipata, sapevo che avrebbero continuato a bocciarmi e dopo l’88 non mi sono più presentato ai concorsi da ordinario, non ne potevo più di vedermi passare davanti giovincelli che non avevano un decimo dei miei titoli». I sedici promossi di allora, finché c’è tempo, stanno cercando di risistemarsi. «Gaetano Motta, per dire, quest’anno è stato membro di commissione al concorso di Audiologia a Napoli e al contempo candidato a Catania e Messina».

A Messina, in particolare, è stato bandito un posto da ordinario di Audiologia a cui partecipano due dei «figli di» promossi nel famoso concorso dell’88: oltre a Gaetano Motta, il figlio di Giovanni, c’e Francesco Galletti, figlio del professor Cosimo Galletti. Ebbene, tra i commissari d’esame sono stati nominati Raffaele Luciano Fiorella (ordinario a Bari) e Alberto Rinaldi Ceroni (Bologna), promossi docenti nello stesso concorso truccato dell’88. Altri due commissari, Desiderio Passali ed Enzo Mora, furono invece promossi dai papà Motta e Galletti in un concorso precedente, nell’84, peraltro regolare. Giorgio Molinari, sempre lui, ha presentato una dettagliata domanda di ricusazione dei commissari al rettore dell’università di Messina. Respinta.

Anche Paolo Puxeddu, tuttora ordinario a Cagliari, non s’è perso d’animo. Prima che arrivasse il Tar, il 29 gennaio 2003, si è dimesso con annesse maiuscole da «Direttore della Scuola di Specializzazione in Otorinolaringoiatria» per «scadenza dei termini», e al suo posto è stato nominato il figlio Roberto, quello promosso associato dai due professori promossi dal papà nell’88. Nel verbale del consiglio docenti della scuola di specializzazione si legge che «il professor Alessandro Riva, proposto dal consiglio della scuola, dichiara la propria indisponibilità», quindi interpella un paio di candidati che rifiutano e finalmente fa il nome di Roberto Puxeddu, «il consiglio approva all’unanimità», da verbale risulta presente anche il padre.

A Roma insegna invece Marco De Vincentiis, ordinario di Otorinolaringoiatria alla Sapienza, anche lui promosso in cattedra nell’88 e figlio del professor Italo, altro papà condannato a un anno. Anche lui rischia di perdere la cattedra ma qualche mese fa ha vinto l’idoneità a Firenze e intanto potrebbe ottenere un altro posto sempre a Roma, presto si riunirà il consiglio di facoltà. Nella stessa facoltà lavora come ordinario di Audiologia anche Mario Fabiani, 55 anni, uno dei bocciati dell’88, «mi ribocciarono nel ’92 e alla fine ho vinto l’idoneità nel 2000, non ci speravo più», sorride, «anche se credo d’essere l’unico ordinario d’Italia che non è primario, al Policlinico Umberto I faccio ancora i turni di notte».

L'UNIVERSITA', AFFARE DI FAMIGLIA. Di Attilio Bolzoni

La stanza numero 24 è quella del professore Giovanni Tatarano, ordinario di Diritto privato. Suo figlio Marco insegna lì accanto, nella stanza numero 4. Sua figlia Maria Chiara riceve gli studenti proprio di fronte a papà, nella stanza numero 12. Tutta la famiglia in un corridoio. E non come quegli altri, che si sono sparpagliati invece su quattro piani e sopra cinque cattedre. Quegli altri che si chiamano Dell'Atti, tutti parenti, tutti docenti.

Ma mai tanti e mai tanto esimi come i Massari, nove tra fratelli e nipoti e cugini, probabilmente la tribù accademica più numerosa d'Italia.

Benvenuti all'Università di Bari, benvenuti nella città dove in pochi intimi si spartiscono il sapere e il potere.

Buongiorno, dov'è la stanza del professore Girone? "Girone chi?", risponde spazientito il vecchio custode di Economia e Commercio. Girone Giovanni il Magnifico Rettore o Girone Raffaella che è sua figlia?, Girone Gianluca che è suo figlio o Girone Sallustio Giulia che è sua moglie? In ordine, stanza numero 3, stanza numero 26, stanza numero 58, stanza numero 13. E aggiunge, sempre più infastidito il custode: "Poi se vuole parlare con un altro parente stretto dei Girone, ci sarebbe pure il dottore Francesco Campobasso, associato di statistica, che è il marito della professoressa Raffaella, quinto piano, stanza numero 19".

E' cominciato così il nostro viaggio in quel labirinto che è l'Ateneo pugliese, concorsi pilotati, test truccati, esami comprati e venduti, tentate estorsioni e una Parentopoli che è ormai al di là del bene e del male. Lo scandalo sta dilagando. E a Bari, per la prima volta la razza barona trema. Sussurri, voci, grida. Si sta scoprendo un vero verminaio nell'Università dalle più antiche tradizioni delle Puglie. Facoltà dopo facoltà, dipartimento dopo dipartimento. E anche sotto la spinta di una valanga di anonimi.

Sono tanti i Corvi che volano nel cielo di Bari in queste settimane di paura. Raccontano di tutto e di tutti, spiegano in lunghe lettere (con tanto di allegati grafici e di alberi genealogici) come una mezza dozzina di clan accademici hanno allungato le mani sull'Università. "Arrivano ogni mattina sulle scrivanie dei sostituti con la posta prioritaria", confessa il procuratore aggiunto Marco Dinapoli, il magistrato che coordina le indagini sulla pubblica amministrazione.

Denunce di combine nelle commissioni esaminatrici, nomi, cognomi, favori incrociati per piazzare di qua e di là consanguinei o amanti, fidanzati e generi. Ci sono inchieste aperte dappertutto. A Veterinaria e a Matematica, a Scienze delle Comunicazioni, a Cardiologia, a Ginecologia, a Genetica, al Politecnico. Ma è Economia e Commercio - dove il rettore Giovanni Girone è ordinario di Statistica - che è il cuore della razza barona barese, è in quell'edificio grigio a cinque piani il suq delle cattedre.

Sono tutte qui le grandi famiglie accademiche, tutte super rappresentate a cominciare da quella del Magnifico fino agli illustrissimi Massari, tre fratelli - Giansiro, Lamberto e Lanfranco - e poi un nugolo di figli ricercatori. Concorsi a regola d'arte, carte naturalmente sempre a posto come vuole la legge. Tanto a vincere sono soprattutto i parenti. Il preside della facoltà si chiama Carlo Cecchi e allarga sconsolato le braccia: "A me i professori me li regalano le commissioni aggiudicatrici dei concorsi: cosa posso fare io? Io non sono mai stato nelle commissioni di esami".

Senza vergogna e senza pudore una dozzina di clan accademici, anno dopo anno, si sono impadroniti dell'Ateneo. "E' come se ci fosse stata una competizione tra alcuni professori a chi riusciva a collocare più membri del proprio gruppo familiare", commenta Nicola Colaianni, ex magistrato di Cassazione, il docente di Diritto pubblico nominato dal senato accademico a presiedere una commissione d'inchiesta sui buchi neri dell'ateneo. La sua relazione finale l'altro ieri è finita dritta dritta alla procura della Repubblica.

Ci sono i clan ad Economia e Commercio e ci sono quelli al Policlinico, altro girone infernale della cultura universitaria pugliese. Clan e ancora clan, lo scambio di promesse per un posto di ricercatore o di associato, i figli e i nipoti tutti specializzandi, sempre gli stessi nomi che occupano le stesse cattedre: i Ponzio a Lingue, i Foti al Politecnico e via via tutti gli altri. Fino alle grandi famiglie dei "professori" del Policlinico. Quasi tutti hanno trovato un dottorato di ricerca o un incarico nella stessa clinica del padre o dello zio o del cugino. A Psichiatria. A Ortopedia. A Neurochirurgia. A Endocrinologia. A Chirurgia generale. Un elenco infinito. Con il 40 per cento circa dei figli dei primari nella stessa facoltà dei padri e, molto spesso, nella stessa struttura operativa. Con l'età dei "fortunati" parenti a volte molto sospetta, mediamente dieci anni più bassa di quella dei loro colleghi senza blasone.

Privilegi di casta e anche qualcosa di più. Come quell'holding che gestiva concorsi con il trucco a Cardiologia, il fondatore della scuola barese Paolo Rizzon arrestato per associazione a delinquere "finalizzata al falso e alla corruzione", secondo i giudici un componente di rango di una sorta di Cupola che "dirigeva" gli affari della cardiologia. E non solo in Puglia. O come il primario di Ginecologia e ostetricia Sergio Schonauer, indagato per avere votato una commissione che avrebbe dovuto giudicare suo figlio Luca per un posto di ricercatore nella sua stessa clinica. E' la prepotente "normalità" di questa Bari universitaria che si sente impunita, è l'intrigo alla luce del sole, l'omertà delle complicità estese.

Rettore, ma cos'è questa sua Università, una sola grande famiglia? Prima Giovanni Girone travolge con la sua mole un gruppo di giornalisti e si fa sfuggire un magnifico "vaff...", poi si scusa, minaccia la solita querela a chiunque parli o scriva dei suoi e degli altri parenti cattedratici, finalmente si placa e ci fa entrare nella sua stanza. Alle sue spalle due grandi foto, una di Padre Pio e l'altra di Aldo Moro. E alla fine Girone sospira: "I nomi non c'entrano, i concorsi o sono corretti o non sono corretti. E nel caso di mia moglie e dei miei figli è stato tutto regolarissimo: quel che conta è soltanto la produzione scientifica". Così parla il Magnifico rettore dell'Università di Bari, l'ateneo delle grandi tribù.

Una Cupola dotta si spartisce il sapere di Palermo. Sono cento le famiglie che hanno l'Università nelle loro mani, cento clan accademici fatti di figli che salgono in cattedra per diritto ereditario, fratelli e sorelle che succedono inevitabilmente ai loro padri e ai loro zii, nipoti e cugini immancabilmente primi al pubblico concorso. Regnano in ogni facoltà. Si riproducono nell'omertà. Docenti parenti. Cinquantotto a Medicina. Ventuno a Giurisprudenza.

Ventitré su appena centoventinove professori ad Agraria, la roccaforte dei patti di sangue.

Se l'Ateneo di Bari è diventato famoso in Italia per la compravendita di esami e per i test superati in cambio di sesso, quello di Palermo ha un primato assoluto che spiega come i "soliti noti" spadroneggino in ogni disciplina. Ordinari, associati, ricercatori: tutti legati uno all'altro da un intreccio parentale. In totale sono almeno 230. Cento famiglie.

Un altro record solo apparentemente innocuo di questa Università è per esempio il luogo di nascita dei suoi docenti: il 54,7 per cento sono palermitani. Più della metà sono di qui e due su tre vengono dalla provincia. Soltanto Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Ma il numero che svela fino in fondo la Palermo cattedratica è quell'altro sui legami familiari. Sono piccoli grandi eserciti dislocati dipartimento dopo dipartimento, materia per materia.

Somiglia tanto a un'occupazione militare, chi non fa parte di un clan resta quasi sempre fuori. E tutto nel rispetto della legge e delle procedure. La regola per conquistare un posto in università è solo una: non parlare. Qualcuno - è chiaro - si ritrova suo malgrado in questo elenco nonostante meriti e titoli. Per molti però quello che conta è solo il nome che portano.

Ci sono delle vere e proprie dinasty anche a Scienze, ad Architettura, a Economia. In ogni facoltà ci sono ceppi familiari dominanti, aule e laboratori di ricerca popolati solo da rampolli. Uno scandalo dopo l'altro soffocati nel silenzio.

A Medicina le famiglie che comandano sono 24. Si ramificano dappertutto. Una è la famiglia Cannizzaro. Il padre Giuseppe è ordinario di Scienze farmacologiche, nel suo dipartimento c'è anche il figlio Emanuele (ricercatore), la cognata Luisa Dusonchet (associata) e la figlia Carla che insegna a Farmacia. Ordinario di Scienze stomatologiche è Domenico Caradonna, i figli Carola e Luigi fanno i ricercatori nello stesso dipartimento. Ordinario di Scienze biochimiche è Giovanni Tesoriere, la moglie Renza Vento è a Biologia, la figlia Zeila è entrata in Architettura dove c'è anche suo marito Renzo Lecardane. Zeila è stata nominata a soli 37 anni come associata "per chiamata diretta", il marito - che da un anno era impiegato al Comune di Palermo dopo un'esperienza all'estero - ha conquistato un posto grazie alle norme sul "rientro dei cervelli". Altri nomi eccellenti di Medicina con parenti al seguito: i Salerno (Biopatologia), i Canziani (Neuropsichiatria infantile), i Ferrara (Otorinolaringoiatria), i Piccoli (Neuroscienze cliniche). Dopo i parenti ci sono naturalmente schiere di compari. Li piazzano per grazia ricevuta. A un favore fatto ne corrisponde sempre un altro. E' una catena interminabile, un giro chiuso. Le carte sono sempre a posto, i concorsi a prova di codice penale, un altro discorso è la decenza.

Come a Economia, il reame dei Fazio. Il capostipite è Vincenzo, ordinario di Scienze economiche, aziendali e finanziarie. Nello stesso suo dipartimento ci sono altri due Fazio: i suoi figli, Gioacchino associato e Giorgio ricercatore. Insegnano la stessa materia di papà. Il preside di Economia si chiama Carlo Dominici, suo figlio Gandolfo è anche lui in facoltà per istruire gli studenti in Scienze economiche. Poi ci sono i due Bavetta, Sebastiano ordinario e Carlo associato, figli di Giuseppe che lì a Economia c'era fino a qualche tempo fa. Ora è in pensione. Un ultimo caso di padre e figli di quella facoltà: il docente di economia aziendale Carlo Sorci e sua figlia Elisabetta - ricercatrice - che insegna Diritto commerciale.

A Giurisprudenza i docenti sono 137 e i nuclei familiari che dettano legge 10. Alfredo Galasso è ordinario di Diritto privato, suo figlio Gianfranco insegna la stessa materia, nello stesso dipartimento c'è anche Giuseppina Palmeri che è la moglie del fratello di Gianfranco. Anche Savino Mazzamuto (Diritto privato, ora trasferito a Roma 3) ha lasciato un posto in eredità a suo figlio Pierluigi. La figlia di Aurelio Anselmo, Alice, ha trovato sistemazione all'Università di Trapani: ricercatrice di Diritto pubblico. Salvatore Raimondi, nome pesante, amministrativista di grido ingaggiato per i suoi "pareri" anche dalla Regione siciliana, ha nel suo dipartimento di Diritto pubblico il figlio Luigi. E Rosalba Alessi, ordinario di Diritto privato - e soprattutto potente commissario degli enti economici siciliani, una carica che vale come tre assessorati importanti - ha nello stesso suo dipartimento il nipote Enrico Camilleri.

Ad Architettura c'è una grande famiglia, quella dei Milone. Il preside Angelo è in compagnia del fratello Mario (che è anche vicesindaco di Palermo e - attenzione - assessore ai rapporti con l'Università) e due figli che sono ricercatori: Daniele e Manuela. A Lettere, i Carapezza sono 4. I fratelli Attilio e Marco, il primo che insegna Scienze delle Antichità e il secondo Filosofia e teoria dei linguaggi. Il loro cugino Paolo Emilio è ordinario di Musicologia, suo figlio Francesco è ricercatore nello stesso dipartimento di Attilio. Poi ci sono i Buttita. Nino, il vecchio, antropologo, è stato preside di Lettere. Il figlio Ignazio insegna all'Università di Sassari ma ha supplenze a Palermo. La moglie Elsa Guggino è ordinaria nella stessa facoltà.

L'elenco dei padri e dei figli continua a Ingegneria, 18 famiglie e 38 parenti. Filippo Sorbello e il figlio Rosario, Michele Inzerillo e la figlia Laura, Stefano Riva Sanseverino (cognato di Luca Orlando) e la figlia Eleonora. A Scienze Matematiche Fisiche e Naturali si contendono il numero dei parenti i Gianguzza e i Vetro. Mario Gianguzza, ordinario di Biopatologia a Medicina, a Scienze ha come colleghi i fratelli Antonio (Chimica inorganica) e Fabrizio (Biologia cellulare) e la figlia Paola (Ecologia). Uno dei loro nipoti, Salvatore Costa, è anche lui in Biologia cellulare. L'altra famiglia, i Vetro, è tutta appassionata di matematica. Pasquale Vetro, matematico. La moglie Cristina Di Bari, matematica. Il loro figlio Calogero, matematico.

La facoltà più piena di mogli e mariti e figli è però quella di Agraria. Su 129 docenti 23 sono parenti. Un quinto. Divisi in 11 nuclei familiari. Il preside Salvatore Tudisca ha lì dentro come associata sua moglie Anna Maria Di Trapani. L'ordinario Antonino Bacarella ha la figlia Simona e il nipote Luca Altamore. L'ordinario Giuseppe Chironi ha la figlia Stefania, l'ordinario in pensione Giuseppe Asciuto ha suo figlio Antonio, l'ordinario in pensione Carmelo Schifani ha il figlio Giorgio, l'ordinario Salvatore Ragusa ha il figlio Ernesto, l'ordinario Luigi Di Marco ha la moglie Antonietta Germanà, l'ordinario Vito Ferro ha la moglie Costanza Di Stefano, l'ordinario Antonio Motisi ha la moglie Maria Gabriella Barbagallo, l'ordinario Riccardo Sarno ha il figlio Mauro, l'ordinario Claudio Leto ha la moglie Teresa Tuttolomondo. Cento famiglie. Di queste ce ne sono sessanta con "residenza" fissa in uno stesso dipartimento. E' praticamente casa loro.

LA CAZZATA DELLA DOCENZA SENZA LAUREA.

Ma davvero Daverio? Un ordinario senza laurea. Nel corso della puntata del 26 settembre 2017 di Matrix su Canale 5 condotta da Nicola Porro il noto televisivamente storico e critico d’arte Philippe Daverio ha spiegato come “per essere professore universitario ordinario in Italia non serva la laurea.” Egli spiega che avendo frequentato l’università durante il ’68, dato il fermento intellettuale, a un certo punto non ha più sentito il bisogno di continuare a studiare e, malgrado sia passato quasi mezzo secolo, non ha inteso riprendere mai quegli studi. Pur tuttavia ha ottenuto, ci tiene a dirlo mediante concorso, una cattedra da ordinario all’Università di Palermo al Dipartimento di Architettura.

A Bologna Galileo diventa docente di matematica anche se non è laureato (è ancora oggi così: per essere professori universitari non è necessario avere una laurea, mentre per diventare ricercatori si).

Galileo galilei nasce a Pisa nel 1564 e morirà a Firenze nel 1642. Il padre Vincenzio era un musicologo e musicista, ed è proprio da lui che Galileo riprenderà questa passione per la matematica; essere dei musicologi e musicisti voleva dire avere a che fare con i ritmi e continuamente con la matematica. Nel 1581 il Padre iscrive Galileo all'Università di Pisa per studiare medicina, ma in tre anni si dimostra un pessimo studente perchè non riesce a dare nemmeno un esame, ma manifestò grandi interessi verso la matematica e al fisica e sotto la guida di Ostilio Ricci, Galileo si dimostrò un genio! Non ancora ventenne , Galileo scopre l'isocronismo del pendolo; nel 1586 inventa la bilancetta che serviva per pesare il peso specifico degli elementi; scrive un trattato sul teorema del baricentro dei Conidi; e, Galileo essendo un grande studioso di Dante , voleva capire dove si trovasse l'inferno e dalla descrizione che il Grande scrittore Fiorentino da nella Divina Commedia fa l'ipotesi che potrebbe trovarsi al centro della terra, collegando il fuoco con la lava dei vulcani , ma poi dice che l'Inferno è un luogo teologico e che quindi non può trovarsi sulla terra. La prima lettera che Galileo scrive è diretta a Clavius, che era un gesuita matematico che insegna nel Collegio Romano (ebbe un ruolo importante perchè il Clavius, chiamato anche Euclide per le sue doti matematiche, ebbe un ruolo primario nella riforma del calendario). Siamo nel 1588. A Bologna Galileo diventa docente di matematica anche se non è laureato (è ancora oggi così: per essere professori universitari non è necessario avere una laurea, mentre per diventare ricercatori si). Nel 1592(Galileo aveva 28 anni) vince il concorso di docente presso l'università di Padova e ci resterà fino al 1610. Padova era l'Università di Venezia ed è la prima Università italiana per chi viene dalle Alpi, ed è quindi Internazionale perchè accoglieva tanti studenti provenienti da tutta Europa. Venezia era lo stato Italiano più importante a livello Europeo, soprattutto dal punto di vista commerciale; basti pensare che a Venezia vi erano ben 200 tipografie; abitare a Venezia intorno al 1600 era "chic" un pò come lo è ancora oggi. A Padova c'è la libertà assoluta di ricerca e non è un caso che il primo professore a dichiararsi ateo ufficialmente nella storia sia Cesare Cremonini, Docente dell'Università di Padova. Cesare Cremonini credeva nella natura ma non in Dio; morirà a Venezia affogato per opera della Chiesa (stesso periodo della morte e la condanna di Giordano Bruno). Galileo insegnerà quindi a Padova per ben 18 anni. Durante il periodo Universitario come studente a Pisa, a Galileo gli muoiono sia la madre che il padre ed è costretto a lavorare per comprare la dote alle sorelle per farle sposare; sempre in questo periodo galileo convive (senza però sposarla) con una donna che gli darà 3 figli. Nel 1610 Galileo diventa il matematico e il filosofo del Granduca di Toscana, e le 2 figlie dello scienziato le farà entrare in un Monastero di Clausura strettissima per sempre, perchè non essendo nate da un matrimonio sono figlie illegittime; la seconda figlia non perdonerà mai il padre per averla rinchiusa senza il suo consenso nel Monastero, mentre la figlia maggiore muore nel 1633. Galileo chiederà al Granduca di Toscana di insegnare nell'Università di Firenze, e ottiene il permesso. Galileo stava diventando simpatizzante del sistema copernicano e pensa di dimostrare tale ipotesi usando come esempio le maree di Venezia, ovvero l'acqua alta nel capoluogo Veneto. Galileo, diventato famoso per le sue scoperte, ha una corrispondenza con lo scienziato tedesco Keplero; nelle lettere si scambiano idee e teorie, e uno dei principali argomenti riguarda le orbite dei pianeti, che per Galileo erano circolari, mentre per Keplero erano ellittiche (come appunto sono). Le differenze tra i due scienziati sono parecchie, come il fatto che Keplero non divulgava le sue scoperte al "mondo" ma soltanto alle piccola cerchia di scienziati, perchè riteneva che erano gli unici che le avrebbero capite; mentre Galileo sentiva il bisogno di divulgare e spiegare le sue scoperte con tutti; ad un certo punto Galileo smette questa corrispondenza con Keplero anche perché il Pisano era infastidito dal latino non proprio classifico(un po’ maccheronico) di Keplero.Droga e cyberbullismo, ecco i pericoli della scuola che spaventano i genitori italiani.

Prof senza laurea e fino al 2057 graduatorie a esaurimento, scrive Gian Antonio Stella il 26 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Avanti così e nel 2057 le «graduatorie a esaurimento» dei docenti, che dovevano inizialmente esaurirsi cinque anni fa, saranno infine esaurite. Evviva. Una «svista» di decenni. Dovuta non solo all’ottimismo un po’ ganassa di alcuni protagonisti (Matteo Renzi si impegnò a settembre del 2014 ad assumere tutti «a settembre del 2015»!) ma allo sbracamento del sistema. E all’incontinente prodigalità di certi Tar. Risultato: salvo retromarce, potranno andare in cattedra migliaia di docenti mai laureati, mai passati ai concorsi imposti dalla Costituzione e spesso mai chiamati in vent’anni, neppure un giorno, a insegnare. E gli studenti che si dovessero ritrovare con maestre e professori del tutto incapaci? Auguri. Ed è da qui che bisogna partire: dal panorama attuale del corpo docente. Prendiamo la capitale. La città con più iscritti alle Gae, le famose liste destinate a svuotarsi. Scrive Tuttoscuola in una dettagliatissima inchiesta in uscita oggi che, prendendo a esempio solo le materne e le elementari, nonostante i 42/43 anni di età media degli aspiranti maestri, «tra i 6.123 iscritti nella Gae di Roma per la scuola dell’infanzia ben 4.873 docenti, pari al 79,6% del totale (circa quattro su cinque), risultano iscritti con zero punti di servizio: verosimilmente è da ritenere che non abbiano mai insegnato». Mai. Eppure peggio ancora va nelle «primarie»: «Su 5.356 iscritti risultano con zero punti di servizio ben 4.916 (91,8%): nove docenti su dieci è da ritenere che non abbiano mai insegnato». Rileggiamo: mai. «Docenti per caso», li chiama la rivista di Giovanni Vinciguerra. Ma un paese come il nostro, che ha solo il 26% di laureati tra i cittadini tra i 30 e i 34 anni (penultimo in Europa davanti solo alla Romania), che ha 3 docenti su cento nelle «superiori» con meno di 40 anni contro i 26 di Francia e Germania, i 43 del Belgio e i 46 del Regno Unito, che investe nella ricerca la metà della media Ocse, un terzo della Germania o della Svezia e riceve fondi competitivi su merito e qualità assegnati da Agenzie pubbliche indipendenti pari a un quarantaduesimo della Gran Bretagna, può accettare un pantano così? Come può tenere il passo, ed è una questione di vita o di morte, con un mondo che accelera e accelera e accelera? Certo, vanno capiti tutti quegli aspiranti al posto fisso, disoccupati o sotto-occupati che si sono messi in coda per entrare nel mondo della scuola. Più ancora quanti si sono ritrovati perfino impossibilitati a vincere ogni concorso perché, fossero pure dei fuoriclasse, di concorsi non ce n’erano, come tra il 2000 e il 2011. Dice la Costituzione che «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso» ma, come accusa il giornale, «leggi e sentenze hanno messo all’angolo» la Carta. Intendiamoci: quando nel 2007 nacquero le «Gae» assorbendo decenni di graduatorie permanenti, furono istituite con buone intenzioni. Certo, il sistema conteneva già un principio discutibile: chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. A costo di ostruire l’accesso a nuovi docenti. Magari preparatissimi, forti di un concorso vinto, entusiasti, ricchi di fantasia. Si pensò che fosse più importante mettere un punto. Fissando questo schema: metà dei posti vacanti a chi aveva passato un concorso, metà agli iscritti alle graduatorie ad esaurimento. Per svuotare finalmente il bacino dei precari generato da un’incessante catena di sanatorie iniziate con un decreto di Vittorio Emanuele II nel 1859: «In eccezione alla regola del concorso…» Ma come smaltirli, tutti quei precari in attesa? Allargando le maglie. Al punto che le buone intenzioni sono state via via sradicate e, scrive Tuttoscuola, «la perentorietà della chiusura delle graduatorie ad esaurimento è stata violata più volte a partire dal 2008, per iniziativa parlamentare o per via giudiziaria». Con quelle famose sentenze che una dopo l’altra accoglievano un po’ tutti i ricorsi. Col risultato che non solo smaltire i «vecchi» precari si è rivelato lentissimo ma «sono stati immessi in ruolo nei vari settori oltre 215 mila docenti (50 mila da provvedimenti del ministro Fioroni, 73 mila del ministro Gelmini, oltre 90 mila nell’epoca Profumo-Giannini-Fedeli), pari a oltre un quarto degli attuali posti di ruolo». Morale: coi ritmi attuali, come dicevamo, serviranno 14 anni per esaurire le graduatorie nelle «primarie» e 41 (quarantuno!) nelle scuole d’infanzia. Certo, ricorda la rivista, si tratta di «una previsione teorica fatta “a vita lavorativa infinita”: molte insegnanti (nate a cavallo degli anni 1950-60) nell’attesa supereranno infatti il limite massimo di età per essere assunte in ruolo». Di più: sul capo di quasi la metà degli iscritti «con riserva» a queste graduatorie incombe «la decisione che il Consiglio di Stato, a sezioni riunite, assumerà nel prossimo autunno per accertare la sussistenza del requisito di accesso alle Gae». Se il verdetto sarà sfavorevole, quegli iscritti con riserva «verranno definitivamente depennati». Se sarà favorevole, un po’ alla volta gli aspiranti maestri e professori dovranno essere smaltiti tutti. Anche quelli «recuperati» con la vecchia abilitazione. Che studiarono non 18 ma solo 13 anni, che non sono laureati, non sanno l’inglese, non hanno competenze digitali, non hanno mai fatto un concorso e neppure una supplenza… E magari non aprono un libro dai tempi del diploma. E potrebbero andare in cattedra dopo aver fatto per anni il commercialista o il postino, la contabile o la cuoca. Trovandosi alle prese con materie studiate anche venti o trent’anni prima, come un diplomato al liceo che dopo decenni allo sportello di una banca dovesse tradurre l’«Anabasi» di Senofonte. Onestamente: buon per loro ma cosa potrebbero insegnare ai nostri figli? Sono rimasti così abissalmente lontani dalle aule, tanti di questi docenti «a esaurimento», spiega Tuttoscuola, che si aggirano tra di noi i fantasmi di circa 1.300 docenti introvabili. I quali sono stati immessi in ruolo ma, dopo tanti anni trascorsi a fare altre cose, non se ne sono manco accorti. «L’Ufficio scolastico regionale della Campania, ad esempio, ha emanato tempo fa un decreto con cui i nominati che non avevano provveduto a ritirare entro sette giorni il contratto a tempo indeterminato venivano considerati rinunciatari alla nomina». Macché. Desaparecidos.

Si può insegnare senza abilitazione? Scrive Maura Corrada il 2 febbraio 2017. Per diventare insegnanti, bisogna passare per l’università, il Tfa e il concorso. Ma ci sono casi in cui è possibile insegnare senza abilitazione?

Per partecipare ai concorsi e ottenere una cattedra negli istituti scolastici pubblici è necessaria l’abilitazione all’insegnamento che si ottiene attraverso la partecipazione al Tfa(Tirocinio Formativo Attivo). In altre parole, quindi, i laureati che non hanno potuto parteciparvi si trovano in una situazione di stallo e non possono accedere all’insegnamento nelle scuole pubbliche. Ciò non significa, però, che non vi siano altre strade per insegnare senza l’abilitazione.

Come diventare insegnante? Il percorso di studi da seguire per diventare insegnante deve essere scelto a seconda delle scuole di destinazione: per le scuole dell’infanzia e le scuole elementari, coloro che si sono diplomati presso un istituto magistrale, entro e non oltre l’anno scolastico 2001, dispongono automaticamente dell’abilitazione per potere accedere alle graduatorie predisposte dal ministero dell’Istruzione (Miur). Dopo il 2000, l’accesso all’insegnamento è possibile solo per coloro che hanno conseguito la laurea presso le facoltà universitarie di scienze della formazione primaria o scienze dell’educazione. Tali soggetti devono inoltre aver svolto un periodo di tirocinio durante il corso di studi: solo così avranno il titolo di abilitazione all’insegnamento, necessario per partecipare ai concorsi indetti. Discorso in parte diverso per scuole medie e scuole superiori, per insegnare nelle quali occorre una laurea in materia come lettere moderne, lettere classiche, lingue e materie scientifiche. La laurea non basta: negli anni universitari, bisogna, infatti, conseguire il numero di crediti stabiliti dal ministero dell’Istruzione, consultabili sul relativo sito. Chi è in possesso di questi due requisiti, dovrà, poi, ottenere l’abilitazione, mediante i corsi Tfa. Coloro che sono in possesso di una laurea ma che non hanno conseguito i crediti dagli esami richiesti, secondo quanto stabilito dal Miur, possono comunque intraprendere il percorso che abbiamo appena esposto ma prima dovranno integrare gli esami mancanti attraverso corsi singoli universitari. Facciamo qualche esempio: Tizia ha una laurea magistrale in giurisprudenza e vorrebbe intraprendere la carriera di insegnante di diritto. Secondo il Miur, i laureati in legge devono avere un determinato numero di crediti derivanti da materie economiche. Quindi, Tizia dovrà integrare i crediti mancanti sostenendo esami di economia (ad esempio, statistica, matematiche, economia aziendale, ecc…) iscrivendosi a ogni singolo corso. I costi variano a seconda degli atenei: in alcune università è previsto un tot ad esame, in altre un costo per ogni singolo credito. Altro esempio: i laureati vecchio ordinamento dovranno sostenere esami di nuovo ordinamento da 12 crediti per ciascuna annualità richiesta.

Insegnanti: cos’è il Tfa? Fino a qualche anno fa si parlava di Ssis, oggi di Tfa: la sostanza non cambia. È il Tirocinio Formativo Attivo che si svolge annualmente presso le università italiane e che permette di conseguire l’abilitazione all’insegnamento. Si tratta di un corso universitario a tutti gli effetti, a numero chiuso: si accede, cioè, previo superamento di un test d’ingresso consistente in tre prove, test a risposta multipla, prova scritta e prova orale. Implica il versamento delle tasse che, a seconda dell’area geografica, oscillano da un minimo di 1.000 sino ad un massimo di 3.000 euro, a seconda anche della propria situazione economico-patrimoniale che viene indicata all’atto dell’iscrizione. I corsi in questione durano 1500 ore, per un totale di 60 crediti universitari. Il numero dei posti disponibili e le modalità di svolgimento per regione vengono resi noti annualmente dal Miur nel momento della pubblicazione del bando di concorso.

Insegnanti: cosa sono le fasce di insegnamento? Sia per le scuole dell’infanzia ed elementari che per le scuole medie e superiori, vale la regola secondo cui gli aventi diritto, a seconda del punteggio presentato, vengono inseriti in delle graduatorie nazionali:

1ª e 2ª fascia: vengono inseriti gli insegnanti muniti di abilitazione con i punteggi elevati e medi;

3ª fascia: vengono iscritti, ogni tre anni, i laureati privi del titolo di abilitazione i quali, per accedere alle supplenze possono indicare solamente 10 scuole per provincia. Se non si riesce ad accedere nemmeno alla 3ª fascia, si può compilare una domanda di messa a disposizione: in questo modo si manifesta la propria disponibilità ad effettuare delle supplenze, da inviare, via posta elettronica certificata (Pec) o a mezzo raccomandata a/r, alle scuole di interesse.

Insegnanti: come lavorare senza abilitazione? Un buon modo per provare a fare una prima esperienza di insegnamento pur non avendo l’abilitazione è inviare il proprio curriculum ai centri studi e alle associazioni di ripetizioni. Nella maggior parte dei casi, non si avrà una classe di studenti ma un gruppo ristretto di alunni o un solo studente a cui impartire lezioni frontali. Un altro modo per insegnare senza abilitazione è quello a cui abbiamo fatto riferimento poco sopra: l’invio delle domande di messa a disposizione, cui cui l’aspirante docente di propone per eventuali posti vacanti e sostituzioni di breve durata nelle scuole pubbliche. A differenza di quanto si pensa, anche per le scuole paritarie (scuole private, non statali, che sono abilitate a rilasciare titoli di studio con valore legale) è necessaria l’abilitazione. Tuttavia, in casi particolari (quando, per esempio, si ha difficoltà a reclutare insegnanti in possesso di abilitazione), si può essere chiamati a insegnare, per supplenze, anche senza titolo di abilitazione all’insegnamento.

Insegnanti: fac simile domanda di messa a disposizione.

DOMANDA DI MESSA A DISPOSIZIONE FINALIZZATA ALLA STIPULA DI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO

Al Dirigente Scolastico (Indirizzo scuola)

Oggetto: domanda di messa a disposizione per supplenze di docente per l’a.s. …

Il/la sottoscritt …, CF …, nato/a a … Prov. …, il …, residente a… in via…; tel (fisso e mobile), e-mail … ,

presenta domanda di messa a disposizione in caso di esaurimento delle graduatorie d’istituto per le seguenti tipologie di posto e/o classi di concorso:

– per le seguenti classi di concorso della scuola … (elementare, media, ecc)

A tale scopo, consapevole delle sanzioni penali, nel caso di dichiarazioni non veritiere, di formazione o uso di atti falsi, richiamate dall’art. 76 del D.P.R. 28/12/2000 n. 445, così come modificato e integrato dall’art. 15 della Legge 16/1/2003 n. 3; dichiara sotto la propria responsabilità

– di essere cittadino/a italiano/a;

– di godere dei diritti civili e politici;

– di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della normativa vigente;

– di non essere sottoposto a procedimenti penali;

– di possedere il seguente titolo di studio: … (laurea) presso Università …; e che nel proprio piano di studio sono stati superati i seguenti esami necessari per accedere alla seguente classe di concorso della scuola …: …(crediti universitari – CFU). 

Luogo, data,             Firma

DOCENZA: CHI TANTO; CHI NIENTE. DOCENTI PRECARI O CON IL DOPPIO LAVORO (ILLEGITTIMO).

La Finanza al Primo Policlinico, nel mirino 260 camici bianchi Si indaga sulla doppia attività, scrive Fabio Postiglione sabato 30 dicembre 2017 su "Il Corriere del Mezzogiorno".  Medici stipendiati dall’università che gestiscono in prima persona due o tre studi privati, che svolgono lezioni, che partecipano a seminari e corsi di formazione remunerati o che sono addirittura dipendenti occulti di centri diagnostici sparsi in tutta la Campania. L’inchiesta ribattezzata «incaricopoli», di cui il Corriere del Mezzogiorno ha scritto ad inizio dicembre raccontando che aveva già coinvolto ben cinque facoltà dell’università Federico II, è tutt’altro che finita e ha travolto con la forza di un uragano anche la Seconda università di Napoli, ovvero il vecchio Policlinico della città in piazza Miraglia. La Guardia di Finanza ha sequestrato l’elenco di tutti i medici e ricercatori assunti a tempo pieno dall’Ateno Vanvitelli: 260 nomi finiti nel mirino della Procura della Corte dei Conti della Campania sui quali sono in corso accertamenti. Si ipotizza un danno erariale enorme e che supera il milione di euro. Soldi che sarebbero dovuti finire nelle casse dell’università e che invece sono sui conti correnti di medici e professori che non hanno dichiarato al proprio Ateneo di essere di pendenti o liberi professionisti in altri studi e di lavorare dunque, in concorrenza con il proprio datore di lavoro. Uno scandalo che rischia di sconvolgere un intero sistema che va avanti da anni, forse da sempre. Una inchiesta della prima area del Nucleo tutela spesa pubblica della Finanza, depositata sulla scrivania del pubblico ministero della procura contabile Ferruccio Capalbo. I militari, coordinati dal colonnello Pirrera e dal comandante del Nucleo Giovanni Salerno, sono entrati in azione per verificare quanti dei professionisti assunti a tempo pieno dal «Policlinico» svolgono doppie, triple e quadruple attività senza essere autorizzati. Il 3 agosto del 2011 un documento interno della Seconda università con numero di protocollo 27647 metteva in guardia tutti i docenti su cosa fare e cosa no. Una circolare con il chiaro scopo di limitare al massimo ogni violazione. Il rettore Francesco Rossi stilò un elenco di tutte le attività permesse (lezioni, seminari occasionali, collaborazioni scientifiche e consulenze, comunicazione scientifiche e culturali) e quelle vietate perché in violazione dei regolamenti e della legge, tra le quali quelle di libero professionista. È l’articolo 53 del decreto legislativo del 30 marzo del 2001, poi parzialmente modificato con la legge Gelmini del 30 dicembre del 2010, a stabilire per il professore il divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo «tranne che la legge o altra fonte normativa ne prevedano l’autorizzazione», che deve essere sempre rilasciata dall’amministrazione di appartenenza, quindi dalla «Vanvitelli». Questo vuol dire che è fatto assoluto divieto per ogni professore universitario e medico a tempo pieno di svolgere l’attività libero professionale in assoluto, se questa è svolta con continuità, e la necessità, invece, di avere l’autorizzazione dell’Ateneo, se invece è svolta occasionalmente. Quest’obbligo di comunicazione spetta non solo al docente, ma anche all’ente pubblico o privato e alla società che «assume» il professore. Alla Federico II nel mirino dei pubblici ministeri contabili e della Guardia di Finanza ci sono sopratutto le attività di consulenza che «non vanno intese come qualcosa di diverso dalla collaborazione scientifica, di cui conserva la stessa natura e caratteristiche». Quindi anche i «consigli professionali remunerati», che decine di professori rilasciano ad enti pubblici, vanno autorizzati. I danni. Per l’erario viene ipotizzato un vulnus contabile di circa un milione di euro per le ore di lavoro mancate.

La Finanza in cinque Dipartimenti, s’indaga sui docenti a tempo pieno che svolgono altri lavori, scrive Fabio Postiglione il 7 dicembre 2017 su "Il Corriere del Mezzogiorno".  Cinque facoltà e sessanta docenti: l’università Federico II è finita nel mirino della Guardia di Finanza di Napoli e della Corte dei Conti della Campania che stanno indagando su doppi e tripli incarichi dei professori assunti a tempo pieno, i quali hanno lavorato e lavorano senza aver avuto preventivamente l’autorizzazione da parte dell’Ateneo. L’elenco è lungo, così come l’informativa redatta dopo l’accurato lavoro svolta dalla Prima Area del Nucleo Tutela spesa pubblica della Finanza, depositata sulla scrivania del pubblico ministero della procura contabile Ferruccio Capalbo. I militari, coordinati dal colonnello Pirrera e dal comandante del Nucleo Giovanni Salerno, hanno setacciato gli uffici dei dipartimenti di Giurisprudenza, Ingegneria, Medicina, Architettura e Scienze Politiche alla ricerca degli elenchi dei docenti che sono assunti a tempo indeterminato, iscritti nello speciale albo professionale del ministero dell’Istruzione, con la clausola «del lavoro svolto in esclusiva» e con una maggiore indennità in busta paga. Questa lista è stata confrontata con i nomi dei docenti che svolgono incarichi professionali, per così dire, privati, anche questi a tempo pieno: avvocati, consulenti ministeriali o di Tribunale e Procura. Ma anche ingegneri che lavorano per agenzie di pratiche automobilistiche, per i cantieri sparsi in tutta Italia. Ancora architetti impegnati in lavori di ristrutturazione e soprattutto medici, di ogni rango e specializzazione che hanno studi privati quasi del tutto «nascosti». Dai duecento professori inizialmente finiti sotto la lente d’ingrandimento, si è scesi a sessanta: sono loro che non avrebbero, ad un primo riscontro, alcun titolo per poter lavorare da privati facendolo contemporaneamente alle attività di docenti universitari assunti a tempo pieno. È l’articolo 53 del decreto legislativo del 30 marzo del 2001, poi parzialmente modificato con la Legge Gelmini del 30 dicembre del 2010, a stabilire per il prof il divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo «tranne che la legge o altra fonte normativa ne prevedano l’autorizzazione», che deve essere sempre rilasciata dall’amministrazione di appartenenza, quindi dalla Federico II. Questo vuol dire che è fatto assoluto divieto per ogni professore universitario a tempo pieno di svolgere l’attività libero-professionale in assoluto, se questa è svolta con continuità, e la necessità, invece, di avere l’autorizzazione dell’Ateneo, se invece è svolta occasionalmente. Quest’obbligo di comunicazione spetta non solo al docente, ma anche all’ente pubblico o privato e alla società che «assume» il professore. Nel mirino dei pubblici ministeri contabili e della Guardia di Finanza ci sono sopratutto le attività di consulenza, intese come risoluzione di problematiche concrete, che «non vanno intese come qualcosa di diverso dalla collaborazione scientifica, di cui conserva la stessa natura e caratteristiche». Quindi anche i «consigli professionali remunerati», che decine di professori rilasciano anche ad enti pubblici, vanno autorizzati. Se accertato, sarebbe un danno enorme per la Federico II e quindi per le casse dello Stato. Innanzitutto perché i professori ricevono una indennità speciale proprio per la propria attività di docenti svolta in maniera esclusiva con una maggiorazione economica consistente in busta paga, e poi perché il professore con il doppio incarico, se non autorizzato e quindi «fuorilegge», dovrebbe versare il compenso ricevuto all’università.

Incarichi ai prof, indaga la Finanza, scrive Alessio Gemma il 22 settembre 2017 su "La Repubblica". I professori tremano da mesi, l'indagine dal livello nazionale approda ora sul territorio regionale. E bussa alle porte degli atenei campani, partendo dalla Federico II. Docenti universitari nel mirino della Guardia di finanza. Sono in corso accertamenti sugli incarichi professionali cumulati dai prof come "attività libero professionali". Perchè quegli incarichi non sono compatibili con il ruolo di docente a tempo pieno. E costituiscono un "danno erariale" alle casse delle università. Si muove la Procura della Corte dei conti che aveva già un precedente - che si è concluso a marzo scorso in appello – con l'università Parthenope. Ma i controlli sono destinati ad allargarsi. Si tratta di consulenze aziendali, poltrone nei cda di aziende private. E finanche le nomine nelle curatele fallimentari da parte del tribunale: gli investigatori stanno valutando l'ipotesi di approfondire proprio il filone degli incarichi attribuiti dalla sezione fallimentare. Uno spunto investigativo che nasce dal caso di un noto docente di diritto commerciale che insegna alla facoltà di Scienze politiche della Federico II, finito negli ultimi mesi ai raggi X dei finanzieri dopo una denuncia e un accesso agli atti inoltrato all'istituto federiciano. La posizione di quel docente è finita sulla scrivania del sostituto procuratore Ferruccio Capalbo. E a Repubblica risulta che di recente il professore, curatore fallimentare, avrebbe cambiato status d'intesa con l'università: passando dal "tempo pieno" a "tempo definito", l'unico regime che consente di svolgere incarichi professionali extra, aprendo apposita partita Iva. Intanto il primo passo per l'inchiesta è verificare se dagli accertamenti compiuti dal nucleo nazionale di tutela della spesa ci sono riscontri anche su attività extra condotte da docenti delle università campane. I controlli riempiono già il passaparola tra colleghi. E una delle questioni più dibattute riguarda l'eventuale autorizzazione richiesta alle università per gli incarichi. Perchè la sentenza di appello della Corte dei conti sulla Parthenope ha chiarito che "il dovere di esclusività del docente trova la sua ratio nella esigenza di evitare conflitti di interesse quando l'attività pubblica che dovrebbe essere esclusiva è un'attività didattica. E mira a impedire di trarre utilità, dirette o indirette, da tale attività didattica". Per i dieci professori della Parthenope, tra cui i vertici dell'istituto, dal rettore Alberto Carotenuto, all'ex rettore Gennaro Ferrara, fino al professore Federico Alvino, è scattata la prescrizione per i fatti contestati dal 2003 al 2007: questo il verdetto per nove docenti più una assoluzione nel merito. Un proscioglimento che non ha escluso la possibilità per l'ateneo di pretendere la restituzione delle somme: 1,1 milioni di euro contestati.

Doppio lavoro, docenti condannati a risarcire l’Università. Un prof di Ingegneria dovrà pagare 126 mila euro. Un collega, sempre per cumulo di impieghi, 64 mila, scrive il 31 ottobre 2017 "Il Corriere della Sera”. Un docente dell’Università di Bologna è stato condannato dalla Corte dei conti regionale al risarcimento di un danno erariale di circa 126 mila euro in favore dell’Ateneo, per attività libero-professionale in situazione di incompatibilità e senza autorizzazione. Al professore di Ingegneria, portato a giudizio per il "doppio lavoro", la Procura contabile contestava i compensi percepiti tra maggio 2013, quando aprì una partita Iva e iniziò ad occuparsi di valutazioni di progetti e consulenze per soggetti pubblici o privati e in procedimenti giudiziari, e il 2015. Nel condannarlo, i giudici sottolineano che la responsabilità del docente, 49 anni, diventato ordinario dal 2014, non riguarda la semplice tenuta di una partita Iva, ma «il suo consapevole utilizzo per svolgere un’attività libero professionale, cioè non meramente occasionale». La Corte ha invece escluso dal risarcimento i compensi percepiti per lezioni e seminari occasionali.

Un altro caso. In giornata è stata poi depositata una seconda sentenza della Corte, su un caso simile e che vedeva a giudizio un altro docente di Ingegneria, sempre per cumulo di impieghi. In questo caso il professore, un associato di 53 anni, con motivazioni analoghe è stato condannato dai giudici a risarcire circa 64 mila euro: aveva dichiarato redditi percepiti da società e da soggetti privati dal 2006 in avanti, oltre a quelli di lavoro dipendente per l’attività di insegnamento. La sentenza ha dichiarato prescritte le somme precedenti al 2011.

Prof col doppio lavoro all'Università di Bologna: 25 docenti segnalati alla Corte dei conti. Il caso a Ingegneria: "Attività incompatibili con l'insegnamento". Stimato un danno erariale di quasi 4 milioni di euro, scrive Giuseppe Baldessarro il 22 settembre 2017 su "La Repubblica". La Guardia di finanza di Bologna ha segnalato alla Corte dei conti tredici professori e dodici ricercatori dell’Università per aver svolto attività lavorative incompatibili con l’impiego accademico, svolgendo cioè un doppio lavoro: per le Fiamme gialle il danno erariale è di quasi 4 milioni di euro. Uno dei casi era già scoppiato a marzo e riguardava un professore condannato a risarcire 240 mila euro. Da quell'episodio è partita un'inchiesta a tappeto. Le altre vicende sono emerse nel corso dell'anno. Per sette docenti è stato già chiesto il giudizio e i processi inizieranno a ottobre. Per gli altri si stanno istruendo le pratiche. Il caso è sul tavolo del procuratore regionale della Corte dei conti Carlo Alberto Manfredi Selvaggi. Tutti i docenti sono del dipartimento di Ingegneria. In alcuni casi facevano attività professionale fuori dall'ateneo senza autorizzazione, che è obbligatoria. In altri casi, pur essendo autorizzati, avevano la partita Iva: questo dimostrerebbe che non si tratta di prestazioni occasionali ma sistematiche, altro aspetto vietato dalla legge. 

Incarichi e consulenze all'Università, stangata dei giudici. Prof di Ingegneria risarcirà i danni per aver svolto anche attività professionale. La Corte dei Conti fissa i paletti per i docenti a tempo pieno dell’Ateneo, scrive Tommaso Siani il 28 marzo 2017 su "La Città di Salerno". Per i professori universitari a tempo pieno è confermato il divieto assoluto di effettuare attività libero-professionale, se svolta con continuità; e la necessità di richiedere l’autorizzazione all’Ateneo di appartenenza se svolta, invece, occasionalmente. I giudici della Corte dei Conti della prima sezione centrale d’Appello (presidente Enzo Rotolo; relatore Elena Tomassini) hanno risolto così uno degli equivoci sorti nel mondo accademico in materia, appunto, di prestazioni professionali e/o consulenze dei docenti a tempo pieno. E lo hanno fatto nel motivare una sentenza di condanna di un professore della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Salerno incappato nelle maglie della giustizia contabile proprio a causa della sua attività professionale espletata fuori dall’Ateneo. E questo perché – scrivono i giudici – dalla natura degli incarichi ottenuti dal docente, «si evince chiaramente che non si trattava di consulenza in materia scientifica, ma di fornire risoluzione a problematiche concrete e, quindi, di espletamento di attività libero-professionale». La sentenza e l’appello. La sentenza al risarcimento del danno provocato all’Università di Salerno fu depositata il 10 febbraio dello scorso anno. I giudici condannarono il docente a pagare 64mila euro proprio per una serie di incarichi professionali che l’ingegnere aveva espletato sebbene fosse dipendente a tempo pieno dell’Università. La vicenda era stata segnalata alla Corte dalla Finanza nel luglio 2014: le “fiamme gialle” avevano infatti rilevato una serie di irregolarità emerse durante le indagini svolte sui docenti a tempo pieno dell’Ateneo Salernitano. I giudici, al termine dell’istruttoria, contestarono al professore una serie di presunti danni erariali, che portarono alla fine ad una condanna, subito appellata dai difensori dell’ingegnere. I motivi del ricorso. Tra i numerosi motivi d’appello proposti dai legali del docente, uno in particolare aggrediva la normativa in materia di prestazioni libero-professionali di docenti universitari a tempo pieno. Ai sensi della legge in materia, poi modificata dalla cosiddetta “legge Gelmini” «i professori potevano svolgere liberamente, tra le altre, attività di collaborazione scientifica e di consulenza, come interpretato da tutte le altre università italiane, tra cui quella di Napoli “Federico II” e di Verona. In tale contesto, dunque, le attività svolte erano assolutamente legittime, essendo qualificabili come consulenze, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte territoriale nella sua restrittiva ed errata interpretazione», riassumono i giudici. A sostegno di questa tesi i legali hanno richiamato anche una nota del Rettore dell’Università di Salerno, in risposta alla Procura regionale campana, «che sottolineava la possibilità di svolgimento libero di “qualsiasi attività di consulenza”, senza alcuna autorizzazione dell’ente di appartenenza». E questo perché, «l’esperienza professionale concreta, in talune materie, era fonte insostituibile di arricchimento per le attività didattiche». Dunque, dei quattro incarichi svolti dal professore di Ingegneria, «nessuno aveva arrecato danno erariale, tenuto conto della riconosciuta contemporanea attività di docenza svolta». I motivi della Corte dei Conti. Pur volendo prendere in considerazione tutte le argomentazioni della difesa sulla natura degli incarichi (consulenze), per i giudici d’Appello della Corte dei Conti il risultato non cambia. I magistrati contabili, infatti, analizzando l’oggetto dei quattro incarichi contestati, «si evince chiaramente che non si trattava di consulenza in materia scientifica, ma di fornire risoluzione a problematiche concrete e, quindi, di espletamento di attività libero professionale. E, in ogni caso, come affermato da giurisprudenza anche recente (Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per l’Emilia Romagna, n. 37 del 2015, che ha esaminato funditus la questione delle autorizzazioni dopo l’entrata in vigore della legge “Gelmini”), deve ritenersi che l’art. 6, comma 10, per i docenti a tempo pieno, vada letto unitamente al successivo comma 12, dedicato ai professori a tempo definito, per i quali, invece, l’unico limite per lo svolgimento delle attività libero-professionali è costituito dall’assenza di conflitto di interesse con l’ateneo di appartenenza». Da ciò i giudici contabili desumono che, «per i professori a tempo pieno rimane il divieto di espletamento di attività libero professionale in assoluto, se svolta con continuità, e la necessità di previa autorizzazione dell’Ateneo di appartenenza se svolta occasionalmente». L’attività di consulenza, dunque, «non va intesa come qualcosa di diverso dalla collaborazione scientifica, di cui conserva la stessa natura e caratteristiche e non può in ogni caso coincidere, confondendosi, con l’attività libero-professionale con il privato o con il pubblico». Tale attività «non è possibile in quanto «l’esercizio di attività libero-professionale è incompatibile con il regime di tempo pieno». Diversamente, osservano, «l’attività di consulenza, intesa come consulenza scientifica, diventa possibile anche per i professori a tempo pieno, così come espressamente previsto per tutte le altre attività compatibili citate nel comma 10. Diversamente opinando, infatti, il divieto sarebbe facilmente aggirabile, per i professori a tempo pieno, indicando come mere consulenze incarichi che, invece, hanno natura libero professionale». «Non è inutile ricordare – aggiungono i magistrati – che i nominativi dei professori a tempo pieno vengono comunicati all’Ordine professionale al cui albo i professori risultano iscritti al fine della loro inclusione in un elenco speciale». Come dire, i limiti e le prescrizioni, in questi casi, sono ben noti. Alla fine i giudici hanno confermato la condanna del docente e, escludendo alcune delle contestazioni, hanno fissato il risarcimento in 38mila euro.

Scuola, la sentenza del Consiglio di Stato fa le “prime vittime” in Puglia! Scrive Luca Pennacchia l'11 gennaio 2018 su "faccecaso.com". Diplomati magistrali fuori dalle graduatorie, si parte dalla Puglia. L’anno nuovo porta con se i primi malumori e le prime proteste sul fronte scuola. Protagonisti i docenti diplomati alle magistrali che sono stati estromessi dalle graduatorie a esaurimento. L’ultima sentenza del Consiglio di Stato allontana gli insegnanti in possesso di diploma magistrale conseguito entro il 2001 dalla possibilità di un posto fisso. Un provvedimento che ha conseguenze devastanti per 50 mila docenti che tornano nuovamente precari. Per loro, non resta che fare supplenze fino alla pensione, o rimettersi sui banchi a studiare per tentare i concorsi. Ma c’è di più: chi è entrato in graduatoria con riserva, grazie ai provvedimenti cautelari dei tribunali, con tutta probabilità sarà espulso. Con il rischio che perfino quelli che erano già assunti debbano lasciare il posto. Insomma, un vera e propria beffa dal momento che le altre sentenze erano state definitive e favorevoli. Le “prime vittime” della decisione del Consiglio di Stato sono le maestre della Puglia, che non saranno inserite nelle graduatorie a esaurimento. “Malgrado le rassicurazioni giunte dal Ministero dell’Istruzione denuncia il sindacato Anief giungono disposizioni negative sui nuovi contratti a tempo determinato da stipulare sino alla fine dell’anno scolastico”. Inevitabili le proteste, con le insegnanti che hanno dato vita a un sit-in davanti alla sede dell’Ufficio scolastico regionale a Bari nella giornata di lunedì per protestare contro la sentenza del Consiglio di Stato. All’indomani della protesta, l’Ufficio scolastico di Lecce ha diffuso una nota indirizzata ai dirigenti scolastici che da il via libera di fatto all’attuazione del provvedimento. Le maestre precarie dell’infanzia saranno convocate per sottoscrivere un contratto di supplenza sino al prossimo 30 giugno. La contromossa dell’Anief non si è fatta attendere. “Sicuramente impugneremo in Cassazione la sentenza del Consiglio di Stato e abbiamo già predisposto un ricorso alla Corte di Giustizia europea e una petizione al Parlamento europeo”. Dal canto suo, il ministro Fedeli cerca di smorzare i toni parlando di un “allarmismo ingiustificato” e ribadisce l’impegno a trovare le soluzioni più adatte. Ma la triste realtà è che il pasticcio è già stato fatto e risolverlo sarà difficile.

I precari della Scuola pubblica si incontrano a Milano su iniziativa dell’Associazione Nazionale Docenti per i Diritti dei Lavoratori, scrive "Orizzonte scuola" il 9 gennaio 2018. I precari della Scuola pubblica si incontrano a Milano su iniziativa dell’Associazione Nazionale Docenti per i Diritti dei Lavoratori. Assemblea domenica 14 gennaio a Milano, presso il liceo scientifico “B. Pascal” via Alfonso Corti,16 Lambrate Milano, alle ore 9:30 – A Milano si terrà l’assemblea in difesa dei precari della scuola, si tratterà di temi cruciali e scottanti quali: docenti di terza fascia con anni di esperienza trasformati in tirocinanti; docenti “vittime” dell’algoritmo; potenziatori trasformati in un manipolo di tappabuchi; gae infanzia storiche dimenticate; diplomati senza esperienza in gae e in ruolo; un transitorio che mette pas contro tfa e tutti contro la terza fascia. La mission dell’Associazione Nazionale Docenti per i Diritti dei Lavoratori è stata fin dalla sua costituzione quella di far conoscere ciò che il segretario del Pd Renzi disconosceva. In particolare, nella prima versione del documento della Buona Scuola, i precari di Terza Fascia non erano nemmeno considerati precari, si ignorava la loro esistenza e funzione. Una profonda e sconfortante ignoranza che ha accomunato per mesi una vasta area dei nostri parlamentari. Lo abbiamo spiegato in 30 incontri, trenta viaggi a Roma per dialogare con varie forze politiche, quelle al Governo in primis. Convinti assertori che la soluzione ai problemi aperti dalla L. 107/15 fosse di natura politica e non dovesse seguire la via dei Tribunali. Abbiamo incontrato il Ministro, il sottosegretario, l’attuale e il precedente, ma chi ha deciso, lo ha fatto senza recepire i nostri avvisi. Dopo tanti ricorsi, vinti da qualcuno e persi da tanti altri e, dopo la Plenaria che ha deciso sul futuro dei Diplomati Magistrali, siamo del parere che in questi anni la politica abbia totalmente fallito. Alcune forze politiche si sono rivelate una grande delusione: hanno contestato la Buona Scuola e poi hanno votato il DL 59/17 che istituisce il FIT, i 24CFU a pagamento e non riconosce l’esperienza dei docenti precari come nel 2013, quando decine di migliaia di colleghi si abilitarono con il PAS, anche con solo 360 giorni di servizio. Quelli che ora, grazie al transitorio, andranno in ruolo a seguito di un concorso non selettivo per titoli e servizi. Una vera discriminazione tra lavoratori con eguale professionalità ed esperienza. Abbiamo organizzato Assemblee, Manifestazioni, Flash mob e lanciato appelli all’unità della categoria docente. Abbiamo sostenuto la causa dei colleghi abilitati, quella delle Gae infanzia storiche, degli AFAM e degli ITP. Sempre nell’ottica di valorizzare l’esperienza dei lavoratori e di non penalizzare chi, senza esperienza, ora si vede costretto a pagare per acquisire i 24 CFU, solo per partecipare ad un concorso che non assicura il ruolo, ma tre anni di precariato”. Il nostro obiettivo resta la valorizzazione dell’esperienza. Per tutti i docenti. Ci opponiamo fermamente al nuovo percorso di selezione del personale docente. Chi ha insegnato per anni è stato utile alla Scuola Pubblica, lo è attualmente e deve essere assunto. Senza se e senza ma! Questo concorso per gli abilitati, ora non più riservato, sempre per una sentenza di un Tribunale, è una farsa. Ed è una spregevole discriminazione non considerare chi, in Terza Fascia, insegna da anni. Tra le nostre richieste c’era la riapertura della Terza Fascia, in un primo momento ibernata dalla Buona Scuola. Una volta riaperta, però, si è rafforzata una verità che noi lavoratori conosciamo bene. I docenti di Terza Fascia servono a far funzionare l’Istituzione scolastica. Quindi occorre prevedere, oltre al percorso FIT, utile a chi è ancora studente universitario, un percorso di abilitazione parallelo, basato sull’esperienza acquisita sul campo! Chi tra qualche anno avrà accumulato tre anni di esperienza nell’insegnamento, non solo si sarà formato, ma lo avrà fatto perché serviva al Sistema scolastico. Quindi deve essere equiparato a chi oggi può usufruire di un percorso agevolato per entrare in ruolo. Non neghiamo l’importanza di una formazione ulteriore, ma non deve essere un alibi per mandare a casa migliaia di lavoratori, perché non abilitati!” Siamo contro la discriminazione tra i lavoratori. Non attaccheremo mai un nostro collega solo perché appartenente ad una “categoria” differente. Faremmo il gioco della politica che ci vuole divisi. Nonostante le mille difficoltà incontrate fino ad oggi, ci riprovo, perchè crediamo che unificare le lotte sia la nostra unica carta vincente contro una politica inconsistente e divisoria portata avanti da troppi gruppi politici fino ad oggi. Ognuno si è coltivato il proprio orticello ma riteniamo che dalla Scuola riceveranno picche alle prossime elezioni. Molti colleghi si preoccupano solo di aderire ai ricorsi. Noi li consideriamo solo una carta in più, ma la via maestra è la soluzione politica di Politici illuminati. Difficile trovarli in un parlamento composto da nominati che non devono confrontarsi con gli elettori-lavoratori. Ma non mollo, noi non molleremo! In più al Ministero, dove ho incontrato i vertici l’ultima volta a novembre, pare abbiano fatto passare la linea che siamo contenti del FIT, pur riconoscendo la forte discriminazione politica portata avanti contro i docenti di Terza Fascia. In questi giorni abbiamo letto di tante forze politiche scese a sostenere la causa dei DM perché, dicono, hanno esperienza. Ma ripeto, i Lavoratori – e per questo sottolineo il termine Lavoratori che è anche nel nome della nostra Associazione – sono in tutte le fasce. La soluzione può essere trovata per tutti, nel rispetto delle professionalità acquisite. Noi possiamo essere anche silenziosi, ma voteremo tutti. Per discutere di tutti questi temi ci incontreremo domenica 14 gennaio a Milano a partire dalle 9,30 e saremo presso il Liceo Scientifico “B Pascal”, via Alfonso Corti, n.16 – Lambrate – Milano. Prof. Pasquale Vespa, presidente Associazione Nazionale Docenti per i Diritti dei Lavoratori

Quello che i diplomati magistrali non dicono, scrive "Cuneo dice". Una lettera di tre associazioni di insegnanti delegittima la protesta dei giorni scorsi "La scuola non è un ammortizzatore sociale". Le tre associazioni, del Coordinamento Scienze della Formazione Primaria Vecchio e Nuovo Ordinamento e del Comitato tutela docenti precari GaE Infanzia e primaria legge 296/2006, circa 80 mila docenti, hanno diramato un comunicato congiunto, pubblicato dai siti d'informazione vicini all'ambiente dell'istruzione. Ci sembra interessante ripubblicarlo per aggiungere un nuovo punto di vista alla discussione sulla sentenza del Consiglio di Stato che, a fine dicembre, ha stabilito in via definitiva che gli insegnanti in possesso di un diploma magistrale conseguito entro il 2001/2002, ma privi della laurea, dovranno essere esclusi dalle graduatorie ad esaurimento. Protestano, ma non dicono che avevano ottenuto l’accesso alle Gae (graduatorie ad esaurimento chiuse nel 2008) con riserva, il che presupponeva un rischio poiché la strada del ricorso poteva anche avere esito sfavorevole, a differenza del concorso! Fa comodo sottoscrivere di volersi assumere il rischio di una decisione tanto incerta e poi, quando gli eventi non volgono al meglio, scaricare la responsabilità sullo Stato che illude! Protestano, ma non dicono che mentre si affidavano solamente al tentativo del ricorso, il MIUR ha bandito ben due concorsi (nel 2012 e 2016) per accedere al ruolo. Protestano, ma non dicono che grazie a questi ricorsi anche persone senza esperienza alcuna, sono riuscite ad accedere a supplenze annuali senza competenza, merito e preparazione. Protestano, ma non dicono che fino a che la plenaria non ha posto la parola “fine”, tutte le persone a zero servizio avevano sorpassato i laureati in Scienze della Formazione Primaria e migliaia di docenti diplomati, senza idoneità concorsuale, hanno avuto precedenza sui precari storici in GAE vincitori di concorso! Protestano, ma non dicono che non verranno licenziati, bensì acquisiranno semplicemente il dovere di studiare, come tutti i comuni mortali, per vincere un concorso ordinario comune a tutti gli aspiranti docenti di ruolo e ottenere la tanto agognata stabilizzazione.

IL RUOLO SI OTTIENE CON IL CONCORSO E NON CON IL RICORSO. 

LA SCUOLA NON É UN AMMORTIZZATORE SOCIALE.

Fare corretta informazione e rispettare la COSTITUZIONE, sono le uniche cose che ci sono rimaste.  “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. 

Siracusa, prof rimprovera alunno: i genitori gli spaccano una costola, scrive "online-news.it" l'11 gennaio 2018. I genitori di un ragazzo di una scuola siciliana hanno aggredito l’insegnante di educazione fisica a calci e pugni rompendogli una costola. Il professore è quindi stato costretto a ricorrere alle cure dei medici in ospedale. E’ accaduto ad Avola (Siracusa), all’istituto Vittorini, dopo che il docente aveva rimproverato il ragazzo. Il pestaggio si è svolto sotto gli occhi degli altri studenti e i carabinieri hanno denunciato la coppia. Avrebbe alzato la voce verso quell’alunno irrequieto durante la sua ora di educazione fisica. Un rimprovero, come ne avvengono quotidianamente tra i banchi di scuola. Ma lo studente, che ha 12 anni, ha deciso di avvertire subito i suoi genitori per fargliela pagare. I genitori, papà operaio e mamma casalinga, sono arrivati nel cortile dell’Istituto Vittorini ad Avola e hanno cominciato a picchiare con calci e pugni l’insegnante di 60 anni. Il docente è stato ricoverato in ospedale. La prognosi è di 10 giorni per la frattura di una costola. Solo l’intervento di altri docenti ha evitato peggiori conseguenze.

E’ malata la scuola, non solo quel prof del liceo romano, scrive "online-news.it" il 9 gennaio 2018. Seguiamo sempre la politica degli struzzi, fingiamo che i problemi non esistano, e fingiamo di stupirci (o magari lo stupore è reale) quando emergono situazioni fuori controllo. Ora si fa un gran parlare della inquietante vicenda che sta sconvolgendo la vita dello storico liceo di Roma, il Tasso. La tv di Stato ci ricava sopra un lungo servizio alle dieci di mattina, un servizio impegnato e indignato. Orrore per quel docente che riempie di messaggini e di attenzioni le sue allieve. Lo sapevano in tanti, i colleghi “vigilavano”, ma tutto scorreva egualmente. Alla faccia del contesto formativo, educativo, culturale. C’è voluta l’intervista sul CorSera per rendere tutti partecipi. Ma arrivano subito anche le rassicurazioni di rito, è un fatto isolato, ci mancherebbe, la scuola ha anticorpi sufficienti. Non ci rendiamo nemmeno conto di avere sotto gli occhi una emergenza cento, mille volte più grave. Quel prof qualche problema comportamentale ce l’ha certamente, va allontanato, curato, punito. Ma la grande malata è la scuola, con tutto quel che la circonda. Siamo alle prese con un caso gravissimo, certo, e sul quale le autorità scolastiche sarebbero dovute intervenire duramente, tempestivamente e con esemplare energia. Perché quando c’è anche solo il sentore che qualcosa di sbagliato, di malato, di pericoloso, stia accadendo nel rapporto docente-alunni dovrebbero scattare il controllo incrociato, l’intervento, la sanzione. Ma non accade quasi mai, e la letteratura giornalistica è ricca di episodi di questo genere gestiti nel peggiore dei modi. E qualche motivo ci deve essere. Chi controlla i controllori? E chi sostiene, indirizza, educa le famiglie? C’è tutto su google o serve qualcosa di più responsabile, strutturato, autorevole? Sta cambiando la società italiana, si dice da tempo e con elementi obiettivi in mano che il nostro è un paese al limite di una crisi di nervi collettiva e che la salute mentale della popolazione è fortemente a rischio. Siamo soggetti sempre più fragili, vulnerabili, e la convulsa tensione che ci accompagna con l’aria che respiriamo non fa che rendere tutto più complicato. Tragedie familiari, tragedie collettive, con il valore della vita umana a livelli da medioevo. Giorno dopo giorno le cose peggiorano, le situazioni esplodono. Manca un controllo, manca la regia di un controllo, manca la prevenzione, manca una strategia. Perché la scuola dovrebbe essere un universo a parte, immune, preservato dalle storture del sistema? E infatti non è affatto a parte, tutte le tensioni del mondo, dei genitori, dei docenti, si riversano in un unico imbuto. Alla fine del quale ci sono gli studenti, che per definizione sono nella fase della crescita, sono degli incompiuti, sono in progress. Un tempo venivano seguiti con cura, con amore, con attenzione, come il bene più prezioso della società. Oggi sono dei numeri, possono essere performanti o meno, l’unico valore che non si misura più è quello formativo/educativo. Ce ne rendiamo conto? Il problema di fondo è che nelle esternazioni retoriche la scuola è il centro del mondo, il tempio della educazione, la fucina nella quale vengono costruiti gli italiani del futuro, dalla quale escono le nuove classi dirigenti, i nuovi cittadini; in realtà è poco più un parcheggio, quasi sempre scomodo e indecoroso, di un diplomificio e soprattutto un serbatoio inesauribile di posti di lavoro, fissi o precari che siano. Da tempo non si prendono più le misure di quel che la scuola è diventata, e non è questione di un congiuntivo sbagliato da parte di un ministro. Scuola specchio della realtà esterna, certo, e dunque come tale a forte rischio di implosione. Un tempo sulla scuola ci si concentrava. Su programmi, sulla formazione dei docenti, sulle strategie. Ora non più. Per ragioni di comodo si è voluta l’autonomia, per ragioni di comodo e di bottega si fanno e si disfano i concorsi, si premiano e si puniscono i precari, si modificano gli assetti dei corsi di studi senza troppe attenzioni alla logica e alla realtà. Si gioca con l’opzione lavoro illudendo e prendendo in giro tutti. E si esce dalla scuola – quando si esce integri, vivi – con un senso di sollievo, di liberazione. Episodi come quello del prof del Tasso servono per far riflettere? Macchè. Roma ha una attenzione in più da parte dei media, ma attenzione, che ci sia una giusta percentuale di torbido e proibito, così il sapore della informazione è più appetibile. Qualcuno ricorda ancora le polemiche seguite alla occupazione del Virgilio (rave, droghe, filmini hard)? Certo che no, tutto digerito. Invece la scuola andrebbe curata, seguita con attenzione. Utopie?

LA SCUOLA DA ROTTAMARE.

L'italiano degli studenti? Ci lascia senza parole. Uno studio rivela: i ragazzi (dalle medie inferiori all'università) hanno seri problemi con la lingua. Impera un minimalismo pop. E ogni pensiero poco più che elementare è ignorato, scrive Massimo Arcangeli, Giovedì 1/06/2017, su "Il Giornale". Lo Zanichelli Junior è un dizionario molto ben strutturato, di 36.000 voci, 64.000 significati, 55.000 esempi, 43.000 sinonimi, contrari e analoghi, 450 note grammaticali e d'uso. Redatto da nove diversi autori, si apre con la dichiarazione di voler aiutare «gli studenti della scuola secondaria ad ampliare il lessico, approfondire la conoscenze e scrivere meglio» (Presentazione, pag.3). Studenti che ringrazieranno. Il mondo sarà anche barocco come pensava Carlo Emilio Gadda, che scrisse una volta di sé di essere ingordo di voci doppie, triple o quadruple per dire la stessa cosa («I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d'uso corrente, o d'uso raro rarissimo», Lingua letteraria e lingua dell'uso, 1942), ma su tanti giovani e giovanissimi, con la complicità di molti (scuola, università, editoria in testa), impera ormai un minimalismo pop in nome del quale si vorrebbe abbattere tutto ciò che appaia di ostacolo alle esigenze di una comunicazione tanto pervasiva quanto refrattaria ad accogliere anche solo un minuzzolo di pensiero complesso. È l'inganno dell'accessibilità, o l'illusione della semplicità. Farebbe rivoltare nella tomba perfino il Manzoni, con il suo «potatorio» provincialismo di bottega. Parlano chiaro gli esiti di un test nazionale, realizzato dal sottoscritto e da Claudia Colafrancesco per l'associazione «La parola che non muore», che ha visto coinvolti quasi 900 studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado, in maggioranza liceali (più dell'80% del campione delle superiori) e, per il rimanente, iscritti ad alcuni istituti tecnici e professionali; tre quarti di loro, provenienti da una buona metà delle regioni italiane, frequentano la media superiore, i restanti la media inferiore. Agli studenti testati si è chiesto di contestualizzare - dopo averne indicato uno o più sinonimi - trenta parole più o meno «difficili», e la bassissima percentuale delle risposte corrette ottenute induce a riflettere. Più del 70% degli esaminati non ha la più pallida idea di cosa significhino desumere, futile, morigerato, ponderare, redimere, tenacia, tergiversare; sono appena meno numerosi quelli che non conoscono arguire, dirimere, indolenza, redarguire; non raggiunge il 70% la quota di chi comprende aroma, la parola - insieme a menzionare - meno impegnativa della serie. Per ponderare è stato scritto di tutto: c'è chi ha pensato a sedersi («Prego, ponderati sulla sedia») o a riposare, chi a scendere o a rinfilare («Angelo ha ponderato la sua spada»), chi a pungere, puntellare o stuzzicare, chi a ricoprire («Il divano è ponderato di polvere»), chi a svelare («Luca ha ponderato tutti i suoi segreti alla classe»). Ma gli studenti medi non sono i soli ad avere problemi con il lessico colto dell'italiano, o con le parole che si attestano su un gradino immediatamente sopra l'uso comune, su un registro appena sostenuto, o con i termini di una formalità discreta o in ogni caso poco pronunciata. «Lui è l'adepto alla manutenzione». «L'afflizione dei nuovi manifesti». «Collimare un vuoto». «Son desueto nel dormire nel dopopranzo». «Io esimo spiegazioni». «Si è assentato da lavoro senza giustificazione. È un indigente». «Ti redimo dal tuo incarico». Sono solo alcuni degli esempi partoriti dalle 196 matricole di un corso universitario cagliaritano (141 femmine e 55 maschi) alle quali ho sottoposto, nell'autunno del 2012, un test identico a quello somministrato al precedente campione: le prime quattro confondono adepto, afflizione, collimare e desueto con addetto, affissione, colmare, solito; le restanti tre scrivono esimere, indigente e redimere, ma intendono pretendere, inadempiente, sollevare. Abbietto, accibia, diatrima, emonumento (o emulumento), igniquo, ligore, otenebrare, perspicacie, procastinare, sorbido invece di abietto, accidia, diatriba, emolumento, iniquo, livore, ottenebrare, perspicace, procrastinare, sordido. Perle prodotte da più di un terzo di 13 studenti italiani (madrelingua) di secondo anno, di un ateneo privato padovano, interpellati con le stesse modalità su esposte. Le parole interessate, dettate in modo nitido e molto lentamente (quasi a sillabarle, nemmeno fossero vocaboli stranieri), erano qui parte di un insieme di 35 parole comprendenti algido, auspicare, caparbio, cattività, congettura, defezione, duttile, emendare, greve, indefesso, monile, nemesi, orpello, peculiare, perentorio, pernicioso, pleonastico, progenitore, relegare, strabiliante, svellere, tracotante, turpe, vacante, zelo. Significativo, di quei 13 studenti, il numero di chi ha lasciato in bianco il rigo relativo all'una o all'altra voce, non sapendone indicare né sinonimi né esempi d'uso: 11 per ottenebrare e svellere, 10 per orpello, pleonastico, sordido, 10 per livore, nemesi, indefesso, 9 per abietto. Per alcuni di loro l'accidia è desiderio, acidità o cattiveria; la congettura è una regola, e un orpello è un rumore; un emolumento è un bonifico, e la defezione un difetto o un'imprecisione («Era presente una piccola defezione nel contratto»); la nemesi è un nemico o un antagonista, o addirittura un prologo. Per altri una persona caparbia è saggia o intelligente, una abietta è povera, inetta, incapace; dire algido è significare gelatinoso, dire greve è intendere goffo («i suoi movimenti sono difficili e grevi»); una cosa iniqua è scarsa («I fondi rimasti sono iniqui»), ingenua, indifferente o inconsapevole, una peculiare è molto similare («la descrizione è peculiare all'artefatto»). Per altri ancora vacante significa instabile; relegare vuol dire unire o assegnare; procrastinare ed emendare esprimono il valore di tramandare e stabilire. Di svellere si danno, come sinonimi, rivelare e spogliare («L'uomo non voleva svellere la donna»); progenitore viene spiegato ora con trascendenza, ora con inventore, ora con genitore non naturale; i bizzarri coprente, selvaggio e trasferente rendono zelo, cattività e duttile, ma lo zelo può anche rivelarsi un'espansione o un'apprensione. Un tracotante è un pedante, ma può essere tracotante (leggi: traboccante) anche un vaso. Ciò che è pleonastico è una pietra miliare («quello di domani sarà un evento pleonastico»), relegare è come dire affidare a qualcun altro («ha relegato i suoi doveri al fratello»; qui il galeotto è delegare), sordido è il rumore generato da una scrosciante massa d'acqua o rilevato in un ambiente («Sentii un rumore sordido provenire dalla cucina»). Sarebbe sordo, ovviamente. Ma pensiamo alla possibilità di sonorità soffocate o smorzate per le cascate del Niagara, o dell'Iguazú, e ci passa subito la voglia di andarle a vedere. Se oggi il numero di chi scrive in modalità digitale, confrontato con quello degli scriventi dell'era predigitale (anche solo di una ventina di anni fa), è molto più elevato, va registrata, per molti giovani, l'insufficienza di una lingua (e di una logica) che abbia almeno un pizzico di riguardo per la varietà lessicale e lo spessore semantico e, più in generale, si ancori a una qualunque terra o attecchisca in un qualunque terreno. Se ne sono accorti anche gli oltre 600 accademici firmatari della lettera con cui, non è molto, si sono appellati al governo per un sollecito intervento in materia cui non è seguita, però, alcuna risposta. La settimana scorsa, in una conferenza stampa convocata in uno storico liceo romano, i 600 e più sono tornati alla carica e stavolta qualcuno, al Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, si è almeno preso la briga di prendere il telefono e di chiamare, manifestando interesse per l'iniziativa, gli organizzatori della raccolta di firme. In fondo i sottoscrittori non chiedono troppo, e il loro appello è tutt'altro che vano. E comunque, riprendendo ancora Gadda: «Non esistono il troppo né il vano per una lingua».

Se l’analfabetismo viene dalla testa…

Traccie con la «i» sul sito del Miur Sfottò in Rete per il ministero. Errore blu di ortografia sul sito del ministero dell’Istruzione proprio alla vigilia della Maturità. La «svista» ha fatto subito il giro dei social network. Le scuse del ministero, scrive Gianna Fregonara 19 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Errore blu di ortografia sul sito del ministero dell’Istruzione proprio alla vigilia della Maturità. Gli studenti ansiosi in vista della prova di Italiano di domani che hanno cercato lumi sul sito dedicato agli Esami di Stato non hanno trovato nulla di utile ma hanno avuto modo di farsi una bella risata: campeggiava infatti un bel «traccie», con la «i» in mezzo tra la c e la e, proprio sulla pagina dedicata alla prima prova. La foto dell’errore ha fatto subito il giro dei social network, il ministero ha corretto e si è ufficialmente scusato: colpa della società di informatica che gestisce in queste ore gli aggiornamenti della pagina web dedicata agli esami di maturità. «Abbiamo visto il refuso sul sito degli esami di Stato e siamo subito intervenuti — si legge nella nota diffusa dal Miur —. Si tratta di un errore di battitura, che naturalmente non doveva esserci». Già perché la regola, sfuggita al tecnico che è intervenuto sul sito, è una questione puramente ortografica che si impara tra la prima e la seconda elementare: al plurale i sostantivi femminili che terminano con -cia e -gia, perdono la «i» se la sillaba è preceduta da una consonante: chi non si ricorda la spiegazione della maestra? L’errore ha scatenato ironia e commenti poco incoraggianti, che hanno portato all’indagine interna al ministero. Adesso tutto è corretto, ma ragazzi domani mattina state attenti, un errore così a voi potrebbe costare molto più caro.

Errore d'ortografia sul sito della Maturità. Critiche sui social. E il ministero si scusa. Apparsa la scritta "traccie" con la 'i'. Poi una nota da viale Trastevere: "Un errore di battitura generato dal fornitore tecnico che inserisce i contenuti", scrive il 20 giugno 2017 "La Repubblica". Un errore d'ortografia non poteva passare inosservato, specie sul portale del ministero dell'Istruzione. Ancora di più alla vigilia dell'esame di Maturità. E così molti sono sobbalzati vedendo che il richiamo alla pagine delle tracce degli anni passati veniva annunciato, sulla home page del nuovo sito dedicato all'esame di Stato, con un'improbabile scritta "traccie" nella quale campeggiava una "i" di troppo. L'immagine è stata fotografata e rilanciata sui social network scatenando commenti ironici e inserendosi nel flusso di studenti e familiari che condividevano in rete ansie e curiosità preliminari alle prove scritte. E alla fine è dovuto intervenire il dicastero di viale Trastevere, che nella tarda serata di lunedì ha diffuso una nota spiegando di aver visto "il refuso sul sito degli esami di Stato" e di essere "subito intervenuti per farlo correggere": "Si tratta di un errore di battitura, di un errore materiale che, naturalmente, non doveva esserci, tanto più su una pagina che riguarda gli esami", aggiunge il ministero. E in effetti il cortocircuito dell'errore elementare nella pagina del supremo organo destinato a gestire l'istruzione nazionale è stato sottolineato senza pietà anche dopo la correzione. Secondo il Miur la responsabilità sarebbe però da attribuire all'esterno: "Il fornitore tecnico che gestisce l'inserimento dei contenuti sul sito del Ministero - precisa la nota - ci ha fatto pervenire una lettera di scuse per l'episodio accaduto che arreca un danno d'immagine alla nostra istituzione".

La Relazione-Testimonianza dell'ing. Angelo Scassa. L’ing. Angelo SCASSA, docente di ruolo nella secondaria statale, vi racconta un sistema con molti bastardi e mezze seghe, ovvero la SCUOLADAROTTAMARE, specchio di un “Sistema Stato” che è di fatto la vera Mafia.

«Sono un professore di ruolo di discipline meccaniche e tecnologia nella scuola secondaria superiore statale a Torino. La farsa della Maturità truccata (99,5% di promossi) con la garanzia di disoccupazione certa per la maggioranza, le scuole con Laboratori a rischio di esplosione, milioni di euro dilapidati con danno erariale per cui nessun dirigente paga. Certificazioni false sui diplomi di maturità e per i docenti abilitati. Gli insegnanti ridotti a cretinetti che devono tacere e che talora si sono ammalati per l’esposizione ad amianto contenuto in abbondanza negli edifici scolastici. Sono in molti a domandarsi come sia possibile che l’esame di Stato veda una percentuale di promossi pari al 99,5% quando notoriamente gli studenti “maturati” sono spesso impreparati gravemente, anche perché disinteressati ad una scuola vetusta nei contenuti e spesso pressoché priva delle minime attrezzature a livello di impianti e di macchinari per poter imparare la professione nelle scuole tecniche e professionali.  Molti non sanno di mandare i figli in scuole a rischio di crollo o con impianti a rischio di esplosione: come se nulla avesse insegnato la terribile morte di Vito Scafidi al liceo Darwin di Rivoli, dove rimase anche gravemente ferito (paralizzato) un suo compagno di classe. La verità è che quando un docente come il sottoscritto ha denunciato le allucinanti porcherie della scuola italiana, in tema di sicurezza, megasperperi e taroccamenti della maturità, è stato reiteratamente sospeso dall’insegnamento – con decreti poi annullati dai giudici del lavoro – ed addirittura processato penalmente per diffamazione (salvo poi esserne assolto con formula piena perché quanto da lui affermato era vero e nell’interesse della collettività). Ma quando poi, dopo che la verità assoluta e totale delle sue denunce era stata riconosciuta dalla sentenza penale n° 6584/12 del Tribunale di Roma passata in giudicato (3/4/2013), il Tribunale di Torino ha negato al docente il risarcimento per mobbing, nonostante fosse stato stigmatizzato dalla sentenza passata in giudicato n° 294/11 del dr. MOLLO che ” …Emerge quindi che, all’interno della scuola, qualcuno ha inteso giungere alla falsificazione della firma dei colleghi del ricorrente pur di predisporre delle prove contro il medesimo”. Infatti nell’aprile 2016 la dr.ssa MANCINELLI, giudice della sezione lavoro di Torino, ha rigettato la richiesta risarcitoria che l’ing. SCASSA ha presentato contro L’USR del Piemonte – MIUR e l’ex preside sig.ra CONCATI. Nonostante la presenza di ben 4 sentenze che acclaravano la gravità delle censure mosse dal prof. SCASSA – e che peraltro erano passate in giudicato – la dr.ssa MANCINELLI ha emesso la sentenza 767/2016 del Tribunale di Torino il 6/6/2016. La MANCINELLI afferma infatti che le 4 vittorie giudiziarie del prof. SCASSA non significano di per sé che egli sia stato vittima di mobbing. Il giudice sostiene in fondo tre cose: 1)  non è detto che il prof. SCASSA avesse ragione anche se ha vinto quattro processi, perché è possibile che le controparti si siano difese male; 2) l’ing. SCASSA si è impicciato del malfunzionamento dell’istituto BECCARI e non si è fatto praticamente “i cazzi suoi” come affermerebbe un noto senatore (se gli mancavano i macchinari per le esercitazioni pratiche delle sue discipline meccaniche o se questi erano collocati in padiglioni a rischio esplosione, avrebbe dovuto tacere e preoccuparsi degli affari suoi: idem se non gli andavano bene i taroccamenti degli esami di Stato;  3) le minacce e le umiliazioni subite dal professore, nonché le sanzioni disciplinari contro il prof. SCASSA adottate da MIUER e la querela calunniosa della sig.ra CONCATI erano la logica ritorsione  contro la sua azione di ficcanaso e il suo protagonismo, che lo spingeva ad assumere un ruolo ispettivo che non gli competeva. Scrive infatti la dr.ssa MANCINELLI: “Altrettanto irrilevanti sono le questioni dei presunti “scandali” dell’aula informatica, dell’impianto molitorio, e dei verbali del Dipartimento di meccanica, in relazione ai quali non vi è stato alcun tipo di pregiudizio subito dal prof. SCASSA”. “Il ricorrente non fa mistero, sin dall’inizio di un corposissimo ricorso (65 pagine), di essersi approcciato con il nuovo ambiente lavorativo animato dalla forte determinazione a esercitare un vaglio di correttezza dell’operato della dirigenza scolastica (si legge infatti a pagina 2: “il docente, sin dall’inizio del rapporto di lavoro, ebbe modo di constatare delle gravi irregolarità gestionali, poste in atto dalla dirigente scolastica Alma Concati Troni (…) Pertanto il medesimo, turbato e infastidito dalla frequenza delle stesse, complice anche il clima di diffusa omertà da parte di molti altri docenti, ha mosso svariate censure alla gestione della preside, indicando con precisione fatti e circostanze in cui si sono concretizzati gli illeciti di cui è venuto a conoscenza”). ” Forte è la suggestione, alimentata dallo stesso ricorrente, che le condotte da lui ritenute prevaricatorie possano essere state poste in essere al fine di liberarsi di un collega “scomodo” (o per ritorsione rispetto ad un, peraltro implausibile, rifiuto del ricorrente di assecondare una richiesta della prof.ssa Concati per il rilascio di una dichiarazione falsa); va tuttavia considerato che altrettanto possibile è che il Ministero (per il tramite della dirigente scolastica) si sia mosso in un’ottica difensiva rispetto agli attacchi reiteratamente ed accanitamente posti in essere, anche e soprattutto verso l’esterno, dal ricorrente: si pensi ad esempio alla denuncia per diffamazione rivolta dalla prof.ssa Concati nei confronti del ricorrente (denuncia peraltro sfociata in una sentenza di assoluzione). E che l’ostilità del ricorrente nei confronti della dirigente scolastica fosse palese e conclamata anche all’esterno emerge dal volantino presentato dallo Scassa quale candidato al Consiglio d’Istituto per l’anno 2006/2007: in esso il ricorrente vanta la propria “lista certificata come sgradita alla preside che ha paura del suo programma e cerca di intimidire” e adotta lo slogan “Manda un duro in consiglio d’Istituto … Per dire no alla malagestione dirigistica no ai gravi sprechi no alle intimidazioni no alle clientele”. Insomma, se l’ing. SCASSA – ci spiega la giudice – è stato fedele alla propria coscienza e si è adoperato per migliorare il funzionamento della scuola, si è adoperato per ottenere le attrezzature l’insegnamento, bene hanno fatto i superiori a perseguitarlo, isolarlo, sospenderlo dall’insegnamento, mandarlo con falsa documentazione a processo. Non è stato mobbing: è stata legittima difesa. La giudice MANCINELLI ha condannato l’ing. SCASSA a pagare 15000 euro alla sig.ra CONCATI di spese legali per la sola udienza di discussione, compensando le spese legali con il MIUR. Recentemente il 25/5/2017, la Corte d’Appello di Torino, V sezione lavoro – pres. e rel. Gabriella MARIANI – ha confermato con una sola veloce udienza di “discussione” la sentenza MANCINELLI, nuovamente negando l’istruttoria, questa volta condannando il prof. SCASSA a pagare 15000 euro all’ex preside di spese legali e 15000 euro al MIUR: per ora vi è solo il dispositivo con la determinazione delle spese legali liquidate alle controparte, ma molto probabilmente verranno confermate le motivazioni della sentenza di primo grado.  In totale, considerati i due gradi di giudizio, il prof. SCASSA dovrà versare di 45.000 euro a titolo spese legali per due – dicasi due – udienze in tutto».

Il prof. SCASSA è infatti un docente veramente scomodo per il sistema, spiega con poche parole nel passaggio dell’intervista sottostante la farsa dell’esame di Stato con percentuali di ammessi  e di promossi davvero bulgara, ed invano ha invitato più volte la magistratura a porre fine la colossale falsificazione di atti amministrativi rappresentata dalla maturità, operata per tener buono il popolino italiano ai cui figli regala volentieri un diplomino inutile che è carta da cesso nella maggioranza dei casi.

LA STORIA DEL MIO T.S.O. = TRATTAMENTO SCOLASTICO OBBLIGATORIO.

Angelo SCASSA, ingegnere meccanico, docente di ruolo di discipline meccaniche e tecnologia ex concorso ordinario a cattedre del 1999.

«Sono un ingegnere professore di ruolo di discipline meccaniche, attualmente docente presso l’ITIS Avogadro, dopo un quadriennio all’IPSIA Plana di Torino, ed ho insegnato dal 2001 al 2009 presso l’istituto professionale statale “Jacopo BECCARI” di via Paganini 22 a Torino, che costituisce una realtà dimensionalmente importante nel panorama della scuola in Piemonte con i suoi oltre 1.000 allievi, comprendente due indirizzi: uno per tecnici dell’industria molitoria e dolciaria e l’altro alberghiero. Mobbizzato pesantemente da una preside ho alla fine, dopo lunga resistenza, vista anche l’inedia ed ostilità di certi personaggi dell’Amministrazione Scolastica, cambiato aria, chiedendo il trasferimento ad altra scuola. E’ noto infatti che per ottenere giustizia in Italia occorre essere degli eroi per i tempi infinitamente lenti di molti organi della macchina giudiziaria, che talora rendono vani la serietà, l’impegno e la preparazione di certi giudici combattivi. Sono uno dei pochi docenti italiani punito disciplinarmente dal MIUR per aver denunciato gravi fatti gestionali della scuola in cui insegnavo: lo feci in una conferenza stampa che tenni nel giugno 2008 in Piazza Montecitorio a Roma. In primo piano denunciai gravi criticità per la sicurezza di alcuni laboratori ed impianti della scuola con oggettivo rischio di esplosione che avrebbero potuto costare la vita ad intere classi di studenti che li frequentavano. Poi evidenziai un danno erariale che sfiorava il milione di euro. Infine denunciai lo scandalo del taroccamento sistematico dei crediti scolastici. Insomma i diplomi che attestavano il superamento dell’esame di stato certificavano autentiche falsità. Per quella stessa conferenza stampa sono stato persino processato a Roma dopo ulteriore denuncia della Signora CONCATI del luglio 2008: processato senza essere stato praticamente indagato, rinviato a giudizio direttamente dal PM nel cui fascicolo, quali mezzi probatori dell’accusa campeggiavano per l’appunto i due decreti disciplinari pluriannullati dal Tribunale di Torino. Sono stato processato per il contenuto di quel comunicato stampa oggetto anche di una pesante sanzione disciplinare inflittami dal MIUR e ne sono uscito assolto con formula piena ex art 530 cpp comma 1-2. In precedenza mi ero pure reso reo di aver consentito a studenti maggiorenni di scioperare ed ero già stato sanzionato disciplinarmente una volta. Complessivamente mi sono stati comminati – con due decreti punitivi – 40 giorni di sospensione dall’insegnamento sciopero ed il blocco degli aumenti di stipendio per tre anni, il che avrebbe significato un danno economico stimabile complessivamente negli anni pari a 22.000 euro. Punito senza essere mai stato ascoltato dall’amministrazione scolastica schierata in difesa della preside. Entrambi i decreti disciplinari sono stati annullati dal Tribunale di Torino, sez V del Lavoro. Il primo decreto sanzionatorio, quello riguardante il rispetto del diritto di scioperare da parte degli studenti, è stato annullato dalla sentenza n° 4489/09 del Giudice dott.ssa PALIAGA del 31/12/2009, passata in giudicato. Nel 2008 sono stato sospeso per cinque giorni dall’insegnamento, in quanto “colpevole” di aver consentito nell’ottobre 2006 tre giornate di sciopero a studenti maggiorenni delle classi quinte in protesta contro il sabato scolastico, che – come da tradizione – era stato dal collegio docenti confermato libero dalle lezioni e contro la permanente indisponibilità delle aule informatiche ed il grave stato di vetustà del laboratorio di meccanica. Il secondo, relativo alla conferenza stampa tenuta in piazza di Montecitorio a Roma, viene annullato con sentenza del 31 gennaio 2011, emessa dal dr. Mauro MOLLO dello stesso Tribunale; respinto anche il ricorso del MIUR avverso la sentenza del dr. MOLLO con sentenza della Corte d’Appello n° 558/12 dell’8 maggio 2012. Peraltro, nonostante la difesa da parte dell’Ufficio Scolastico Regionale del MIUR dell’operato della preside mediante presentazione di documenti falsi che lo stesso giudice di primo grado dr. MOLLO ha riconosciuto tali, incredibilmente questa sentenza è stata appellata, con la produzione di ulteriori simili documenti. E ne è seguita un’altra mia vittoria anche in Corte d’Appello, come si è visto. Poi la sentenza è passata in giudicato in quanto i burocrati dell’Ufficio scolastico regionale del Piemonte – MIUR, alleati della preside, non hanno avuto l’impudenza di far ricorso in Cassazione.

La mia vicenda è davvero paradossale. Mai i burocrati dell’amministrazione locale della Pubblica Istruzione hanno proceduto in quel periodo contro le migliaia di docenti che, nelle scuole di ogni ordine e grado, dalle elementari alle università, scioperavano contro il decreto legge 137 della Gelmini. La preside Alma CONCATI mi ha accusato di aver provocato addirittura interruzione di pubblico servizio: secondo lei avrei dovuto trattenere forzatamente dei maggiorenni che protestavano di santa ragione. Ha richiesto un’ispezione durante la quale ragazzi palesemente impauriti hanno invece semplicemente ed unicamente dichiarato che “abbiamo scioperato perché il 25 ottobre durante la lezione il prof. SCASSA ha dichiarato che potevamo fare sciopero …Il professore ci ha così influenzato ed abbiamo deciso di scioperare”. L’amministrazione scolastica mi considerava reo dunque di aver ricordato a cittadini maggiorenni elementari loro diritti civici, compreso quello di protesta contro le porcherie del loro istituto. Sembrava che non solo dovesse essere cancellato il diritto di sciopero, da decenni riconosciuto agli studenti per estensione di quanto prevede la Costituzione – come espressamente riconosce Tullio DE MAURO, ministro dell’Istruzione nell’ultimo governo Amato – ma si volesse tornare ad un clima intimidatorio superato persino dal vecchio Codice Zanardelli. E pensare che durante uno dei tre scioperi, avevo tenuto lezione davanti all’ingresso dell’istituto per venire incontro agli studenti di una classe quinta che volevano, in tal modo, dare visibilità alla loro protesta e dimostrarne al contempo il carattere non pretestuoso del loro sciopero. Appare evidente che la decisione di punirmi da parte dell’Ufficio Scolastico Regionale è legata sia alla precisa volontà di appoggiare una preside amica – che ha goduto e gode di evidenti protezioni – sia alla volontà di colpire un docente scomodo, incompatibile con la tradizione di leccapiedismo dell’istruzione secondaria statale qui in Piemonte. Evidentemente se un docente contribuisce ad informare gli allievi dei loro diritti – doveri di cittadini consapevoli, deve essere immediatamente punito, specie se l’azione di protesta è rivolta contro una pessima ed illegittima gestione della scuola. Sono infatti un docente coraggioso. Scopro le magagne della scuola pubblica con le toppe al sedere. Inutili erano infatti stati le mie precedenti segnalazioni agli organi gerarchicamente superiori della scuola, che avevano sommerso il tutto dietro una spessa coltre di silenzio. Il 4 luglio 2008 sono stato sospeso dall’insegnamento per cinque giorni e privato degli aumenti di stipendio per un anno. Ha dovuto pensarci la magistratura del lavoro a far piazza pulita di questa punizione schifosa. Ho subito minacce, intimidazioni ed ingiurie assortite da parte di collaboratori e tirapiedi vari della preside. Ho denunciato poi, con una conferenza stampa in Piazza Montecitorio, davanti al Parlamento, fatti gravi che comprendono:

1) il depauperamento per centinaia di migliaia di euro del patrimonio tecnologico della scuola: è stato rottamato un impianto di produzione molitorio del valore di circa un miliardo e mezzo di vecchie lire, sono state sprecate decine di migliaia di euro per materiale informatico inservibile o mai consegnato.

2) Altra buffonata: demolito un laboratorio di chimica per costruire il secondo bar della scuola! Per la serie: al posto del microscopio: cappuccio e brioche!

3) gravi problemi di sicurezza: gli allievi sono stati spediti in laboratori a forte rischio per la sicurezza con pericolo di esplosioni, di collassi strutturali, senza via di fuga, senza collaudi statici, senza sistemi di filtraggio dell’aria. Pretendevano che io stessi in silenzio al gioco. Poi hanno chiuso tutto

4) il taroccamento di crediti scolastici, attribuiti con errori ed in modo casuale, che contribuiscono a definire il voto dell’Esame di Stato e possono quindi risultare determinanti per la promozione. Le non meno allegre ammissioni agli esami di stato.

5) In una collaborazione con la SIS (Scuola Interateneo dell’Università di Torino) che organizzava i corsi per le abilitazioni ai docenti, l’attestazione di falsi tirocini su altrettanto inesistenti materie, prendendo per i fondelli anche l’Università.

6) … elezioni per gli organi collegiali svolte in clima di intimidazione pesante per i candidati dissenzienti, gestione allegra delle supplenze, prese per il culo alla scuola di specializzazione universitaria cui si è comunicato l’effettuazione di tirocini su inesistenti materie…

7) Un collega dissenziente, con pretesti, è stato addirittura cacciato dalla scuola.

Alcuni dei gravi fatti elencati sono stati oggetto di interrogazioni al Senato ed in Consiglio Regionale del Piemonte (sen. ACCIARINI, i consiglieri regionali GIORDANO, BOSSUTO, BARASSI, CLEMENT, COMELLA, DALMASSO, DEAMBROGIO e MORRICONI)

A seguito di un mio comunicato stampa in occasione di una conferenza tenuta in piazza di Montecitorio a Roma riguardante la malgestione della scuola, per i motivi sopra elencati, e di un’intervista ad un quotidiano è stato avviato nell’agosto 2008 un secondo procedimento disciplinare nei miei confronti. Tale procedimento si è concluso con la mia sospensione per 35 giorni – dal 28 febbraio al 3 aprile 2009 – dall’insegnamento, oltre al blocco degli aumenti di stipendio per due anni: condannato perché colpevole di aver “leso l’immagine dell’istituzione scolastica e della sua dirigenza”, reo di aver reso pubblico la sfascio di una “scuola”.. ma possiamo chiamarla così? Condannato con decreto n° AOODRPI/82/ris/U Torino, del 18 febbraio 2009, senza nemmeno essere stato ascoltato. La volontà da parte dell’Ufficio Scolastico Regionale di colpire un docente che andava scoperchiando troppe gravi irregolarità gestionali in una scuola di ragguardevoli dimensioni quanto a numero di allievi è evidente. Questi burocrati – mandarini ritengono di godere dell’impunità e cercano di distruggerti con un mobbing sapientemente programmato non solo per crearti sofferenze psicologiche, ma se possibile mirano a licenziarti. In un programma televisivo RAI andato in onda nell’aprile 2009 si trattavano casi di dirigenti scolastici che hanno rubato e sottratto fondi, rimasti impuniti al loro posto: purtroppo il ministro Gelmini, dinnanzi a queste sconcertanti vicende, rispondeva “Ho le mani legate”. Da quanto si è visto nella trasmissione pare infatti che l’autonomia scolastica funzioni sul modello bolscevico: in questo caso gli Uffici scolastici regionali (Comintern) proteggono i dirigenti scolastici (capataz locali). Decine di presidi in Italia hanno subito condanne penali per reati contro la P.A., ma restano impuniti al loro posto o premiati con l’avanzamento alla carriera di ispettore. Secondo Report si sarebbe verificato il caso di un dirigente scolastico agli arresti domiciliari, ma considerato dall’amministrazione in malattia. Certo non occorre generalizzare, ma nemmeno prendere sottogamba un fenomeno tutt’altro che raro: altro che Buonascola, questa è una Scuola pubblica che nell’insieme, sarebbe forse da rottamare.

Il 6 novembre 2009 la prima sentenza: Il Tribunale ordinario di Torino sez. Lavoro annulla la prima sanzione disciplinare e condanna il MIUR a risarcire le spese legali per la soccombenza. Sentenza n° 4489/09, giudice Daniela PALIAGA, passata in giudicato.

Il 31 gennaio 2011 la seconda sentenza: Il Tribunale ordinario di Torino sez. Lavoro annulla la seconda sanzione disciplinare e condanna il MIUR a risarcire le spese legali per la soccombenza. Sentenza n° 294/11, Giudice Mauro MOLLO

L’8 maggio 2012 la Corte d’Appello di Torino respinge il temerario ricorso stigmatizzando duramente il comportamento del MIUR, confermando la veridicità delle gravi accuse dell’ing. SCASSA, ridicolizza la pretesa ministeriale di avere degli insegnanti muti e servili, sottolinea l’insistenza nella produzione di documenti falsi. Sentenza n° 558/12, Presidente GIROLAMI, Relatore GRILLO PASQUARELLI

Il 3 aprile 2013 il Tribunale Penale di Roma assolve con la sentenza n° 6584/13 l’ing. SCASSA dall’imputazione di diffamazione contro la preside Alma CONCATI, per l’aver emesso il 13/6/2008 il medesimo comunicato stampa oggetto della sanzione di 35 gg di sospensione dall’insegnamento con due anni di blocco degli aumenti di stipendio, annullata dalle predette sentenze 294/11 e 558/12 (C. d A.). Il prof. SCASSA è stato processato a ROMA – Tribunale IV sez – perché aveva emesso il comunicato in occasione di un suo soggiorno presso la capitale.

Dalla sentenza n° 294/11 del Giudice Mauro MOLLO del 31/1/2011: “….Non può, quindi, essere sanzionato il dipendente soltanto perché si è permesso di trasmettere alla stampa le critiche alla scuola presso cui prestava servizio perché, in tal modo, si sarebbe lesa l’immagine dell’istituto. Infatti, se davvero le situazioni denunciate corrispondessero al vero il comportamento doveroso è quello di rivelarle e non dì nasconderle per il timore di ledere l’immagine della scuola. Distruzione dell’impianto di molizione: tale punto non è sostanzialmente contestato in memoria [dal MIUR ndr] se non con frasi del tutto generiche e apodittiche. Ne discende che, essendo dimostrato che il molino fosse già attivo prima della data di collaudo, all’epoca effettivamente sussistevano dei rischi per la sicurezza e quindi è provata la veridicità di quanto sostenuto dallo Scassa. Il primo punto contestato dal Ministero riguarda le dichiarazioni del professore nelle quali lo stesso avrebbe sostenuto che i voti degli esami di Stato certificati di diploma di maturità sono “taroccati” clamorosamente su disposizione dello stesso dirigente scolastico…. A fronte della dettagliata ricostruzione in ricorso degli episodi riferiti dal ricorrente alla stampa, la memoria [del MIUR ndr] si limita a sottolineare che i verbali fanno fede fino a querela di falso (ma è ovvio che non della loro valenza probatoria si discute, ma della effettiva rispondenza al vero). Distruzione del laboratorio e costruzione al suo posto di un bar: la convenuta, [il MIUR ndr] quindi, non prende posizione in merito alla distruzione del laboratorio dì chimica merceologica per fare posto ad un bar, con applicazione dell’art. 115 c.p.c, come recentemente novellato. Malagestio denaro pubblico: Anche in questo caso, la convenuta [il MIUR ndr] non contesta i i fatti dedotti, ma si limita a sostenere che il ricorrente si voglia sostituire agli organi preposti ai controlli e voglia “azionare una sorta di controllo sociale”. In altre parole, la convenuta sostiene che non è compito del prof. Scassa ingerirsi nella gestione scolastica, essendoci organi a ciò preposti. È del tutto evidente che tale posizione non dice nulla sulla fondatezza dei fatti denunciati dal ricorrente, invitandolo semplicemente a “stare al suo posto”; neppure si può condividere tale impostazione che ritiene che i cittadini non debbano denunciare i (veri o supposti) sprechi e le cattive gestioni di denaro pubblico, posto che spesso l’intervento degli organi preposti al controllo nasce proprio da segnalazioni dei privati.…Emerge quindi che, all’interno della scuola, qualcuno ha inteso giungere alla falsificazione della firma dei colleghi del ricorrente pur di predisporre delle prove contro il medesimo. Per quanto finora detto, quindi, le contestazioni disciplinari non sono provate e quindi la sanzione irrogata deve essere annullata con ogni conseguenza dal punto di vista della ricostruzione stipendiale e dì carriera.” Tribunale di Torino, 23 marzo 2011

Dalla sentenza n° 558/12 della Corte d’Appello di Torino (relatore Federico GRILLO PASQUARELLI) dell’8 maggio 2012: “Quanto, poi, al comunicato stampa rilasciato dal prof. Scassa il 13.6.2008 contenente una serie di circostanziate denunce in merito a varie irregolarità verificatesi all’Istituto Beccari, il Tribunale rileva che l’affermazione del Ministero secondo cui le esternazioni del ricorrente “trascendono il legittimo esercizio del diritto di critica” è apodittica e potrebbe essere condivisa solo qualora quanto affermato dal prof. Scassa risultasse falso; Valutata la fondatezza dei rilievi mossi dall’Amministrazione a ciascuna delle dichiarazioni contenute nel comunicato stampa del prof. Scassa (erroneità dei certificati nei diplomi di maturità, falsa certificazione delle ore di laboratorio, distruzione dell’impianto di indizione, distruzione del laboratorio e costruzione al suo posto di un bar, mala gestio di denaro pubblico, distruzione di un’opera di carpenteria metallica, mancanza di sicurezza per gli studenti, irregolarità nel collegio docenti, mancanza di continuità didattica, mobbing, intimidazioni a docenti), il Giudice di primo grado conclude che tutto quanto riferito dal ricorrente è risultato rispondente a verità; conseguentemente, le contestazioni disciplinari non sono provate e la sanzione disciplinare irrogata deve essere annullata. Il Ministero lamenta l’omessa considerazione da parte del primo Giudice delle ragioni testualmente fondanti il provvedimento disciplinare: la sanzione non sarebbe dovuta all’infondatezza della denuncia di ipotetici illeciti fatta dal prof. Scassa bensì alle sue modalità (averla sbandierata in pubblico in piazza Montecitorio, anziché rivolgersi alle autorità amministrative e giudiziarie competenti), eccedenti i limiti del diritto di critica e idonee ad infangare la reputazione del ricorrente e   dell’intera Istituzione e del suo personale.  Il motivo è inammissibile. La posizione tenuta dall’Amministrazione nel procedimento disciplinare e in sede giudiziaria è stata caratterizzata, nella vicenda in esame, da un andamento ondivago e incoerente, del tutto inconciliabile con le regole processuali. il comportamento contestato al prof. Scassa da parte del datore di lavoro come contrario ai doveri e alle responsabilità propri del docente attiene essenzialmente alle modalità della denuncia, giudicate eccedenti il “normale esercizio del diritto di critica” e, come tali, “lesive dell’immagine dell’Istituzione scolastica e della sua dirigenza”. Di tutt’altro tenore appare, invece, il decreto del 18.3.2009 – sottoscritto, evidentemente a seguito della cessazione dall’incarico del precedente Dirigente, dal reggente dell’Ufficio Scolastico Regionale per il Piemonte, Antonino Medurì (doc. 13 appellato) – con il quale viene inflitta al prof. Scassa la sanzione disciplinare di cui si discute: il provvedimento appare, invero, frutto di un macroscopico equivoco perché l’estensore, dopo avere “ritenuto di condividere le motivazioni e il parere espresso a sostegno della sanzione proposta dal Consiglio di Disciplina”, in realtà se ne discosta perché, lungi, dal sanzionare il prof. Scassa per avere ecceduto, con le sue denunce, i limiti del “normale esercizio del diritto di critica”, lo punisce, incredibilmente, per il fatto stesso di avere osato muovere critiche, all’operato dell’Amministrazione di appartenenza. La vera ratio decidendi del decreto del 18.2.2009, infatti, è contenuta nel passo in cui il reggente dell’Ufficio Scolastico Regionale afferma, di avere “considerato che il comportamento tenuto dal prof. Scassa, è palesemente in contrasto con la responsabilità, i doveri, la correttezza inerente la funzione di docente” e, subito dopo, enuncia una 543 personalissima visione dei doveri del pubblico dipendente: “il dipendente, infatti, deve, in ogni occasione e in ogni luogo, sostenere l’Amministrazione di appartenenza e i suoi rappresentanti” (.sic!); è per non essersi attenuto a questa regola aurea – che impone al dipendente pubblico un’obbedienza pronta, cieca ed assoluta – che il prof. Scassa viene punito con la sospensione dall’insegnamento per 35 giorni. Un’affermazione di tal genere denota, evidentemente, una inammissibile ed antistorica visione autoritaria della pubblica Amministrazione, lontana mille miglia dai principi della Costituzione repubblicana, che ignora il principio di legalità e calpesta la libertà di manifestazione del pensiero dei pubblici dipendenti, considerandoli alla stregua di sudditi muti e obbedienti; una sanzione disciplinare basata su questi presupposti non può trovare spazio nel nostro ordinamento. Con il secondo motivo di appello, il Ministero censura la sentenza impugnata in alcune soltanto delle sue argomentazioni relative ai singoli addebiti disciplinari mossi al prof. Scassa. Il motivo è infondato. Nel suo comunicato stampa (doc. 5 appellato) il prof. Scassa aveva affermato (punto 1) che “i voti degli Esami di Stato certificati nei diplomi di maturità sono spesso taroccati clamorosamente su disposizione del Dirigente Scolastico … ..Il Ministero non ha preso posizione in maniera rigorosa sui fatti dedotti dal docente……l’addebito mosso al prof. Scassa era di avere esposto, nel suo comunicato stampa, considerazioni false e infondate, quindi di avere scritto, contrariamente al vero, che i voti degli Esami di Stato venivano “taroccati” su disposizione del Dirigente Scolastico. L’onere della prova a carico del Ministero, Il Ministero non si è minimamente fatto carico di questo onere probatorio. Ancora, nel comunicato stampa del 13.6.2008 il prof. Scassa aveva denunciato (punto 7) la mancanza di sicurezza per gli studenti, in particolare per la “facile accessibilità ad organi meccanici in movimento (ad esempio i cilindri laminatoi)” dell’impianto di molizione esistente presso l’Istituto Beccari; nella sua memoria difensiva di primo grado, il Ministero ha richiamato, in contrario, il provvedimento di archiviazione del GIP, fondato su un verbale ispettivo dell’ASL che aveva escluso ogni pericolo in quanto il macchinario non era mai stato messo in funzione. La sentenza impugnata, viceversa, ritiene provata la veridicità di quanto sostenuto dal prof. Scassa, osservando che sulla rivista Molini d’Italia del giugno 2008 si legge – a proposito dell’inaugurazione dell’impianto molitorio in questione – che “i ragazzi hanno cosi avviato l’impianto dando prova delle loro capacità con prove reali di macinazione”, che gli Ispettori dell’ASL si erano limitati ad attestare che, in occasione del loro sopralluogo, il “molino didattico” era spento e che dal loro verbale emergeva, anzi che qualora fosse stato attivato, il molino non sarebbe stato in sicurezza. la rivista Molini d’Italia (v. numero di giugno 2008, prodotto in primo grado dall’attuale appellato), che dedica un ampio articolo all’inaugurazione del molino didattico avvenuta il 17.5.2008 presso l’Istituto Beccari e che riferisce della prova di macinazione eseguita dagli studenti, è l’organo ufficiale dell’Associazione Industriale Mugnai d’Italia – Italmopa, aderente a Confindustria[1], ed appare indubbiamente attendibile; a ciò aggiungasi il programma della giornata del 17.5.2008, pubblicato sul sito Internet dello stesso Istituto Beccari, che prevedeva alle ore 13.30, dopo i saluti della Preside, proprio la “prova didattica di macinazione a  cura  degli  studenti  dell’Istituto  –  indirizzo molitorio” (doc. prodotto dall’appellato in questo grado di giudizio); il verbale ispettivo dell’ASL – che attesta che in occasione del sopralluogo, il molino era spento – non basta, evidentemente, a smentire questi dati di fatto. Per quanto riguarda, infine, gli episodi di mobbing denunciati -…La sentenza appellata precisa, ineccepibilmente, che il fatto che una vicenda non abbia rilevanza penale non significa che sia lecita anche dal punto di vista civilistico, osserva che non si tratta di valutare se il prof. Scassa sia stato effettivamente vittima di mobbing, ma se il medesimo abbia percepito come vessatorio il comportamento dell’Amministrazione nei suoi confronti, ed elenca plurimi elementi (una precedente sanzione disciplinare a carico del prof. Scassa, annullata in sede giudiziaria; la  falsificazione della firma di una docente pur di predisporre prove contro il prof. Scassa) che inducono il Tribunale a ritenere che il prof. Scassa fosse in totale buona fede nel momento in cui denunciò il verificarsi di episodi di mobbing. “

 Dalla sentenza n° 4489/09 del Giudice Daniela PALIAGA: “….Aiutare gli studenti ad esercitare consapevolmente e correttamente questo diritto non appare di per sé idoneo ad integrare alcuna violazione dei doveri di un docente, potendo diventarlo soltanto ove il docente tenga comportamenti idonei a viziare la volontà degli studenti o dì per sé illeciti. Nei termini in cui sono state ricostruite – gli unici che questo giudice può prendere in esame – le condotte del prof. SCASSA non sono tuttavia fuoriuscite da tale alveo lecito, né risulta che gli studenti abbiano esercitato il loro diritto in modo illecito. Il fatto di averli in qualche modo agevolati in ciò non appare dunque suscettibile di alcuna censura. In tale contesto il prof. SCASSA si è limitato a verificare l’effettiva volontà di alcuni studenti in merito alla partecipazione allo sciopero indetto da altri e già in corso ed a rimuovere un ostacolo psicologico al libero esercizio del relativo diritto da parte di costoro e risulta averlo fatto con modalità che non appaiono in alcun modo idonee a coartare o comunque manovrare la loro volontà. Per tutti i motivi sinora esposti la sanzione inflitta al ricorrente, risultando priva di giustificazione e dunque illegittima, deve essere annullata.” Tribunale di Torino, 31 dicembre 2009

Vi è poi la sentenza n° 6584/13 del Tribunale Penale di Roma emessa il 3 aprile 2013 che ha visto il prof. SCASSA imputato per diffamazione ai sensi dell’art 595 commi 1 e 3 c.p. :“perché inviando via Internet un comunicato stampa all’ufficio scolastico Regionale del Piemonte nonché al Ministero della Pubblica Istruzione quale organo centrale, nel quale attribuiva alla Preside dell’istituto professionale statale di Torino IIS JACOPO BECCARI “tarocchi della maturità” ovvero indebiti rigonfiamenti nella attribuzione agli alunni di crediti del terzo e quarto anno, nonché il rilascio di certificazioni curricolari di frequenza laboratori ideologicamente falsi essendo i laboratori inagibili, ed ancora lo spreco di denaro pubblico conseguente alla negligente custodia di macchinari altamente sofisticati, assenza di misure di sicurezza per gli allievi ed ulteriori irregolarità connesse alla gestione dei professori e degli allievi, altresì annunciando una conferenza stampa in Piazza Montecitorio sul punto, ledeva l’onore e la reputazione di Concati Alma, preside del menzionato istituto”. Torino – Roma 13.06.2008”. Tale imputazione è riportata nella sentenza n° 6584/13 del Tribunale di Roma emessa il 3 aprile 2013 in cui il Giudice ha così motivato il dispositivo di piena assoluzione del prof. SCASSA:

Quanto alla maggiorazione dei crediti scolastici attribuiti negli anni precedenti:…Quanto alla modifica dei crediti scolastici l’imputato ha precisato che si è trattato di una grave irregolarità, la notizia riferita è vera e documentalmente provata, come è provato che tale modificazione venne disposta dalla preside. Anche la giustificazione posta in base al giudizio in ordine all’invalidità della rideterminazione del punteggio è congrua e giustifica la qualificazione della pretesa correzione come “rigonfiamento”.

Quanto ai laboratori:...L’imputato ha sostenuto che il laboratorio di discipline meccaniche era costituito da un capannone in cui erano depositati alcuni vetusti ed inservibili macchinari (alcune in legno tarlato, altre riparate con arnesi di fortuna, tipo una cintura..) Tali affermazioni sono provate dalle fonografie prodotte e dagli stessi verbali del dipartimento di meccanica degli anni 2005-07.

Quanto alla negligente custodia del molino sperimentale:...E’ provato dai documenti acquisiti (prime fra tutti le interrogazioni parlamentari che il molino restò in stato di abbandono, fu in parte rottamato, fu depositato in parte all’esterno, esposto agli agenti atmosferici, e solo nel 2007-2008 venne messo in funzione tale impianto, di minori dimensioni e realizzato attraverso il recupero dei pezzi ancora disponibili del molino originario. Tali circostanze, oggettivamente provate dai documenti prodotti, confermano la verità di quanto sostenuto dallo Scassa nello scritto oggetto del presente procedimento….In realtà la vicenda, come affermato dall’imputato, è tutt’altro che chiara, come dimostrato due documenti tra loro incongruenti. L’incongruenza deriva dal fatto che la richiesta di risarcimento (25.1.2001) è anteriore alla scoperta del danno stesso, ossia risale al 29.1.2000.

Quanto alla violazione della normativa in materia di sicurezza:...In effetti le principali doglianze dello Scassa si riferiscono al molino realizzato nel 2007, che, a suo dire, non sarebbe stato a norma ed avrebbe rappresentato, se emesso in funzione, un serio rischio per l’incolumità degli studenti che lo utilizzavano. E’ provato che il molino venne in effetti messo in funzione (come emerge dal risalto dato alla notizia dalla rivista “Molini d’Italia” del giugno 2008); è provato altresì che al momento dell’accesso degli ispettori era spento, e che, comunque, se messo in funzione esso non sarebbe stato in sicurezza …Concludendo quindi essendo provata anche la veridicità delle affermazioni lesive della reputazione della Concati contenute nello scritto dell’imputato e a lui contestate nei capi di imputazione, va rilevato che la loro diffusione costituisce esercizio legittimo diritto di critica, che scrimina, ex art. 51 c.p., la condotta lesiva posta in essere. Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale di Roma ha concluso: “L’imputato va mandato assolto dal reato a lui ascritto con la formula di cui al dispositivo. PQM Visto l’art. 530, commi 1 e 2 c.p.p. Assolve Scassa Angelo dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussiste. Il Giudice Federica TONDIN”

IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).

L’eterno fascino del concorso. Palasport, sale da cinema, hangar, hotel, palestre, saloni delle fiere. Così migliaia di giovani inseguono il sogno di un impiego. Diecimila giovani per 14 posti da poliziotto a Milano, 1099 ragazze per un posto da infermiera a Cremona, scrive Dario Di Vico il 25 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Un giovane fotografo, Michele Borzoni, ha investito una buona quota del suo tempo per girare e ritrarre l’Italia dei concorsi. Le sue istantanee sono state pubblicate a Parigi nell’ambito del Festival de Circulation(s), una manifestazione che ospita il meglio della giovane fotografia europea. Dobbiamo essergli grati perché ci ha regalato uno spaccato di quell’Italia che, volente o nolente, insegue l’impiego nella funzione pubblica. Borzoni ci dice che in qualche maniera quello che era il sogno dei padri oggi si ripropone anche per i figli. Gli hotel, i palasport, i saloni delle fiere, le palestre, le sale spettacoli e persino gli hangar che Michele ha fotografato sono gremiti di ragazzi e ragazze — rigorosamente distanziati per evitare che possano copiare — che aspettano di staccare il loro biglietto della lotteria. Diecimila giovani per 14 posti da poliziotto a Milano, 2.813 concorrenti per 12 posti nelle scuole materne a Firenze, 238 ragazzi per un posto in un laboratorio medicale a Palermo. Con una calcolatrice si può stilare una classifica delle (scarse) probabilità di farcela e in testa nella graduatoria del miraggio c’è il posto da infermiera a Cremona per il quale si sono mobilitate 1.099 ragazze. Borzoni sostiene che questi esami sono «il tempio della burocrazia italiana» ed è difficile dargli torto. Non solo assomigliano alla più classica delle lotterie ma iscriversi non è nemmeno facile, e capita anche che chi va a sostenere la prova d’esame in realtà sia solo una quota parte di quanti, fiduciosi, prima si erano iscritti e poi hanno lasciato perdere. Si potrà obiettare che le foto di Borzoni non ci rivelano niente che già non sapessimo ma oggi non deve essere il tempo del cinismo. Lo zoccolo duro della disuguaglianza italiana sta lì, nei numeri di una disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa. Si tenta di aggredirla ma purtroppo la sproporzione tra i posti che si generano e quelli che sarebbero necessari è clamorosa. Le istantanee di Borzoni, dunque, ci invitano a non desistere. È una battaglia che dobbiamo continuare a combattere e non è concesso di arrendersi.

LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.

Una buona parola per tutti. Da Andreotti a Giolitti le suppliche per posti e case, scrive Matteo Pucciareli il 20 marzo 2017 su "La Repubblica". "Il signor Paolo M., da Latina, ha in corso presso codesto ente una domanda di assunzione. È possibile accontentarlo?". Firmato, Giulio Andreotti. Oppure: "Mi consenta di segnalarle, per quanto riguarda le Istituzioni di diritto romano, il professor Emilio B.". Firmato, Aldo Moro. Ancora: "Ti unisco l'appunto relativo al signor Ignazio S. e ti prego di un particolare interessamento in suo favore". Firmato, Oscar Luigi Scalfaro. Linguaggio semplice, asciutto, diretto: le lettere su carta intestata e protocollate sono decine, alcune scritte a mano, tutte datate fra i primi anni '50 e metà degli anni '60. I mittenti sono deputati della Democrazia cristiana, dirigenti della Cisl, monsignori; i destinatari sono ministri, sottosegretari e dirigenti di aziende parastatali. Un ufficio di collocamento parallelo, la Prima Repubblica in tutta la sua "ingenuità", per certi versi: si chiedeva un alloggio popolare per tal famiglia, un aumento di stipendio per l'invalido di guerra, la revoca di un trasferimento per un padre di famiglia e così via. Tutti scrivono, chiedono "ogni possibile benevolenza" e i "possibili consentiti riguardi" ai propri interlocutori, affinché intercedano: Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Ciriaco De Mita, Arnaldo Forlani, Antonio Gava, Giorgio La Pira, Giovanni Leone, Antonio Segni, don Luigi Sturzo, Paolo Emilio Taviani, Benigno Zaccagnini. Dc in maggioranza assoluta, come si vede. Tra i documenti una sola firma extra-scudocrociato: quella del socialista Antonio Giolitti. Le missive erano tutte tra i faldoni dell'Archivio di Stato e come siano arrivate fin qui, su queste pagine, è una storia nella storia: l'impiegato Dante S. venne dislocato agli uffici archivistici dell'Eur a inizio anni '80. Persona mite, politicamente moderata - figlio di emigranti emiliani che prima si trasferirono in Inghilterra, poi in Libia e solo dopo la guerra rientrarono in Italia, a Roma - e senza particolari fervori rivoluzionari, alla visione di quelle centinaia e centinaia di lettere di raccomandazione non la prese bene. Le trafugò, una dopo l'altra, con l'idea di farne dono al figlio, allora militante della sinistra extraparlamentare. Sperando che fosse lui, in qualche modo, a "vendicare" quell'ingiustizia. Quello spaccato di storia contemporanea è rimasto per 35 anni dentro uno sgabuzzino, gelosamente custodito.

Ogni comunicazione è una storia a sé. Il deputato fiorentino della sinistra dc Renato Cappugi scrive al collega Pietro Germani: "Ti unisco un promemoria riguardante un nostro carissimo amico dell'Azione cattolica, Dc, Acli, Sindacati liberi. Desidera essere riassunto presso l'Intendenza di Finanza di Firenze. Ti prego, con eccezionale interesse, di voler fare tutto quanto è in tuo potere a tal fine". Ma le cose evidentemente vanno male e due mesi dopo Cappugi riscrive a Germani, gli spiega che il suo elettore è amareggiato: "Rileva la fortuna, diciamo così, che purtroppo hanno quasi sempre i "compagni" ogni qual volta si trovano a competere con i nostri". Cappugi continua: "Si tratta di uno dei nostri a prova di bomba e, credi, fa male al cuore pensare che non sia possibile trovare il modo di metterlo a posto. Vedi, caro Germani, se mi dai un buon consiglio e se mi aiuti...".

La Cisl nel 1954 chiede a un deputato della Dc, commissario governativo all'Ente economico zootecnia, di non far pagare al sindacato le spese processuali di una causa intentata in passato (e persa) contro lo stesso ente: "Fu intentata a nostra insaputa dal vecchio segretario provinciale di Perugia. Sono certo che non mancherà il tuo interessamento", scrive il segretario generale aggiunto Bruno Storti. Un altro onorevole ancora, prega lo stesso destinatario che venga pagata con celerità la liquidazione "di un nostro bravo attivista che si è tanto adoperato nella campagna elettorale. Mi faresti cosa gradita se potessi assecondare il suo desiderio".

Nel 1962 il sottosegretario sardo Salvatore Mannironi scrive al presidente delle case degli impiegati statali Umberto Ortolani (poi diventano uomo della P2): "L'appuntato dei carabinieri Sebastiano R., domiciliato a Tempio Pausania, deve eseguire alcuni lavori indispensabili ai servizi igienici per una spesa prevista di 77mila lire. Le sarò grato se vorrà esaminare la possibilità di autorizzare detti lavori con spese a carico dell'istituto, trattandosi di una somma molto elevata per le limitate possibilità economiche del R.". Un altro ras della Dc calabrese, Riccardo Misasi, sottosegretario anche lui, comunica che "Francesco Z. ha avanzato domanda per ottenere in affitto un locale, possibilmente nel lotto II° delle scuole elementari, nella borgata di Torrespaccata, da adibire a bar".

Ci si interessa anche per motivazioni in apparenza minori. Il ministro Bernardo Mattarella, padre dell'attuale presidente della Repubblica, interpella Heros Cuzari, presidente dell'Ente zolfi italiani: "Con la tua cortese lettera mi hai comunicato la concessione di un sussidio straordinario di 15mila lire a favore del signor Ignazio A. ma l'Ufficio regionale di Palermo trasmetteva un vaglia cambiario di 10mila lire. Ti sarò grato se vorrai gentilmente chiarirmi i motivi della discordanza ". Talvolta le richieste sono pressanti. L'arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro si rivolge all'"illustrissimo commendatore" commissario dell'Ente zootecnia: perora la causa di Giorgio G., che vorrebbe essere assunto. Viene descritto come una persona di "ineccepibile moralità, di fini sentimenti, attivo, capace e laborioso, da me ben conosciuto perché da un anno dà la sua opera, animata di spirito caritatevole, volontariamente, presso la mia segreteria. Il poter vedere sistemato questo giovane sarebbe per me causa di molto contento". Il monsignore viene accontentato, ma con un impiego di soli tre mesi. Allora Lercaro riscrive: "Abuso della sua gentilezza se le chiedo che il G. sia trattenuto e riconfermato?". La sponsorizzazione non sortisce effetto, allora insiste con una ulteriore lettera: "Le sarò grato se vorrà benevolmente accogliere questa mia ulteriore umile richiesta e dar consistenza alle aspirazioni del G.". Allora finalmente G. viene assunto a tempo indeterminato alla Gestione centri latti di Bologna: "La prego di gradire il mio più devoto e profondo ossequio", ringrazia il cardinale.

Non è facile fare contenti tutti. Nel 1958 il senatore liberale Edoardo Battaglia quasi si sfoga con il principe Franco Lanza di Scalea, presidente dell'Ente zolfi: "Tu sai che io di richieste ne ho infinitamente assai e sono in grado di fornirti dall'usciere al segretario particolare più abile. Allora gradirei sapere quali dovrebbero essere le qualità della persona (almeno una) che potresti assumere".

La piaggeria trasuda dalle formule di saluto: "carissimo", "devoti saluti", "distintamente ossequio", "vivi ringraziamenti", "devotissimo", "obbligatissimo". Una tra tante suona perlomeno più originale: "tante affettuosità".

Il regno dell’omertà e del privilegio. Perché in Italia vincono i mediocri. Il nuovo libro di Sergio Rizzo, «La Repubblica dei Brocchi», denuncia i comportamenti senza vergogna della classe dirigente pubblica e privata, scrive Ferruccio De Bortoli l'1 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dominio esercitato dal ceto dirigente burocratico su un’Italia bendata che non è in grado di controllarlo. La Repubblica dei Brocchi di Sergio Rizzo (Feltrinelli) è un tagliente atto d’accusa nei confronti della classe dirigente italiana. Spietato. Non risparmia nessuno. Nemmeno i giornalisti. Nel leggerlo mi è venuto in mente, non solo per assonanza, un pamphlet pubblicato nella Francia d’inizio secolo scorso. La République des Camarades, ovvero dei compari, di Robert de Jouvenel, riproposto in Italia, qualche anno fa, a cura di Emanuele Bruzzone. Quando la democrazia deperisce nella ragnatela delle amicizie compiacenti, gli interessi particolari e le relazioni oscure. Ma il racconto giornalistico di Rizzo è così ricco di episodi di malcostume o di semplice incoerenza o stupidità da ridurre, nel confronto, lo scritto sui mali della Terza Repubblica francese alla mera fisiologia del potere. Nel caso italiano di normale c’è molto, troppo. La furbizia elevata a dote ostentata della vita sociale, la facilità con cui si violano le norme senza pagarne mai un dazio in termini di minore reputazione, la tendenza a sentirsi sempre vittime, imputando agli altri i mali del Paese. Al punto che lo straordinario saggio di Rizzo sul declino della classe dirigente (pubblica e privata, sia ben chiaro) italiana, poteva benissimo avere un altro titolo. I brocchi hanno talento. Sono inaffondabili. Sono esempi di successo. E a volte abbiamo la netta sensazione che, alla fine, vincano loro. Rizzo ha la freddezza del giornalista e commentatore d’inchiesta, attento al dettaglio, che non fa sconti, ma non è privo di speranza. Riconosce le tante qualità del Paese, le molte eccellenze, il capitale sociale della solidarietà e termina il suo libro con quelli che lui chiama piccoli consigli. Codici etici, per esempio, che non siano solo foglie di fico stese sul miope corporativismo italiano. Quello che fa dire ai tanti che si comportano bene: siamo tutti colleghi, dunque diamoci una mano. E chiudiamo un occhio, non si sa mai, prima o poi potrebbe accadere anche a noi. Un impegno autentico nel moralizzare la politica, magari attuando quell’articolo 49 della Costituzione sulla trasparenza e la democraticità della vita dei partiti. Oppure accogliendo, quando si formano le liste per le elezioni di qualsiasi natura, il «piccolo consiglio» di Gustavo Ghidini, storico fondatore del Movimento consumatori: dichiarare pendenze penali, situazione patrimoniale, interessi in conflitto. Proposta tanto semplice da essere caduta sempre nel vuoto. Del resto l’articolo 54 della Costituzione recita: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». Sia l’articolo 49 sia il 54 della Costituzione del 1948 sono rimasti largamente inattuati. È giusto riformare, ma forse è anche doveroso attuare. Senza vergogna. Ecco il filo conduttore delle tante storie raccontate da Rizzo. A volte si rimane senza parole, potremmo persino dire ammirati, nel costatare l’immensa fantasia giuridica degli italiani. Che cosa non si fa per mantenere un vitalizio, per giustificare un privilegio, e persino per aggirare i risultati di un concorso. Come quello della Asl (oggi si chiamano Ats) di Pavia, vinto da un’unica candidata, evidentemente sgradita, e annullato perché le domande sono state ritenute «troppo difficili». Un’eccezione si trova sempre. Per far sì, ad esempio, che i dirigenti statali chiamati a ricoprire incarichi negli organi collegiali delle società pubbliche, siano pagati a dispetto della gratuità inizialmente prevista per legge. O consentire a un prefetto di assumere la carica di sindaco della sua città. La burocrazia è refrattaria ad essere giudicata (le resistenze alla pur lieve riforma Madia ne sono una prova). Rizzo ricorda un’indagine del 2014, secondo la quale tutti i dirigenti pubblici di prima fascia hanno avuto una valutazione non inferiore a nove su dieci. Tutti geni o tutti, in qualche modo, complici. Il sindacato non è da meno, specie quello nel pubblico impiego e nelle municipalizzate. All’Azienda trasporti di Roma è prevista la concessione, nel 2016, di 131 mila ore di agibilità sindacale, corrispondenti al lavoro di 82 persone, per un costo di 4,3 milioni. Il dopolavoro, cioè il sindacato, gestisce mense ed altri servizi. A costi d’affezione. Chi ha proposto di sostituire la mensa, costosa come un ristorante stellato, con i buoni pasto si è visto tagliare le gomme della sua auto. A proposito di gomme, quelle dei mezzi circolanti in città sono fornite da una società esterna gestita da un funzionario Atac in aspettativa. C’è posto per tutti, parenti e amici, meglio se di sindacalisti importanti. Il servizio, o quello che resta, per gli utenti, può aspettare. Non stupisce nessuno che un ex giudice della Corte costituzionale difenda contro lo Stato un condannato per truffa. Né che membri dell’Avvocatura si rivolgano al Tar contro la decisione del governo di mandarli in pensione a 70 (settanta!) anni, o che magistrati si rivolgano alla Corte costituzionale per contestare un taglio in busta paga. Certo, sono cittadini come gli altri. L’esempio, come servitori dello Stato, censurabile. La classe dirigente privata non è migliore di quella pubblica. Spesso persino peggiore. «Burocrazia, concorrenza inesistente, incarichi affidati sulla base di relazioni personali. Eccole qui — scrive Rizzo — le cause del degrado generale di certe professioni». Le vicende dei dopo terremoto sono assai significative per giudicare il ruolo, non sempre professionale, dei tecnici chiamati a fare le perizie. Rizzo ricorda che il cratere del sisma che colpì, nel 2002, il Molise riguardava 14 comuni. Aumentati in seguito a 83, ovvero tutti quelli della provincia di Campobasso. Tranne uno. Guardiaregia, il cui sindaco non aveva denunciato danni. E probabilmente non è passato come un custode della legalità. I troppi scandali bancari pongono un interrogativo sulla qualità e la moralità di diversi manager, consiglieri d’amministrazione, sindaci, revisori e sulla loro incapacità di vedere o denunciare pratiche sospette. E aprono uno squarcio — che Rizzo indaga in profondità — su una certa omertà territoriale, sull’orgoglio delle appartenenze che sconfina spesso in complicità. Anche la Confindustria, nel suo gigantismo rappresentativo, fa parte della Repubblica dei Brocchi. Emergono le figure dei professionisti delle associazioni, collezionisti d’incarichi. Un mondo che riproduce al proprio interno difetti che denuncia come inaccettabili per la politica e per il resto della società.

LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.

La lettera di Michele che si è ucciso a trent'anni perchè stanco del precariato e di una vita fatta di rifiuti. La denuncia dei genitori: "Nostro figlio ucciso dal precariato, il suo grido simile ad altri che migliaia di giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte a una realtà che distrugge i sogni". Michele ha scritto: "Non posso passare il tempo a cercare di sopravvivere". Ecco il suo scritto-denuncia, scrive il 7 febbraio 2017 "Il Messaggero Veneto". Con questa lettera un trentenne friulano ha detto addio alla vita. Si è ucciso stanco del precariato professionale e accusa chi ha tradito la sua generazione, lasciandola senza prospettive. La lettera viene pubblicata per volontà dei genitori, perché questa denuncia non cada nel vuoto: «Di Michele - dice la madre - ricorderemo il suo gesto di ribellione estrema e il suo grido, simile ad altri che migliaia di altri giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte ad una realtà che distrugge i sogni».

“Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione. Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare. Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno. Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri. Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino. Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento. P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi. Ho resistito finché ho potuto”. Michele

VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.

Il bamboccione antifascista di Giampaolo Rossi su “Il Giornale” il 9 febbraio 2017.

“Mamma, io esco a fare la rivoluzione!!” “Va bene, ma hai messo la maglia di lana?” Pensate sia un dialogo surreale? Non lo è. Nei giorni in cui in Italia scoppia la polemica per la figlia del ministro Padoan a capo dei cortei di clandestini e in America i nipotini di Soros mettono a ferro e fuoco Università e quartieri, picchiando, distruggendo e impedendo ai “fascisti trumpisti” di parlare “per difendere la democrazia” da un Presidente eletto democraticamente, in Germania il settimanale Bild pubblica i dati di una ricerca realizzata dal BfV (l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione) uno degli organi dell’intelligence tedesca. La ricerca riguarda i reati a sfondo politico commessi a Berlino nel periodo 2009-2013, città dove la violenza politica negli ultimi anni è salita vertiginosamente; in tutto 1523 reati, la maggior parte dei quali compiuti dall’estrema sinistra.

“Papà scusa, mi dai la paghetta che devo comprarmi una molotov?” “Tieni ma non spenderti tutto come tuo solito!”. La ricerca del BfV traccia un identikit socio-antropologico dell’estremista di sinistra colpevole di reati politici; e il dato più eclatante (e più divertente) è che il 92% di loro vive ancora con mamma e papà. Si, avete capito bene: i campioni della rivoluzione, gli eroici antifascisti, i nuovi partigiani rimangono inguaribili mammoni. Sembrano cattivi, spietati, ideologicamente motivati, ma sotto le loro tute nere, i cappucci e la kefiah, batte “nu piezz’ ‘e core”; perché loro, tra un sampietrino e una spranga, uno slogan e una bandiera rossa, non schiodano dall’uscio domestico e si divertono a fare la rivoluzione con i soldi di papà. Predicano di abbattere le frontiere delle nazioni (retaggi borghesi e imperialisti) per accogliere immigrati e clandestini ma si tengono bene alzate quelle di casa propria. Secondo la ricerca, l’identikit del bamboccione antifascista germanico colpevole di reati politici è questo: maschio (84%), di età compresa tra i 18 e 29 anni (72%), studente o disoccupato (uno su tre), con istruzione bassa (34% scuola media, 29% diploma). I reati commessi dal bamboccione antifascista sono violenza, aggressione, incendio doloso, resistenza a Pubblico ufficiale; più raro il tentato omicidio. Il suo obiettivo sono per lo più persone fisiche (60%), prevalentemente poliziotti ma anche un 15% di avversari di destra.

“Mamma esco, vado a spaccare la testa ad un nemico del proletariato”. “Va bene, ma ricordati di prendere il latte quando rientri, sennò domani niente colazione!” Il bamboccione antifascista è una figura ancora più ridicola del radical-chic; è la sua involuzione antropologica. È il prodotto narrativo di una società che trasferisce la noia nella politica. Il bamboccione è carico di odio per il mondo perché incolpa il mondo del proprio fallimento; è un walking dead che si muove in gruppo perché da solo non ha alcuna consapevolezza di sé: in pratica è solo un nickname. Se il fighetto radical chic è un dandy ideologico, ricco e ipocrita e cattivo che copre con l’odio ideologico il senso di colpa per il suo benessere (di cui spesso non ha alcun merito), il bamboccione antifascista è il sottoprodotto di una modernità neanche liquida ma liquefatta. Mamma e papà non rappresentano il valore della famiglia, il legame fondante di un ordine naturale, ma solo l’area di parcheggio tra la Play Station e la rivoluzione. Tra il bamboccione di Berlino, lo studentello intollerante dell’Università liberal americana, il “rivoluzionario al cachemire” del Mamiani e la figlia di un ministro che guida i cortei di clandestini, si trova le stesse ridicola contraddizione: “Ci chiamano banditi, ci chiamano teppisti, ieri partigiani, oggi antifascisti”. E figli di papà…

La Veronica di Padoan, scrive il 24/08/2016 Massimo Gramellini su "La Stampa”. Tra gli indignati di professione c’è chi si è molto stupito che la figlia del ministro Padoan sia scesa in piazza armata di megafono contro la pigrizia del governo nella lotta al caporalato. Dove andremo a finire con questi ragazzi ribelli, signora mia. Che se poi hai il privilegio di avere un padre ministro, non faresti prima a protestargli addosso mentre addenta il cornetto della colazione? Senza contare che è tipico dei bambocci viziati della borghesia di sinistra abbracciare la causa esotica dei migranti sfruttati nelle campagne anziché solidarizzare con la nonnina di razza bianca che non arriva a fine mese. Queste le gocce di saggezza che grondavano dal web e da certe prime pagine vergate da campioni della coerenza intellettuale sempre pronti a eccitarsi appena scorgono un sospetto di contraddizione. A noi del reparto Ingenui ha invece colpito che come luogo di villeggiatura ferragostana la figlia di un ministro abbia preferito il cortile della prefettura di Foggia alle spiagge di Ibiza (o di Capalbio, dai). E che ci sia ancora qualcuno disposto a battersi per difendere relitti di un’antica civiltà come il rispetto dei contratti di lavoro. Se fossi Padoan, sarei orgoglioso di averle trasmesso certi valori. Qualcuno si scandalizzerà che la figlia di un ministro sia di sinistra. Ma a vent’anni succede e nel caso di Padoan pare lo sia stato persino lui, addirittura fino a non molto tempo fa.

La figlia di Padoan in piazza per i profughi con i centri sociali. L'agitatrice di immigrati è Veronica, pupilla di quel ministro dell'Economia che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo, scrive l'8/02/2017 "Diario del web". Sembra assurdo, ma c'è una figlia di un ministro che è scesa in piazza a fianco dei centri sociali per manifestare contro le politiche sull'immigrazione del governo Gentiloni, considerate troppo restrittive. La cosa si fa ancora più assurda quando si scopre che l'agitatrice di profughi è Veronica Padoan, pupilla di quel Pier Carlo che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo. Veronica è stata immortalata in un video che documenta la protesta dei clandestini che vivono nella tendopoli abusiva di San Ferdinando a Rosarno: lei è lì fra i promotori di quel corteo organizzato senza preavvisi fra le vie del paese, che con Rosarno, ospita il maggior numero di immigrati della provincia di Reggio Calabria. E' stata proprio la figlia di Padoan a guidare una delegazione che ha incontrato le istituzioni locali per avanzare le solite richieste retoriche: «Documenti subito», «Una casa e un lavoro per tutti», «Via le frontiere». Schiaffi in faccia ai residenti di quella sfortunata provincia che devono affrontare oltre a una cronica mancanza di lavoro anche servizi allo sbando, dalla sanità ai trasporti passando per l'assistenza sociale. La tendopoli di San Fernandino poi ha aggravato la situazione, portando in quel lembo di Calabria spaccio, prostituzione, degrado, il campo è un ammasso di baracche di fortuna dove l'immondizia viene smaltita con roghi in mezzo ai giacigli, e ha abbassato i diritti dei lavoratori più umili, con il racket del caporalato che si è sempre più ingrassato.

La figlia di Padoan guida la rivolta dei clandestini (insieme ai centri sociali). Le condizioni delle tendopoli sono al limite del disumano. E monta la rabbia degli italiani, scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". È Veronica Padoan, figlia del Ministro dell'Economia, che guida il corteo di protesta organizzato assieme agli immigrati «sans papier» della tendopoli abusiva di San Ferdinando, il Comune della provincia di Reggio Calabria che, con Rosarno, ospita il maggior numero di africani e mediorientali, quasi tutti clandestini e senza documenti, fra quelli arrivati in gommone fino alle scalette delle navi della nostra Marina Militare. In molti si sono chiesti cosa ci facesse, fra tanti irregolari, la rampolla di un rappresentante del governo italiano, ma la domanda è rimasta senza risposta. Veronica Padoan, la giovane accanita manifestante, protetta dai suoi commilitoni del collettivo «Campagna in Lotta», era quasi irriconoscibile, nascosta dal cappuccio del suo giaccone. Una cosa è certa: è assieme a lei che un gruppo di immigrati è entrato a Palazzo per incontrare le istituzioni. Il tutto è accaduto nelle prime ore del giorno: i cittadini del piccolo comune pianigiano, usciti di casa per le quotidiane necessità, si sono trovati davanti un corteo di protesta organizzato, come spesso accade, senza alcun preavviso, dai centri sociali e dai più facinorosi tra gli ospiti della tendopoli. A preoccupare i sanferdinandesi, i toni sostenuti delle ormai arcinote richieste: «Documenti subito», «migliori trattamenti», «case e lavoro». Considerando le condizioni precarie di vita (sanità al collasso, trasporti scadenti, servizi sociali inesistenti) e la mancanza di lavoro anche per i lavoratori calabresi (non bisogna dimenticare che San Ferdinando è, assieme a Gioia Tauro e Rosarno, uno dei tre Comuni sul cui territorio insiste il porto. Così come non si deve dimenticare che proprio in quel porto si potrebbe consumare, a breve, una delle più gravi tragedie del lavoro degli ultimi anni: il licenziamento di oltre 400 lavoratori, paventato già parecchie volte negli ultimi mesi, le richieste degli stranieri risultano essere quasi fuori luogo. In realtà, la condizione di vita degli immigrati nelle tendopoli di San Ferdinando, è al limite del disumano. Capanne costruite con pali e legni di fortuna, coperte con teli di plastica, cartoni e cartelloni stradali, senza servizi igienici, immerse in dune di spazzatura che viene, ciclicamente, bruciata, sprigionando gas mefitici e dannosi alla salute di tutti. Promiscuità, uso e spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione e sfruttamento, caporalato e continui atti di violenza. A volte sedati dall'intervento delle Forze dell'Ordine, invitate ad intervenire dagli stessi immigrati; ma, molto spesso, finiti male, perché risolti senza l'intervento della Legge e regolamentati da patti tribali incomprensibili dalla Società Civile. La convivenza coi locali sta diventando, di giorno in giorno, sempre più difficile. E non solo per i problemi legati all'igiene e al malaffare: la rabbia delle famiglie italiane poggia su critiche pesanti anche alle istituzioni che non sono riuscite, in questi anni di immigrazione incontrollata, a difendere decenni di lotte sociali a tutela dei diritti dei lavoratori. In queste contrade, c'è chi, come Giuseppe Lavorato, è morto nel difendere i braccianti e le loro fatiche. E, dunque, sembra un ritorno ad un medioevo economico, la paga quotidiana a 25 euro per tutti, bianchi e neri, considerando l'eccessiva richiesta di lavoro anche sottopagato. La polveriera Piana di Gioia Tauro potrebbe esplodere da un momento all'altro. Come avvenne nel 2010. Anche per colpa di qualche «studentello» fricchettone che pensa di poter raccattare qualche minuto di celebrità a danno di tanti, italiani e non, che combattono ogni giorno contro il mostro della sopravvivenza.

La polizia contro la figlia di Padoan: "Il ministro prenda le distanze da questa vergogna". "E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene", scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". Dopo le immagini da noi pubblicate, che ritraggono la figlia del Ministro dell’Economia al fianco degli extracomunitari in protesta, scoppia la polemica. “Sarebbe bello vedere una donna così vicina al mondo istituzionale e partitico fare un corteo pro forze dell'ordine. Soprattutto in una regione come la Calabria, dove lo Stato è in guerra contro l'anti stato.” Dichiara al Giornale.it Giuseppe Brugnano, segretario regionale del Coisp Calabria. Mentre i carabinieri e la polizia sono impegnati quotidianamente a mantenere l’ordine e, soprattutto, la calma all’interno della grande tendopoli c’è chi fomenta l’odio organizzando manifestazioni di piazza. “E’ inaccettabile che i corrispondenti di Radio Onda Rossa, “fratelli” del collettivo “Campagna in lotta”, di cui fa parte proprio Veronica Padoan, apostrofino in diretta radiofonica gli agenti di polizia in servizio per mantenere l’ordine pubblico come “sbirri”. E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene. Ogni volta che gli agenti entrano in quel campo abusivo rischiano la vita. Le risse sono all’ordine del giorno. Come dimenticare i tragici fatti di qualche mese fa dove, un carabiniere, intervenuto per sedare una rissa fra immigrati, è stato ferito al viso e, per legittima difesa, ha sparato uccidendo un migrante. Dobbiamo evitare che si ripeta una tragedia del genere. Veronica Padoan si vergogni! Auspichiamo che il padre, il ministro Padoan, prenda ufficialmente le distanze da questo mondo in cui gravita la figlia.” Conclude Brugnano. Gli oltre duemila immigrati che vivono nel ghetto di San Ferdinando chiedono documenti e, soprattutto, una nuova tendopoli. Già promessa mesi fa dalla regione Calabria, la quale ha stanziato 300 mila euro. Ma tutto è fermo.

Veronica Padoan: "Questa non è giustizia". E la figlia del ministro attacca: "Se il governo non ci ascolta porteremo la nostra protesta fino a Roma. La nuova legge aiuta l'illegalità", scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" il 23 agosto 2016. Scusi, ma davvero lei è la figlia del ministro Padoan? "Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono, ma quello che dico". Fuori dalla Prefettura di Foggia una decina di ragazzi e ragazze, italiani e migranti, protestano contro il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, i parlamentari, i rappresentanti della Prefettura e dei sindacati, che stanno discutendo della nuova legge sul caporalato. Con il megafono in mano c'è Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, Piercarlo. "Caro ministro dell'ingiustizia... ", comincia così, megafono in mano, uno dei messaggi che lancia a Orlando mentre, insieme ai compagni, grida: "Assassini in giacca e cravatta, assassini con la divisa".

Sono anni che chiedete una nuova legge sui braccianti. Ora quella legge è pronta, voluta da questo governo. Perché siete qui a protestare?

"Perché non è certo quello che serve. L'unico strumento reale per cambiare le cose sono i contratti nazionali di lavoro e gli accordi provinciali: sono l'unica maniera, seppur minima, per eliminare lo sfruttamento o parte di esso".

Che significa?

"Non inserire la questione del trasporto e dell'abitazione all'interno dei contratti significa regalare l'illegalità ai caporali. E questi signori lo sanno bene. Sanno che gli strumenti per cambiare le cose sono proprio quei contratti che loro hanno firmato. Sanno che la legalità del territorio e del lavoro in agricoltura passa attraverso la legalità di chi ci lavora. È una storia così banale, così triste, così vera".

Ma davvero lei è la figlia del ministro dell'Economia? Ne ha parlato con suo padre?

Veronica prende in mano il megafono. "Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un'altra parte". Poi, mano verso la Prefettura, il coro: "Questo palazzo non serve a un ca...".

Veronica Padoan e gli eredi ribelli dei politici, scrive Francesca Buonfiglioli il 23 agosto 2016. Da Marco Donat-Cattin fino alla figlia di Padoan. Passando per Delrio junior. Quando l'erede del politico è scomodo. O si schiera contro le istituzioni. «Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono ma quello che dico», ha detto secca Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, intercettata durante una manifestazione contro il caporalato e le condizioni subumane dei lavoratori del ghetto di Rignano garganico. Megafono alla mano ha minacciato: «Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un’altra parte». E poi, indicando il Palazzo della Prefettura, si è unita al coro in rima baciata: «Questo palazzo non serve a un ca...». Veronica Padoan è ricercatrice presso l'Ires, l'istituto di ricerche economico-sociali della Cgil, e da anni si occupa di tematiche legate all'immigrazione e al mercato del lavoro. «Ha collaborato con numerosi istituti di ricerca e istituzioni», si legge in un suo stringatissimo cv pubblicato anni fa da Social Europe, una casa editrice digitale londinese, «tra cui l'Anci, l'ufficio statistico del Comune di Roma, l'Iprs (Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali) e l'Osservatorio sull'immigrazione dell'Ires».

Decisamente una strada diversa da quella intrapresa dalla sorella Eleonora che dal primo luglio 2015 è dipendente a tempo indeterminato di Cassa depositi e prestiti. Contratto arrivato senza concorso perché la Cdp non rientra nella Pa, ma «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014» e «volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». E infatti Eleonora lavorava come economista alla Sace, controllata dalla Cassa depositi e prestiti.

Veronica Padoan, però, non è certo la prima né l'unica figlia ribelle di un politico o di un rappresentante delle istituzioni.

Donat-Cattin e Prima Linea. A metà degli Anni 70 Marco Donat-Cattin, figlio del noto Carlo esponente della sinistra sociale della Dc, tra i fondatori della Cisl e pluriministro, prese parte alla costituzione di Prima Linea. Con il nome di Comandante Alberto divenne uno dei leader dell'organizzazione terroristica. Identificato dalla polizia nel 1980 grazie alla testimonianza dell'ex compagno Roberto Sandalo, riuscì a riparare in Francia, ma venne estradato in Italia l'anno dopo. Lo scandalo travolse il padre che si dimise da ogni incarico di partito prendendosi una pausa dalla vita politica e pure l'allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga accusato in un primo momento di aver agevolato la fuga del terrorista avvertendo il padre Carlo che il figlio era ricercato. Dissociatosi da Prima Linea, Donat-Cattin jr beneficiò della riduzione della pena ottenendo gli arresti domiciliari nel 1985. Tre anni dopo morì in un incidente stradale.

Tommaso Cacciari. Tra le calli di Venezia, invece, si consuma da anni la querelle dei Cacciari. A dare grattacapi a Massimo, ex sindaco della Serenissima, è stato il nipote Tommaso no global e tra i leader dei centri sociali veneziani e figlio di Paolo, fratello del filosofo ed ex deputato di Rifondazione. I sabotaggi al Mose e alcuni atti dimostrativi tra Venezia e Milano sono costati a «Cacciari il Giovane» (copyright Giancarlo Galan) grane giudiziarie. Nonché le reprimende dello zio che a più riprese aveva condannato le modalità di lotta del nipote. Ex «portiere di notte», su Twitter oggi si definisce «attivista del laboratorio occupato Morion e del Comitato NoGrandiNavi - NoMose, antifascista».  Insomma, le barricate, nonostante gli anni che passano, stanno ancora in piedi.

Michele Delrio. Tornando ai figli di ministri, pure in quel di Reggio Emilia Michele Delrio, detto Billo, uno dei nove figli dell'ex sindaco e ministro, decise di abbandonare il politically correct e attaccare su Facebook il governo Letta di cui suo padre era stato responsabile delle Autonomie regionali. «Sfido chiunque a dirmi un provvedimento a lungo termine che abbia approvato questo governo», aveva tuonato il giovane arbitro di calcio nel febbraio 2014, pochi giorni prima della caduta dell'esecutivo. «In 10 mesi nulla è stato fatto in tema di lavoro, oltre a rifinanziamento a cassa integrati. Pasticcio sull’Imu, pasticcio su Bankitalia, pasticcio su decreto carceri. Al Paese non serve un eroe ma un governo, che possibilmente governi e non punti a sopravvivere». Un'uscita da cartellino giallo per alcuni, ma che Michele non rinnegò: «Dico quel che penso indipendentemente da mio padre», commentò chiudendo la questione. A dirla tutta, però, Delrio jr un suo eroe lo aveva già e da tempo visto che nel 2012, appena 20enne, aveva creato un coordinamento cittadino per appoggiare Matteo Renzi alla primarie. Annunciando la nascita del gruppo, spiegò sempre sul social con entusiasmo: «Siamo un gruppo di amici, di ragazzi che non si rassegnano all’idea di dover consegnare la politica ai disonesti. Il nostro gruppo si chiama “Adesso!! Kairos” e vogliamo dare voce a chi non ha più la forza di alzarla e dare dignità a coloro che l'hanno persa. Matteo Renzi rappresenta una ventata di cambiamento, di politica fatta dal basso, di quella politica che si sporca le mani lavorando e sudando la fiducia del popolo. Abbiamo voglia prima di tutto di ricominciare a sognare, di tornare ad impegnarci, a credere in qualcosa e non in qualcuno». Endorsement che anticipò addirittura quello del padre. 

Figli ribelli, contro il sistema, contro lo Stato o contro il governo. Ma nulla in confronto a chi il parricidio lo organizzò per davvero. O almeno così racconta la storia.  Nel 2 a.C., Giulia Maggiore, unica figlia naturale di Augusto e moglie di Tiberio, fu arrestata con l'accusa di adulterio e tradimento per aver congiurato contro suo padre. Dopo l'esilio a Ventotene, morì forse di stenti a Reggio Calabria. Il rimorso non abbandonò mai Augusto, che parlando della figlia si narra prendesse a prestito le parole dell'Iliade: «Vorrei essere senza moglie, o essere morto senza figli».

La politica sfasciafamiglie. Dalla figlia di Padoan, occhiali da sole e megafono, che protesta contro i "giochini del governo", al figlio diciottenne di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) in piazza contro il Jobs Act mentre suo padre elogia le riforme in un’intervista sul Financial Times. Il privato è dibattito, scrive Annalena Benini il 24 Agosto 2016 su “Il Foglio”. Veronica Padoan, figlia del ministro dell’Economia, ha protestato contro “i giochini” del governo. Occhiali da sole, capelli sciolti e megafono, ha manifestato pacificamente con il suo gruppo di attivisti davanti alla prefettura di Foggia, in occasione della visita del ministro della Giustizia Andrea Orlando (“bene, abbiamo l’interlocutore adatto”, ha detto con sarcasmo al megafono Veronica Padoan quando il ministro è arrivato). La questione è quella del lavoro nelle campagne dei braccianti stagionali, non solo extracomunitari, con le baraccopoli fatiscenti e abusive, il caporalato, migliaia di persone sfruttate e sottopagate, niente docce, niente tutele. E’ una battaglia che Veronica Padoan combatte da molto prima che suo padre diventasse ministro del governo Renzi, è qualcosa che attraversa la famiglia, i legami personali, il sangue, e ha bisogno di affermarsi anche controvento, come (ma in modo più evidente e serio) nei pranzi della domenica in cui non siamo mai d’accordo con nostra madre, nostro padre, i figli, sui destini del mondo, sui modi per salvarlo, e anche su chi è meglio votare. Veronica Padoan parla, accesa e severa, dei “signori del palazzo” e dei giochini del governo, anche se in questo governo c’è suo padre, e rivela l’umanissima, vitale tradizione del dissidio politico famigliare, anche doloroso, anche difficile da sopportare, che non viene pacificato da un ruolo importante né dalla fiducia personale. Si diventa adulti anche per contrarietà, si cerca la differenza, il conflitto, l’autonomia. Mai come mio padre, penserà forse il figlio di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) che a diciotto anni, da presidente del Movimento studentesco milanese, ha protestato in piazza contro il Jobs Act e contro l’ingresso dei privati nella scuola pubblica, mentre suo padre elogiava le riforme in un’intervista al Financial Times. Padri e figli, mariti e mogli, litigano per la politica da sempre (la compagna di Matteo Orfini, madre dei suoi figli, ha raccontato lui stesso, “dà ragione a chi fa opposizione a noi, lei è oltre il Pd”) e in queste discussioni, in questi contrasti, in questo darsi torto, c’è anche il gusto di non essere mai d’accordo, di cercare di convincere l’altro, senza riuscirci quasi mai, perfino divertendosi a battere i pugni sul tavolo, a rincorrersi in bagno per continuare a litigare agitando fogli di giornale, citando a memoria stralci di talk-show notturni, anche negando il like all’ultimo severissimo giudizio politico postato su Facebook. Ci sono storie più dolorose: Giovanni Amendola e suo figlio Giorgio discutevano perché il padre era antifascista ma liberale e il figlio antifascista ma attratto dal comunismo (aderì al Pci dopo la morte del padre), ma non è immaginabile una riunione di famiglia, una cena di Natale in cui, al primo accenno alla politica, alla Costituzione, alle riforme, alla scuola, nessun parente cominci ad agitarsi sulla sedia, a sbuffare, a diventare rosso per la rabbia, a scuotere la testa con aria sarcastica. Ci si calma, di solito, quando qualcuno di molto saggio grida, dalla cucina: chi vuole un caffè?

Quella lunga lista di figli di papà che giocano a rinnegare i genitori. Veronica Padoan non è sola, scrive il 24 Agosto 2016 “Il Tempo”. Dall’altro ieri Veronica Padoan ha aggiunto un’altra pagina all’eterno diario dello scontro figli-genitori. Ordinario e fisiologico in tutte le famiglie, diventa suggestivo, e vagamente retorico, quando tra le parti opposte della barricata si piazzano uomini politici - e di governo- con la relativa progenie. Così la rampolla di Piercarlo, ministro dell’economia, è scesa in piazza a Foggia con tanto di megafono manifestando contro la visita di un collega di suo padre, il Guardasigilli Andrea Orlando, perorando la causa dei braccianti extracomunitari stagionali. Non vi è traccia, al momento, di reazioni pubbliche dell’augusto genitore. Al contrario di quanto fece, nel 2014, l’allora vice ministro agli Esteri Lapo Pistelli, quando il figlio liceale scese in piazza in una di quelle tradizionali manifestazioni contro le politiche del governo (tocca un po’ a tutti) sulla scuola. Pistelli senior la prese con ironia: «La prossima volta parliamone a cena a casa», scrisse sul suo profilo Facebook. Crisi familiare sventata dunque. Più complessa fu invece l’esperienza di Paolo Guzzanti, quando oltre ad essere editorialista del Giornale, nel 2001 fu eletto senatore con Forza Italia. Erano gli anni di girotondi, dell’«editto bulgaro», del mondo della cultura di sinistra lancia in resta contro Berlusconi. In prima linea si distingueva Sabina Guzzanti, regista e attrice figlia di Paolo. Suo padre le scrisse una lettera aperta, cercando di spiegarle la vera natura del berlusconismo. Lei le rispose con una mail privata in cui lo accusava, rivelò lui con comprensibile amarezza, di far parte «di un’accolita di delinquenti», perchè «Forza Italia e la Casa delle Libertà sono sinonimo di mafia, razzismo, fascismo, antidemocrazia». Può capitare, poi, che tra il padre politico e il figlio si incunei un certo ribellismo tipico dell’età, foriero di imbarazzi per il ruolo del genitore. Pare che, negli ultimi tempi, Barack Obama sia alle prese con le intemperanze festaiole della figlia Malia, ormai maggiorenne, paparazzata a fumare quel che ha tutta l’idea di essere uno spinello. Agli annali sono anche i rapporti burrascosi che ci furono tra George H. Bush e suo figlio, il discolo George W. Entrambi sarebbero diventati rispettivamente il 41esimo e il 43 esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma nel 1973 non lo sapevano e così ecco un adirato George senior, allora presidente del Partito Repubblicano, accogliere sulla porta di casa il figlio ubriaco dopo una notte brava che lo voleva prendere a pugni. Ben più drammatiche furono alcune vicende di casa nostra. Carlo Donatt Cattin, esponente e uomo di governo diccì a cavallo tra i ’70 e gli anni ’80, ebbe la propria carriera politica compromessa dalla scelta compiuta da suo figlio Marco di abbracciare la lotta armata, nella schiera di Prima Linea, il gruppo guidato da Sergio Segio. Marco, negli anni, si dissociò dal percorso terroristico, ma poco dopo la vita gli presentò il conto più amaro, e morì investito dopo che si era fermato a soccorrere alcuni automobilisti coinvolti in un tamponamento. Prima di Donatt Cattin, anche Attilio Piccioni, ministro democristiano negli anni ’50, ebbe guai per via del figlio. Piero, compositore, fu infatti coinvolto nello scandalo Wilma Montesi, una ragazza trovata morta sul litorale di Tor Vajanica; dietro quel cadavere si delineava uno scenario di scandali nella Roma post bellica, in una mondanità sfrenata ribollente di orge e droga a fiumi. Piccioni Jr alla fine fu scagionato, ma suo padre nel frattempo si era dovuto dimettere da ministro degli Esteri. Ai giorni nostri, poi, ci sono alcuni casi più o meno noti di ribellismi elettorali. Due anni fa, a San Giorgio di Piano, in provincia di Bologna, il figlio del locale segretario Pd si è candidato al Comune con i Cinque Stelle, risultando eletto. Poi c’è anche il caso contrario, quando è il padre a ribellarsi al figlio. È il caso di Giambattista Borgonzoni, padre di Lucia, candidata leghista a sindaco di Bologna che è riuscita ad arrivare al secondo turno. Lui, moderato di sinistra, tessé pubblicamente le lodi alla figlia ma annunciò che no, la Lega non l’avrebbe mai votata. Perché i figli, quando ci si mettono sono spietati. Ma anche i genitori…

Di padre in figlia: italiani ultimo pensiero. Veronica Padoan, ricercatrice Cgil e pargola del ministro, alla testa di una protesta dei migranti, scrive “Il Giornale d’Italia” il 23/08/2016. C’era una pasionaria, ad attendere il ministro Andrea Orlando ieri a Foggia. Arrabbiata, per dire un eufemismo, nera: nera come gli occhiali da sole e come la quindicina di manifestanti dietro alle sue spalle. Capeggia la rivolta di “Campagna in lotta”, vorrebbe veder chiuso il “ghetto” di Rignano Garganico dove migranti economici (quelli che una volta sarebbero stati definiti semplicemente clandestini: ma si ha la sensazione che dirlo oggi siamo ormai vietato) vivono nelle baracche in attesa di lavorare nei campi e si chiama Veronica Padoan. Già, come il ministro dell’Economia. Di cui è, d’altronde, figlia. “È dal 2014 che la Giunta Vendola aveva millantato di smantellare il ghetto. Il problema non sono queste micro-comunità – il suo grido – il problema è che non si organizza effettivamente il lavoro nei campi”. E sfoggia, nelle interviste sotto la Prefettura, grande cognizione del tema. D’altronde è una ricercatrice dell’Ires, l’istituto di ricerca sociale fondato dalla Cgil e oggi sotto l’egida della Fondazione Di Vittorio. È anche convincente, quanto meno per chi ancora è succube di certe suggestioni assistenzialistiche che nell’Italia di oggi hanno ben poco senso. Per accorgersi di questa verità, la pasionaria Veronica, dovrebbe semplicemente cercare nella rubrica del suo smartphone il nome “papà”, e chiedere soldi. Oppure, potrebbe rivolgersi alla voce “Eleonora”. È sua sorella, anch’ella Padoan, da poco assunta alla Cassa Depositi e Prestiti con contratto a tempo indeterminato. La Cdp è considerata il bancomat preferito dal governo: chissà che non si trovi qualche “risorsa” per abbattere il ghetto e dare casa, diritti e lavoro alla quindicina di cui Veronica s’è messa a capo. D’altronde, da poche settimane, Eleonora Padoan si occupa all’interno della Cassa (ossia il gruppo pubblico che gestisce il risparmio postale degli italiani ed è controllato proprio dal Tesoro, cioè da papà…) del settore cooperazione e sviluppo internazionale. Che con la Cgil da un lato e i migranti nei campi dall’altro, guarda un po’, pare avere una competenza diretta.  Li troverà, la protettrice dei migranti, i soldi, per un progettino già pronto e firmato Cgil? C’è da ritenersene certi. Poi ci penserà Pier Carlo, a spiegare agli italiani che per loro risorse non ce ne sono, per il patto di stabilità, la richiesta di flessibilità, il Pil col fiato corto e i segnali di ripresa.

Dall'asilo nido ai posti di prestigio Cosa fanno gli eredi dei ministri. Eleonora Padoan assunta alla Cassa depositi e prestiti, la sorella è alla Cgil, Delrio jr fa l'arbitro di calcio. Molti bimbi e under 18, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 22/12/2016, su "Il Giornale". Se Manuel Poletti ha una carriera già brillante nel mondo coop coi fondi pubblici di Palazzo Chigi, altri rampolli di governo non sono ancora sistemati a dovere. Sarà che avendo meno di 10 anni, alcuni ancora neonati, è un po' prestino per fare i dirigenti o i dipendenti di una coop rossa. Si faranno, bisogna avere pazienza. C'è poi che diversi ministri non hanno proprio figli (condizione che, in politica, può risparmiare svariate occasioni di imbarazzo), a iniziare dal primo ministro, Paolo Gentiloni, sposato senza eredi, come pure il Guardasigilli Andrea Orlando («45 anni ma eterno Peter Pan» dicono di lui gli amici), o la ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli, che non ha la laurea ma un marito sì (e pure lui sindacalista e senatore Pd, Achille Passoni), e non risulta avere figli. Senza contare la sottosegretaria Maria Elena Boschi, che è addirittura single. Mentre altri giovani titolari di ministeri hanno pargoli in età da asilo nido (il renziano Luca Lotti, Marianna Madia, Beatrice Lorenzin), o under 18 (come i ministri Angelino Alfano e Carlo Calenda, quarantenne già padre di quattro figli, o il trentenne Maurizio Martina). Con i ministri più anziani però, tipo il titolare del Tesoro Pier Carlo Padoan, si rintracciano curriculum di rampolli già in carriera. La figlia Eleonora Padoan, dopo aver ricoperto il ruolo di senior economist alla Sace, società pubblica di prodotti assicurativi e finanziari, nel 2015, cioè quando il padre era già da oltre un anno ministro dell'Economia, è stata assunta dalla Cassa depositi e prestiti, società controllata all'82% proprio dal ministero del padre. Posto di lavoro ottenuto dalla figlia di Padoan «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014», spiegò la Cdp proprio al Giornale. Non un concorso vero e proprio, ma «una procedura volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». Anche l'altra figlia, Veronica Padoan, ricercatrice all'Inca-Cgil, si può incontrare nei pressi di qualche ministero. Fuori, però, a protestare contro il governo in qualche corteo. Questa estate era a Foggia, megafono in mano, insieme ad una quindicina di attivisti e lavoratori africani della rete «Campagna in lotta» a contestare il ministro della Giustizia sulle condizioni di lavoro dei braccianti extracomunitari. Il ministro Graziano Delrio (Infrastrutture) di figli ne ha nove, cinque femmine e quattro maschi («Dopo il nono, abbiamo detto basta»). Anche solo per il calcolo della probabilità, qualche Delrio jr attivo in politica c'è. Renziano, ovviamente, ma senza incarichi di prestigio per ora. Trattasi di Michele Delrio, ventenne, talmente renziano che su Facebook stroncò il governo Letta («Non ha fatto nulla») di cui il padre era ministro. Le cronache locali riportano poi l'hobby di arbitro di calcio di Michele Delrio. Con côté di polemiche incluse, come quando arbitrò un Barletta-Casarano, e fu accusato di faziosità: «Non vorrei che il risultato maturato ieri, sia il frutto di una macchinazione politica a nostro danno...» si infuriò il presidente del Casarano, eliminato dal Barletta calcio. Il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti (Udc), da cattolico, tiene molto all'educazione, e vieta ai figli la visione di cartoni animati volgari, e non solo quelli. «Ho vietato ai miei figli più piccoli di vedere i Simpson e Beppe Grillo - twittò Galletti - Violenza e parolacce non fanno bene ai piccoli. E neanche ai grandi». Mentre Angelino Alfano, da ministro dell'Interno, assicurò che il rischio terrorismo non avrebbe modificato le sue scelte da padre: «Io sono papà di due bambini di 14 e 9 anni, anche loro andranno in gita scolastica e io li autorizzerò. E segnalo che loro non godono della tutela di cui gode suo padre». Per la ministra della Difesa Roberta Pinotti, si era vociferato di un importante destinato alle figlie dopo una missione in Kuwait, oltre ad un Rolex. Ma la Pinotti ha smentito: «Non mi occupo dei regali, c'è una stanza al ministero dove sono custoditi». Poi c'è la neoministra, ma con lunga esperienza politica, Anna Finocchiaro, sposata con Melchiorre Fidelbo. La Finocchiaro ha due figlie, Miranda e Costanza. E su Linkedin c'è il profilo di una Miranda Fidelbo, giovane avvocatessa che dopo un tirocinio al Parlamento Europeo, ora lavora nello studio Severino di Roma. Quello dell'ex ministro Paola Severino.

Poletti jr e gli altri figli dei ministri col lavoro assicurato. Dai banchi del governo hanno attaccato precari, bamboccioni, choosy. E ora pure gli expat. Ma a casa loro..., scrive "Lettera 43” il 21 dicembre 2016. Prima furono i bamboccioni, poi i choosy, gli sfigati e, ancora, i nostalgici della «monotonia» del posto fisso. Poteva Giuliano Poletti non dare il suo contributo alla lista di offese governative ai giovani disoccupati, non ancora laureati o desiderosi di un tempo indeterminato che non arriva mai? Certo che no. E così il ministro del Lavoro davanti alla fuga di 100 mila giovani all'estero ha commentato in modo sprezzante che «questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi». Inutili le scuse per l'espressione un po' troppo colorita, soprattutto davanti a una disoccupazione giovanile al 36,4% (anche se è il valore più basso degli ultimi quattro anni, sic), al neo schiavismo dei voucheristi e all'aumento della precarietà effetto del Jobs Act. Il primogenito di Poletti, invece, è uno di quei giovani (nel senso italico del termine visto che di anni ne ha 42) «non pistola» che hanno deciso di restare in patria. E dire che l'ex sottosegretario Michel Martone lo avrebbe definito uno «sfigato» visto che è sensibilmente fuoricorso («Se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato», a essere precisi). Chissà poi cosa ne pensa il padre, visto che nel 2015 il ministro cadde in un'altra boutade impopolare sui fuori corso. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21», disse agli studenti all'inaugurazione di Job&Orienta. Una giustificazione, però, Poletti jr ce l'ha: in questi anni si è dedicato al lavoro e alla famiglia, ha raccontato al Fatto quotidiano. Già il lavoro. Manuel dirige il settimanale Sette Sere Qui diffuso tra Faenza, Lugo Ravenna e Cervia. L'editore è la Coop Media Romagna di cui il figlio del ministro è presidente. Il giornale nel 2015 ha ottenuto 190 mila euro di contributi pubblici, 521.598 in tre anni. Ma lui, ha assicurato, guadagna 1.800 euro al mese. Il solito welfare cooperativo. Come si diceva, Poletti non è certo il solo ad avere preso di mira i giovani, salvo poi poter vantare prole sistemata, stipendiata e soddisfatta. E molto probabilmente pure meritevole e talentuosa, ma questo è un altro discorso. Si prenda per esempio l'ex premier Mario Monti che definì monotono il posto fisso. «I giovani devono abituarsi all'idea di non avere più il posto fisso a vita: che monotonia», disse a febbraio 2012. «È bello cambiare e accettare delle sfide». E, infatti, suo figlio Giovanni Monti di lavori ne ha cambiati parecchi, sempre fissi però. L'enfant prodige bocconiano, classe '73, dopo un po' di "gavetta" come consulente alla Bain and Co, è passato dalla vicepresidenza di Citigroup a quella di Morgan Stanley. Nel 2009 entrò in Parmalat chiamato dall'allora commissario straordinario Enrico Bondi per occuparsi di business development. Esperienza che finì con dimissioni ctinte di giallo. Presso quali lidi sia approdato Monti jr difficile dirlo oggi, anche perché ai tempi della bufera cancellò il suo profilo da Linkedin. Invece, come ha ricordato Il Giornale, qualcosa in più si sa di Federica Monti, la secondogenita, che ha lavorato presso lo studio Ambrosetti, quelli dell'omonimo forum di Cernobbio. Alla faccia della monotonia, Federica ha pure sposato Antonio Ambrosetti: tutta casa e lavoro, insomma. Dai monotoni ai choosy, il passo è breve. Anche Elsa Fornero, che di Monti era ministro del Lavoro, invitò a smettere di cercare un posto a tempo indeterminato. «Il lavoro fisso?», disse, «Un'illusione». Insomma, aggiunse materna, «non bisogna mai essere troppo "choosy" (schizzinosi, ndr), meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale». Sua figlia Silvia Deagliodeve essere stata fortunata. Nata nel 1974, sposata con un dirigente Unicredit, Deaglio è professore associato alla facoltà di Medicina e chirurgia dell'Università di Torino, lo stesso in cui insegnano i genitori. Per sconfiggere la monotonia montiana, la professoressa ricoprì anche un ruolo come «responsabile dell'unità di ricerca» della fondazione HuGeF, attiva nel campo della genetica. Un cervello non in fuga il suo. Anche perché, come scrisse il Fq, la fondazione riuscì a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca «quasi 1 milione di euro in due anni, 500 mila nel 2008, 373.400 e 69 mila nel 2009». Ma i tecnici non sono stati gli unici ad aver dispensato consigli (non richiesti) alla popolazione di giovani precari italiani. Nel 2008 pure Silvio Berlusconi propose la sua ricetta. Durante la trasmissione Tg2 Punto di vista, a una ragazza che chiedeva come fosse possibile mettere su famiglia senza un'occupazione stabile rispose: «Da padre il consiglio che le do è quello di ricercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche permetterselo». Dopo nove anni, quello del Cav resta - purtroppo e al netto delle comprensibili polemiche - l'unico bagliore di realtà. A sua insaputa.

IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.

Ripubblichiamo un pezzo di Bruno Trentin intitolato "A proposito del merito" uscito sull’Unità nel 2006. "La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta. Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale. Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa. Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio. È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo. Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.

A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia. Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti. Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia. Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna. E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare – non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea. La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione – in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi – dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria. Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire). Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

Psicologia sociale: il familismo amorale nell’Italia di oggi, scrive Andrea Bellelli il 4 marzo 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Andrea Bellelli Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza. La qualità dei servizi pubblici in Italia, soprattutto nel meridione, è da sempre oggetto di lamentele e proteste. Se in alcuni casi gli italiani hanno piena ragione (la giustizia italiana è stata spesso condannata per la sua lentezza nelle sedi internazionali), in altri casi il loro giudizio è ingeneroso e contrasta con le valutazioni internazionali (questo accade ad esempio per la ricerca o per la sanità). Una marcata discrepanza tra il giudizio popolare e quello oggettivo costituisce un problema di studio per la psicologia sociale. Molti spunti di riflessione possono essere tratti da un’importante ricerca di Edward C. Banfield pubblicata nel libro The moral basis of a backward society (Free Press, Usa). Lo studio fu condotto sessant’anni fa in un paese della Basilicata, nascosto sotto il nome fittizio di Montegrano, usando metodiche avanzate (per l’epoca) che includevano il test di appercezione tematica (TAT), e interviste strutturate e non strutturate. Banfield, con la moglie (italiana) e i due figli, rimase a Montegrano per quasi un anno. Lo studio di Banfield costituisce certamente uno dei più interessanti e originali contributi alla questione meridionale, almeno pari, se non superiore, a quelli di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci e Carlo Levi (autori che Banfield conosceva bene). La tesi centrale dello studio è che, accanto alle problematiche precedentemente individuate, ne esiste una socio-culturale, non individuata in precedenza, che Banfield chiama familismo amorale: “… i montegranesi si comportano come se seguissero la seguente regola: massimizza il guadagno materiale, a breve termine, della tua famiglia ristretta; assumi che tutti gli altri facciano lo stesso” (p. 83). Le regole del familismo amorale, come si vede, sono in effetti due: la prima indica all’individuo cosa fare; la seconda gli offre un facile modo per interpretare il comportamento altrui e relazionarsi con la società. Sebbene entrambe siano deleterie per il progresso socio-economico a medio o lungo termine, la seconda è particolarmente dannosa, perché inquina i rapporti sociali ed impedisce che si formi un rapporto di collaborazione e fiducia con il governo e le istituzioni locali o nazionali: “… la dichiarazione di una persona o di una istituzione, di essere ispirata dall’interesse per la cosa pubblica, anziché per il proprio, è vista come una frode” (p. 95); “in una società di familisti amorali sarà opinione comune che chi esercita il potere sia egoista e corrotto… il votante userà il voto … per punire” (p. 99). Non è in discussione, evidentemente, l’esistenza di funzionari pubblici corrotti e di servizi inefficienti (ampiamente analizzati da Banfield), ma l’idea che tutti i funzionari siano necessariamente corrotti e tutti i servizi necessariamente inefficienti e meritevoli di punizione; e non di rado i paesani intervistati da Banfield esprimevano ammirazione per il regime fascista (al potere fino a dieci anni prima dello studio) ritenuto capace di controllare e punire i suoi funzionari. In effetti, la collaborazione tra gli operatori e gli utenti del servizio è essenziale ai fini della qualità del risultato e nessun servizio può funzionare correttamente se è disprezzato dagli utenti. Banfield riteneva che due fattori causali fossero specialmente importanti nel determinare questo atteggiamento: la povertà e l’elevato tasso di mortalità, che cooperano nel produrre una condizione psicologica di perenne apprensione e inducono l’individuo a privilegiare scelte a breve termine. Poiché oggi le condizioni economiche sono migliorate, e l’aspettativa di vita è aumentata, la forma culturale del familismo amorale dovrebbe pian piano scomparire. Ma la cultura popolare cambia lentamente e non è difficile riconoscere i modi di pensare descritti nel libro di Banfield nella società contemporanea. Non si può non notare, ad esempio il desiderio di punizione nei confronti dei dipendenti pubblici che anima tanti cittadini, al punto di fargli apprezzare dei nemici dei lavoratori come gli ex ministri Brunetta e Gelmini; o la diffusa opinione che, se esistono realtà di eccellenza in questo paese, esse siano tutte concentrate in pochissime istituzioni tutte rigorosamente localizzate a nord del Po.

Il familismo amorale e il potere degli stupidi. L'intera società italiana ha adottato da tempo quello che nel 1958 il sociologico Edward C. Banfield definì “familismo amorale” che, unito alla cooptazione, porta gli "stupidi" ai posti di comando. Ne deriva una profonda arretratezza culturale evidente nel settore della ricerca dove sempre di più i buoni risultati si ottengono all’estero, scrive Rodolfo Guzzi il 24 gennaio 2015 su “La Voce di New York". Negli ultimi vent'anni la società italiana è regredita non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto dal punto di vista culturale. La mancanza di un programma culturale e di un programma economico conseguente hanno portato la società italiana al livello in cui è: fanalino di coda di ogni classifica. Anzi no, qualche primato lo detiene, ma tutti in negativo: la libertà di stampa, la corruzione e via dicendo. Ma da dove viene questo degrado? In un controverso saggio sociologico Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (in traduzione italiana Le basi morali di una società arretrata, 1976, Il Mulino) studiando il Borgo di Chiaromonte, un paese della Basilicata, e comparando i dati in suo possesso con quelli delle comunità rurali della provincia di Rovigo e del Kansas giunse alla conclusione che “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo" porta inevitabilmente all’arretratezza. Egli chiamò questo comportamento: familismo amorale. Altri autori hanno ripreso in tempi recenti questo concetto e basta guardare alla società italiana per capire che essa è fortemente permeata di familismo amorale. È di pochi giorni fa un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera che fa un elenco dei figli e parenti che stanno in Parlamento, non come parlamentari ma con cariche operative. Basta guardare ai figli e parenti dei baroni universitari e in particolar modo di quelli di Medicina per rendersi conto che tutta la nostra società ha adottato da tempo il metodo del familismo amorale: lo sguardo si può estendere all'intero sistema fino ai più piccoli anfratti della struttura pubblica italiana. Finanche il primo ministro oramai viene cooptato, non eletto: ne abbiamo avuti tre negli ultimi anni, alla faccia del popolo sovrano. Nel 1976 Carlo M. Cipolla scrisse The Basic Laws of Human Stupidity (poi pubblicato in italiano nel 1988 come Allegro ma non troppo, Il Mulino) in cui si divertì ad approfondire il tema della stupidità umana. Cipolla vede negli stupidi un gruppo che riesce ad operare con incredibile coordinazione ed efficacia, di gran lunga più potente delle maggiori organizzazioni siano esse mafie o lobby industriali. Chi è lo stupido? È uno che danneggia se stesso e gli altri. Gli altri non se ne accorgono subito, ma nel frattempo il danno è fatto irrimediabilmente. Insomma l’aver adottato il metodo del familismo amorale unito alla forma di cooptazione alla fine porta inevitabilmente ad assurgere ai posti di comando degli “stupidi” con le conseguenze che abbiamo detto: l’arretratezza culturale da cui non si riesce ad uscire e i danni che diventano sempre più profondi. Questo vale per ogni settore ed in particolare per il settore della ricerca dove sempre di più i buoni risultati si ottengono stando all’estero. Basti pensare ai nostri ultimi premi Nobel: tutti hanno ottenuto all’estero i risultati che hanno portato all’onorificenza. Non proprio tutti: uno di questi è stato Daniele Bouvet, uno svizzero naturalizzato italiano, che vinse il premio Nobel per la Medicina. Tuttavia il suo nome è caduto nell’oblio e pochi lo ricordano. E poi i recenti assegni di ricerca dell’European Research Council (ERC), vinti per lo più da italiani che operano all’estero. Il 2014 è stato l’anno in cui c’è stata la più alta emigrazione degli ultimi anni, complice la crisi economica, la discriminazione per aree di interesse funzionali al potere, ma anche per mancanza di un progetto culturale a largo spettro che coinvolga la nostra società verso una sua rinascita in primo luogo del miglior vivere utilizzando le potenzialità della ricerca, dell’impresa, del turismo e dei beni culturali. Nel frattempo speriamo che chi è emigrato utilizzi il potenziale di conoscenza che ha acquisito per rinnovare profondamente questo paese, uscendo finalmente dal familismo amorale che permea la società italiana.

Dal familismo amorale al familismo immorale. Famiglie italiane e società civile, scrive Francesco Benigno l'1 Luglio 2010 su “Italiani Europei”. In un’Italia in cui abbondano i “bamboccioni” e in cui emerge una tendenza ad “ereditare” anche gli incarichi pubblici tornano in auge le riflessioni sull’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella sfe­ra pubblica. Ad un familismo che avrebbe ormai as­sunto i caratteri dell’amoralità – se non dell’immo­ralità – viene imputato il mancato radicamento dell’etica pubblica nel nostro paese. Quanta realtà e quanta mistificazione vi sono nel delineare questa presunta antitesi fra familismo e civismo? Periodicamente la famiglia torna sotto i riflettori dell’opinione pubblica, indagata come possibile matrice dei mali del “bel Paese”, scrutata come depositaria e riproduttrice delle virtù e, più spesso, dei vizi del carattere nazionale. In una recente intervista a “La Repubblica”, in cui vengono sintetizzati i risultati di una ricerca storica collettiva dedicata alle famiglie italiane nel Novecento, Paul Ginsborg ha riproposto nuovamente il tema del familismo come una possibile chiave di lettura della realtà italiana contemporanea. In un’Italia ripiegata su se stessa, in cui le giovani generazioni faticano a staccarsi dalle mura domestiche per progettare un futuro autonomo (i bamboccioni del ministro Brunetta), in cui ruoli politici e candidature passano disinvoltamente di generazione in generazione come fossero ereditarie (il figlio del ministro Bossi), e in cui recenti scandali coinvolgono responsabilità genitoriali (la «casa per la figlia» del ministro Scajola), conviene interrogarsi ancora – sostiene lo storico inglese naturalizzato italiano – sul concetto di familismo. Familismo è un’espressione famosa nel lessico delle scienze sociali, soprattutto dopo che nel 1958 lo studioso statunitense Edward Banfield ebbe coniato il concetto di «familismo amorale» per designare i comportamenti, descritti come angustamente individualistici, della gente di Montegrano (in realtà Chiaromonte, un isolato villaggio lucano). Lo studio di Banfield ha avuto una larga eco nel dibattito pubblico sulla questione meridionale, divenendo per alcuni (ma in modo assai contestato) una delle possibili spiegazioni delle carenze dello spirito pubblico nel Sud del paese. Successivamente, da Carlo Tullio Altan a Robert Putnam, è stato una ricorrente fonte di ispirazione per tutti coloro che si sono impegnati in schemi dualistici di raffigurazione della storia italiana. Ora Ginsborg lo recupera e, pur criticandolo, ne allarga la portata, fino ad usarlo per descrivere l’intero atteggiamento del “paese Italia”: anzi, richiamando il ben noto detto del «tengo famiglia» – e definito sorprendentemente non uno stereotipo ma la sintesi di «una filosofia antica e tipicamente italiana» – egli attribuisce al familismo, non più solo amorale ma ormai scopertamente immorale, il mancato radicamento di un’etica pubblica, di quel senso della collettività che è invalso nelle scienze sociali chiamare civicness. La tesi di Ginsborg, modellata sugli schemi dicotomici cari a tanta sociologia classica, è a prima vista suadente, e sembra anzi farsi forza di una sorta di riconoscimento immediato, un asseverarsi intuitivo che si nutre di evidenze: in Italia oggi saremmo di fronte alla ricorrente tendenza al tradimento della fedeltà allo Stato per arricchire parenti e consanguinei. Il familismo amorale, tracimando, si mescolerebbe così con l’uso delle risorse pubbliche per interessi privati, con il clientelismo. Può essere interessante rilevare – osserva Ginsborg – come nell’Europa mediterranea «questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione nell’Italia di oggi è il prevalere dell’organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro diventa fondamentale la relazione con il potente che garantisce determinati accessi per te e per i tuoi figli, da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia». Al fondo starebbe dunque una verità nascosta: insieme alla tardiva formazione dello Stato democratico, la chiave di volta dell’eccezione italiana, quel qualcosa che impedisce alla nazione di essere un paese normale, sarebbe il familismo, e cioè l’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il familismo svolge così nella visione di Ginsborg quel ruolo che un tempo era assegnato dalla retorica nazionalista al «particolarismo», un principio distruttivo e disgregatore di più ampie e morali solidarietà. La contrapposizione non potrebbe essere più netta: da una parte l’individualismo egoista nutrito nella culla familista e dall’altra l’etica pubblica solidaristica, cresciuta nell’alveo della società civile; da un lato una ricorrente tentazione alla gretta chiusura familistica e dall’altro una società civile colta, indipendente, reattiva, pronta ad organizzarsi e ad esprimere valori universalistici di partecipazione e di associazione; e ancora, per un verso un assetto sociale in cui il rapporto dominante è quello tra l’individuo e la famiglia, per l’altro compagini in cui al centro della vita individuale sta la relazione, variamente disposta, con lo Stato. A questa contrapposizione idealtipica corrisponde puntualmente una distribuzione geografica, o meglio una geopolitica dei valori. Secondo Ginsborg sarebbe familista l’Europa mediterranea: un insieme variegato e composito formato in buona sostanza dall’area dei cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) più i paesi mediorientali di tradizione islamica, descritti – questi ultimi – come comunità endogamiche, use al frequente matrimonio tra cugini primi e alla coabitazione delle coppie sposate coi genitori del maschio: tratti familiari che, uniti alla strutturazione clanica, avrebbe condizionato in senso negativo la crescita della società civile. In buona sostanza, l’accostamento di regioni così diverse funziona solo in negativo: esse sarebbero tutte segnate da una debole civicness a causa di strutture familiari troppo forti; sorta di controprova del successo del core nordeuropeo dello sviluppo economico (e insieme morale). In questa parte privilegiata del mondo (Inghilterra, Olanda e Scandinavia, più alcune aree della Germania e degli Stati Uniti) l’esistenza di famiglie più deboli e meno gerarchiche avrebbe permesso agli individui la libertà, gli spazi e i tempi per la partecipazione alla vita pubblica, da Ginsborg identificata con «la possibilità di sperimentare ed esplorare liberamente il variopinto mondo dell’associazionismo». La tesi della contrapposizione tra famiglie forti e famiglie deboli si può dimostrare, sostiene Ginsborg – che riprende qui tesi avanzate dal demografo David Reher – grazie all’analisi di tre piani distinti: quello delle strutture di coresidenza, dei sistemi demografici familiari e dei valori casalinghi. L’analisi comparativa delle strutture familiari di coresidenza è stata introdotta nel dibattito delle scienze sociali da Peter Laslett, uno dei padri della moderna storia della famiglia. Nella sua visione le famiglie inglesi (ma non irlandesi o scozzesi) e più in generale nordeuropeo-occidentali sarebbero state caratterizzate dal Cinquecento in poi da alcune caratteristiche specifiche: struttura nucleare, età tardiva della sposa, residenza neolocale. Grazie a queste caratteristiche, la famiglia inglese, portatrice di comportamenti virtuosi secondo l’etica maltusiana (con un’età tardiva al matrimonio cui corrispondeva un minor numero di figli) sarebbe stata il vero motore occulto della marxiana «accumulazione originaria», prodromo della rivoluzione industriale. A questo idealtipo dello sviluppo corrisponde, nella tipologia di Laslett, un idealtipo dell’arretratezza, costituito da famiglie variamente allargate, patriarcali, conviventi per più generazioni sotto lo stesso tetto, ordinate da strutture gerarchiche e costrittive, modellate sulle descrizioni fornite da antropologi anglosassoni dell’Europa meridionale e orientale: famiglie di pastori berberi o balcanici, di mezzadri toscani, di contadini calabri, di pescatori cantabrici. Va da sé che questi due modelli risultano – in quella visione – inscritti in un percorso evolutivo, un processo che prevede il passaggio da forme ritenute tradizionali o primitive ad altre reputate moderne. Questo schema semplificato e riduttivo è stato da tempo criticato e in gran parte abbandonato, ma la sua influenza continua ad avvertirsi nel discorso delle scienze sociali e nel dibattito pubblico. Malgrado l’evidenza, ad esempio, che in gran parte del Mezzogiorno la famiglia nucleare sia stata storicamente prevalente e le strutture di famiglie estese e complesse siano state invece minoritarie, l’idea che si possa trovare nella composizione familiare la chiave dell’arretratezza, il santo Graal della backwardness, non è stata mai abbandonata. È accaduto così che, scoperta negli anni Ottanta la cosiddetta Terza Italia, l’area valligiana centrosettentrionale a piccola impresa industriale diffusa, ci si è chiesti se non fosse da cercare nella struttura complessa, gerarchica e patriarcale della famiglia estesa mezzadrile, nella sua abitudine alla cooperazione nell’uso delle risorse comuni (il podere) il segreto del successo economico di questa parte del paese; laddove alla famiglia nucleare meridionale, descritta “alla Banfield” sarebbe venuta a mancare questa fondamentale risorsa cooperativa. In breve, patriarcale o nucleare che sia la famiglia, il risultato non cambia mai, se si continua inutilmente a porre la struttura familiare come pietra filosofale nell’eterna ricerca alchemica delle ragioni del sottosviluppo economico (o civico). Il secondo piano chiamato in causa da Ginsborg è quello dei sistemi demografici familiari. Si tratta di uno schema interpretativo elaborato a suo tempo dal demografo John Hajnal, che aveva prospettato l’esistenza nell’Europa moderna (dal XVI secolo in poi) di due sistemi familiari prevalenti e opposti fra loro: il primo, quello nordoccidentale, contraddistinto da una elevata età al matrimonio (soprattutto femminile) e strutture di residenza neolocali, e caratterizzato dall’abitudine di abbandonare presto la casa paterna per andare a servizio; il secondo, mediterraneo e orientale, a bassa età al matrimonio, segnato dalla preferenza per la convivenza di più generazioni nella stessa casa e dalla riluttanza a lasciare la famiglia d’origine. Questo schema, fuso in vari modi col precedente e formulato ancora una volta per spiegare le ragioni (virtuose) del primato economico nordoccidentale, divideva l’Europa secondo un’immaginaria linea disposta tra San Pietroburgo a Trieste, sì da isolare l’Europa nordoccidentale, vincente, e separarla dalla meno corretta, attardata e perdente “altra Europa” meridionale e orientale. Anche in questo caso le critiche all’impostazione di Hajnal non sono mancate, e hanno toccato sia l’inesistenza di una correlazione tra strutture neolocali ed età al matrimonio, sia l’inefficacia di isolare l’età al matrimonio come unica variabile indipendente e cioè senza considerare il regime demografico (soprattutto i tassi di mortalità) in cui è inscritta. Ma se l’applicabilità dello schema di Hajnal all’Europa preindustriale è assai dubbia, l’opportunità di isolarne solo un tratto (come l’età di abbandono della casa dei genitori) per determinare l’esistenza di famiglie “forti” o “deboli” oggi, a “rivoluzione demografica” da tempo conclusasi (con la conseguente completa equiparazione di tutti gli indicatori demografici fondamentali), appare alquanto controversa. Il dubbio grava specialmente sull’intento di inferire dalla comparazione delle diverse età nella fuoriuscita dalla famiglia di origine non un diverso livello delle opportunità, una differente struttura delle chances di mobilità, una variabile disposizione del mercato delle abitazioni, dei servizi e così via (tutte carenze rispetto a cui le strutture familiari possono funzionare da “ammortizzatori”) ma argomenti a sostegno di una tendenza culturale, riassumibile nello stereotipo indimostrato dell’italiano “mammone”, ovvero la predisposizione italica (ma poi, a seconda dei casi, meridionale, mediterranea oppure orientale) a convivere fino all’età adulta sotto lo stesso tetto dei propri genitori, una specie di tara insita nel carattere nazionale. Viceversa, la tendenza inglese di mandare presto i figli fuori di casa, un tempo a servizio, oggi a studiare, non viene collegata ad un sistema ereditario, quello dello one sole heir, che prevede la possibilità per i genitori di concentrare l’asse ereditario su un unico figlio a scelta, con la conseguente necessità di far sì che gli altri si costruissero una propria strada fuori dalle mura domestiche; e v’è da chiedersi se tale plurisecolare tradizione giuridica, decisamente volta alla conservazione del patrimonio familiare in barba a principi di elementare equità non possa con qualche ragione essere qualificata, essa sì, come “familista”. Infine, Paul Ginsborg, sulla scorta dei suoi studi precedenti, propone di dividere le famiglie in “aperte” e “chiuse”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una polarità. Da una parte ci sono le famiglie che «sviluppano al loro interno, nelle loro conversazioni e tradizioni, un’apertura nei confronti della società e dei suoi problemi, una disponibilità dei componenti ad impegnarsi in associazioni e movimenti, un concetto della casa come spazio domestico poroso e accogliente»; mentre dall’altra «quelle che considerano la famiglia come una fortezza e vivono la vita familiare come un bene prezioso in costante pericolo»: queste ultime famiglie sono autoreferenziali e non aperte, come è evidente dalle loro case, che rifletterebbero questi atteggiamenti «sia nell’architettura sia nei sistemi di protezione». Anche in questo caso nessuna relazione è ipotizzata tra architettura e sistemi di protezione abitativa e livelli di reddito e di criminalità (reali o percepiti) del contesto sociale. Quest’ultima polarità si affiancherebbe così alle prime due, anche se con modalità piuttosto oscure, sicché non è chiaro se sia lecito aspettarsi una relazione positiva tra una certa struttura familiare, un dato sistema familiare e determinati valori casalinghi. È interessante notare come questa ripresa della chiave interpretativa familistica avvenga tuttavia in un clima intellettuale profondamente diverso da quello in cui essa fu forgiata: durante il mezzo secolo di storia del concetto di familismo amorale il tema cardine verso cui si è indirizzata l’analisi è stato quello dello sviluppo economico – verso il quale esso finiva per svolgere in negativo più o meno lo stesso ruolo che l’etica protestante svolge nella celeberrima tesi di Max Weber relativa allo sviluppo del capitalismo. Oggi, tuttavia, tale prospettiva appare per molti aspetti usurata. È significativo che sia stato proprio Ginsborg a rigettare l’avventurosa affermazione formulata da Francis Fukuyama in un suo libro intitolato “Trust” secondo la quale il familismo andrebbe in sostanza considerato un freno al dispiegarsi della fiducia collettiva e dunque alla qualità dello sviluppo economico capitalistico, con la conseguente classificazione delle liberaldemocrazie in più moderne e sviluppate (Germania, Giappone, Stati Uniti) e meno moderne (Cina, Corea del Sud, Francia e Italia). Nello stroncare tali elucubrazioni, fondate sulla ripresa di un concetto carico di «insensato determinismo antropologico», Ginsborg ricordava giustamente come tutta l’industria più avanzata e attiva sia in Italia, e non solo in Italia, a base familiare. È interessante in questa discussione il ruolo che finiva per giocare il Meridione come antitipo della modernità. Fukuyama infatti – basandosi ancora una volta su Banfield – indicava il Sud dell’Italia come un caso estremo, come l’area limite dell’Europa progredita, quella in cui la fiducia collettiva non poteva dispiegare i suoi benefici effetti sull’economia a causa di un tratto culturale familista che egli qualificava in modo assai bizzarro come «confucianesimo»: affermazione che oggi nessuno si sentirebbe di ripetere, non perché il confucianesimo non sia stato un credo che abbia privilegiato il ruolo della famiglia, ma perché, nel frattempo, lo straordinario successo industriale cinese ha insinuato più di qualche dubbio non solo sulla veridicità ma anche sulla semplice sensatezza di queste contrapposizioni. Vi è in queste tesi un tratto evidentemente paradossale: il comportamento degli abitanti di Montegrano, così scopertamente orientato a massimizzare l’utile, diviene il prototipo di un’etica in fondo anticapitalistica; e ciò dopo che – com’è stato acutamente notato – sin dai filosofi morali scozzesi del Settecento la retorica liberista ha teorizzato l’ostinato e angusto perseguimento di fini personali come necessaria premessa al dispiegarsi del bene collettivo, secondo la celebre palingenesi dei vizi privati in pubbliche virtù. Il familismo resuscitato da Ginsborg non è più dunque quello di una volta; non costituisce più una chiave per spiegare il maggiore o minore successo economico: egli ne opera una vistosa revisione, torcendo il concetto in senso culturalista ed etico. Opponendosi a quelle concezioni del capitale sociale che da un lato puntano a sganciarlo dal sistema dei valori, e dall’altro a farne una base per nuove tassonomie economiche, questa visione tende a qualificare il capitale sociale come impegno civico, e a ribadire un nesso tra civismo e alcune pratiche associative, distinte sul piano valoriale e, verrebbe da dire, politico. La società civile viene infatti descritta come un essere fragile e in pericolo, assediata da mali antichi e nuovi, che hanno il nome di clientelismo, corruzione, familismo, nepotismo, monopolio mediatico. Si tratta, in altre parole, di un malato, per il quale Ginsborg propone la cura della democrazia partecipativa economica, citando l’esempio dei soviet ma sostituendo il soggetto portatore delle speranze di rinnovamento: non più evidentemente la classe operaia ma «la popolazione urbana istruita del Nord del mondo», solo provvisoriamente (anche se alquanto volontariamente) «assoggettata al capitalismo consumista e all’arricchimento personale». Evidentemente non tutti i modi di partecipare alla vita sociale risultano, in questa prospettiva, «civici» allo stesso modo: non lo sono i rapporti di vicinato, una partecipazione che «non equivale al vero impegno civico», non l’appartenenza alle associazioni di categoria, inficiate da evidenti interessi particolaristici, non i legami comunitari e l’affiliazione a movimenti di rivendicazione locale a base identitaria, sospetti di razzismo e xenofobia, e non (si suppone) quel vasto mondo, alquanto elitario, di club e associazioni di ex allievi, sorta di compagnonnage delle professioni liberali così diffuso in quella cultura anglosassone che affida al college una parte importante della formazione dei giovani. Ma soprattutto sembra esservi in questa concezione del civismo uno spazio limitato per la partecipazione basata su schemi ideologici o ideologico-religiosi: dovendosi in questo caso prendere in considerazione non solo i dimostranti di Teheran e di Bangkok e i partecipanti all’universo del volontariato ma evidentemente anche i membri dei movimenti del risveglio religioso cristiano, i fanatici antisionisti, gli iscritti a partiti che propugnano l’ineguaglianza sociale o l’esaltazione di figure di leader telegenici dal senso civico alquanto incerto. E dire che nella raccolta di saggi contenuti in “Famiglie del Novecento” vi erano esempi molto diversi, in grado di allargare la visione a famiglie cattoliche familiste ma disobbedienti ai precetti dell’enciclica “Humanae Vitae” del 1968 o a famiglie comuniste fortemente coese (entro quelle reti di vicinato e di comunità intessute di tradizione politica costitutive delle cosiddette Regioni rosse) ma al contempo devote al partito, controfigura e promessa dello stato socialista che verrà, e in un modo così assoluto da fare esclamare a Marina Sereni: «Il Partito si è fuso per me con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Solo una visione fortemente limitata della società civile permette di opporla specularmente al familismo, un’attitudine di cui non viene spiegato sulla base di quali parametri possa essere indagata. Gli studi condotti in questo senso dai sociologi mediante interviste qualitative volte a comprendere cosa la gente pensi della propria famiglia e della società che la circonda offrono migliori spunti di riflessione. Loredana Sciolla, ad esempio, ha argomentato con forza che, scomponendo il concetto di cultura civica nelle sue componenti diverse (valoriale, fiduciaria, identitaria) la supposta antitesi tra familismo (l’atteggiamento di chi ha fiducia esclusivamente nella famiglia) e civismo risulta falsa, che gli italiani non mostrano un abnorme attaccamento alla famiglia ma simile o anche inferiore a quello di popoli di radicata cultura civica, che le regioni meridionali sono meno familiste della media nazionale e più inclini ad avere fiducia nelle istituzioni. Sicché non resta che concludere con Giulio Bollati che «ogni discorso sull’indole, la natura, il carattere di un popolo appare come un’equivoca combinazione di conoscenza e di prescrizione, di scienza e di comando. Quello che un popolo è (o si crede che sia) non si distingue se non per gradi di dosaggio da ciò che si vuole debba essere».

Il paese degli egoisti con il record di donatori d'organi. Chiaromonte, sui monti lucani, fu descritto dal sociologo Banfield come culla dell'anti solidarietà. Ma è una bufala, scrive Nino Materi, Lunedì 23/01/2017, su "Il Giornale". A Chiaromonte, 1.933 abitanti in provincia di Potenza, due avventori del bar-ristorante-affittacamere La porta del Pollino discutono. E nell'aria echeggiano frasi un po' surreali, del tipo: «Amorali noi? Amorale sarà lui. Certo lui non era un donatore di organi come noi». Ma chi è il deprecato «lui»? Si tratta del professor Edward C. Banfield (Bloomfield, 1916 - Vermont, 1999) politologo e sociologo statunitense, autore del saggio The moral basis of a backward society del 1958 (tradotto per Il Mulino come Basi morali di una società arretrata), in cui introdusse la nozione di «familismo amorale», attribuendone l'«infamia» proprio al modo di «relazionarsi tipico dei chiaromontesi».

«A Banfield, se fosse ancora vivo, dovremmo far leggere la ricerca della nostra amica» riprende la coppia del bar. L'«amica» in questione è la giovane sociologa Antonietta Di Lorenzo, autrice dello studio «Arcipelago donazioni», in cui si dimostra come Chiaromonte sia «la capitale italiana delle donazioni di organi», con una percentuale doppia rispetto alla media nazionale. E così i chiaromontesi si interrogano su un quesito che li assilla non poco: «Ma noi siamo il paese amorale descritto da Banfield o il paese virtuoso descritto dalla Di Lorenzo?». Disonore o onore di Chiaromonte dipendono da questi due «opposti estremismi». «Avere una reputazione in bilico tra bene e male è la nostra condanna - ci racconta Vito Telesca, emigrato al nord ma con Chiaromonte nel cuore -. Quando ero studente lessi il saggio di Banfield ne soffrii tantissimo. Questa ricerca è una rivincita». Ma in cosa consiste tecnicamente il «familismo amorale»? Nel «massimizzare solo i vantaggi della propria famiglia ristretta, e pensare che tutti gli altri si comportino alla stessa maniera». Tradotto: farsi gli affari propri senza uscire dall'area ristretta del proprio clan. Ma probabilmente Banfield non aveva mai letto l'aforisma di Leo Longanesi che nel '45 scrisse: «La bandiera nazionale italiana dovrebbe recare una grande scritta: tengo famiglia». E di aforismi è pratico anche Angelomauro Calza, animatore del sito giornalistico-satirico TiGiuro cui la «maldicenza» di Banfield su Chiaromonte non va proprio giù: «La società italiana (e non solo quella italiana) è intrisa di nepotismo e raccomandazioni. Il mondo della politica è lo specchio di una parentopoli nazionale che abiura la meritocrazia premiando invece i furbetti dell'opportunismo. E Banfield che fa? Fa affondare le radici di questo diffuso malcostume solo nel terreno di Chiaromonte?». Allora Banfield si è inventato tutto? «Io penso - ci spiega Calza, figlio del poeta Carlo Calza - che Banfield abbia ipotizzato a tavolino la sua teoria, individuando in Chiaromonte il posto giusto per ambientarla. Magari anche raccogliendo suggerimenti che giovavano a opportunità di politiche internazionali degli Usa in quel periodo, Banfield mise piede su terra di Chiaromonte, per dimostrare, non per studiare e poi elaborare, come da decenni si millanta». Una difesa d'ufficio che però trova concreti riscontri di una ricerca della sociologa potentina, Antonietta Di Lorenzo. Mi sono concentrata sulla donazione degli organi a livello sia europeo che nazionale - spiega Di Lorenzo -. Poi, restringendo il mio campo d'azione, sono andata a cercarmi i dati riguardanti la Basilicata: l'elemento clamoroso che ho riscontrato è stato il dato registrato a Chiaromonte, che ha fatto registrare il più alto numero di donazioni per milioni di persone». Una prova di grande altruismo e solidarietà, con tanti saluti per il Banfield-pensiero. Ma da cosa nasce la «conversione» virtuosa? A venirci in soccorso è l'archivio storico del Comune di Chiaromonte dove si conserva memoria di una tragedia emblematica: nel 1995 Rosella Popia, una ragazza di Valsinni (paese limitrofo a Chiaromonte) morì a seguito di un incidente stradale e i suoi genitori decisero di donare gli organi. Una scelta che provocò un effetto-domino che venne ribattezzato «fenomeno Rosella»: a Chiaromonte, dove la madre di Rosella era ostetrica, la popolazione iniziò a sottoscrivere disponibilità alle donazioni. Un trend di generosità che da allora non si è mai fermato. Il tutto mentre a Valsinni si registrava, sempre grazie al «fenomeno Rosella», un altro piccolo record positivo: la fondazione della prima sede Aido (Associazione italiana donatori di organi) della Basilicata. La tesi di Banfield è quindi completamente da smontare? «Probabilmente sì - sostiene Di Lorenzo -. Nel '50 uscivamo da due guerre mondiali, è normale che si cercasse di racimolare quel che era possibile in primis per se stessi e per i propri cari». Peccato che Banfield parlasse essenzialmente di «profondi atteggiamenti e convinzioni interiori» che di materiale avevano ben poco. Ma ormai sono in molti i sociologi moderni che ritengono quella di Banfield una teoria superata. Tra loro spicca, ad esempio, Alessio Colombis: «Parlare ancora oggi del familismo amorale, senza prenderne le distanze, significa continuare a diffondere un grave pregiudizio nei confronti della popolazione chiaromontese e lucana in genere, che, rispetto alle altre del Mezzogiorno, era - ed ancora oggi in gran parte rimane - non solo priva di criminalità organizzata ma anche più genuina e più vicina allo spirito comunitario». Ma c'è anche chi vede nel familismo qualcosa non di non necessariamente amorale, anzi il suo opposto. Come Isaia Sales che scrive: «Collocare nella propria scala di affetti e di interessi i familiari prima degli estranei non è una cosa moralmente sanzionabile, né tanto meno chi lo fa è (agli occhi della pubblica opinione, ndr) necessariamente un pessimo cittadino. I Bush padre e figli sono stati presidenti degli Stati Uniti, la famiglia Kennedy è stata una specie di dinastia politica, Clinton e la moglie hanno occupato per anni la scena politica americana, in Italia gli Agnelli hanno trasmesso il potere sulla Fiat da quattro generazioni». Conclude sarcastico Angelomauro Calza, autore tra l'altro di un pamphlet su Giovanni Passannate, l'anarchico lucano autore nel 1878 di un attentato fallito alla vita del re Umberto I: «Perfino il nostro ex premier Renzi non è stato eletto dal popolo sovrano, ma cooptato nelle stanze del potere». Quando si dice il «cooptismo amorale».

La cooptazione è nella Costituzione, scrive il 2 ottobre 2012 "Wittgenstein.it". Alessandra Moretti – portavoce della campagna Bersani per le primarie e vicesindaco di Vicenza – ha saggiamente smontato un luogo comune e motivo di indignazione a comando: quello che vede il male dei mali nella “cooptazione” in quanto tale, a prescindere dai suoi criteri. Ne avevo scritto così in Un grande paese. Negli anni passati in Italia si è molto criticata la cooptazione. Abbiamo chiamato così il sistema per cui qualcuno accede a posti di più o meno grande responsabilità o rispettabilità, in quanto scelto da qualcun altro che abbia il potere di promuoverlo. E pensando che questo generico procedimento fosse responsabile di ogni mancato apprezzamento del merito, abbiamo stabilito che il problema fosse la cooptazione. Abbiamo associato un significato fortemente negativo a una parola che si riferisce genericamente alla scelta di qualcuno, senza farci domande sui criteri effettivi di quella scelta. Ogni promozione è diventata cooptazione, ogni cooptazione scandalo. Abbiamo convenuto che la radice da estirpare fosse la cooptazione, senza riflettere sul fatto che sistemi di cooptazione rendono efficaci istituzioni, comunità e aziende da sempre, e che persino la Costituzione prevede la cooptazione rispetto a diversi poteri dello Stato: indicando che si diventi ministri, o assessori, per cooptazione. Abbiamo discusso di: cooptazione. Abbiamo discusso di una parola. E tutto quel che abbiamo concluso è: la-cooptazione-è-sbagliata. E oggi Moretti condivide, con ragioni personali ma ben fondate. Meritocrazia e cooptazione (o nomina) non sono concetti necessariamente in conflitto tra loro. All’interno di un’organizzazione, sia economica che sociale, alcuni incarichi sono assegnati per via elettiva altri per via concorsuale e altri ancora tramite nomina o cooptazione. I meriti, le qualità, le doti per cui viene nominato un dirigente sono sempre oggettivi?  Si può parlare di meritocrazia? Credo che buon capo, come un buon dirigente si possano valutare anche sulla base della qualità dei collaboratori di cui scelgono di avvalersi, ma rimane pur sempre un metodo discrezionale. Anche il nostro attuale Premier ed i Ministri della nostra Repubblica sono dei cooptati.

Se la classe dirigente rappresenta solo se stessa e i suoi amici, scrive Daniele Marini su “L’Inkiesta” il 29 Maggio 2012. L’Italia soffre di un sistema di rappresentanza a circuito chiuso. Che si genera e alimenta tutta al suo interno. L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica è focalizzata sul ceto politico, sulla casta. Giustamente. Sono quelli che portano la responsabilità maggiore delle scelte che ricadono su cittadini, famiglie e imprese. Ma se i politici sono lo specchio del Paese, allora dobbiamo porci qualche interrogativo in più. A maggior ragione dopo giorni di discussione sugli esiti delle recenti amministrative, sulla (presunta) antipolitica di una parte consistente della popolazione, sul fenomeno del Movimento 5 stelle. In questo senso, bene ha fatto Luca Ricolfi sulle colonne de La Stampa (27.5.2012) a sollevare il tema spinoso della classe dirigente. Che non è soltanto quella politica, appunto. Ma quella che alberga nei mondi associativi e della rappresentanza organizzata, nelle organizzazioni sindacali così come nelle banche, nelle sue fondazioni e negli enti intermedi. Con diverse gradazioni, i leader dei partiti politici, soprattutto di quelli personali e carismatici (come la Lega, Forza Italia prima e il PdL poi. Ma anche il centrosinistra non ne è esente), hanno realizzato un meccanismo di selezione della classe dirigente dove il criterio della fedeltà e dell’adesione ha fatto aggio su quello del merito, della professionalità e della critica. In una sorta di “familismo amorale”, rafforzato da un “con me o contro di me”, si è inverata una selezione per esclusione progressiva. Dove le voci critiche e riflessive sono diventate, poco alla volta, eretici da marginalizzare. Il problema è che un meccanismo analogo ha intessuto anche gli altri ambiti dei mondi della rappresentanza. Inverando – per riformulare la locuzione di Ricolfi – un meccanismo di “cooptazione a ripetere”. Senza voler fare tutto di un’erba un fascio, tuttavia è sufficiente, per esempio, fare un’esplorazione all’interno delle organizzazioni sindacali, dove i gruppi dirigenti cambiano sì, ma spostandosi da una categoria all’altra, limitando al massimo così l’ingresso di nuove forze. Oppure nell’ambito delle associazioni imprenditoriali. In questo caso, i ruoli di vertice hanno meccanismi di rinnovo più celeri (fatto salvo che negli anni recenti non sono pochi i casi in cui modifiche statutarie tendono a prolungare la durata degli incarichi), ma poi si assiste alla chiamata a incarichi di rappresentanza nei mondi collaterali, come quello bancario o assicurativo. Da qui, a loro volta, risulta facile cooptare all’interno di questi ambiti altre persone considerate vicine, che condividono i medesimi interessi e partecipano dei medesimi gruppi di potere. L’esito finale è lo sviluppo di un insieme di relazioni e regole vischioso che rende praticamente impossibile, se non in modo estremamente lento e complesso, un ricambio effettivo della classe dirigente. E rende questi gruppi dirigenti impermeabili alle sollecitazioni che vengono dall’esterno. Impermeabili perché la reciprocità delle loro relazioni le spinge ad auto-sostenersi e proteggersi. Tutto ciò spiega perché questi sistemi di rappresentanza sono incapaci: 1) di riformare le proprie organizzazioni; 2) di guardare al futuro e fare scelte strategiche, perché ripiegate sulla propria conservazione; 3) di percepire il distacco che si è generato nei confronti dei cittadini, degli aderenti, dei soci. È l’esito del meccanismo della “cooptazione a ripetere”. Un meccanismo che, a mio avviso, prende avvio negli anni ’70, quando i mondi dell’associazionismo e della rappresentanza non costituiscono più il canale privilegiato della formazione per l’approdo all’esperienza politica. Quando gli stessi partiti hanno via via smesso di formare nelle apposite scuole la loro classe dirigente. La “cooptazione a ripetere” si può rompe per un evento traumatico proveniente dall’esterno, com’è stato nel caso di Tangentopoli o, più di recente, com’è nel caso del PdL e della Lega. O perché emerge una leadership culturale in grado di esprimere e imporre una vision, nuovi valori dell’azione della rappresentanza. Una nuova leadership non può che venire dalle giovani generazioni. Finora, quelle che hanno tentano di approcciare questi percorsi più spesso hanno abbandonato sfiduciati e si sono dedicati ad altro. Esprimono il loro essere classe dirigente in altre forme: nell’imprenditoria, nella cooperazione, nell’associazionismo volontario. Una leadership per diventare tale necessita comunque di incubatori, di contenitori dove si realizzino percorsi di formazione e di educazione alla politica. Ciò non significa tornare alle forme del passato. Sarebbe impossibile. Ma offrire luoghi strutturati dove lo spazio della riflessione e dell’esercizio della critica sia la materia d’insegnamento quotidiana. Là dove ciò si realizza, i giovani non si sottraggono. La sfida della creazione di una classe dirigente del futuro si gioca nella sua formazione.

Merito e cooptazione, scrive Matteo su "tidiverticompany.com". Non mi piacciono le citazioni, sono un fare sfoggio della propria ignoranza, per dirla alla Nino Frassica. Però a volte capita che qualcuno, molto prima di noi, abbia espresso certi concetti meglio di tutti quelli che sono venuti dopo quindi ho bisogno di menzionare due aforismi. Uno é di la Rochefocauld che diceva che tutti sembriamo degni delle cariche che non ricopriamo. Il secondo appartiene al Saggio Confucio che raccomandava di non dolersi se non si vedono riconosciuti i propri meriti. La vera fonte di rammarico deve essere nel non saper riconoscere quelli altrui. Cito queste due massime per parlare riguardo la cooptazione che consiste nell’aggregare ad un organo collegiale candidati scelti da uno o piú membri del collegio stesso, in genere i più anziani o potenti. Questa maniera di fare é tipica delle corporazioni e delle associazioni di categoria. É molto diffusa anche nelle università, in politica e in tutti i centri da cui si sviluppa una qualsivoglia forma di potere. É una delle ragioni principali per cui si parla di casta riferendosi ad alcuni settori della società particolarmente chiusi, autoreferenziali che appaiono formati da persone occupate esclusivamente nel mantenere i privilegi acquisiti ( la casta dei notai, la casta della politica etc..). In maniera impropria si potrebbe utilizzare la parola “raccomandare” per descrivere alcune azioni insite nel termine cooptazione. Il più grosso dei danni compiuti da questa pratica non é quello di aver messo incapaci in posizioni di responsabilità, spesso ai più alti livelli decisionali. Non é neanche quello di aver, per proprietà transitiva, lasciato nel dimenticatoio gente di talento che per virtù varie avrebbe meritato soddisfazioni e compiti maggiori. Il danno consiste in due aspetti complementari: primo, l’aver fornito a un esercito di mediocri la giustificazione migliore ai propri insuccessi. Così, dopo anni di brutti voti perché” il professore non sa spiegare” o “perché al professore sto antipatico”, il mediocre potrà continuare a giustificarsi dicendo: “non mi assumono perché se non sei raccomandato non vai da nessuna parte”. Io chiamo questo ragionamento sindrome del tennista pensando a quei giocatori che se la prendono con la racchetta perché hanno sbagliato il passante. Il secondo aspetto é il senso di delegittimazione che circonda tutti quelli che sono riusciti a raggiungere una carica ambita da altri: sei diventata la conduttrice di un programma RAI? Tutti pensano che te la fai con il direttore di rete dimenticando le lunghe ore di lezioni di dizione, recitazione, sceneggiatura, danza canto che hai preso. Diventi assistente di un noto barone universitario? Questo perché qualcuno ti ha raccomandato e non perché il professore in te ha visto qualità superiori o una maggiore passione rispetto agli altri studenti. Fai strada in azienda? Sei uno yes man prono e sottomesso al capo. Fai carriera in politica? Sei un individuo squallido, pronto a ricattare, malversare, colluso, sceso chissà a quali inconfessabili compromessi. É ovvio che qualcuno che ha una opinione del genere dei suoi superiori non ci lavorerà che male, con crescente frustrazione e acredine di tutte le persone coinvolte.

Le raccomandazioni diventano così la scusa principale che molti mediocri utilizzano per consolarsi dei propri insuccessi e sentirsi migliori di quello che in realtà sono. Diffidate di chi fa della guerra contro il “familismo amorale”, il nepotismo, la cooptazione la propria principale ragione d’essere. La vera persona intelligente queste cose le mette in conto come parte delle difficoltà che si incontrano normalmente nell’ambito lavorativo. Magari cerca di utilizzarle a suo vantaggio. Sicuramente cerca di adattarsi e sviluppare meccanismi di compensazione che gli permettano di continuare a progettare, pensare. Vivere. Con questo non sto difendendo una prassi che ostacola pesantemente lo sviluppo del Paese e che crea migliaia di persone frustrate e insoddisfatte. Però, ho voluto portare all’attenzione un altro aspetto spesso trascurato: il giustificazionismo di molti che si sentono esclusi da vere e presunte spartizioni di incarichi.

CERVELLI IN FUGA.

Poletti, il calcetto e tutte le gaffe su giovani e lavoro. Dai "bamboccioni" di Padoa Schioppa alla monotonia del posto fisso di Monti. Oltre Poletti, tutti i politici che sono scivolati sui giovani e il loro futuro, scrive Maria Franco il 29 marzo 2017 su "Panorama". Questa volta non si è trattato di un congiuntivo sbagliato, di un errore di geografia, di una citazione erroneamente attribuita e nemmeno di sviste sulla Costituzione. A scatenare la polemica che ha investito il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è stata infatti una frase espressa in italiano corretto, secondo molti anche onesta nel contenuto ma per tutti tragicamente inopportuna.

Il calcetto. Incontrando gli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna, Poletti ha infatti suggerito loro di coltivare il più possibile le relazioni sociali. Nulla di male se non avesse anche aggiunto che per trovare lavoro è “più utile giocare a calcetto che mandare in giro curricula”. Molte ricerche gli danno ragione: secondo i dati Isfol solo il 3% trova lavoro attraverso i centri per l'impiego mentre “l’Italia continua ad essere un paese – ha dichiarato il Commissario straordinario dell'ente pubblico di ricerca Stefano Sacchi - dove per trovare lavoro conta moltissimo la rete di conoscenze che un individuo può mettere in campo”. Eppure il ministro è stato travolto da critiche e attacchi e le opposizioni, Lega e Movimento 5 Stelle in testa, ne hanno chiesto le dimissioni.

I cervelli in fuga. D'altra parte il ministro del Lavoro non è nuovo a questo tipo di esternazioni scivolose. Qualche mese fa, a colloquio con dei giornalisti in difesa del Jobs Act, Poletti usò frasi piuttosto sprezzanti nei confronti di chi decide di lasciare l'Italia per cercare miglior fortuna all'Estero: “conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Anche allora il ministro tentò di correggere il tiro e si scusò: “non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero. Penso, semplicemente, che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri”. Un'altra polemica risale a circa un anno fa quando sempre Poletti dichiarò che “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”.

Fornero e i giovani “choosy”. Tra i ministri meno amati nella storia della Repubblica italiana, Elsa Fornero viene ancora oggi ricordata come la professoressa che ha sbagliato i conti sui cosiddetti “esodati” e che ha dato dei “choosy” (schizzinosi) ai giovani che non si accontentano di ciò che gli viene offerto quando si affacciano al mondo del lavoro. Per esattezza ciò che allora fece la ministra fu elargire loro il consiglio di “non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi”. Ricordando ciò che ella era solita dire sempre ai suoi studenti, Fornero suggeriva che fosse opportuno prendere subito il primo lavoro che capitava per poi “da dentro” guardarsi intorno. Anche in questo caso sarebbe ipocrita negare che il 99% dei genitori italiani suggeriscano la stessa cosa ai loro figli. Ma da un ministro del Lavoro i giovani italiani si aspettano non consigli bensì soluzioni che li sottraggano a un futuro da precari a tempo indeterminato.

Monti e il posto fisso. Certo è che dentro il governo Monti, di cui Fornero ha fatto parte, il posto fisso non ha mai goduto di un particolare favore. “Che noia” dichiarò infatti l'allora premier Mario Monti a Matrix. “I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita. È più bello cambiare”. Peccato che in un Paese dove, secondo dati Istat, la disoccupazione giovanile si attestava a gennaio al 40,6%, il problema non è più nemmeno quello di trovare un posto fisso ma di trovarne uno qualsiasi.

Anna Maria Cancellieri e i mammoni. Quasi che denigrare i giovani fosse diventata l'ossessione di molti dei membri del governo Monti, anche l'allora ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri non si fece scappare l'occasione di lanciare la propria personale bombetta. Intervistata da Tgcom24, la ministra che fu costretta a dimettersi quando da Guardasigilli del governo Letta fu coinvolta nel caso Ligresti, in una sola frase Cancellieri rievocò la celebre etichetta di “bamboccioni” appiccicata addosso ai giovani dal Padoa Schioppa e ribadì il giudizio espresso da Monti sul posto fisso: “Siamo fermi al posto fisso nella stessa città – disse infatti – di fianco a mamma e papà...”.

Martone e gli sfigati. Sui giovani, il lavoro e il loro futuro anche l'allora viceministro al Welfare (sempre del governo Monti) volle consegnare alle cronache una perla di presunta saggezza ma di dubbia opportunità. Alla sua prima uscita pubblica, un convegno sull'apprendistato organizzato dalla Regione Lazio, Michel Martone bollò infatti come uno “sfigato” chi a 28 anni ancora non è riuscito a mettersi una laurea in tasca. “Dobbiamo dire ai nostri giovani - disse il vice della Fornero - che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa”. Anche in questo caso il consiglio dall'alto, paternalistico e secchione, di un “giovane” particolarmente fortunato, fu respinto al mittente con profluvio annesso di infuocate polemiche.

Padoa Schioppa e i bamboccioni. A conquistarsi il titolo di “madre di tutte le gaffe” fu quella scappata allo scomparso ministro dell'Economia nel secondo governo Prodi Tommaso Padoa Schioppa. Nel presentare la finanziaria del 2007, l'allora titolare di via XX Settembre disse infatti che le misure a favore delle famiglie sarebbero servite anche “a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa". Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”. Ma quanti sono quelli che non si rendono autonomi per scelta? Una domanda che evidentemente il ministro non si pose o che non ritenne opportuno porsi per evitare di essere in futuro ricordato solo per questo episodio nonostante una prestigiosa e lunga carriera ai vertici sia della Commissione europea che della Banca d'Italia.

Brunetta e l'Italia peggiore. Anche perdere la pazienza in pubblico può giocare brutti scherzi a chi fa politica. È successo per esempio al capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta all'epoca in cui era ministro della Funzione Pubblica. Al termine del suo intervento a un convegno sull'innovazione, un gruppo di precari chiede di prendere la parola. Il ministro chiamò sul palco due donne (precarie dell'agenzia tecnica del ministero del Lavoro) e appena quelle pronunciarono la parola “precarie”, Brunetta scese dal palco pronunciando uno stizzito “siete l'Italia peggiore”.

Poletti, Padoa-Schioppa, Berlusconi: dieci anni di battute contro i giovani precari. "Meglio il calcetto del curriculum" è stato solo l'ultimo sfottò di una lunga serie di uscite governative. Da Donne sposate mio figlio! agli sfigati senza ancora una laurea, scrive Wil Nonleggerlo il 28 marzo 2017 su "L'Espresso". Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti "Sfigati", "poco occupabili", "bamboccioni", "choosy"”. Insomma, "l'Italia peggiore". Dieci anni di crisi economica, dieci anni di battutine, sfottò, consigli imbarazzanti per studenti, precari e mondo del lavoro in generale. Ecco la risposta governativa ad una disoccupazione giovanile che veleggia stabile sul 40%, tra le più alte dell'Eurozona. L'ultimo caso riguarda il ministro del Lavoro Poletti: inviare curricula? Meglio il calcetto, crea più opportunità. Scivoloni di questo tipo non riguardano ovviamente solo i governi Renzi-Gentiloni, partono da Padoa-Schioppa e attraversano 10 anni di esecutivi, politici e tecnici. Li abbiamo raccolti per voi.

- Meglio il calcetto dei curricula (Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti agli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna - 27 marzo 2017): Nella ricerca di un lavoro "il rapporto di fiducia è un tema sempre più essenziale", si creano più opportunità "a giocare a calcetto che a mandare in giro i curricula".

- Dopo lo scoppio delle polemiche il ministro Poletti prova a spiegare meglio il concetto (28 marzo 2017): "Critiche? È una stupidaggine sintetizzare in una riga due ore di dialogo con i ragazzi. Il calcetto, se volete, è la metafora della relazione sociale".

- Fuori dai piedi (Il ministro Poletti a colloquio con i giornalisti a Fano - 19 dicembre 2016): "Bene così: se 100mila giovani sono andati via non vuol dire che qui siano rimasti 60 milioni di pistola. Quelli che se ne sono andati è bene che stiano dove sono, il Paese non soffrirà sicuramente nel non averli più tra i piedi".

- Consigli per la laurea (Il ministro Poletti - non laureato - durante la convention di Veronafiere "Job&Orienta" - 26 novembre 2015): "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21".

- Italiani poco occupabili (Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta - 9 ottobre 2013): "L'Italia esce con le ossa rotte dai dati dell'Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco 'occupabili', perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro".

- Choosy (Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti, durante un convegno a Milano - 22 ottobre 2012): "I giovani escono dalla scuola e devono trovare un'occupazione. Devono anche non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi". 

- Sfigati (Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti, alla sua prima uscita pubblica, in un convegno sull’apprendistato organizzato dalla Regione Lazio - 24 gennaio 2012): "Dobbiamo iniziare a far passare messaggi culturali nuovi, dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato".

- Precari, siete l'Italia peggiore! (Renato Brunetta, ministro per la Funzione Pubblica del governo Berlusconi, risponde così ad un gruppo di precari durante la terza edizione della “Giornata Nazionale dell’Innovazione” - 14 giugno 2011): Il ministro invita due donne che chiedono di fare una domanda sul palco, ma non appena pronunciano la parola "precari" Brunetta perde completamente la pazienza: "Grazie, arrivederci. Questa è la peggiore Italia!". Uscendo dalla sala strapperà pure il cartellone dei manifestanti.

- La ricetta di Berlusconi contro la precarietà: donne, sposate mio figlio! (L'allora premier risponde ad una studentessa che nel corso della rubrica del Tg2 Punto di vista gli chiede come sia possibile, per una giovane coppia, farsi una famiglia senza un lavoro stabile - 13 marzo 2008): "Intanto bisognerebbe che in questa giovane coppia - ed è un consiglio che da padre mi permetto di dare a lei - dovrebbe cercarsi magari il figlio di Berlusconi o di qualcun altro... Lei col sorriso che ha potrebbe anche permetterselo!".

- I bamboccioni (Tommaso Padoa-Schioppa, ministro delle Finanze del governo Prodi, promuovendo agevolazioni all'affitto per i più giovani - 6 ottobre 2007): "Mandiamo i bamboccioni fuori casa!".

 “Sfigati”, disse il dottor Michel Martone, viceministro per un quarto di stagione. “Bamboccioni”, disse il ministro Tommaso Padoa Schioppa. “Choosy”, schifiltosi e pigri, così il ministro Elsa Fornero. “Giovani in fuga? Conosco gente che è meglio non averla tra i piedi”, dice il ministro Giuliano Poletti in carica al dicastero del Lavoro. In principio fu Tommaso Padoa Schioppa. Nel 2007 l'allora ministro dell'Economia, scomparso nel 2010, definì "bamboccioni" i giovani italiani. "Mandiamoli fuori di casa", disse all'epoca. E giù polemiche, con l'Italia spaccata tra bamboccioni sì e bamboccioni no. Da allora è stato un susseguirsi di sparate sui ragazzi del Belpaese. Fornero, Martone, Giovannini e il 26 novembre 2015 Giuliano Poletti secondo cui una laurea presa a 28 anni con 110 e lode non serve a un fico.

Basta! Ora siamo pure incompetenti. Da Padoa-Schioppa a Fornero, da Martone a Giovannini: i ministri se la prendono sempre con gli italiani in difficoltà. Bamboccioni, choosy e chi ne ha più ne metta. Ma perché non si guardano allo specchio? 9 ottobre 2013 da Libero quotidiano. Dopo “choosy”, “scansafatiche” e “bamboccioni”, ora gli italiani sono pure “incompetenti”. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, dopo sei mesi a palazzo Chigi centra subito l’obiettivo: farsi odiare da chi lavora e soprattutto da chi un lavoro non ce l’ha. Intervenendo a un convengo sul Senato sui 10 anni della legge Biagi, Giovannini afferma: “L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco occupabili, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. Affermazioni pesanti di per sé, ancora di più se a pronunciare è il ministro del Lavoro”. Ma il ministro non fa marcia indietro: “Quelle cifre – ha aggiunto – ci mostrano quanto siamo indietro in termini di capitale umano e di occupabilità. La responsabilità di questa situazione – ha concluso – è di tutti”. Il dato di ieri dell’organizzazione mostrava come l’Italia sia tra gli ultimi posti al mondo per le competenze fondamentali necessarie a muoversi nel mondo del lavoro e della vita sociale. Ma quei dati di certo non sono il passaporto per poter definire gli italiani come “incompetenti” e “inoccupabili”. Insomma Giovannini si accoda subito alla buona tradizione di offese che sono piovute sugli italiani negli ultimi anni. Giovannini come la Fornero – L’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero qualche mese prima di lasciare il suo incarico disse chiaramente: “Gli italiani costano tanto e lavorano poco”. La bordata era arrivata subito dopo l’attacco ai giovani disoccupati che, sempre la Fornero, definì “choosy”, ovvero “stizzinosi, con poco spirito di adattamento”. Infine l’attacco di Giovannini è in linea con quello dell’ex ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa che definì i giovani disoccupati come “bamboccioni”. Mentre l’ex sottosegretario al Lavoro, Martone disse che “laurearsi dopo i 28 anni, è roba da sfigati”.

Bamboccioni, choosy, pistola: quando i ministri fanno infuriare i giovani, scrive Ugo Barbàra su "Agi" il 20 dicembre 2016. Le scuse non bastano a fugare le nubi di tempesta che si addensano sul ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. "Non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero" ha detto dopo che sul web si è diffusa alla velocità della luce una sua affermazione riportata dalla stampa su alcuni giovani andati all'estero, "questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi". "Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso", si legge nella nota di precisazione. "Penso, semplicemente", aggiunge, "che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri. Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all'estero, ma che dobbiamo dare loro l'opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie". 

Il Fatto Quotidiano traccia un parallelismo tra le parole di Poletti e quelle di Claudio Scajola, che definì "rompicoglioni" Marco Biagi, il giuslavorista ucciso il 19 marzo del 2002 dalle nuove Brigate Rosse. Ricercatori, ma anche liberi professionisti di livello, imprenditori, inventori di start up: per Poletti meglio che se ne siano andati, ad arricchire con le loro conoscenze, la loro capacità di intuito e di analisi, la loro immaginazione e fantasia, altri paesi. 

Non è la prima volta che Poletti attira su di sé le ire dei laureati. Poco più di un anno fa se ne uscì con un'altra frase destinata a scatenare ondate di polemiche: "rendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21". Ma non è l'unico, tra i vertici delle istituzioni, a primeggiare per impopolarità tra i giovani. 

In ottobre è stato il ministero dello Sviluppo economico a fare una gaffe non da poco: la blogger Eleonora Voltolina aveva trovato in un opuscolo destinato agli investitori esteri un invito forse allettante per loro, ma non lusinghiero per i lavoratori italiani il cui senso era questo: costano poco anche quando hanno un elevato tasso di scolarizzazione. 

Nell'ottobre del 2012 fu l'allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a finire sotto il fuoco delle polemiche per una frase sui giovani che non devono essere troppo schizzinosi al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro. “Non devono essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Meglio cogliere la prima occasione e poi guardarsi intorno”.

Dieci mesi prima, nel gennaio del 2012, era stato il viceministro del Lavoro, Michel Martone, a dare degli 'sfigati' ai giovani: "Se a 28 anni non sei ancora laureato - aveva detto partecipando a un incontro sull'apprendistato - sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari".

Nell'ottobre del 2007 era stato l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa a usare un termine destinato a diventare di uso comune nel dibattito politico. Le misure a favore delle famiglie, disse presentando la finanziaria, serviranno anche "a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa. Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi". 

La guerra infame del potere contro i giovani di questo Paese. Da Poletti alla Fornero. Ma il suo capostipite fu il ministro Padoa Schioppa, passato alla storia con la sua invettiva contro "i giovani bamboccioni", scrive Luca Telese il 20 dicembre 2016. Dei pistola. Malagente. Persone indesiderate da tenere - addirittura - fuori dall'Italia. L'incredibile gaffe del ministro al Lavoro Giuliano Poletti questa volta va studiata nel dettaglio. E non per ridicola e flebile richiesta di scuse che ha seguito l'infelice sortita, ma perché - purtroppo - non rappresenta un caso isolato. "Se 100mila giovani se ne sono andati dall'Italia - ha detto il ministro con incomprensibile fare aggressivo - non è che qui sono rimasti 60 milioni di 'pistola'". Il ministro del Lavoro, conversava amabilmente con i giornalisti a Fano e pochi minuti prima aveva difeso il Jobs Act del governo e aperto alla possibilità di rivedere le norme sui voucher. Già questa, a ben vedere, era una manifestazione di stato confusionale, visto che solo tre giorni prima lo stesso ministro si augurava una crisi anticipata del suo governo, pur di impedire il referendum abrogativo sui voucher e sull'articolo 18. Ma evidentemente, mentre fingeva di aprire, Poletti sembrava anche interessato a punire, se non altro sul piano simbolico: "Intanto - osservava stilando il suo atto d'accusa - bisogna correggere un'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei 'pistola'. Permettetemi di contestare questa tesi". E a questo punto che era arrivato il colpo di grazia, la mazzata sui reprobi. "Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". A chi si riferisse Poletti, non è dato di saperlo, resterà un mistero. Però ci sono almeno due indizi importanti da seguire. Il primo: le parole del ministro arrivano dopo un preferendo in cui le tesi del governo sono state bocciate a maggioranza quasi unanime, dagli elettori compresi nella fascia anagrafica fra i 18 e i 35 anni. La seconda, però, è molto più profonda, sottile, e merita una riflessione.

Denigrare i giovani è diventato uno sport nazionale. La guerra infame ed ideologica dei governi italiani contro i giovani in questo paese parte da lontano, e non è stata incominciata da Poletti. Ha il suo capostipite nelle parole scioccanti del ministro Padoa Schioppa che con il sorriso sulle labbra la sua celebre invettiva contro "i giovani bamboccioni". Italiani infantili e colpevoli perché incapaci di trovare una strada, mammoni, desiderosi di protezioni, pappe pronte e tutele. Non era che l'inizio. Quindi dopo il ministro dell'ulivo, fu la volta della ministra Fornero, la sacerdotessa del rigore con la lacrima facile, in uno dei suoi momenti di melodrammatica megalomania, si lanciò in una invettiva contro "i choosy", gli schizzinosi, contro i ragazzini che non hanno voglia di fare la propria parte. La faceva egregiamente lei, peraltro, massacrando i pensionati, battezzando con le sue lacrime di coccodrillo, battaglioni di esodati.

E che dire dell'allora sottosegretario al lavoro, Michel Martone? Anche lui ci era andato giù duro: "Hai 28 anni e non ti sei ancora laureato? Allora sei uno sfigato". A queste frasi, divenute ormai proverbiale, si sono aggiunte decine di dichiarazioni, di gaffe rivelatrici, di infortuni lessicali, seguiti da scuse più o meno maldestre in alcuni casi, e da nessuna scusa, nella maggior parte. Piuttosto che considerare questo florilegio una collezione di parole dal sen fuggite, o casi isolati, bisognerà rassegnarsi a prendere in considerazione questo repertorio di errori come una sorta di inconsapevole ma fluente manifesto ideologico. Come una dichiarazione di guerra a una classe sociale, anagrafica, che le classi dirigenti italiane considerano nemica. Mentre smantellavano diritti in tutte le leggi sul lavoro a partire dal pacchetto Treu, mentre colpivano la #buonascuola, mentre bastonavano, e non solo metaforicamente la precarietà, costruivano una apartheid di diritti, i governi italiani si sono dati la staffetta in un opera di demolizione psicologica delle loro vittime. Non sono loro ad avere colpa dell'esodo, non nel loro la responsabilità della fuga dei cervelli, non sono loro ad essere deficitari nelle loro risposte e iniqui nel loro operato. Con un geniale riflesso istintivo, hanno trasformando le loro vittime in carnefici, e viceversa.

Per alcuni i privilegi sono ormai una grazia dovuta. A sentire le sparate di Poletti e dei suoi epigoni, è chi paga il prezzo delle loro politiche che si deve vergognare e non viceversa. C'è dietro questa retorica cattiva, anche qualcosa di più, un istinto corporativo. La classe dirigente dei garantiti, che pensa a se stessa, ai propri figli e ai propri privilegi come ad una grazia dovuta. Come al biglietto di ingresso nel club dell'aristocrazia e delle elite. A tutti gli altri, invece, guarda come una masnada di usurpatori, disperati che si affollano bussando alle porte delle loro fortezze. I giovani che sono partiti, in verità, sono quelli che non rinunciano a muovere l’ascensore sociale. Sono quelli che non si mettono in fila di fronte ai nonni e ai baroni. Sono quelli che non accettano la geometria di potere delle vecchie e nuove caste, coloro che non vogliono pagare la tassa d'ingresso nelle corporazioni garantite. Fra qualche anno, quando tutto sarà più chiaro, le Fornero e i Poletti, che in questi anni la stampa e i media hanno trattato con i guanti di velluto, saranno ricordati come i razzisti americani degli anni ‘60, quelli che sorridevano con i colletti inamidati, mentre dormono coperture ideologica discorso lui, ai cappi, e ai roghi in cui si bruciavano i "negri" che non volevano piegarsi e accettare la parte dello zio Tom.

ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.

L'Italia, il Paese con tre milioni di poeti. Sembra che la poesia non ci sia. Poi la incontri in un film, in un centro sociale, tra i libri più venduti. Perché sono tantissimi gli italiani che scrivono, leggono e si finanziano. Con successo, scrive Fabio Chiusi l'1 gennaio 2017 su “L’Espresso”. C’è una “disperata vitalità” nel mondo della poesia in Italia. “Disperata” come in Pier Paolo Pasolini, perché la vita in versi prosegue, muta e si rinnova, eppure ciclicamente bisogna tornare a tastarne il polso, accertarsi che il cuore del paziente batta ancora. Colpa di un mercato inesistente o quasi, che vale oggi secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori appena il 6% del totale dei libri pubblicati per, scrive Nielsen, un venduto complessivo di mezzo milione di copie. Se le stime parlano di circa tre milioni di poeti nel nostro paese, si comprende che i versi si scrivono più di quanto si leggono. Un problema culturale, certo, ma anche un dato che testimonia come la poesia sia e resti «una necessità profonda», dice all’Espresso uno dei massimi autori viventi, Milo De Angelis, «qualcosa che parla alla nostra sete». Un modo per capire quanti però davvero se ne abbeverino, e come, è misurare le sortite della cultura di massa in quella che, anche nell’era del “tutto connesso”, resta una nicchia. C’è una nuova sensibilità nel cinema, per esempio, che si accompagna a successo di pubblico e critica: «Dopo il cannibalismo da reality sulle vite “maledette” dei poeti”», commenta Alberto Pellegatta, classe 1978 e presto in libreria con “Ipotesi di felicità” per Mondadori, «film come “Paterson” e “Neruda” cercano di avvicinare la poesia con maggiore rispetto, e con la cura che si deve alle cose più fragili e preziose, ai dettagli minimi che fanno la differenza, e che quasi tutti trascurano». Ancora, c’è il rinnovato interesse per Giacomo Leopardi, riletto da Alessandro D’Avenia in un libro in vetta alle classifiche di narrativa, e già nel 2014 da Mario Martone nel film “Il giovane favoloso”. Non solo: ci sono i nuovi modi attraverso cui la poesia diventa “partecipata”. In rete, per esempio, il sito “Interno Poesia” sfrutta il “crowdfunding”, cioè il finanziamento tramite donazioni online dei lettori, per lanciare e sostenere le raccolte di autori conosciuti e non. È un modo per ovviare alla richiesta, di buona parte degli editori del settore, di un contributo monetario per pubblicare. E funziona. I progetti, spiega l’ideatore Andrea Cati, vengono sviluppati tramite vere e proprie campagne promozionali della durata di 30-50 giorni basate su presentazioni delle anteprime dei libri proposti, ma anche condividendoli sui social network, nelle newsletter, perfino in video su YouTube dell’autore alle prese con la sua opera. «Si fa una prevendita, come nella musica», dice Cati, parlando di centinaia di partecipanti, la maggior parte giovani, e di budget - duemila euro di norma - raggiunti e superati. Più partecipazione del lettore nell’ideazione stessa del libro, insomma, ma anche più cura per l’immagine, il marketing, il fare della poesia un prodotto di mercato. Idee da cui «gli addetti ai lavori rifuggono», secondo Cati, ma sbagliando: «Senza una buona promozione, le vendite non aumenteranno». Un’altra “innovazione” che fa storcere il naso a chi tradizionalmente detiene le chiavi della poesia sono i “poetry slam”. Lanciate in Italia da Lello Voce nel 2001, queste gare tra poeti con tanto di giuria - votante - selezionata casualmente tra il pubblico sono diventate rapidamente un luogo abituale di aggregazione per poeti e aspiranti tali, ibridando il mondo dei versi con quello dello spettacolo, le qualità del poeta con quelle del performer, ma anche aprendolo a fasce della popolazione che altrimenti non vi entrerebbero in contatto. I numeri sono impressionanti: 250 “slam” in tutto il paese per il solo campionato ufficiale, e presenze dalle poche decine di persone alle centinaia, a seconda della capienza dei luoghi - taverne, centri sociali, biblioteche. «Ma a Perugia ne ho fatto uno con seimila persone», dice Voce, che rivendica l’origine nell’oralità del componimento poetico, e disegna scenari internazionali anche più partecipati. Come in Sudamerica, dove un autore come Arnaldo Antunes, già musicista coi Tribalistas, vende 50 mila copie; ma anche nel resto d’Europa. A partire dalla Germania: «A Monaco 800 persone hanno pagato 15 euro l’una per partecipare», spiega Voce, le cui commistioni di poesia e musica sono reperibili su Spotify, e che non ha timore di parlare di cantautori come poeti a tutto tondo. Posizioni che dividono molto, e con asprezza. «I poetry slam sono creature senza solitudine e riguardano, più che la poesia, l’intrattenimento o il cabaret», attacca De Angelis. «L’intrattenimento è intrattenimento», conferma Maurizio Cucchi, curatore della prestigiosa collana “Lo Specchio” di Mondadori e autore tra i protagonisti del panorama poetico contemporaneo. Quanto alla musica, «ho sempre avuto simpatia per i cantanti, ma ognuno ha la propria arte». Insomma, «prima di darci qualsiasi risposta» sulla vitalità del mondo poetico è «necessario definire cos’è per ognuno poesia», sostiene Mary Barbara Tolusso, giornalista e poetessa pordenonese. «Per me mantiene il suo carattere di eccellenza nella forma scritta, in ciò che è stato l’imprinting di formazione», che deriva cioè dai manuali scolastici e dai libri. E invece, prosegue, «l’epoca impone che tutto è spettacolo, un fenomeno che mira a parlare ai più e di conseguenza deve semplificare i codici. È il motivo per cui si scambiano i cantanti per poeti, i blogger per scrittori e così via». Ma anche limitandosi alla sua forma tradizionale, la poesia è viva e vegeta. Guanda ha appena rilanciato in tascabile la sua storica collana. Elisa Donzelli, responsabile del catalogo di poesia dell’omonimo editore, dice che dal lancio nel 1994 «siamo cresciuti», dimostrando che «non è vero che con la poesia si va in debito». E non solo pubblicando giganti del calibro di Andrea Zanzotto e Charles Simic: il libro più venduto è “Notti di pace occidentale” di Antonella Anedda. L’interesse per la buona poesia, in altre parole, resiste anche limitandosi a quella scritta. Tolusso lo conferma come selezionatrice del premio Cetonaverde Poesia, affollato dai componimenti di «ragazzi giovanissimi che, nonostante i tam tam delle odierne ambizioni, si concentrano su qualcosa di cui sanno in anticipo non darà né soldi né fama e lo fanno concentrandosi sulla parola, senza apporto di musica o microfoni». La stessa divisione, e altrettanto netta, si impone rispetto al ruolo di Internet e dei social media nella produzione e diffusione di versi. L’impressione è che si sia a una frattura generazionale, ma anche concettuale e di potere, che riflette il dibattito in corso in altri settori dell’editoria e nel giornalismo. Da un lato, nuove voci che cercano spazio sfruttando la “disintermediazione” e la “disruption” fornite dalle tecnologie di comunicazione digitale, che consentono di evitare il passaggio da editori e riviste; dall’altro, i detentori delle forme e dei canali tradizionali di creazione e diffusione del sapere poetico, terrorizzati dalla marea montante di incompetenza. Nel mezzo, il problema di mantenere la complessità della poesia senza banalizzarla in “memi” su Instagram - come nel fenomeno di successo, degli “Instapoets” - e insieme il tentativo di non esiliare i versi da Facebook e Twitter, facendo in modo diventino luogo di confronto costruttivo e serio tra autori e appassionati. Per alcuni, una battaglia persa. Tra loro il poeta romano Jacopo Ricciardi, per cui i social «non permettono un reale confronto tra poeti». Anzi, «su Facebook si trova una socialità fatta di coloro che vogliono essere poeti e non lo sono, mentre i poeti che lo sono non vogliono pubblicarsi su Facebook», ma cercano luoghi autorevoli. Cucchi concorda: «Il problema è che con questi nuovi mezzi di comunicazione si pensa più alla propria presenza che alla ricerca poetica. Occorrerebbero mezzi più selettivi». Il rischio è che l’autore prevalga sul libro, il contenitore sul contenuto, e si finisca travolti da un mare di componimenti mediocri, che sembrano perfino adottare le forme comunicative e il linguaggio «delle conversazioni virtuali in rete». E tuttavia, spiega Donzelli, i “mi piace” sui social si traducono davvero in libri venduti. E il bisogno di ricambio, pur urlato spesso con eccessiva insofferenza proprio online, a sua volta è reale. «Per dire che ci sia una nuova vita della poesia c’è bisogno di cambiare facce, uscendo dall’autoreferenzialità dei soliti noti», dice Michelangelo Camelliti, che da trent’anni anima LietoColle, una piccola ma prestigiosa realtà editoriale con sede in provincia di Como. Non c’è soltanto il narcisismo iperconnesso, insomma: c’è anche un vizio antico, aggiunge, l’obbligo di appartenere a “clan” o sparire dal circuito dei premi e dei festival più prestigiosi. Che pure ci sono, e costituiscono un altro dei fattori di vitalità della poesia in Italia. Protagonista indiscusso, secondo tutti gli interpellati, è Pordenonelegge, che tramite la cura e l’organizzazione del poeta Gian Mario Villalta porta centinaia di spettatori a confronto con i massimi autori internazionali, ma anche con quelli emergenti e locali. Camelliti per esempio ne presenta quattro, giovani, alla manifestazione friulana, dopo attenta selezione. La poesia, a Pordenone, ha una propria “Casa”, sempre aperta per letture e confronti, e una libreria dedicata, dove - giura Camelliti - i libri si vendono. Ma gli eventi sono distribuiti durante tutto l’anno, con 100-150 partecipanti alla volta. La questione non è insomma meramente tecnologica. Del resto, alcune riviste cartacee, come Nuovi Argomenti, sembrano vivere più sul web che in edicola. Per Villalta, semmai, i problemi sono di natura più profonda. Il primo è il “settarismo” esasperato, dovuto alla mancanza di un centro culturale capace di riunire e mettere in dialogo gruppi e istanze di realtà territoriali e culturali diverse. Il secondo, conseguente, è che il mondo della poesia non è più capace di concentrarsi su uno stesso tema, e affrontarlo «con un discorso comune». È all’incirca quanto mostra con insofferenza Cucchi dicendo di rimpiangere quasi la pletora di manifesti di poetica che tanto detestava da giovane: oggi quella problematizzazione teoretica manca, così come manca un orizzonte ideologico di fondo. Difficile sia altrimenti, di fronte a uno scenario così composito, così atomizzato e allo stesso tempo conflittuale. Ma non mancano nemmeno i tentativi di cucire gli strappi. A La Spezia, per esempio, a fine febbraio si terrà un evento, “Mitilanza #1, Gli spazi mobili della poesia”, che si propone di riunire le diverse realtà che indagano il limite del versificare contemporaneo, con tavole rotonde su “street poetry” - chi scrive, ma sui muri e i volantini - ma anche nuove forme dell’editoria, incroci con teatro e musica, e soprattutto l’incontro tra la generazione delle avanguardie di Nanni Balestrini e del Gruppo 63 con i giovani sperimentatori di oggi, dagli animatori del sito GAMMM a chi prende parte agli “slam”. «L’intenzione è che ci sia baruffa», spiega Francesco Terzago, consulente di comunicazione per una società di robotica, ma anche poeta e organizzatore. Perché il confronto aperto, anche aspro, è salutare, vitale, e i tempi per il ricambio generazionale «sono maturi». Soprattutto, perché «oggi non è più possibile ignorare il pubblico, standosene chiusi nella propria cameretta». Resta da capire come conciliare l’era della condivisione con l’intimità indispensabile alla poesia - al farla, come al leggerla. È forse su questo che si giocherà il futuro di un’arte che resta «la più semplice e difficile che esista», come dice Cucchi. E che, tutto sommato, non ha bisogno di ritornare, perché - conclude De Angelis - «ogni volta che un poeta va nelle scuole o nelle carceri a parlare dei suoi versi, getta un seme che verrà raccolto».

Levigatori di parole. La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità, scrive Wlodek Goldkorn l'1 febbraio 2017 su "L'Espresso". In una recensione su una mostra di dipinti giapponesi, Walter Benjamin dice che nell’immagine c’è qualcosa di eterno. Simili sono le intuizioni dei teorici della fotografia: ciò che vediamo impresso sulla pellicola o in uno scatto digitale è il risultato di una congiunzione tra tempo, luogo e lo sguardo di chi fotografa; ogni immagine è come se abolisse la differenza tra il passato, il presente e il futuro. Ma la stessa regola vale per la parola, quando è usata dai poeti. E forse per questo, perché allude all’eternità e al tempo dopo il tempo, e non solo perché è una preghiera laica, la poesia, anche se vende poco, gode di ottima salute. La poesia è lentezza, perché ogni parola deve essere esatta (nel senso che all’esattezza dava Italo Calvino in “Lezioni americane” dove cita “L’anguilla” di Montale) e precisa. Si racconta di poeti che attendono mesi finché sulla pagina non appaia l’aggettivo o il verbo giusto. La poesia non sopporta il parlar sciatto, non tollera la mancanza di attenzione, richiede uno sforzo meditativo. Non esiste poesia sbrigativa. La poesia permette l’uso di figure retoriche come sineddoche (una parte per la totalità), metafora, metonimia (il trasferimento del significato da una parola all’altra), senza per questo rendere il discorso demagogico, come accade ai politici. La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità. Scrive Seamus Heaney, in “La spiaggia”: «Anche la linea punteggiata tracciata dal bastone di mio padre / sulla spiaggia di Sandymount / è qualcosa che la marea non porterà via». Ecco, la memoria vive più a lungo nella parola che nei monumenti di pietra. Il poeta sovverte l’ordine stabilito. Non solo Neruda o Éluard, direttamente impegnati in politica. Quest’ultimo scriveva nel 1942 in “Libertà”: «Sui miei rifugi distrutti / Sui miei fari crollati / Sui muri del mio tormento / Scrivo il tuo nome». È un classico ormai il dialogo tra Josif Brodskij e i giudici sovietici: «Giudice: Qual è la tua professione? Brodskij: Traduttore e poeta. Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti? Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?». In un saggio, il Nobel russo spiegava come la poesia aiuti a resistere alle pressioni del potere, a non piegarsi, a non scendere a compromessi. Tutto questo, perché Brodskij, come pochi altri - e sulla scia di un grande maestro Osip Mandelstam, morto di fame in un Lager sovietico - sapeva quanto l’estetica fosse inscindibile dall’etica. E anche a questo serve la poesia, a capire che una cosa brutta non può essere buona. La poesia trasforma i luoghi del quotidiano in entità mitiche e oniriche. Scriveva il polacco Zbigniew Herbert: «Rovigo non si distingueva per nulla di particolare / era un capolavoro di mediocrità strade diritte case non belle / (…) Eppure era una città in carne e pietra – come tante / una città dove qualcuno ieri è morto qualcuno è impazzito (...)». E infine, la lentezza della poesia ci riporta alla lentezza dell’amore, e quindi di nuovo a qualcosa di eterno. Lo sapeva Mahmud Darwish, poeta palestinese che in “Una lezione di Kamasutra” cantava: «Se arriva in ritardo / aspettala, / se arriva in anticipo / aspettala / e non spaventare gli uccelli sulle sue trecce, (…) e parlale come il flauto / alla coda spaventata del violino, / (…) e aspettala / e leviga la sua notte anello dopo anello». Levigare è un’azione da artigiano che tende alla perfezione. Ecco, amiamo la poesia perché mette insieme il sogno e il quotidiano lavoro delle mani (lo intuiva meglio di tutti Wislawa Szymborska): alla ricerca dell’assoluto.

ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.

Editoria, siamo sommersi di libri che nessuno legge. Continuiamo a ripeterci da anni che il settore editoriale è in crisi perché gli italiani non sono un popolo di lettori, ma non è così vero, perché a vedere i numeri i lettori sono più o meno gli stessi da quarant'anni. Il problema è un altro e assomiglia a una obesità, scrive Andrea Coccia il 28 Gennaio 2017 su “L’Inkiesta”. Anche quest'anno, come da consolidata tradizione, ci troviamo a commentare i dati aggregati dall'Associazioni Italiana Editori, dalla percentuale dei lettori forti sul totale dei lettori, fino al numero delle copie vendute e al giro di affari. Un sacco di cifre cifrette, cifrone, alcune assolute, altre relative, qualcuna fortemente in positivo, qualcuna fortemente in negativo, altre invece sostanzialmente stabili. La fotografia dell'Italia che legge, insomma, è più o meno sempre la stessa: i lettori forti sono stabili sui 3 milioni, come sempre; quelli deboli oscillano in dipendenza del successo o meno del best sellerone, come sempre; le fasce forti sono i vecchi e i givanissimi, come sempre, e via dicendo. Ma la popolazione, in fondo, sembra sempre più o meno la stessa, stabile da quasi quarant'anni: tra i 22 e i 24 milioni di persone. Tra le cifre pubblicate dall'AIE quest'anno, però, un dato interessante sul serio c'è. E curiosamente è uno dei pochi per il quale la statistica non c'entra nulla, perché è un fatto misurabile e riguarda la produzione di libri nel nostro paese, non il consumo. Eh sì, a guardare i dati dalla giusta distanza lo si nota: di fronte a un pubblico dal corpo sostanzialmente stabile nella sua magrezza rachitica, il mercato editoriale è diventato letteralmente obeso. Il fenomeno è macroscopico: nel 2016 il mercato ha visto entrare in libreria più di 66mila nuovi titoli, di cui 18mila di sola narrativa. Nel 1980, sempre secondo l'AIE, quegli stessi numeri parlavano di un mercato totalmente diverso, fatto di sole 13mila novità, di cui soltanto 1000 erano di narrativa. Se andiamo a vedere le stime del numero di lettori fatte dall'ISTAT in quegli anni, il numero assoluto che troviamo è, indovinate un po', sempre lo stesso, circa 24milioni. All'epoca erano il 46 per cento del Paese, ora sono il 41, ma il numero assoluto è sempre più o meno stabile. Quindi, ricapitolando: in quarant'anni circa, a lettori grosso modo stabili, abbiamo assistito a un aumento della produzione di circa il 600 per cento, un aumento che, nel solo campo della narrativa, è di circa il 1800 per cento. Ovvero, se fino agli anni Ottanta per ogni lettore uscivano circa 3 libri all'anno, ora ne escono 10. Una vera e propria marea di carta che viene rovesciata nel mercato, un mercato che però non si è allargato, è rimasto più o meno della stessa grandezza. Le conseguenza sono molteplici: più libri vuol dire meno tempo per sceglierli, lavorarli e promuoverli. Ma anche meno tempo a disposizione di ogni libro per trovare i propri lettori. Il risultato? Abbassamento della qualità, crollo del tempo di permanenza sullo scaffale, ridotto a volte a poche settimane, vendite medie sempre più basse. Negli ultimi dieci anni l'industria editoriale ha chiamato tutto ciò “Crisi dell'editoria”, dando la responsabilità ai lettori. Già, perché l'industria editoriale è parecchio brava a scaricare le colpe sui propri clienti: “in Italia stanno sparendo i lettori”, si dice sempre, tanto che ormai è diventato un ritornello, un mantra che ci siamo ripetuti di continuo negli ultimi anni. Eppure, a vedere i numeri, non è esattamente così. O meglio, è vero che la maggior parte degli italiani non leggono, ma non è una novità. Era così anche quando l'industria editoriale era sana, negli anni Ottanta, per esempio, quando non c'era la Crisi. Ma se il crollo dei lettori non c'è, allora qual è l'anello che non tiene? La domanda non è di quelle semplici da risolvere. La sensazione però è che una parte della risposta sia proprio in questa dieta all'ingrasso, iniziata proprio nel pieno degli anni Ottanta, esattamente quando l'editoria italiana è diventata una vera e propria industria, quando sono cominciate le concentrazioni editoriali, quando ha iniziato a svilupparsi la grande distribuzione organizzata (la modalità di distribuzione più in crisi negli ultimi anni). È questa industrializzazione che ha trasformato il campo di gioco dell'editoria italiana in una giungla affollata, in cui ogni anno vengono fatti piovere 66mila libri — sei volte la quantità che si pubblicava quarant'anni fa — libri che però, più che arrivare ai propri lettori elettivi, assomigliano a una moneta di scambio. Una moneta in forte svalutazione che alimenta il circolo vizioso delle rese, che permetterà anche alle case editrici più grandi di tenere in piedi i propri fatturati, ma che, non essendo prodotta per soddisfare nessuna esigenza particolare dei lettori, sta soffocando l'intero settore.

Il circolo vizioso dell’editoria libraria, scrive il 2/02/2017 Antonio Tombolini. Di tanto in tanto qualcuno prova a spiegare come mai in Italia, paese in cui tutti si lamentano del fatto che si leggono pochi libri e che ci sono pochi lettori, poi si pubblichino ogni anno così tanti libri nuovi. Ci ha provato di recente Andrea Coccia, con questo articolo su Linkiesta, ma sbaglia anche lui: è vero il contrario di quello che scrive l’autore dell’articolo, non è la sovrapproduzione ad alimentare il vortice delle rese, è invece il meccanismo delle rese ad alimentare la proliferazione dei nuovi titoli. E il digitale non c’entra niente (se aumento l’offerta digitale non faccio del male a nessuno: non distruggo carta, non inquino, non butto via soldi inutilmente eccetera). E non c’entrano niente neanche “l’industrializzazione” né “le grandi concentrazioni editoriali” (ridicolo, su scala mondiale Mondazzoli è un microbo). C’entrano invece, e molto, gli usi consolidati della filiera tradizionale del libro, che gli operatori dominanti (grandi editori e distributori, che in Italia sono poi la stessa cosa) non solo faticano a superare, ma tentano disperatamente (e dissennatamente) di difendere, con una distribuzione fatta di una miriade di librerie sparse ovunque, e ora in crisi profonda, abituate come sono a un mercato drogato dal “tanto se non lo vendo lo rendo”. Ecco come funziona.

Io sono un piccolo editore. Pubblico un libro perché ci credo, mi piace, lo ritengo bello e utile. Lo pubblico di carta, perché sono un “vero” editore “tradizionale”. Bene. Vado in tipografia, dove mi dicono che ne devo stampare almeno mille copie, ché farne di meno tanto costa uguale. Parlo col distributore (lì sì c’è non la concentrazione, ma il monopolio ormai: Messaggerie), che mi dice che “Ehi, se non mi dai almeno duemila copie per coprire significativamente le librerie io non posso impegnarmi a distribuire il tuo titolo”. Diciamo che ne stampo duemila. Diciamo che stamparle mi costa 5.000€, 2,50€ a copia. A quanto lo vendo? Vediamo… il 60% del prezzo lo vuole il distributore, che poi se lo divide con la libreria che vende il libro al privato. Io devo pagare il costo di stampa, l’impaginazione, l’illustratore, i diritti d’autore. E ovviamente anche l’affitto dell’ufficio, le utenze, il mio stipendio, il commercialista ecc… Se lo vendo a 10€ me ne tornano 4, e 2,50 sono già spesi per la stampa, mi bastano 1,50€ per coprire tutte le altre spese? Mi sa proprio di no. Vendiamolo a 15€, e speriamo bene.

Il distributore a questo punto mi compra (si fa per dire, c’è sempre il diritto di reso!) le 2000 copie, e io, tutto felice, stacco la mia prima fattura, ho venduto 2000 copie, per un importo totale di ben (30.000 – 60%) = 12.000€, wow! Ovviamente il distributore non mi paga subito (figuriamoci, paga a 120-210gg). Sono un editore per bene, e voglio pagare chi ha lavorato per me. L’autore no, perché prenderà le royalties sul venduto, ma gli altri li devo pagare subito: al tipografo devo dare i suoi 2.000€, all’impaginatore (che con la crisi mi fa un buon prezzo) i suoi 300€, il grafico altrettanti, il correttore di bozze. Ah, ci sono anche i 600€ di affitto, altrettanti di bollette, e… URKA! Dove li prendo i soldi? Aspetta, lo so: ho fatto proprio adesso una fattura di ben 12.000€, vado in banca e mi faccio anticipare l’importo, poi quando il distributore mi paga la fattura li restituisco alla banca. “OK, non c’è problema, metti una firma qua, mi dice il direttore della banca, sì, è la fideiussione, una formalità obbligatoria, ovviamente”. Mi ritrovo 12.000 Euro nel conto. Pago chi devo pagare, mi prendo uno stipendiuccio anch’io, e mi fermo, non pubblico più niente, aspetto che mi paghino la prima fattura. Ho pagato tutti, e dopo quattro mesi mi trovo con poco o niente nel conto. Ho dovuto pagare i mensili dell’affitto e le bollette, e un po’ di stipendio per me. Sono passati 120 giorni, chiamo il distributore: “Allora, mi puoi pagare questa fattura?”.

In Italia la media delle rese (libri invenduti) è superiore al 60%: ogni 100 copie stampate, almeno 60 restano invendute. Ed è una media: fatta di alcuni libri, pochissimi, che vendono tutte le copie, e molti libri, moltissimi, che vendono niente o quasi niente. Ma facciamo finta che il mio libro si comporti come il “libro medio”. Dunque ho appena chiamato il distributore per farmi pagare la fattura, e mi fa “ehi, guarda che di quelle duemila copie ne abbiamo vendute ottocento, che facciamo con le altre milleduecento?”. L’editore gli dice “beh, che ne so io”, e il distributore gli dice “beh, lo so io: io non ti pago duemila, ma ottocento copie, quindi intanto fammi una nota di credito per le copie invendute così ti pago i 4.800€ che ti devo”. Già, la mia bella fattura di 12mila euro si è ridotta a 4.800€. Ma c’è dell’altro, mi dice il distributore: “Le altre milleduecento copie devo andarle a prendere dalle librerie dove le ho portate, perché devono liberare i loro spazi per altri libri, e questo ha un costo, che ovviamente ti addebiterò. Poi se vorrai le tengo io nel mio magazzino, e ti costerà un tot a metro cubo per ogni giorno di giacenza, oppure te le porto a casa tua, e ci sarà un altro costo che ti addebiterò.” E io dove le metto? Forse mi tocca affittare un piccolo magazzino per metterci le copie invendute!

A quel punto chiama il direttore di banca “Ciao Piccolo Editore, sono passati i 120 giorni, quell’anticipo sulla fattura è scaduto, devi restituirmi l’importo che ti ho anticipato!”. Il dramma: devo restituire, e subito, alla banca i 12mila Euro che mi ha prestato. Ma il distributore me ne ha dati solo 4.800, come faccio? Già, come faccio a “tappare” il buco senza che venga a pignorarmi la casa che mi ha toccato dargli in garanzia per il fido? Facile: pubblico un altro titolo, stacco un’altra fattura da 12mila euro, e con quelli attappo il buco, e faccio un altro giro di giostra! WOW!

Ecco spiegato come mai ci sono così tanti titoli nuovi in un mercato in cui tutti si lamentano che nessuno legge. Questo è il vero cancro che minaccia di distruggere l’editoria libraria. L’editore si infognerà sempre di più in una gigantesca bolla che prima o poi esploderà, per esempio quando qualcuno gli dirà che valorizzare le scorte di invenduto a bilancio a valori artificialmente gonfiatinon serve a niente, perché il valore del suo invenduto è zero, anzi, è negativo, visto che gli genera costi di magazzino e che per smaltirlo deve pagare). Cui prodest?

Chi prospera in un sistema come questo? Il distributore, e in maniera perversa e vampiresca: il suo guadagno infatti non dipende tanto dalle copie vendute, ma dipende in misura crescente dalla vendita di servizi correlati alla gestione delle rese! Meno libri si vendono e più il distributore guadagna! Come ha fatto Messaggerie a diventare il secondo gruppo editoriale italiano, con marchi come Longanesi, Garzanti, Salani, ecc… acquisiti uno dopo l’altro? Facile: prima o poi il direttore di banca dice all’editore che non può più anticipargli la fattura, l’editore quindi si indebita in misura crescente col distributore, fino a che il distributore se lo compra con quattro soldi. Certo che la cosa regge finché c’è chi alimenta il progressivo indebitamento degli editori. Appena i rubinetti del credito si chiudono, la bolla esplode.

A che punto siamo? Che sta esplodendo. RCS Libri è tecnicamente fallita (sì, ok, acquisita da Mondadori Libri, figuriamoci, una finzione, peraltro finanziata al 100% con, indovina un po’, prestiti bancari!) e tutti sono indebitatissimi. Ma anche Messaggerie ormai ha spremuto lo spremibile, gli editori non hanno più soldi da dargli, e chiudono, così come le librerie, e Messaggerie è costretta a svalutare e azzerare i suoi crediti. Una curiosità. Hai per caso letto la parola “ebook” in tutto questo? No. Il cancro dell’editoria libraria non c’entra niente con un presunto ruolo killer dell’ebook rispetto al libro di carta.

Del libro, del predominante ruolo del caso nella sua fortuna, dei barbari che lo stanno salvando, scrive il 16/05/2016 Antonio Tombolini. [Riporto fissandolo qui un mio sfogo originato da questo post di Zio Josu Facebook, ché lì Zuckerberg continua dolosamente a inghiottire tutto per tutto divorare e tutto condurre al luogo in cui non c’è più memoria.] Il successo di un libro, come il successo di una canzone, di un quadro, di un tiro in porta, è sempre il risultato di una misteriosa alchimia fatta di dedizione e fortuna, fatica e casualità, talento e relazioni. Thomas Alva Edison e/o Albert Einstein (la citazione è di volta in volta attribuita all’uno o all’altro, e non manca chi, in ambiente letterario, la attribuisce devotamente e disinvoltamente a Umberto Eco) se la cavavano riducendo a due le variabili: “perspiration”, il sudore della fronte, e “inspiration”, l’ispirazione del genio. Col cavolo. Non mancheranno mai successi inspiegabili. Non mancheranno mai libri che nessuno mai avrà letto (erano belli o brutti? Nessuno lo saprà mai). Non mancheranno mai successi travolgenti post-mortem, magari a distanza di anni, decenni, o secoli addirittura, come in musica accadde a un intonatore di organi tedesco del ‘600, tale Johann Sebastian Bach. Il Caso. Il caso è il maggior protagonista delle nostre vite, in ogni loro aspetto. Tanto più lo è in relazione ai destini di cose effimere come le “opere dell’ingegno”. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, si tratta di una verità lampante. Eppure l’uomo, nella sua illusoria ansia di dimostrare a se stesso di saper governare la vita e il mondo, da sempre ne sottovaluta, fino a cancellarlo, il peso. Prendi questa: il libro di Fabio Volo vende un sacco. Magari tra cinquant’anni non se ne ricorderà nessuno. O magari tra cent’anni sarà il solo libro rimasto sulla faccia della terra. A molti piace. A molti altri fa schifo. Per alcuni è scritto male. Per altri è scritto benissimo. Per alcuni è una lettura insopportabile. Per altri dedicarsi a leggerlo è il momento più bello della giornata. Ma pensaci bene, torna qui sopra, sostituisci a “Fabio Volo” l’autore che vuoi voi: tutto quello che viene dopo resta vero, incontestabilmente vero.

E allora, che ne è della “qualità” dei libri? A cosa è possibile ancorarla? A cosa ancorare la “qualità” di un libro? 

A un atto arbitrario, e in quanto tale non-sindacabile da chicchessia. L’atto arbitrario di un lettore, di un editore che sceglie di pubblicare quel libro invece di un altro, di un critico che decide di osannarlo. E alla stessa “libera-arbitrarietà” sarà possibile ancorare un giudizio di “non qualità” di un libro: l’atto arbitrario del lettore che ne legge una pagina per poi metterlo da parte, quello di un editore che lo cestina, quello di un critico (sia esso, sempre meno, un professionista, o, sempre più, un recensore) che decide di stroncarlo. Così come la qualità di un libro non può prescindere dalla arbitrarietà del caso (che poi vuol dire “del tempo”) che decide addirittura se far accorgere qualcuno dell’esistenza di quel libro, oppure no. Per questo continuo a ritenere sbagliate e di retroguardia le raffinate intellettualistiche analisi dei tanti che, a fronte del fenomeno del self-publishing (dove self-publishing = fenomeno per cui più libri e più autori riescono a raggiungere gli scaffali di una libreria, concedendosi una chance di visibilità) si concentrano sul falso problema della “sovrabbondanza”: oddio, i libri adesso sono troppi, come farà il lettore a scegliere e a orientarsi? Con tutta questa roba, esclamano, c’è un sacco di robaccia, chi ci salverà?

Si tratta di uno spettacolare effetto di illusione ottica: tutti questi libri, che oggi affollano sempre più gli scaffali di vetrine virtuali e non grazie al self-publishing, tutti questi libri c’erano già, c’erano anche prima, perché l’uomo ha voglia di scrivere, e ha voglia di farsi leggere. Punto. Indipendentemente dalle concrete chance di successo, indipendentemente dall’evidenza dei fatti per cui nella stragrande maggioranza dei casi del mio libro non gliene fregherà niente a nessuno, indipendentemente dal fatto che qualcuno possa parlarne bene o male. L’uomo vuole esprimersi. Di più: l’uomo è espressione. Di più: l’uomo è tale nella misura in cui può liberamente esprimersi. E scrivere un libro è uno dei modi della libera espressione, e dunque dell’essere, dell’uomo. Cosa cambia per il lettore ai tempi dei barbari digitali e delle orde del self-publishing? Come potranno orientarsi dentro la giungla della miriade di titoli da cui sono sempre più assediati? Come aiutare il lettore a orientarsi nella scelta dei libri cui dedicare il proprio tempo?

Alt. Un passo indietro: ho definito “falso problema” quello che risulta dalle analisi dominanti sul fenomeno del self-publishing, quello che afferma che i libri ora sono troppi, troppissimi. Non è vero. Quei libri che grazie alle tecnologie digitali e alla rete oggi si possono concedere una chance di incontro con un lettore c’erano già, erano già tutti lì: erano già tutti lì dentro i cassetti degli autori. Erano già tutti lì nei cestini degli editori. O erano già tutti lì rimasti dentro la testa del loro autore, perché se c’è un deterrente alla scrittura del libro ebbene questo consiste nel non intravvedere neanche una chance che possa avere un lettore. Erano già tutti lì, libri “buoni” e libri “cattivi”. “Buoni” per alcuni, “cattivi”, gli stessi libri, per altri. Oggi arrivano tutti, alla pari, sugli scaffali delle librerie online, e la casta di quelli che pensavano di detenere le chiavi del Regno dei Libri (i Guardiani della Distribuzione) si ritrae inorridita a fronte di tanto spettacolo. Tutto ciò non è affatto male. Non è male che tutti possano esprimersi scrivendo libri, così come non è male che tutti possano suonare uno strumento, o prendere un pennello e imbrattare una tela o un foglio, o ritrovarsi con gli amici per dare calci a un pallone nel tentativo di emulare i pallonetti di Maradona o i tiri nel sette di Cristiano Ronaldo. Non è un male, anzi, è un bene! OK, precisato questo il problema resta: ma per i lettori? Come fanno a orientarsi? 

Ci sono diversi livelli di risposta. Il primo: a caso. Dal punto di vista del lettore non c’è niente di male nell’usare il caso (i più raffinati, quando gli fa comodo, parlano in questi casi di serendipity, ma riguardo ai “nuovi libri” no, evocano solo drammi lancinanti) per cercare a destra e a manca il prossimo libro da leggere. Che comincerò a leggere e poi butterò via se mi fa schifo, e ne parlerò malissimo se ne avrò voglia. O che viceversa obbligherò tutti gli amici a leggere tanto mi è piaciuto. O che mi lascerà indifferente spingendomi a tentare il prossimo.

C’è poi il livello degli strumenti di “discoverability”, di cui usa dire oggi. Alcuni esistono già, altri se ne stanno inventando, chi investe sugli algoritmi, chi scommette sul fattore umano. Autori che se ne fregano di promuovere il proprio libro, e autori che gli dedicano la vita e ogni energia.

Io ho il mio parere: gli Editori. I nuovi editori, in grado di dire “questi sono i libri che io pubblico, in base a questi criteri, facendolo fare a queste persone, con questa storia”. Editori che hanno il compito di traslare in un catalogo la loro visione del mondo, non perché quel che c’è dentro è il meglio, è “la qualità”, contro il resto che è fuori. Ma per proporre a chi legge con onestà una faccia, condivisibile o meno, piacevole o meno, attraverso cui orientarsi nelle scelte. E anche questo, badate bene, non è la cosa che conta di più, perché quando si tratta del libro, della esperienza di lettura di un libro, la cosa che conta più di tutte è solo una. Che si leggano i libri. Che l’esperienza della lettura di un libro sopravviva, si salvi, e prosperi per sempre. Che si scrivano, per salvaguardare la libera espressione che è l’uomo, e che si leggano, per salvaguardare l’esperienza peculiare che è il libro. Sembrerà sacrilego affermarlo, ma ne sono convinto: da lettore, da editore, da uomo libero. Quello che mi interessa è che l’esperienza di lettura di un libro (così vitale perché qualcuno sia motivato a scrivere, e quindi a esprimere così la sua libertà e il suo essere) sopravviva e prosperi ai tempi del digitale. Parliamo quindi di perché ci piace questo libro e del percome quell’altro non ci piaccia affatto. Ma rallegriamoci per ogni libro che vede la luce, per ogni libro che viene scritto. E per ogni libro che viene letto. E rallegriamoci del fatto che – grazie al digitale – ogni libro ha ormai almeno una chance di essere letto da qualcuno, in qualsiasi parte del mondo, e in un momento qualsiasi del tempo, perché grazie al digitale, e alle barriere abbattute da questi “barbari” (di cui mi onoro di essere parte) ogni libro oggi è subito disponibile ovunque e per sempre. Amen.

LA SCUOLA AL FRONTE.

Scuola, la nevrosi delle riforme. Negli ultimi 25 anni il mondo della formazione è stato investito da cambiamenti continui. Con una progressiva erosione della cultura, scrive Raoul Kirchmayr l'1 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Dagli anni Ottanta una delle parole centrali nel discorso delle istituzioni è stata senza dubbio “riforma”, il cui significato primo, che per molto tempo ha evocato un orizzonte di progresso civile e di emancipazione, è stato sostituito da un altro. La nuova accezione rimanda all’operazione tecnica di accomodamento di una macchina al fine di incrementarne l’efficienza. Con questo significato il significante “riforma” ha preso a circolare a ritmi sempre più spediti, fino a quando è diventato dominante nell’attuale lessico dell’opinione pubblica. La parola “riforma” si è così accompagnata a un ventaglio di attributi (“urgente”, “necessaria”, “ineludibile”, “d’emergenza” ecc.) che affermano tanto l’esigenza di rapidità quanto un rigido determinismo che non potrebbe né dovrebbe essere disconosciuto, pena l’avverarsi di previsioni immancabilmente fosche e dunque da scongiurare. La parola “riforma” comporta sempre, di conseguenza, una previsione (solitamente presentata come scientificamente calcolata) e, in senso più ampio, un’ipoteca sul futuro. In questo senso, la “riforma” non può che essere “responsabile”: il suo carattere di destino astratto si traduce ipso facto in un’assenza di alternative che si vuole perfino etica (del resto, si è compreso da tempo che l’istanza etica è l’ingrediente sempre strutturalmente mancante del mondo tardo-capitalistico, mentre ne rivela, di converso, gli intenti ortopedici e disciplinari). Nell’ultimo quarto di secolo, oltre al mondo del lavoro, un altro ambito è stato parallelamente investito - e non solo nel nostro paese - da ripetuti impulsi alla “riforma”. Si tratta del mondo della formazione e della ricerca, dell’università e della scuola, coinvolto in una vera e propria spirale che ha conosciuto delle tappe importanti nella legge sull’autonomia universitaria del 1990 (la “riforma Ruberti”), nel “processo di Bologna” con cui l’Unione europea ha raccordato i sistemi educativi dei paesi membri, fino alla recente legge 107 del 2015 (la “buona scuola” del governo Renzi). Ciascuna tappa ha introdotto sempre nuovi fattori di cambiamento che, presentati sotto le bandiere della modernizzazione e del miglioramento, non hanno modificato il sistema verso un nuovo equilibrio più avanzato, ma sono stati la spinta per un’ulteriore giro di “riforme”. In questi ultimi anni l’università e la scuola sono state oggetto di una vera e propria “coazione a riformare”. Oltre che con tagli di spesa pubblica, la coazione si è manifestata soprattutto nei sintomatici mutamenti del linguaggio che hanno avuto come scopo la trasformazione irreversibile degli ambienti della ricerca e dell’apprendimento, e con essi l’insieme dei soggetti coinvolti: docenti, ricercatori, studenti, famiglie e, non da ultimi, amministrativi e ausiliari. Il cambiamento è avvenuto con una progressiva erosione della lingua della cultura, quella lingua che sarebbe compito delle istituzioni tramandare come eredità condivisa e memoria collettiva. In altre parole come quell’ethos o “religione civile” di cui il nostro paese sembrerebbe storicamente difettare. Il tentativo di sterilizzare la capacità della cultura a produrre ethos e a figurare mondi (anche utopici, immaginari e impossibili) è progredito con l’iniezione di un vocabolario che, incarnando la visione del mondo neoliberale, ne è l’espressione funzionale. Si pensi solo al lessico, ormai acquisito, dei crediti e dei debiti, all’introduzione seriale di sigle e acronimi, all’equivalenza tra studio e lavoro (fino all’alternanza studio-lavoro), per non citare l’enigmatica nozione di “competenza”, scientificamente farraginosa ma ideologicamente efficace. Non si tratta più del tecnicismo freddo e ingegneristico cui era improntata la lingua dell’ormai lontano boom economico. Quella che da tempo viene inoculata nella scuola e nell’università, diventando forma di vita e di relazione, è una lingua povera che si intreccia con la gergalità di uno pseudo-inglese, mediante la quale si affermano nuovi rapporti di potere e si stabiliscono nuove linee di faglia sociali. Il progetto di “valorizzazione delle risorse” (di cui la meritocrazia è figlia) fa tutt’uno con questa lingua spuria, attuandosi per mezzo di procedure che, mentre si appellano alla libera scelta di ciascuno, spingono invece gli individui a operazioni di accomodamento al discorso dominante. L’adattamento linguistico alla logica dell’efficienza e della performance, cui ognuno è sottoposto, tende a diventare stile cognitivo (in accordo con la recente enfasi pedagogica sui soft skills), quando non preveda addirittura tra i suoi obiettivi espliciti la produzione di nuove forme di soggettività. Il rilievo della lingua non è dunque marginale. A una lettura rapida potrebbe sembrare uno dei tanti esempi di provincialismo nostrano. Visto più da vicino, appare come un sintomo diffuso del modo in cui le forme della riproduzione culturale vengono modellate in senso neoliberale. La parola “riforma” in senso neoliberale non fa che mimare la riforma nel senso democratico dell’estensione dei diritti e dell’eguaglianza dei cittadini, mentre la svuota progressivamente di contenuto, con il risultato di generare nuove forme di diseguaglianza. Perciò l’accanimento riformatore su scuola e università è un tassello strategico nel progetto con cui le forze dominanti cercano di consolidare la loro attuale egemonia economica e culturale. Si capisce allora che il significato della parola “riforma” non può essere dissociato dalla tendenza del tardo-capitalismo a una ristrutturazione perenne che non investe più soltanto il campo dell’economia ma impatta risolutamente sulla vita individuale e collettiva. La conseguenza è che le istituzioni dello Stato, nel caso in cui sia esso democratico e preveda la tutela del “sociale”, sono considerate come dei limiti o degli impedimenti all’estrazione di plusvalore. È per permettere una più massiccia, rapida ed efficace estrazione che le istituzioni, nel loro complesso, vengono dunque riformate. Per il nostro paese questo obiettivo non sarebbe perseguibile senza la cornice più ampia in cui si colloca il modellamento della scuola e dell’università, cioè la “sincronizzazione” delle istituzioni nazionali con quelle europee, in nome dell’efficienza dei sistemi educativi. Se volessimo comprendere il senso della “coazione a riformare” che sta disegnando l’avvenire delle nostre scuole e delle nostre università, è certo nella direzione di questa “sincronizzazione” in corso che dovremmo guardare. In generale, la retorica della “riforma” è un dispositivo discorsivo che intacca il discorso democratico e lo riscrive. A ogni giro cancella il senso “progressivo” precedente e lo sostituisce con un altro che, all’apparenza identico, in sostanza lo nega. Tra i saperi disponibili, la psicoanalisi ci fornisce degli strumenti per riconoscere questo meccanismo di ripetizione che genera spirali regressive. In Al di là del principio di piacere, saggio controverso che impresse una svolta alla sua metapsicologia, Sigmund Freud descrisse una particolare dinamica psichica, consistente nella reiterazione nevrotica di un evento traumatico. Studiando i casi clinici forniti dai vissuti dei reduci dal fronte, che mostravano questa forma di disturbo, Freud si trovò a riflettere sull’esistenza di una forza opposta alle pulsioni di vita: la chiamò, com’è noto, pulsione di morte. La specificità di questa pulsione è di agire vicariamente, legando la pulsione di vita alla ripetizione dell’evento traumatico, di modo che le energie psichiche risultano drenate e incanalate verso formazioni gravemente nevrotiche che, purtuttavia, garantiscono un godimento inconscio. Se si volesse prendere sul serio l’ipotesi di Freud, ci si potrebbe chiedere in quali ambiti della vita sociale contemporanea la coazione a ripetere produce nuove forme di nevrosi e con quali eventi traumatici essa possa continuare ad alimentarsi, sottraendo così energie alla vita e alla trasformazione effettiva, a tutto vantaggio di un godimento mortifero. La psicoanalisi della società è in grado di riconoscere la pervasività delle dinamiche coattive, le quali permettono sì la conservazione di un precario equilibrio individuale e collettivo, ma a un costo psichico crescente. Si potrebbe dunque introdurre il punto di vista dell’economia pulsionale per saggiare le conseguenze concrete del discorso “riformatore” sul piano della psicologia collettiva. Da una parte, il costo psichico potrebbe spiegare il malessere perdurante delle nostre società, dovuto all’attesa di riforme che, invece, si converte presto in un’amara consapevolezza del peggioramento della nostra condizione. Dall’altra, una riflessione sull’economia pulsionale permetterebbe di comprendere la capacità performativa di penetrazione che la parola “riforma” conserva nei nostri discorsi e nelle nostre convinzioni, con una forza di seduzione che pare urgente sottoporre a un lavoro critico, allo scopo di indebolirne quanto meno gli effetti depressivi. Un lavoro che, prima ancora di metterne in discussione i meccanismi coattivi, ci permetta di liberare delle energie collettive che diano forma alla nostra attesa di cambiamento.

Così la scuola resiste alle riforme. Organici, merito, alternanza: la Buona scuola ha provocato mille conflitti. Su assegni, potenziamento e stage ogni istituto decide come può, fra entusiasmi e malcontento. Ecco dove le promesse di cambiamento sono rimaste incagliate. E come prof e studenti, nonostante tutto, cercano di opporsi al caos, scrive Francesca Sironi l'1 febbraio 2017 su "L'Espresso". Sono le 7.55, suona la campanella. Al pianterreno un gruppo di supplenti s’affretta a finire il caffè. «Sono precario da 13 anni», dice l’unico maschio. «Altro che scomparsi, assunti da veterani. Siamo qui. Ora devo andare», e segue una fila di studenti. È lunedì, indossano il piumino: «È un prefabbricato, il problema del freddo dopo il week end è ovvio». Primo piano, terza media. La prof d’italiano, Alessandra Ibba, fa entrare la collega di tedesco. Illustrano insieme una ballata di Goethe. «Wer reitet so spät...». L’insegnante di sostegno passa fra i banchi. «La differenza è che il romanticismo era rassegnato alla sofferenza, l’illuminismo invece era convinto della felicità», dice Matteo. Primo banco, felpa blu, è il più bravo della classe. Ed è romeno. O meglio un nuovo italiano. Uno dei sei alunni “stranieri” su 10 che frequentano l’istituto Scialoia, quasi-periferia Nord di Milano. Un pezzo di futuro e di Stato. Dove filtra, come altrove, la riforma alla prova di realtà. Come nelle altre 41.152 scuole statali, infatti, anche qui diventa dimostrazione l’ipotesi della “Buona Scuola”. Tutto compreso: compresi il caos sugli organici e i festeggiamenti per le assunzioni, le crisi fra insegnanti dal Sud e provveditorati del Nord, gli assegni di merito di cui nessuno fa vanto, i dubbi e gli entusiasmi sull’alternanza scuola-lavoro, la matematica a cui mancano pedagogie e la solitudine dei bimbi con “bisogni speciali”, restati senza professionisti a supporto. Se è sulle lezioni alla lavagna che si è infranta infatti tanta parte della popolarità di Matteo Renzi, se è contro il Miur che si abbattono ricorsi e sentenze, è dentro il testo della riforma, oltre che nei cavilli, nei provvedimenti, post-accordi e burocrazie che si è stemperato presto il colore del cambiamento promesso. Troppe girandole diventano stallo. E se questa è la grande debolezza della scuola, resta però una forza: la sua resilienza. Perché l’antologia del caos continua a fermarsi alla porta di classe. «In aula, ragazzi, silenzio». La preside dell’Istituto Scialoja - infanzia, elementari e medie, un impegno sulla lingua tedesca “per dare un futuro ai nostri giovani” - mostra uno schema. «Il primo settembre ero felice», dice: «la sala riunioni era piena. L’organico completo». Durante l’estate Ida Morello s’era applicata, come i suoi pari, a oneri e onori della “chiamata diretta”, uno dei super-poteri dati dalla riforma ai dirigenti, apprezzati da loro, osteggiati dalla base: aveva elencato le necessità, letto i curriculum dei candidati, organizzato colloqui via Skype per scegliere. «Certo, avrei voluto potenziare la matematica, ma in questa zona c’erano solo cinque nomi. Già richiesti altrove». A fine agosto era riuscita a coprire, per la prima volta, tutti i posti di sostegno alla primaria, con persone titolate. «Ma le maestre arruolate hanno poi chiesto e ottenuto l’assegnazione provvisoria al Sud». Sono tornate cioè vicine a casa. Il 90 per cento delle insegnanti allo Scialoja arriva da Sicilia, Calabria, Puglia, Campania. Non è una novità né un caso: è così ovunque, come ricordano i dossier ripresi da Gian Antonio Stella sul Corriere. Nel paese rimasto diviso, la questione è diventata polemica nei primi mesi dell’anno, con sedi remote assegnate a chi aveva figli e famiglia, da una parte, e il contro-esodo al sole dall’altra. Risultato: disagi per gli studenti, buchi nei programmi e supplenze tardive. «Siamo noi del Sud a istruire i figli del Nord!», dice affranta dalla disputa Salvina, maestra chiamate allo Scialoja, che ha deciso di restare: «Io però sono single, e per me è un’occasione». A 48 anni vive con due colleghe in un appartamento vicino alla stazione. Una nuova vita da coinquiline, a 40 anni, a Milano. «Certo qui ci sono cultura e formazione. L’anno scorso ero finita in un piccolo borgo in Emilia. Uno shock», racconta la sua roomate, Daniela, della provincia di Ragusa. Sono sedute sui banchi mignon nella scuola d’infanzia, per una riunione pomeridiana, che sollevando la questione diventa più riunione carbonara: «Conosco colleghe devastate dal piano assunzioni della riforma», racconta un’insegnante campana: «Per 1.300 euro in una valle comasca, la vita distrutta». «Io invece sono felice del posto che mi ha dato Renzi», dice un’altra, di Lecce, da settembre di ruolo: «Sapevamo le regole. Mio marito non era d’accordo. Ma io ho insistito». Con loro c’è un maestro, siciliano. È supplente, moglie e figlia a carico. In primavera ha tentato il concorso ma è stato bocciato, come il 50 per cento dei candidati. «Per il ministero non andiamo bene. Eppure in provveditorato ci continuano a chiamare perché hanno bisogno di noi». Dopo le prove dello scorso anno dovranno entrare in ruolo 63.712 nuovi docenti. In alcuni settori sono stati scartati fino a otto aspiranti su 10. Lucrezia è una dei cinquemila ricorrenti che hanno ottenuto di fare una prova ad aprile, perché erano sbagliati i criteri con cui si stabiliva chi potesse partecipare al test e chi no. «Ho superato corsi universitari selettivi per l’abilitazione. Speso oltre cinquemila euro in formazione. Insegno da anni. Sono stanca. Vogliamo certezze. Mentre aumenta il caos». Anche Maria Cristina Pulli è finita in un incaglio. Era stata messa di fronte al perdere tutto o prendere un ruolo alle medie, nonostante i suoi 162 punti in graduatoria di greco e latino al liceo. Sotto scacco, aveva accettato. Poi hanno cambiato le regole, ma intanto: «Mi dicevano: “che ti lamenti, ora hai un posto fisso”. Ma non era solo per il contratto che ho studiato e investito per anni», racconta lei: «Mi sono rimessa in gioco. I ragazzi, la scuola, do il massimo. È stata dura. Quando entro in crisi mi ripeto “sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”». Dante. «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Isabella ha le unghie laccate d’azzurro. Sta al secondo banco, terzo piano, classe 3DL del linguistico Artemisia Gentileschi di Milano. Lezione di ripasso, parafrasi e commento ai canti. «Qual è il significato allegorico della lupa? Quello di un potere che aspira sempre a crescere. Ricordate? Di una ricchezza che non si pone limite, che diventa fine a sé». Il professore, Davide Bondì, collabora con l’università di Milano, Storia della filosofia contemporanea. È qui da un po’. «I nuovi docenti hanno curriculum impressionanti», dice Gabriella De Filippi, la vicepreside. Secondo gli analisti della Fondazione Agnelli è il contrario, a mediare statistiche: «L’assunzione in blocco di chi era nelle graduatorie ha avuto effetti negativi, abbassando la qualità e ostacolando il rinnovamento», spiegano. «Oltre al mismatch di competenze: sono entrati troppi docenti di materie giuridiche, ad esempio, mentre continuano a mancare in matematica e scienze». Il Gentileschi ha 1.536 alunni, 30 classi di Liceo e 36 di Tecnico economico turistico. Cinzia Celino è la prof di Chimica più amata dell’istituto. Nella sua classe ha scelto per prima le “flipped classroom”: i ragazzi seguono le lezioni a casa, su video registrati, mentre in aula svolgono insieme esercizi e prove. «Dà risultati eccezionali, soprattutto con gli studenti meno bravi». Lei è una degli insegnanti che quest’anno hanno ricevuto “l’assegno al merito”, il bonus ai migliori previsto dalla riforma. «Sì, bene. Però... Il nostro preside è stato serio, ha seguito la griglia di valutazione data dai docenti. Ma a mio avviso i beneficiari sono stati troppi. Tutto questo rumore, per 300 euro. E non si può neanche sapere chi fosse in graduatoria, a che posto. Tanto valeva...». Al Gentileschi l’assegno è stato dato al 33 per cento dei prof. Ogni scuola ha fatto a modo suo: chi l’ha distribuito al 10, chi all’80. E ad ascoltare o leggere reazioni ne sono rimasti scontenti più di quanti non gioiscano di fronte a quest’altro mosaico della legge: chi l’ha ricevuto tace o lamenta criteri e pesi. Chi ne è rimasto escluso borbotta, o asseconda veleni. L’assegno è così diventato presto uno dei tasselli di riforma da riformare, per il nuovo ministro Valeria Fedeli. Fatica alleggerita su altro, però. Pochi giorni dopo l’incarico veniva pubblicato infatti dal Miur un dossier sul risultato più sbandierato della Buona Scuola: l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria per gli studenti delle superiori - 200 ore ai licei, 400 a tecnici e professionali. Lo stage (anche in “imprese simulate” in aula, se serve) è diventato obbligatorio per poter accedere all’esame. Devono, insomma. Ma lo stesso è presentato come un successo l’oltre «95 per cento» di alunni partecipanti al piano. «Da noi non ci sono stati problemi, sono percorsi che abbiamo avviato anni fa», racconta Agostino Miele, il dirigente del Gentileschi: «Grazie a un accordo con Valtour, ad esempio, i nostri ragazzi sono in villaggi in tutta Italia». Dal Volta di Reggio Calabria alcuni adolescenti sono volati al Cern. In altre province sono invece i “campioni dell’Alternanza”, battezzati tali dall’ex ministro Stefania Giannini, a garantire formazione sul campo: come commessi di Zara o Mac Donald’s, ad esempio. È il “modello tedesco”? «Mai manderei uno studente da Zara solo per esaurire le ore. Queste esperienze devono avere attinenza a ciò che studiano», risponde Alessandro Parola. E sì che il liceo che dirige, Classico e Scientifico a Cuneo, è in una delle province più povere di aziende registrate all’albo nazionale per gli stage. «Stiamo costruendo rapporti con musei, biblioteche o centri studi come l’Istituto Candiolo sulle malattie tumorali». Percorrendo il registro delle sue preoccupazioni più gravi, Parola insiste però su altro. «La sicurezza degli edifici è responsabilità di noi dirigenti. Ma non ho soldi in cassa per la manutenzione ordinaria. Così mi invento “fund raiser”, trovo bandi da fondazioni bancarie o dalla Ue. Di notte mi sveglio con gli incubi. A fine novembre il prefetto ha consigliato di chiudere le scuole per il maltempo. Al Darwin di Rivoli proprio in quei giorni è caduto un controsoffitto per le infiltrazioni d’acqua». L’ex governo ha previsto fino a sette miliardi e 800 milioni di euro per rendere sicure le scuole. Alla presidenza del Consiglio una squadra coordina le spese. «Aiutiamo a focalizzare gli obiettivi. Come quello fondamentale dell’adeguamento, e non solo del “miglioramento”, sismico. O l’opportunità di costruire nuovi impianti piuttosto che ristrutturare prefabbricati», spiega Laura Galimberti, l’architetto che guida la squadra: «Sono le regioni però a stabilire priorità e lavori. Noi non possiamo intervenire sulle loro scelte». Così non sempre la mappa dei 3.500 edifici scolastici in zona sismica coincide con la mappa dei cantieri aperti, ad esempio. Un’urgenza improrogabile, come mostrano le foto di Rocco Rorandelli, nate per un progetto con Cittadinanzattiva. È finita l’ora. Nell’ultimo tema la professoressa Ibba chiedeva ai ragazzi di immaginare un colloquio con un 50enne cresciuto senza smartphone. «Io che insegno da 25 anni e ho un gruppo di WhatsApp con gli studenti...». Resiliente, la scuola resiste.

Buona scuola? Solo per gli avvocati: è record di ricorsi. Ventotto cause al giorno: il ministero dell’Istruzione non è mai stato così sommerso dalle battaglie giudiziarie. Più di 7mila nel corso del 2016. La maggior parte riguardano concorsi e graduatorie, scrive Francesca Sironi il 2 febbraio 2017 su "L'Espresso". Ventotto cause al giorno. I ricorsi presentati contro il ministero dell’Istruzione e i suoi rami scolastici sono stati settemila e duecentosei nel 2016, di cui 1.340 solo contro la Buona Scuola. Sono i dati dell’Avvocatura generale dello Stato, l’organo legale dell’istituzione, che l’Espresso può pubblicare in queste pagine. I dati mostrano ancora un’altra scenografia dell’impasse in cui versano cattedre e strutture per la formazione: il contenzioso in tribunale. Dal 2012 le battaglie giudiziarie non hanno fatto che aumentare, passando dalle 3.485 di allora alle oltre settemila dell’anno scorso, un ritmo rimasto inalterato nelle prime settimane del 2017. Le associazioni di categoria, le sigle che rappresentano gli interessi di docenti e personale, pubblicano comunicati quotidiani per festeggiare vittorie collettive, sentenze, risarcimenti. Gli avvocati che difendono il Miur da questo sciame di cause spiegano invece come il boom di processi sia una sorta di “fenomeno ciclico”, un’onda puntuale quanto la marea a ogni nuovo bando o concorso per l’ingresso in ruolo; ricordano poi che i massicci numeri di vertenze contro le scuole siano dovuti anche alla mole titanica di docenti e famiglie coinvolte in un’istituzione “in prima linea” come quella educativa. Di certo però il peso delle liti si avverte e aumenta, al centro come in periferia. Michele Gramazio è il presidente dell’associazione dei presidi pugliesi e dice di «essere diventato una sorta di esperto legale, per forza». Ingegnere elettronico, dirigente scolastico dal 2010, negli ultimi tempi si è difeso da solo – difendendo l’istituzione – per tre volte, perché nelle cause di lavoro più semplici, in primo grado, l’avvocatura generale chiede spesso, ormai, agli uffici scolastici regionali di occuparsi direttamente della pratica. È un modo per lasciare che la struttura centrale di Stato si occupi soprattutto dei macro-ricorsi dalle conseguenze più rilevanti per il ministero. Ma sul territorio restano così i presidi a improvvisarsi avvocati. «Io ce l’ho fatta, però di solito l’amministrazione soccombe. E molti miei colleghi sono in difficoltà», racconta Gramazio. Alcune regioni, come l’Emilia Romagna, hanno costituito un piccolo pool regionale, specializzato in codici e leggi. Altre invece lasciano che siano i dirigenti a presentarsi dal giudice. «L’unico supporto che ho ricevuto», ricorda il preside: «È stata una mail con alcuni suggerimenti. «Si consiglia di precisare quanto segue...». Almeno per impostare la difesa». Le vertenze rilevate nel database dell’avvocatura si dividono in quattro blocchi. Quelle che hanno come oggetto “Concorsi e graduatorie che riguardano gli insegnanti” e sono state 4.043 nel 2016, tre volte tanto tre anni fa; poi ci sono le cause intentate dalle famiglie per la “promozione di alunni” - solo 308 l’anno scorso, un numero stabile da tempo; quindi i processi per la responsabilità civile di infortuni accaduti agli studenti, diminuiti dai 1.715 del 2012 ai 1.515 di oggi. E infine, negli ultimi due anni, sono state conteggiate le oltre 1.300 cause contro la Buona Scuola. La riforma macina vertenze anche perché, spiegano gli esperti, quanto più aumentano le variabili, quanto più complessi si fanno i fattori necessari a stabilire per quale ambito, aggregazione, titolo o categoria, ad esempio, qualcuno viene assunto e altri no, quanto più si moltiplicano gli ami a cui si appiglia il contenzioso, e la difficoltà a districarsi per difendere i migliori. E la Buona Scuola ha vinto forse il record in termini di labirinticità burocratica. Servirà la lezione? 

ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.

Gli antichi popoli citati nella Bibbia inventarono gli alfabeti europei. Egizi, Assiri, Aramei, Caldei, Cananei, Filistei: civiltà bene organizzate. Le iscrizioni e le cronache ci narrano con immediatezza le loro vicende, scrive Livia Capponi il 15 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Assiri, Aramei, Caldei, Cananei, Popoli del Mare, Filistei: i loro nomi affiorano da qualche enigmatico passo della Bibbia: ma chi erano costoro? Non appena ci si avvicina al Vicino Oriente antico, si scopre una varietà di regni, lingue, scritture di impressionante ricchezza, spesso però trascurata a causa di quel complesso di superiorità nei confronti dell’Oriente, definito dallo studioso palestinese Edward Saïd «orientalismo», che caratterizzava molti studiosi europei del secolo scorso, e che abbiamo ereditato dalla nostra beneamata tradizione classica. Il volume della serie La Storia in edicola domani con il «Corriere della Sera» s’intitola Imperi e Stati nazionali dell’età del Ferro e copre il periodo dal 1200 al 539 avanti Cristo. L’oggetto trattato dagli autori nei loro saggi potrebbe sembrare qualcosa di immobile, impenetrabile e perduto. Nulla di più sbagliato. Si tratta di civiltà fortemente burocratizzate, dove iscrizioni, cronache, annali, documenti d’archivio ci restituiscono con immediatezza le parole dei protagonisti a tutti i livelli sociali, dalla propaganda dei re ai registri con le paghe dei lavoratori. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, è una storia molto viva, in cui l’economia e il commercio sono il motore di migrazioni e di contaminazioni linguistiche e culturali, e i grandi imperi territoriali si reggono non solo sugli eserciti, ma anche su paci armate raggiunte tramite complessi accordi diplomatici. In più, questo campo di studi è continuamente arricchito da scoperte e progressi interpretativi, che spesso portano a ribaltare le ortodossie di pochi decenni prima. Per la massa di lettere e circolari (fino a 15 mila l’anno) fra i re e la loro burocrazia, l’impero neo-assiro (IX-VII sec. a.C.) è stato soprannominato «impero della comunicazione». Le iscrizioni ufficiali dei re di Ninive contengono dettagliate res gestae rivolte ai posteri, il cui tono insieme tecnico e ieratico ha lasciato un’eco persino in quelle di Augusto. L’ideologia, espressa in modo martellante dall’edilizia e dai testi scritti, afferma che l’attività del re è guidata e favorita dall’ausilio divino. Il sovrano è il vicario in terra del dio nazionale Assur, che rende ogni sua guerra «giusta» per definizione. Il centro del mondo è l’Assiria, buona e santa; la periferia, cattiva e peccaminosa; l’uomo assiro è civile, lo straniero barbaro. In qualche caso le guerre assire sono favorite persino dagli dei del nemico, che, adirati per i suoi peccati, lo abbandonano alla punizione che merita. E la dea venerata in tutta la cultura mesopotamica è Ishtar, contraddittoria come i cicli della natura, capace di essere al tempo stesso vergine e madre, pura e impura, protettrice amorevole e, all’occorrenza, guerriera sanguinosa. Se si confrontano le storie di Israele scritte in Italia nel XX secolo si noterà un cambiamento radicale ed un progressivo distacco dal racconto biblico, a favore delle fonti archeologiche e documentarie. A partire dalla stele del faraone Merenptah (1230 a.C.), il primo documento che cita il nome di Israele fra i popoli sconfitti dall’Egitto, l’archeologia smentisce la notizia dell’Esodo biblico, cioè di una migrazione ebraica dall’Egitto alla terra di Canaan, seguita da una conquista per infiltrazione o aggressione. Pare invece che gli Ebrei, tribù dedite alla pastorizia e poi alla coltivazione di vino e olio, siano sempre stati lì, riconducibili ad uno sviluppo interno. Un’altra stele egiziana poco più antica menziona una tribù di Raham, rivelando il significato di «Abraham» come il «padre dei Raham», e identificando Israele/Giacobbe in un suo discendente che diede il nome al popolo. La storia di re David, così come la racconta la Bibbia, è oggi ritenuta leggendaria. Il rapporto di amore esclusivo che lega il popolo di Israele a Yahweh si può confrontare con il legame fra il re e il popolo nei giuramenti di fedeltà assiri: «Non cercheremo alcun altro re o alcun altro signore per noi». Molti precetti biblici sono stati confrontati con altri codici legali, come quello babilonese di Hammurabi (1750 a.C.), gettando luce sulla koiné giuridica vicino-orientale. La dichiarazione sulle offerte pronunciata durante la liturgia del pranzo pasquale, che costituisce la professione di fede ebraica, inizia con la frase «mio padre era un Arameo errante». Gli Aramei, regno formatosi intorno a casate di origine tribale, lasciano un segno duraturo con la loro lingua, che nell’impero neoassiro diventa un mezzo di comunicazione internazionale, dalla Persia all’Egitto, dalla Siria alla Battriana. Con essa si sviluppa un sistema alfabetico di 22 segni, che prende piede anche nei porti della Fenicia, seguendo le rotte commerciali. Grazie alla sua praticità e adattabilità espressiva, questo alfabeto è adottato da tutte le lingue semitiche dette «cananaiche», incluso l’ebraico, e servirà poi anche per costituire gli alfabeti greci, precursori di ogni sistema di scrittura in Europa.

Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante. Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate, scrive Raffaele Simone il 27 settembre 2017 su "L'Espresso". Anche se la legge elettorale ancora non c’è, le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli. Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati, congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato. Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto. Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato. Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente.

Il caso di Virginia Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night, li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che, partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle facce dell’incompetenza.

La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere?

«L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti.

La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.

Ocse: pochi laureati e bistrattati. Studenti del Sud indietro di un anno. Pochi laureati, poco preparati e bistrattati. Il divario della performance tra gli studenti della provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico. Così l’Ocse nel rapporto sulla "Strategia per le competenze" 2017. “L’Italia, negli ultimi anni, ha fatto notevoli passi in avanti nel miglioramento della qualità dell’istruzione”, ma forti sono le differenze nelle performance degli studenti all’interno del Paese, “con le regioni del Sud che restano molto indietro rispetto alle altre”, tanto che “il divario della performance in Pisa (gli standard internazionali di valutazione) tra gli studenti della provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico”. “Solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è laureato rispetto alla media Ocse del 30%”. Inoltre “gli italiani laureati hanno, in media, un più basso tasso di competenze” in lettura e matematica (26esimo posto su 29 paesi Ocse). Non solo. L’Italia è “l’unico Paese del G7” in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine è più alta di quella che fa capo ad attività non di routine. In inglese il fenomeno è noto come "skills mismatch", in italiano si potrebbe tradurre con "dialogo tra sordi", dove i due potenziali interlocutori sono il lavoratore e il posto di lavoro. Insomma le competenze non risultano in linea con la mansione. Cosa da noi “molto diffusa”, spiega l’Ocse in un dossier specifico sulla materia. “Il livello dei salari in Italia è spesso correlato all’età e all’esperienza del lavoratore piuttosto che alla performance individuale, caratteristica che disincentiva nei dipendenti un uso intensivo delle competenze sul posto di lavoro”. “Attualmente l’Italia è intrappolata in un "low-skills equilibrium", un basso livello di competenze generalizzato: una situazione in cui la scarsa offerta di competenze è accompagnata da una debole domanda da parte delle imprese”. Insomma da una parte la forza lavoro non si presenta sul mercato preparata, attrezzata a svolgere le diverse mansioni possibili, dall’altra le aziende non pretendono.

La scuola superiore? È ancora un fatto di classe (sociale). Meno di un diplomato al liceo classico su 10 è figlio di operai e impiegati. Perché il fattore socio-economico è determinante nelle scelte dei ragazzi dopo le medie. Un gap di partenza che non abbiamo superato. E che incide nelle scelte universitarie, scrive Cristina Da Rold il 31 marzo 2017 su "L'Espresso". Il fatto che 7 diplomati su 10 abbiano intenzione di iscriversi all'università non è sufficiente per poter dire di essere sempre più vicini a rendere davvero equo l'accesso all'università. Il gradiente sociale che emerge se si considera la classe socio-economica di appartenenza dei giovani diplomati a seconda del tipo di diploma è infatti drammaticamente evidente. Anche se frequentare un liceo pubblico costa allo stesso modo di un istituto tecnico o di uno professionale, un terzo di chi si diploma al liceo proviene da famiglie di classe sociale considerata “elevata”, mentre solo il 17 per cento da famiglie che lavorano nell'esecutivo. Lo mostrano i dati raccolti da AlmaDiploma , la “sorella” di Almalaurea che ogni anno cerca di fare il punto sulle condizioni dei ragazzi prima che essi arrivino all'università. Per capire meglio di cosa stiamo parlando vale la pensa sciogliere un po' questa nomenclatura. Secondo le categorie di AlmaDiploma la classe sociale considerata “elevata” è rappresentata da liberi professionisti (medici, avvocati), dirigenti, docenti universitari e imprenditori con almeno 15 dipendenti. La classe “media impiegatizia” comprende impiegati con mansioni di coordinamento, direttivi o quadri intermedi e insegnanti, mentre la “classe media autonoma” coadiuvanti familiari, soci di cooperative e imprenditori con meno di 15 dipendenti. Infine, la classe del lavoro esecutivo è composta da operai, da qualsiasi forma di lavoratore subalterno e assimilato e da tutti coloro che sono considerati “impiegati esecutivi”, con contratti di varie forme e colore. Una specifica che rende ancora più rilevante il fatto che solo un liceale su 6 provenga da una famiglia che lavora nell'esecutivo. Si tratta in realtà di una stima al rialzo. Se consideriamo solo le due “roccaforti”, cioè il liceo classico e il liceo scientifico, il gradiente è ancora più evidente: il 45% dei diplomati nel 2016 nei licei classici è figlio di professionisti, dirigenti, docenti universitari, imprenditori, contro un 8,7% rappresentato da figli di operai e di impiegati. Simile la situazione per i licei scientifici, dove quest'ultima categoria rappresenta il 13,1%, tendendo a preferire, come formazione liceale, i licei delle scienze umane e i licei artistici. Certo, si tratta di un sondaggio, non di una raccolta svolta a tappeto, scuola per scuola. Leggendo il rapporto di AlmaDiploma si apprende infatti che questi dati rappresentano 261 istituti per un totale 43.171 studenti esaminati: 61 nel Lazio, 45 in Lombardia, 40 in Emilia Romagna, 26 in Liguria, 22 in Puglia, 20 in Toscana, 12 in Trentino-Alto Adige, 11 in Sicilia, 9 in Veneto e 15 in altre 7 regioni italiane. Perfettamente omogenea invece la proporzione di studenti esaminata per classe sociale. È ampiamente sottorappresentato il sud, ma anche per questo si tratta di dati interessanti perché ci tolgono dall'imbarazzo di pensare che forse questo gap così marcato rifletta in qualche modo un gradiente geografico, dal momento che solo una piccola parte di questi dati proviene dalle scuole del Meridione. Colpisce molto anche ciò che emerge dalle domande che AlmaDiploma pone ai giovani riguardo al loro prossimo futuro. Se filtriamo i risultati per i liceali italiani, coloro cioè che si presuppone più di tutti proseguiranno gli studi, fra coloro che non intendono iscriversi all'università, quasi il 30% appartiene alla classe dell'esecutivo, che ricordiamo costituisce solo il 15% del totale dei diplomati liceali. Inoltre, sempre solo considerando i liceali, il 30% di chi viene bocciato 2 o più volte appartiene alla classe sociale più bassa, contro il 17% della classe elevata. E di nuovo, ricordiamo che i primi rappresentano solo il 17% del totale degli iscritti ai licei. Un dato che ci fa riflettere ancora una volta sul substrato sociale che stiamo costruendo, e su quanto le condizioni di partenza possano incidere sulle attuali possibilità di un giovane nato in una famiglia con meno possibilità di altre di partenza, di seguire il medesimo percorso di un suo coetaneo e di usufruire delle migliori possibilità formative, curriculari e non. Vale la pena per esempio soffermarsi sulle percentuali di diplomati che hanno effettuato un soggiorno di studio all'estero, a seconda del tipo di scuola superiore considerata. Ancora una volta il gradiente si fa sentire: anche escludendo il liceo linguistico, che per ovvie ragioni propone molte attività di questo tipo, i giovani che fanno questo tipo di esperienza sono il doppio nei licei rispetto agli istituti tecnici o professionali. In media 4 ragazzi su 10 del classico e dello scientifico hanno usufruito di periodi di studio all'estero contro il 15% degli istituti professionali. Il divario aumenta se si considerano solo i soggiorni lunghi, superiori alle 2 settimane, prerogativa scelta da un liceale su 10 e da un diplomato professionale su 100. Si possono guardare questi dati da diversi punti di vista, per esempio notando il fatto che il 33% di chi ha intenzione di iscriversi all'università e contemporaneamente cercare un lavoro, proviene dalle classi sociali elevate. Tuttavia, in termini di disuguaglianze sociali il punto di osservazione – dicono gli esperti – deve essere quello dell'elemento più vulnerabile. Il punto di vista più interessante non è infatti che i figli delle classi sociali più elevate non scelgano le scuole professionali, come è facilmente prevedibile, o che tendano a proseguire gli studi dopo il diploma: l'elemento cruciale per valutare gli estremi di una società disuguale è capire perché ancora oggi meno di un diplomato al liceo classico su 10 sia figlio di operai e impiegati. Un possibile risultato di questo trend lo raccontava un anno fa AlmaLaurea, mostrando come chi proviene da famiglie più istruite sia più propenso a intraprendere percorsi di studio più lunghi, le famose “lauree a ciclo unico”, come medicina e giurisprudenza. Un dato su tutti: il 43% dei laureati in medicina proviene da classi sociali elevate (cioè con entrambi i genitori laureati), e in generale il 34% degli iscritti a corsi di laurea magistrale a ciclo unico. I figli di operai e impiegati rappresentano solo il 15% dei laureati magistrali a ciclo unico, cioè del neo-medici e dei neo-avvocati, contro un 34% costituito dai figli della classe sociale più elevata. Viene da chiedersi dunque se si tratta solo di una condizione economica, specie alla luce del recente dibattito sul Reddito di Inclusione per le famiglie meno abbienti, o se dietro ci sia dell'altro, barriere culturali e sociali. Quello che è certo è che in ballo vi è anche la composizione stessa della classe dirigente del domani.

Il trionfo degli analfabeti: non si è mai scritto tanto e tanto male. Dagli strafalcioni grammaticali dei politici alla dealfabetizzazione resa evidente dai social network, oggi siamo circondati dalla brutta scrittura. E non si tratta di un fenomeno solo italiano, scrive Raffaele Simone il 13 aprile 2017 su "L'Espresso". L’italiano è in declino? I giovani lo stanno perdendo? Nelle settimane scorse queste domande hanno rifatto capolino per via di un fait-divers: 600 professori universitari, tra i quali alcuni nomi noti, hanno scritto una lettera al capo del governo, al ministro dell’istruzione e alla stampa, per denunciare che «alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente» e commettono «errori appena tollerabili in terza elementare». Forti di questa diagnosi, i Seicento hanno stabilito che la colpa è della scuola, troppo disinvolta e liberale: ne chiedono quindi una «davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica». Dopo questo rullo di tamburi, che sembrava annunciare chissà quale carica, i Seicento si sono limitati però a proporre qualche ritocchino qua e là all’organizzazione della scuola, di portata così modesta da sembrare, più che un manifesto di riscossa, un post-it passato da un preside ai suoi docenti. Del resto, qualche giorno dopo, quasi a farlo apposta, l’appello ha trovato una brutale conferma nei fatti: in un concorsone per maestri, la metà dei candidati si sono lasciati andare a plateali svarioni e castronerie. Comunque sia, benché il documento fosse scritto in una prosa malferma e burocratica e non tutti i Seicento siano noti come campioni di bello stile, non c’è dubbio che il dominio dell’italiano da parte dei giovani sia in grave declino. Nei miei decenni all’università ho incontrato non meno di dieci coorti di ragazzi, e posso confermare per esperienza diretta che uno smottamento linguistico e culturale presso i giovani era evidente almeno dagli anni Ottanta.

La questione si può affrontare a diversi livelli. Se vogliamo solo farci quattro risate, potremo fare collezioni di un po’ e fà, di un'elemento e i zoccoli ecc. Ci sorprenderà che solo pochi padroneggino l’apostrofo e gli accenti, distinguano sì (segno di assenso e avverbio multiuso) da si, sappiano come si scrivono soqquadro, acquitrino e intravvedere, e coi congiuntivi se la cavino meglio di Di Maio. Va detto però che strafalcioni non si trovano solo nel linguaggio dei giovani, ma affiorano anche in prose premium. Le scemenze pullulano sui maggiori media del paese, nei quali la punteggiatura è ormai traballante, il passato remoto è scomparso (Giulio Cesare è nato…) e la virgola dopo il vocativo è solo dei cruscanti. A un livello un po’ più complesso, ci sorprenderà vedere (esperienza personale) che neanche uno degli studenti di un corso specialistico conosca il senso di imbelle, imberbe, inerme, empio, beffardo e tanti altri aggettivi di questo tono. La sorpresa sarà ancora maggiore scoprendo che nessuno o quasi è in grado di completare un proverbio che a voi pare ovvio (tanto va la gatta al lardo…, bandiera vecchia…). Ma se vogliamo andare un po’ a fondo, bisognerà dire (e ricordare ai Seicento) che a indebolirsi non è la “lingua italiana” come materia scolastica. È molto di più: non stanno andando in fumo solo l’ortografia, la grammatica, la sintassi e il lessico, ma tutta quella formidabile macchina mentale (un tesoro dell’Occidente) con cui si acquista, conserva, elabora la conoscenza. Parlo insomma dell’intera attrezzatura che si usa per acquisire conoscenze e elaborarle, esporle, farle valere, ricordarle, usarle nella pratica.

Qualcuno cercherà di consolarci ricordandoci che il declino, se c’è, colpisce tutti i paesi avanzati. Il saggio The Closing of the American Mind di Allen Bloom, che descriveva con allarme cose esattamente di quel genere che accadevano negli USA, è del 1987. A un livello più basso, in Francia nel 2016 si sono visti costretti a sopprimere per legge alcune trappole ortografiche, tanti erano gli errori (anche dei colti) nella scrittura. Sono state modificate una quantità di grafie ingannevoli (oignon “cipolla” si potrà scrivere anche ognon); poi, arrendendosi al fatto che per i giovani il circonflesso è ormai solo un dettaglio delle faccine, lo si è abolito su i e su u (chissà perché, non su a)! Quindi, per dire, la maîtresse sarà d’ora in poi una maitresse… Questo tentativo di consolazione si può leggere però anche come un allarme da horror: l’attacco ai meccanismi del conoscere (ortografia inclusa) non è locale, ma planetario, e questa non è fantascienza. Ma chi sono i nemici? Non sappiamo dove sono, ma sappiamo chi sono. Da almeno trent’anni i giovani si trovano nella tenaglia di un mondo che è insieme descolarizzante e dealfabetizzante. Quanto al primo punto, è un mondo pieno di attrazioni, tentazioni, trappole seducenti, inviti, richiami a esperienze facilmente accessibili (droga inclusa). Insomma, nel complesso, un mondo così terribilmente attraente che al confronto la scuola, con tutto quel che comporta (pazienza, attenzione, ripetizione, silenzio), ha perduto mordente e appare piuttosto come una gran noia. La vita fuori è mille volte più libera e ricca di quella che si svolge entre les murs (“tra le mura” della scuola, secondo il titolo del bel film francese, in Italia La classe).

A dealfabetizzare queste generazioni già descolarizzate ci pensa il digitale di massa usato senza criterio. Una frase del genere è sicuramente impopolare, ma bisogna ben ammettere che i primi dieci anni dello smart phone, celebrati qualche settimana fa, sono anche i primi dieci anni del crollo della cultura condivisa. Su smartphone e tablet ubiqui, tutti scrivono o leggono qualcosa in ogni momento e luogo, perfino al cinema, in sala operatoria e alla guida di autobus. Ma come scrivono? Cosa scrivono? Cosa e come leggono? Molte di queste cose sono puro trash, junk, monnezza. Per giunta, la loro vita mentale è sottoposta a una perturbazione perpetua, dominata dall’interruzione continua, dallo zapping compulsivo, dalla mezza cultura che circola in rete, dal copia e incolla come pratica standard. Faccine piazzate dappertutto, fusioni di parole (tecnicamente, univerbazioni: massì, mannò, maddai, evvai, eddai, ecc.), contrazioni coatte (dal celebre xché in poi), appunti presi coi pollici e whatsapp per descrivere (fotografandoli) anche i momenti più irrilevanti e triti della vita. Insomma, se è vero che non si è mai scritto tanto nella storia, mai lo scrivere è stato a tal punto privo di ogni potere alfabetizzante.

Il guasto linguistico che ha tanto scandalizzato i Seicento è quindi solo una delle facce della e-cultura ormai prevalente, e neanche la più importante. La scuola, poveretta, non è colpevole che in parte. Nata per caso, la e-cultura è salita dalle aule e dalle discoteche alle professioni e alla vita comune, a partire dai media, e si è propagata viralmente. Basta sentire gli spropositi di pronuncia dei giornalisti televisivi, le intonazioni sballate, le pause viziose, i discorsi letti senza evidentemente capirci niente, per rendersi conto che il virus si è scatenato. I maestri elementari che scrivono svarioni sono i primi frutti maturi e adulti di questa semina.

Basteranno le quattro propostine di riorganizzazione didattica frettolosamente sottoscritte dai Seicento per compensare gli effetti di un bradisismo catastrofico? Cosa può la scuola? Chi può contrastare il blocco computazionale-educativo dominato da corporations come Apple, Google, Facebook e Pearson?

Come sempre, però, nella catastrofe c’è chi corre ai ripari. Mentre la scuola si dequalifica (e la lingua si liquefa), i giovani più svegli continuano a prepararsi seriamente, imparano a scrivere e leggere come si deve e usano i device solo quando gli servono. Ne conosco non pochi. L’esplosione internazionale dello house-schooling (ora si chiama così: far scuola a casa) è un indizio minuscolo, ma eloquente, di questo “si salvi chi può”.

Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è tra i peggiori. Sono capaci di leggere e scrivere, ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici e sono privi di molte competenze utili nella vita quotidiana. Nessuna nazione in Europa, a parte la Turchia, ne conta così tanti. Tutti i numeri per capire la dimensione di un fenomeno spesso sottovalutato, scrive Elisa Murgese il 21 marzo 2017 su "L'Espresso". Hanno più di 55 anni, sono poco istruiti e svolgono professioni non qualificate. Oppure sono giovanissimi che stanno a casa dei genitori senza lavorare né studiare. O, ancora, provengono da famiglie dove sono presenti meno di 25 libri. Sono gli analfabeti funzionali, quegli italiani che non sono in grado di capire il libretto di istruzioni di un cellulare o che non sanno risalire a un numero di telefono contenuto in una pagina web se esso si trova in corrispondenza del link “Contattaci”. È “low skilled” più di un italiano su quattro e l'Italia ricopre una tra le posizioni peggiori nell' indagine Piaac, penultima in Europa per livello di competenze (preceduta solo dalla Turchia) e quartultima su scala mondiale rispetto ai 33 paesi analizzati dall'Ocse (con performance migliori solo di Cile e Indonesia). Non si parla in questo caso di persone incapaci di leggere o fare di conto, piuttosto di persone prive «delle competenze richieste in varie situazioni della vita quotidiana», sia essa «lavorativa, relativa al tempo libero», oppure «legata ai linguaggi delle nuove tecnologie», precisa Simona Mineo, ricercatore Inapp, l'Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol). «Chi è analfabeta funzionale non è incapace di leggere - continua Mineo, che è stata anche National data manager per l’indagine OCSE-PIAAC condotta in Italia - ma, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni». Un monito che riguarda gli italiani tutti perché, come conferma all'Espresso Friedrich Huebler, massimo esperto di alfabetizzazione per l'Istituto di statistica dell'Unesco: «Senza pratica, le capacità legate all'alfabetizzazione possono essere perse anno dopo anno». Come a dire che analfabeti non si nasce ma si diventa. Secondo l'Unesco, nel 2015 gli analfabeti in Italia erano pari all'1 per cento, percentuale che si riduce allo 0,1 se si considera solo la popolazione dai 15 ai 24 anni. «In molte regioni industrializzate, come l'Europa, la maggior parte della popolazione è capace di leggere e scrivere - continua Huebler - L'enfasi, infatti, è da porre sull'analfabetismo funzionale e sui livelli di alfabetizzazione piuttosto che sulle basiche capacità di lettura e scrittura». Al centro dell'analisi dell'esperto dell'Unesco ci sono proprio i dati dell'analisi Piaac, che mostrano come, nonostante l'Italia abbia un tasso di alfabetizzazione che sfiora il 100 per cento, la percentuale di analfabeti funzionali è la più alta dell'Unione europea. D'altronde, «anche se la maggior parte degli abitanti dei paesi ricchi è capace di leggere e scrivere - chiude Huebler - non si deve dimenticare come i livelli di alfabetizzazione non sono gli stessi per tutta la popolazione».

L'identikit dei nuovi analfabeti in Italia. Solo il 10 percento è disoccupato, fanno lavori manuali e routinari, poco più della metà sono uomini e uno su tre degli analfabeti funzionali italiani è over 55. Tra i soggetti più colpiti le fasce culturalmente più deboli come i pensionati e le persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito mentre, per quanto riguarda la distribuzione geografica, il sud e il nord ovest del Paese sono le regioni con le percentuali più alte, visto che da sole ospitano più del 60 percento dei low skilled italiani. A tracciare l'identikit dell'analfabeta funzionale italiano sono le elaborazioni dell'Osservatorio Isfol raccolte nell'articolo “I low skilled in Italia”, studio nato per indagare su quella nutrita parte della popolazione italiana che nell'indagine dell'Ocse ha mostrato di possedere bassissime competenze. Tra i risultati più interessanti, l'aumento della percentuale di low skilled al crescere dell’età, passando dal 20 percento della fascia 16-24 anni all'oltre 41 percento degli over 55. «Questo perché chi è nato prima del 1953 non ha usufruito della scolarità obbligatoria - continua la ricercatrice Mineo - ma anche perché nelle fasce più adulte si soffre maggiormente dell’analfabetismo di ritorno». Ovvero, «se non sono coltivate, vengono perse anche quelle competenze minime acquisite durante le fasi di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Andamento inverso per gli high skilled: in altre parole, mano a mano che i mesi passano sul calendario, aumentano le possibilità di diventare analfabeti funzionali. Balsamo contro la perdita delle nostre capacità può essere tornare tra i banchi di scuola da adulti o partecipare attivamente al mondo del lavoro. Eppure, non ogni occupazione può “salvarci” dall'essere potenziali analfabeti funzionali visto che solo alcune attività garantiscono il mantenimento se non addirittura lo sviluppo di capacità e conoscenze. «Sono le skilled occupations, ovvero professioni intellettuali, scientifiche e tecniche» precisa Simona Mineo. Quale quindi la causa delle cattive performance degli over 50? Colpa dei loro brevi percorsi scolastici e di un precoce ingresso nel mercato del lavoro, ma «ciò che conta più di tutto è la mancanza di una costante 'manutenzione' e 'coltivazione' delle competenze». È l'assenza di allenamento mentale, quindi, la causa che la ricercatrice individua per il declino della popolazione più anziana. «Si dovrebbe garantire un invecchiamento attivo», e sostenere attività di apprendimento in età adulta. «Iniziative che purtroppo, in Italia, continuano ad essere estremamente ridotte». Contraltare degli over 50 sono i Neet (i giovani tra i 16 e i 24 anni che non stanno né lavorando né studiando), visto che secondo lo studio di Inapp coloro che appartengono a questa categoria hanno una probabilità cinque volte maggiore di avere bassi livelli di competenza.

I libri che abbiamo in casa fanno la differenza. Quanti volumi erano riporti sulla libreria di casa tua quando avevi 16 anni? Ecco una delle domande del questione Piaac che può fare la differenza visto che spesso gli analfabeti funzionali sono cresciuti in famiglie in cui erano presenti un numero limitato di libri. «Questo dato è particolarmente accentuato nel nostro Paese -si legge nel report - dove il 73 percento dei low skilled è cresciuto in famiglie in cui erano presenti meno di 25 libri». Una mancanza che può portare i giovani a cadere in un crudele circolo vizioso. «L'assenza di un livello base di competenze - racconta Simona Mineo - rende difficili ulteriori attività di apprendimento», tanto da portare le competenze dei giovani con background fragili a «invecchiare e deteriorarsi nel tempo», rendendo per loro sempre un miraggio «l’accesso a qualsiasi forma di apprendimento». Le nostre competenze, quindi, non sono statiche. La famiglia, l’età, l’istruzione e il lavoro possono determinarne nell’arco della vita lo sviluppo ma anche la loro perdita. E il tessuto italiano potrebbe addirittura aiutare la diffusione dell'analfabetismo funzionale. Tra i punti deboli del nostro Paese, infatti, «l’abbandono scolastico precoce, i giovani che non lavorano o vivono condizioni di lavoro nero e precario, la mancanza di formazione sul lavoro» continua la ricercatrice, puntando il dito anche contro «la disaffezione alla cultura e all'istruzione, che caratterizza tutta la popolazione». D'altronde, come ricordava Tullio De Mauro, «la regressione rispetto ai livelli acquisiti nel percorso scolastico colpisce dappertutto gli adulti». «Occorre -, quindi, secondo lo studioso che più di tutti in questi ultimi anni ha continuato ad avvertire dei pericoli dell’analfabetismo, - riflettere su stili di vita e assetti sociali che producono questi dislivelli di competenze e queste masse di deprivati tra gli adulti». 

«Gli studenti non sanno l’italiano». La denuncia di 600 prof universitari. Appello accorato dei docenti che chiedono un intervento urgente al governo e al Parlamento. «Nelle tesi di laurea, errori da terza elementare. Bisogna ripartire dai fondamentali: grammatica, ortografia, comprensione del testo», scrive Orsola Riva il 4 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Possibile ritrovarsi a correggere una tesi di laurea dovendo usare la matita rossa e blu come in un temino della scuola elementare? Purtroppo sì. Basta leggere alcune delle testimonianze drammatiche dei 600 professori universitari che in pochi giorni hanno sottoscritto un accorato appello al governo e al Parlamento per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie. Ripartendo dai fondamentali: «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Può sembrare un ritorno indietro ma, come spiega Giorgio Ragazzini, uno dei quattro docenti di scuola media e superiore del Gruppo di Firenze che hanno promosso la lettera, «forse stiamo risentendo anche di una svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni 70». E invece, come già si diceva in un film diventato di culto dopo gli anni del riflusso, «chi parla male pensa male». O, come preferisce ricordare il professor Ragazzini citando Sciascia, «l’italiano non è l’italiano, è il ragionare». «E’ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente - si legge nella lettera -. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». La notizia non è nuova, ma non per questo è meno drammatica. Anche dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa che misura le competenze dei quindicenni di mezzo mondo i nostri ragazzi sono usciti con le ossa rotte. E a sorpresa è soprattutto in italiano che andiamo male. Con buona pace della stanca retorica anti-crociana. Dal 2000 a oggi non abbiamo recuperato mezza posizione, mentre in matematica, dove pure eravamo molto più indietro, abbiamo fatto enormi passi avanti. Tra i firmatari della lettera si contano (al momento) 8 accademici della Crusca, quattro rettori, il pedagogista Benedetto Vertecchi, gli storici Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora e Mario Isnenghi, e poi filosofi (Massimo Cacciari), sociologi (Ilvo Diamanti), la scrittrice e insegnante Paola Mastrocola, da sempre in prima linea per una scuola severa e giusta (giusta anche perché severa), matematici e docenti di diritto, storici dell’arte e neuropsichiatri. Tutti uniti nel denunciare la condizione di semi-analfabetismo di una parte degli studenti universitari. Come racconta bene questa testimonianza di uno dei firmatari: «Mi è capitato di incontrare in treno una studentessa che non sapeva quale fosse la “penultima” lettera del codice di prenotazione del suo biglietto».

La lettera dei 600 docenti universitari al governo: "Molti studenti scrivono male, intervenite". Il documento firmato da accademici della Crusca, linguisti, storici e filosofi. Nella lista Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari e Carlo Fusaro: "Alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di italiano", scrive Gerardo Adinolfi su "La Repubblica” il 4 febbraio 2017. "Molti studenti scrivono male in italiano, servono interventi urgenti".  E' il contenuto della lettera che oltre 600 docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, sociologi e economisti hanno inviato al governo e al parlamento per chiedere "interventi urgenti" per rimediare alle carenze dei loro studenti: "È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente", si legge nel documento partito dal gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità e firmato, tra gli altri, da Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari, Carlo Fusaro e Paola Mastrocola. "Da tempo - continua la lettera - i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana". Secondo i docenti, il sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, "anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico". "Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all'aggiornamento degli insegnanti, ma - si fa notare -  non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti, oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né l'impegno degli insegnanti, né l'acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti". Nella lettera si indica quindi una serie di dettagliate linee d'intervento per arrivare, "al termine del primo ciclo" di studi, ad un "sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti". Nella lunga lista dei firmatari ci sono molti nomi illustri: gli Accademici della Crusca Rita Librandi, Annalisa Nesi e Piero Beltrami, i linguisti Stefania Stefanelli e Edoardo Lombardi Vallauri, quatto rettori universitari, i docenti di letteratura italiana Giuseppe Nicoletti e Biancamaria Frabotta, gli storici Luciano Canfora e Mario Isnenghi, il matematico Lucio Russo e i costituzionalisti Paolo Caretti e Fulco Lanchester e ancora l'economista Marcello Messori e i docenti di diritto pubblico comparato e romano Ginevra Cerrina Feroni e Giuseppe Valditara. "Circa i tre quarti degli studenti delle triennali sono di fatto semianalfabeti - si legge tra i commenti dei docenti alla lettera -  È una tragedia nazionale non percepita dall’ opinione pubblica, dalla stampa e naturalmente dalla classe politica. Apprezzo che finalmente si ponga il problema. Ahimè, ho potuto constatare anch'io i guasti che segnalate, dal momento che il mio esame è scritto e ne vengono fuori delle belle... È francamente avvilente trovarsi di fronte ragazzi che vogliono intraprendere la professione di giornalista e presentano povertà di vocabolario, scrivono come se stessero redigendo un sms, con conseguenti contrazioni di vocaboli, o inciampano sui congiuntivi". Un altro docente invece spiega: "Fortunatamente si incontrano anche ragazzi in gamba e preparati. Dedico ormai una buona parte della mia attività di docente a correggere l'italiano delle tesi di laurea. Purtroppo l'insegnamento di base, invece di concentrarsi su poche ed essenziali competenze, tende ad ampliarsi e a complessificarsi a dismisura, coi risultati che constatiamo. Le maestre elementari - spesso bravissime e motivatissime - devono obbedire a un sacco di circolari che le inducono a fare le assistenti sociali. La situazione, poi, è resa oggettivamente problematica dalla latitanza di troppe famiglie, che mandano a scuola bimbi incapaci di una normale convivenza".

«Si, nò, un’altro strafalcione» L’italiano incerto dei miei studenti. Il racconto del docente di linguistica. Più degli errori, preoccupa la difficoltà di decodificare i testi scritti. La grammatica va rispettata, ma sfidi la lingua in cui viviamo, scrive Giuseppe Antonelli il 6 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. La situazione è grammatica, si potrebbe dire riprendendo l’arguto titolo di un libro recente. Anche nel senso che improvvisamente la grammatica si è ritrovata al centro di un’attenzione che di solito non le viene riservata. E questa è un’ottima cosa, se è vero che - come scriveva Pessoa - «la fortuna di un popolo dipende dallo stato della sua grammatica». Va detto, d’altra parte, che la situazione era già ampiamente nota. «Le lamentele sull’italiano approssimativo degli studenti costituiscono un topos abituale», si legge nella prima pagina di un libro del 1991 intitolato La lingua degli studenti universitari. Negli studi degli ultimi anni sull’italiano degli universitari vengono segnalati errori di tanti tipi. Mancanza di capoversi, punteggiatura assente o errata («un centro urbano, gode di maggiore prestigio»), usi impropri dell’apostrofo («un’altro»), dell’accento («si, nò») e delle maiuscole («alcuni Tratti»), fraintendimenti lessicali («tutte le mie speranze si sono assolte»). Ma la questione più urgente riguarda la scarsa capacità di organizzare, o anche solo decodificare, adeguatamente un testo. Ovvero di argomentare il proprio pensiero e di interpretare - comprendendone il senso e lo scopo - quello degli altri. Vale a dire quegli aspetti che fanno della grammatica un elemento determinante non solo per la comunicazione e la socializzazione, ma anche per una cittadinanza consapevole. Ecco perché diventa sempre più importante insegnare la grammatica finalizzandola alla produzione di testi. Solo che per far questo bisogna liberarsi di alcuni riflessi condizionati. Nessuno insegna più la geografia o le scienze come si faceva cinquant’anni fa: il mondo è cambiato, ci sono state nuove scoperte. Bene: è cambiato anche l’italiano, oltre a quello che sappiamo sul funzionamento delle lingue. La grammatica non è granitica, ma dinamica. Che senso ha - ad esempio - demonizzare la tecnologia, quando è grazie alle nuove tecnologie che la scrittura è entrata davvero a far parte delle nostre vite? Tutto acquista un’altra concretezza se lo si mette in relazione con i testi reali. Resta grave, ovviamente, sbagliare l’uso di una acca o di un accento (anche se nel segreto della tua tastiera, la prof non ti vede: il correttore automatico sì). Ma ancora più grave è che la scrittura dei messaggini stia abituando i ragazzi a una testualità spezzettata, incompleta, insufficiente. E allora si potrebbe partire dal confronto tra questi testi e quelli tradizionali, per far capire come si costruisce un testo compiuto ed efficace: che abbia un inizio, uno svolgimento e una fine. Si potrebbe insistere un po’ di meno sulla differenza tra complemento di compagnia e di unione e un po’ di più su quei connettivi che servono a stabilire i rapporti logici tra le varie frasi. Smettere di dire che lui e lei non possono essere usati come soggetto e spiegare bene i casi in cui il soggetto di una frase deve essere esplicitato. Ogni livello della grammatica - dalla punteggiatura al lessico, dalla coniugazione dei verbi alla costruzione della frase - può essere orientato verso questo obiettivo. Anche per evitare la sensazione di un eccessivo scollamento tra l’essere e il dover essere, tra la norma e l’uso, tra la scrittura scolastica e quella di tutti i giorni. La sensazione di una doppia verità, infatti, rischia di alimentare atteggiamenti di lassismo e rinuncia: «tanto la grammatica che insegnano a scuola nella vita vera non serve ...». Per mostrarsi vitale (in ogni senso) la grammatica deve accettare la sfida con la lingua in cui viviamo. Se la situazione è grammatica, la grammatica dev’essere all’altezza della situazione. 

Colpa di noi prof se i ragazzi non sanno più l'italiano, scrive Spartaco Pupo, Ricercatore e docente di storia delle dottrine politiche, Università della Calabria, Lunedì 6/02/2017 su "Il Giornale". È davvero singolare che oltre 600 docenti universitari, alcuni anche prestigiosi, abbiano firmato un appello dai toni così semplicistici o, per usare un termine di gran moda, «populistici», per chiedere al governo e al parlamento «interventi urgenti» contro il «semianalfabetismo» dei loro studenti, accusati di scrivere malissimo in italiano e di commettere gravi errori di sintassi, grammatica e lessico. Il problema, in realtà, è più complesso di quanto vorrebbero fare apparire questi colleghi, e investe, oltre alla scuola, anche e soprattutto l'università italiana, che fino a prova contraria laurea i professori delle scuole che formano i ragazzi somari oggi denunciati, i quali esistono per davvero, aumentano ogni anno di più, e di cui è giusto dibattere. Tuttavia, non ci sarebbe nulla di scandaloso se dei genitori italiani firmassero anch'essi un appello per prendersela con l'università che regala lauree ai docenti dei propri figli. Sarebbe, certo, un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, ma una cosa è certa: gran parte delle responsabilità di questo fenomeno è ascrivibile proprio alla crisi dell'intero sistema formativo, che è il prodotto non solo di scelte politiche, teorie pedagogiche e psicologiche e convinzioni ideologiche di origine sessantottina tendenti a un generale livellamento delle competenze, sempre più tecnicistiche e sempre meno umanistiche, a dispetto della valorizzazione del talento e del merito, ma anche dell'indisturbata «selezione» di un corpo accademico che lancia solo oggi l'allarme, piangendo lacrime di coccodrillo. È vero che nella scuola dell'obbligo il buonismo con cui gli insegnanti tendono a promuovere tutti, anche gli analfabeti, è dilagante, ma è altrettanto vero che i nostri ragazzi fanno oggi i conti con un disprezzo generalizzato della lingua italiana diffuso sia nei romanzi di certi autori contemporanei, pieni zeppi di parolacce, sia nei giornali e nella televisione, che fanno largo uso di un linguaggio sempre più sciatto, pieno di scorciatoie e strafalcioni. E che dire del predominio incontrastato dell'inglese oggi peraltro imposto a cominciare proprio dall'università, a tutto svantaggio dell'uso dell'italiano? Gran parte della classe accademica che oggi si lamenta dell'ingresso all'università di gente che non usa bene il congiuntivo, fino all'altro ieri si è abbeverata agli insegnamenti di professori come Tullio De Mauro, che dopo averci per una vita invitato a privilegiare e conservare i nostri dialetti, solo poco prima di morire si è messo a denunciare l'ignoranza della lingua italiana tra i giovani. Ma la nostra è anche una università figlia di intellettuali devoti alla «oicofobia» (letteralmente vuol dire «paura della propria casa»), fenomeno che colpisce soprattutto la classe intellettuale italiana ed europea e che porta al disprezzo della propria cultura e di tutto ciò che ha a che fare con il retaggio identitario della nazione, a iniziare dalla lingua. Sin dal 1965, l'anno del suo Scrittori e popolo, Alberto Asor Rosa non ha mai smesso di prendersela con gli intellettuali nazional-popolari, bollandoli di provincialismo e conservatorismo e accusati di essere l'incarnazione di una cultura paesana e piccolo borghese. Si ricorderà il suo feroce attacco a Francesco De Sanctis, reo, a suo dire, di avere scritto una storia della letteratura che celebrava la civiltà italiana moderna, e ai «ridicoli soprassalti nazionalistici» in cui la cultura letteraria italiana è stata coinvolta. Ancora nel 2009 Asor Rosa pensava di convertire una «normale» storia della letteratura italiana in una storia «europea» della letteratura italiana, come recita il titolo della sua ultima opera. Tutto ciò ha sin qui fatto parte dell'«impegno» del buon accademico e della sua missione «salvifica» del mondo, con risultati assai deludenti e che sono sotto gli occhi di tutti.  

"Se potrei" e altri orrori: come si usano i verbi. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 6 febbraio 2017 su "L'Espresso". Oh davvero, il verbo è tutto. Volete fare una frase? Ci vuole un verbo. Voi mi direte: “No, guarda, ci stanno pure le frasi senza verbo." Il che è vero, ma poi vedremo che magari un verbo, in qualche modo, ce l'hanno pure loro. Quindi, il verbo, dicevamo.

Il verbo, nelle frase, fa tutto. Senza, è come fare un aperitivo senza le patatine: si può ma non è granché.

Il verbo è fondamentale perché dice tutto: racconta infatti l'azione. Se non c'è una azione, reale, immaginata, sperata, attesa, pensata, auspicata non succede niente, e non se non succede niente non si racconta, né si fanno frasi. Quindi il verbo è il nostro caposaldo.

I verbi, lo sappiamo tutti, hanno i tempi e i modi e le persone. A scuola, quando ce li fanno coniugare pensiamo tutti: “Eccheppalle!". In effetti coniugare i verbi è operazione noiosissima. Il problema è che per spiegare come succedono le cose è necessario usare i verbi in maniera corretta.

Il modo del verbo, per esempio, ci spiega l'azione: è una cosa reale? E' una cosa immaginaria? La differenza è notevole. Io, per esempio, se adesso ho fame mangio una mela. Perché ce l'ho. Se non ce l'avessi, al massimo potrei dire che mangerei volentieri una mela, ma resto a bocca asciutta. Quindi, capite bene, comprendere il modo del verbo è importante, se non altro per capire se digiunerò e no.

Quando una cosa accade nella realtà il modo da usare è l'indicativo. Io mangio una mela, io incontrai Elena al mercato, io vedrò domani la partita allo stadio. Sul serio, queste cose le faccio, le ho fatte o le farò davvero.

Se invece io non sono certa che una cosa sia accaduta davvero, ma lo penso o me lo auguro, si usa il congiuntivo. Io penso che tu sia buono (lo penso, e magari pure lo spero, ma non ne sono certo, potresti essere una carogna). Magari piovesse! (Ma non è detto che piova). Credo che fosse Luigi quello che ho visto ieri sera per strada (ma magari no, era Carlo, o un tizio qualsiasi, perché non l'ho visto bene e sono pure cecata di mio).

Se l'azione invece può accadere solo a patto che si verifichi una qualche altra condizione, si usa il condizionale (i grammatici hanno una fantasia limitata nello scegliere i nomi, come si nota). Se avessi una mela (condizione)-> me la mangerei (azione). Se invece do un ordine, allora si usa l'imperativo (ve l'ho detto, non hanno una gran fantasia con i nomi), e per essere sicuro che si capisca che è un ordine, l'imperativo di solito viene usato con un bel punto esclamativo dopo: Portami una mela!

Il verbo, in analisi logica, si chiama "predicato" perché racconta quello che succede. È predicato verbale se racconta una azione, è predicato nominale se invece descrive una qualità del soggetto, ed in quel caso è formato dal verbo essere più una parte nominale, che può essere un aggettivo o un nome. Luca mangia - > predicato verbale (racconta una azione). Luca è alto / è un professore - > predicato nominale, racconta una caratteristica o una qualità di Luca.

Ora, se scrivete una frase, mettetecelo, il verbo. Le frasi senza verbo un po' sono zoppicanti e si sentono molto sole. Non fatele bullizzare dai periodi pieni di verbi e di subordinate, che si sentono superiori.

I verbi raccontano il mondo. Del resto anche il Vangelo di Giovanni comincia dicendo che in principio era il Verbo. Il che dimostra che Giovanni forse aveva anche le visioni, ma comunque sapeva bene come si raccontano le storie e aveva capito tutto della grammatica.

E poi c’è il risvolto della medaglia.

Da analfabeti a laureati, la rivoluzione culturale dei nuovi padrini. Da Dostoevskij a Pennac, ma anche Dickens, l’Eneide e le suore mistiche. Ecco le opere sui comodini dei capi di Cosa Nostra, scrive Attilio Bolzoni il 7 febbraio 2017 su "La Repubblica". È LA generazione di mafia più colta. Per forza: sono rinchiusi da anni nella dannazione del 41 bis e tutti soli con Dostoevskij e i fratelli Karamazov, con Tolstoj, Svevo, Pasternak, Pirandello, con i filosofi tedeschi, i teologi protestanti, Virgilio e Kant. In Italia si legge sempre di meno ma "dentro" sempre di più. A parte quello zoticone di Totò Riina che è rimasto come dice lui stesso, "un seconda elementare", gli uomini della Cupola si sono allitterati, hanno studiato, da seminalfabeti che erano molti hanno preso una e anche due lauree, si sono immersi nella storia e nei misteri della religione, avidi di discipline umanistiche e anche scientifiche. È un altro mito che cade nella Cosa Nostra che non c'è più perché ce n'è una nuova dentro e fuori il carcere. Una volta nei loro covi c'era sempre una Bibbia sul comodino e in qualche cassetto Il Padrino di Mario Puzo, non mancavano mai i Beati Paoli e Coriolano della Floresta di Wiliam Galt, romanzi cult di un'aristocrazia criminale che è sottoterra. La mafia del 41 bis ha imparato a proprie spese e si è emancipata intellettualmente, in compagnia de Il Dottor Zivago o di Todo modo. I divieti del regime speciale carcerario non hanno offerto un'altra scelta. Come ricorda Giuseppe Grassonelli a Carmelo Sardo - nel libro "Malerba" - quando è appena entrato nella fortezza dell'Asinara subito dopo le stragi del '92. Grassonelli era uno dei boss della "Stidda", si ritrovò nell'isola del Diavolo in un loculo di cemento dove trovò una brandina di ferro e sopra un'edizione di Guerra e Pace. Provò a leggere qualche pagina e non ci riuscì, al tempo sapeva a malapena mettere la sua firma. Riprovò una, due, tre, quattro volte. E quando finalmente finì il libro scoppiò a piangere. Oggi Giuseppe Grassonelli si addentra con sofisticato piacere nel labirinto del periodo rivoluzionario napoletano del 1799, in particolare sulle "insorgenze" che coinvolsero tutte le province del Regno. E che dire allora di Gaspare Spatuzza, quello della strage di Paolo Borsellino e sempre quello - che a sentire un altro pentito - lo descriveva mentre "con una mano manciava e con un'altra arriminava", con una mano teneva stretto un panino con il prosciutto e con l'altra un mestolo di legno con il quale pestava un cadavere sciolto nell'acido. Spatuzza ha incontrato la sociologa Alessandra Dino in una struttura penitenziaria (lei ne ha poi scritto un formidabile saggio) e l'ha invitata nella sua piccola biblioteca. C'era Delitto e Castigo, c'era La coscienza di Zeno, c'erano tre volumi di filosofia di Reale e Antiseri. Poi le ha regalato una sintesi di un libro di Joe Dispensa, Cambia l'abitudine di essere te stesso, con dedica: "Chi avrebbe mai potuto immaginare che un giorno Gaspare, un seminalfabeta, fosse in grado di spiegare, anche se con le parole del Dott. Joe Dispensa, qualcosa sulla fisica quantistica?". Ma non sono soltanto i boss del 41 bis che si sono raffinati fra trattati storici e testi ancora più impegnativi che sconfinano nell'aldilà. Anche i latitanti passavano o passano le loro giornate sui libri. Pietro Aglieri per esempio, dietro l'altare dove l'andava a trovare un fratacchione della Kalsa, aveva tutte le opere di Edith Stein, la monaca filosofa tedesca dell'Ordine delle Carmelitane Scalze che morì ad Auschwitz - era di origine ebraica - nel 1942. L'imprendibile Matteo Messina Denaro qualche anno fa dialogava per lettera sotto il falso nome di "Alessio" con l'ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino (che si firmava "Svetonio") confessandogli, suo malgrado, "di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto", immedesimandosi nel personaggio inventato dallo scrittore francese Daniel Pennac. Nelle sue corrispondenze con "Svetonio", Matteo ricordava anche l'Eneide, ragionava su Toni Negri, citava Jorge Amado: "Non c'è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica". Una rivoluzione culturale. E forse a iniziarla è stato il capostipite dei Corleonesi, Luciano Liggio, uno che nonostante le "leggende" create intorno a lui sembrava più un gangster che un mafioso. Disse una volta ai commissari della prima Antimafia: "Ho letto di tutto, storia, filosofia, pedagogia. I classici. Ho letto Dickens e Croce". E sfottendoli, ha concluso: "Ma quello che ammiro di più è Socrate, uno che come me non ha mai scritto niente ".

"Parole in cammino": errori, web, neologismi. Tutto rende viva la lingua italiana. È datato 2016 l'appello che un nutrito gruppo di accademici ha rivolto al ministero dell'Istruzione, lamentando la poca padronanza dell'italiano scritto da parte degli studenti universitari, scrive Pier Francesco Borgia, Venerdì 07/04/2017, su "Il Giornale". Alla domanda sulla salute della lingua italiana vengono subito alla mente gli svarioni dei giornalisti, i lapsus calami dei politici e le ingenuità linguistiche del popolo della Rete. Eppure non è così nero il presente (e il futuro) della lingua trasmessoci, giù «per li rami», dallo stesso Dante. Per capire insomma e per conoscere tutti gli aspetti del nostro comune patrimonio linguistico ora c'è anche un festival: «Parole in cammino». Ideato e curato da Massimo Arcangeli, ordinario di Linguistica italiana a Cagliari, insieme con l'università di Siena che vuole così degnamente festeggiare il centenario (1917-2017) della Scuola di lingua italiana per stranieri. E che avrà come cornice appunto (da oggi a domenica) la città toscana. Linguisti, ovviamente, giornalisti, docenti e insegnanti si confronteranno su un grande e appassionante tema come la lingua italiana. Dimostrando, tra l'altro, che lo studio e la pratica virtuosa di questa lingua è meno isolato di quello che sembri. È vero che i problemi ci sono e sono molti. È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che a un concorso per diventare maestri di ruolo nel Lazio, l'80% degli aspiranti maestri ha commesso grossolani errori di ortografia. Mentre, ormai, è datato 2016 l'appello che un nutrito gruppo di accademici ha rivolto al ministero dell'Istruzione, lamentando la poca padronanza dell'italiano scritto da parte degli studenti universitari. Eppure trasmissioni e siti web come La lingua batte registrano un ampio consenso. E fenomeni come quello di Fiorella Atzori (la prima youtuber a difesa dell'uso corretto del nostro idioma) sono tutt'altro che trascurabili. La Atzori è giovanissima. E - come racconta lei stessa - non è nemmeno una linguista. Dopo aver usato come «cliente» i più vari tutorial (alla cucina al make up), ha deciso di buttarsi. Scegliendo come argomento la grammatica italiana. «Fin da piccola ero appassionata di grammatica, merito di mia nonna maestra - racconta la Atzori che l'8 aprile presenterà al festival il suo libro Sgrammaticando (salviamo l'italiano dalla Rete) -. E da cinque anni sono a tempo pieno una youtuber». Con un risultato davvero impressionante. Dal primo video trasmesso su Youtube (finora sono quasi 400) ha ottenuto oltre 2,7 milioni di visualizzazioni, con 26 mila persone iscritte al canale di «Sgrammaticando». E dal tutorial (anglicismo che però viene dritto dritto dal latino) ai neologismi che arricchiscono la nostra lingua il passo è breve. E al festival gli «inventori» di parole nuove sono tra i protagonisti più attesi. Come il piccolo Matteo T. ed Enrico Mentana che verranno premiati per il loro supporto nel rendere il nostro lessico sempre più ampio ed efficace. Il primo è arrivato agli onori della cronaca per la parola «petaloso», accettata e registrata dalla Crusca. Il direttore del tg de La 7 per la parola «webete» (decisamente efficace per descrivere i creduloni che abboccano alle notizie fasulle in Rete). La nostra lingua però non è mai stata avara di neologismi. In fondo ogni epoca ha i suoi. Non è quindi la vivacità o debolezza dell'invenzione lessicale a impensierire un linguistica di rango come Francesco Sabatini (presidente onorario dell'Accademia della Crusca). Semmai l'approccio poco scientifico nell'insegnamento dell'italiano fin dalla scuola primaria. «All'inizio del Novecento il 50% degli italiani era analfabeta, contro solo l'1% dei tedeschi - racconta Sabatini -. Da allora di strada ne abbiamo fatta, ovviamente. Però c'è ancora molto da fare». «Soprattutto ora - aggiunge - che la tecnologia ha innalzato le competenze necessarie per vivere e lavorare». D'altronde riflette Sabatini - il cui ultimo libro Lezioni d'italiano (Mondadori) sta avendo un ampio successo di pubblico - non dobbiamo demonizzare la tecnologia. I tablet e gli smartphone, dice, sono necessari. «L'agilità manuale è una cosa - spiega - il contenuto linguistico delle operazioni su tablet o device elettronici è un'altra. Mica demonizziamo le scarpe perché per camminare servono solo i piedi!»

Neologismi a ritmo di tweet. Un dizionario dell'italiano creativo. Dal 7 al 9 aprile si svolge a Siena la prima edizione della kermesse "Parole in cammino", un viaggio tra l'italiano del passato e del futuro: incontri con intellettuali e giornalisti e laboratori per le scuole sulla lingua italiana che cambia. Qui un'anticipazione dell'intervento dell'ideatore del festival, scrive Massimo Arcangeli il 5 aprile 2017 su "L'Espresso". Direttamente dal web: “Io lollo sempre un devasto quando i cazzoni ci lasciano o quasi le penne a fare i lollers con gli animali spaccaculi”, scrive Randolk. “Io me la rido sempre di gusto quando gli stolti rischiano la pelle a trattare con leggerezza certi animali selvaggi”, traduce NickZip a beneficio dei navigatori virtuali digiuni di slang. Prove di neologia giovanile. Un possente onomaturgo è stato Dante. Nel 2015, per celebrare il 750° anno dalla sua nascita, ideai, per la Festa di Scienza e Filosofia di Foligno, un dizionario goliardico di vocaboli o significati inventati cui diedi il nome diTwittabolario. L’iniziativa, ispirata a una analoga di due anni prima e svolta in collaborazione con Scritture brevi, una comunità di affiliati a Twitter, avrebbe visto una grande partecipazione. Fra gli utenti più attivi Anna Petrazzuolo, autrice di una raccolta di parole e definizioni inventate d’autore (Di sana pianta); vi brillavano esempi come questi:

bugivéra s. f. [comp. di bugi(a) e vera]. Né bugia né verità, una bugia che è anche verità o una verità che anche una bugia. Ve ne sono di due tipi: la bugìvera detta a fin di bene (propria delle monache) e la bugìvera detta a fin di male (propria di giornalisti, medici e dietologi). Nella religione cattolica è considerata peccato veniale; in politica è una virtù. La madre superiora disse una bugìvera grande quanto una cassapanca (dalla “Monaca triste” di Alessandro Vermicelli) (FERDINANDO GAETA).

cremlìno s. m. [dal lat. tardo cremum "la parte butirrosa, spessa e opaca che affiora sul latte", sul modello di cremino]. Grande dolce natalizio alla crema, tradizionale della Moscovia: Ivan Alexandrovic tornò a casa con una fame tale che si sarebbe mangiato un intero cremlino (MARCO FULVIO BAROZZI).

enrigolètto s. m. [dal personaggio protagonista dell’opera verdiana Rigoletto, sul modello di Enrico Letta]. Chi ricorda la tragica vicenda di Rigoletto, il buffone vittima del destino e dei capricci dei potenti: Quell’enrigoletto illuso credeva di riuscire a tenere a bada il rottamatore (MARCO FULVIO BAROZZI).

whatsappatóre s. m. [incrocio dell'ingl. whatsapp e del nap. zappatore]. 1 Chi fa uso delle applicazioni di un terminale telefonico in modo rudimentale o approssimativo: Sei proprio uno whatsappatore! 2. (fig.) Chi, nonostante ami la tecnologia, conserva sentimenti filiali: Whatsappatore nun s''a scorda 'a mamma (MAURIZIO DE ANGELIS).

Fra gli esempi prodotti nel 2015:

Acetone. Condimento per insalatone.

Aculeo. Spillone costruito appositamente per punzecchiare i glutei.

Allucinazione. Patria degli alluci.

Arazzo. Dipinto velocissimo.

Astigmatico. Privo di fori nelle mani.

L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!

Gb, questionario a scuola: "Di che lingua sei: italiano, napoletano o siciliano?". Scuse dal Foreign Office. L'iniziativa per stabilire l'area linguistica di provenienza aveva lo scopo di fornire una migliore assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Ma è stata interpretata, alla fine, come una "schedatura" in base all'origine regionale. "Rammarico" del governo britannico per un "errore storico", scrive Enrico Franceschini il 12 ottobre 2016 su "La Repubblica". Parlate italiano, napoletano o siciliano? La domanda fa parte di un questionario che alcune scuole della Gran Bretagna hanno inviato alle famiglie dei nuovi alunni per l'anno scolastico iniziato da circa un mese. L'iniziativa aveva, in teoria, uno scopo non discriminatorio: stabilire l'area linguistica di appartenenza dei figli di immigrati per poter fornire sia ai bambini, sia eventualmente ai genitori, la necessaria assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Analizzando il modulo, si notano suddivisioni anche per i vari tipi di lingua punjabi, cinese, arabo. E l'elenco contiene una categoria anche per il sardo (sardinian), considerato una lingua a parte. Ma quale che fosse l'intento, il risultato è stato comunque di far sentire i nostri connazionali come se venissero "schedati" in base all'origine regionale. Come se esistessero almeno tre tipi di cittadino italiano: l'italiano-italiano, l'italiano-napoletano e l'italiano-siciliano. Qualche famiglia italiana ha segnalato la cosa alla nostra ambasciata di Londra e la protesta è stata immediata. "L'Ambasciata d'Italia nel Regno Unito è intervenuta per richiedere la modifica di talune categorizzazioni regionali riferite all'Italia comparse sui moduli online per l'iscrizione scolastica in alcune circoscrizioni in Inghilterra e nel Galles", afferma una nota dell'ufficio stampa della nostra sede diplomatica. "I codici presentati per la selezione dell'appartenenza etnica, utilizzati sui siti di alcune circoscrizioni scolastiche, indicavano infatti una scelta fra italiano, italiano - napoletano e italiano-siciliano. L'Ambasciata ha protestato con le autorità britanniche, richiedendo la rimozione immediata di tali categorizzazioni". Nella nota verbale di protesta si ricorda che "l'Italia è dal 17 marzo 1861 un Paese unificato": un commento all'insegna dell'understatement inglese, cioè senza bisogno di gridare, da parte della nostra ambasciata, che in parole semplici suonerebbe come una tirata d'orecchi al ministero d'Istruzione britannico, non lo sapete che l'Italia non è più un'espressione geografica? A caricare ulteriormente la polemica deve aver contribuito anche la decisione, solo pochi giorni fa, di escludere i ricercatori non britannici da un progetto sulla Brexit alla London School of Economics. Con la differenza che questa volta il Foreign Office britannico non ha esitato a chiedere scusa all'Italia "deplorando l'accaduto" e assicurando "un intervento perché vengano subito rimosse queste categorizzazioni non giustificate e non giustificabili". Il Foreign Office, tra l'altro, ha fatto sapere che "verificherà per quale motivo, in pochi e isolati distretti scolastici, siano state introdotte queste categorizzazioni, che peraltro non avevano alcuna volontà discriminatoria, ma semplicemente miravano all'accertamento di qualche ulteriore difficoltà linguistica per i bambini da inserire nel sistema scolastico inglese e gallese". Alle scuse del Foreign Office segue la dichiarazione di un portavoce per esprimere il "rammarico" causato a Downing Street dall'errore "storico". "Il governo britannico - spiega anche il portavoce - acquisisce informazioni linguistiche come parte del censimento scolastico per assicurarsi che gli studenti di madrelingua diversa dall'inglese possano ricevere la migliore istruzione possibile nel Regno Unito. Ci è stata segnalata la presenza di uno storico errore amministrativo nei codici linguistici in uso fin dal 2006. Anche se tale errore non ha avuto alcun impatto sull'istruzione ricevuta dagli alunni italiani nel Regno Unito, il governo britannico esprime il proprio rammarico per l'accaduto e per le offese da questo eventualmente arrecate. Il ministero dell'Istruzione britannico ha modificato i codici in questione e da oggi tutti gli allievi di madrelingua italiana saranno classificati sotto un unico codice". Soddisfatto l'ambasciatore Pasquale Terracciano: "Si evita così il montare di una polemica su quello che è stato un errore dovuto a ignoranza e superficialità da parte di qualche isolato distretto scolastico più che a una reale volontà discriminatoria. E' importante evitare l'insorgere di equivoci nella fase delicata del post-Brexit". Prima delle scuse del Foreign Office, l'ambasciatore era stato molto duro nel denunciare "iniziative locali motivate probabilmente dall'intenzione d'identificare inesistenti esigenze linguistiche particolari e garantire un ipotetico sostegno. Ma di buone intenzioni è lastricata la strada dell'inferno, specie quando diventano involontariamente discriminatorie, oltre che offensive per i meridionali". Mentre il sottosegretario al ministero dell'Istruzione italiano, David Faraone, si era detto incredulo per il fatto che "ancora oggi siamo costretti ad affrontare pregiudizi di questo tipo. La scuola italiana ha superato da tempo questi stereotipi e in Italia, come nel Regno Unito, si deve lavorare per l'integrazione e la formazione delle generazioni future".

Il questionario inglese che scheda gli studenti napoletani e siciliani. La protesta del nostro ambasciatore a Londra, Pasquale Terracciano, che ha spedito al Foreign Office una «nota verbale» per sollevare il caso, scrive il 12 ottobre 2016 Fabio Cavalera, corrispondente a Londra per "Il Corriere della Sera". Una pagina di un documento del «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles che raccoglie dati su etnia e prima lingua degli studenti, richiesti ai genitori al momento dell’ammissione. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. A essere cattivi, invece, c’è da pensare di molto peggio. Fatto sta che in alcune scuole del Regno Unito, all’atto dell’iscrizione, occorre passare dalle forche caudine della classificazione etnica. E per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. Non poteva stare zitta la nostra rappresentanza diplomatica dinanzi a uno scempio tale e difatti l’ambasciatore Pasquale Terracciano ha spedito alForeign Office una «nota verbale» per sollevare il caso che è stato documentato in un certo numero di scuole dell’Inghilterra e del Galles: al momento della richiesta di ammissione on line richiedono ai genitori «di specificare l’etnia e la prima lingua» del figlio. Una sorta di marchio che «deve essere rimosso con effetto immediato». I primi a inorridire sono stati i nostri connazionali del distretto metropolitano di Bradford i cui consigli scolastici hanno messo in rete la «classificazione». Ma, chissà come, quello che poteva essere un errore isolato è diventato un modulo adottato anche, per esempio, nel Galles. Non in qualche istituto isolato di qualche isolato villaggio. Ma niente meno che dal «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles. Seguiti successivamente, Bradford e Galles, da altri consigli territoriali. I connazionali, dunque, hanno informato l’ambasciata che si è mossa sul ministero degli esteri di sua maestà. Dabbenaggine? Ignoranza? L’ambasciatore Terracciano esclude che si tratti «di una forma di discriminazione attiva». E ha ragione. Nessuna violenza. Ma ritiene che in un momento caratterizzato da una sensibilità particolare sui temi dell’immigrazione e in piena tensione Brexit, sia fastidioso e pericoloso «introdurre una distinzione artificiale» del genere. Un capitombolo di pessimo gusto. La spiegazione non va ricercata in volontà persecutorie contro gli italiani che sono trattati benissimo e apprezzati moltissimo. Più semplicemente, forse, è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento.

Poi c'è la spiegazione di chi dà per scontato che nel 2016 i bambini di famiglie meridionali all'estero ancora non sappiano parlare l'italiano, come se non esistesse la tv o internet per divulgare la madre lingua.

Italiano, napoletano o siciliano? L'autore del post del 12 ottobre 2016 su "Butan" si firma Maicol Engel. In queste ora (ma erano già alcuni giorni che circolava) mi state segnalando in tantissimi la notizia del questionario inglese per le famiglie degli studenti, questionario che secondo tanti sarebbe “scandaloso” visto che prevede quattro caselle diverse per gli italiani, una per i napoletani, una per i siciliani, una per gli “altri” e una generica Italians. Un questionario per «schedare» gli studenti napoletani in Inghilterra. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. … per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento. Queste le parole del Corriere della Sera, che evidentemente, come tutte le testate italiane, si è fermato solo a guardare le notizie circolate in Italia e le lamentele degli italiani residenti in UK, senza cercare il documento da cui si partiva. Non si sta parlando di nazionalità o provenienza diversa, ma di lingua. L’elenco che viene fatto compilare per l’ammissione a scuola spiega chiaramente che viene richiesta la prima lingua (che si parla a casa) e difatti basta guardare con attenzione per accorgersi che l’Italia non è l’unico paese ad avere più caselle possibili. Scelte diverse per lingue diverse. I berberi hanno 4 scelte, gli arabi 7, chi viene dal Bengali 3, i cinesi 6 e così via. Si tratta di dialetti o variazioni della lingua base, dialetti che sono così diffusi da necessitare una casella a parte. Qui potete trovare uno degli elenchi che prevedono questo sistema di codificazione della prima lingua. Noterete che subito prima di Italian c’è Informazione non ottenuta, ovvero chi compila può tranquillamente omettere la lingua. Come potrete vedere ci sono 4 scelte (più una dedicata alla lingua sarda). Chi vuole può tranquillamente scegliere che parla come prima lingua italiano. Il fatto che ci siano altre scelte non condiziona questa possibilità, non è una schedatura etnica, solo un tentativo di capire quale sia la prima lingua dell’alunno. Alcuni di voi storceranno il naso, lo capisco, ma io stesso ho un amica nata in UK da genitori italiani che oggi conosce l’italiano perché l’ha imparato con corsi appositi, a casa sua si parlava solo dialetto (lei viene dalla Basilicata). Ci sono tantissimi nostri connazionali che a casa parlano solo e unicamente i dialetti delle loro zone di provenienza, e così i figli, magari nati in terra straniera, non sono in grado di parlare l’italiano, ma solo il dialetto di mamma e papà. Non c’è davvero nulla di così scandaloso, non se la stanno prendendo con i nostri emigranti, non c’è nessuna intenzione di schedare gli alunni, ma solo l’interesse a sapere quale sia la lingua principale parlata a casa. Sia chiaro, i nuovi quesiti per le ammissioni a scuola hanno infastidito anche alcuni britannici d’altra nazionalità, le lamentele sul web si sprecano. Ma è importante accettare che il nostro paese esporta anche italiani che all’estero, per non perdere le radici di casa, parlano solo nel loro dialetto regionale. Probabilmente il napoletano e un generico dialetto siciliano sono quelli più diffusi. Non ci trovo nulla di così scandaloso, non fosse che gli stessi britannici nello scrivere napoletan hanno commesso un errore, visto che la grafia corretta è neapolitan. Lo so che sembra incredibile, ma dobbiamo accettare che non tutti in Italia parlino l’italiano come prima lingua anche a casa, anche nel 2016. Non ci sarebbe nulla di male, difendere l’identità regionale è qualcosa a cui noi italiani teniamo molto, da sempre, non fosse che alcuni di questi genitori l’italiano se lo sono scordato da anni (se mai l’hanno saputo). Io però con gli inglesi a questo punto sono un po’ arrabbiato. Perché non hanno evidenziato anche il bolognese? Dopo le lamentele del nostro ambasciatore sembra che il governo inglese si sia scusato, alcuni usano la cosa come dimostrazione che fosse una schedatura e che l’articolo qui sopra non abbia senso. Se arrivati fin qua siete ancora di quell’opinione evidentemente non mi so spiegare bene. Resto fermamente convinto che la polemica nata su questa storia sia equivalente alla denuncia fatta dal sindaco di Amatrice contro Charlie Hebdo, un ulteriore via per farci prendere per i fondelli all’estero. La cosa che mi fa sorridere di più è che in altro contesto, pur di difendere l’ufficialità di questo o quel dialetto certi soggetti si sarebbero strappati le vesti.

Supera francese e tedesco: l'italiano è la quarta lingua più studiata al mondo. Dopo l'inglese, lo spagnolo e il cinese, l'italiano è la quarta lingua più studiata del pianeta. Il dato è stato comunicato durante gli Stati Generali della lingua italiana che si sono tenuti a Firenze, a Palazzo Medici Riccardi, organizzati dal Ministero degli Affari Esteri e dal Ministero dell'Istruzione. Arte, cultura e musica lirica sono parte fondamentale dell'interesse suscitato all'estero dall'italiano. Ma non manca l'appeal esercitato dal buon cibo e il made in Italy.

Tutti pazzi per l'italiano, è la quarta lingua più studiata, scrive Massimo Maugeri il 18 ottobre su "Agi". Quarta lingua più studiata nel mondo dopo l'inglese, lo spagnolo e il cinese. E in crescita esponenziale. L'italiano è sempre più amato e diffuso, e i numeri lo dimostrano: nel biennio 2015/16, oltre 400 mila studenti in più rispetto al biennio precedente, hanno iniziato a studiare la nostra lingua il cui appeal continua a essere legato alla passione per l'arte e la cultura. Negli ultimi anni tuttavia, una forte attrazione è esercitata anche dal Made in Italy in tutte le sue forme, dalla moda al design, fino al cibo e al vino. E lo studio della lingua di Dante è considerata da molti giovani stranieri anche un modo per trovare lavoro nei settori in cui l'Italia è ai primi posti, dal lusso all'enogastronomia. Un impulso "decisivo" alla diffusione della lingua sarà dato in futuro dai nuovi media. In base ai dati diffusi durante gli Stati generali della lingua italiana nel mondo, nell'anno scolastico 2014/2015 sono stati 2 milioni 233 mila 373 gli studenti stranieri di lingua italiana nel mondo. Un numero che gli esperti considerano "estremamente imponente" e che segna "un incremento notevole" rispetto al milione e 700 mila studenti del 2013/14 e al milione 522 mila dell'anno scolastico 2012/13. Secondo le statistiche, la maggioranza assoluta degli studenti di italiano nel mondo (il 55%) studia la nostra lingua a scuola, mentre 324.386 persone lo fanno contesti diversi da quelli scolastici. Circa 42 mila studenti stranieri hanno seguito corsi di italiano presso enti come la società Dante Alighieri o altre associazioni culturali. In crescita anche l'albo degli italofoni, il registro di tutti coloro che parlano la lingua italiana e si sono distinti in vari ambiti professionali, che ha registrato un incremento del 70% nell'ultimo biennio, raggiungendo quota 1.100 nominativi. Resta ferma invece la voce borse di studio: la direzione generale per la promozione del sistema Paese, nel biennio considerato, ha offerto borse di studio solo a 571 cittadini stranieri, pari a complessive 3.836 mensilità. Arte, cultura, letteratura, storia. Ma anche moda e design. Cambiano i fattori che secondo il rapporto stanno alimentando l'appeal della lingua italiana nel mondo da parte degli stranieri. Il nostro patrimonio artistico, architettonico, musicale e letterario resta la prima ragione per cui gli stranieri si avvicinano alla lingua italiana, ma ultimamente, rileva il documento degli Stati generali della lingua, nell'immaginario collettivo vengono associati all'Italia anche le eccellenze dal Made in Italy, come la moda, il cibo e il design. Si tratta, secondo gli esperti, di uno dei principali veicoli attraverso cui attrarre le nuove generazioni verso lo studio dell'italiano, anche con prospettive di lavoro e di business. In ambito europeo i Paesi che registrano una maggiore presenza di studenti di italiano sono la Francia e la Germania. Quest'ultima, in particolare, è il primo Paese al mondo per numero assoluto di studenti della nostra lingua. La maggior parte dei corsi di italiano in Germania si tiene soprattutto nelle Università popolari in cui si concentra l'88% degli studenti, grazie a tasse di iscrizione più basse e offerta di corsi e materiale in settori molto diversi. Anche in Francia il numero di studenti di italiano è in crescita costante, nell'anno 2014/15 sono stati oltre 270 mila. Stati Uniti e Australia sono i paesi anglofoni con il maggior numero di studenti di italiano. In Australia, in particolare, dove l'italiano è parte del patrimonio culturale ereditato dalla forte immigrazione di nostri connazionali, sono stati conclusi una serie di accordi per l'inserimento sistematico di corsi di italiano nei sistemi scolastici locali. L'italiano resta la seconda lingua più studiata e resiste all’assalto delle lingue asiatiche, soprattutto il cinese, che si sta espandendo in maniera molto forte. Negli Usa, l'italiano è la quarta lingua straniera più studiata, e gli Stati Uniti hanno il primato del Paese che ha il più alto numero di cattedre e di italiano e dipartimenti di italianistica nel mondo. Ad oggi negli Usa ci sono circa 50 dipartimenti di italianistica e circa 400 corsi di italiano a livello universitario. Crescono inoltre gli studenti americani che sono venuti a studiare in Italia: nell'ultimo biennio sono aumentati del 4,4% rispetto al biennio precedente. Negli Usa, in circa 800 scuole di ogni ordine e grado, l'italiano costituisce una parte dell'offerta curricolare. Il 60% di queste scuole si concentra sulla costa est, nella fascia Boston, New York, Philadelphia, Washington. Dopo l'inglese, lo spagnolo e il francese, l'italiano si contende con il giapponese, il coreano e il tedesco, il quarto posto tra le lingue più studiate in Cina. Il numero degli studenti di italiano è in crescita, emerge dai numeri diffusi dagli Stati generali, ma la presenza dell'italiano nel sistema scolastico cinese è praticamente nulla e in quello universitario è molto limitata: si registrano infatti solo 2.900 studenti circa, distribuiti nei 30 atenei cinesi che offrono corsi di italiano. Malgrado il forte legame culturale e l'immenso flusso migratorio che nel secolo scorso hanno caratterizzato il rapporto tra i due paesi, l'Argentina è solo il sesto paese al mondo per numero assoluto di studenti d'italiano, che rimane la terza lingua più studiata dopo inglese e francese. L'Argentina resta il paese in cui si registra la più significativa incidenza demografica e sociale di italiani, con oltre 900 mila italiani residenti, ma la popolazione più giovane, secondo il rapporto, sta perdendo interesse per la lingua degli avi emigrati e rinuncia a studiare l'italiano per la mancanza di eventuali sbocchi professionali che invece sono più facilitati dall'apprendimento di altre lingue. Migliora la situazione in Brasile invece: l'anno scorso, è stato concluso un memorandum d'intesa con il ministero dell'Istruzione brasiliano per aumentare i corsi di italiano a livello universitario. L'Albania è oggi il Paese più italianofono del mondo, dopo l'Italia. Grazie alla televisione. Il segnale terrestre che arrivava sugli apparecchi dei cittadini albanesi durante uno dei regimi socialisti più chiusi e isolati dell'ex blocco dell'Est, ha fatto sì che l'Italia si trasformasse in un modello culturale e linguistico di riferimento per gli albanesi. Ma paradossalmente la tecnologia ha bloccato questo fenomeno: il passaggio al digitale terrestre infatti ha interrotto questo canale e la conoscenza della lingua italiana da parte delle giovani generazioni di albanesi è molto meno diffusa che in passato. L'Albania rimane comunque il Paese con una maggiore presenza di studenti di italiano, in particolare nelle scuole locali. Tra i Paesi del Mediterraneo, Tunisia e Egitto sono quelli dove l'italiano si sta diffondendo di più. L'Egitto in particolare è il Paese col più alto numero assoluto di studenti italiani e dove la domanda di insegnamento dell'italiano come seconda lingua, dopo l'inglese, sta crescendo in maniera più veloce. In Tunisia, dal 1989, la lingua italiana è inserita come terza lingua opzionale, (dopo francese, considerata lingua madre, e inglese) in tutti i licei del Paese. I giovani si avvicinano ai prodotti 'lingua-cultura-economia-società italiana', sempre di più attraverso i nuovi media. Moltissime aree del mondo un tempo non raggiunte dall'offerta culturale italiana e dal suo 'fascino', oggi sono invece a portata di mano. Dunque, secondo la gran parte degli esperti, la nuova sfida è quella di riuscire a veicolare il prodotto Italia e la sua lingua attraverso canali di comunicazione del tutto nuovi, a cominciare dai social media. Ma per fare questo servono due cose: "Una strategia politica e istituzionale che promuova i contenuti in italiano sul web" e "un più pieno e consapevole coinvolgimento del sistema imprenditoriale". L'invito è a creare piattaforme condivise tra le imprese italiane impegnate nei processi di internazionalizzazione e i soggetti che operano per diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo. Il futuro della lingua italiana e dello stesso sistema Paese, passa per una linea rossa che unisce economia, cultura e diffusione digitale. (AGI) 

Bellezze dell’italiano. La quarta lingua più studiata al mondo, scrive Simona Maggiorelli il 19 ottobre 2016 su "Left". Mentre la Lega pretende che si insegni il dialetto “lombardo” a scuola, l’italiano si prende una bella rivincita. Oggi è al quarto posto fra le lingue più studiate al mondo dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese.  Nella Giornata ProGrammatica di Radio3 il 19 ottobre tutto il palinsesto è dedicato all’italiano, con decine di ospiti e il coinvolgimento di Istituti di cultura italiana.  Ecco cosa ha detto il linguista Antonelli a Left: La lingua lombarda rischia di estinguersi. Armata di questa convinzione la Lega Nord torna a voler imporre l’insegnamento della lingua lombarda nelle scuole. «Non ha proprio senso insegnare i dialetti», dice però il linguista Giuseppe Antonelli. «Il dialetto è sempre stato la lingua degli affetti, della vita quotidiana», spiega il docente dell’università di Cassino e autore de La lingua batte ogni domenica su Radio 3. «E poi non è vero che i dialetti vadano scomparendo. Una ricerca Istat dice che sono molto vivi. Mentre sono scesi al 2 % gli italiani che parlano solo il dialetto». Una conquista importante. «La grammatica italiana è un diritto», scriveva Gramsci. E gli italiani lo hanno conquistato a fatica, come si evince dalle prove di italiano per l’iscrizione alle liste elettorali che Antonelli cita nel suo nuovo Un italiano vero. La lingua in cui viviamo (Rizzoli). «In tempi di email e social network è più che mai importante studiare l’italiano scritto» aggiunge il conduttore della IV edizione della Giornata pro-grammatica in onda su Radio3. «Per gran parte degli italiani il diletto rappresenta la dimensione familiare, giocosa, colorita. Pasolini, che preconizzava un italiano tecnocratico e freddo, aveva paura che la perdessimo». È accaduto invece che l’italiano è andato incontro a nuove sfide. «Non basta parlarlo, bisogna saperlo scrivere, in modo diverso, dagli sms. Per questo servono più ore di italiano a scuola, invitando alla lettura di romanzi e poesia». Anche il linguista e critico letterario Gian Luigi Beccaria dice, da sempre, che non avrebbe senso studiare i dialetti in classe. «E poi quali? Il lombardo non esiste. Dovremo insegnare il bergamasco, il piacentino, il milanese? Il torinese o il biellese o il langarolo? I dialetti sono moltissimi ed è la nostra grande ricchezza. In dialetto si possono scrivere poesie, c’è un’ampia tradizione da Raffaello Baldini a Zanzotto, ma non per questo possiamo fare a meno dell’italiano», commenta il professore emerito dell’università di Torino, autore di molti saggi, di un dizionario di linguistica e filologia e ora dell’italiano che resta (Einaudi), un appassionato viaggio nella lingua come organismo vivo, in continuo cambiamento. Un libro di ricerca, ricchissimo di informazioni, che trasmette l’emozione della scoperta di parole nuove ma anche di perle ormai desuete. Si scopre così che tantissime espressioni dialettali innervano già l’italiano, che nel corso dei secoli ha mutuato termini da una pluralità di lingue antiche. Non solo dal latino. I prestiti dal latino liturgico vanno scomparendo in una società che oggi è sempre più secolarizzata, come ha documentato Beccaria in libri come Sicuterat, il latino di chi non lo sa e dedicati a santi, demoni e folletti. Molti sono i termini venuti dal greco antico e di uso quotidiano. «L’italiano attuale deve molto al greco» sostiene Antonelli. «Secondo il dizionario di Tullio De Mauro più del 2 % delle parole italiane hanno un etimo greco, non solo termini specialistici, ma anche parole di uso comune come atmosfera, entusiasmo, fase, sintomo ecc.». Ancor più interessante è scoprire la quantità di termini arabi che l’italiano ha assorbito, passando attraverso il dialetto veneziano e quello siciliano. A questo tema Beccaria dedica una parte del suo nuovo libro. Solo per citare un esempio: zecchino nasce dalla Zecca veneziana dal 1540. E zecca è un arabismo. «L’importanza dell’arabo è stata enorme nella nostra storia. Anche se oggi, purtroppo, il mondo musulmano ci offre parole legate ai conflitti, alla guerra, al Jihad ma non è sempre stato così», dice Beccaria a Left. «L’arabo nel medioevo, e anche in seguito, ci ha dato una quantità enorme di parole. Trasformarono la Sicilia in un giardino d’Europa. Lo stesso fecero in Andalusia. Parole come arancio, zucchero carciofo, albicocca, limone sono arabe. E tante vengono dall’ambito della scienza, dell’astronomia, all’algebra ecc. I latini e i greci non avevano una parola e un concetto per indicare lo zero, il nulla, il vuoto. L’uso dello zero nell’espressione dei numeri viene dagli arabi. Ci hanno veramente arricchito di parole e di cultura». «C’è una originaria vicinanza fra la cultura araba e la nostra lingua continua a recarne traccia», aggiunge Antonelli. Prima di parlare di scontro fra culture, dovremmo avere consapevolezza di quanto noi gli dobbiamo anche in termini linguistici». Basta camminare nella parte più antica di Palermo per notare nomi di strade scritti in arabo ed ebraico. Ma si possono vedere anche interni di palazzi, come la misteriosa sala blu, decorati con calligrafie arabe. Per il linguista rivelatori sono gli antichi nomi delle strade che spesso indicano nomi o lavori scomparsi. Anche i graffiti, le scritte sui muri, di cui Pompei era piena, sono tracce preziose, al pari dei testi letterari. Come insegna Beccaria che ne fa uno strumento affascinante di ricerca, insieme a canti anarchici e della resistenza, filastrocche trasmesse di generazione in generazione. La tradizione orale permette di capire molto di come è mutato l’italiano soprattutto in anni più vicini a noi. Più rare e fortunose sono le scoperte di documenti antichi. Ma a volte sono straordinarie come quella avvenuta qualche anno fa nell’archivio di Stato di Roma grazie al linguista Pietro Trifone. Nel borgo di Collevecchio, Bellezze Ursini si manteneva facendo la domestica e la guaritrice, un’attività “mal vista” dalla Chiesa. Nel 1527 fu accusata di stregoneria e torturata. Stremata, scrisse una confessione autografa. Che non servì a niente. Prima di finire sul rogo, preferì suicidarsi. Quelle sue otto paginette ci dicono molto di un italiano popolare allora ancora in fieri, racconta Giuseppe Antonelli. «Ci dicono che nella campagna romana ci poteva essere, agli inizi del ‘500, una donna, una popolana, che sapeva scrivere». Colpisce anche la trascrizione ufficiale che ne fece il notaio Luca Antonio, normalizzando il linguaggio della donna per farle dire ciò che ci si sarebbe aspettati da una “strega”. «Quel modo di tradurre la grammatica di Bellezze in quella del potere mette bene in luce il confronto/scontro tra due mondi sociali e culturali di cui la lingua è al tempo stesso spia e strumento. Emerge la lotta, poi durata secoli, con la lingua ufficiale da parte di persone che invece venivano da situazioni socioculturali meno avvantaggiate», approfondisce Antonelli. Quel 1527, l’anno del sacco di Roma «fu anche un momento di svolta per l’italiano». Nonostante il dominio della Chiesa e il latino liturgico, il volgare si presentava come una lingua fluida, duttile, rivendicata da artisti come Leonardo che si definiva con orgoglio «omo sanza lettere», snobbando i latinisti tromboni. Ma proprio mentre si diffondeva un volgare vivo e popolare (fra romanzi, leggende e grammatiche) nel 1525 Pietro Bembo pubblicò Le prose della volgar lingua. «L’umanista veneziano fu rigidissimo nel prescrivere forme riconducibili al modello di Petrarca e di Boccaccio». Così se Dante e il fiorino, ovvero la potenza economica dei mercanti toscani, «avevano contribuito alla diffusione del fiorentino come lingua di prestigio, tutto questo fu formalizzato dall’umanista veneziano», risponde Antonelli alla nostra domanda sulla discussa egemonia del fiorentino. «Nel 1525 Bembo indicò come modello per la lingua letteraria che oggi chiamiamo italiano quello usato da Boccaccio per la prosa e da Petrarca per la poesia». Quanto a Dante, «Bembo lo teneva un po’ fuori, giudicava il suo fiorentino troppo plebeo e concreto. Da studioso che amava le lingue morte come il latino, Bembo scelse una lingua che all’epoca era già estinta da due secoli». Dando origine così a una lingua letteraria, «basata sugli eccellenti scrittori» protetta dai puristi, anche quelli di fede giacobina, e deprecata da Mazzini che non sopportava di rivestire il pensiero «della lingua de’ morti e d’uno stile pedantesco». Del tutto nuova fu la posizione di Leopardi, al quale – seppur da differenti punti di vista- entrambi gli studiosi che abbiamo interpellato dedicano uno spazio di rilievo nei loro libri. «Leopardi era un amante della tradizione letteraria italiana, era un grande conoscitore della letteratura delle origini, ma non era un purista», spiega Antonelli. «Aveva un’idea della lingua come qualcosa di vivo, ne ammetteva la libertà. Mentre in tanti lottavano contro i francesismi lui li chiamava europeismi. E li considerava, come i grecismi, un patrimonio comune alle varie lingue d’Europa». Anche per liberare il poeta di Recanati da una mitizzazione che lo allontana dai lettori, Giuseppe Antonelli ha scritto il saggio Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014). «L’autore delle Operette morali era un raffinato, un fine conoscitore della nostra lingua, sapeva usare registri e toni diversi, passando dalla poesia ai saggi, alle lettere. Quando scriveva agli amici per sfogarsi di un amore non corrisposto o di un insuccesso letterario si lasciava andare. Era capace di passare dal sublime a uno stile concreto, a seconda dell’interlocutore. Tutto questo – ribadisce Antonelli – può avvenire solo si conosce profondamente la lingua, le sfumature le differenze di registro, di costrutto». Ad incipit di Un italiano vero cita, non a caso, un passo dello Zibaldone: «La libertà nella lingua- scriveva Giacomo Leopardi – dee venire dalla perfetta scienza e non dall’ignoranza». Come poeta Leopardi sceglieva le parole per il suo no, ma usando la parola scienza sembrava alludere anche di una scelta legata a una ricerca di conoscenza. «Interessante è ciò che emerge studiando le minute di Leopardi e osservando le varianti» commenta Beccaria con sguardo da filologo. «Nel libro parlo di Giorgio Caproni e di altri autori ma Leopardi è il principe dei poeti. Studiando le “sudate carte”, gli scartafacci, emerge il suo lavorio continuo, e ci permette di vedere la direzione che voleva prendere», commenta Gian Luigi Beccaria, che nel libro, per esempio, pone l’accento su cambiamenti come il passaggio da «infinito spazio», quasi una citazione galileiana, a «infiniti spazi». «Al singolare Leopardi preferisce un plurale, perché è più “astratto”. È un poeta che cerca il vago e il concreto insieme, riuscendo a conciliare le due cose. Ha un dono particolare: saper orchestrare la sua partitura, i suoni delle vocali, i rimandi, le assonanze interne, le consonanze, c’è una musica interna. È come un musicista che cerca l’intonazione».

Italiano lingua morta. In partenza per l’America, Renzi fa tappa a Firenze per difendere e rilanciare la lingua italiana. In dieci minuti di discorso riesce ad elogiare contemporaneamente la lingua di Dante e la globalizzazione, sua mortale nemica, scrive Alessio Sani il 19 ottobre 2016 su "L'Intellettuale Dissidente". Ci sono cose che è difficile credere di poter vedere nell’arco di una vita, eppure una di queste è davanti agli occhi di tutti noi: il Pd è riuscito a partorire un premier nazional-popolare. Matteo Renzi infatti, prima di imbarcarsi per l’ultima cena di Stato obamiana, ha fatto tappa nella sua Firenze per inaugurare il convegno “Gli Stati Generali della Lingua Italiana nel mondo”, due giorni di incontri e studi sullo stato di salute della nostra lingua. Dietro al buon Matteo, nella splendida cornice di Palazzo Vecchio, campeggiava il titolo del convegno: “Italiano lingua viva”. Solitamente, quando si sente il bisogno di riaffermare ciò che fino a ieri si considerava un’ovvietà è bene porsi qualche domanda. In questo caso se l’italiano non sia piuttosto, nonostante gli sforzi retorici del premier e degli altri relatori, una lingua ormai morta o, perlomeno, prossima alla dipartita. L’ultra-fiorentinismo del governo si scorda che l’italiano nasce in Sicilia. Lo stesso Renzi, fiorentino doc, uno che col volgare ci sa fare, è probabilmente uno dei sintomi del grave stato di debilitazione di cui soffre la lingua di Dante. Nei dieci minuti in cui ha tenuto il palco, scherzandoci sopra, il premier ha infilato un paio di anglicismi. Il più grottesco è stato prontamente ripreso da un quotidiano sempre in prima linea in queste cose, Repubblica, che ha titolato: - Lingua italiana, Renzi: “Serve una gigantesca scommessa sul made in Italy”-. Qualcosa, onestamente, laggiù da qualche parte, non ha retto alla forza dell’ossimoro ed ha cominciato a rotolare. Queste sono tuttavia piccolezze. Si può scusare un quotidiano d’impronta estremista (chiaramente liberal), un po’ meno chi ha la faccia tosta di parlare di difesa dell’italiano e poi chiama un documento ufficiale dello Stato “Jobs Act”, quando fino a ieri era il parlamento inglese ad arrogarsi il diritto di scrivere leggi nella propria lingua madre. Miracoli della globalizzazione. Proprio il grande nemico di questi tempi, l’omogeneizzazione economia e dunque culturale del pianeta per interposto libero mercato, rende subito evidente il paradosso del Renzi-pensiero versione Palazzo Vecchio. In politica, perlomeno se si vuol provare a farla seriamente, sarebbe opportuno dotarsi di una ferrea coerenza logica, se non di prassi almeno di pensiero. Quando vengono partorite dal medesimo cervello, le varie idee ed opinioni che riguardano gli innumerevoli argomenti che sfiorano la categoria del politico dovrebbero potersi concatenare l’una all’altra, logicamente, fino a chiudere il cerchio. Avere un pensiero organico purtroppo però è molto difficile e spesso non paga. Generalmente è più facile inseguire consensi colpendo a casaccio, sparando fotogrammi di presunta attività neuronale qua e là in un balenar di telecamere. Così Renzi ha deciso di dar prova della buona formazione liceale di chi gli scrive i testi, scherzando su Dante e referendum, facendo sua una battaglia che potrebbe impressionare positivamente le casalinghe di Voghera superstiti. Eppure quei dieci minuti di palco sono stati un concentrato di anacronismi. Affastellando luoghi comuni in un processo di contaminazione materialista di un discorso prevalentemente culturale, il Premier si è doluto dell’incapacità italiana di sfruttare il fascino, anche linguistico, dei nostri stereotipi positivi artistico-estetici per esportare di più. Questo il succo: l’italiano e l’Italia hanno ancora appeal, siamo la patria del bello, non facciamoci fregare da chi chiama parmesan il parmigiano tarocco e rilanciamo, attraverso la nostra immagine all’estero, i nostri settori di punta. Tutto questo, chiaramente, all’interno del campo di gioco predefinito: la globalizzazione neoliberista. Eppure alcune riflessioni sorgono spontanee. Da un punto di vista strettamente linguistico “parmesan” è un successo: abbiamo esportato un nuovo termine dopo “pizza”, anche se gli incassi non vengono in Italia. O dovremmo forse incazzarci con qualunque non italiano che chiami “pizzeria” il suo ristorante di Nuova Delhi? Nell’ottica di fondo del Premier, l’Italiano diventerebbe la lingua globale della moda e dell’agro-alimentare, anglicizzato e storpiato, ma non sarebbe certo più vivo. La contraddizione profonda infatti è nell’ambivalenza intima del convegno e del premier: difendere l’Italiano e la globalizzazione contemporaneamente è impossibile. Ad un certo punto Renzi dà la sua personalissima definizione di globalizzazione, unita ad una dichiarazione d’intenti: “cornice culturale internazionale in cui l’Italia sia nelle condizioni di essere elemento di attrazione, […] di richiamo, […] di bellezza”. Ecco, forse qualcuno dovrebbe far notare al premier che la globalizzazione non è inter-nazionale, quello era il mondo pre-seconda guerra mondiale, in parte anche post fino alla caduta del muro di Berlino. La globalizzazione è sovra-nazionale, dunque non prevede le nazioni. Vediamo di fare un paragone semplice. Qualcuno disse che la storia si ripete sempre due volte, la seconda in farsa. Non è così semplice, ma è vero che spesso sono esistiti micro-cosmi in grado di anticipare dinamiche e fenomeni che si sarebbero poi ripetuti simili su scala più ampia. Uno ce l’abbiamo in casa. Quando i nostri avi fecero l’Italia erano alquanto stufi della precedente “cornice culturale internazionale”, quella sì tale, cioè la difficile convivenza tra staterelli di piccola dimensione e ancor minore potenza. Così, al di là delle belle speranze federaliste di Cattaneo o del Gioberti, fecero una micro-globalizzazione intramoenia e la chiamarono Italia. Le piccole realtà territoriali e dunque culturali precedenti piano piano scomparvero. I dialetti rimasero fino all’avvento della scolarizzazione di massa e della televisione. Oggi sopravvivono nelle nostre riserve indiane, nello Strapaese dei borghi di montagna, al Sud, in qualche nicchia ben protetta, ma per quanto ancora? Il declino è innegabile, da lingue vivissime sono ormai diventati fantasmi di un passato lontano. Qualcosa di simile, si può prevedere, avverrà all’italiano perché non di ordine tra nazioni si tratta, ma dell’uccisione delle medesime e dunque della loro espressione massima, la lingua.  Una seconda contraddizione evidente nel discorso del premier è quella giustamente esposta da Bartezzaghi sul Tirreno: “Una lingua è tanto più forte quante più sono le cose che si possono dire solo in quella lingua, e che in quella lingua sono nate: vestiti, brevetti industriali, libri, musiche, canzoni, film, pietanze. Più cose nascono in italiano, più l’italiano verrà adottato come lingua d’affezione all’estero.” Il secondo numero del Bestiario intitolato “Italianity” (illustrazione di Mario Damiano) raccontava ai lettori come il governo ha trasformato l’identità italiana in un brand, snaturandola completamente. In soldoni: una lingua è viva quando è espressione di una società curiosa, attiva, intraprendente, insomma vitale. Quando ha il proprio baricentro all’interno di sé stessa e può guardare al mondo, quando inventa e crea, invece di assorbire solamente. Dal momento in cui decreti una battaglia di retroguardia, stai difendendo chi è prossimo al trapasso. E l’Italia di oggi è sull’orlo del baratro. Forse un’altra Italia, o più propriamente qualcosa d’altro, di più o meno simile, rinasceranno in questo lembo di terra che si inabissa nel Mediterraneo, ma non sarà più ciò che oggi conosciamo con tale nome. Per tornare al parmigiano, ha senso fare gli schizzinosi quando ormai i casari sono tutti immigrati indiani perché gli autoctoni o non sono nati o hanno preferito andare a far kebab a Londra? Se non altro il lascito della tradizione, il nome, si è trasmesso, visto che perfino i tarocchi cinesi lo utilizzano storpiato. Ma quella tradizione da cui è nato è morente e, soprattutto, non è stata sostituita da una qualche innovazione. Non possiamo fermarci ad un formaggio lodato già da Plinio e lamentarci per una questione di brevetti tardo-imperiali. Non sarà il parmigiano a salvare l’italiano quando praticamente la totalità della produzione letteraria accademica è in lingua inglese. Non lo salveranno neanche le cinquantaquattro app per insegnarlo ai cinesi, così che possano scrivere parmigiano giusto, se nelle nostre università teniamo interi corsi in inglese. Abbiamo donato al mondo il lascito di praticamente tutta la terminologia musicale classica. Quanta musica di qualità produciamo oggi? Quante serie televisive? Quanti film di spessore, quanti romanzi? Se guardiamo alla sfida del presente invece, all’informatica, lo scenario è ancora più tetro. Possiamo discutere su quanto abbia senso la battaglia, ugualmente di retroguardia, giocata da spagnoli e francesi tra un ratòn ed un ordinateur, ma almeno loro ci hanno provato ad appropriarsi di quei concetti, noi no. Figuriamoci proporne uno nuovo, quando migliaia di giovani ben formati scappano ogni anno verso la Silicon Valley. Qualcuno dovrebbe dire a Renzi che là non si parla la lingua di Dante. Non produciamo più concetti originali e non potrebbe essere altrimenti. Già tentennanti nell’identità (perché quando si parla di lingua fondamentalmente si entra anche nel campo delle identità collettive) non abbiamo retto l’urto proprio con “la grande opportunità” (citazione dello stesso discorso del premier) della globalizzazione. Assaltati da telefilm e soap-opera, rigorosamente tradotte per carità, ma certamente non nostre; invasi da prodotti, più o meno tecnologici, la cui origine non si trova certo tra il Resegone e il lago di Como; seguaci di volta in volta della moda orientale od americana di turno, dallo yoga al pilates, abbiamo perduto noi stessi prima ancora della nostra lingua. Non è con le battaglie di retroguardia, difendendo il passato, che i nostri nipoti saranno ancora in grado di leggere la Divina Commedia. Per essere lingua viva, l’Italiano ha bisogno dell’Italia. Peccato che sia scomparsa, un pezzetto a Londra, uno a New York, uno chissà dove. Quando Amerigo Vespucci nomò l’America, per interposto cartografo tedesco, l’Italia politica era lungi da farsi, ma la società italiana era ancora ben vitale, era ancora il centro di sé stessa. Oggi è una nave alla deriva, in gran tempesta, con Renzi come nocchiere.

No, la lingua italiana non è sessista: ci sono il maschile e il femminile. Cominciate a usarli. Le petizioni (a scopi promozionali) lanciate per modificare regole grammaticali non hanno senso. Piuttosto utilizziamo parole come assessora o sindaca. Anche se ci sembrano "brutte". Segnalateci nei commenti gli usi impropri della lingua con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 20 febbraio 2017 su "L'Espresso".

In italiano, le parole sono maschili o femminili. Non è sessismo, è che la nostra lingua è strutturata così. Il nostro “papà” latino aveva anche il genere neutro, che indicava solitamente gli oggetti e talvolta i concetti astratti. In effetti, se ci pensate, è illogico che gli oggetti in italiano siano considerati maschi o femmine. Non c'è alcun reale motivo per cui il pane sia maschio ma la pagnotta sia femmina, e lo stesso si può dire per il tavolo e la scrivania. Fatto sta che, nel gran bailamme dei secoli bui e delle invasioni barbariche, il genere neutro si è perso, come la toga e il latino, e la lingua parlata in seguito, cioè quello che poi è diventato il nostro italiano, non ha conservato il genere neutro. Mai, in nessun caso. Il fatto che non esista un genere neutro non trasforma automaticamente l'italiano in una lingua sessista, o poco adatta alla modernità. Se alcune parole erano un tempo solo maschili, perché, per esempio, indicavano mestieri svolti unicamente da uomini, la nostra lingua ha in sé già anche le regole per creare dei femminili. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso. Per esempio tutti i nomi che finiscono per -o al maschile, al femminile fanno regolarmente la desinenza femminile in -a. Quindi, per tornare su un argomento che negli ultimi mesi ha infervorato le folle, il femminile di sindaco è regolarmente sindaca, di avvocato è avvocata, di ministro è ministra, esattamente come il femminile di maestro è maestra e di segretario è segretaria. Anche i nomi che fanno il singolare maschile in -e fanno il singolare femminile in -a. Nessuno si è mai scandalizzato perché da infermiere è venuto fuori infermiera, quindi mi sfugge il dramma di chi non ammette assessora. Alcuni lamentano che assessora, ministra e sindaca sarebbero “brutti”. Ma la lingua non ragiona per criteri estetici, ed è anche piuttosto curioso che poi chi non vuole usare sindaca magari usi normalmente ottimizzare, randomizzare, input e altri termini che proprio meravigliosamente musicali non sono. In realtà ministra, sindaca o altri nomi femminili non sono nemmeno particolarmente brutti, solo che non siamo abituati a sentirli usare e ci sembrano strani. Ma la lingua delle nostre fisime, per fortuna, se ne frega. Se allora si dice sindaca obbiettano alcuni, dovrei dire anche piloto? No. Pilota è già maschile. Esistono infatti in italiano (come esistevano in latino e in greco e in talune lingue germaniche) anche dei nomi maschili che hanno la desinenza in -a. Poeta e pilota non sono e non sono mai stati femminili, ma dei maschili regolarissimi. Quindi non ha senso pretendere di dire piloto per indicare un pilota maschio. È già maschio di suo. Essendo termini in -a semmai è più facile volgerli al femminile, perché restano invariati. Si dice il pilota (maschio) e la pilota (femmina) quando chi conduce un mezzo è una gentile signora. La sentinella e la guardia vanno bene per entrambi, ed indicano qualcuno che, maschio o femmina, sta di vedetta (che copre maschio e femmina). Entrambi probabilmente fanno la guerra, altro termine femminile anche se per secoli è stata fatta quasi sempre da soli maschi. Per lo stesso motivo Andrea in italiano è un nome maschile anche se termina in -a (come Enea, Elia, Luca). Negli ultimi anni ci sono anche fanciulle che vengono chiamate Andrea, ma per influsso del tedesco, dove Andrea è un nome femminile (e il maschile è Andreas). Il problema del maschile e del femminile che rischiano di essere sessisti (è infatti antipatico che una donna debba fare il “sindaco” solo al maschile, come se non fosse concepibile che questa carica sia affidata ad una signora) si riscontra però solo nei nomi di cariche e professioni. Non ha senso dire che chiamare la scrivania così è sessismo perché è un femminile. Il genere degli oggetti è stato infatti attribuito loro in maniera arbitraria. La padella è femminile, ma il paiolo è maschile, la penna è femminile ma il pennarello e l'evidenziatore sono maschili. Stesso ragionamento vale per i termini astratti: amore è maschile ma bellezza è femminile, come virtù e scienza.

La campagna commerciale per introdurre il neutro. Non è discriminatorio usare amore come termine al maschile, anche perché amore copre tutta una serie di possibilità: può essere amore fra un uomo e una donna, fra due donne, fra due uomini, fra madre e figlio, padre e figlia, genitori e figli, e chi più ne ha più ne metta. Non c'è quindi nulla di discriminante, così come la bellezza copre bellezza femminile e maschile, la scienza è fatta da scienziati e scienziate, la virtù può essere praticata da chiunque. In nessun caso si può proporre, per legge o con una petizione, di inventare in italiano un fantomatico “genere neutro”. Non esiste. Non sapremmo nemmeno come inventarlo. La nostra lingua non lo prevede e di certo non si può imporre per decreto. Per altro, non si capisce nemmeno chi dovrebbe imporre questo uso: il Governo? Il Parlamento? I generi e nemmeno le parole si possono imporre per decreto. Nascono e poi si diffondono, la gente li usa o non li usa e non c'è nulla che possa cambiare questo fatto. Gli istituti come l'Accademia della Crusca, al massimo, dopo un po', possono certificare la diffusione e l'uso di determinate parole o frasi o espressioni idiomatiche, ma non certo costringere la gente a servirsene. Quindi sì, l'italiano è una lingua strutturata con parole che sono o maschili o femminili. Questo non ci obbliga però a costruire una società italiana sessista, in cui maschi e femmine abbiano dei ruoli predeterminati. Quando ci servono parole nuove per indicare professioni svolte da maschi e femmine, semplicemente si inventano o si volgono quelle che già abbiamo al femminile o al maschile. Non è neppure necessario costruire a tavolino un genere, il neutro, che è stato eliminato dall'evoluzione naturale della nostra lingua, e riesumarlo artificialmente non avrebbe gran senso. Usiamo la grammatica che abbiamo già. Funziona benissimo anche per affrontare le sfide del mondo moderno.

Per piacere, impariamo a usare la virgola. La punteggiatura non è un gesto casuale che si sparpaglia come petali di rosa: serve eccome. E se usata male può addirittura cambiare il senso delle frasi. Con risultati imprevedibili. Seconda pillola di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 febbraio 2017 su "L'Espresso". Fra i misteri italiani, la punteggiatura se la gioca alla pari con i grandi enigmi della Storia repubblicana, e qualche volta li batte. Per la maggioranza delle persone risulta più semplice cercare di risolvere il problema degli intrecci Stato-Mafia che capire dove diavolo vada messa la virgola in una frase. I più optano per una soluzione casuale, cioè seminano i segni di punteggiatura come petali di rose: dove cascano, cascano e amen. In realtà la punteggiatura è in parte così difficile da capire perché entro certi limiti è soggettiva. Il suo compito è infatti rendere il flusso dei pensieri dell'autore e spiegare a chi li vede scritti con che ritmo vadano letti. Siccome il ritmo che voglio dare alle mie frasi è personale, anche la punteggiatura in parte lo è. Alcune regole però ci sono, e vanno il più possibile rispettate. La prima è che la punteggiatura ci vuole. I flussi di coscienza che si spandono per pagine e pagine è meglio lasciarli a Joyce, o limitarli alle pagine di narrativa, e anche lì vanno usati con maestria e moderazione. Se non siete Joyce e non state scrivendo l’Ulisse, ma una semplice lettera di reclamo al Sindaco perché vi spostino da davanti casa un cassonetto della spazzatura, per piacere, usate i punti e le virgole. Lo scrivente vi sarà grato e magari sposterà il cassonetto davvero. La virgola serve ad indicare che leggendo si deve fare una piccola pausa fra un pezzo della frase e l'altro. Dice al lettore dove prendere fiato, quindi ogni tanto mettetene una, se non volete sulla coscienza un lettore morto di apnea. La virgola si usa di regola quando faccio una lista: Sono andato al mercato e ho comprato pane, latte, zucchero. Se la lista la state facendo su un post it da lasciare attaccato alla porta del frigo, lì è concesso saltare le virgole. Se mettere le virgole anche nei post it attaccati al frigo, siete probabilmente un Accademico della Crusca. Altro caso in cui è obbligatorio usare la virgola è dopo il nome di qualcuno che viene chiamato o evocato: Mario, passami il sale! Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? In questo caso Mario e Dio non sono il soggetto della frase, ma un complemento di vocazione, che indica il nome della persona chiamata (vocare in latino significa chiamare, appunto), e siccome dopo il nome viene fatta una pausa (Mario || passami il sale!) la virgola la segnala. Non si deve mai, mai, mai (ho già detto mai? Lo ripeto: mai!) usare la virgola per separare invece il soggetto dal suo verbo o il verbo dal suo complemento oggetto. Se scrivete frasi come: Mario, va a scuola o Dio ha creato, il mondo l'Accademico della Crusca di cui parlavamo sopra (quello che mette le virgole anche nei post it) viene a casa vostra di persona per bacchettarvi le dita. Le virgole sono anche usate per separare le frasi all'interno del periodo. Di regola andrebbero messe prima di una coordinata avversativa (quelle frasi che iniziano con ma, tuttavia, però): Ti ho cercato a casa, ma non c'eri. Non ho finito ancora il libro, tuttavia le pagine lette mi piacciono. Sono molto stanco, però voglio andare al cinema lo stesso. Le virgole possono anche essere usate in coppia, come le parentesi, per indicare una frase che in teoria può essere tolta dal testo senza che questo soffra particolarmente. Queste frasi si chiamano incisi: Questo, come vedi, è lo stato dei fatti. Questa casa, se proprio lo vuoi sapere, sarà messa in vendita presto. Non è questo, a mio modesto avviso, il modo di parlare a tua madre. Le virgole, anche se non sembra, sono piccole ma sensibili. Non abbandonatele in mezzo ai periodi e non lasciatele da sole a vagare per le vostre frasi. Si possono vendicare in maniere terribili e impreviste. La frase: Vengo a mangiare, nonna! vi dipinge come premuroso nipote che va a visitare una parente anziana. La stessa frase senza virgola: Vengo a mangiare nonna! vi indica invece come un pericoloso cannibale epigono di Hannibal Lecter. Quindi occhio alle virgole, se non volete passare per sterminatori di vecchiette.

No, non possiamo mandare in pensione il punto e virgola. È spesso simile ad uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi in casa e non sai bene a cosa servano: quando lo hai visto reclamizzato in una televendita in tv hai pensato che dovevi assolutamente averlo, ma poi non sai mai cosa fartene di preciso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 marzo 2017 su "L'Espresso". Uno spettro si aggira per l'Europa. Ok, magari per l'Europa no, ma per le pagine della letteratura europea e mondiale sì. È il punto e virgola. Il punto e virgola è spesso simile ad uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi in casa e non sai bene a cosa servano: quando lo hai visto reclamizzato in una televendita in tv hai pensato che dovevi assolutamente averlo, ma poi non sai mai cosa fartene di preciso. Molti pensano che la punteggiatura sia un segno grafico, invece va pensata più come una notazione musicale. Come sullo spartito ci sono note e pause, perché nella musica è necessario che i ci siano dei momenti di silenzio, anche quando si scrive i punti, le virgole e gli altri segni di punteggiatura servono a segnalare le pause. Ora, mettiamola così: il punto è una pausa lunga. Se è un punto-e-basta, quello che mettiamo alla fine di un paragrafo o di un capitolo, diciamo che dopo di lui contiamo fino a quattro prima di ricominciare a leggere. Il punto che invece separa le frasi nel mezzo di un paragrafo dovrebbe essere giusto giusto un pochino più breve, quindi diciamo che dopo di lui contiamo fino a tre. La virgola vale uno, perché è solo una piccola pausa fra due parole o frasi. Il nostro punto e virgola sta in mezzo. In pratica è più lungo di una virgola ma più breve di un punto. Al contrario di molti altri segni di punteggiatura, l'uso del punto e virgola è abbastanza personale. In realtà si può scrivere una intera vita senza sentire il bisogno di usarlo mai. Un gran “puntevirgolista” era Alessandro Manzoni: nei Promessi Sposi si incappa in punti e virgola come se piovessero, tutti messi ovviamente in maniera meravigliosa. Agli amanti della punteggiatura, diciamolo, i Promessi Sposi regalano vere e proprie estasi di goduria. Nell'italiano più recente i periodi lunghi non godono di grandi fortune, e quindi il povero punto e virgola non ha più il successo di un tempo, tanto che molti ne pronosticano l'estinzione. Restano due casi in cui è obbligatorio usarlo. Il primo caso è quello in cui scrivo un elenco puntato di cose da fare. In quel caso, alla fine di ogni voce dell'elenco devo mettere un punto e virgola, e solo all'ultima voce, quando concludo l'elenco, devo mettere il punto.

Esempio: Domani devo:

comprare il latte;

ritirare le camicie in lavanderia;

scrivere il pezzo per l'Espresso.

L'altro caso in cui il punto e virgola è assolutamente necessario è quando voglio fare l'emoticon che fa l'occhiolino, ovvero questa qua: ;) Ora capite bene che, almeno per preservare l'emoticon, il punto e virgola non può e non deve essere mandato in pensione.

... a cosa servono i puntini di sospensione. Sono solo tre. Non due, non cento. E hanno una funzione ben precisa: quella di sospendere il racconto. Ma in troppi li usano a sproposito, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 27 febbraio 2017 su "L'Espresso". Sono una specie di epidemia. Un morbo che si diffonde e attacca anche chi pensavi ne fosse immune. Diplomati, laureati, gente che ha passato anni e anni nelle aule scolastiche e quindi dovrebbe avere ben chiari i fondamentali per scrivere un testo. Invece no: riempiono i loro scritti di puntini di sospensione al posto di punti o virgole. I puntini di sospensione, in italiano, si usano quando si vuole lasciare intendere che una lista o un discorso continuano, o meglio potrebbero ancora continuare a lungo, ma l'autore prova un moto di pietà nei confronti dell'uditorio, e mette quindi i puntini per indicare che lascia il resto all'immaginazione del lettore. Ho comprato ieri pane, latte, verdure, carne, yogurt... e qua pietosamente si tace sulle altre decine di cose che sono finite nel nostro carrello dopo la consueta gita al supermercato. Altra funzione dei puntini di sospensione è appunto sospendere il racconto tenendo il lettore sul filo. Sono una specie di cartello “to be continued” che viene lasciato alla fine di una frase, di un periodo, o magari anche di un racconto o di un capitolo di romanzo per far intendere al lettore che si tratta di un finale aperto, che qualcosa potrebbe ancora succedere se voltasse la pagina, o che comunque la faccenda non è finita e può riservare ancora sorprese. “Eh, se ne potrebbero ancora dire di cose...” Ecco, questi sono i casi in cui si è autorizzati a usare i puntini di sospensione. Invece l'Italia è invasa da una marea di puntini di sospensione incomprensibili. Anzi, ci sono proprio delle tipologie specifiche di seminatori di puntini:

Il puntinatore avaro. I puntini di sospensione sono rigorosamente tre. Ma lui ne mette due. Non si è mai capito se il terzo lo abbia perso in giro o lo nasconda in casa per affrontare momenti di emergenza in cui si trovi senza un punto-a-capo;

Il puntinatore prodigo. Ne mette quattro, o anche cinque, o sei, o una fila intera, tanto che quando leggi non capisci se abbia messo volontariamente i puntini o il tasto gli si sia bloccato mentre scriveva, e lui sia rimasto lì ad urlare in preda al panico, chiamando in soccorso qualche tipo di polizia grammaticale;

Il puntinatore compulsivo. I suoi testi sono semplicemente una scusa per seminare puntini. Li usa per tutto, tanto che abolisce qualsiasi altro segno di punteggiatura. Non esistono per lui più virgole, punti, due punti. Esiste solo un mare di puntini in cui lui naufraga, ma soprattutto fa naufragare il lettore. Senza salvagente.

Se vi riconoscete in qualcuna di queste tre tipologie, tranquilli. Si può smettere. Basta pronunciare a voce alta per un ragionevole numero di giorni: “I puntini sono tre e non si usano al posto del resto della punteggiatura”. È una specie di mantra. Attenzione: perché funzioni va ripetuto ancora, ancora e ancora...

L’avventurosa storia del piuttosto (e del piuttosto che). Pensateci: dovendo dare una alternativa secca, dite: “O la va o la spacca!” oppure “O la va piuttosto che la spacca!”? La prima, vero? Ecco, vi siete risposti da soli, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 3 aprile 2017 su "L'Espresso". La storia del piuttosto in italiano è una di quelle curiose vicende che ricordano le biografie di certi fanciulli nati bene che con il tempo cambiano strada, forse si fanno traviare dalle compagnie e finiscono in brutti giri. Infatti il nobile piuttosto, oggi, si trova ficcato in frasi bislacche e viene totalmente travisato nel suo significato preciso. "Piuttosto" in italiano è un avverbio di antica tradizione. È figlio di “più”, di cui rappresenta un rafforzativo, e di “tosto” - cioè presto, veloce - e nel senso originale significava quindi “più velocemente”, “più presto”. Nel corso di qualche secolo si è allargato nell’uso, fino ad indicare “più facilmente”, “più spesso”, “più volentieri” e anche genericamente “molto/molto di più”, come nei casi delle frasi: è piuttosto tardi; viene piuttosto spesso. Siccome è un tipo socievole, piuttosto ha stretto negli anni una fruttuosa amicizia con il che, e i due hanno formato un duo, il piuttosto che. Il piuttosto che serve ad indicare una preferenza fra due cose: piuttosto che uscire, preferisco rimanere sdraiato sul divano; piuttosto che mangiare quella roba, salto il pasto. Il piuttosto ha anche una lunga storia di frequentazione con la o disgiuntiva e specie nelle frasi interrogative i due stanno spesso assieme: Vuoi questo o piuttosto quello? Il pasticcio succede quando nel linguaggio comune si mettono assieme e si frullano le due cose. Ormai da qualche anno c’è gente convinta, soprattutto nel Nord Italia, che il piuttosto che sia una variante della semplice o disgiuntiva o di oppure. Nascono allora frasi assolutamente bislacche, come per esempio: vuoi parlare con la mamma piuttosto che con il papà? Perché discriminare i neri piuttosto che gli zingari? Ecco, ragioniamoci su queste due frasi: scritte così sembra che introducano in qualche modo un criterio di preferenza: nella prima il povero papà sembra considerato inferiore alla mamma (e sì, vabbè, siamo in un paese di mammoni, ma via, non è carino!); la seconda pare quasi una levata di scudi razzista che invita a discriminare tutti allo stesso modo, che diamine!

Quindi ricapitoliamo: il piuttosto che non va usato come sostitutivo di o e di oppure. Ha un significato diverso: indica una preferenza fra due scelte, non una semplice alternativa. Del resto, pensateci: dovendo dare una alternativa secca, dite: “O la va o la spacca!” oppure “O la va piuttosto che la spacca!”? La prima, vero? Ecco, vi siete risposti da soli.

Qual è il problema con il qual è? A "qual" non manca nessuna vocale: è proprio una parola autonoma che si scrive con la consonante finale. Quindi non ci va aggiunto nessun apostrofo: risparmiamo inchiostro, e anche una brutta figura, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 17 aprile 2017 su "L'Espresso". Qual è il problema? Be’, il problema alle volte è proprio il qual è. Che in Italiano si scrive così, cioè senza apostrofo, e non Qual’è come spesso ormai si vede. State sbuffando? Non fate finta di niente, vi ho sentito. E vi capisco pure. Ma come, direte voi, prima ci fanno una capa tanta che bisogna mettere gli apostrofi e adesso su qual è se ce lo mettiamo ci facciamo la figura degli zotici? Ma che è, un complotto, una congiura? Nessun complotto, e nemmeno la prova che le regole grammaticali sono pensate da una manica di sadici schizzati. Se vi ricordate quello che abbiamo spiegato quando si è parlato degli apostrofi, l’apostrofo si mette quando la vocale, davanti a un’altra vocale, si va a fare un giro ma poi ritorna. Ecco, non è il caso di qual è. Qui il qual è proprio una parola a sè, che si scrive senza la vocale alla fine. Qual viene usato anche davanti a parole che non iniziano per vocale. Si può dire infatti sia qual è sia qual buon vento, e questa è la prova che a qual non manca nessuna vocale: è proprio una parola autonoma che si scrive con la consonante finale. Quindi non ci va aggiunto nessun apostrofo. In italiano esiste qual come esiste anche tal, alcun, nessun, un. Queste parole nascono per un fenomeno che si chiama troncamento, e come per l’elisione, il fenomeno accade per facilitare la lettura. Ma diversamente dall’elisione, il troncamento accade anche davanti a parole che cominciano per consonante. Noi usiamo tantissimi troncamenti quando parliamo. Diciamo un buon uomo, un bel tipo, o cantiamo a squarciagola Nessun dorma. Qual è un troncamento, esattamente come buon, bel e nessun. Quindi, con buona pace di Saviano (che in un articolo scatenò un vespaio perché scrisse qual’è) e persino di Pirandello (anche lui qualche qual’è lo ha disseminato in giro) qual è si scrive senza apostrofo. Una volta tanto, risparmiamo inchiostro evitando l’apostrofo. E anche una brutta figura.

L'apostrofo, un promemoria per il lettore. Se quando scrivete ve lo dimenticate, chi vi legge resta perplesso: non sa se deve restare lì ad aspettare o se la vocale se n’è andata per sempre e ciao, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 24 aprile 2017 su "L'Espresso". Avete presente quando andate in un negozio, trovate la porta chiusa e sulla vetrina il post con su scritto: “Torno subito”? Bene, l’apostrofo in italiano funziona nello stesso modo. Quando una lettera, o meglio, una vocale, se ne va a prendere un caffè, siccome è una lettera educata, lascia un piccolo promemoria al lettore: “Guarda, sono uscita un attimo, ma non ti preoccupare, appena posso mi ritrovi qui.” Se quando scrivete vi dimenticate gli apostrofi il vostro povero lettore resta perplesso. È smarrito: non sa se deve restare lì ad aspettare o la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Peggio di una puntata di Chi l’ha visto, insomma. Quando la vocale se ne va per un po’ ma poi ritorna, il fenomeno si chiama elisione. Di solito le vocali spariscono temporaneamente per motivi ben precisi e in casi ben determinati: non è che vi piantano in asso senza un perché. Tanto per cominciare, le vocali se ne vanno solo quando sono alla fine della parola e dopo di loro c’è una parola che comincia anch’essa per vocale. Si può dire sull’altalena ma non nell’giardino, l’insalata ma non l’bistecca. Questo perché l’elisione è un fenomeno nato per facilitare la pronuncia e la lettura delle parole. Si può anche dire sulla altalena, per carità, ma il nostro orecchio un po' si schifa, e quindi mettiamo l’apostrofo per chiarire che quelle due lettere “a” non vanno in realtà pronunciate e ne resta una sola, quella di altalena. La "a" di sulla si prende una pausa e va a fare un giretto per i fatti suoi, ché ogni tanto un po’ di libertà è una mano santa pure per le lettere dell’alfabeto. I casi in cui le vocali si possono concedere una boccata d’aria sono:

Con gli articoli determinativi lo e la: l’albero e l’agenda, e anche in tutti i casi in cui lo e la formano preposizione articolata dell’albero, nell’agenda, all’artista. Attenzione, però: l’articolo la perde la sua a solo al singolare. Posso dire l’agenzia, ma non l’agenzie. Lì devo scrivere le agenzie, le industrie. Per il lo il problema del plurale nemmeno si pone, perché al plurale lo fa gli, perciò in ogni caso non si elide;

L’aggettivo bello ci tiene a essere pronunciato bene, quindi di fronte a vocale vuole suonare al meglio e perde la o. Si scrive infatti bell’affare, bell’uomo;

Anche con santo e santa c’è elisione. Si scrive infatti Sant’Agostino e Sant’Agnese. Con l’apostrofo, mi raccomando, oppure i santi che cominciano per vocale si arrabbiano come se gli aveste tolto l’aureola;

Con l’avverbio di luogo ci davanti alle voci del verbo essere: c’è, c’erano, c’era.  Attenzione, anche qua lo potete fare solo quando il ci è un avverbio di luogo (ci era equivale a era qui). Quando invece si tratta del pronome personale complemento ci (come in ci ama, ci ha invitato), che quindi vuol dire a noi, non potete elidere mai. Del resto c’ama non si può sentire: vi fareste odiare subito. Inoltre il ci non può essere eliso davanti alla acca. C’ho non si può scrivere. La regola infatti dice che il ci si elide solo con le vocali. La acca è una vocale? No. Quindi c’ho, c’hanno non si scrive, o l’Accademico della Crusca vi mena con l’apostrofo stesso a mo’ di scudiscio. In alcuni modi di dire e frasi fatte come tutt’al più, quant’altro, senz’altro, nient’affatto, d’ora in poi, quand’anche, d’altra parte e d’altronde. Sì, d’altronde si scrive con l’apostrofo e non dal tronde, non esistendo la parola “tronde” in italiano. Voi resterete magari stupiti che esista invece la parola altronde. Eh, invece esiste, anche se viene usata esclusivamente, in pratica, in questa locuzione. Alle volte la lingua sembra bizzarra assai.

Non si possono elidere invece le vocali finali quando li e le sono pronomi personali: le aspetto, li interpello. E se mai vi venisse in mente, no, non si possono elidere mai le vocali finali degli avverbi di luogo lì e là, perché si possono togliere, elidere e far sparire solo le vocali non accentate. Quelle accentate devono restare dove sono, perché l’accento segna il punto dove la voce si appoggia, se glielo togliete la voce sbarella e casca tutto. In tutti gli altri casi in cui avete una parola che finisce per vocale e una che inizia per vocale sta a voi decidere. Potete scrivere anch’egli o anche egli, lo ascoltò o l’ascoltò, un’arancia o una arancia.  È una questione di scelta stilistica, o anche di come vi gira al momento. L’importante è che non dimentichiate di mettere l’apostrofo nei casi in cui è obbligatorio, o il vostro povero lettore è destinato a restare lì chiedendosi se la vocale tornerà, se si è persa, se mai la rivedremo. Il che, per carità, può generare una certa suspense, ma non è il caso di scatenare il panico a vuoto, nemmeno se state scrivendo un thriller.

Ci vuole un po' di attenzione a scrivere “po'”. I troncamenti non dovrebbero avere apostrofi, ma po’ ce l’ha. È un modo per segnalare che un’intera sillaba se n’è andata via. E sarebbe meglio, davvero, non scriverlo con l'accento. Anche quando è l'opzione imposta dal cellulare, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 2 maggio 2017 su "L'Espresso". In Italiano ci sono due po. Uno è il fiume, e quando vi riferite a lui siete pregati di ricordavi due cose: si scrive con la maiuscola, perché è nome proprio (il Po) e non vi va messo sopra accento, perché è una parola monosillaba. Gli accenti in italiano segnalano la vocale su cui la voce si appoggia, ma Po di vocale ne ha una sola, per cui segnarci sopra l’accento è inutile. Il nome Po deriva dal latino Padus, antico nome del fiume, e per questo la pianura che attraversa si chiama Padana. L’altro po italiano è po’, scritto con l’apostrofo, che significa poco. Deriva dal latino paucus, che in italiano si è trasformato in poco e poi in po’. Se quando scrivete ve lo dimenticate, chi vi legge resta perplesso: non sa se deve restare lì ad aspettare o se la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Tecnicamente po’ è un troncamento, per giunta di una intera sillaba, cioè il -co finale. I troncamenti non dovrebbero avere apostrofi, ma po’ ce l’ha. È un modo per segnalare che un’intera sillaba se n’è andata via. Se nei casi comuni l’apostrofo è un cartellino con su scritto “torno subito” e segnala una vocale solo temporaneamente sparita, nel caso del po’ l’apostrofo è più una lapide alla memoria. C’era un tempo una sillaba, ma non c’è più: una prece. Si può scrivere pò, con l’accento? Negli ultimi tempi lo si vede spesso, soprattutto perché il correttore ortografico di cellulari e computer sembra essersi convinto che quella è la grafia corretta. Per farlo rinsavire bisogna andare a smanettare nelle impostazioni del vocabolario interno al telefonino, operazione che richiede un minimo di competenze tecniche che non tutti hanno. Per questo capita di riceve messaggini da coltissimi amici con dentro scritto pò con l’accento, e immaginare la loro disperazione per questo errore imposto loro da un programma di scrittura automatico. Si può, non si può scrivere pò con l’accento? No. sarebbe proprio meglio di no. Magari fra qualche anno ci arrenderemo e accetteremo pò con l’accento, che comunque è un controsenso. Po’ inteso come “poco” è un troncamento: l’apostrofo non gli serve ma nemmeno l’accento, perché è anche un monosillabo, quindi la voce non ha bisogno di sapere dove appoggiarsi, dato che può stare solo sulla vocale o. Per ora quindi resistiamo, sia al T9 che al pò accentato. Resistiamo e intanto impariamo come smanettare le impostazioni del cellulare. Con un piccolo sforzo, si può costringere il maledetto a scrivere po’ con l’apostrofo, credetemi.

Che rebus quel "ci", l'avverbio bistrattato. E' un avverbio di luogo e serve ad indicare dove si svolge l'azione. Ma spesso lo confondiamo con il "ci" che significa noi/a noi. Tutti i trucchi per vederci più chiaro, scrive Mariangela Galateo l'8 maggio 2017 “L’Espresso”. Pochi lo riconoscono, anche se le frasi che facciamo con lui ogni giorno sono centinaia. Ma 'ci', ovvero l’avverbio di luogo che indica “qui, in questo posto”, è una delle parole più bistrattate del vocabolario. La maggioranza delle persone, quando analizza una frase come “C’è posto a tavola?” o “C’è qualcosa che manca?” tende a considerare il povero ci come se facesse parte del verbo, oppure a confonderlo con il suo omografo 'ci' pronome personale atono, quello che vuol dire “a noi”. C’è/ci sono sono invece due frasi con un avverbio di luogo: c’è significa “è in questo posto”, “sta qui”. Il suo compito accanto al verbo essere è molto preciso: indica il luogo dove l’azione si svolge. Tra l’altro segnala in modo inequivocabile che in questo caso il verbo essere svolge la funzione di predicato verbale e non nominale, come invece gli capita quasi sempre. C’è significa infatti “si trova”, e pertanto in questo caso il verbo essere descrive una azione, ovvero è sostituibile con il verbo “stare”. Il ci deriva probabilmente da un latino alto medievale hicce, a sua volta derivato dall’avverbio di stato in luogo latino hic. Il ci avverbio di luogo si usa con i verbi che indicano il rimanere o il raggiungere un determinato luogo, come stare (ci sta), andare (ci andiamo), venire (ci vieni?). Non va invece confuso con il ci che significa “noi/ a noi”. Ci guardiamo negli occhi significa infatti che io e te /noi ci guardiamo reciprocamente negli occhi, e non indica nessun luogo; allo stesso modo Ci spostiamo da casa al lavoro indica che spostiamo noi stessi, ci portano da mangiare significa che portano da mangiare a noi. Nella frase Noi ci siamo, invece, è chiaro che sostituire il ci con un ulteriore “noi” non avrebbe senso. Il segreto per riconoscere i due ci è quindi provare a sostituire il ci con un noi/a noi. Se la frase ha ancora senso, è pronome, se invece risulta incomprensibile si tratta di un avverbio. Il povero ci ve ne sarà molto grato. Passare l’esistenza ad essere confuso con qualcos’altro è difficile persino per un avverbio: c’è di che perdere l’autostima.

Quel dove in ogni dove. Viene usato spesso indebitamente, e alcuni sono convinti che possa sostituire qualsiasi “in cui”, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". Lo si usa ormai in ogni dove. E non sempre nel posto giusto dove metterlo. Stiamo parlando del dove, che in italiano a volte può sostituire il relativo “in cui”. Quando, appunto, questo “in cui” indica un luogo. Se dico per esempio “il luogo in cui mi trovo ora è bello” posso tranquillamente trasformare la frase in “il luogo dove mi trovo ora è bello”. Il problema è che il dove viene usato spesso indebitamente, e alcuni sono convinti che possa sostituire qualsiasi “in cui”. Abbiamo così frasi bislacche come “il giorno dove ti ho incontrato” o “il momento dove parli”. Ragioniamo un attimo prima di scrivere. Dove indica sempre un luogo. E un momento, un giorno non sono luoghi, nemmeno figurati. Sono determinazioni di tempo, non di spazio. Sono una cosa diversa, indicano il quando, non il dove. Se dico "La borsa dove tengo la cipria" ha un senso, perché indico un luogo dove la cipria viene messa, cioè la borsa. Ma non posso dire “il momento dove mi inciprio il naso”. Non ha senso, e il povero interlocutore resterebbe perplesso non capendo dove vogliate usare il piumino per ritoccare il trucco. Peggio ancora se invece di un “in cui” il dove sostituisce un che. Ha senso dire “il bar che frequento ogni mattina”, non “il bar dove frequento ogni mattina”. Il bar è un luogo, per carità, ma voi frequentate lui, cioè il bar, perché frequentare è un verbo transitivo che vuole dopo di sè un complemento oggetto. Ci vuole quindi un che relativo. Se invece dite “il posto dove bevo il caffè alla mattina è questo bar”, o "il bar dove vado ogni mattina è questo" allora va bene. Anzi, se il caffè è buono, passate l’indirizzo. 

Andateci piano con "dunque" e "cioè". Oggi sono sorpassati. Se li usate venite subito datati cronologicamente come relitto di un’era che fu, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 22 maggio 2017 su "L'Espresso". Non si comincia mai una frase con il dunque. Dunque, in italiano, è una congiunzione conclusiva. Vuol dire che va usata per concludere un discorso e tirare le fila di qualcosa che è stato detto in precedenza. Sono stata tutto il giorno in piedi dunque sono stanca. Molti invece usano il dunque come un incipit, un modo per iniziare la conversazione quando non si sa che dire: Dunque, mi dicevi? Ma immaginate che, prima, la persona a cui vi rivolgete non abbia detto assolutamente nulla. Vi guarderebbe come un pazzo. Ci sono casi in cui il dunque può essere usato all’inizio della frase. Per esempio quando uno ha parlato per mezz’ora in maniera complicatissima, noi non abbiamo capito un accidenti o molto poco di tutto lo sproloquio e allora, per dispetto, ironicamente sibiliamo: Dunque? In questo caso è un modo per invitarlo in qualche modo a tirare una conclusione e dare un senso comprensibile a quando ha detto. Ma in queste situazioni, appunto, si tratta di un uso ironico, quindi è corretto. Cominciare una frase con il dunque senza che prima ci sia nulla non ha invece alcuna logica. Dunque cosa?

Attenzione va fatta anche all’uso del cioè. Cioè serve a spiegare qualcosa che si è detto in precedenza: faccio il social media manager, cioè curo gli account social dell’azienda. In anni passati, soprattutto negli anni ‘70 e ‘80, cioè era invece una specie di riempitivo valido per tutto. Quando non si sapeva cosa dire, ci si ficcava un cioè. Oggi è sorpassato. Se lo usate venite subito datati cronologicamente come relitto di un’era che fu. La versione più colta del cioè è stato negli anni ‘90 il diciamo. Veniva schiaffato all’interno di ogni conversazione quando non si sapeva bene come proseguire. Lo usava spessissimo D’Alema. Nella variante diciamocelo era invece il marchio di Ignazio la Russa. Oggi va quindi usato con parsimonia e cautela. Non solo vi data, ma sapete anche a chi vi fa assomigliare. Pensateci e decidete di conseguenza.

"Ci hanno" e "C'hanno": attenti a quei due. Queste frasi con ci infatti sono tipiche del linguaggio colloquiale. Insomma, si usano quando si parla, specie fra amici e in situazioni molto familiari. E quando si scrive, allora, sono corrette? Scrive Mariangela Galatea Vaglio il 29 maggio 2017 su "L'Espresso". “Ci ho un caldo oggi che brucio!” È corretta questa frase? E, ampliando il discorso, sono corrette tutte le frasi che usano il verbo averci? In realtà il ci in questo caso è un avverbio di luogo che ormai ha perso il suo significato, e viene usato solo come sottolineatura emotiva. Tutte queste frasi con ci infatti sono tipiche del linguaggio colloquiale. Insomma, si usano quando si parla, specie fra amici e in situazioni molto familiari. E quando si scrive, allora, sono corrette? Qui bisogna rispondere con un diplomatico “dipende”. Dipende infatti, e davvero, dal tipo di testo che stiamo scrivendo. Se è un testo serio e formale, no, non è il caso di usarle. Se invece è un testo che in qualche modo si ispira alla lingua parlata o in cui, per esempio, dobbiamo descrivere il modo di parlare di un personaggio non molto colto, allora possono andare bene. Tantissimi sono gli scrittori che hanno usato questo tipo di frase, da Boccaccio a Manzoni, proprio per scrivere dei dialoghi più realistici e meno ingessati. Bisogna comunque fare attenzione a come si scrivono, questi ci, oltre che a quando. Infatti la frase Oggi ci ho proprio caldo è accettabile, mentre oggi c’ho proprio caldo è un pugno su un occhio. Il problema sorge per colpa dell’h che c’è in mezzo. La h in italiano non si pronuncia, ma nello scritto si vede. Se si elide la i finale, la c e la h si trovano a contatto, e il nostro occhio è abituato a leggere le due lettere vicine come un ch che si pronuncia quindi k. Per questo motivo vedere un testo dove sia scritto c’ho per molti è una vera tortura. I linguisti hanno proposto di usare una grafia particolare, cioè cj ho. Ma per ora è un uso limitato solo ad alcuni articoli specialistici e non ha preso piede presso il grande pubblico. Che spesso c’ha altro da fare, e usa l’apostrofo senza curarsi dell’acca. Vinceranno loro? Probabilmente. Per ora conserviamo la i finale e aspettiamo l’evolversi della lingua.

I tranelli dell'acca, quella lettera che c'è e non c'è. E' l'unica muta del nostro alfabeto, e si vendica comparendo nelle forme del verbo avere, praticamente a caso. Ecco come non farsi ingannare, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 14 giugno 2017 su "L'Espresso". Voi pensate la frustrazione. In una lingua come l’italiano, in cui le lettere si pronunciano tutte come sono scritte, lei no, è l’unica che non si sente. Muta. Non stupisce che debba trovare il modo di vendicarsi. E infatti la h in italiano si vendica comparendo nelle forme del verbo avere apparentemente a caso: ho, hai, ha, hanno. Il motivo per cui la h c’è in queste forme è legato alla storia della nostra lingua. Il verbo avere in italiano deriva dal latino habere, che cominciava con l’h. Nel corso dei secoli la h, che appunto non veniva pronunciata, si è persa anche nella forma scritta. È rimasta solo in alcuni casi, perché altrimenti, togliendola, sarebbe difficile capire esattamente cosa viene detto. Se io scrivo a ragione è diverso da ha ragione. È necessario dunque che a preposizione semplice e ha voce del verbo avere si scrivano in maniera differente. La stessa cosa avviene con anno/hanno: una cosa è dire l’anno passato altra dire l’hanno passato. Un vecchio trucco per riconoscere quando ci troviamo di fronte al verbo avere e si deve mettere la h è quello di sostituire nella frase il presente (ho, hai, ha, hanno) con l’imperfetto. Se la frase continua ad avere senso anche all’imperfetto, allora al presente il verbo va scritto con l’acca:

Io ho due calzini -> io avevo due calzini

Io vado a casa-> io andavo avevo a casa

La h è sempre stata fonte di moltissimi errori, proprio perché non si pronuncia e dunque non si sente. All’inizio del secolo fu fatta una proposta per toglierla del tutto, ma siccome restava il problema di distinguere la a preposizione dal verbo avere, si suggerì di scrivere la voce del verbo con un à accentata. Quindi invece di ha/ho/hanno/hai si sarebbe dovuto scrivere à/ò/ànno/ài. Ci si rese però presto conto che così non si risolveva niente, anzi si generava una confusione ancora maggiore. Quindi alla fine si decise di tenere la acca. Continua a rimanere al suo posto e non molla. Tiè.

"Vadi pure", anzi no "facci lei": basta fantozzismi, diamo una mano al congiuntivo. È un modo che nell’italiano moderno gode di alterne fortune. Come certe anziane signore dalla salute malferma sembra che sia sempre lì lì per schiattare, ma poi si ripiglia e continua a vivere beato, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 5 giugno 2017 su "L'Espresso". Lo danno per spacciato da anni, ma come l’araba fenice lui prima o dopo risorge dalle sue ceneri. Il congiuntivo è un modo che nell’italiano moderno gode di alterne fortune. Come certe anziane signore dalla salute malferma sembra che sia sempre lì lì per schiattare, ma poi si ripiglia e continua a vivere beato. Il congiuntivo è il modo che indica una idea, una opinione. Credo che tu sia simpatico (ma mi riservo di verificarlo), ritengo che questa sia una stupidaggine (ma non si sa mai, magari mi sbaglio io ed è una genialata). È un modo educato che non si prende sul serio, lascia aperto uno spiraglio, accetta la possibilità che gli altri abbiano ragione e torto noi. Per questo nel mondo moderno, fatto di grintose certezze, il congiuntivo non ha vita facile. Complice il fatto che in inglese, per esempio, non viene usato spesso, anche in italiano i manager lo usano poco e mal volentieri: «Credo che è così!» tuona il capetto con i suoi sottoposti, e non si discute. Ci sono anche altri usi del congiuntivo che non tutti conoscono. È un modo gentile, ma è capace di sostituirsi all’imperativo nei casi in cui questo modo non ha forme proprie: Andiamo a casa! Prenda ancora una tazza di tè o il berlusconiano Mi consenta! sono in origine forme di congiuntivo. In latino veniva definito congiuntivo esortativo, cioè quello che esprime un invito educato, ma pressante quanto un ordine. Da solo, nelle frasi principali, il congiuntivo viene usato per esprimere un augurio o una speranza: Fosse la volta buona! Magari vincessi alla lotteria! In questo caso si può anche chiamarlo congiuntivo ottativo o desiderativo, in quanto esprime una cosa che si vorrebbe ardentemente. È un modo pieno di sfumature, quindi, che va trattato con i guanti. Ci mette un attimo a farvi fare una pessima figura quando non lo sapete coniugare bene. Vadi, facci sono infatti una forma di congiuntivo non nota alla grammatica ma diffusissima nel mondo reale: il congiuntivo fantozziano.

Tutti i misteri del "che", parolina bifronte. Il "che" in italiano ha due usi principali: congiunzione e pronome relativo. Ecco come distinguerne l'uso, per non attorcigliare i nostri testi in frasi incomprensibili, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 19 giugno 2017 su "L'Espresso". In italiano gli usi principali del che sono due: congiunzione e pronome relativo.

Quando è congiunzione, il che unisce due frasi: Penso che tu sia stanco di tutto questo; Ritieni che sia possibile? Credo che domani pioverà.

Quando è pronome relativo unisce sempre due frasi, ma il che è agganciato ad un nome che si trova nella prima frase e svolge la funzione di soggetto o complemento oggetto nella seconda: tu [che sei alto] mi prendi quel libro dallo scaffale?

Riconoscere i due tipi di che è importante. Aiuta molto ad evitare di fare errori nel dividere le frasi e anche nel comprenderle. Come si riconosce un pronome relativo? Il pronome relativo che si individua perché può sempre essere sostituito con il quale/la quale/i quali/ le quali. Quindi, quando abbiamo un dubbio, basta vedere se nella nostra frase il che può essere sostituito da una di quelle parole.

La donna che hai visto è mia sorella ->la donna la quale hai visto è mia sorella;

I bambini che giocano nel cortile sono sudati ->i bambini i quali giocano nel cortile sono sudati.

Se invece è una congiunzione non può mai essere sostituito con altro. Infatti se scrivo: Penso che tu sia strano non posso formulare la frase dicendo penso il quale sia strano. Non ha senso. Distinguere congiunzioni e pronomi relativi è fondamentale quando faccio l’analisi del periodo e quella logica della frase. Il che pronome relativo che può fare da soggetto e da complemento oggetto nella frase in cui è, mentre la congiunzione non può fare mai da soggetto o da complemento oggetto. Inoltre se la frase è introdotta da un pronome relativo, in analisi del periodo sarà una subordinata relativa, mentre se è introdotta dal che congiunzione potrà essere una subordinata di altro genere (soggettiva, oggettiva, dichiarativa…). Voi direte: ok, si può sopravvivere nella vita anche senza saper distinguere il tipo di subordinate. Sì, è vero. Ma non sempre è detto che si sopravviva bene.

In italiano il che, pronome relativo, ha una particolarità. Si riferisce quasi sempre al nome che gli sta accanto. Una delle cose che spesso rende incomprensibili le frasi è non tenere conto di questo fatto. Se piazzo il che vicino al nome sbagliato, il significato dell’intera frase cambia. Se scrivo per esempio il libro che è sul tavolo è verde a essere verde è la copertina del libro. Se scrivo le stesse parole ma in ordine diverso, cioè il libro è sul tavolo che è verde è la superficie del tavolo ad essere colorata di verde. Quando si scrivono periodi lunghi, è facile commettere errori. Nella nostra testa la frase è chiarissima, ma poi ci impicciamo a scriverla, e il che finisce accanto a qualcosa di diverso da quello che vorremmo. Il consiglio migliore che si può dare in questo caso è: lasciate perdere i periodi lunghi. Se non siete abituati a scrivere (ma alle volte, anche se lo siete) usate frasi brevi e separate dal punto. Meglio ripetere due volte la stessa parola che scrivere una frase incomprensibile. Non è detto che “chi sa scrivere” usi periodi lunghi. Grandi scrittori e giornalisti, come Hemingway o il nostro Enzo Biagi erano famosi per le loro frasi brevissime. Spesso anzi scrivere una frase breve denota maggiore bravura nella sintesi di chi sbrodola per pagine e pagine. Quindi se non siete certi che il pronome relativo si riferisca al termine giusto, spezzate la frase o spiegatevi usando una e: Il libro è sul tavolo ed è un libro verde. Meglio risultare un po’ meno eleganti ma chiari piuttosto che dare al vostro lettore una informazione sbagliata.

Quando la traccia fa rima con figuraccia. ll Miur ha messo una I di troppo nel titolo della pagina che avrebbe dovuto riportare le tracce dei temi di maturità. Una svista che avrà sollevato i maturandi: se anche all’esame avessero combinato disastri in ortografia, questo non potrà certo pregiudicare una loro futura carriera ministeriale, scrive Mariangela Vaglio il 26 giugno 2017 su “L’Espresso”. Per carità, una svista capita a tutti. Ma quest’anno il Miur ha veramente battuto ogni record, scrivendo nel titolo della pagina che avrebbe dovuto riportare le tracce dei temi di maturità “TRACCIE”. Le scuse prontamente porte sul sito non hanno cancellato l’imbarazzo. Si tratta di un errore fastidioso, soprattutto per il “luogo” in cui è apparso, e per le circostanze, anche se forse i maturandi si saranno sentiti sollevati. Se anche all’esame combinassero disastri in ortografia, questo non potrà certo pregiudicare una loro futura carriera ministeriale. Tracce, tuttavia, come frecce, al plurale non vuole nessuna i. In effetti però i plurali in -cie e -gie sono particolarmente rognosi da ricordare. In alcune parole italiane, che hanno una i dopo la c, come cielo e cieco, la i si mantiene anche se in realtà non viene più pronunciata da secoli. Per altre che terminano in ci e gi la i rimane solo al singolare ma al plurale scompare. La regola prevede che la i rimanga quando la ci e la gi sono precedute da una vocale, come in ciliegia>ciliegie e camicia>camicie. Il camice, senza la i, non è un plurale, ma un singolare, ed indica il grembiule bianco indossato da medici e farmacisti. Quando ci e gi sono precedute da una consonante, come appunto in traccia, freccia, bertuccia, arancia, treccia, torcia e spiaggia, al plurale la i sparisce. Anche le parole costruite con i suffissi -acce, -ucce fanno il plurale senza la i. Gli utenti che hanno letto lo svarione sul sito ministeriale, infatti, molto probabilmente si sono lasciati scappare parecchie parolacce. Ah, anche figuracce si scrive al plurale senza la i. I tecnici del Ministero sono pregati di segnarselo, semmai servisse in futuro…

ADDIO AL CONGIUNTIVO.

Il congiuntivo speriamo che se la cava, scrive Francesco Durante Martedì 13 Dicembre 2016 su "Il Mattino". Al professor Francesco Sabatini gli piace pensare che la lingua italiana non è una cosa immutabile, e che per difenderla non c’è bisogno di fare gli schizzinosi o di farsi pigliare da «psicodrammi» come la solita difesa del congiuntivo, oppure la lotta contro gli anacoluti, i pleonasmi, le frasi segmentate, contro i pronomi «lui» e «lei» usati anche come soggetti e contro lo «gli» polivalente, usato cioè anche per il plurale e il femminile. Ora io speriamo che lo psicodramma non c’è, anche se l’anacoluto ne parlano tutti male, e se è per questo anche il pleonasmo. Lui, però, gli sembra che non è un vero problema, questo. Dopotutto, è il parlato, la lingua viva degli italiani. Che, fin da quando è nata, la innovano di continuo, gli italiani, e giustamente gli pare che va bene così: l'importante è capirsi e comunicare. Io però, leggendo l'intervista che Sabatini gli ha concesso a Paolo Di Stefano del «Corriere della Sera», mi è venuto qualche dubbio. Leggevo e dicevo tra me e me che sì, tutto sommato il professore le sue ragioni ce le aveva; e del resto anch'io, senza essere mai stato presidente dell'Accademia della Crusca né aver mai scritto un libro come il suo, appena uscito, che si intitola «Lezione di italiano» (Mondadori), ero uno di quelli che queste cose le sosteneva da tempo. Sabatini tuttavia, se proprio devo dirla tutta, ho avuto l'impressione che stava esagerando un poco. Per cui ci ho pensato, e sono arrivato alla conclusione che io, per quanto mi riguarda, al congiuntivo non ci voglio rinunciare. Perché, vedete, non è che possiamo pensare che il congiuntivo è un'invenzione aristocratica che appartiene al passato e fa a cazzotti col presente. Non è che siccome in inglese, in francese e in spagnolo non lo si usa più anche noi italiani si deve fare altrettanto, anzi: proprio perché ce l'abbiamo ancora, credo che è giusto tenercelo stretto, e non dubitare che è un tratto distintivo della nostra identità culturale. Un po' come la prospettiva di Piero della Francesca o la ricetta della mozzarella di bufala, insomma: una di quelle cose che vale la pena di essere tutelata. Per cui adesso, dopo tutta questa sfilza di anacoluti e pleonasmi e altre amenità che ho voluto ficcarci dentro, forse è il caso che a questo articolo ci rimetto mano e almeno i congiuntivi li ripristino. (Comunque, meno male che Sabatini, alla fine dell'intervista, afferma che ci sono cose che perfino un «liberale» come lui non potrebbe mai ammettere nella nostra bella lingua: tra queste, il famigerato «piuttosto che» disgiuntivo al posto di «oppure», o certi spaventosi anglismi del cavolo, tipo «location» o peggio mi sento «endorsare». O, ancora, quello che a me mi piacerebbe chiamare «transitivo alla napoletana», per esempio: «lo telefono» o «la telefono». Anche se devo dire che se lo sento, un costrutto del genere, non mi fa veramente orrore: temo che, anzi, mi fa addirittura un pochino di tenerezza.)

Congiuntivo in calo, nessun dramma. La Crusca: la lingua è natura, si evolve. In libreria «Lezione di italiano» (Mondadori) del linguista e filologo Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca: «La lingua è natura. E si evolve», scrive Paolo Di Stefano l'11 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. «La lingua è dentro di te, tu sei tra le sue braccia». Le parole di Mario Luzi, poste in epigrafe, riassumono bene la prospettiva del nuovo libro di Francesco Sabatini Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso(Mondadori). Quale prospettiva? «La lingua verbale — dice Sabatini — entra in noi naturalmente dalla nascita e diventa lo strumento ineguagliabile per la nostra crescita culturale». Presidente onorario dell’Accademia della Crusca, linguista, filologo, lessicografo, autore, con Vittorio Coletti, di un fortunato Dizionario della lingua italiana, nel tono confidenziale più adatto a una materia che si intende porgere in modo piano attraverso dieci «dialoghi» e altrettanti «inviti», ma senza semplificazioni eccessive, Sabatini espone subito la tesi del libro rivolgendosi a un lettore vicino e curioso: «Sapevi che, quando avevi tre o quattro anni, il tuo cervello aveva già fatto silenziosamente l’“analisi grammaticale” e l’“analisi logica” (come poi si chiamano a scuola) dei discorsi captati dal tuo orecchio?». Sabatini sa come si comunica con i non addetti ai lavori, del resto ogni domenica, a «Unomattina», offre ai telespettatori un «pronto soccorso linguistico» che oltre a dare consigli grammaticali è anche una sorta di percorso storico-culturale. Cominciamo dalla fine (del libro) sgombrando il campo dal buon uso. Ci sono quattro psicodrammi del parlante italiano: «Casi che infiammano gli animi e che a molti tolgono il sonno», li definisce Sabatini. Quali sono? L’eterna questione del congiuntivo, difeso con appelli e impegnate campagne di salvaguardia. Ebbene, il presidente onorario della Crusca invita a una «minore schizzinosità». Nei costrutti indipendenti il congiuntivo resiste, per esempio nella frase: «Sapessi che dolore!». Nelle frasi cosiddette «completive» tende a essere sostituito dall’indicativo: «credevo che stesse» diventa spesso «credevo che stava», ma è un’alternanza presente sin dalle origini della lingua italiana (risale a Dante e anche più indietro). Idem in certe subordinate, tipo: «Se mi chiamavi, venivo ad aiutarti». È la tendenza del parlato: non facciamone un dramma. «In inglese, in spagnolo e in francese il congiuntivo non c’è più — ricorda Sabatini — diciamo che l’alternanza segna una differenza di stile non di correttezza, come per prima disse, sessant’anni fa, una filologa rigorosissima, Franca Ageno». Non c’è da fare drammi neanche sugli anacoluti (li usava già Manzoni), sui pleonasmi (idem), sulle frasi segmentate («A lui, gli piaceva»), sui pronomi quali lui e lei usati come soggetti (dal Duecento fino a Tomasi di Lampedusa sono ricorrenti), sul gli polivalente (inteso anche come plurale e femminile). La storia della lingua aiuta a capire perché certe abitudini, che a orecchio ci appaiono errate, errate non sono. Dunque, rilassiamoci, almeno nelle situazioni informali. «Bisogna rispettare la lingua ma evitando atteggiamenti aristocratici», avverte Sabatini. E se gli chiedi qual è l’italiano migliore con cui abbiamo a che fare oggi, risponde: «Quello degli scienziati, un italiano bello e pacato, come quello di Rubbia per esempio». La fotografia sociolinguistica dell’Italia non è proprio confortante. Sabatini individua tre strati: una fascia popolare (nella quale sono confluiti anche in maggioranza gli immigrati); un livello medio, fatto di professionisti nei più diversi campi, abbastanza sicuri nell’uso dell’italiano, ma spesso portati al tecnicismo fuori contesto; uno strato più alto e consapevole (coloro che occupano posizioni di autonomia: insegnanti, ricercatori, magistrati eccetera). Sono strati che si caratterizzano per il diverso grado di padronanza della lingua con un altrettanto diverso grado di responsabilità linguistica. Perché esiste anche una responsabilità linguistica: si pensi al peso degli insegnanti nell’avvicinarsi ai giovani ma anche alla responsabilità dei personaggi pubblici che parlano in tv e non solo, magari con il loro snobismo, il loro populismo linguistico (quando non è proprio volgarità) e la loro esibita esterofilia. Bisogna imparare a conoscere la lingua per usarla pienamente come fosse un organo del proprio corpo, perché, appunto: la lingua è dentro di te, come diceva Luzi. Il vero proposito di Sabatini non è tanto quello di soffermarsi sul vasto repertorio degli errori o dei dubbi grammaticali o lessicali, ma di rendere chiari due concetti-chiave: la naturalità e la storicità delle lingue. Si tratta dunque di capire come l’evoluzione biologica, che ci ha portati a essere homo sapiens, abbia predisposto nel cervello aree e funzioni che presiedono alla grammatica, quella grammatica che viene formandosi dentro di noi sin dalla nascita: perché la lingua è un sistema di simboli verbali elaborati nelle complicate reti neuronali del nostro cervello, che esegue lo sminuzzamento e la combinazione di unità foniche minime attraverso cui si producono infinite parole e frasi. Un meccanismo stupefacente. Per renderlo più chiaro, Sabatini propone una serie di esperimenti combinatori. Il lettore troverà molte informazioni sorprendenti: «Quella dell’acquisizione (“apprendimento in modo naturale”) della lingua è davvero una fase vulcanica per il nostro cervello, perché nei primi anni di vita (da 1 a 7, dicono gli studiosi) il bambino impara “una parola ogni ora” in cui è sveglio e ascolta il parlare degli adulti. Occorre però almeno un anno di simile assorbimento prima che si attivi anche il meccanismo della produzione delle parole, cioè che l’individuo cominci anche a parlare...». Deve entrare in gioco la particolare meccanica dell’apparato fonatorio e articolatorio, distribuito tra la laringe e le labbra, considerando anche l’azione di mantice svolta dai polmoni, sotto la spinta del diaframma. E qui si apre un nuovo capitolo. Che cosa avviene quando l’homo sapiens, nella sua evoluzione culturale lunga 100 mila anni, inventa la scrittura? «La scrittura — dice Sabatini — è un’invenzione recentissima, risale solo a 5.000 anni fa: ha prodotto uno sconvolgimento che è ancora in corso e che coinvolge il circuito sensoriale e cerebrale visivo, completamente diverso da quello usato per la lingua parlata». Anche la dimensione storica va allargata, secondo Sabatini: «Non possiamo ragionare nel ristretto ambito delle lingue romanze. Bisogna tener conto di come si è arrivati al latino, collettore di civiltà e di culture ridistribuite a tutto l’Occidente, anche quello germanico o slavo. Non si può dimenticare che attraverso il latino medievale l’inglese si è imbottito di parole di derivazione latina. Ebbene, nella scuola bisognerebbe introdurre una visione molto più ampia del latino, considerarne le origini e gli sviluppi». La prima parte del libro, per così dire teorica, precede la sezione delle letture (brani di vario tipo: oltre a Machiavelli, Montale, Ilvo Diamanti, c’è anche qualche pagina tratta da Odissee di Gian Antonio Stella, Rizzoli) che ai livelli più profondi — avverte l’autore — comportano la comprensione dei meccanismi grammaticali. Anche qui l’approccio si avvale di una visione più scientifica: la cosiddetta grammatica «valenziale», sulla base di collaborazioni con la neurologia, arriva a identificare nel verbo il nucleo generativo della costruzione della frase, implicando un nuovo metodo didattico che permette di svolgere in modo più coerente l’analisi logica e distinguendo varie tipologie di testi (rigidi, semirigidi, elastici). Il libro di Sabatini si conclude ironicamente. Una manciata di usi che il linguista, per quanto elastico e niente affatto purista, non vorrebbe mai vedere accolti nell’italiano? Eccoli: il «piuttosto che» disgiuntivo (invece di «oppure»), la formula transitiva «lo o la telefono», gli inqualificabili «endorsement» o «endorsare» per «appoggio» o «appoggiare», l’orribile «location», il terribile «mission». E la punteggiatura usata disastrosamente come è avvenuto in un decreto legislativo emanato dal Governo il 18 aprile scorso.

Scuola di vita. A cura di Carlotta De Leo. Io studentessa dico: giù le mani dal congiuntivo, scrive il 13 dicembre 2016 "Il Corriere della Sera". "Buongiorno, sono una ragazza di 14 anni e frequento la V ginnasio. Credo nell’importanza della cultura, dell’istruzione e quindi anche delle tradizioni. Per questo penso che valga la pena studiare la nostra lingua e le sue radici. Sono rimasta molto sorpresa, e anche un po’ indignata, nel leggere sulla prima pagina del Corriere di oggi che, anche l’Accademia della Crusca consideri poco importante l’utilizzo del congiuntivo. E quindi avalli un uso improprio della grammatica della lingua italiana. Soprattutto non ne comprendo la motivazione. Capisco che venga tollerato l’uso nel linguaggio parlato di alcune espressioni non costruite come la regola grammaticale e la tradizione vorrebbero. Però che l’Accademia delle Crusca, l’istituto nazionale per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana possa approvarlo, lo trovo assurdo. Ciò significa andare verso un impoverimento culturale. La nostra lingua è caratterizzata, rispetto a quella anglosassone, dalla complessità e dalla ricchezza di espressioni che non meritano di essere appiattite. Da studentessa del classico, in un tempo in cui questo liceo viene tanto criticato e ci si domanda l’utilità del grande sacrificio che frequentarlo comporta, penso invece che le regole principali del buon parlare e scrivere vadano difese. Forse anche questi piccoli “cedimenti” contribuiscono alla decrescita del nostro Paese. Ludovica Caprotti. Milano".

Il congiuntivo è vivo e ha la pelle dura. Gli allarmi per la scomparsa del modo verbale si susseguono da settant’anni. Gli errori nel suo uso non mancano ma tutti gli indizi confermano che non corre rischi, scrive Giuseppe Antonelli il 13 dicembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. La quarta di copertina di uno degli ultimi libri di Paolo Villaggio, quello intitolato Mi dichi. Prontuario comico della lingua italiana, recitava così: «Il congiuntivo è una cagata pazzesca». Una frase rivelatrice, visto che il congiuntivo sostituisce qui l’originale riferimento alla Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn (nella celebre scena del film Il secondo tragico Fantozzi). Ovvero il congiuntivo come un vecchio classico ormai superato: un arcaico cimelio che la cultura snob e passatista cerca periodicamente di riesumare.

L’estrazione del lutto. Questo è il risultato di una morte annunciata per decenni. Fatto tutt’altro che isolato quando si parla di lingua: stando alla vox populi — anzi — potremmo tranquillamente dire che il congiuntivo è morto, il punto e virgola è morto e anche l’italiano non si sente tanto bene. È quell’atteggiamento irrazionale della psicologia collettiva che potremmo definire «estrazione del lutto». L’irresistibile tendenza a evocare di volta in volta — indipendentemente dalla realtà dei fatti — la morte di tempi, modi, segni d’interpunzione (quando non di interi generi letterari o della letteratura in sé). Anche se si tratta sempre di una morte apparente. Curioso, per contro, che lo stesso riflesso catastrofista non scatti quando davvero qualche istituto linguistico scompare all’orizzonte. Non c’è nessuno, ad esempio, che gridi alla tragedia per la scomparsa ormai irreversibile del trapassato remoto. Nessuno ne piange il trapasso proprio perché in questo caso si tratta a tutti gli effetti di un fossile grammaticale. Nessuno da tempo lo usa più: e allora, inutile piangere sul latte trapassato.

Morto, vivo o congiuntivo. Della presunta morte del punto e virgola, invece, si parla almeno da ottant’anni; di quella del congiuntivo da quasi settanta. «Come in tutti gli esami di concorso — si leggeva nel 1950, in un numero della rivista “Il Ponte” — si constata che la scuola non insegna più la lingua italiana, sì che si scrive sgrammaticato e senza sintassi (c’è tra l’altro nei giovani la morte del congiuntivo)». L’apocalittica profezia è stata condivisa anche da esimi linguisti. Rispondendo a un’inchiesta del 1962 sulla Lingua del Duemila, Giacomo Devoto prevedeva — tra le altre cose — l’imminente scomparsa del congiuntivo. Questa percezione allarmistica continua ininterrottamente fino ai giorni nostri. Una decina d’anni fa, una classe di una scuola media mantovana lanciò con grande successo il Sic («Salviamo il congiuntivo»): un’associazione nata per proteggere quel modo «dai nuovi barbari». Di recente, un cantautore professore — Davide Zilli — ha scritto una canzone che s’intitola Il congiuntivo se ne va («e mentre cambia la grammatica/ ci guarderanno come un vecchio trofeo»).

Mi facci finire. A differenza di quanto è accaduto in francese, in realtà, il congiuntivo in italiano continua a essere usato spesso e volentieri. Anche se non sempre in maniera impeccabile, come ci dice la cronaca politica delle ultime settimane. Dal fantozziano (giustappunto) «mi facci finire» di Alessandro Di Battista al «come vi sareste comportati voi se questi accadimenti avrebbero riguardato altri partiti» di Michela Di Biase fino al più recente «come se presentassi venti esposti contro Renzi, lo iscrivessero al registro degli indagati, poi verrei in questa piazza e urlerei Renzi è indagato» di Luigi Di Maio.  Alla fine del 1997, un panettiere di nome Luigi — entusiasta sostenitore del neosenatore Antonio Di Pietro — dichiarava in un’intervista: «Finalmente il partito del popolo ha candidato un uomo del popolo. Uno che sbaglia i congiuntivi come noi». Di strage dei congiuntivi — stavolta per omissione — è stato accusato anche Massimo D’Alema (per frasi come «io ritengo che questa vicenda dimostra che lui è un prepotente») e, in epoca di prima Repubblica, Bettino Craxi («io penso che le nostre possibilità sono limitate»). Commentava Luciano Satta: «Il potere logora i congiuntivi di chi lo detiene». E pensare che nell’ottobre del 1947, in una seduta dell’Assemblea Costituente, uso e significato di un congiuntivo erano stati al centro di un serrato dibattito tra Giuseppe Dossetti, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. «Spero che il gruppo democristiano non pretenderà di farci cambiare la grammatica italiana col peso dei suoi 207 voti», tuonò a un certo punto il segretario comunista.

Abbondandis in abbondandum. Lo stesso Satta, peraltro, in un libro del 1994 intitolato Ma che modo. Usi e abusi del congiuntivo scriveva, a scanso di equivoci: «L’ho detto e ridetto che il congiuntivo è prospero». Un giudizio confermato, dati alla mano, da tutti gli studi successivi basati su diversi insiemi di testi: dai fumetti alle canzoni, dai giornali ai romanzi. Il principale cambiamento rispetto al passato, ci spiegano questi studi, sta nel peso dei fattori che determinano la scelta tra indicativo e congiuntivo. Delle tre funzioni che il congiuntivo ha sempre avuto nella storia dell’italiano (segnalare una frase subordinata, distinguere tra certezza e probabilità, innalzare il livello stilistico) quella che prevale largamente negli ultimi anni è la terza: la funzione stilistica. Il congiuntivo viene percepito come un modo più accurato, fine, elegante. Questo spiega come mai i linguisti si trovino a segnalare sempre più spesso — nelle correzioni fatte dai redattori delle case editrici, ma anche nei discorsi che si sentono per strada o in tv — congiuntivi usati là dove la norma richiederebbe un semplice indicativo. In molti, spinti dall’idea di fare bella figura, cadono in quell’errore che in linguistica si chiama «ipercorrettismo». Come Carlo Sibilia, che in un post di qualche tempo fa su Facebook scriveva: «Meno male che Renzi sia stato fischiato durante il dibattito con il presidente dell’Anpi... Credo che se il Tg1 non abbia detto neanche una parola su quanto è accaduto vuol dire che siamo oltre il regime». O oltre la grammatica. «Abbondandis in abbondandum», come diceva Totò nel dettare a Peppino la famosa lettera per la malafemmina: se no poi «dicono che siamo provinciali, siamo tirati».

Tutti i segreti del congiuntivo inglese (che esiste). Una forma quasi irriconoscibile, ormai presente solo in forme cristallizzate o nel periodo ipotetico. E utilizzata solo in contesti molto formali, scrive LinkPop il 15 Ottobre 2016 su “L’Inkiesta”. Come vi avranno insegnato a scuola, in inglese il congiuntivo non esiste. E come tante altre cose che vi hanno insegnato, anche questa è del tutto sbagliata. Il congiuntivo, il subjunctive, esiste eccome. Lo si usa in varie occasioni (molto rare a dire il vero), dal periodo ipotetico alle esortazioni. Spesso non lo si distingue perché è identico all’indicativo, e per questo si tende (si è teso) a credere che fosse un modo esaurito. La sua forma più semplice è uguale all’infinito, ma senza il to. Come si premurano a far sapere dalle parti di Merriam-Webster con questo video, il congiuntivo si riferisce a cose “contrarie ai fatti” (un modo molto anglosassone per definirle). Esprime dubbi e desideri. E per questo motivo lo si ritrova nel periodo ipotetico quando esprime premesse che non sono realtà. “Se fossi in te, andrei alla festa”. If I were you, I would go to the party. La premessa “Se fossi in te”, cioè If I were you, esprime una non-realtà, una cosa non vera. Non sono te, non lo sarò mai. Per questo non serve l’indicativo, che è il modo dei “fatti”, ma il congiuntivo, che esprime cose “contrarie ai fatti”.

In altri contesti, il congiuntivo non si individua con facilità. Un’eccezione sono le frasi cristallizzate come So be it, o Be it that it may. Be è la forma del congiuntivo (che, si ricorda, coincide con l’infinito ma senza il to) e lo si vede subito. Più arduo invece trovarlo in una frase come It is important that you try to study often: try è congiuntivo o indicativo? Chissà. Solo alla terza persona diventa più chiaro: It is important that he try to study often. Come si vede, è try anziché tries. Non si è di fronte all’errore di qualche sbadato ma alla voluta intenzione di dare alla frase un senso di urgenza e di importanza.

Lo si può trovare dopo verbi come:

to advise (that)

to ask (that)

to command (that)

to demand (that)

to desire (that)

to insist (that)

to propose (that)

to recommend (that)

to request (that)

to suggest (that)

to urge (that)

o espressioni come:

It is best (that)

It is crucial (that)

It is desirable (that)

It is essential (that)

It is imperative (that)

It is important (that)

It is recommended (that)

It is urgent (that)

It is vital (that)

It is a good idea (that)

It is a bad idea (that)

LA DEMERITOCRAZIA.

La demeritocrazia che uccide. Luana Ricca, dopo una brillante carriera da chirurgo a Parigi, torna in Italia e si suicida, scrive Ilaria Bifarini il 6 febbraio 2016 su "L'Intellettuale dissidente". È la storia di un controesodo, del ritorno in patria di un cervello in fuga. Un rientro desiderato, ambito, sospirato. Era il 2014 quando Luana raccontava la sua storia a Radio24 “Sono Luana, ho 36 anni, sono una mamma ed un chirurgo (…) Per lavorare vivo a Parigi con mio figlio di 5 mesi, mentre mio marito vive e lavora a Roma, facendo i tripli salti mortali per vederci. Dopo avere inviato diverse domande per concorsi pubblici, in Italia attualmente non ho alcuna possibilità”. Un curriculum di tutta eccellenza il suo, che racconta una storia fatta di esodi e di speranze, che la veda giovanissima abbandonare la natìa Sicilia per andare a studiare a Roma, in uno dei migliori atenei di Medicina, dove si laurea a solo 23 anni. Segue la specializzazione in Chirurgia Generale alla Sapienza e Luana decide di arricchire la sua formazione con stages all’estero: Londra, Barcellona e Parigi. Proprio nella capitale francese trova la sua prima occupazione da chirurgo nel primo centro francese di trapianti di fegato e di chirurgia epato-biliare, “gratificante in termini di responsabilità e remunerazione”, come racconta agli utenti radiofonici italiani. Il desiderio di migliorarsi e la passione per la sua professione rendono inarrestabile il suo impegno: effettua più di 1500 interventi chirurgici, scrive su riviste chirurgiche internazionali e parla tre lingue straniere (inglese, francese e spagnolo). Dal 2012 comincia un doppio dottorato di ricerca in oncologia, in italiano e francese, alla ricerca di una via di ritorno in Italia che riunisca la sua famiglia. Dopo anni di sospiri arriva il concorso all’Ospedale Regionale de L’Aquila e Luana lo vince, arrivando quinta. Ma l’esultanza dura poco. Viene spedita al distaccamento di Sulmona, a ore di auto da L’Aquila, dove risiede con il marito che fa la spola con Roma, a occuparsi di endoscopie digestive. Si apre un periodo buio nella vita di Luana, il suo brillante percorso formativo e professionale si interrompe, anni di studio e di esperienza vanno in fumo; la giovane chirurgo nell’ambiente medico italiano si sente isolata, incompresa, per la prima volta impreparata. Anni all’estero di studio e lavoro, di risultati e gratificazione conseguiti con l’impegno e la passione non l’hanno formata per sopravvivere alla realtà lavorativa italiana, in cui per andare avanti le logiche meritocratiche non solo non aiutano ma ostacolano. Per mettere in campo le proprie capacità e competenze bisogna accettare le logiche clientelari e corrotte, conoscerle e saperle cavalcare. Luana, con la sua brillante carriera all’estero alle spalle, non ce l’ha fatta, troppo estranee alla sua forma mentis acquisita studiando e lavorando sodo. Si è ammalata di uno dei mali più oscuri anche per i medici come lei: la depressione. Così, nel silenzio generale della stampa e dei media, pochi giorni dopo Natale si è suicidata. Vittima di mobbing, di demansionamento, di aspettative infrante. In una sola parola, demeritocrazia.

Poi c'è il caso di Antonio Palma, il ragazzo commerciante non omologato ed inviso dai suoi compagni comunisti (moralisti ipocriti, che magari le merendine a nero le avevano comprate), perchè esercitava al di fuori delle regole dettate da uno Stato ladrone.

Torino, vendeva merendine in nero: sospeso un 17enne a Torino. Avrebbe iniziato un traffico nero di merendine nonostante fosse stato sospeso lo scorso anno per 10 giorni: il consiglio di classe deciderà a breve le sanzioni, scrive Enrica Iacono, Lunedì 21/11/2016, su "Il Giornale". All'Istituto Pininfarina di Moncalieri, in provincia di Torino, uno studente è stato sospeso dopo aver avviato un commercio nero di merendine. La vicenda ha dell'incredibile ma, come riporta La Repubblica, tutto sarebbe iniziato durante lo scorso anno scolastico quando il ragazzo diciassettenne aveva iniziato a comprare delle merendine al supermercato per poi rivenderle a un prezzo più basso del bar della scuola ai numerosi studenti. La sospensione di 10 giorni è stata inevitabile ma anche quest'anno lo studente ci è ricascato. La scorsa settimana infatti è stato scoperto nuovamente dagli insegnanti mentre ricominciava, da vero imprenditore, il suo "traffico di merendine". Il preside dell'istituto Pininfarina Stefano Fava si è detto molto risentito del comportamento dell'alunno: "Questo è un problema di legalità. La scuola, insieme ai saperi, alle conoscenze, alle abilità, deve anche insegnare a questi ragazzi a essere cittadini e dunque a rispettare le leggi. Non vogliamo inibire la sua vena imprenditoriale, ma dobbiamo pensare al benessere e alla salute dei nostri studenti. Non sappiamo da dove provenissero quelle merendine, né se fossero scadute o mal conservate. E se i nostri allievi fossero stati male? A me le famiglie consegnano ragazzi sani e si aspettano che glieli restituisca tali". Le sanzioni nei confronti del ragazzo recidivo saranno decise dal consiglio di classe anche se lo studente sembra non voler imparare la lezione certamente affascinato dal mondo dell'imprenditoria.

Lo strano caso delle merendine, scrive Econoliberal il 16 dicembre 2016. Qualche giorno fa appare la notizia di uno studente di un istituto tecnico di Moncalieri (TO) premiato dalla Fondazione Einaudi per aver venduto merendine a scuola, subendo per questo una sospensione. Faccio un salto sulla sedia: la Fondazione Einaudi di Torino ha la fama di essere una istituzione seria. Perchè dovrebbe premiare uno studente sospeso due volte in due anni? Basta qualche controllo per capire che il premio (500 euro) arriva dall'omonima fondazione con sede a Roma, che non ha un comitato scientifico composto da seri economisti ma è formata per lo più da politici e giornalisti uniti da una comune passione contro le imposte e lo Stato. Cosa faceva di grave lo studente? Comprava merendine uguali a quelle del distributore automatico e le vendeva a scuola a un prezzo inferiore a quello del distributore automatico, ottenendo guadagni non irrilevanti (pare 15 mila euro in alcuni anni), naturalmente esentasse. E' stato sospeso due volte in due anni e tutto sarebbe finito lì se non fosse che la Fondazione Einaudi di Roma ha deciso di premiarlo con una borsa di studio e qualche intervista, nella quale si dice pronto a andare a vivere in Portogallo perchè le imposte sono basse. Battaglia ideologica che rischia di costargli cara: dopo il premio sono arrivate le proteste dei compagni di scuola, e qualche minaccia. Così il Tribunale di Torino si sta chiedendo quale sia stato il ruolo del padre del ragazzo (che rischia di subire qualche provvedimento del Tribunale dei Minori) mentre il fisco è interessato a indagare sui guadagni del piccolo commercio.

Pininfarina: gli studenti scendono in piazza contro il premio al compagno "venditore di merendine". Benedetto (Fondazione Einaudi):"Pronti a confrontarci con loro per spiegare", scrive Jacopo Ricca il 12 dicembre 2016 su "La Repubblica". Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi Gli studenti del Pininfarina si schierano contro la decisione della fondazione Luigi Einaudi di premiare il loro compagno Antonio, il venditore abusivo di merendine dell'istituto di Moncalieri che è stato sospeso per 15 giorni dalla scuola proprio per questa sua attività. “Non ci sembra giusto premiare un comportamento illecito. Non è un messaggio corretto per i tanti che si impegnano a rispettare le regole” attaccano i rappresentanti degli studenti che domattina saranno fuori dalla scuola insieme ai loro compagni per manifestare il dissenso. Hanno scelto di scendere in piazza domattina quando il ragazzo sarà con suo padre a Roma nella sede della fondazione Einaudi per ritirare la borsa di studio che il centro dedicato a uno dei più importanti autori liberali d'Italia ha deciso di offrirgli: “Il suo spirito d’iniziativa non è da perseguire, ma da promuovere – recita la motivazione – In un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi”. Questa scelta, ma anche le tante offerte di lavoro arrivate ad Antonio non hanno convinto i suoi compagni: “Sia chiaro che non è una manifestazione contro di lui – continuano i rappresentanti – Noi non ce l'abbiamo con lui, ma ci sembra scorretto dare riconoscimenti a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche in questa scuola”. La vicenda del venditore di merendine insomma continua a scatenare polemiche, anche dentro la scuola. Il preside Stefano Fava considerava la vicenda chiusa dopo che la sospensione di due settimane, spalmata su tutto il 2017, da passare in un'associazione di volontaria decisa dalla scuola, era diventata definitiva nonostante la richiesta che il consiglio di classe aveva fatto al consiglio d'istituto di inasprirla. La presenza del programma tv “Le iene”, che aveva intervistato Antonio e suo padre, confermando, quanto sempre sostenuto dai ragazzi, che il business dietro alla vendita di merendine fosse di alcune decine di migliaia di euro ha ulteriormente inasprito gli animi. E ora si arriva addirittura a una manifestazione: “Staremo fuori dalla scuola per far sentire la nostra voce e far capire che anche al Pininfarina c'è chi rispetta le regole” concludono gli studenti. Nei giorni scorsi la fondazione Einaudi ha invitato anche il preside della scuola, Stefano Fava, alla premiazione di domani. “La sua storia ci ha colpito molto e mi sembra che la sua sia stata una scelta d'impresa applicata – aveva spiegato il presidente della fondazione, l'avvocato Giuseppe Benedetto, – Non credo che quella di questo giovane sia un'attività illecita, ho sentito parlare di nero, ma non mi pare sia questo da mettere in evidenza in questa storia”. In queste settimane la fondazione è rimasta in contatto constante con la famiglia del ragazzo e si è detta anche disponibile a confrontarsi con gli altri studenti della scuola per spiegare la scelta.

TGcom 24 del 13 dicembre 2016: Sospeso dalla scuola perché vende snack in nero e premiato da una Fondazione, Regione: "Sbagliato". Il giovane era stato sorpreso mentre spacciava merendine a un prezzo più basso delle macchinette. La Fondazione Einaudi lo ha premiato per spirito imprenditoriale. Fioccano le polemiche a Moncalieri. Presidio dei compagni davanti alla scuola per protesta. "E' comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni". Lo ha affermato l'assessora all'Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero. Il giovane era stato sospeso per aver creato uno spaccio di merendine, che comprava al supermercato e poi le rivendeva ai compagni a un prezzo più basso rispetto agli snack della scuola. La notizia del premio ha fatto scoppiare le polemiche. "Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un'innovativa capacità imprenditoriale - ha aggiunto l'assessora regionale -. Senza voler criminalizzare nessuno o esacerbare gli animi, penso tuttavia che punizioni o, al contrario, riconoscimenti finiscano per essere fini a se stessi se non aiutano il giovane a distinguere tra ciò che è lecito e ciò che non lo è". "Con la premiazione di oggi il rischio concreto è che l'unico insegnamento che il ragazzo trarrà da questa vicenda - ha concluso - è che chi è più furbo avrà sempre la strada spianata". La protesta: "Non ce l'abbiamo con Antonio, ma il premio è sbagliato" - "Non ce l'abbiamo con Antonio, ma riteniamo sbagliato attribuire un premio a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche nella nostra scuola", è la presa di posizione dei rappresentanti dell'istituto, che sono scesi in piazza per protestare contro la borsa di studio che ritengono ingiusta. "Staremo fuori dalla scuola, per far sentire le nostre ragioni", dicono annunciando il presidio.

“No alla borsa di studio ad Antonio”: un terzo degli studenti del “Pininfarina” di Moncalieri diserta le lezioni, scrive "Torino Oggi" martedì 13 dicembre 2016. La protesta, dicono gli studenti, non sarebbe contro Antonio ma contro quelli che hanno deciso di premiarlo. Ma la verità sarebbe assai diversa e la situazione potrebbe anche diventare davvero difficile da gestire, da parte delle autorità scolastica dell’Istituto. Prende le distanze anche l'assessora Pentenero. All’insegna di un emblematico "Le borse ai fuorilegge, no a chi legge", 500 dei 1.600 studenti che frequentano l'Istituto Pininfarina di Moncalieri non hanno preso parte alle lezioni, stamani per protestare contro la decisione della fondazione Einaudi di Roma di assegnare una borsa di studio ad Antonio, il loro compagno diciassettenne sorpreso per ben due volte a vendere abusivamente di merendine. La protesta, dicono gli studenti, non sarebbe contro Antonio ma contro quelli che hanno deciso di premiarlo. Ma la verità sarebbe assai diversa e la sensazione è che la situazione potrebbe anche diventare davvero difficile da gestire, da parte delle autorità scolastica dell’Istituto. Questa mattina, infatti, alcuno studenti avevano in mano il cellulare con alcuni messaggi non propriamente “accomodanti” (anzi) inviati dallo stesso Antonio via WhatsApp: "Io andrò in tv e anche quelli del Pininfarina là fuori a protestare come cog... con il freddo, tanto la borsa di studio la prendo comunque" oppure "Sono solo degli handicappati loro". Nel tritatutto delle polemiche è finita così la Fondazione Luigi Einaudi, dipinta come colei che premia l’illegalità e – dopo i messaggi inviati da Antonio, che nel frattempo ha denunciato di essere stato aggredito da un paio di dozzine di compagni più grandi nel corso dell’intervallo di ieri – anche l’arroganza e la strafottenza. La Fondazione ha un bel dire che il suo intento è quello di premiare “lo spirito d'iniziativa imprenditoriale del giovane ": i compagni di Antonio all’esterno del Pininfarina, hanno allestito un paio di bar "abusivi", per protesta contro quanto avvenuto all’interno della scuola ed il successivo “premio”. Il tutto sotto gli occhi discreti dei carabinieri di Moncalieri. Sulla stessa lunghezza d'onda degli studenti anche l'Assessora all'Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero: "E’ comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni. Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un’innovativa capacità imprenditoriale. Senza voler criminalizzare nessuno o esacerbare gli animi, penso tuttavia che punizioni o, al contrario, riconoscimenti finiscano per essere fini a se stessi se non aiutano il giovane a distinguere tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Con la premiazione di oggi il rischio concreto è che l’unico insegnamento che il ragazzo trarrà da questa vicenda è che chi è più furbo avrà sempre la strada spianata".

Spacciatore di merendine tradito dai compagni: no al premio, studenti in piazza, scrive il 13 dicembre 2016 Manlio Grossi su "Skuola net". Sembra davvero senza fine la vicenda che coinvolge l’ormai noto spacciatore di merendine dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri. Dopo esser finito su tutti i giornali per la sua attività illecita, aver ricevuto proposte di lavoro da più aziende ed esser stato sospeso per due settimane dal Consiglio d’Istituto, il giovane si trova oggi a Roma per ricevere una borsa di studio dalla fondazione Luigi Einaudi. Proprio questo premio ha scatenato le razione dei suoi compagni di classe, scesi in piazza per manifestare il loro dissenso. Secondo gli studenti del Pininfarina, il premio dato al loro compagno non è un messaggio corretto da dare, soprattutto nei confronti di chi rispetta le regole. Alla base del premio che la fondazione Luigi Einaudi ha voluto dare al giovane, il suo spirito di iniziativa che secondo l’istituto “Non è da perseguire ma da promuovere, in un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi”. Dopo aver saputo delle polemiche nate al Pininfarina proprio per questo premio, la fondazione si è detta disponibile a confrontarsi con gli studenti per chiarire meglio e far comprendere la decisione presa. La vicenda dello spacciatore di merendine, sembra quindi destinata a continuare…

Nobel allo spacciatore di merendine: studente di Torino premiato con una borsa di studio. È polemica tra gli studenti del Pininfarina di Moncalieri per il premio conferito dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma, scrive Giulia Morici su "Pontile news" il 13-12-2016. Chissà se un giorno, tra i vari premi Nobel, spunterà fuori anche quello delle merendine. Per il momento, lo studente dell’Itis Pininfarina di Moncalieri, in provincia di Torino, dovrà accontentarsi di una bella borsa di studio conferita dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Andando indietro nel tempo, fino ad arrivare alla fine del novembre scorso, si ricorderà che il giovane in questione balzò agli onori della cronaca per il suo spirito imprenditoriale, grazie al quale diede vita a un traffico illecito di merendine all’interno dell’istituto scolastico. Un episodio che gli costò un provvedimento disciplinare, tanta notorietà e l’apprezzamento da parte di alcuni imprenditori; oggi a questa lista va aggiunta la borsa di studio conferitagli dalla Fondazione Einaudi. La creatività, in tempi di crisi, non è di certo una questione da sottovalutare, ma l’episodio di Moncalieri, ragionevolmente, ha suscitato non poche critiche le quali, oggi, hanno assunto i toni di una vera e propria protesta sfociata tra gli studenti del Pininfarina. A spingere la Fondazione a conferire la borsa di studio allo studente imprenditore, come è riportato sul sito web, vi è stata la volontà di promuovere lo spirito di iniziativa del giovane: «In un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi», si legge nell’articolo. Proprio stamani, il giovane imprenditore di merendine e la sua famiglia sono stati ospiti nella sede di Roma dell'ente erogatore del premio, presso la quale al ragazzo è stata conferita la borsa di studio. Un’occasione, quella di oggi, «per condividere assieme alla Fondazione Einaudi una bella giornata all’insegna della libertà e della creatività dello spirito imprenditoriale». Eppure, messaggio peggiore non sarebbe potuto passare dall’episodio in questione. Viva il liberalismo, viva lo spirito imprenditoriale, potrebbero sostenere alcuni difensori di tale corrente di pensiero, ma un dubbio sorge spontaneo: dove la mettiamo la legalità? Seppur i guadagni del giovane imprenditore non siano stati da capogiro, la sua azione non è di certo da incoraggiare, in quanto si poggia su basi scorrette, ovvero quelle dell’illegalità. Dunque, come dar torto a una lecita osservazione di uno degli slogan comparsi durante la protesta degli studenti del Pininfarina, il quale recitava «cervelli in fuga, venditori di snack abusivi da Nobel»? 

Torino, borsa di studio a studente che vende merendine a scuola. Protesta dei compagni: “Immeritata”. La decisione della Fondazione Einaudi di premiare il 17enne (già sospeso per 15 giorni) per il suo spirito imprenditoriale ha scatenato l'ira degli altri alunni Itis Pininfarina di Moncalieri. Assessore Regionale: "Messaggio sbagliato", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 13 dicembre 2016. Merendine comprate al supermercato e rivendute ai compagni a un prezzo più basso rispetto agli snack della scuola. Per l’istituto, il comportamento del 17enne torinese è scorretto, tanto che il ragazzo è stato sospeso per 15 giorni. Di tutt’altro parere la Fondazione Einaudi, che ha voluto premiare lo studente con una borsa di studio per il suo “spirito imprenditoriale”. Una decisione che ha scatenato le proteste dei compagni di scuola che questa mattina, mentre a Roma il ragazzo riceveva il premio, hanno organizzato un presidio davanti all’Itis Pininfarina di Moncalieri, alle porte di Torino. “E’ un premio immeritato: un illecito in una scuola non è un motivo serio per dare una borsa di studio”, dice uno studente. “Hanno dato una borsa di studio a caso”, aggiunge un rappresentante dei circa 500 studenti presenti alla manifestazione. E ancora: “Al Pinin non vince il dieci ma gli evasori”, “borse di studio anche per noi”, “cervelli in fuga, venditori di snack abusivi da Nobel”, sono alcuni dei cartelli esposti davanti alla scuola dagli studenti, che hanno anche mostrato alcuni messaggi dello studente-imprenditore in cui li prenderebbe in giro. “Noi non ce l’abbiamo con il nostro compagno, sia chiaro – dicono i ragazzi – ma riteniamo che questa borsa di studio sia stata data a caso”. Interviene anche la Regione Piemonte, che si schiera con gli studenti. “E’ comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni”, afferma in una nota l’assessora all’Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero. “Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un’innovativa capacità imprenditoriale”, aggiunge Pentenero. E così la storia di Antonio, papà operaio, mamma casalinga e un grande fiuto per gli affari, da giorni fa discutere tra i banchi dell’Itis di Moncalieri, e non solo. “Ho iniziato per scherzo, i compagni mi ordinavano la roba perché risparmiavano”, ha raccontato lo studente che si era inventato anche una chat su Whatsapp per raccogliere le ordinazioni. “Pagavo gli snack 30 centesimi, li rivendevo a 50. Alla macchinetta costano un euro”, ha spiegato il giovane che con questa attività avrebbe intascato, secondo alcuni, qualche migliaia di euro. “Saranno stati cento euro al mese”, ha sostenuto invece il ragazzo, che sogna di aprire un locale da gestire con i genitori e la famiglia. L’iniziativa di Antonio non è passata inosservata al preside dell’istituto, che lo ha punito per quello che era diventata una vera e propria borsa nera delle merendine. Quindici giorni di sospensione, spalmati su tutto l’anno, da passare in un’associazione di volontariato, perché “le regole vanno rispettate”, è stata la spiegazione, e perché “non sappiamo da dove provenissero le merendine ed è un problema di sicurezza alimentare”. Eppure per la Fondazione Luigi Einaudi, che dal 1962 promuove la diffusione del pensiero liberale, quello spirito d’iniziativa non è da punire, ma da promuovere. Per questo motivo, presso la sua sede romana di largo dei Fiorentini, il presidente Giuseppe Benedetto ha conferito un assegno e dei libri dei maestri del liberismo. “Con questa iniziativa non vogliamo certo premiare una attività illegale, che anzi condanniamo, ma semplicemente lo spirito di iniziativa imprenditoriale del giovane studente”, spiega Benedetto, che alla cerimonia ha anche invitato la famiglia dello studente e il suo preside. “Non ce l’abbiamo con Antonio, ma riteniamo sbagliato attribuire un premio a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche nella nostra scuola”, è la presa di posizione dei rappresentanti dell’istituto.

Moncalieri, la Procura apre un'inchiesta sul venditore di merendine: verifica fiscale sugli incassi. "Palma t'ammazzo" e "Muori male": alcune delle minacce comparse davanti al "Pininfarina" contro lo studente venditore di merendine. L'indagine affidata ai carabinieri, decisa dopo le minacce di morte allo studente comparse davanti al Pininfarina, si allarga a tutti gli aspetti della vicenda, scrive Jacopo Ricca il 16 dicembre 2016 su "La Repubblica". Finisce in procura la vicenda del venditore abusivo di merendine del Pininfarina di Moncalieri. I carabinieri della cittadina alle porte di Torino stanno preparando un rapporto su quanto accaduto nella scuola del ragazzo, dalla vendita abusiva di snack fino alle minacce ricevute negli ultimi giorni dal giovane. Da tempo il preside è in contatto con le forze dell'ordine che stanno monitorando la situazione: ieri è stato ascoltato come persona informata sui fatti per la relazione che i militari invieranno in procura. Tra le testimonianze raccolte dai mezzi d'informazione ci sono anche quelle dei compagni del diciassettenne che attribuiscono al padre del ragazzo un ruolo attivo nella vendita di merendine. Accuse sempre respinte dalla sua famiglia, ma che potrebbero portate a un coinvolgimento del tribunale dei minori e dei servizi sociali. Altro filone è quello del mancato pagamento delle tasse sui ricavi del business abusivo di merendine: secondo alcuni il guadagno in tre anni avrebbe raggiunto 15mila euro, ma è stato lo stesso venditore a riconoscere che negli ultimi tempi l'incasso mensile aveva raggiunto quota 800. Per questo l'informativa dei carabinieri sarà inoltrata anche all'Agenzia dell'Entrate e agli uffici comunali componenti che valuteranno se ci siano gli estremi per un intervento del Fisco.

Lo Studente sospeso: ai pusher però non fanno niente, scrive Martedì 22 Novembre 2016 "Leggo". L'idea era semplice ma geniale: dal momento che snack e bibite venduti nei distributori automatici della scuola erano troppo costosi, studiava appositamente le offerte di tutti i supermercati della zona e acquistava i prodotti più richiesti negli esercizi commerciali con i prezzi migliori, per poi rivenderli a scuola. Un piccolo business nato per gioco, ma illegale, che è già costato caro ad uno studente 17enne di Moncalieri (Torino) e che ora rischia di costare carissimo. «Tutto era cominciato lo scorso anno, quando mi resi conto che era troppo far pagare agli studenti 1,50 euro un tè freddo che al supermercato costa non più di 35 centesimi, o merendine da 30 centesimi addirittura un euro. Così iniziai a organizzarmi e a fare la spesa per i miei compagni di classe» - racconta Antonio, lo studente che gestiva il mercato parallelo - «Non vendevo a prezzi eccessivamente maggiorati, i margini di guadagno erano bassi ma chi comprava poteva risparmiare moltissimo rispetto alle macchinette. Poi mi sorpresero e fui prima sospeso e poi bocciato. Per parecchio tempo mi fu anche impedito di uscire dalla classe durante la ricreazione». Con l'arrivo del nuovo anno scolastico, il ragazzo ha riprovato l'avventura imprenditoriale, ma è stato colto sul fatto e sospeso ancora una volta. Il padre lo difende: «L'anno scorso lo sgridai e decisi di punirlo, poi mi aveva detto che alcuni compagni di classe continuavano a chiedergli quel favore. D'altronde, questa volta è stato sorpreso con poche merendine e qualche bottiglietta di tè. Antonio è un bravo ragazzo, molto timido. Non beve, non fuma, non si droga e non ha piercing né tatuaggio». Il ragazzo però non vuole accettare una nuova sanzione da parte della scuola: «C'è chi in classe porta e vende droga, ma a loro non fanno nulla. Perché?». La scuola fa sapere che si tratta di una decisione doverosa: quegli snack e bibite potrebbero essere scaduti o mal conservati. Antonio però non ci sta: «Li compravo il giorno prima al supermercato, non potevano essere scaduti». Il preside dell'Itis Pininfarina, Stefano Fava, avrebbe però in mente una sanzione alternativa: «Merita di essere punito ma non di essere lasciato solo, potremmo anche inserirlo in un progetto legato all'imprenditorialità e ai giovani». Il ragazzo, comunque, non ha dubbi sulle aspirazioni future: «Mi piacerebbe aprire un'attività per aiutare la mia famiglia, ma papà fa l'operaio e abbiamo solo il suo reddito».

Torino, snack a scuola. Parla Antonio: "Io, venditore di merendine, sospendono me e non i pusher". Il ragazzo di 17 anni che nella sua classe di Moncalieri smerciava spezzafame e bevande ai compagni "Nell’istituto gira droga, ma a loro non fanno niente", scrive Stefano Parola su "La Repubblica" il 22 novembre 2016. Il vicepreside lo ha visto entrare con uno zaino enorme e si è insospettito. Ora rischia una sospensione ancora più lunga della precedente, anche se il preside Stefano Fava sta pensando a una soluzione "alternativa": "Proporrò al consiglio di classe di inserirlo in un progetto legato all'imprenditorialità. Vogliamo lavorare per il successo dello studente, non lo lasceremo indietro", assicura. Faccia da bravo ragazzo, papà operaio, mamma casalinga, una famiglia numerosa. Antonio racconta a Repubblica la sua versione dei fatti con il papà al suo fianco, che lo definisce "bravo, timido: non fuma, non si droga, non beve, non ha piercing né tatuaggi".

Partiamo dall'inizio: dopo aver letto quell'articolo, come le è venuto in mente di passare all'azione?

"Quando ho notato che gli snack a scuola erano cari. Un tè freddo da mezzo litro costa 1,50 euro, quando al supermercato va dai 29 ai 35 centesimi. Ho iniziato per scherzo: i compagni mi ordinavano la roba, perché risparmiavano".

E una merendina dopo l'altra, il mercato si è ingrandito. Dicono che lei avesse un bel giro d'affari, è così?

"Ma no, mi usciva a malapena una ricarica telefonica al mese. Durante il mio periodo di attività mi sono comprato un cellulare usato da 300 euro, niente di più. È vero che nel mio istituto ci sono 1.700 allievi, ma mica compravano tutti da me".

Quanti clienti aveva?

"Guardi, quando mi hanno beccato la settimana scorsa nello zaino avevo 20 snack, 10 lattine di bibite e 10 tè freddi".

Com'erano le tariffe?

"Pagavo gli snack 30 centesimi, li rivendevo a 50. Alla macchinetta, però, costano un euro. I margini erano minimi, faccia lei i conti. Saranno stati cento euro al mese".

A scuola si parla di cifre ben più alte.

"Girano tante voci, qualcuno è invidioso".

Dicono che fosse anche molto attento ai gusti dei suoi compagni.

"Avevamo una chat su Whatsapp e loro mi dicevano cosa avrebbero voluto. Io andavo al supermercato e compravo ciò che serviva".

E i compagni? Tutti soddisfatti?

"Erano tutti contenti perché risparmiavano. Ecco, la cosa che mi fa arrabbiare è che a scuola gira droga, ma a chi la porta non viene detto nulla. A me invece...".

Però anche vendere prodotti in nero è illegale. Infatti lo scorso anno lei era già stato sospeso, no?

"Per dieci giorni. In più, per 20 giorni sono stato piantonato in classe durante i due intervalli, delle 10 e delle 12, in modo che non potessi smerciare gli snack".

Il preside ha fatto notare che in ballo c'era anche una questione di sicurezza alimentare: come potevano essere sicuri che i suoi prodotti non fossero scaduti o mal conservati?

"Li compravo poco prima al supermercato, lì mica vendono le cose scadute".

Nonostante la punizione, la settimana scorsa ci è ricascato: perché?

"Tutti i miei compagni continuavano a chiedermi la roba".

E i suoi genitori non si sono accorti di nulla?

Qui interviene il papà di Antonio: "L'altra volta l'ho punito. Poi mi diceva che i suoi compagni continuavano a chiedergli di portare merendine e io pensavo fossero quattro, cinque, dieci compagni. Poi, appunto, quando l'hanno scoperto aveva una ventina di snack, parliamo di una classe".

Antonio, da grande cosa vorrebbe fare?

"Il mio sogno sarebbe aprire un locale per far lavorare la mia famiglia e i miei fratelli. Mi piace avere a che fare con le persone. Ma è un sogno irrealizzabile, papà fa l'operaio, abbiamo solo il suo reddito".

Spacciatore di merende, scrive il 23/11/2016 Massimo Gramellini su "La Stampa". Per capire l’aria di rivolta che si respira in giro, l’adolescente di Moncalieri punito dalla scuola perché vendeva merendine è già un eroe nazionale. Le notizie che lo riguardano sono tra le più condivise sul web e la sua storia di intraprendenza al di fuori delle regole, lungi dallo scandalizzare, affascina. Anche me. Di lui colpisce la capacità di mettersi nei panni degli altri per coglierne i bisogni e trasformarli in affari. Quanti manager strapagati la possiedono ancora? Ai vertici di troppe aziende pascolano individui che se ne infischiano dei clienti e pensano solo a fare carriera con le pubbliche relazioni. I veri affossatori del capitalismo sono loro. Il giovane Antonio osserva gli snack nelle macchinette della scuola e si accorge che costano il quintuplo rispetto al supermercato. Allora va a fare la spesa, riempie lo zaino di merendine e le rivende ai compagni a un prezzo lievemente superiore, ma pur sempre conveniente. L’abicì del commerciante di razza. Di lui piace la diversità che lo rende inviso al sistema, messo in crisi dal suo spirito di iniziativa. E il sistema reagisce, normalizzando il diverso in nome delle regole. Quelle stesse regole che i conformisti possono invece violare ogni volta che vogliono. Antonio dice: puniscono me e non il pusher che nello stesso corridoio smercia la droga. Per fortuna nel sistema c’è una crepa: un preside intelligente. Ribalta la decisione dei sottoposti di sospendere lo spacciatore di merendine e propone di affidargli un progetto imprenditoriale. Applausi (e tasse, ma in modica quantità).

Torino, tutti vogliono assumere il ragazzo che vende merendine. Ha fatto breccia tra gli imprenditori la storia dello studente del Pininfarina, scrivono Stefano Parola e Jacopo Ricca su "La Repubblica" il 23 novembre 2016. Dopo aver ricevuto tanta solidarietà da tutta Italia (ma pure molti rimbrotti e inviti a rispettare le regole, per il ragazzo che aveva creato un mercato alternativo e abusivo di merendine a basso costo nell'Istituto Pininfarina di Moncalieri sono arrivate pure delle offerte di lavoro. Andrea Visconti, co-fondatore di una startup torinese chiamata Sinba, dice di avere una proposta di assunzione pronta: "È strutturata in modo che Antonio possa finire la scuola", assicura l'imprenditore, che spiega di aver vissuto un'esperienza simile al liceo. "Abbiamo ricevuto investimenti importanti e li vogliamo utilizzare per puntare sui giovani talenti italiani: lui è esattamente il prototipo di talento che stiamo cercando" dice Visconti, che ha costruito la propria azienda attorno a un'applicazione per cellulari che consente di pagare senza fare code in cassa. Anche Michele Valentino, giornalista e co-proprietario di M&C Media, una piccola società di comunicazione, ha scritto al Pininfarina per offrire "uno stage formativo al fine di indirizzarne in modo positivo lo spirito di imprenditorialità, di creatività e di iniziativa". Insomma, la storia di Antonio (questo il nome di fantasia usato da Repubblica per raccontare la sua storia) ha fatto breccia nei cuori degli imprenditori, nonostante le regole infrante. Sarà il consiglio di classe di venerdì a stabilire quale punizione infliggergli, anche se il preside Stefano Fava sta pensando a una soluzione per veicolare l'intraprendenza del ragazzo nella giusta direzione. Su tutto il resto, il dirigente predica calma: "Ci sono arrivate proposte ma le valuteremo nei prossimi giorni, quando richiamerò chi ce le ha inviate. In questo momento voglio tutelare sia lo studente coinvolto sia i tanti allievi della mia scuola. Il mio obiettivo sono loro". Anche l'I3p, l'incubatore d'impresa del Politecnico di Torino, è pronto a dare una mano: "Con il Pininfarina abbiamo già avviato un progetto di avviamento all'imprenditorialità e siamo pronti a rafforzarlo ancora" assicura il presidente Marco Cantamessa. La storia di Antonio ha colpito pure lui: "Ci sono talenti che vanno stimolati, ovviamente vanno aiutati, ma mai e poi mai vanno considerati come malati". In fondo, dice il docente del Poli, "è normale che l'imprenditore sia un po' matto e che talvolta si ponga ai confini delle regole. Ovvio, le norme vanno rispettate. Ma non possiamo pensare di 'normalizzare i nostri ragazzi più intraprendenti". Domani Alberto Barberis, presidente del gruppo Giovani imprenditori dell'Unione industriale di Torino, incontrerà il preside del Pininfarina: "Vogliamo dare la nostra disponibilità per insegnare al ragazzo come diventare imprenditore attraverso un percorso di tutoraggio", spiega il numero uno degli industriali under 40. E commenta: "La sua intuizione è apprezzabile: ha individuato un bisogno e ha cercato di soddisfarlo. I modi invece non lo sono e probabilmente questo è dovuto al fatto che lo studente non è stato formato adeguatamente su cosa significhi essere imprenditore e avere un'attività. Per questo crediamo che anziché condannarlo sia meglio formarlo".

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su "ItaliaOggi". Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti). Ne consegue una constatazione ovvia, per quanto dolorosa, che nulla toglie al merito – a volte condotto fino all'eroismo – di singoli magistrati che sacrificano le loro giornate e a volte la loro vita per compiere al meglio un dovere esigentissimo: la constatazione è che di tanti singoli magistrati ci si può fidare, della magistratura come «sistema» no. Essa è parte del problema generale dell'inefficienza di una macchina statale e burocratica che rappresenta il vero male oscuro (mica tanto oscuro) dell'Azienda Italia. Pensare che questa magistratura, così com'è, sia la soluzione al problema generale della cattiva amministrazione è quantomeno ingenuo. I vizi del nostro pubblico impiego – talmente eclatanti da essere meritatamente tema costate della commedia all'italiana – ricorrono tutti anche nella «casta delle toghe»: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressappochismo. Bisognerebbe riformare la magistratura: ma non può farlo nessuno, se non essa stessa. Chi ci prova dall'esterno – compreso Renzi – viene respinto con perdite e anatemi. E immediatamente comincia a temere, forse a torto forse no, rappresaglie. Allora che la magistratura si autoriformi. Piercamillo Davigo, il segretario dell'Associazione magistrati, è certo un magistrato duro, serio e severo. Non sarà contento che le nuove leve della categoria siano selezionate grazie ai geroglifici che segnano sui compiti per farli riconoscere dagli esaminatori imbroglioni.

Per Montesquieu (1748): «Chiunque abbia potere è portato a abusarne, egli arriva fin dove non trova limiti». Ci vuole «il potere che arresti il potere», scrive Serena Gana Cavallo su "ItaliaOggi". Numero 206 pag. 10 del 31/08/2016. Recentemente su queste pagine (ItaliaOggi del 20/08/2016) Sergio Luciano ha trattato il caso, rivelato da Il Fatto Quotidiano, dei concorsi per la magistratura vistosamente e diffusamente truccati. Luciano, invitando ad una riflessione sullo stato della Magistratura, ha invocato una riforma, o meglio una autoriforma, promossa magari da Piercamillo Davigo, di recente assurto al ruolo di Segretario della corrente sindacale (maggioritaria) Magistratura democratica. Condividendo molte delle affermazioni di Luciano, trovo tuttavia alquanto irrituale, se non impraticabile, l'idea che una sindacato, o meglio una corrente sindacale, possa e voglia procedere ad una «autoriforma», anche perché la bandiera, in genere di un sindacato, ma in particolare sventolata da sempre da Magistratura Democratica, è la difesa ad oltranza della categoria, di cui si paventano sempre, e da sempre si denunciano, biechi tentativi di instaurare un «limite all'autonomia dei magistrati», che scorrono per li rami dei governi, che si impersonificano in ogni tentativo di riforma, ma financo e addirittura, nella drammatica imposizione di una diminuzione delle ferie. La teoria della divisione dei poteri ha una storia lunga, ma il suo massimo teorizzatore, da cui traggono origine i moderni assetti costituzionali, fu Montesquieu che la enunciò nel 1748, con una premessa fondamentale e, nell'attualità del tema di cui trattiamo, da tenere molto a mente: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne: egli arriva sin dove non trova limiti. ( ) Perché non si possa abusare del potere occorre ( ) che il potere arresti il potere.» In Italia questo principio ha trovato, in senso non metaforico, una sua concretezza quando il potere giudiziario ha letteralmente arrestato il potere esecutivo, ma, sempre in Italia, il potere giudiziario, nel nome dell'autogoverno, non ha limite e men che meno chi (metaforicamente, ma anche materialmente) lo arresti. Montesquieu non lo aveva pensato così, anzi, essendo i principali poteri fondamentali quello legislativo (formato dati i tempi, da una parte di nobili ed una parte di rappresentanti del popolo), e quello esecutivo (all'epoca il monarca), avevano comunque entrambi una possibilità di interdizione reciproca. Il potere giudiziario veniva definito un «potere nullo», che avrebbe dovuto essere affidato a giudici «tratti temporaneamente dal popolo», in pratica con una legittimazione elettiva (come avviene ad esempio negli Usa) e non sempiterna. In definitiva si potrebbe dire che l'amministrazione della giustizia era considerata come un «servizio» al popolo, sotto il controllo del popolo. Andando avanti di qualche secolo, in un sistema democratico non vi dovrebbe poter essere alcuna forma di «potere» senza un mandato del popolo (nel nome del quale, così si racconta, si amministra la Giustizia in Italia) e men che meno senza un suo «periodico» controllo esterno, comunque lo si voglia configurare, al pari di quel che sono le periodiche elezioni per potere legislativo ed esecutivo. In pratica andrebbe abolito il mito del (buon)autogoverno, e ancor più l'auspicio di una autoriforma, concetto irrealistico, che implica che la Magistratura è una specie di zona extraterritoriale dove tutto il bene e tutto il male si sviscerano (a piccole dosi per il male) solo al suo interno. Dopo aver reso il sempre dovuto omaggio al merito di «singoli magistrati che sacrificano le loro giornate [per questo son pagati n.d.a] e, a volte la loro vita [come molte altre categorie n.d.a.] per compiere al meglio un dovere esigentissimo [come quello di un medico o di un pompiere n.d.a.]», Luciano giustamente conclude che la magistratura deve cambiare e che in essa «i vizi del nostro pubblico impiego ( ) ricorrono tutti nella casta delle toghe: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressapochismo». Luciano dimentica purtroppo un altro «vizio» alquanto diffuso: la corruzione, ché in nessun altro modo può essere definita la prassi di un concorso fasullo e truccato, ciascuno col suo segnale o scarabocchio identificativo, e che arriva peraltro anche all'onore delle cronache quando la «corporazione» si rende conto che non c'è difesa possibile, salvo, dopo, trascinare interminabili processi che comportano l'estinzione di un bel po' di reati (come abbiamo già scritto in passato su queste pagine). Sulla deriva della magistratura, politica, funzionale e disciplinare, Luciano ricorda il bel libro di Liviadotti, «L'ultracasta», ma anche altri varrebbe la pena di citare «Io non avevo l'avvocato», Mondadori, 2015, di Mario Rossetti, scritto tra l'altro proprio con Sergio Luciano, Mondadori, 2015, e, tra i tanti di magistrati (che in genere scrivono dopo essere o essersi pensionati e questo la dice lunga sulle correnti sindacali della categoria) Piero Tony, «Io non posso tacere», Einaudi 2015, che tra l'altro indica alcune indispensabili modifiche per la riforma del sistema giudiziario, a partire da quella separazione delle carriere tra accusatori e giudicanti, che, esecrata dalla categoria, sarebbe un cambiamento che darebbe un minimo di decenza al processo accusatorio con accusa e difesa simmetriche e veramente autonome, senza ibride e pregiudizievoli (per la Giustizia ancor prima che per il cittadino) contiguità. Le ricette non mancano, è il medico che non si vede e che certo non può essere il malato.

L’Italia della de-meritocrazia, scrive Giulia Cortese l'11 febbraio 2016. Futuro Europa Il concetto di “meritocrazia” è molto utilizzato nel dibattito pubblico, non solo dai giornalisti, ma anche da imprenditori, politici, insegnanti e qualche volta anche dai sindacalisti. Il termine è certamente sfuggente, controverso e si presta a numerose polemiche. Secondo la definizione sul vocabolario on line Treccani, si tratta di una “concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, in particolar modo le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli”. Almeno in linea di principio, tutti concordano che in Italia di “meritocrazia” ve ne sia ben poca. Qualche anno fa, quando Paolo Casicci e Alberto Fiorillo hanno iniziato a scrivere “Scurriculum. Viaggio nell’Italia della demeritocrazia”, hanno trovato un mucchio di storie esemplari. Storie che dimostrano in modo inequivocabile come l’attuale sistema mortifichi i più bravi costringendoli spesso a regalare la loro intelligenza e la loro preparazione alle università, alle aziende, ai Paesi stranieri e premi, al contrario, quanti hanno in tasca la tessera “giusta” o il numero del “deputato giusto”, mentre le aziende statali o comunali vengono utilizzate come sfogatoio per i trombati o premio per i fedelissimi; o ancora per agganciare vistose signorine dai curricula evanescenti. Un sistema distorto ed autolesionista che infetta la società italiana, rendendola sempre più debole e incapace di stare al passo di un mondo che cambia a velocità immensamente superiore alla nostra. Segnalazioni, suggerimenti, nomi e cognomi detti al momento giusto e alla persona giusta. L’Italia dei raccomandati funziona così. Ma quante sono nel nostro Paese le persone che devono il proprio posto alla cosiddetta spintarella? Per rispondere all’annosa questione arriva uno studio dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori), condotto nel 2015 su 40mila individui fra i 18 e i 64 anni. A detta degli intervistati, la raccomandazione in Italia è ancora il canale principale per entrare nel mondo del lavoro: il 30,7 per cento dice infatti di avere ottenuto l’impiego attuale grazie ad un amico o un parente che ha fatto da “intermediario”. E le cifre salgono se si considerano soltanto i lavoratori più giovani, fra i quali ci sarebbero addirittura quattro raccomandati su dieci. Si può misurare la meritocrazia? Si può cercare di farlo costruendo un indicatore che sintetizza le varie dimensioni in cui si articola un sistema sociale ed economico orientato, appunto, alla promozione del merito. Rispetto agli altri paesi europei, i risultati dell’Italia sono sconfortanti. L’associazione no-profit Forum della Meritocrazia, con la collaborazione di un pool di ricercatori ed esperti dell’Università Cattolica di Milano, ha provato a misurare lo “stato del merito – come si legge nel rapporto finale dell’indagine – in un Paese”, utilizzando dati forniti da Commissione Europea, Ocse, The Economist, World Justice Project e altri enti, rapportando il tutto a livello europeo e cercando di capire come siamo messi in Italia. E tutte le impressioni sembrano essere confermate: siamo messi male. L’Italia si colloca al non-sorprendente ultimo posto della classifica sui dodici Paesi europei presi in esame; in cima, le prime quattro posizioni sono occupate da Finlandia, Danimarca, Norvegia e Svezia. E fin qui, nulla di strano. Il dato più interessante, però, riguarda i risultati rilevati nei singoli indicatori: nonostante nessuno riesca a fare peggio di noi, dati particolarmente negativi sono stati riscontrati alle voci trasparenza, libertà e regole (il rapporto è disponibile on-line). Che vogliate essere esterofili o no, i dati parlano chiaro: in Europa siamo indietro anni luce alle spalle di Paesi – con i quali coesistiamo nella stessa Unione – che avranno sì i loro problemi, di ordine diverso rispetto ai nostri, ma rappresentano baluardi di civiltà su punti che dovrebbero costituire le fondamenta di una società contemporanea giusta e, appunto, meritocratica. Marco Pacetti, Rettore del Politecnico di Ancona, la mette così: “Negli Stati Uniti la rete di conoscenze è sì importante, ma bisogna soprattutto essere in gamba. In Italia invece, nessuno crede che coloro che si affidano alla raccomandazione abbiano anche competenza e merito”. “È questa la differenza fra una lettera di raccomandazione e una “raccomandazione”, aggiunge Pacetti con riso beffardo. In America, “chi scrive la lettera di referenze, si prende la responsabilità di segnalare una persona preparata, non un idiota.” Dal punto di vista economico, la carenza di merito si associa all’idea di un sistema poco efficiente, perché non consente un’allocazione ottimale delle risorse, cioè di far giungere nel posto giusto chi può svolgere meglio quel ruolo. Tutto ciò finisce per comprimere la mobilità sociale, come molti studi documentano, facendo dipendere gli esiti individuali più da luogo e famiglia di origine che dall’impegno personale, competenze e capacità. “All’estero la raccomandazione ha una connotazione positiva – afferma Alessandro Fusacchia presidente dell’associazione RENA – se qualcuno decide di sponsorizzarti lo fa perché sei bravo, perché crede in te, e ci mette la faccia insieme a te. In Italia è tutto l’opposto: ci si sente più forti se si riesce a piazzare uno che bravo non è”. Il “benefattore”, poi, lavora nell’ombra, contribuendo ad alimentare un sistema che è parte della cultura del Bel Paese. “Un problema che non è legato soltanto alla classe politica – conclude Fusacchia – perché in Italia alle raccomandazioni si ricorre per tutto, dal posto di lavoro al permesso per il parcheggio sotto casa”. C’è qualcosa che i politici, e in particolare il nuovo governo, dovrebbero fare? “Semplicemente cominciare a dare l’esempio, per avviare un cambiamento che dovrebbe coinvolgere gradualmente l’intera società civile”.

Meritocrazia e demeritocrazia di Eva Zenith. Una società non può essere meritocratica senza essere anche demeritocratica. Non possiamo mettere al centro di una cultura il merito, cioè il talento e l'impegno, se non mettiamo al centro anche il demerito, cioè l'incompetenza e i fallimenti. L'Italia è un Paese dove il merito viene soffocato dall'invidia, dalla svalutazione (chi studia molto è un secchione, chi lavora molto è uno stakanovista) e dalla cultura della clientela. Allo stesso tempo è un Paese dove il demerito viene premiato. Se le cose vanno bene, il merito non è di qualcuno, è di tutti. Se le cose vanno male, il demerito non è di nessuno, oppure di un bel capro espiatorio. Per essere responsabile di qualcosa, in Italia, devono trovarti mentre svuoti la cassa o uccidi qualcuno: e non è detto che anche allora tu non possa cavartela. Siamo un Paese per niente meritocratico ma molto comprensivo! In una società del merito e del demerito, i ricercatori che hanno sbagliato tutti i sondaggi delle ultime elezioni dovrebbero sparire dai mass media. Invece no.  In una società del merito e del demerito, un amministratore pubblico che dopo un mandato lascia l'organizzazione in condizioni peggiori di come l'ha trovata, dovrebbe essere cancellato dalla lista degli amministratori pubblici. Invece no: noi lo confermiamo o lo promuoviamo. In una società del merito e del demerito, un politico che perde le elezioni dovrebbe essere cacciato: invece no. Vincitori e vinti si alternano restando abbarbicati alle loro sedie per vent'anni o più. In una società del merito e del demerito, un economista che sbaglia clamorosamente una previsione dovrebbe essere punito come un medico che sbaglia una diagnosi. In Italia no: i nostri economisti sostengono un'idea e il suo contrario, fanno previsioni regolarmente errate, propongono ricette fallimentari ma nessuno li priva mai di un posto da consulente ministeriale, da saggio o da Presidente del Consiglio. Unanimemente, tutti dichiarano che la legge elettorale in vigore è orribile. Ma quelli che hanno ideato e votato quella legge sono ancora sulla scena a blaterare delle future leggi elettorali. In un Paese meritocratico, i firmatari di quella legge sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Unanimemente, tutti attribuiscono la crisi dell'euro all'assenza di una Banca centrale che possa battere moneta. Lo dicono anche quelli che hanno voluto questo euro. Non sapevano allora che l'assenza di un'autorità monetaria avrebbe messo tutti nei guai? In un Paese meritocratico, i firmatari di quella legge sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Unanimemente, tutti odiano Equitalia e la considerano una sciagura. Il fatto è che Equitalia non è stata data alla luce e regolata da un folletto diabolico. La sua protervia, la sua crudeltà, i suoi interessi "usurari", i suoi modi da Kgb non sono (solo) il frutto di burocrati sadici: sono stabiliti da leggi, norme e regolamenti prodotti da ministri, governi e parlamentari con nomi e cognomi. In un Paese meritocratico, i firmatari di quelle leggi, norme e regolamenti sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Quando trova un finto invalido, un Paese che dà valore al merito, non solo punisce lui, ma anche il medico e i funzionari che hanno firmato la pratica, e magari il responsabile dell'INPS locale che non si è accorto di niente. Noi siamo così disinteressati al demerito che non divulghiamo nemmeno i nomi di tutti questi figuri. I mass media non si fanno nessun problema a mettere in piazza le vite private di donne stuprate e ammazzate, ma mai sentirete da loro il nome di un medico che ha creato 300 o 400 finti invalidi. Non è elegante. Quando trova dipendenti pubblici che fingono di stare al lavoro mentre vanno a fare la spesa, o a giocare con le slot machines, un Paese che dà valore al merito, non si limita a punire loro. Punisce anche i loro capi/reparto o capi/ufficio che non si accorgono di avere collaboratori presenti ma assenti. E punisce anche i dirigenti, strapagati per non dirigere alcunchè; e magari punisce anche gli amministratori, per manifesta incapacità. Invece no: non sarebbe rispettoso. Tutto finisce con un rimbrotto e una risata, alla faccia dei dipendenti pubblici che stanno sempre al loro posto, dei capi che li controllano davvero, dei dirigenti che dirigono sul serio, e degli amministratori capaci. D'altronde perchè i capi, i dirigenti e gli amministratori dovrebbero fare il loro mestiere sul serio visto che le loro carriere non dipendono dai meriti ma dalle affiliazioni? Quanti docenti universitari sono stati cacciati dalle loro cattedre per aver palesemente truccato un concorso? Quanti magistrati, avvocati e notai hanno pagato per i loro mostruosi errori giudiziari o legali? Quanti medici hanno dovuto cambiare lavoro dopo i 5/6 morti che non hanno salvato? Quanti segretari comunali sono stati puniti per gli appalti truccati? Quanti generali e capi della polizia hanno perso il posto per aver consentito il nonnismo fra le truppe o i pestaggi dei dimostranti? Quanti sindacalisti hanno pagato per aver taciuto sulle illegalità dell'impresa? I politici che si sono fatti derubare dai loro tesorieri, sono stati puniti per connivenza o manifesta stupidità? E ancora si presentano per chiedere di amministrare l'Italia? Insomma, è chiaro a tutti ormai che le prediche dei tromboni del regime sul necessario riconoscimento dei meriti (specie dei giovani) e delle responsabilità (specie della casta), sono un esercizio di manipolazione. L'Italia è un Paese fondato sul demerito e se ne vanta. Volete la meritocrazia? Emigrate, please!

Demeritocrazia. Perchè l’Italia merita tutti i problemi che ha, scrive il 17 gennaio 2012 "Libertiamo". Siamo così ricchi di autoironia, e probabilmente anche di scarso pudore, da aver intitolato “I raccomandati” un talent show, ovvero una gara che premia il talento, e quindi il merito. Nonostante questo, è impossibile fare a meno di notare certe facce e certi corpi deambulanti tra Montecitorio e i palazzi della Regione, i quali confermano che l’Italia è un paese fondato sulla spintarella. Come quella piuttosto evidente e vigorosa che ha sbalzato l’ormai leggendaria Nicole Minetti dalle scenette di Colorado Café ai piani alti del Pirellone. Viene in mente a proposito anche Renzo Bossi, il primogenito del leader del Carroccio Umberto Bossi, noto anche come “il Trota”. Questo perché, ci conferma suo padre, gli manca il fosforo per essere un delfino. Qualche sospetto, in effetti, verrebbe anche noi, ma non ci stupisce nemmeno che il cognome abbia favorito Renzo nel passaggio da ripetente di professione a Consigliere Regionale. Che dire, poi, degli svarioni grammaticali della deputata pidiellina Micaela Biancofiore? E’ l’ennesima conferma del fatto che nel cosiddetto “belpaese” contano ben poco la Conoscenza, anche dell’italiano, rispetto alle conoscenze, specie se berlusconiane. Arcore e Palazzo Grazioli, infatti, si sono rivelati ottimi uffici di collocamento: oltre al lavoro, in molti casi hanno garantito anche vitto e alloggio, in una strada di Milano divenuta ormai celebre: Via Olgettina. Una volta si usava spartirsi le poltrone dei Tg, e il refrain era: “assumiamo sette giornalisti: tre democristiani, due socialisti, un comunista e uno bravo”. Di questi tempi vengono lottizzate anche le fiction televisive. Abbiamo ogni buona ragione per dire che si è creata una sorta di Costituzione orale della Seconda Repubblica, che si è manifestata, ad esempio, nelle telefonate dell’ex premier Silvio Berlusconi all’ex dirigente Rai Agostino Saccà. Telefonate che avevano come obiettivo quello di sistemare in tv, ragazze di dubbia serietà come Elena Russo, Camilla Ferranti e Eleonora Giaggioli. E’ una novità di questi tempi, questo salto di qualità nella raccomandazione. La “spintarella”, di per sé, non è niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe commentare. Il ricorso a questa arte tutta italica è uno sport nazionale, che come abbiamo visto viene festeggiato anche dalla stessa Tv e dai suoi programmi. Si tratta di una condotta, una delle tante, che ci distingue nettamente da tutti gli altri paesi europei. Certo, qualcuno potrebbe ribattere facilmente che è da moralisti indignarsi se l’Italia mantiene in vita un costume tradizionale, da furbetti è vero, ma tutto sommato utile a sopperire a delle grosse mancanze strutturali. Il fatto è che la furbizia italica e la logica che ha permesso e favorito il sistema del clientelismo, oltre a consolidare in noi italiani un’attitudine di scarso senso civico e di rigore morale, oltre a farci dimenticare principi quali giustizia e meritocrazia, sono in realtà strumenti obsoleti e inadeguati in uno scenario sociale e soprattutto economico che è mutato profondamente negli ultimi decenni. L’aspetto più drammatico dello scenario descritto finora è che la demeritocrazia non solo offende l’etica e la voglia di fare delle persone oneste e magari anche di talento, ma strozza anche l’economia. Quella italiana, non per niente, mostra di essere in frenata e di avere una grossa difficoltà di ripresa, mentre paesi dinamici e meritocratici come la Germania sono cresciuti al 5% l’anno anche in tempi di profonda crisi. A proposito di questo viene in mente una citazione dell’economista Tito Boeri: “Tutti battono sul tasto della morale, io vorrei concentrarmi su quanto ci costa ignorarla. I danni economici sono evidenti: la demeritocrazia inibisce la crescita, frustra la produttività, manda in fuga i cervelli”. Le statistiche, infatti, ce lo confermano: sono 6 mila i lavoratori italiani altamente qualificati che ogni anno scappano verso i civili Stati Uniti. Se 20 anni fa a emigrare erano soprattutto le persone con i gradi minori di istruzione, oggi l’emigrante tipo è il laureato con i voti migliori. La cosa peggiore è che, una volta espatriati, questi giovani preferiscono rimanere nel paese dove si sono trasferiti, perché lì viene maggiormente premiato il loro talento e si sentono maggiormente sostenuti, hanno maggiori chance di fare carriera e stipendi più alti. Vi è poi il problema della “stagnazione” delle università italiane, che sono notoriamente prigioniere dei baroni, nonché uno degli habitat naturali della demeritocrazia. A descrivere in modo efficace la situazione in cui riversano i nostri atenei è una frase di Indro Montanelli: “Più che sui generis, i concorsi universitari sono sui cognatis”. La competenza non conta nulla, il curriculum vitae ancora di meno, conta solo il sangue, nel senso di parentela. Qualche esempio? Alla Sapienza di Roma, il magnifico rettore è Luigi Frati, che qualcuno dava in odore di ministero (alla Sanità) nel governo Monti. Nella Facoltà di Medicina di cui è stato preside, tra l’altro, hanno ottenuto una cattedra la moglie Luciana, laureata in lettere, e il figlio Giacomo, ordinario a “soli” 36 anni (traguardo impossibile per i comuni mortali accademici italiani).  A poca distanza, a Roma Due, è professore straordinario di Bioetica la figlia Paola, giurista. Viene difficile pensare che si tratti di pure coincidenze. Scendendo verso la parte bassa dello stivale, a Palermo, nel dipartimento di Economia dei sistemi agroforestali, 10 docenti su 19 sono imparentati tra loro. A Bari, poi, ci sono otto Massari, tutti consanguinei. Non si tratta della solita questione di arretratezza del meridione, e ne è prova il fatto che alla Statale di Milano i casi accertati di parentela sono 54, mentre alla facoltà di Medicina di Udine ci sono quattro Bresarola: il capostipite Fabrizio, due figli, di cui uno laureato in filosofia, e una nuora. “Parentopoli” non è nemmeno l’unica fonte di collocamento, perché a dare la “spintarella” ci pensa anche la massoneria e più in generale, le lobby (“bianche”, “rosse”, “nere” e Comunione e Liberazione). A questo punto, forse sarebbe anche il caso di abolire i concorsi, visto che in questo stato di cose non hanno alcuna credibilità. Costano 40 milioni di euro all’anno, tra l’altro, e l’esito è già prestabilito. Chi non sta alle regole, è fuori. Si tratta di un sistema tanto chiacchierato e oggetto di generale indignazione, ma che fino a oggi tutti hanno accettato. L’importante è cercare di fare meno nomi possibili, funziona così l’università italiana. Studenti, dottorandi e ricercatori, magari dopo una vita di studio, esperienze all’estero e pubblicazioni in riviste autorevoli, aspettano il loro turno, ma non è detto che ce la facciano. Per questo sono nati centinaia di blog e siti internet che danno voce alla loro frustrazione: per difendere l’università pubblica e la voglia di un futuro più onesto e più giusto. Vi è lo stesso identico andazzo anche negli ospedali, dove sono stati praticamente aboliti i concorsi per diventare primari, visto che a essere selezionati sono quasi sempre quelli con la tessera politica giusta, a scapito dei più meritevoli. Ne consegue che sono aumentate le denunce per mala sanità e gli ospedali sono a volte costretti a pagare dei risarcimenti ai pazienti-vittime. C’è solo da sperare che si smetta di promuovere gli incompetenti, visto che, oltretutto, è poco conveniente da un punto di vista economico. L’etica e la reputazione, si sa, non sono certo delle priorità. Di demeritocrazia si può anche morire professionalmente, almeno in Italia, anche nei casi di persone che, se fossero altrove, avrebbero un percorso decisamente più immediato, ma solo grazie alla loro preparazione e talento, e non certo per le conoscenze. Siamo arrivati a un punto, dunque, in cui le carriere si trasmettono per via ereditaria, come le monarchie o le malattie genetiche? Una risposta ce la dà una ricerca del think thank Italia Futura, secondo cui il 44% degli architetti è figlio di architetti, cifra che è leggermente inferiore per avvocati e notai (42%) e farmacisti (40%). Eppure, la meritocrazia è un tema che piace a un buon numero di italiani. Ne stanno parlando i blog, si fanno dibattiti in radio e in Tv, il tema è stato abbordato perfino dal Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano. L’esigenza di meritocrazia in qualche modo è “rispecchiata” dal nuovo governo di professori, tutti esperti dai capelli grigi. Nel nuovo governo sono numerose le donne ad avere ruoli di prestigio, ma fortunatamente nessuna di esse è arrivata alla politica tramite concorsi di bellezza, o ha un passato da velina. Per fortuna c’è anche chi sceglie la via del rigore e del duro lavoro, del farsi strada con le proprie forze e senza scorciatoie. Vi è un gruppo di ragazzi che vuole cambiare in meglio l’Italia, a colpi di talento e di tenacia: sono i giovani che hanno aderito al think thank “Forum della meritocrazia”, presieduto dall’imprenditore Arturo Artom, che ha come obiettivo principale quello di iniettare entusiasmo tra i giovani e di essere per loro un punto di riferimento. Vuole essere il mezzo e il messaggio, come diceva Marshall Mc Luhan. L’Italia ha bisogno che si diffonda la cultura dell’esempio, contro le mele marce che rovinano il cesto e fanno sentire sconfitti. Anche per questo, alle prossime elezioni il “Forum della meritocrazia” farà una certificazione di tutti i candidati. La cosa sarà senz’altro divertente anche per noi. Per quanto riguarda la terza repubblica, l’Italia post spread e si spera anche post raccomandazioni, possiamo solo augurarci che si venga a creare, una volta per tutte, un mantra contro caste, raccomandazioni, listini bloccati in politica, nepotismo e tutte quelle opacità che trovano spazio negli ospedali, nelle università, nell’impresa e nel palazzi del governo, dove i principali criteri di assunzione sono stati finora decisamente poco nobili e per nulla meritocratici. Se si vuole cambiare veramente le cose nel nostro Paese, sarà importante che, a poco a poco, coloro che vogliono “giocare pulito” facciano rete, radicandosi a poco a poco su tutta la penisola. Perché, la cosa è certa, l’Italia ha bisogno soprattutto di persone come loro.

“Se perdo al referendum non mi vedrete più”. Tutte le promesse non mantenute di Renzi e Pd. Siccome le parole sono importanti è tempo di pubblicare la raccolta definitiva di tutte le volte in cui l'ex premier, Maria Elena Boschi e i colleghi democratici hanno promesso di abbandonare definitivamente governo e vita politica in caso di vittoria del No al referendum, scrive Wil Nonleggerlo il 14 dicembre 2016 su "L'Espresso". “Se vince il No finisce la mia storia politica”, “cambio mestiere e non mi vedrete più”, “con che faccia potrei restare?”, “il Pd si troverà un altro segretario”. E dai democratici, in coro: “non avremmo più autorevolezza, impossibile restare attaccati alla poltrona”, “lascerei pure io”, “e pure io!”. Oggi Matteo Renzi è saldamente ancorato alla guida del Partito Democratico, il #governofotocopia di Paolo Gentiloni ha ottenuto la fiducia e Maria Elena Boschi è rientrata immediatamente a Palazzo Chigi nonostante il fallimento referendario e la promessa di andarsene in caso di sconfitta. Il No ha stravinto, sul resto giudicate voi.

- MATTEO RENZI, DA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

La fine dell'esperienza politica (Consiglio dei Ministri, 12 marzo 2014): "Lo dico qui, prendendomene la responsabilità, che se non riesco a superare il bicameralismo perfetto non considero chiusa l'esperienza del governo, considero chiusa la mia esperienza politica".

Fine (Tg2, 30 marzo 2014): "O facciamo le riforme, o non ha senso che io stia al governo. Se non passa la riforma del Senato, finisce la mia storia politica".

Del tutto evidente (Conferenza stampa di fine anno, 29 dicembre 2015): "È del tutto evidente che se perdo il referendum costituzionale, considero fallita la mia esperienza in politica".

Precise responsabilità (Repubblica.tv, 12 gennaio 2016): "Intendo assumermi precise responsabilità. È un gesto di coraggio e dignità. Se perdo il referendum io non solo vado a casa, ma smetto di far politica".

La dignità (Aula del Senato, 20 gennaio 2016): "Lo ripeto anche qui: se perdessi il referendum considererei conclusa la mia esperienza politica. Credo profondamente nel valore della dignità della cosa pubblica".

La borsettina (Quinta Colonna, 25 gennaio 2016): "Io non sono come gli altri, se gli italiani diranno No, prendo la borsettina e torno a casa".

E le vostre idee? (Scuola di formazione del Pd, 7 febbraio 2016): "Se vince il No prendo atto del fatto che ho perso. Dite che sto attaccato alla poltrona? Tirate fuori le vostre idee, ecco la mia poltrona".

The end (Scuola di formazione del Pd, 12 marzo 2016): "Se perdiamo il referendum è doveroso trarne conseguenze, è sacrosanto non solo che il governo vada a casa, ma che io consideri terminata la mia esperienza politica".

Non mi vedrete più (Congresso dei Giovani Democratici, 20 marzo 2016): "Io ho già la mia clessidra girata. Se mi va male, se perdo la sfida della credibilità o il referendum del 2016, vado via subito e non mi vedete più".

Se perdi una sfida epocale (Durante il #matteorisponde, Facebook, 28 aprile 2016): "Sto personalizzando? No, se perdi una sfida epocale che fai? Racconti che i cittadini hanno sbagliato? No, hai sbagliato tu".

A casa (Ansa, 2 maggio 2016): "La rottamazione non vale solo quando si voleva noi. Se non riesco vado a casa".

Vinavil (Rtl 102.5, 4 maggio 2016): "Non sono come i vecchi politici che si mettono il vinavil e che invece di lavorare restano attaccati alla poltrone".

Smetto proprio, con che faccia rimango? (Che tempo che fa, 8 maggio 2016): "Non è personalizzazione, ma serietà. Se io perdo, con che faccia rimango? Ma non è che vado a casa, smetto proprio di fare politica".

Fine carriera (Radio Capital, 11 maggio 2016): "Se non passa il referendum la mia carriera politica finisce qui. Vado a fare altro".

Destinazione paradiso (Ansa, 11 maggio 2016): "Non sto in paradiso a dispetto dei santi. Se perdo, non finisce solo il governo: finisce la mia carriera come politico e vado a fare altro".

Libero cittadino (Porta a Porta, Rai 1, 12 maggio 2016): "Se vince il No, mi dimetto il giorno dopo e torno a fare il libero cittadino".

Personalizzazione? (L’Eco di Bergamo, 21 maggio 2016): "Se perdiamo il referendum, vado a casa. Questa è personalizzazione? No. Questa è serietà".

Quel galantuomo di Napolitano (Comizio a Bergamo, 21 maggio 2016): "Non sono andato a palazzo Chigi dopo aver vinto un concorso, mi ci ha messo quel galantuomo di Napolitano con l'impegno di fare le riforme. Se non ottengo questo risultato, l'Italia continuerà a essere il Paese degli inciuci e del Parlamento più costoso del mondo. Se l'Italia vuole questo sistema, è giusto che lo faccia senza di me".

Tutti via in caso di sconfitta (In mezz'ora, Rai 3, 22 maggio 2016): "Se il referendum dovesse andare male non continueremmo il nostro progetto politico. Il nostro piano B è che verranno altri e noi andremo via". (Nel governo Gentiloni tutti confermati, tranne il ministro Giannini).

Via pure dalla segreteria Pd (Virus, Rai 2, 1 giugno 2016): "Se perdo il referendum troveranno un altro premier e un altro segretario".

Cambierò mestiere (Il Foglio, 2 giugno 2016): "Io sono fiducioso che vinceremo bene. Ma se il referendum andrà male continuerò a seguire la politica come cittadino libero e informato, ma cambierò mestiere. Vuole uno slogan semplice? O cambio l'Italia o cambio mestiere".

Pollo da batteria (eNews, 29 giugno 2016): "Secondo voi io posso diventare un pollo da batteria che perde e fa finta di nulla?".

È stato gli altri (La Repubblica, 31 luglio 2016): "Personalizzare questo referendum contro di me è il desiderio delle opposizioni, non il mio".

Governicchi mai (Ansa, 17 novembre 2016): "Io non posso essere quello che si mette d’accordo con gli altri partiti per fare un governo di scopo o un governicchio".

Curriculum (#matteorisponde, Facebook, 21 novembre 2016): "Non sto qui aggrappato al mantenimento di una carriera. Non ho niente da aggiungere al curriculum vitae".

Il boy scout (Matrix, Canale 5, 30 novembre 2016): "Io sono un boy scout, non voglio diventare come gli altri, il mio lavoro deve servire a cambiare il paese. Se vogliono un bell'inciucione, se lo facciano da soli...".

No agli accordicchi (Comizio ad Ancona, 30 novembre 2016): "Non sono quello che fa accordicchi alle spalle dei cittadini. Per questo possono chiamare qualcun altro".

I pop-corn (Repubblica.tv, 30 novembre 2016): "Se gli italiani dicono No, preparo i pop-corn per vedere in tv i dibattiti sulla casta".

- LE CONFERME DEL PD

L'allora ministro Maria Elena Boschi a Otto e Mezzo, La7, 27 aprile 2016: "Se un governo ha avuto il mandato da Napolitano a fare le riforme e queste poi non passano, è normale che ne prenda atto".

Il ministro Dario Franceschini a Repubblica, 29 maggio: "Il ritiro in caso di vittoria del No non è una minaccia, a me sembra una con-sta-ta-zio-ne. Questo governo nasce per fare le riforme. Se le riforme non si fanno chiude bottega il governo e chiude anche la legislatura, mi pare ovvio". (Franceschini è stato confermato al ministero dei Beni Culturali dal nuovo premier Gentiloni, e la legislatura prosegue).

Valeria Fedeli, da vicepresidente del Senato, a L'aria che tira, La7, 4 dicembre 2016: "Se vince il No il giorno dopo bisogna prenderne atto, non possiamo andare avanti perché non avremmo più l'autorevolezza. Sarebbe giusto rimettere il mandato da parte del premier ma anche da parte dei parlamentari: tolgo l'alibi a chi pensa 'tanto stiamo lì fino al 2018', perché pensano alla propria sedia. Io non penso alla mia sedia". (Valeria Fedeli è appena stata nominata Ministro dell'Istruzione del Governo Gentiloni).

Maria Elena Boschi a In mezz'ora, Rai 3, 22 maggio 2016: "Noi vinceremo, quindi questo problema non si porrà. Ma comunque sì, noi siamo molto serie e se Renzi perde anch'io lascio la politica, perché è un lavoro che abbiamo fatto insieme. Come potremmo restare e far finta di niente?". (Maria Elena Boschi è appena stata nominata sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, entrando così di fatto nel nuovo Governo Gentiloni).

Maurizio Crozza nel paese delle meraviglie, ultima puntata su La7 con il saluto finale di Maurizio, scrive Fabio Traversa venerdì 16 dicembre 2016. La Finocchiaro era relatrice della riforma istituzionale, poi bocciata al referendum, "e ora è ministro delle Riforme. Allora vale tutto!". E la Madia? "Aveva presentato la riforma della P.A., la Consulta gliel'ha stroncata, e ora lei è di nuovo ministro della P.A. In Italia vige la demeritocrazia!". Crozza ne ha anche per la neo-ministra dell'Istruzione che non sarebbe laureata: "E' solo diplomata, ma non ha il diploma di maturità bensì di tre anni di magistrali, l'hanno nominata ministro alla scuola per fargliela finire!". Crozza si è già affezionato al ministro degli Esteri Alfano: "Conosco più io la biologia molecolare che lui l'inglese". E viene mostrato il filmato mentre "parla" a Bruxelles in quella lingua con una rappresentante svedese. Crozza, ovviamente, non ha pietà...

Fedeli, un ministro all’istruzione senza laurea, scrive il 14/12/2016 La Nuova BQ. Si viene a scoprire che il neo-ministro all’istruzione Valeria Fedeli, dicastero che ricomprende anche l’Università, non è nemmeno laureata. Sul suo sito si legge che ha ottenuto un «diploma di laurea in Scienze sociali» conseguito presso la Scuola per assistenti sociali Unsas di Milano. Ma all’epoca non esisteva simile laurea. Il titolo da lei ottenuto è un semplice diploma post-maturità. Lei ribatte che oggi sarebbe considerata una laurea. Ma c’è una bella differenza tra un diploma che potrebbe essere omologato ad una laurea e l’effettiva equiparazione che nel caso della Fedeli non è avvenuta. Mario Adinolfi interviene sul caso: «Valeria Fedeli mente sul proprio titolo di studio, niente male per un neoministro dell’Istruzione. Dichiara di essere laureata in Scienze sociali, in realtà ha solo ottenuto il diploma alla Scuola per assistenti sociali Unsass. Complimenti Gentiloni: a dirigere scuola e università in Italia mettiamo non solo una che non è laureata, ma una che spaccia in Laurea in Scienze sociali un semplice diploma della scuola per assistenti sociali». E così conclude: “La spacciatrice di menzogne sul gender è abituata a dire bugie. Il problema non è neanche che non è laureata, ma che mente spudoratamente. Per un atto del genere in qualsiasi Paese del mondo dovrebbe dimettersi seduta stante o essere costretta a farlo”. E così salgono a quattro i ministri senza laurea nel presente governo: Valeria Fedeli, Beatrice Lorenzin, Andrea Orlando e Giuliano Poletti.

Fedeli: «Il diploma di laurea? Una leggerezza, ma troppa aggressività». La ministra all’Istruzione e il curriculum corretto: «Se volevo truffare non avrei mai messo diploma di laurea ma solo laurea». Dal premier Gentiloni «piena fiducia», scrive Fiorenza Sarzanini il 14 dicembre 2016 su "Il Corriere della sera". Al termine di un’altra giornata segnata dagli attacchi delle opposizioni e dall’ironia sui social network, Valeria Fedeli, neoministro all’Istruzione, si rifugia nel suo nuovo ufficio. E si sfoga. «Perché posso aver commesso una leggerezza, ma finire sotto accusa in questo modo davvero non me lo sarei mai aspettato». È affranta, ma a mollare non ha mai pensato. «Scherziamo? Io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum diploma di laurea, ma avrei scritto laurea e basta». Il caso è fin troppo noto. Denunciato con un messaggio inviato due giorni fa al sito Dagospia dall’ex deputato Pd Mario Adinolfi, diventato adesso uno dei leader del popolo del Family day. «La ministra — aveva evidenziato Adinolfi spalleggiato da Massimo Gandolfini, che del Family day è inventore e promotore — sostiene di avere un diploma di laurea in assistente sociale, ma mente. Quello è soltanto un diploma. Quindi deve dimettersi». Ieri la scheda ufficiale sul sito personale della ministra è stata modificata in modo, hanno spiegato i suoi collaboratori, «da evitare ogni ambiguità». Il confronto avuto con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni l’ha rassicurata, perché le è stata espressa «piena fiducia». I messaggi di solidarietà sono stati moltissimi. Ma certo gli attacchi bruciano «soprattutto per una come me che ha sempre fatto la sindacalista e non ha mai sfruttato nulla. Lo voglio ripetere in maniera chiara: questo titolo non l’ho mai usato, non mi è mai servito. Nel 1987 c’è stata la possibilità di farlo equiparare, ma io già facevo la sindacalista, avevo preso una strada completamente diversa». Fedeli ha un temperamento forte, un carattere deciso. La sua chioma rosso fuoco è diventata famosa dentro e fuori il Parlamento. Convinta sostenitrice del Sì al referendum sulle riforme era intervenuta qualche giorno prima della consultazione a L’Aria che tira, programma di La7 condotto da Myrta Merlino, per assicurare che avrebbe lasciato la poltrona. E anche per questo adesso è finita al centro delle polemiche che infuriano contro tutti coloro — Renzi e Boschi in testa — che avevano preso l’impegno pubblico di «abbandonare la politica in caso di sconfitta». Fedeli è consapevole che la bufera non passerà in tempi rapidi, ma non si scoraggia. «Io vivevo a Milano e facevo la maestra d’asilo. Poi ho frequentato la Unsas, scuola laica per diventare assistente sociale, ma è un mestiere che non ho mai fatto. Sono andata a lavorare al Comune di Milano entrando al 7° livello e andando via allo stesso livello. Io sono sempre stata sindacalista. E non ho mai avuto alcun beneficio da quel pezzo di carta. Capisco e comprendo tutto, ma sono veramente sconcertata da tanta aggressività». Due giorni fa, appena la vicenda era diventata pubblica aveva espresso la convinzione che fosse «un caso montato ad arte». Perché, aveva argomentato «guarda caso sono stati quelli del Family day a tirare fuori questa storia. Loro mi detestano per essermi schierata contro, per aver difeso la teoria del gender ed evidentemente non possono accettare che mi occupi di scuola. Eppure per me parla la mia storia politica, io sono sempre stata seria e coerente nell’affrontare i problemi. E lo farò anche adesso, senza farmi intimidire». Una posizione ribadita ieri: «Spero di potermi occupare della scuola, dei problemi veri. Di questo voglio parlare, degli studenti, degli insegnanti, di quello che si deve fare per far funzionare la pubblica istruzione». In attesa che la bufera passi davvero.

Laurea falsa, la Fedeli si auto-assolve e accusa: "Contro di me troppa aggressività". La Fedeli non chiede scusa per aver mentito sul suo titolo di studi: "Ho commesso una leggerezza". E attacca: "Sono sconcertata da tanta aggressività", scrive Sergio Rame, Giovedì 15/12/2016, su "Il Giornale". "Posso aver commesso una leggerezza, ma finire sotto accusa in questo modo davvero non me lo sarei mai aspettato". Non solo si auto-assolve ma sale addirittura in cattedra per attaccare chi giustamente le ha fatto notare che non si era mai laureata. "Comprendo tutto - tuona il neo ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, in una intervista al Corriere della Sera - ma sono veramente sconcertata da tanta aggressività". Più che di polemica, si potrebbe parlare di indignazione popolare. Perché la Valeri ha spacciato per laurea un semplice diploma. Nulla contro chi non ha conseguito un pezzo di carta all'università, ma il neo ministro è l'ennesimo personaggio che si sente in diritto di poter mentire sul proprio titolo di studio e farla franca. Come se niente fosse, infatti, si autoassolve parlando di un disguido verbale e tira dritto. Non una scusa agli italiani a cui ha provato a farla sotto il naso. Di lasciare l'incarico affidatole dal neo premier Paolo Gentiloni non le passa nemmeno per la testa. "Scherziamo? - reagisce Fedeli - io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum diploma di laurea, ma avrei scritto laurea e basta". Una tesi quantomeno discutibile. Ma tant'è. L'ex sindacalista resterà ancorata alla sua poltrona. Non importa se, prima del referendum sulle riforme costituzionali, ha detto che, in caso di vittoria del No, avrebbe fatto un passo indietro (guarda il video). L'ha fatto avanti. È restata e si è pure portata a casa una poltrona da ministro. Nell'intervista al Corriere della Sera, la Fedeli si lamenta degli gli attacchi ricevuti. "Bruciano soprattutto per una come me che ha sempre fatto la sindacalista e non ha mai sfruttato nulla. Lo voglio ripetere in maniera chiara: questo titolo non l'ho mai usato, non mi è mai servito". E racconta: "Nel 1987 c'è stata la possibilità di farlo equiparare, ma io già facevo la sindacalista, avevo preso una strada completamente diversa". La bugia resta ugualmente. A Palazzo Chigi, però, nessuno si è scomposto. La stessa Fedeli rivela che Gentiloni le ha espresso "piena fiducia". "Spero - conclude - di potermi occupare della scuola, dei problemi veri. Di questo voglio parlare, degli studenti, degli insegnanti, di quello che si deve fare per far funzionare la pubblica istruzione". Ma cosa insegnerà agli insegnanti e, soprattutto, agli studenti? Che si può mentire tranquillamente e, se pizzicati, si può fare spallucce e tirare dritto come se niente fosse?

Il ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli non ha il diploma di maturità (ma ha quello magistrale triennale). Nuova bufera sui social, scrive su "L'Huffington Post" Claudio Paudice il 15/12/2016. Nuova bufera sulla neo ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli. Dopo le polemiche scatenate per le false informazioni riportate sul suo curriculum, nel quale si dava conto di una laurea in Scienze Sociali mai conseguita, ora l'attenzione si concentra sul suo trascorso scolastico. Anche questa volta a sollevare per primo il caso è il direttore de La Croce Quotidiano Mario Adinolfi: "La Fedeli non ha fatto mai manco la maturità, ma solo i tre anni per fare la maestra. Poi diplomino da assistente sociale, privato. Questo è il nuovo ministro della Pubblica Istruzione che si dichiarava 'laureata in Scienze Sociali'. Spero che studenti e docenti a ogni incontro la sotterrino di pernacchie". Lo staff del ministro, contattato dall'Huffpost, ha confermato: "Lo avevamo già spiegato nei giorni scorsi, lei ha fatto una scuola per conseguire il diploma di maestra nelle scuole materne che dura tre anni" e poi l'oramai famosa scuola per assistenti sociali. "Niente di nuovo, Adinolfi esprime legittimamente la sua opinione su quali titoli debba avere o non avere" un ministro dell'Istruzione. Differentemente dal "diploma di laurea" inserito per "leggerezza" - come lei stessa si è giustificata in un colloquio con il Corriere della Sera - il diploma di maturità non è menzionato nel suo curriculum vitae. Fedeli si è detta "sconcertata" per gli attacchi subiti in questi giorni, difendendo il suo passato di "sindacalista: lo sono sempre stata". E, ha precisato, "non ho mai avuto alcun beneficio da quel pezzo di carta". Tuttavia il fatto che il ministro dell'Istruzione non abbia conseguito il diploma di maturità, pur non essendo un requisito necessario per legge per ricoprire quel ruolo, alimenta nuove polemiche. Non a caso: il settore della scuola ha subito negli anni diverse modifiche nella normativa per l'accesso all'insegnamento, causando non pochi disagi agli aspiranti docenti. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha confermato ad aprile scorso l'orientamento adottato con diverse sentenze dalla VI sezione consentendo l'accesso alle Gae, le graduatorie ad esaurimento, a coloro che hanno conseguito il diploma magistrale ante 2001/2002. Ma è sempre il Consiglio di Stato ad aver scritto, nel dicembre 2013, che tale titolo non è equiparabile ai diplomi rilasciati a chiusura dei corsi di scuola secondaria di secondo grado di durata quinquennale: solo questi ultimi consentono "l’accesso ai corsi di laurea universitari e alle carriere di concetto presso le Pubbliche amministrazioni e valgono ogniqualvolta la legge richiede il possesso di un diploma come requisito professionale". Da qui nascono le (nuove) polemiche sull'opportunità che a Viale Trastevere ci sia un ministro dell'Istruzione senza "maturità".

Lo staff della Fedeli conferma: mai fatto l'esame di maturità. Dopo le accuse di Adinolfi al neo-ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, arriva una conferma dal suo staff: il ministro non ha mai sostenuto l'esame di maturità, scrive Franco Grilli, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". Dopo le accuse di Adinolfi al neo-ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, arriva una conferma dal suo staff: "Non ha mai sostenuto l'esame di maturità". Insomma la Fedeli non solo non ha nessun titolo accademico ma di fatto non si è mai seduta tra i banchi per sostenere l'esame di maturità. Tutto parte da un post su Facebook di Mario Adinolfi che dopo aver smascherato il ministro sulla tanto contestata laurea in Scienze Sociali, ha messo nel mirino il ministro sulla maturità: "Fedeli - assicura Adinolfi - non ha mai fatto neanche la maturità, ma solo i tre anni di magistrali necessari a prendere la qualifica di maestra d'asilo e poi il diplomino privato all'Unsas da assistente sociale, quello spacciato per diploma di laurea in Scienze Sociali. Abbiamo il record mondiale di un ministro della Pubblica Istruzione che non solo mente sui propri titoli di studio, non solo non è laureato, ma non ha mai neanche sostenuto quell'esame di maturità che ogni anno agita così tanto centinaia di migliaia di studenti". E così lo staff, contattato da Libero non ha potuto far altro che confermare le parole di Adinolfi. Il corso frequentato - sottolineano dallo staff - è quello triennale della Scuola magistrale. E alla fine del percorso di studio non è previsto l'esame di maturità. Inoltre affermano, sempre dallo staff, che in questo caso il ministro non ha mai inserito nel Cv informazioni imprecise su questo punto.

Ministra Fedeli, manca la laurea e anche la maturità, scrive Chiara Pizzimenti il 16.12.2016 su "Vanity Fair". Arrivano quasi tutti dal fronte del Family Day, ma arrivano forti gli attacchi alla nuova ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. E il campo di battaglia è la scuola. L’ultimo colpo arriva da Mario Adinolfi, ex deputato Pd, ora presidente del Popolo della famiglia. Secondo quanto dice Adinolfi non avrebbe fatto l’esame di maturità, «ma solo i tre anni di magistrali necessari a prendere la qualifica di maestra d’asilo e poi il diplomino privato all’Unsas da assistente sociale, quello spacciato per diploma di laurea in Scienze sociali». Era stato lo stesso Adinolfi a portare alla ribalta la questione della laurea in scienze sociali, inesistente, ma segnalata nel curriculum vitae della Fedeli, poi corretto con la dicitura «diploma per assistenti sociali presso Unsas». Nessuna bugia sulla maturità, da nessuna parte è scritto che l’abbia fatta. Al tempo erano sufficienti i tre anni di magistrali per fare la maestra d’asilo. Ma ogni via è buona per la polemica e ad Adinolfi si aggiungono i Cinque stelle: «Certamente i titoli di studio non sono tutto nella vita ma qui siamo di fronte a un ministro, il titolare dell’Istruzione, che ha mentito sul titolo di studio. Il Miur e il comparto istruzione non meritano anche questa umiliazione». Una polemica che è sui titoli di studio, ma riguarda più in generali il percorso della Fedeli in particolare nella lotto contro le discriminazioni di genere. Il senatore Carlo Giovanardi l’ha ricordata come prima firmataria del ddl 1680 sull’introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle scuole, che lui chiama un «tentativo di colonizzazione ideologica della scuola pubblica». In realtà la vita politica della Fedeli ha le sue basi soprattutto nel movimento sindacale e in particolare nel settore tessile. Si ritrova nel posto di Stefania Giannini (una delle poche tagliate rispetto al governo Renzi da Gentiloni) a fare i conti con una riforma che non piace alla maggior parte degli insegnanti.

Fedeli: "Ho lavorato una vita nel sindacato, posso fare la ministra anche senza laurea". La titolare dell’Istruzione replica alle polemiche sul suo titolo di studio: "Il mio metodo da quarant’anni è l’ascolto, mi aiuterà anche qui", scrive Corrado Zunino il 17 dicembre 2016 su "La Repubblica".

"Posso fare la ministra - ministra, ci tengo - dopo una vita così intensa nel sindacato. Sono stata apprezzata, promossa, chiamata a Roma, poi a Bruxelles a guidare il sindacato europeo dei tessili. Ho contribuito a salvare grandi aziende, ho portato nella Cgil le competenze dei ricercatori della moda, mi sono occupata di Wto e dei round per far entrare i cinesi nel commercio internazionale. Sono diventata vicepresidente del Senato e ora sono qui, al ministero dell'Istruzione, e fino a quando questo governo esisterà cercherò di migliorare la scuola, l'università e la ricerca italiana 24 ore al giorno".

Ministra, l'esordio è stato difficile. Nel suo curriculum online aveva scritto di aver conseguito un diploma di laurea, in un secondo curriculum era evidenziata una laurea in Scienze sociali. Lei non ha la laurea.

"Non l'ho mai sostenuto. Non ricordo il curriculum con la dicitura laurea, ma quello con su scritto diploma di laurea, rilasciato dopo tre anni dall'Unsas, è stato solo una leggerezza. La laurea è una cosa a cui non ho mai pensato. Ho 40 anni di vita rigorosa nel sindacato, non ho mai usato quel diploma, sono stato sempre una distaccata di settimo livello, maestra d'infanzia distaccata".

Ministra, il giorno dopo le polemiche lei ha cambiato il curriculum: solo diplomata, si legge adesso. Definirsi laureata è dipeso forse da un complesso psicologico? All'ex sottosegretario Faraone i docenti precari hanno sempre rinfacciato il fatto che non avesse il titolo, fino a quando lui non ha ripreso gli studi e dato la tesi.

"Io non mi sono laureata perché il sindacato mi ha preso e portata via, è diventata la mia vita. Non una carriera, la vita. Alla laurea non ho mai pensato. Nel 1987 avrei potuto equiparare quei tre anni come assistente sociale al titolo di laurea, ma non l'ho fatto perché era fuori dal mio mondo. Riunioni, incontri con gli operai, viaggi a Bruxelles, e chi l'aveva il tempo per la laurea?".

Lei, dopo i tre anni delle superiori, ha fatto la maestra d'infanzia?

"Sì, ero giovanissima. E il fatto che abbia voluto studiare per altri tre anni alla scuola per assistenti sociali senza averne bisogno, avevo già un'occupazione, dimostra che il gusto della conoscenza l'ho sempre avuto. Poi, ho trovato ostacoli nella mia vita e, dopo l'esplosione del '68, è arrivato il sindacato. In quegli anni ti assorbiva completamente".

Che tipo di ostacoli?

"Non vengo da una famiglia ricca e molto presto mi sono resa autonoma: da Treviglio sono andata a vivere a Milano. Mio fratello ha fatto Giurisprudenza, io ho abbracciato la Cgil".

Non si sentirà in difficoltà quando dovrà incontrare una docente ancora precaria con due lauree o parlare di Technopole con la scienziata Elena Cattaneo?

"Il mio metodo è l'ascolto e ascolterò con attenzione chi ha competenze straordinarie. Cresceranno le mie. Ascoltare, capire, conoscere. Quarant'anni di applicazione di questo metodo mi aiuteranno anche al ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca".

A La7 lei disse: "Il giorno dopo, se ha vinto il no, tu ne devi prendere atto, non puoi andare avanti perché non hai l'autorevolezza. Io non penso alla mia sedia". Lei, però, ora fa la ministra.

"L'aver detto che bisogna prendere atto della sconfitta è coerente con la nascita di un governo che deve affrontare le urgenze del Paese".

Ministra, quale sarà il suo primo atto per migliorare la scuola italiana?

"Le prime telefonate le ho fatte ai cinque sindacati rappresentativi, lunedì li incontrerò. Vorrei il loro punto di vista sulla Buona scuola, dopo il lungo conflitto che c'è stato".

Le piace la Legge 107?

"L'ho votata, al Senato. Ha dentro cose importanti, innovative, immaginate dalla ministra Carrozza e approdate con la Giannini. È legge vigente, la si deve far funzionare senza tradire il progetto".

I sindacati le chiederanno di fermare gli spostamenti dei docenti dal Sud al Nord.

"È una questione centrale e dovremo trovare nuove soluzioni, magari sperimentali. Con grande attenzione, tocchi una cosa e ne viene giù un'altra".

La chiamata del preside?

"Cercheremo criteri oggettivi con i quali, poi, il dirigente scolastico potrà scegliere i docenti".

Ereditate nove deleghe dal governo Renzi, una Buona scuola bis: il 15 gennaio scadono.

"Voglio portarle in fondo tutte, ma prima studiarle bene. Chiederemo al Parlamento di rivotare quelle in scadenza. La legge 0-6, che prevede la materna unica e l'assunzione di maestre d'infanzia, è pronta. Sono stata la seconda firmataria".

Viva la Fedeli, abbasso la laurea. La presunta bugia della neo ministra all’Istruzione non è che la conseguenza di un rapporto malato tra l’Italia e il “pezzo di carta”. Un Paese in cui tutti vogliono essere laureati, ma in cui la laurea non serve a nulla, scrive Francesco Cancellato il 14 Dicembre 2016 su “L’Inkiesta”. E ti pareva che non succedesse di nuovo. Che qualcuno - nella fattispecie Mario Adinolfi - non tirasse fuori una presunta millantata laurea di un’avversaria politica - nella fattispecie la neoministro alla pubblica istruzione Valeria Fedeli - per delegittimarla in partenza. Che, poi, alla fine, di inciampo lessicale pare proprio trattarsi, visto che il titolo di studio della Fedeli è effettivamente un diploma di laurea, antesignano dei diplomi universitari degli anni novanta e delle lauree triennali di oggi. Ma non è qui il problema. La Fedeli, pur non essendosi mai giovata di questa bugia per fare carriera, potrebbe pure aver mentito sul suo titolo di studio per una questione di vanità personale o per un malcelato complesso d’inferiorità. Ma la bugia - da stigmatizzare in quanto tale, nel caso - non sarebbe che il triste epifenomeno di un rapporto malato dell'Italia, più che col Sapere con la S maiuscola, con il “pezzo di carta” che, in teoria, dovrebbe certificarlo. Un Paese che ha il più basso numero di laureati in Europa, ma in cui anche il più umile analfabetizzato funzionale ha avuto il suo «Buongiorno Dotto’» di celebrità. Un Paese che spende una marea di soldi per far studiare i propri figli, che non ne accetta l’inadeguatezza allo studio, che accetta di buon grado che rimangano sui banchi di scuola fino alla crisi di mezza età, pur di invitare i parenti al pranzo di laurea. E che poi non sa che farsene dei laureati e li costringe, nei fatti, a fare la fila alle agenzie interinali per un posto da magazziniere, o a emigrare. Ancora: un Paese che in coda a tutte le classifiche per la spesa in istruzione e ricerca e assente in quelle delle università migliori al mondo, con decine di atenei sotto casa costruite «per l’indotto sul territorio», in cui la baronia e la trasmissione ereditaria della cattedra sono elevate a forma d’arte. Un Paese in cui la percentuale di antivaccinisti s’impenna tra laureati e dottorati, con buona pace di chi ha frequentato l’università della vita. Un Paese con uno dei più altimismatch del mondo Ocse tra domanda e offerta di lavoro, tra professionalità sul mercato e posti di lavoro disponibili. Un Paese, per dirla in meno di dieci parole, in cui poche cose servono meno di una laurea. La Fedeli potrebbe pure aver mentito sul suo titolo di studio per una questione di vanità personale o per un malcelato complesso d’inferiorità. Ma la bugia - da stigmatizzare in quanto tale, nel caso - non sarebbe che il triste epifenomeno di un rapporto malato dell’Italia, più che col Sapere con la S maiuscola, con il “pezzo di carta” che, in teoria, dovrebbe certificarlo. E allora abbasso un’istruzione - superiore e non solo - da rivoltare come un calzino e viva chi sta provando a farlo e chi ci vorrà provare. Abbasso il valore legale del titolo di studio, strumento classista e inadeguato a valutare il merito tanto quanto lo è una raccomandazione, perlomeno ora e qui. E, nel frattempo, viva la Fedeli, il suo diploma universitario, la sua gavetta politica, se le metterà al servizio - nel poco tempo a sua disposizione - per cambiare almeno un po' le cose. E ancora: viva Oscar Giannino, che si appunti al petto come una medaglia che un Presidente del Consiglio sia costretto, per averne ragione in un dibattito da ko tecnico, a ricordare il caso dei suoi millantati titoli di studio. Viva il Premio Oscar Roberto Benigni, i Premi Nobel Dario Fo ed Eugenio Montale, direttori di giornale e telegiornale come Enzo Biagi, Enrico Mentana e Giuliano Ferrara, moloch della divulgazione scientifica come Piero Angela e dell’intrattenimento televisivo come Maurizio Costanzo, viva la spregiudicatezza visionaria di Enrico Mattei e Michele Ferrero, il talento politico di Fausto Bertinotti e Walter Veltroni e i calli sulle mani di sarti e cuochi oggi diventati stilisti e chef come Giorgio Armani e Carlo Cracco. Viva tutte quelle persone che non si sentono in diritto di accampare alcuna pretesa per una riga in più nel curriculum vitae e che hanno costruito la loro fortuna e quella del Paese usando come mattoni le loro idee, la loro ambizione, la loro cultura del lavoro. Viva chi se ne fotte dei giudizi delle aristocrazie vuote del sapere col parrucchino. Viva la loro fame e la loro follia, come disse ai neolaureati di Stanford, nel suo discorso più famoso, Steve Jobs, che laureato non era, nemmeno lui, come del resto non lo è Bill Gates. Chissà che quante gliene avrebbe dette, il Dottor Mario Adinolfi.

Ridateci Croce e Gentile come Ministri dell’Istruzione! Scrive Francesco Boezi su “Il Giornale" il 16 dicembre 2016. Una nazione che ha avuto Benedetto Croce come Ministro della Pubblica Istruzione non può giudicare un governante dai titoli. Non è questo il punto. Ognuno di noi conosce moltissime persone prive della laurea, ma validissime nei settori in cui operano. Allo stesso modo, esistono plurititolati privi di qualunque capacità. Questo è un fatto rinomato. Certo è che il settore in questione, quello dell’istruzione, meriterebbe un trattamento di favore nella scelta di persone specificatamente formate per dettarne le linee guida. Un comandante, insomma, deve sapere com’è fatta la nave per evitare che affondi. Specie nel caso in cui, come questo, la nave sia parecchio importante e sembri imbarcare parecchia acqua. La Fedeli, prescindendo dalla mancanza della laurea e dalla questione riguardante il diploma privato, viene dal sindacalismo. Cosa c’entra con la cultura italiana? Servirebbe altro. Non un tecnico, ma una persona dotata di una visione, di una Weltanschauung in grado di tirare fuori la scuola dalle sacche sessantottine in cui è tragicamente finita. Il nostro è un modello che si allontana sempre di più dalle radici umanistiche ed identitarie, per inseguire una scimmiottatura americaneggiante fatta di convenzioni con i fast food, sperimentazioni educative ed un’infinità di progetti pomeridiani poco sensati, spesso costruiti addosso alle passioni private dei docenti. Il tutto senza alcuna visione di insieme, nel breve e nel lungo periodo. Così, mentre assistiamo al ritorno del fenomeno dell’analfabetismo, noi ci occupiamo di gender, di neutralizzare i pronomi in nome del politically correct e di introdurre legislativamente forme di rispetto per le differenze di genere, partendo quindi dal presupposto che gli insegnanti non siano capaci di educare gli studenti in modo autonomo ed abbiano bisogno di direttive verticistiche. Questo dirigismo valoriale, si sa, preoccupa molto il mondo cattolico. La petizione promossa su Citizengo.org, sponsorizzata, tra gli altri, dal Comitato “Difendiamo i Nostri Figli” e da “La Manif Italia”, segnala come la scelta della Fedeli possa essere stata mossa dallo spirito di vendetta che il Partito Democratico sembrerebbe nutrire verso le organizzazioni citate, in funzione del loro impegno per il No al referendum costituzionale. Se questo fosse il movente, non sarebbe positivo. La Fedeli, d’altro canto, è la pasionaria del disegno di legge sull’educazione di genere risalente al 2014. La scuola italiana rischia di finire in una guerra ideologica di cui non ha alcun bisogno. La missione del sistema educativo dovrebbe essere quello di formare gli italiani del domani in un contesto laico e privo di strutture e sovrastrutture dottrinali imposte dai desiderata antropologici di una parte politica. Dai recenti studi dell’ex Ministro De Mauro, esemplificativamente, viene fuori che solo un terzo degli italiani avrebbe livelli sufficienti di comprensione della scrittura e del calcolo per poter vivere all’interno della società contemporanea senza enormi disagi. Spicca, soprattutto, la questione della regressione in età adulta all’analfabetismo funzionale, fenomeno che finisce per interessare l’efficienza economica-produttiva della nostra nazione. Per quel che concerne chi da scuola è uscito. Per quelli che ancora sono dentro, parlano le annuali statistiche sulla crisi della lettura, sull’analfabetismo matematico e sul livello qualitativo complessivo dell’istruzione italiana. Tutti questi fenomeni non saranno forse legati al progressivo abbandono dei classici? Alla svalutazione del sapere umanistico, etichettato tanto frettolosamente quanto stupidamente come inutile?  Non sarà stato il clichè della “riforma sempre e comunque” a destrutturare dalle fondamenta un modello culturale che aveva sfornato i migliori in ogni campo del sapere umano? Oppure nessuno si ricorda più di cosa fu capace la generazione cresciuta sui banchi della riforma Gentile? Non sarà, magari, che il sapere liquido, ideologico, nozionistico, economicistico e slegato dalla storia porti con sè l’enorme problema di essere solo un mezzo temporaneo e mai un bagaglio personale definitivo? Di questo sarebbe necessario preoccuparsi, non del gender. Altro che Fedeli! Ridateci Croce e Gentile!

Quanto veleno se la poltrona va a chi non è laureato. Uno su quattro degli incaricati da Renzi non ha il titolo di dottore, ma neanche Marconi ce l'aveva e ha cambiato il mondo. Conta solo il lavoro che sapranno fare, scrive Vittorio Feltri, Domenica 23/02/2014, su "Il Giornale". Tradizione rispettata. Anche questo governo, fortemente voluto da Matteo Renzi detto Fenomeno, pur non avendo ancora mosso un dito, è già stato subissato di fischi per vari motivi, uno soprattutto: è colpevole di essere nato. Succede così da sempre. Seguo da cronista la politica da mezzo secolo e non mi è mai capitato di udire elogi unanimi diretti a un neopremier o ai neoministri. Perfino Alcide De Gasperi fu salutato con sospetto. Con l'andare del tempo divenne antipatico addirittura agli amici del suo partito, la Dc, i quali brigarono per rispedirlo in Trentino affinché cedesse il posto a giovani (si fa per dire) rampanti. Missione compiuta. Una volta morto, lo statista fu elevato agli altari. Oggi chiunque loda le sue opere. Dubito che Renzi sia la reincarnazione di De Gasperi, però non me la sento di definirlo sciocco il primo giorno di scuola. C'è chi invece si è già scagliato contro di lui e la sua squadra. Lo biasimano perché dice una cosa e ne fa un'altra, tradendo il desiderio di entrare a Palazzo Chigi anche a costo di piegarsi alle pretese delle segreterie e agli ordini del Colle, come se fosse facile ignorare le prime e i secondi. Sui nomi dei prescelti dal presidente del Consiglio si è aperta una gara a chi li bastona di più. Un esercizio abbastanza semplice. È sufficiente consultare il dizionario dei sinonimi per trovare epiteti originali con cui deridere i fortunati vincitori delle cadreghe ministeriali: otto uomini e otto donne, in omaggio alla moda delle pari opportunità. Molti responsabili di dicastero sono volti nuovi, altri meno: in linea di massima, comunque, gente sconosciuta o semisconosciuta al grande pubblico. Pertanto chi fa il mio mestiere ha indagato in fretta e furia per rintracciare qualche dettaglio biografico degno di nota e idoneo a imbastire articoli pepati su questo o su quel personaggio. Cosicché alcune penne intinte nel veleno hanno raccontato che un quarto dei 16 componenti della compagine governativa è privo di laurea. Ecco l'elenco: Beatrice Lorenzin (Sanità), Maurizio Martina (Politiche agricole), Andrea Orlando (Giustizia) e Giuliano Poletti (Lavoro e welfare). In che cosa consista lo scandalo non è chiaro. Tuttavia il tono con cui si scrive sul conto di costoro è sfottitorio. Come dire: che aspettarsi da politici che non hanno neppure concluso gli studi universitari? E si sorvola sul fatto innegabile che è più importante aver imparato a stare al mondo che non aver conseguito un diploma al massimo livello accademico. Ma, quando si tratta di prendere in giro una persona assurta ad alte responsabilità, è comodo sbattergli in faccia la patente di ignorante: non comporta nemmeno lo sforzo di verificare se ciò corrisponda a realtà. Può darsi che un signore e una signora privi di laurea siano impreparati a gestire un ministero, ma può anche essere che un laureato non sia in grado di mandare avanti un negozio di frutta e verdura. La storia ci insegna che un alto numero di autodidatti è stato premiato con il Nobel non certo perché abbia conseguito brillantemente titoli di studio, bensì per meriti legati ad attività professionali egregiamente svolte. Lo abbiamo ricordato spesso, ma giova rammentarlo ancora: a parte Luigi Pirandello, tutti gli altri Nobel italiani per la letteratura - Grazia Deledda, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale - non erano laureati. Non citiamo Dario Fo per decenza. Segnaliamo inoltre che Benedetto Croce e Gabriele D'Annunzio l'università la videro col binocolo. E Guglielmo Marconi? Mai frequentato corsi scolastici superiori con regolarità. Ciononostante, egli è lo scienziato che ha segnato una svolta nella storia dell'umanità con un'invenzione da lasciar senza fiato. Con questo non stiamo sostenendo che i quattro rimorchiati da Renzi, benché sprovvisti di titoli, siano dei geni apparecchiati per risolvere i problemi del Paese, tutt'altro. Ma siamo convinti che il loro rendimento al tavolo dell'esecutivo non dipenderà dalle pergamene (che non hanno) ma dalle capacità che ci auguriamo abbiano. Nei casi della Lorenzin e di Orlando sarebbe lecito azzardare un giudizio, poiché entrambi non sono esordienti nel ruolo di ministri. Ma ci zittiamo per prudenza, essendo consapevoli che con un capo diverso da Enrico Letta, cioè Renzi, essi potrebbero fare meglio del peggio combinato nella precedente esperienza. È solo un auspicio. Intendiamo sottolineare che polemizzare sulle lauree in mancanza di argomenti più seri è una manifestazione di meschinità. Lo è tanto più in un momento, quale il presente, caratterizzato dalla crescente disoccupazione giovanile, particolarmente accentuata fra i laureati. Dal che si evince che conviene saper esercitare un mestiere ben retribuito che non farsi chiamare dottore gratis.

Al governo senza laurea: Poletti, Orlando e Lorenzin hanno solo la maturità, scrive il 9 giugno 2014 "Corriere Università". E’ la vecchia storia dei governanti e dei governati. Sì, perché la squadra messa insieme dal premier Matteo Renzi sarà pure la più giovane in base alla media d’età (47,8 anni) ma, di sicuro, non è il massimo in termini di istruzione. Giuliano Poletti, Beatrice Lorenzin, Andrea Orlando: tre dei ministri che reggono dicasteri fondamentali, infatti, non sono laureati. Nemmeno al primo livello. Orlando, ministro della Giustizia, si è fermato alla maturità scientifica. Beatrice Lorenzin, ministro della Sanità già presente nella legislatura di Letta, vanta una maturità classica. E Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, è perito agrario. Il grafico pubblicato da Linkiesta è lo specchio di un Paese che troppo spesso delega le funzioni importanti a chi per quei ruoli non ha nemmeno studiato. Il 23,5% di coloro che ci governano – scrive il magazine – non ha nemmeno la laurea. Pochissimi hanno un master, qualcuno un dottorato di ricerca. L’Italia, dunque, conquista un’altra maglia nera in Europa, dove invece la preparazione e la competenza contano.  In Francia tutti i ministri hanno almeno la laurea, in Germania un solo non laureato viene compensato da tantissimi ricercatori. E se guardiamo agli Usa, la situazione peggiora (per noi): pochi laureati, molti con master e dottorato.

8 ministri italiani che non hanno mai preso la laurea, scrive il 14 dicembre 2016 Carmine Zaccaro su "Skuola.net". La polemica sulla laurea della neo ministra Valeria Fedeli ha scatenato il web. Nelle scorse ore infatti, il nuovo responsabile di Viale Trastevere si è dovuta difendere da attacchi e ironie, partite dopo il post di Mario Adinolfi, ex giornalista e leader del Popolo della Famiglia, che la accusava di non aver conseguito un titolo di studio equiparabile alla laurea. E mentre dal ministro sono arrivati i chiarimenti sulla vicenda - un presunto "problema lessicale" fatto in "buona fede" - quella della laurea non sembra rappresentare un elemento imprescindibile per fare carriera. Noi di Skuola.net siamo andati a spulciare nei curricula di 8 ministri ed ex ministri italiani, che ricoprono o hanno ricoperto posizioni rilevanti nella guida del paese, e di laurea non c'è nemmeno l'ombra.

8. Francesco Rutelli. Classe 54' di origine romano, Rutelli è stato co-presidente del Partito Democratico Europeo. Eletto sei volte in Parlamento. Sindaco di Roma nel 1993. E'stato Ministro dei beni e delle attività culturali. Ha ricevuto Lauree honoris causa dalla John Cabot University, dalla Temple University e dall’American University in Rome, ma non l'ha mai presa in gioventù: si è iscritto nuovamente all'università proprio qualche mese fa, con l'obiettivo di ottenere (stavolta) il titolo.

7. Altero Matteoli. Politico italiano di lungo corso. Classe 40' cresce sotto l'ala dell'On. Beppe Niccolai, esponente storico pisano del MSI. Dall'8 maggio 2008 al 16 novembre 2011 è stato Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti nel Governo Berlusconi.

6. Massimo D'Alema. Romano di origine. Sposato, con due figlie. E' un giornalista professionista e vanta collaborazioni anche con l'Unità, di cui è stato direttore nel biennio 1988-1990. Ha studiato al liceo classico. Entra alla Camera dei deputati nel 1987. Dal 21 ottobre 1998 all'aprile del 2000 è stato Presidente del Consiglio dei Ministri. Il 17 maggio 2006 diventa Ministro degli Esteri nel Governo Prodi.

5. Walter Veltroni. Politico italiano classe 55' di Roma. Prima di intraprendere la carriera politica è stato giornalista professionista, ha anche diretto lo storico quotidiano l'Unità. La politica entra nella sua vita nel 1976, quando viene eletto consigliere al comune di Roma rimanendo in carica per cinque anni. Eletto in Parlamento nel 1987. Romano Prodi lo chiamò nel 1996 a condividere la leadership del partito "l'Ulivo" nell'anno della vittoria di quella coalizione, assumendo in seguito l'incarico di vicepresidente del Consiglio e Ministro dei Beni Culturali e Ambientali con l'incarico per lo spettacolo e lo sport. Nel 2003 riceve la laurea Honoris causa dalla John Cabot University di Roma. Oggi scrive libri e dirige film, ma la laurea non è mai stata una priorità per la sua carriera.

4. Umberto Bossi. L'energico Umberto Bossi, capo-popolo delle fila della Lega Nord non ha conseguito la laurea durante il suo percorso formativo. Si ferma alle superiori, dove consegue il diploma di perito tecnico. Si iscrive alla facoltà di Medicina di Pavia senza conseguire la laurea. Ma questo non gli ha impedito di diventare senatore della Repubblica ed europarlamentare. Ha fondato il partito che ad oggi raccoglie il sentimento di una vasta fetta di elettori italiani. E' stato Ministro per le Riforme Istituzionali durante il governo Berlusconi.

3. Giorgia Meloni. Rampante politica e giornalista di origine romana. Ha speso gli anni della gioventù alla carriera politica. A 15 anni ha fondato il coordinamento studentesco "Gli Antenati". Diventa responsabile nazionale di diventa responsabile nazionale di Azione Studentesca, il movimento studentesco di Alleanza Nazionale e rappresentante al Forum delle associazioni studentesche. Nel 2006 entra alla Camera dei Deputati con Alleanza Nazionale e fino al 2008 ricopre la carica di Vicepresidente. Il 21 aprile di questo anno è stata impegnata nella campagna elettorale per diventare sindaco di Roma. Anche per lei la laura non è stata la prima preoccupazione, ma neanche un ostacolo ai successi personali. E' stata Ministro per la gioventù con il governo Berlusconi.

2. Giuliano Poletti. Attuale Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Al centro di un putiferio che fece arrabbiare qualche studente, quando propose meno vacanze estive per fare qualche lavoretto costruttivo. Riconfermato come ministro nel Governo di Responsabilità che fa capo a Paolo Gentiloni, la carriera politica non è stata frenata dalla mancanza del titolo di laurea.

1. Beatrice Lorenzin. Tra le donne al vertice del Governo Renzi. Riconfermata con Poletti. Il ministro Beatrice Lorenzin a capo del dicastero della Sanità non ha una laurea, sebbene nel corso degli anni la sua vita sia stata segnata da vari successi personali e professionali.

Primo guardasigilli non laureato, nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive il 27 Febbraio 2014 Federico Altea su "Elzeviro". Ministri discutibili. Il ministro della giustizia. Orlando, poca competenza in materia, parlò di abolizione di ergastolo e revisione del 41 bis. Il neoministro della Giustizia nel Governo Renzi è l'onorevole Andrea Orlando, già ministro dell'Ambiente del governo Letta. Una scelta piuttosto discutibile, considerato che a capo del dicastero dell'Ambiente è stato posto un signore senza particolari competenze e afferente alla formazione politica casiniana (7 deputati su 630). Andrea Orlando, signore che ha sempre mangiato a pane e politica, milita nei giovani comunisti fin dagli anni Ottanta. Dal Partito comunista fa la classica trafila nel PDS, nei Ds ed infine nel Pd. Avendo ricoperto incarichi di responsabilità negli enti locali sarebbe forse stata comprensibile una sua nomina nel dicastero degli Affari regionali. Un governo nominato (susseguente ad altri due sorti nella medesima maniera) non dovrebbe essere così spiccatamente politico, tanto più quando si parla di fare riforme (una al mese, addirittura) che siano massimamente condivise e non pronte per essere disgregate dal governo successivo. Nonostante non avesse competenze che trasparissero con evidenza dal suo curriculum in campo ambientale, Orlando si è occupato nel suo mandato annuale nel governo Letta di temi molto scottanti, come l'Ilva e la terribile emergenza ambientale che affligge la Terra dei fuochi, a proposito della quale è stato promotore di una legge. La legge in questione introduce il reato di combustione dei rifiuti abbandonati o depositati in aree non autorizzate (condanne da due a cinque anni che possono ulteriormente aumentare se ad appiccare i roghi è un'impresa). La sua applicazione, ad oggi, lascia tuttavia a desiderare: nelle periferie delle grandi città e nei parchi le prostitute, alle quali potrebbe facilmente essere applicata questa legge, seguitano a bruciare copertoni per riscaldarsi, inquinando così come non mai le aree urbane, mentre sull'operato delle aziende l'iniziativa dei magistrati si è forse rivelata troppo blanda. L'emergenza della Terra dei fuochi sarebbe stato un problema da non sbolognare all'ennesimo ministro eletto come tappabuchi (ci riferiamo al ministro Galletti). Quarantacinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro, ma anche ad una revisione del 41 bis, se così si può interpretare la frase: "Non ci sono ancora i tempi per superarlo (il 41 bis), ma è necessario fare il punto sulla sua funzionalità nella lotta alla mafia". Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un penalista serio che riformi completamente il sistema penale e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema delle attenuanti (incredibilmente quasi sempre concesse). Una persona che abbia le competenze per ricostruire il sistema penitenziario da rivedere dal primo all'ultimo articolo e nella sua applicazione, comprese le interessanti innovazioni apportate di recente all'istituto della detenzione domiciliare (braccialetto elettronico). Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Chissà se Orlando intende fare qualcosa sulla patente a punti andando così a meritarsi gli auspici dell'Unione delle camere penali che sperano che un politico così navigato possa essere anche in grado di "interpretare alla lettera lo spirito garantista della Costituzione": considerato che nel 2010 Orlando ha subito il ritiro della patente dopo essere stato scoperto al volante con un tasso alcolemico superiore al consentito, magari vorrà essere molto "garantista" al riguardo...

La laurea dei politici italiani: ecco la classifica dei più sfigati, scrive l'1 Febbraio 2012 “Libero Quotidiano”. Dopo l'uscita del viceministro Martone, il settimanale Oggi stila la graduatoria: dal razzo Napolitano fino alla lumaca Scajola. Il più sfigato di tutti è Claudio Scajola che si è laureato a 53 anni. Giorgio Napolitano, Mario Monti, Romano Prodi erano dottori già a 22 anni. Dopo la dichiarazione choc del viceministro del Lavoro Michel Martone che ha definito sfigato chi si laurea dopo i 28 anni, il settimanale Oggi ha stilato la classifica degli sfigati. Nelle ultime posizioni ci sono Stefania Prestigiacomo, dottoressa a quarant'anni, Gianni Alemanno che ha conquistato il titolo a 46 anni, ha dovuto aspettare altri sei anni Mario Baccini che ha discusso la sua tesi a 52 anni. Chi si è laureato tardi, fa notare il settimanale, ha avuto ottime scuse: da Antonio Di Pietro studente lavoratore: di giorno era impiegato civile dell'Aeronautica e di sera alle prese coi testi di diritto. Ma nonostante tutto si è laureato a 28 anni, esattamente come Nichi Vendola che ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini lavorando come dirigente dei giovani comunisti e dell'Arcigay. L'ex ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini si è salvata per il rotto della cuffia visto che si è laureata a 27 anni, meglio Mara Carfagna e Daniela Santanché entrambe sono arrivate al traguardo a 26 anni. Molte ombre sono cadute sulla laurea di Alessandra Mussolini accusata con altri 180 studenti romani di aver comprato due esami nel 1982, un anno fa è stata bocciata all'esame di abilitazione ma alla fine ce l'ha fatta. La Prestigiacomo ha dovuto rinviare i suoi studi perché a 23 anni, quando le sue coetanee andavano all'Università, lei era presidente dei giovani industriali di Siracusa e quattro anni dopo divenne deputato. Claudio Scajola si è laureato a 53 anni, in Legge. Si era iscritto nel 1967 ma poi fu attratto dalla politica e, a 27 anni, dirigeva già un ospedale. Martone quando ha chiamato sfigato chi si laurea dopo i 28 anni, dimentica i suoi colleghi acquisiti (per carità, lui è un tecnico) che non sono neanche laureati. Da Francesco Rutelli a Massimo D'Alema...

La laurea di Angelino Alfano senza quid e gli analfabeti che sanno leggere, scrive Silvia Truzzi, Giornalista, l'11 maggio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Il ministro dell’esterno Angelino Alfano – collezionista di gaffe e incidenti di varia natura, dalla rivelazione sull’arresto dell’assassino di Yara al ben più grave caso Shalabayeva – ha duramente attaccato il leader della Lega, con i consueti argomenti ineccepibili e ragionamenti di granitico rigore: “Basta ascoltare Salvini e si capisce perché è un fuori corso. Uno che non si è nemmeno laureato nonostante i notevoli sforzi”. Naturalmente Alfano è laureato e pure in un’università teoricamente d’eccellenza – la Cattolica di Milano – eppure, nonostante il titolo prestigioso, l’ex amico B. lo definì, con chirurgica spietatezza, un senza quid. E forse sfugge all’ex Guardasigilli che l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando non dispone di laurea alcuna. Come Beatrice Lorenzin e Giuliano Poletti. Ma anche quando i ministri sono dottori, le cose non vanno meglio. Capita alla soave Maria Elena Boschi, “non sempre a suo agio con le materie costituzionali” come ha detto di lei Stefano Rodotà. La laurea (in legge a Brescia) e l’abilitazione da avvocato (a Reggio Calabria), non hanno salvato Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione!; dallo scivolone sul tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso nel 2011. E nemmeno, nel giugno dello stesso anno, da un clamoroso errore in una lettera ai maturandi nella quale ricordava il suo esame: “Ho scelto un tema su Fogazzaro, Palazzeschi e i crepuscolari. Argomenti che conoscevo bene”. Tanto bene da aver messo l’autore di Piccolo mondo antico tra i crepuscolari. E dire che nel 2010 aveva dato dello “studente ripetente” a Pier Luigi Bersani (il quale per tutta risposta aveva pubblicato su Internet il suo libretto, tutto 30 e 30 e lode) suscitando le curiosità dei cronisti sul suo curriculum accademico. Alessandra Arachi aveva fatto una chiacchierata sul Corriere della Sera con il relatore di tesi della dottoranda Mariastella, Antonio D’Andrea, docente di diritto costituzionale all’università di Brescia. Ecco come ricorda la sua studentessa: “Mariastella Gelmini si è laureata almeno tre anni fuori corso con un voto di 100 su 110. Aveva scelto una tesi con un titolo accattivante: ‘Referendum d’iniziativa regionale’. L’argomento era bello, ma lei lo ha trattato in maniera davvero sciatta. Per quella tesi non ho voluto dare neanche un punto in più alla media dei voti. Non soltanto per come era stata scritta, a tirar via, ma soprattutto per come la Gelmini venne a esporla in sede di discussione”. Per la famosa legge dell’orologio rotto, bisogna dar ragione a Salvini che ha risposto ad Alfano “meglio non avercele le lauree di Mario Monti ed Elsa Fornero”: visti i danni fatti dal governo dei professorini, non si può dargli torto. E comunque, (guarda cosa ci tocca dire), meglio Salvini di Oscar Giannino inciampato nella clamorosa balla su lauree e presunti master. Del resto Bossi, diplomato alla mitica scuola Radio Elettra, ha rifiutato una laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni, liquidando l’iniziativa (sempre del ministro Gelmini, tout se tient) così: “Stupidaggini”. Tipo la memorabile uscita del brillante ex viceministro Michel Martone: “Se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato”. Del resto Eugenio Montale, un ragioniere che non aveva fatto studi classici né si era laureato ma aveva vinto il Nobel per la Letteratura nel 1975, giustamente notava in una famosa battuta che “gli analfabeti al giorno d’oggi sanno leggere”. Potremmo dire, nel caso dei nostri dotti politici e delle loro querelle sugli studi, “asinus asinum fricat”.

Ministri senza laurea e società civile con e senza titoli, scrive Romolo Ricapito il 17 Dicembre 2016. Impazza da giorni ovunque la notizia che una nuova ministra del governo non è, non sarebbe, laureata. Secondo alcuni, non costei si sarebbe nemmeno diplomata! In un articolo di un giornale importante, ho letto che comunque altri tre ministri del governo non sono in possesso di lauree. Impazzano allora i sondaggi e le proposte. Qualcuno addirittura propone l'obbligo di avere la laurea per ministri, parlamentari. Per me si esagera: la laurea è una specializzazione in un campo specifico. Ma spesso assistiamo a un'ignoranza di ritorno: quella di chi, laureato (ma anche diplomato...) non legge libri né giornali, non va al cinema, al teatro, al museo. Questa categoria di persone è più numerosa di quanto si creda. Spesso mi è capitato di frequentare anche occasionalmente persone che ignorano anche le notizie dei i tg, quelle più importanti, o quelle delle quali più si discute. Il trend segna che costoro sono donne, spesso indifferenti a tutto per ragioni personali. Ma tornando al ministro col diploma di laurea (o senza laurea): quante persone che tutti conosciamo, o abbiamo frequentato, a livello appunto di conoscenza e amicizia, fingono titoli di studio inesistenti? E tutto per essere alla pari, o probabilmente al di sopra degli altri, secondo loro incomprensibili motivi. La colpa è anche di chi ha mitizzato questo titolo di studio, la laurea, appunto. Spesso imponendolo ai figli, magari ragazzi svogliati che non avevano nessuna voglia di proseguire con l'Università e che adesso si ritrovano fuori corso con lauree generiche, strappate con voti minimi e dalle quali non hanno attinto particolari conoscenze.

QUALE FUTURO PER I LAUREATI?

La laurea in Italia allarga la mente ma non gonfia il portafogli. I dati Ocse e il confronto impietoso fra il vantaggio economico della laurea negli altri Paesi e in Italia. I più maltrattati? I dottori di ricerca, scrive Orsola Riva il 15 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «La laurea può allargarti la mente, ma anche gonfiarti il portafoglio». L’Economist - nomen omen - non usa perifrasi. Forse il linguaggio è un po’ brutale, ma il principio sacrosanto. Giusto che un laureato guadagni più di un diplomato. Quando capita il contrario, vuol dire che qualcosa non va. Come a Cuba, dove un medico ospedaliero inchiodato alla miseria dello stipendio statale guadagna meno di una cameriera di un grande albergo che arrotonda con le mance dei turisti. E infatti in tutti i Paesi Ocse, cioè in tutte le economie di mercato rette da un governo democratico, la laurea comporta un significativo vantaggio economico. Che però varia considerevolmente da Paese a Paese.  Come si vede bene da questo grafico pubblicato dal settimanale britannico: il valore aggiunto del titolo di dottore è massimo in Irlanda e negli Stati Uniti, dove i laureati beneficiano anche di un prelievo fiscale basso. La laurea paga bene anche negli ex Paesi del Blocco di Varsavia (Polonia, Slovenia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) che - nota l’Economist - storicamente risentono della mancanza di laureati a fronte di un’alta richiesta di lavoratori qualificati. Mentre funziona meno nei Paesi nordici e nel Benelux (Svezia, Danimarca, Norvegia, Belgio e Olanda) che abbondano di «dottori» e per di più li tartassano.

E in Italia? In Italia, è vero, il prelievo fiscale è molto alto, ma i laureati sono mosche bianche. E non è solo un’eredità del passato: anche fra i giovani dobbiamo accontentarci di un misero laureato ogni quattro 25-34enni: peggio di noi nella classifica Ocse fa solo il Messico. Con così pochi dottori in giro ci sarebbe da aspettarsi un vantaggio economico molto consistente. E invece non è così. Da noi lo scarto nello stipendio fra diplomati e laureati è basso, troppo basso, come ha più volte ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Siamo sui livelli della Norvegia che però ha il doppio di laureati di noi (un giovane su due). Una situazione che si traduce in circolo vizioso: continuiamo ad avere pochi laureati perché l’università è considerata poco attraente e infatti in Italia il tasso di iscrizione degli studenti a un corso di laurea di primo livello è del 37%, molto inferiore rispetto alla maggior parte dei Paesi dell’Ocse.

Ma c’è di peggio. In Italia non è soltanto la laurea a non pagare il giusto dividendo rispetto al diploma di scuola superiore. Nemmeno il dottorato o il master fanno la differenza. Negli altri Paesi chi decide di fare un investimento ulteriore in istruzione ne ottiene in cambio un sensibile aumento di stipendio. Da noi, invece, laurea o dottorato pari sono. Colpa di un tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese che non sanno valorizzare lavoratori altamente qualificati come chi possiede un Phd. E poi ci si chiede come mai facciano le valigie... Secondo un recente rapporto Istat il 12,9 per cento dei dottori di ricerca vivono all’estero, dove in media guadagnano 830 euro in più dei colleghi rimasti in Italia. E soprattutto hanno un impiego più a misura del loro profilo, visto che da noi invece un dottore di ricerca su 4 (nel caso delle donne, uno su tre) fa un lavoro che non ha nulla a che vedere con l’attività di ricerca e sviluppo.

Ti laurei e poi lavori? Ovunque, ma non in Italia. Pubblicate dal Times Higher Education l'elenco delle migliori università europee che garantiscono un impiego agli ex studenti. Per arrivare al primo ateneo del nostro paese bisogna scorrere fino alla posizione 78, scrive Maurizio Di Fazio il 14 dicembre 2016 su “L’Espresso”. Dimestichezza con le lingue straniere, importanti esperienze lavorative pregresse, un solido curriculum; e, soprattutto, l’avere in tasca una laurea conseguita in un’università di peso, in uno di quegli atenei che davvero contano in questo mondo sempre più piccolo, competitivo e diseguale. C’è pezzo di carta e pezzo di carta, 110 e lode e 110 e lode. Una ristretta e premiata élite degli studi avanzati che licenzia classi dirigenti, tecnocrati e imprenditori milionari, e tutto il resto della carovana che arranca in salite irte di vanagloria. E l’università italiana? Corre lentamente, as usual. Nulla pare veramente cambiato negli ultimi anni. Siamo sempre molto indietro nel gruppo. Non potremmo nemmeno considerarci tecnicamente dei gregari. Ingoiamo, facendo finta di niente, la polvere sollevata da fondisti e velocisti. Molti dei quali provengono da nazioni emergenti, di nuova alfabetizzazione finale post-scolastica. E pensare che le avremmo inventate noi, le università moderne, giusto un millennio fa. La solita Italia che non investe come dovrebbe e potrebbe sulla trasmissione del sapere, sull’istruzione d’eccellenza, sui giovani: sul suo futuro. Come evidenziano due ricerche pubblicate da The Times Higher Education , una prestigiosa rivista inglese specializzata nell’istruzione superiore e universitaria. Da un lato uno studio che stila una classifica delle università che assicurano maggiori garanzie lavorative ai propri ex studenti; dall’altro un report più generale sulle migliori università del pianeta, in base a un ranking a varie voci. Su entrambi i fronti l’Italia ne esce male. Meglio studi, prima e meglio troverai lavoro (in campi tendenzialmente scientifici, non umanistici). Ma se resti nel Belpaese le occasioni di essere assunto non con un voucher o per fare il fattorino, ma alla luce dei tuo percorso intellettuale, si assottigliano sensibilmente. Si spiega così l’inarrestabile fenomeno degli “universitari in fuga” (all’estero), e forse pure quel sentimento di ostinata antipolitica che gonfia il cuore illividito dei nostri 25-34enni. Per redigere la prima lista sono state coinvolte decine di amministratori delegati di grandi aziende, responsabili delle risorse umane, cacciatori di teste, consulenti. In testa, tra le università che fungono come un passaporto per un’occupazione sicura e quasi sempre coi fiocchi, svettano i campus americani: primo il  California Institute of Technology (con un ranking di 927), con poco più di 2000  studenti (il 27 per cento dei quali da fuori gli States) e un formidabile rapporto laureandi-professori di 6 a 1; secondo, il Massachusetts Institute of Technology (ranking 887), una popolazione di quasi 12 mila allievi anche qui beneficiati da un invidiabile rapporto numerico col corpo docente; terza la Harvard University (20 mila studenti), la più vecchia e rinomata d’America, nella sua storia ha sfornato 30 capi di Stato, 48 premi Pulitzter e altrettanti Nobel, frequentare le sue aule e i suoi ambienti significa valere a prescindere, è un contratto di lavoro in bianco una volta concluso il piano di studi. Segue la Gran Bretagna: la locomotiva è Cambridge, 18 mila iscritti, un quarto proveniente da fuori il Regno Unito, 150 dipartimenti, nei suoi annuari 92 premi Nobel, e un centro di ricerca scolpito nella leggenda; poco più in giù ecco l’eterna rivale Oxford, la più antica di lingua inglese appetita, anch’essa, per lo studio delle scienze. In Europa difendono il vecchio orgoglio continentale la Francia e la Germania (la Technical University di Monaco è ottava), persino il Giappone si guadagna un promettente decimo posto (con l’University of Tokio) mentre per arrivare alla prima università tricolore bisogna scrollare con il mouse fino alla 78esima posizione… Quando ci si imbatte, finalmente, nella Bocconi di Milano, con un ranking che è quasi un quinto della capolista a stelle e strisce. C’è poi la graduatoria 2016-2017 relativa alle migliori 980 università del pianeta, tarate per la qualità dell’insegnamento e della ricerca, il trasferimento delle conoscenze, le prospettive internazionali e altri indicatori di performance verificati dagli stessi studenti, docenti, dirigenti universitari, aziende e governi. La competenza in una vasta gamma di discipline, piuttosto che le prestazioni eccezionali in pochi ambiti, è la chiave di volta del loro eventuale successo. E qui per i nostri fiori accademici all’occhiello va ancora peggio: la migliore in assoluto è la Scuola Normale Superiore di Pisa, al 137esimo posto, seguita dalla Scuola Superiore Sant’Anna (190esima), pisana anch’essa. Fossero le Olimpiadi, non ci qualificheremmo nemmeno per le più remote delle gare eliminatorie. Medaglia d’oro, in questo caso e per la prima volta in 12 anni di storia della World University Rankings, all’Inghilterra con Oxford, che batte il cinque volte campione del mondo California Institute of Technology e la Stanford University. Nel complesso, gli Stati Uniti continuano a dominare la scena con 63 campus disseminati nella top 200. In continua ascesa poi le università asiatiche (19 tra le prime 200); bene Germania e Paesi Bassi; in calo la gloriosa Francia, e d’inverso un nuovo exploit per l’Istituto federale svizzero di tecnologia di Zurigo, nono classificato per il secondo anno consecutivo. Markus Püschel, responsabile del dipartimento di informatica, ha attribuito la sua affermazione al “generoso finanziamento" del governo svizzero in fatto di ricerca e istruzione e agli incentivi permanenti appannaggio dei suoi professori, per reclutare ogni anno nuovi ricercatori. Tutto questo consente all’ateneo di Zurigo di "impegnarsi in ricerche ad alto impatto scientifico, e di lungo termine”. Per dirne una, un ricercatore del suddetto Istituto svizzero sta progettando un’architettura alternativa di Internet. Meditiamo, governanti italiani con o senza l’Italicum, meditiamo.

I BAMBINI PRIGIONIERI DEGLI ADULTI INDOTTRINATORI IDIOTI.

"Discrimina le bimbe" La scuola corretta cancella pure il calcio. Una media toscana cancella la tradizionale partitella di fine anno. I prof: "Discrimina le ragazze e i meno bravi ed esalta solo i fighi", scrive Daniele Abbiati, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La situazione è Greve, ma non è seria. Tutto sommato, meglio parafrasare Ennio Flaiano, meglio prenderla alla leggera, questa vicenda in cui a essere discriminati sono i presunti discriminatori. È soltanto una storiella scolastica, ma temiamo possa fare scuola, con i tempi che corrono, perché oggi lo «scolasticamente corretto» non è più, come una volta, il secchione che sciorina voti tutti altissimi, bensì il degno pargolo del «politicamente corretto», quello con cui si baloccano, con sprezzo del ridicolo, gli adulti. Allora raccontiamolo come si deve anche nella forma, questo episodio esemplare. Alla scuola media di Greve in Chianti vigeva, fino all'anno scorso, la sommamente incivile usanza di festeggiare la fine dell'anno scolastico con una partita di calcio fra gli allievi. Pare addirittura che qualcuno fra quegli energumeni in erba osasse dribblare e persino fare dei tunnel ai compagni più sfortunati e meno abili. Per non parlare della sorte che toccava alle ragazzine più esili e carine, le quali non venivano mai schierate nelle formazioni titolari. E sorvolando sul fatto che l'incontro si chiudeva non con un educativo, salomonico pareggio, ma con da una parte i vincitori a esultare lanciando grida belluine e dall'altra gli sconfitti a dolersi per il risultato avverso. Uno spettacolo, capite bene, inverecondo, indegno di un istituto e di un'istituzione che dovrebbero essere volti a plasmare i maturi cittadini di domani. Ebbene, onde por fine all'indegna gazzarra che coinvolgeva, horribile dictu, amici e parenti stretti, non esclusi i sommamente colpevoli genitori, dei piccoli gladiatori, i professori hanno finalmente preso il coraggio a due mani e, con moto sinceramente democratico, messo al bando, tramite una grida, questa sì, lodevole lo scostumato costume. «Siamo i vostri docenti e siamo chiamati a trasmettervi la forza del pensiero critico, il coraggio delle scelte difficili, il valore dell'uguaglianza e di tutte le diversità a partire da quella di genere», tuona stentoreo l'editto. «Non possiamo e non vogliamo accettare - prosegue magistralmente - di veder relegate le nostre più brillanti ragazze nel ruolo di passive cheerleaders, non vogliamo che alla fine valgano ancora una volta e soltanto la prestanza fisica, l'abilità sportiva, l'egemonia culturale del calcio. Almeno non a scuola». Parole sante, giunte, anche se con grave ritardo, a riportare sulla retta via i caproni smarritisi nella selva dei cattivi propositi, correndo appresso a un pallone. Soprattutto perché, e qui la ramanzina assume opportunamente il tono di imprescindibile lezione di vita, «quelle che dovrebbero essere esaltate alla conclusione di un percorso di vita come la scuola media sono le menti eccelse fra voi, chi ha dimostrato rispetto e solidarietà per gli altri, che hanno lottato per l'impegno e la responsabilità: sono ragazzi e ragazze, fighi e no, sportivi e imbranati». Suvvia, a che valgono quelle «maglie costose», fra l'altro eticamente stonate a fronte di chi, come il bimbo afghano che ha commosso il mondo, si vede costretto a usare un simulacro di «maglietta» di plastica, per sentirsi in qualche modo simile al suo campione preferito? Che significano quelle «selezioni umilianti» per distinguere il terzino dall'attaccante, il funambolo dal brocco? E poi, ci permettiamo di aggiungere, che senso ha festeggiare la fine dell'anno scolastico? La fine dell'anno scolastico è un evento che riempie tutti di mestizia... Capito ragazzi? Non fidatevi mai dei palloni gonfiati.

Ultima follia a scuola. Entra nel programma l'ora di autoerotismo. La battaglia di una famiglia per dispensare il figlio. Nei testi elogi alle coppie gay e scherno alle mamme "casa e lavoro", scrive Giovanni Masini, Venerdì 20/03/2015, su "Il Giornale". Non è sempre facile essere genitore, per chi nutre convinzioni in contrasto con lo spirito del tempo. Soprattutto se la scuola pubblica veicola un messaggio incompatibile con le convinzioni etiche personali. È il caso dei genitori di un tredicenne piacentino, che hanno chiesto l'esonero del figlio dal percorso di «educazione alla sessualità e all'affettività» Viva l'amore promosso dalla regione Emilia-Romagna. E si sono visti negare l'esonero dalla scuola. Incontriamo Paolo e Amalia (i nomi sono di fantasia, per tutelare la privacy del ragazzo ancora minorenne) in un bar alla periferia di Piacenza, all'ora dell'uscita dagli uffici. «A ottobre ci è stato presentato un progetto di educazione sessuale - spiegano davanti a un caffè - Con l'esplicita premessa che sarebbe stato facoltativo». Il libretto distribuito alle famiglie contiene istruzioni molto esplicite, con tanto di illustrazioni, sull'uso dei contraccettivi maschili e femminili, sezioni dedicate alla masturbazione e questionari sulle trasformazioni «gradevoli o sgradevoli» della pubertà. E Viva l'amore non si limita a spiegare come evitare malattie veneree o gravidanze indesiderate: affronta anche i temi dell'identità e delle discriminazioni di genere. Ai ragazzi di terza media si chiede senza mezzi termini se condividano o meno il «modello di uomo e di donna» proposto in famiglia. L'obiettivo esplicito è quello di combattere gli «stereotipi di genere». I pensierini proposti ai giovani lettori suonano così: «Pensavo che per crescere bene servissero un padre e una madre. Invece ho amici con genitori separati, single o addirittura omosessuali! Quel che conta è volersi bene…». Oppure: «Mia madre è tutta casa e lavoro, non esce mai con le amiche. Da grande non vorrei essere così!». Amalia e Paolo non ci stanno, chiedono che il figlio sia esentato. Per la preside, però, «l'esonero non è previsto». Citando la Cassazione, scrive che «la scuola può legittimamente impartire un'istruzione non pienamente corrispondente alle convinzioni dei genitori». La famiglia, costretta ad accettare che il ragazzo partecipi, non chiede di cancellare il corso per tutti. Per chi non frequenta l'ora di religione c'è un insegnamento alternativo: perché questa disparità? Lo chiediamo alla preside della media «Italo Calvino». Dopo molte resistenze, ci riceve: il progetto, dice, è stato approvato secondo tutte le regole e si svolge «in un clima di serenità». Aggiunge però che «la scuola non può assecondare tutte le richieste dei genitori»: «Se un padre non crede all'evoluzionismo, non posso cambiare il programma di scienze». Eppure Amalia spiega che l'anno scorso era stata la stessa preside a raccontarle dell'esonero di alcune ragazze dall'ora di musica, incompatibile con la loro etica familiare. Il figlio di una famiglia agnostica può non frequentare il corso di religione, mentre l'esonero dal corso di «educazione alla sessualità» impossibile? Interpellata, la preside abbozza: «La questione è complicata», dice. Poi ammette che «esiste un vuoto» legislativo in merito agli esoneri dalle attività extracurriculari. Alla fine Andrea, con alcuni compagni, viene esentato dal corso: nelle ore dedicate a Viva l'amore si trasferisce in altre classi. Il dirigente scolastico provinciale, Luciano Rondanini, spiega che ci vuole flessibilità, «bisogna tener conto delle contrarietà delle famiglie». Per i genitori non è una vittoria in piena regola, ma è già qualcosa. Quelle lezioni Andrea non le seguirà. Resta però un interrogativo: se l'esonero era possibile, perché tentare di imporre «l'amore» del corso citando addirittura la Cassazione?

Docenti a scuola di teorie pro-gender. Ed è bufera. In una scuola di Roma corso per "educare alle differenze". Con il patrocinio del Comune. I genitori protestano, scrive Giovanni Masini, Lunedì 21/09/2015, su "Il Giornale". Nella fucina degli insegnanti pro-gender: a Roma la due giorni per «educare alle differenze». A fianco della cartina d'Italia, sul muro, alcune locandine colorate con diverse famiglie. Un bimbo, due bimbi, due mamme, due papà. Non è la scuola del futuro, a Roma è già realtà. Sabato e domenica alla scuola Cattaneo, in pieno Testaccio, è andata in scena la due giorni di «Educare alla differenze» - appuntamento irrinunciabile per chi vuole introdurre nelle scuole italiane «un altro genere di informazione»: decisamente gay-friendly e, come va di moda ripetere, «libero da pregiudizi». È la fucina degli insegnanti «pro-gender» (o pro-studi di genere che dir si voglia). Ad organizzare tutto sono tre associazioni vicinissime alla galassia Lgbt, con tanto di patrocinio del Comune di Roma. Docenti e genitori imparano come combattere il bullismo, ma anche come insegnare ai bimbi a liberarsi dagli «stereotipi di genere»: per la fascia d'età 0-6 anni, le insegnanti ricompongono in modo non convenzionale le fiabe ritagliate su fogli di carta: la principessa libera il principe, mentre la nonna va al ballo con il rospo. Biancaneve ingenua e bellissima - ça va sans dire - è un modello nefasto e superato. Altrove si utilizzano giochi da tavolo per riscrivere il vocabolario. Sulle carte del Memory, un maschio e una femmina costruiscono una casa: per distinguere le carte i bimbi sono costretti a dire «il muratore» e «la muratrice». C'è la teoria del genderbread, per cui l'identità sessuale non è mai definita ma sempre in divenire, mentre a proporre un «laboratorio sull'identità sessuale degli adolescenti» è il centro lgbt bolognese «Cassero», noto per aver organizzato una festa in cui uomini travestiti da Gesù mimavano atti sessuali con una grossa croce. Nell'aula a fianco, il tavolo «fuori programma» ospita «De-generiamo», un laboratorio di «quasi-danza» che vuole riflettere su «identità e stereotipi» esplorando «autoerotismo, post-pornografia, dominazione e sottomissione, bondage e burlesque». Il tutto nella cornice di un evento organizzato da associazioni che si propongono come interlocutrici del Miur al tavolo che dovrà discutere le linee guida per attuare la riforma della Buona scuola laddove (comma 16 legge 107/2015) parla di «educare alla parità tra i sessi, prevenire violenza di genere e discriminazione, informare e sensibilizzare studenti, docenti e genitori». Il ministro - pardon, ministra - Giannini ha annunciato querele contro chi insinui che la riforma contenga riferimenti al gender. Come regolarsi con queste associazioni: ammetterle o no al tavolo del Miur, farle entrare o no in classe? Le associazioni dei genitori già sono sul piede di guerra e promettono battaglia.

Il gender nelle scuole viene insegnato. Ecco le prove, scrive Matteo Borghi l'8-10-2015 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. Quando l’hanno accusata di voler diffondere la teoria gender nelle scuole, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha prima negato con forza, per poi parlare di «truffa culturale» e minacciare addirittura la denuncia. Eppure, nelle scuole italiane (che lo preveda o meno la "Buona scuola”, che è appena partita), l’insegnamento di gender c’è eccome. Anche se nulla è istituzionalizzato e controllato dal governo, sono state tante le scuole che hanno dato spazio alla teoria gender (che lo ricordiamo, sostiene che l’identità sessuale non sia altro che una libera costruzione dell’individuo) camuffandola magari sotto l’egida della lotta all’omofobia e alla discriminazioni, con cui ovviamente non c’entra nulla. Un dato di fatto che, due giorni fa, ha spinto il gruppo regionale della Lega Nord a presentare una mozione, redatta dai consiglieri Jari Colla e Massimiliano Romeo, contro l’insegnamento del gender nelle scuole. «Premesso che i trattati del diritto internazionale sanciscono in modo chiaro e inequivocabile il diritto di priorità da parte dei genitori del genere di istruzione ed educazione da impartire ai loro figli», si legge nella mozione e «ritenuto che negli ultimi anni è venuta ad affermarsi una pericolosa tendenza di molti istituti scolastici all’utilizzo di progetti di educazione sessuale […]» legata alla teoria di gender e che «nella suddetta teoria l’educazione all’affettività ha la tendenza a diventare sinonimo di educazione alla genitalità e alla masturbazione precoce, priva di riferimenti etico e morali, fin dall’età infantile». Non solo. «Nel materiale informativo favorevole alla teoria gender la famiglia composta da donna e uomo è vista come stereotipo da superare». L’obiettivo della mozione è far sì che la teoria gender non venga insegnata e «si agisca sulle autorità scolastiche preposte […] perché vengano ritirati dalle scuole i libri e il materiale informativo che promuove la teoria». «Quando si fanno mozioni del genere», ha commentato Romeo, «si viene subito accusati di essere omofobi o d’inventarsi qualcosa che non esiste. Invece il gender esiste, viene insegnato, e contrastarlo non vuol certo dire odiare o discriminare gli omosessuali”». I casi di insegnamento sono tanti. Fra i libri vietati dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (clicca qui) ce n’è uno, Nei Panni di Zaff (M. Salvi, F. Cavallaro, Fatatrac), che racconta come «avviene spesso che il maschietto voglia vestirsi da bambina e giochi con le bambole sognando di fare la ballerina o che la bimba voglia vestirsi da maschio e sogni di fare il calciatore» e che è tuttora in circolazione in molte scuole materne (dai tre ai sei anni) lombarde. Un racconto che ricorda da vicino il Gioco del rispetto promosso nel marzo scorso in alcune scuole del Friuli Venezia Giulia in cui – come riportano le cronache - ai bambini veniva chiesto di indicare i reciproci organi genitali travestirsi con abiti del genere opposto. E non è l’unico caso di un'iniziativa simile. Nel giugno dell’anno scorso il Comune di Monza ha promosso il “Progetto Rainbow” per insegnare ai bambini delle elementari cosa sono l’omosessualità e la transessualità. Come? Con una serie di nove dvd fra cui spiccava il film Da Lucas a Luus, che sponsorizza la transessualità a bambini fra gli 8 e i 10 anni, parlando di una “bambina”, nata bambino (clicca qui). Il promotore del progetto, Alessandro Gerosa (Sel), ha spiegato il senso del progetto così: «Perché tutte/i le/gli alunne/i nell’età della crescita scolastica possano sviluppare un’identità di genere ed un orientamento sessuale consapevole». Una modalità di illustrare il genere con l’asterisco usata anche in una serie di volantini distribuiti in alcune scuole, che titolavano: “Libera tutti/e”. Già perché dire “tutti” avrebbe discriminato le donne, mentre “tutte e tutti” i transessuali e le persone con un’identità di genere “liquida” o non ben definita (per non scontentare nessuno Facebook ha invitato a scegliere fra 56 diversi generi sessuali). Meglio, quindi, creare un vero e proprio abominio linguistico per non scontentare e non offendere nessuno. Una vera e propria mania per il politically correct di cui tutto l’occidente è ormai affetto (clicca qui). Gli insegnamenti che abbiamo sopra descritto sono, del resto, ancora nulla rispetto alla famosa tabella dell’Oms che parla della necessità di fornire informazioni su: «gioia e piacere nel toccare il proprio corpo, masturbazione infantile precoce» (per bambini da 0 a 4 anni), «relazioni con persone dello stesso sesso» (4-6 anni), «le scelte riguardanti la genitorialità, la gravidanza, l’infertilità, l’adozione l’idea base della contraccezione (è possibile pianificare e decidere sulla propria famiglia), i diversi metodi contraccettivi, gioia e piacere nel toccare il proprio corpo (masturbazione/ auto-stimolazione), rapporti sessuali» (6-9 anni), «orientamento di genere comportamenti sessuali dei giovani (variabilità nei comportamenti sessuali), piacere, masturbazione, orgasmo; sintomi, rischi e conseguenze delle esperienze sessuali non protette» (9-12). E non è una “bufala”, come hanno gridato alcuni, ma è tutto scritto in un documento ufficiale dell’Oms, da pagina 40 a pagina 50. Ovviamente sul tema ognuno può avere e tenersi l’opinione che vuole. Negare però che in alcune scuole italiane ci sia l’insegnamento del gender vuol dire però negare la realtà. 

La Giannini denunci pure, ma la "buona" scuola apre davvero al gender. Il ministro annuncia azioni legali contro chi vede nella riforma un assist al gender. Ma la riforma favorisce programmi scolastici controversi e basati sull'ideologia di genere, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 16/09/2015, su "Il Giornale". "Chi ha parlato e continua a parlare di teoria 'gender' in relazione al progetto educativo della Governo di Renzi sulla scuola compie una truffa culturale. Ci tuteleremo con gli strumenti a nostra disposizione, anche per vie legali". Il ministro Stefania Giannini vuole denunciare chi vede nella legge varata dal governo un viatico per far arrivare nelle scuole le teorie di genere. Un attacco frontale nei confronti di chi legittimamente vuole evidenziare il rischio di una deriva "gender" della riforma della scuola. Il ministro Giannini oggi ha inviato una circolare del Capo Dipartimento "a tutti i dirigenti scolastici" per provare a spiegare che a nella "Buona scuola" non si parla di "gender". E se ci si ferma alle parole, in effetti la Giannini ha ragione. Di certo nessuno potrà trovare nella legge questa parola. Ma ciò che ha spaventato molti genitori e numerose associazioni è che tra le pieghe della norma si celi un assist a chi fa di tutto per far arrivare queste teorie agli studenti italiani. Un appiglio che associazioni Lgbt e simili possono usare per portare a lezione programmi che ricalcano in pieno le teorie di genere. Tutto ruota attorno al comma 16. Che testualmente recita: "ll piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n.119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all'articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013". La Buona Scuola, sottolinea la Giannini, "esplicita dei criteri di sensibilizzazione all'interno delle scuole all'educazione, alla parità tra i sessi, perchè questa è una società dove la condizione della donna sul piano sociale, culturale ed economico deve fare dei passi avanti e alla sensibilizzazione dei ragazzi nella prevenzione della violenza di genere". Ed è proprio qui che casca l'asino. Secondo molti osservatori della legge, infatti, proprio grazie alla formulazione "violenza di genere" si possono creare "storture applicative" che vanno al di là della sensibilizzazione contro la violenza e scadono nella somministrazione ai ragazzi della teoria gender. Anche la Camera dei Deputati, l'8 luglio, ha approvato un ordine del giorno (n. 9/2994-B/5) che riconosce "una serie di storture applicative, che sono andate ben al di là dell’istanza, da tutti condivisa, di prevenire la violenza di genere e le discriminazioni". Secondo il ministro, invece, "la sintesi di questo comma 16 incriminato ingiustamente è l'introduzione della cultura della non discriminazione di ogni tipo, razziale, etnico e religioso, è l'introduzione della cultura della tolleranza e dell'accoglienza". Temi che, conclude Giannini, "la scuola in un Paese avanzato e moderno ha sempre introdotto in varie forme e che noi rinnoviamo in questa legge dello Stato". Ma non solo. Dopo gli appelli del Cardinale Angelo Bagnasco, infatti, l'attenzione si è rivolta all'articolo 5, comma 2 della legge 93 del 2015. Al punto 5.2 è scritto che si intende "superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini nel rispetto dell’identità di genere (...) sia attraverso la formazione del personale della scuola e dei docenti sia mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica". "Approccio di genere", cos'altro può essere se non l'ideologia che alcuni legittimamente combattono? Non si parla esplicitamente di "gender" nella "Buona Scuola". Ma portare in Tribunale chi lancia l'allarme che la legge si presti ad essere utilizzata per altri scopi è sciocco. Se non contro la libertà di opinione. Quelli contro cui la Giannini non esclude "azioni legali" chiedono solo il diritto di dire che il comma16 possa aprire le porte alle associazioni varie che si occupano di educazione sessuale e di lotta all'omofobia per inserire - come a volte accade - programmi controversi. Un esempio su tutti, il programma di educazione sessuale promosso dalla Regione Emilia Romagna "W l'Amore" che al suo interno contiene frasi rivolte ai ragazzi cui si insegna che "non c'è un modo giusto per essere maschi e femmine e non ci sono caratteristiche esclusivamente maschili e femminili". Ovvero che l'essere uomo o donna non dipende dal dato biologico, ma solo da quello culturale e emotivo.

Il fulcro della teoria del gender.

"Nella Buona Scuola la teoria gender c’è". La denuncia dell’associazione ProVita: "Il ministro non ci racconta la verità". "Che il Ministro ci denunci! Non possiamo tacere la verità! La teoria gender nella Buona Scuola c'è! La Giannini, negando che nella legge sulla Buona Scuola vi siano aperture alla teoria gender, è arrivata a minacciare azioni legali contro coloro che sostengono il contrario. La circolare diramata dal MIUR, checché ne dica il ministro, non ci rassicura per niente: in essa si continua ad usare l’espressione «genere» e non «sesso», quando la nostra Costituzione all’art. 3 parla proprio di «distinzione di sesso». Finora i progetti sul gender sono stati finanziati dagli Enti locali, dal MIUR e dall'UNAR. Con la legge «Buona Scuola» si invita specificamente ad educare alla «parità di genere». Ecco il comma 16 dell'art. 1 della legge 107, «Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei princìpi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all'articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013». Per capire che il «genere» in questi testi è altra cosa rispetto al «sesso biologico» e che segue la logica della teoria gender bisogna riferirsi al contesto normativo e soprattutto:

-Alla Convenzione di Istanbul, attuata di fatto dalla legge 119, dove è scritto che con il termine «genere» ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini e fa riferimento ad orientamento sessuale, identità di genere e prospettiva di genere.

-Al Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (approvato a Maggio 2015), che richiama in particolare l'obbiettivo di superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell'essere donne e uomini (…) nel rispetto dell'identità di genere, culturale, religiosa, dell'orientamento sessuale (…) mediante l'inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica.

Del fatto che il termine «genere» in queste normative fosse problematico in sé, era consapevole persino il Governo italiano in sede di firma della Convenzione di Istanbul: l'Italia depositò presso il Consiglio d'Europa una nota verbale con la quale dichiarava che «applicherà la Convenzione nel rispetto dei princìpi e delle previsioni costituzionali». La dichiarazione era motivata dal fatto che la definizione di «genere» contenuta nella Convenzione (l'art.3, lettera c) era ritenuta «troppo ampia e incerta e presentava profili di criticità con l'impianto costituzionale italiano». Purtroppo la dichiarazione interpretativa era troppo vaga («nel rispetto dei principi e delle previsioni costituzionali») e non ha scongiurato il pericolo, avveratosi con l'attuazione della convenzione mediante la legge 119 del 2013 e con l'adozione del «piano d'azione straordinario» nel mese di maggio 2015, dell'adozione del termine «genere» invece di «sesso», e di una interpretazione secondo la prospettiva (teoria) gender. Non possiamo poi dimenticare che da quando è ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini non ha fatto nulla per impedire che nelle scuole venissero proposti ai nostri bambini e ragazzi progetti fondati sulla teoria gender e/o sull'omosessualità, come abbiamo riportato nel dossier "Scuola, casi gender" sul nostro sito notizieprovita.it. Perciò i genitori devono vigilare sui programmi scolastici di questo anno accademico che potrebbero includere corsi ispirati alle teorie del Gender, consigliamo a tutti i genitori di prendere visione del "Vademecum per proteggere i tuoi figli" sempre visibile sul nostro sito". Antonio Brandi, ProVita Onlus.

Per non turbare i musulmani via i crocifissi e la festa di Natale. Concerto di Natale cancellato e crocifisso rimosso. Succede all’Istituto comprensivo Garofani di Rozzano (provincia di Milano), dove i vertici della scuola hanno imposto la linea laica, scrive Luisa De Montis, Venerdì 27/11/2015, su "Il Giornale". L'ennesimo scandalo in una scuola italiana. Concerto di Natale cancellato e crocifisso rimosso. Succede, come riporta Il Giorno, all’Istituto comprensivo Garofani di Rozzano (provincia di Milano), dove i vertici della scuola hanno imposto la linea laica. Un gruppo di genitori ha puntato il dito contro il dirigente scolastico reggente Marco Parma (già candidato sindaco per una lista civica e per il M5S a Rozzano) sulla cancellazione della Festa di Natale. Fino a oggi, ogni anno si teneva la "Festa musicale di Natale": canti e cori, non solo natalizi, frutto del lavoro dei bambini con i maestri dell’Associazione 11 Note. L’anno scorso i bimbi cantarono canzoni natalizie stile "Jingle Bells". Quest’anno un paio di genitori ha chiesto al preside di inserire anche canti più propriamente religiosi come "Tu scendi dalle stelle", "Adeste fideles" e "Stille Nacht". La risposta del dirigente scolastico è stata un secco "no" in nome della laicità della scuola pubblica. E il saggio musicale verrà svolto il 21 gennaio. A feste finite. E non si chiamerà più Festa di Natale, ma festa d'Inverno. Certo, le festicciole natalizie nelle aule del Garofani ci saranno, ma la decisione finale dei vertici scolastici, in accordo con l’Associazione 11 Note, è stata quella di far slittare il saggio musicale dopo Natale, il 21 gennaio. E l’appuntamento è stato ribattezzato: da "Festa di Natale" a "Festa d’Inverno". La motivazione del rinvio? "Il rispetto delle diversità". Insomma, la paura era che qualche genitore di religione musulmana potesse lamentarsi o essere in imbarazzo.

Presepi vietati e minacce di morte: le scuole italiane sottomesse all’Islam, scrive il 6 dicembre 2015 “Riscatto Nazionale”. Succede qualcosa, tra il 24 e il 26 dicembre, ma è meglio non parlarne. Per non turbare i bambini figli degli immigrati che non sono di religione cristiana, presidi e dirigenti scolastici cancellano il Natale con furia iconoclasta. Alberi banditi, crocifissi nascosti, presepi vietati. Canti e poesie, neanche a parlarne. Capitava anche in passato, per carità, ma, dopo gli attentati di Parigi, la tensione è tale che, per ogni Re Magio che finisce nel cassetto, scoppia un caso politico. A Golfo Aranci, la dirigente scolastica Raimonda Cocco ha deciso di proibire l’allestimento del presepe e l’insegnamento dei canti natalizi. I genitori si sono offesi e il sindaco Giuseppe Fasolino (Forza Italia) ha risposto mettendo a disposizione locali alternativi per il festeggiamento del Natale. Sempre rimanendo in Sardegna, ma a Sassari, i genitori della scuola San Donato (250 bambini di cui 122 non cattolici) avevano contestato la direttrice perché aveva chiuso le porte dell’istituto alla visita prenatalizia dell’arcivescovo. Per par condicio, avrebbe dovuto ospitare anche l’imam o il messia del dio di pasta e polpette della chiesa pastafariana. Allora non se n’è fatto più nulla. Non solo Rozzano – Ad Agrigento c’è stato un caso simile a quello di Rozzano: quest’anno nell’istituto comprensivo Esseneto, di rosso c’è soltanto il numero 25 sul calendario. Niente albero, niente addobbi, niente presepe, niente canti e zero recita. Una tristezza, insomma. Celebrare la festività cristiana offende i bambini musulmani, si sono sentite dire le mamme dai dirigenti scolastici. «La preside», racconta il coordinatore di Noi con Salvini, Giuseppe Di Rosa, all’AdnKronos, «ha pure imposto di togliere i crocifissi e alcune maestre entrano in aula, prendono il crocifisso dal proprio armadietto, lo appendono e poi lo tolgono a fine lezione». Casi di fede a intermittenza anche in Versilia. A Viareggio l’insegnante ha chiesto al bambino di levarsi il rosario che aveva al collo e di riporlo in cartella. Quel simbolo religioso poteva infastidire i compagni che pregano Allah. I genitori del bimbo sono rimasti sconvolti, hanno denunciato il caso e meditano di ritirare il figlio dalla scuola. Hanno già chiesto il nullaosta per il trasferimento. L’insegnante, però, contesta la versione data dalla famiglia, come spiega Il Tirreno. Al bambino è stato solo chiesto se conoscesse il significato di quel simbolo che portava al collo. Tutto qui. Nessuno l’ha obbligato a sfilarlo e nasconderlo. Sempre in Toscana, il sindaco di Castiglion Fiorentino Mario Agnelli ha disposto il collocamento obbligatorio del crocifisso in tutte le scuole comunali, appellandosi a una sentenza del Consiglio di Stato: «Il crocifisso può svolgere una funzione simbolica altamente educativa, al di là della sua connotazione prettamente religiosa». Il primo cittadino, inoltre, ricorda che «il calendario scolastico è modellato in base alle festività religiose cristiane». Per cui, insegnanti che professano il «relativismo culturale» e bambini non cattolici il 25 possono pure presentarsi a scuola e fare lezione. Chi dissente se la vede brutta. È successo al sindaco di Romano, Rossella Olivo. Aveva protestato perché un istituto comprensivo della sua città, nel vicentino, aveva organizzato un concerto con musica “esotica”. Metà delle canzoni erano in arabo. Neanche un “Tu scenti dalle stelle”. Risultato: Olivo è stata minacciata di morte, come scrive Il Giornale di Vicenza. Eppure c’è un posto a Milano dove gli scolari islamici sono affascinati da tutto l’apparato natalizio. Vogliono scrivere il biglietto d’auguri a papà e mamma, guardano affascinati il presepe e l’albero. È l’Ics Morosini-Manara. Anche se, ammette la maestra, le poesie su Gesù bambino che andavano a memoria vent’anni fa, non si portano più. Relativismo – A Torpignattara, quartiere romano ad alta densità di stranieri, gli scolari italiani sono quasi in minoranza. Per cui all’istituto Pisacane fanno così: non festeggiano il Natale, celebrano il giorno dell’anti-razzismo. Ai canti tradizionali si sostituiscono i balli indù. A Ladispoli, sul litorale di Roma, c’è una fusione. Il crocifisso è «tollerato», ma gli scolari delle elementari, pure gli italiani, leggono il Corano in classe. Che male c’è?, domanda il preside Riccardo Agresti, in passato malmenato da un genitore che lo accusava di privilegiare i rom a discapito degli italiani.

Michele Barcaiuolo, capogruppo Fratelli d'Italia- Alleanza Nazionale che intende così denunciare pubblicamente qualcosa che non condivide (Gazzetta di Modena del 22 aprile 2014). «In questi giorni sono stato contattato da molti genitori che scandalizzati, mi hanno segnalato l'atteggiamento che ormai in molte scuole modenesi gli insegnanti hanno assunto nei confronti delle svariate festività civili o religiose. - spiega - E' ormai noto a molti che sono moltissime le scuole modenesi, che per non urtare "altre sensibilità" scelgono, in occasione di festività come il S.Natale e la S.Pasqua di non insegnare ai bambini nessun canto, nessuna poesia che abbia qualsiasi riferimento alla matrice religiosa delle festività. Trovo questo atteggiamento e queste scelte incomprensibili, soprattutto in Italia dove perfino un ultrà laico come Benedetto Croce sosteneva " non possiamo non dirci cristiani per l'enorme influenza che la cultura, l'arte e l'architettura cristiana hanno in una Nazione come l'Italia". Ma se possibile, in questi giorni si sta facendo di peggio: in diverse scuole elementari di Modena ci sono insegnati che stanno insegnando ai bambini a cantare "Bella Ciao" come canzone prodromica a giustificare tutto ciò che è stato fatto dai partigiani. Non sono certo bambini di 7, 8 o 9 anni a dover approfondire le pagine buie e le ombre della resistenza (cit. Giorgio Napolitano); ma certo indottrinare dei bambini con la vulgata storica voluta da chi in questa città da 70 anni continua a fare il bello e il cattivo tempo non è il modo migliore per consegnare il domani alle nuove generazioni, sembra invece che a Modena ci siano aspetti educativi che più che a guardare alla formazione dei bambini guardino alla Corea del Nord». Voi che ne pensate? “Vergognoso insegnare ‘Bella Ciao’ alle scuole medie”.

La denuncia di Mauro Minniti, rappresentante del Movimento per An a Merano, scrive “Il Giornale D’Italia” il 28 novembre 2013. Alcuni docenti costringono dei bambini a cantare le note più care ai partigiani italiani della seconda guerra mondiale. Inculcare una visione politica a tutti i costi. Costringere dei bambini a cantare le note più care ai partigiani italiani della seconda guerra mondiale. Succede a Merano, dove a scagliarsi contro la decisione di far intonare ‘Bella Ciao’ tra i banchi è Mauro Minniti, fra i promotori del Movimento per Alleanza Nazionale. “Trovo una partigianeria eccessiva e gratuita insegnare nelle scuole a Merano ‘Bella ciao’ – afferma Minniti – non si può inculcare ai ragazzi delle scuole medie una canzone con un forte significa politico”. Le voci che la canzone in questione viene insegnata presso le scuole “Luigi Negrelli” sono circolate in questi giorni e “se confermate – aggiunge Minniti – non si può non considerare il fatto una inopportunità didattica ma anche un modo discutibile di sfruttare l'Istituzione scolastica per fini partitici ed ideologici, vista la caratterizzazione politica che la canzone stessa ha per quanto le strofe originali fossero rivolte ad altre realtà, quale quella delle mondine che andavano al fiume a lavare i panni. Allo stesso modo - conclude l’esponente politico - si potrebbe insegnare anche ‘Giovinezza’, considerato il significato della canzone, ovvero un inno goliardico degli studenti universitari, canzone certamente molto più affine peraltro al periodo studentesco vissuto da un qualsiasi giovane”. Purtroppo quello di Merano non è un caso isolato: sono diversi infatti i professori che costringono gli alunni a intonare l’inno partigiano, non curanti di quelli che possono essere gli ideali politici degli stessi ragazzi e delle famiglie. La scuola dovrebbe insegnare altro, peccato che, con una classe dirigente che si preoccupa ancora oggi di ‘formare’ antifascisti, è difficile. 

Il capogruppo di Forza Italia di Quarrata Ennio Canigiani ci scrive (La voce di Pistoia del 22 aprile 2016): "Si resta sbalorditi difronte alla notizia diffusa ieri dalla stampa secondo cui un coro di 50 bambini della scuola elementare Casa degli Angeli Custodi di Agliana, canterà l’inno partigiano 'Bella Ciao' durante le celebrazioni del 25 aprile, in programma all’auditorium di Pistoia. Niente in contrario a cantare una canzone che evoca le gesta di eroici partigiani se questa viene intonata da un gruppo di nostalgici combattenti, ma far cantare una canzone che certamente è un simbolo politico di parte a dei bambini per di più di una scuola che si rifà alla dottrina cristiana, è veramente incredibile. La guerra di liberazione ci riporta ormai a un’epoca triste che ha visto lo stesso popolo italiano diviso e lacerato al suo interno, una pagina violenta e triste della nostra storia. Oggi, a distanza di 70 anni, c’è bisogno di un ricordo e di valori condivisi, non è accettabile che vi sia chi ancora profonde ideologie a mani piene, usando dei piccoli innocenti e riaprendo vecchie ferite. Un ultimo pensiero va alla scuola elementare degli Angeli Custodi di Agliana: possibile che una istituzione cattolica come essa è, non abbia trovato una canzone diversa per celebrare questo avvenimento? Tra le centinaia di canzoni di ispirazione cristiana, non ce n'era una che inneggiasse alla fratellanza e all’amore?".

Bella ciao, breve storia della canzone di tutti noi, scrive Donatella Coccoli il 25 aprile 2016 su “Left”. Cantata in Francia ai funerali per le vittime di Charlie Hebdo come per la vittoria di Tsipras in Grecia, ma anche in Cina, in Ucraina, Bella ciao è un canto universale. «Assorbe tutte le libertà negate e per questo non ha confini”, racconta Carlo Pestelli, cantautore torinese con studi linguistici alle spalle e una passione per la cultura popolare. Ha scorrazzato per mesi tra Emilia Romagna e Toscana, ha conosciuto vecchie contadine dai nomi che dicono tutto – Comunarda, Antizarina -, ha sentito versioni varie della canzone e ascoltato storie e testimonianze della Resistenza. E poi ha cercato in Francia e in tanti altri Paesi. Alla fine ha scritto il libro Bella ciao, la canzone della libertà (add editore), pubblicato da pochi giorni. Non un saggio paludato ma, dice Pestelli, “la sociologia, la gestione delle tante traduzioni, nelle lingue principali, ma anche in quelle etnominoritarie dal dialetto cabilo delle popolazioni berbere al sinti torinese».

Cosa ha scoperto?

«Ho scoperto che interessa tutti. Bella ciao non è una canzone datata nel tempo, non è relegabile a qualcosa di ormai passato, come la televisione in bianco e nero, o le mondine o anche l’esperienza dei partigiani nella Resistenza. E’ una canzone – passami il termine – “rifunzionalizzabile”. E’ come se avesse lasciato i contorni storici alle spalle venendo continuamente “rifunzionalizzata”: dai bambini, dagli studenti, dalle femministe, fino ai lavoratori in sciopero alla fine degli anni 60 che avevano voglia di nuove parole d’ordine e hanno riciclato la melodia di Bella ciao. Poi è stata rifunzionalizzata negli anni 90 dai Modena City Ramblers, e fu clamoroso».

Qual è l’attualità di questa canzone?

«Quando vado a presentare il libro imparo sempre qualcosa. C’è sempre qualcuno che si alza e racconta. L’altro giorno una signora nata nel 1933, mi ha detto che nel 1944 abitava ad Alba, quando là c’era quella libera repubblica di partigiani immortalata da Beppe Fenoglio. Ecco, lei racconta di una canzone per un partigiano morto, una specie di ballata epica, che finiva con queste parole: “morto per la libertà”. La canzone, quasi silenziosamente è andata per gemmazione a costituirsi tra il 1943 e il 1944 in Emilia, in Piemonte, ma anche in Veneto e qualcuno ritiene anche in Abruzzo, visti i partigiani della brigata Maiella che liberarono Bologna insieme agli alleati. La guerra finisce e tutti si misero a cantarla. Storici come Cesare Bermani, Roberto Leydi, Franco Castelli, Franco Coggiola, hanno indagato per decenni su Bella ciao, anche alla ricerca di un autore. Però si sono arresi, perché Bella ciao è la “carta assorbente” di diverse versioni di canto popolare che poi sono confluite in questa canzone».

Quali sono le sue caratteristiche?

«Ha una forte ritmicità tanto che colpisce anche i bambini piccoli, poi ha delle parole fondamentali della nostra cultura: “bella” che è l’aggettivo petrarchesco per antonomasia e “ciao”. E inoltre riesce a tracciare una storia ideale di partecipazione popolare a una causa, quella della libertà, la più amata da tutti in un modo, per così dire, circolare. Inizia come in una fiaba, “stamattina mi son svegliato”, che già ti pone all’ascolto con una certa facilità. E poi, è vero, nel finale c’è uno che muore, ma muore per la libertà, non muore per la rossa bandiera o per il sol dell’avvenire, anche in questo riesce a slegarsi dall’utopia resistenziale».

Quindi è un patrimonio comune?

«Sì, è stata la canzone un po’ di tutti. Lo è stata dell’antifascismo, che negli anni 50 era un concetto che sonnecchiava, e che poi è stato risvegliato negli anni 60 ma da una generazione diversa. Ma non dimentichiamo che negli anni 70 Benigno Zaccagnini concludeva le assisi dei lavori della Dc con Bella ciao».

La canzone ha avuto molta fortuna all’estero, quante traduzioni esistono?

«Una quarantina, ma se ne producono continuamente. Per esempio una poetessa bretone ne ha scritta una versione di recente. Io distinguo tra le traduzioni nelle lingue principali: tedesco, francese, inglese, spagnolo e quelle delle lingue minoritarie, come il galiziano, il catalano e il ladino romanzo. C’è addirittura una versione in latino. Quando si tratta delle lingue principali vi possono essere più traduzioni. Facciamo l’esempio del tedesco: c’è quella formale ma c’è anche la reinterpretazione, come è accaduto negli anni 70 con Dieter Dehm, diventato poi un parlamentare, il quale ha ritenuto che i tedeschi non si meritassero Bella ciao perché non hanno fatto nulla per sconfiggere il nazismo da dentro, non hanno avuto un’epopea della resistenza paragonabile a quella italiana o yugoslava. E quindi lui trasforma il concetto di Bella ciao, lasciando inalterata la musica, nella storia di una lei e di un lui, entrambi guerriglieri: lei deve allontanarsi da lui perché deve andare a combattere e il finale è “mai più fascismo mai più guerra”».

In Grecia l’hanno cantata anche per la vittoria di Tispras.

«Sì e non solo. In Turchia la cantano in chiave anti Erdogan, nel Sud est asiatico ci sono i russi putiniani che stanno nel Sud est ucraino che la cantano in chiave anti ucraino. Allo stesso tempo i nazionalisti ucraini la cantano in chiave anti russa. E’ buona per tutte le cause. Tra le minoranze berbere viene cantata in chiave antialgerina o antitunisina».

Bella ciao è quindi una creazione collettiva?

«Un autore non c’è. Qualcuno come Ivan Della Mea – ma non è proprio lui la fonte diretta – sosteneva che l’autore forse era un medico ligure che viveva a Montefiorino nel Modenese, ma di fatto la canzone comincia a diffondersi a Bologna, a Montefiorino. Intanto nel 1944 a Torino una donna racconta che sentiva cantare una canzone sull’aria di Bella ciao con parole leggermente diverse nelle Carceri nuove. C’è poi chi nell’immediato dopoguerra racconta che con i festival della gioventù, di Berlino di Nizza, Praga, nel 1946 la cantavano tutti. C’erano delegazioni di giovani comunisti, tra cui anche Enrico Berlinguer che la insegnavano agli altri compagni. E la cantavano davvero tutti. Ad un certo punto c’era chi diceva che l’autore fosse Enzo Biagi che è stato partigiano e che era proprio della zona dove sarebbe nata. Anch’io dopo un po’ mi sono arreso. Invece ho scoperto che il Paese che più di tutti ha contribuito alla diffusione della canzone è stato la Francia grazie a un cantante di origine italiana, Yves Montand».

E per quanto riguarda la musica, ci sono influenze e tradizioni popolari?

«Anche in questo caso si potrebbe dire che è una bella insalata russa (ride). Principalmente si ritrova qualcosa in “Bevanda sonnifera”, un canto epico lirico diffuso in pianura padana, ma anche in alcune villotte diffuse in Trentino che contenevano quell’iterazione di “ciao ciao” scandito con le mani che serviva a dare il ritmo al gioco dei bambini. Per quanto riguarda il testo, ci sono dei progenitori. Un canto in particolare intitolato “Fior di tomba”, che diceva “mi son svegliato e ho trovato il mio amor”, risale al XIX secolo, molto noto in Piemonte e in Veneto. Il finale è drammatico perché è l’amore non corrisposto. Bella ciao insomma assorbe tutte quelle libertà negate che fanno parte del canto popolare: il condannato, l’amore non ripagato, la famiglia come prigione… Il fiore lasciato sulla tomba è il simbolo del ricordo. Un po’ come l’albero della libertà. Dove c’è una minoranza che rivendica dei diritti si può essere sicuri che c’è anche Bella ciao».

I bambini prigionieri in casa. I nostri figli passano soltanto due ore al giorno all'aria aperta. Perché fare sport costa. E si paga pure per tirare due calci a un pallone, scrive Antonio Ruzzo, Lunedì 01/02/2016, su "Il Giornale". C'erano una volta i bimbi che giocavano in cortile senza avere un telefonino in tasca e che tornavano a casa quando era buio. Oggi non ci sono più, o molto meno. È cambiato il mondo ma soprattutto sono cambiate le città. Sono prigionieri in casa: restano solo due ore all'aria aperta mentre cresce il tempo passato in compagnia solo del computer. Un po' si sapeva. La tecnologia unisce il mondo ma rende virtuali molte relazioni che prima erano incontri, contatti, occasioni di gioco. E poi ci sono le nuove città, moderne ma ostili nei confronti dei bambini che spesso crescono in ambienti degradati, con strutture quasi mai pensate per favorire le opportunità di gioco e di movimento. Ma non è solo questo. Piccoli e adolescenti hanno minori possibilità di giocare e fare sport non solo per un oggettivo problema di sicurezza ma anche perché, soprattutto negli ultimi anni, le difficoltà economiche delle famiglie sono aumentate. Una volta per giocare a calcio, a basket per correre era sufficiente andare in un campetto o all'oratorio, portarsi un pallone e fare le porte con le cartelle di scuola. Oggi è tutto organizzato. Ci si deve rivolgere a scuole calcio, a società, ci sono schiere di allenatori, preparatori, psicologi, ci sono certificati medici obbligatori da compilare, quote e rette da pagare e via così. Fare attività sportiva costa e, quando bisogna far tornare i conti a fine mese, corsi e stage sono le prime voci che vengono tagliate. Bimbi in gabbia quindi? Sicuramente è più facile ed economico tenerli in casa. Per rendersene conto basta dare un'occhiata agli ultimi dati raccolti dalla ricerca «Lo stile di vita dei bambini e dei ragazzi», realizzata da Ipsos per Save the Children e Gruppo Mondelez in Italia nelle aree periferiche di dieci città italiane (Ancona, Aprilia, Bari, Catania, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Sassari e Torino). «La situazione è critica - spiega Raffaella Milano, direttore programmi Italia-Europa di Save the Children Italia. Cattive abitudini, difficoltà economiche, famiglie che non hanno più la rete di protezione di una volta con nonni, zii e parenti a dare una mano, fanno sì che spesso i ragazzi restino soli in casa. E ciò mette in pericolo la loro socialità ma anche la loro salute perché si muovono poco, passano molte delle loro ore connessi e mangiano male». Quasi un bambino su cinque (17%) in Italia non fa sport nel tempo libero e per il 27% di loro è una scelta obbligata, dettata dalle scarse possibilità economiche delle famiglie. Circa un minore su dieci, invece, non pratica attività motorie neppure a scuola (11%), per mancanza di spazi attrezzati o per l'assenza di attività nel programma scolastico. I ragazzi trascorrono dentro le quattro mura molto del loro tempo libero (62%), anche perché non ci sono spazi all'aperto dove incontrarsi o, anche quando ci sono, sono sporchi e poco sicuri (66%). Solo il 44% dei ragazzi dichiara di trascorrere con i genitori più di un'ora durante le giornate lavorative, situazione che migliora nel weekend dove però quasi un bambino su quattro (23%) passa comunque meno di un'ora al giorno in attività coi propri genitori. Quando i ragazzi sono a casa, in media trascorrono 55 minuti al giorno su internet, 47 minuti giocando con i videogame; dal lunedì al venerdì passano in media 71 minuti al giorno davanti alla tv, tempo che si allunga a 84 minuti nei fine settimana. «Le difficoltà economiche delle famiglie e la mancanza di spazi pubblici adeguati obbligano molti bambini e ragazzi a rimanere in casa per molte ore. Per questo motivo rischiano di diventare sempre più sedentari e disabituati a confrontarsi coi loro coetanei - dice ancora Raffaella Milano -. Ci sono bambini e ragazzi che, anche solo con un parco giochi, degli alberi e delle panchine, potrebbero cambiare le loro abitudini». Certo, le nuove tecnologie, oltreché essere presente e futuro della vita dei ragazzi, sono una risorsa da cui non si può prescindere. «È chiaro che non vanno demonizzate - spiega la Milano -; se non diventano il sostituto della realtà sono la giusta via, in caso contrario ci si deve cominciare a preoccupare». Il rischio è quello di una generazione sempre più connessa ma in realtà anche sempre più disconnessa, con quattro milioni di minori in condizioni di deprivazione ricreativa e culturale. L'identikit lo tracciano gli ultimi dati Istat che dicono ad esempio che i ragazzi leggono un po' di più degli adulti ma pur sempre pochino: nel 2014 tra i 6 e i 17 anni poco più di uno su due aveva aperto un libro nei dodici mesi precedenti l'intervista (il 51,6%). Inoltre, pur vivendo nella nazione che vanta un patrimonio artistico, archeologico e naturale tra i più vasti e importanti del mondo, poco meno di un minore su due ha visitato una mostra o un museo (44,8%) e appena uno su tre un'area archeologica. Ma occasioni di movimento non si esauriscono però nella pratica sportiva e la sedentarietà dei ragazzi si conferma un tratto distintivo: un intervistato su quattro dichiara infatti di camminare non più di 15 minuti al giorno, dato che aumenta a uno su tre nel Centro Italia; solo il 4% afferma di percorrere a piedi più di un'ora al giorno. Due su cinque vanno a scuola accompagnati in macchina da un familiare e gli altri si muovono utilizzando mezzi pubblici (17%), a piedi (28%) o con la bicicletta (15%). A peggiorare la situazione si aggiungono cattive abitudini alimentari. Anche in questo caso la situazione non è delle migliori. «Il problema più grave e che ormai molto spesso bimbi e genitori non mangiano quasi più insieme - spiega Elena Casiraghi, specialista di nutrizione e integrazione sportiva dell'équipe Enervit -. E ciò porta i bimbi ad autoregolamentarsi a tavola e a mangiare male». Oggi il problema del sovrappeso e dell'obesità infantile riguarderebbe oltre il 30% dei bambini e il fenomeno è ancora più grave tra i bambini in età di scuola primaria. «La cosa più preoccupante - continua la dottoressa Casiraghi - è che molti ragazzi non fanno colazione, che è invece il pasto più importante della giornata. È provato scientificamente che i ragazzi che consumano regolarmente la colazione migliorano il loro rendimento scolastico e hanno durante la giornata un migliore controllo della sazietà». A saltare la colazione in media sono il 22 per cento dei bambini, in pratica più di uno su 5, e l'abitudine peggiora col crescere dell'età (29% tra i 14 e i 17 anni, 23% tra gli 11 e i 13 anni, 15% fra i 6 e i 10 anni). Così, nonostante siamo uno dei Paesi che possono vantare il maggior numero di trasmissioni televisive sulla cucina, abbiamo una cultura alimentare poco più che sufficiente e le regole che i ragazzi seguono a tavola spesso sono improvvisate e fai-da-te.«Il rischio di mangiare male quando ci si autoregolamenta è alto - spiega ancora Elena Casiraghi -. Molto spesso i giovani che fanno da sé mangiano solo ciò che piace loro o ciò che dà loro sazietà come i carboidrati. Invece è fondamentale per chi ha esigenze di crescita che in ogni pasto ci sia un apporto proteico. Buona regola quella di invertire ad esempio le portate delle pietanze cominciando con verdure e proteine e servire dopo la pasta. Deve fra l'altro essere riconsiderato anche l'apporto del cioccolato fondente, che è ricco di polifenoli che aumentano il flusso sanguigno al cervello. Una buona idea è di offrirlo ai ragazzi all'ora della merenda». Come una volta quando gli snack non esistevano e il cioccolato nel panino la mamma ce lo metteva in cartella.

Pedofili impuniti, quei bambini senza giustizia per un vuoto legislativo. A causa di un passaggio sfuggito al nostro legislatore, se un ragazzino tra i 10 e i 14 anni subisce un abuso il responsabile non può essere perseguito. Così l’ha fatta franca l’americano che adescava gli adolescenti vicino alla stazione Termini, come raccontato dalla nostra inchiesta. Gli appelli per porre rimedio all’errore, scrive Floriana Bulfon il 20 maggio 2016 su "L'Espresso". Lui, “l’inglese”, come lo chiamavano i bambini che comprava, percorreva da giorni poche strade in cerca di minorenni stranieri. Avanti e indietro, instancabile e insaziabile, sentendosi libero di agire. Una sera d’inverno è salito al quinto piano della casa vacanze nel cuore di Roma, a due passi dalla stazione Termini. Dietro di lui un ragazzino con le scarpe rotte e una felpa di due taglie più grandi. Quella sera era solo una delle tante della sua vacanza dell’orrore e invece - come ha raccontato “l’Espresso” nell’inchiesta “Noi, i ragazzi dello zoo di Roma” - grazie alla segnalazione di Abdul, sedicenne egiziano costretto a vivere nei cunicoli sottoterra e a prostituirsi per mangiare, gli agenti del commissariato Viminale sono entrati nell’appartamento e hanno messo fine agli abusi. «Sono americano, tra pochi giorni ritorno nel mio Paese», s’è affrettato a dire. E ha improvvisato la sua difesa: «Qual è il problema? Era d’accordo. Ha diciott’anni». Il ragazzino, 13 anni appena, s’è fatto coraggio e, con il cappellino da baseball calato sugli occhi, ha rivelato l’indicibile. Le telecamere, piazzate dentro la casa vacanze, hanno documentato il resto: i soldi buttati sul letto di una camera spoglia, l’eccitazione provocata guardando filmini hard da un tablet, la violenza consumata. Clic. Le manette strette ai polsi. «Sono ancora un bambino, ho paura». Abdul è arrivato dall'Egitto su un barcone, da solo. Vive in un metro quadrato fatto di un cartone, una coperta marrone e due sacchetti di plastica blu. Come lui Fathi, Ibrahim e gli altri. Venti, trenta ragazzini che dormono per strada, rubano, si prostituiscono accanto alla stazione Termini di Roma. Invisibili nel cuore della Capitale. Grazie al racconto di Abdul, la Polizia di Stato ha potuto identificare l'"inglese", un uomo che offriva soldi ai minori stranieri non accompagnati in cambio di prestazioni sessuali. «Perché faccio così?», si chiede Abdul. «Perché ho fame. Che devo fare? Devo morire?». Lui, l’ingegnere americano della Boeing in pensione, non ha parlato più, s’è avvalso della facoltà di non rispondere ed è stato portato in carcere. La fine dell’incubo. Ma è stata solo un’illusione. L’orco di Termini non ha commesso alcun reato. Non è successo nulla di penalmente rilevante, tanto che è tornato libero, senza nemmeno la necessità di un processo e della difesa di un legale. Libero di muoversi indisturbato. Il motivo? Un vuoto normativo. Per un passaggio sfuggito al nostro legislatore potrà continuare ad abusare di altri bambini e non sarà possibile punirlo. «Purtroppo nonostante la flagranza, la testimonianza del bambino e i filmati ripresi dalle telecamere, il reato non è perseguibile perché manca la querela di parte», spiega Maria Monteleone, procuratore aggiunto di Roma. Un tragico paradosso: «Se il minore ha meno di dieci anni la legge non richiede la querela essendo il reato punito di ufficio. Se il minore ha più di quattordici anni il codice qualifica il reato come prostituzione minorile e, anche in questo caso, si procede d’ufficio, ma nella fascia d’età dai dieci ai quattordici anni, purtroppo, non possiamo procedere in mancanza di querela di parte». E così nel caso del tredicenne non basta la sua testimonianza che racconta il rapporto sessuale consumato con l’adulto, a nulla servono persino le immagini delle telecamere. I magistrati non possono procedere. «Peraltro la stessa legge non consente al minore di sporgere la querela ed allora la perseguibilità dell’autore degli atti sessuali è rimessa alla decisione degli adulti che hanno la responsabilità genitoriale, spesso neppure identificati tempestivamente», sottolinea la Monteleone. Insomma il minorenne non può direttamente sporgere la querela ma nemmeno veder protetta la sua infanzia. Serve che lo faccia un genitore che però non sempre, per paura o addirittura per interesse, denuncia e allora i giudici non possono procedere. Se poi, come nel caso dei ragazzini stranieri non accompagnati, arrivati in Italia da soli dopo essere scampati a guerre e fame, il genitore non c’è «occorre un curatore speciale che deve essere nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero con una procedura tutt’altro che di immediata attuazione», spiega la Monteleone, «i tempi non consentono l’arresto in flagranza dell’autore del delitto di prostituzione». Tempi biblici che non permettono la tutela dei ragazzini tra i dieci e i quattordici anni e intanto «il fenomeno dei reati che vedono come vittime privilegiate i bambini ha subito un’impennata. È un segno del degrado», nota il procuratore aggiunto di Roma che ha seguito anche l’inchiesta dell’agente immobiliare e pierre romano, arrestato lo scorso febbraio. Claudio Nucci, 56 anni e un profilo Facebook dove esibire selfie fra vip e la teca di Padre Pio, ha adescato e ricattato i ragazzini della borghesia di Roma Nord in cambio di una felpa alla moda, un biglietto per un evento sportivo e la promessa di un invito ad una festa. Un degrado che va ben oltre la ricchezza e che porta a comprare con facilità non solo i minori che vivono per strada e hanno fame. Nel caso di Nucci, da poco condannato a quindici anni e 30 mila euro di multa, le denunce dei genitori sono arrivate, ma non servivano perché le vittime avevano più di quattordici anni. All’ingegnere americano invece la legge italiana ha concesso di farla franca. «Negli anni c’è stato un susseguirsi di disposizioni normative e, paradossalmente, è meno tutelato il minorenne tra i dieci ed i quattordici anni rispetto a quello che ha superato questa età per il quale si può procedere di ufficio. È evidente che si tratta di una “svista” del legislatore alla quale è auspicabile che si ponga rimedio in tempi brevi», prosegue amareggiata la Monteleone. Una “svista” dai risvolti tragici davanti alla quale Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia che ha appena avviato, grazie all’intervento di Franco Gabrielli, allora prefetto di Roma oggi nuovo capo della Polizia, un tavolo congiunto per una reale tutela dei minori stranieri non accompagnati, esprime «stupore e sgomento. Non ci fermeremo finché non verrà fatta chiarezza. Si individui il problema e si realizzino le modifiche perché non succeda mai più. Qualcosa non funziona nel sistema italiano. Il nostro impegno comune deve essere rivolto a fare in modo che tolleranza zero non sia solo uno slogan, e che chi viola dei minorenni non possa più rimanere impunito». Un reato quello della pedofilia che presenta un alto tasso di recidiva ma di difficile individuazione. Le forze dell’ordine non possono infatti fermare un adulto solo perché si accompagna con un bambino e nemmeno se lo vedono entrare in una casa. In questo caso non è servita neppure la flagranza. A nulla vale l’interesse superiore della protezione del bambino. Il reato non è perseguibile. E l’ingegnere di Chicago potrà tornare a muoversi attorno alla stazione di Roma. Non era la sua prima volta. Lo scorso ottobre aveva già alloggiato sempre nella stessa zona dedicandosi a tempo pieno al suo unico, ossessivo passatempo. Una meta conosciuta quella di Termini, tanto da attirare i pendolari della pedofilia pronti a prendere un treno anche dal Nord Italia per raggiungere le pensioni attorno allo scalo ferroviario dove spesso si chiude un occhio sul controllo dei documenti. Insospettabili commercianti e operai, finanzieri, preti e persino magistrati a caccia di facili prede. Bambini come Abdul, Fathi e gli altri. Minorenni arrivati da soli dall’Egitto a bordo di un barcone, costretti fino a poco tempo fa a dormire ammassati tra l’immondizia e i ratti nel centro di Roma. Bambini rom che tutte le mattine, accompagnati dagli stessi genitori, sono obbligati a prostituirsi per poche decine di euro. Invisibili dietro agli sbarramenti e ai cordoni per le misure di sicurezza, confusi tra viaggiatori distratti e pellegrini frettolosi. Bambini davanti al cui coraggio di denunciare le violenze e all’omertà degli adulti persino la legge rimane indifferente. Eppure loro, invisibili e indifesi, dimostrano la propria forza e si ribellano ai silenzi di chi dovrebbe tutelarli. È successo al Parco Verde di Caivano, cintura di Napoli. Cinquemila anime intossicate dalla terra dei fuochi, tra palazzoni tirati su in fretta per i terremotati del 1980 e viali scuri buoni solo per spacciare. All’isolato 3 una mattina di giugno di due anni fa Fortuna è volata giù dal terrazzo. Era salita al piano di sopra per andare a giocare ed è ricomparsa schiantata sull’asfalto del cortile. Aveva sei anni. Uccisa, secondo la ricostruzione dei magistrati, “perché si è rifiutata di subire l’ennesimo abuso”. A soli sei anni Fortuna ha detto no alla violenza ed è stata punita con la morte. Ad ammazzarla e abusare di lei sarebbe stato Raimondo Caputo, il compagno della madre della sua amichetta del cuore. Caputo che violentava anche i figli di quella donna che sapeva e copriva. La stessa donna, madre del piccolo Antonio, che un anno prima era volato giù come Fortuna dal balcone di quel palazzo. Un palazzo in cui gli adulti restavano in silenzio, nascondendo, depistando, coprendosi a vicenda. Ad alzare la testa sono stati i bambini. Sono loro che hanno aiutato gli investigatori a dare una svolta all’indagine descrivendo l’orrore su un foglio da disegno. Bambini soli che da soli hanno detto basta a chi voleva continuare a calpestare la loro dignità.  

L'Antimafia a scuola. Indottrinamento e proselitismo.

«Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza» Dante Alighieri.

Tutto è rito e l'antimafia è liturgia. “Non ci interessa la retorica, la liturgia ripetitiva. Perché 24 anni dopo Capaci e 24 dopo via D’Amelio, il rischio c’è. Come per certa antimafia da operetta”. Così Mimmo Milazzo, segretario della Cisl Sicilia, il 21 maggio 2016 a quasi un quarto di secolo dalle stragi mafiose. Era il 23 maggio del 1992 quando un’esplosione devastante mandò per aria, sulla A29 nei pressi di Palermo, la Fiat Croma in cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Quasi un mese dopo a perdere la vita furono, con Paolo Borsellino, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano. Un’ecatombe. Ma il cui anniversario, sostiene Milazzo, “non può essere una mera occasione formale, dentro e fuori dal palazzo. L’ennesimo show”. 

Scuola ed antimafia di Franca De Mauro. Franca De Mauro è figlia di Mauro De Mauro e nipote di Tullio De Mauro, Linguista e Ministro della Pubblica Istruzione. C’è un equivoco che ricorre frequentemente sia all'interno della scuola, e questo è grave, sia all'esterno: cioè che noi insegnanti si faccia educazione alla legalità soltanto quando, per un motivo contingente, affrontiamo un tema, per così dire, monografíco: la storia della mafia, mafia e latifondismo in Sicilia, la vita di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Placido Rizzotto, di Pio La Torre... ahimè, l'elenco potrebbe essere anche più lungo. Ma noi insegnanti, questo è il mio parere, facciamo educazione alla legalità quando facciamo nostre le dieci tesi di educazione linguistica, quando, cioè, insegniamo ai nostri alunni a muoversi da protagonista all'interno dell'universo della comunicazione. Quando insegniamo ad ascoltare e comprendere, a leggere e comprendere, a parlare e scrivere con chiarezza nelle diverse situazioni comunicative e con scopi diversi. Quando diamo a tutti i nostri alunni la possibilità di usare il linguaggio per comprendere e produrre una molteplicità di messaggi. Certo, questo è il compito della scuola. E' proprio questo, ma non sempre lavoriamo in tal senso, non sempre facciamo nostre le dieci tesi di linguistica democratica. Spesso ci accontentiamo "di un rapido apprendimento, di un soddisfacente grafísmo e del possesso delle norme di ortografìa italiana, della capacità di verbalizzare, oralmente e per iscritto, attorno testi letterari e storici"; ma dare ad ognuno dei nostri alunni il reale possesso della lingua italiana, è questa la scommessa. Solo allora saranno in grado di scegliere. Perché se ci limitiamo a proporre argomenti antimafia, e non diamo loro il possesso della lingua, noi conosceremo diecimila vocaboli e saremo liberi, loro ne conosceranno sempre mille e saranno schiavi. Saremo sempre noi a scegliere per loro. Sceglieremo, giustamente, un impegno per la legalità, ma saremo noi a scegliere, non loro. E, uscendo dalla scuola, i ragazzi, così come dimenticano immediatamente date, fatti, personaggi, letture, dimenticheranno quanto diciamo sulla legalità. E dovremo registrare di non aver neanche scalfito il consenso sociale verso la mafia, di non avere intaccato la cultura mafiosa. Ma se daremo agli alunni gli strumenti linguistici per capire un articolo di giornale, il discorso di un politico, un volantino sindacale, il telegiornale, la Costituzione, forse il loro impegno per la legalità sarà più concreto e duraturo. La cultura facilita scelte etiche, non le rende immediate, me ne rendo conto: certo 'don Rodrigo aveva più cultura di Renzo, Andreotti più di un operaio che vendeva il suo voto per un pacco di pasta... però se Renzo, se quell'operaio avessero avuto gli strumenti per difendersi da angherie, raggiri, soprusi, per lottare contro l'illegalità... per loro le cose sarebbero andate meglio. In un'epoca in cui le grandi ideologie, l'aggregazione politica non esistono quasi più, in cui la Tv spazzatura è il modello di riferimento culturale per moltissimi, dare agli alunni gli strumenti per comprendere, per smascherare promesse messianiche, ideali di ricchezza facile e veloce, questo diventa la vera scommessa della scuola per la legalità.

Istruzione o Indottrinamento? Scrive David Icke. L‘istruzione esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo, in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del…non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che “l’istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola”. Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè l’università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che l’intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».

Avanti.

«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all'Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitré anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l'ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».

Non li voglio vedere, scrive Salvo Vitale il 22 maggio 2016. Stanno preparando il vestito buono per la festa. Passeranno la notte a lustrarsi le piume. E domani, l’uno dopo l’altro, con una faccia che definire di bronzo è un eufemismo, correranno da una parte all’altra della penisola cercando i riflettori della tivvù, il microfono dei giornalisti, per inondarci della loro vomitevole retorica su twitter, facebook, e in ogni angolo della rete; loro, tutti loro, gli assassini di Giovanni Falcone, della moglie, e dei tre agenti della sua scorta, saranno proprio quelli che ne celebreranno la memoria. Firmandola. Sottoscrivendola. Faranno a gara per raccontarci come combattere ciò che loro proteggono. Spiegheranno come custodire l’immensa eredità di un magistrato coraggioso; loro, proprio loro che ne hanno trafugato il testamento, alterato la firma, prodotto un perdurante falso ideologico che ha consentito ai loro partiti di rinverdire i fasti di un eterno potere. Li vedremo tutti in fila, schierati come i santi. Ci sarà anche chi oserà versare qualche calda lacrima, a suggello e firma dell’ipocrisia di stato, di quel trasformismo vigliacco e indomabile che ha costruito nei decenni la mala pianta del cinismo e dell’indifferenza, l’humus naturale dal quale tutte le mafie attive traggono i profitti delle loro azioni criminali. Domani, non leggerò i giornali, non ascolterò le notizie, non seguirò i telegiornali, e men che meno salterò come una pispola allegra da un mi piace all’altro su facebook a commento di striscette melense e ipocrite che inonderanno la rete con una disgustosa ondata di piatta e ipocrita demagogia. Domani, uccideranno ancora Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta. E io non voglio farne parte. Per questo ne parlo oggi, con un giorno di anticipo. Seguitano a ucciderlo, ogni giorno, nella società civile e in parlamento. Per questo vogliono museizzarlo, trasformandolo in una specie di santino da usare ad ogni buona occasione. Perché sono proprio loro gli eterni assassini, questa è la verità, altrimenti non ci ritroveremmo, venti anni dopo, nella stessa identica situazione di allora. Domani, vestiti a festa, faranno a gara a chi lo commemora e piange di più. Tutti i funzionari pubblici della repubblica, anche quelli del più piccolo e povero comune, tutti quelli che hanno preso tangenti privilegiando l’interesse personale a quello del bene pubblico, sono quelli che seguitano ogni giorno ad assassinare Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta. Quelli che hanno reso vana e vacua la loro morte. Gli imprenditori che partecipano alle gare sostenendo che bisogna pagare le tangenti se si vuole sopravvivere sul mercato. I direttori editoriali responsabili delle case editrici, delle società di produzione cinematografica, televisiva e radiofonica, che riconoscono e accolgono come autori solo persone presentate, suggerite, spinte, imposte dalle segreterie dei singoli partiti politici che poi provvederanno a fornire i loro buoni uffici facendo piovere su di loro sovvenzioni statali pagate con le nostre tasse. Loro, nessuno escluso, sono gli assassini di Falcone, di sua moglie e dei tre agenti della scorta. Io non li voglio vedere. Non voglio vedere le loro facce ipocrite. Sono assassini tutti quelli, nessuno escluso, che dicono “lo fanno tutti, che cosa ci vuoi fare?”. Così come lo sono tutti coloro che si trincerano dietro il “ma io ho una famiglia” e fingono di non sapere che in italiano esiste la frase “no, io queste cose non le faccio”. Gli assassini sono tutti i cittadini italiani che nel silenzio garantito dalla privacy, cautelati dal fatto di non avere testimoni, nel segreto della cabina elettorale, mettono una crocetta su un certo simbolo, su un certo nome, perché sanno che quella lista e quella persona, domani, a elezioni avvenute (e vincenti) mi risolveranno il mio problemino, o daranno il posto a mio figlio, o sistemeranno mia sorella. Sono decine di milioni. Perché la mafia non è una persona, non è una cosa astratta. La mafia è un’idea dell’esistenza. La mafia è una interpretazione della vita, e chi vi aderisce è un mafioso. Anche se non lo sa. Anche se non se lo vuole dire. Sempre mafioso è. L’intera classe politica di questo paese, intellettuale, mediatica, imprenditoriale, ha partecipato al processo di delegittimazione di Giovanni Falcone, isolandolo, diffamandolo, voltandosi dall’altra parte quando sapevano che stavano arrivando i killer. Così come fecero poi con Paolo Borsellino e con tutti coloro che ebbero l’ardire di armarsi di coraggio e combattere contro la mafia attiva. Le stesse persone che allora scelsero di non guardare, oggi sono in prima fila a commemorarne la scomparsa. Sono tutti loro i veri assassini. Io non li voglio né vedere né ascoltare. Perché i dirigenti mafiosi sono affaristi, e non corrono il rischio di mettersi nei guai uccidendo gli affari, se non sanno di avere un territorio amico che li sorregge. La mafia, di per sé, non esiste, esistono i mafiosi. La mafia è la somma dei singoli comportamenti che ne determinano l’esistenza. E noi siamo un paese con troppi mafiosi. Purtroppo, non è uno stereotipo, è la tragica realtà con la quale noi tutti dobbiamo a fare i conti. Perché questi sono i veri conti, non lo spread, che è una invenzione astratta. Potete aderire a qualunque ideologia, essere, anarchici o democratici, conservatori o progressisti, amanti di Keynes, di Marx o della teoria della Moneta Moderna. Non cambia nulla, finchè non cambieremo il nostro comportamento individuale, quotidiano, esistenziale, e non prenderemo atto di ciò che siamo, per poterci evolvere e liberarci da questo cancro. Ogniqualvolta un cittadino italiano rinuncia ad esercitare il libero arbitrio, e rinuncia all’ambizione e al tentativo, anche se estremo e disperato, di farsi valere per i propri meriti, per le proprie competenze tecniche, privilegiando la facile e sicura strada della mediazione politica e della malleveria, per prendere la scorciatoia del sistema del malaffare, il registratore di cassa della mafia segna un incasso. Perché sa che, domani, quel cittadino sarà un mafioso sicuro. Anche se non lo sa. E’ una porta alla quale andranno a bussare, sicuri che verrà subito aperta. Loro, lo sanno benissimo, che è così. Lo sappiamo tutti. Io non li voglio vedere i loro telefilm celebrativi interpretati da attori raccomandati, prodotti da aziende mafiose, e distribuiti alla nostra visione da funzionari mafiosi in doppiopetto. Proprio no. Perché sono tutti assassini di Giovanni Falcone, di sua moglie e dei tre agenti della scorta. Domani, dedicherò la giornata al tentativo di ripulirmi spiritualmente, cercando di fare ordine interiore, per eliminare ogni residuo di retro-pensiero mafioso, che alligna dentro di me, come dentro la mente di ogni singolo italiano, anche quando non lo sa. Perché il paese è così. Altrimenti, non staremmo, dopo venti lunghi anni, e una caterva di governi inutili, nella stessa identica situazione di allora.

E un altro giorno di Borsellino è andato, scrive Luca Josi per “Il Fatto Quotidiano” il 21 luglio 2015. Stormi di parole alate, visi contriti, rugiada di lacrime. Qualche minuto, una crocetta sopra, e la terra ha continuato il suo giro intorno al sole. Ci si rivede l'anno prossimo per ascoltare nuove cronache sudate di dolore, impregnate di partecipazione e narrazione per "sensibilizzare i cittadini e non dimenticare". Bene. Tra i sacerdoti laici chiamati a celebrare il rito e la liturgia della memoria, la Rai. Sostenuta dal nostro canone per onorare il contratto di servizio con lo Stato la Rai dovrebbe informare gli italiani così da contribuire al loro crescere civile; nello Stato appunto. Molto bene. Parafrasando l'audizione de "La primula rossa di Corleone" alla Commissione Antimafia - quella in cui l'interrogato in merito all'esistenza della mafia, rispose: "Se esiste l'antimafia esisterà anche la mafia" - la Rai certifica l'esistenza dello Stato. Ne è infatti la tv. Benissimo. Veniamo al punto. Ero un imprenditore del panorama televisivo italiano (un gruppo che ha avuto centinaia di dipendenti, ha prodotto migliaia di ore di programmi, ha conquistato cinque Telegatti, premi di ogni genere e tanti altri primati da snocciolare). Per una produzione in Sicilia, davvero poco fortunata, il gruppo è fallito (ma non starò a ricordare il carrozzone di schifezze, angherie e miserie che hanno prodotto questo scempio). C'è solo un punto che vorrei puntualizzare nel giorno successivo alle retoriche per Borsellino. Il 7 giugno 2007 il più stretto collaboratore di un direttore della Tv di Stato mi telefona per raccomandarmi un tizio per la nostra produzione Rai (tra l'altro Educational!): "... un personaggio locale di qui - siciliano - di dubbia provenienza, che comunque pare non faccia molte, come dire, non faccia molti problemi insomma, si accontenta di molto poco e cioè di, di, di, veramente ... insomma pare che sia, che sia tranquillizzante insomma la cosa. Non lo è per le sue tradizioni e per le sue origini, però, non lo so io comunque ti ho avvertito …". Non ho nemmeno bisogno di registrare l'assurdo. L'acuto dirigente fa tutto da sé lasciando il messaggio sulla mia segreteria telefonica (la si può ancora ascoltare su il fattoquotidiano.it: Agrodolce, i raccomandati e uomini in odor di mafia). Dal giorno successivo metto a conoscenza della telefonata i dirigenti competenti. Penso che si tratti ancora del caso di un singolo, ma gli anni successivi mi dimostreranno, ampiamente, che non era così. Incontri successivi e lettere per denunciare la situazione producono il silenzio. Di fronte a tutto questo il mio gruppo, nella mia persona di allora presidente, decide di procedere penalmente verso i protagonisti della nostra distruzione. Il 4 dicembre 2011, dopo la pubblicizzazione della telefonata incriminata il protagonista della stessa risponde così a il Fatto Quotidiano: “Si sa che quando le produzioni vanno in Sicilia, devi sottostare alle regole legate alle tradizioni dell’isola” per aggiungere “ho chiamato Josi, e lui mi fatto una scenata incredibile, dicendo che lui ‘ rapporti con mafiosi non li voleva avere, mai e poi mai”. Il 17 dicembre 2011 sarà la cronaca giudiziaria a confermarne la veridicità di questa interpretazione. Infatti, la DDA di Palermo farà eseguire ventotto arresti all’interno del Clan Porta Nuova. Nel mirino dello stesso, la produzione di Canale 5, Squadra Antimafia Palermo Oggi. Non erano attratti dal contenuto editoriale della fiction, ma dall’opportunità di controllarne i servizi di trasporto, il catering per la troupe e di assumere come comparse parenti e affiliati (oltre all'opportunità di fornire droga all'interno della produzione). Tutto questo avveniva a pochi chilometri dagli stabilimenti del nostro gruppo televisivo con l’aggravante che noi si era capaci di occupare fino a 440 comparse al mese per una prospettiva di diversi anni - le soap opera possono durare decenni - in uno dei distretti a più alta disoccupazione giovanile europea. Il 23 ottobre 2012 - sei mesi dopo dalla messa in onda della fiction Paolo Borsellino - I 57 giorni, per Rai Uno: - la vicenda incontrerà una conclusione tragicamente solare. L'imprenditore "proposto" nella telefonata dall'incaricato Rai verrà arrestato dalla Polizia di Palermo, insieme al fratello, per i reati di estorsione e associazione mafiosa (trattavasi d'imprenditori polivalenti che, oltre a una struttura dedicata alle forniture di servizi per lo spettacolo, diversificavano con un’attività di pompe funebri). La sua compagine era riuscita a infiltrarsi all’interno di un’altra produzione esterna Rai, Il segreto dell’acqua (fiction sul tema della lotta alla mafia). Purtroppo dall'azienda pubblica che impegna gli imprenditori a sottoscrivere corposi Codici Etici e Codici Antimafia non si sono mai registrate riflessioni sulle singolari vicende risultate forse troppo neorealiste. In compenso le fiction antimafia, continueranno a prolificare perché "non possiamo permetterci di abbassare la guardia". Appunto. Il 23 agosto dello scorso anno scrivevo su questo quotidiano che la Rai, dalla missione formativa e pedagogica, celebra ogni luglio e agosto, tra un telegiornale sul caldo che arriva e un arresto che latita, la diretta del Palio di Siena. Questa edificante competizione sportiva ha una narrazione popolare che la racconta come il Quark della corruzione; è la Stele di Rosetta di una nazione tutta gonfaloni e proclami la cui prassi si traduce negli encomiabili risultati del Monte dei Paschi. Ancora una volta, la Rai, impegnata in riforme profondissime dall'altissimo valore strategico e morale per l'intero Paese, né si distrae né si confonde e prosegue, indomita, nell'imprescindibile programmazione della manifestazione senese. Questa, in effetti, risulta essenziale per la crescita civica della nazione nella consapevolezza che la "trattativa", sia essa di Stato o di contrada, sia connaturata a una corretta crescita nella pedagogia nazionale del "Si fa, ma non si dice" ("Si fa, ma non si dice e chi l'ha fatto tace, lo nega e fa il mendace e non ti dice mai la verità..." Milly per Studio Uno, Rai Uno). Falcone sosteneva che la mafia, come tutti i fenomeni umani, ha un principio, una sua evoluzione e quindi anche una fine. Sarà così per il Palio, per la mafia e per la Rai. Auguri. Ps: Se ti senti disposto a essere conciliante, chiediti soprattutto che cosa ti rende in realtà così indulgente: una cattiva memoria, la comodità o la codardia. Arthur Schnitzler

Antimafia e magistratura. L’alleanza malsana che Falcone rifiutò. Indagine sui professionisti della patacca che hanno trasformato l’antimafia in una macchietta della giustizia politica, scrive Giuseppe Sottile il 12 Maggio 2016 su "Il Foglio".

Prologo. “Tutto pagato mio”. Quando l’onorevole Salvo Lima varcò la soglia del bar “Rosanero”, i picciotti di don Masino Spadaro, boss della Kalsa e re del contrabbando, formarono – così, spontaneamente – due piccole ali di folla. L’onorevole si inconigliò nel mezzo e salutò prima a destra e poi a sinistra. Raggiunse il banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo onorevole, merita questo ed altro”, declamò cerimonioso don Masino. Ma senza fortuna. Perché l’onorevole continuò a masticare il suo bocchino di madreperla, quello con la molletta interna e la cicca estraibile, senza pronunciare sillaba. Si limitò solo a guardarli, quei picciotti. E guardandoli gli significò che se avevano qualcosa da dire potevano anche dirla. Tanto lui era in campagna elettorale e li avrebbe certamente ascoltati. Figurarsi però se don Masino poteva mai lasciare una simile entratura a Vincenzo Mangiaracina, detto “Scintillone”, pizzicato otto anni prima per tentato omicidio, e appena uscito dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto “Cardone”, che nell’aprile del 1989 andò per sparare e fu sparato, e parlava con mezza bocca perché l’altra era praticamente affunata in un nodo cavernoso di osso, muscolo e pelle; o a Lillo Trippodo, detto “Cacauovo” perché prima di ogni tiro, scippo o rapina che fosse, aveva sempre un dubbio da manifestare ma poi puntava la pistola ch’era una meraviglia. “Tutti bravi ragazzi, onorevole”, disse don Masino presentando cumulativamente i picciotti disposti a semicerchio, come gli ami di una paranza. Ma l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Se ne stava appoggiato al bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Fino a quando, don Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di coraggio e mirò a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica, onorevole: che dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati questa minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato. Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto breccia. Ora fanno tutti gli antimafiosi, anche a Ciaculli, ma in realtà sono semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è acqua minerale”.   Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di faccia. Posò la tazzina sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino gli puntò al petto l’ultima domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di Ciaculli?”. L’onorevole si bloccò sulla soglia. Si abbottonò il cappotto, alzò il bavero del colletto, infilò un’altra sigaretta nel bocchino di madreperla e sentenziò: “Gentuzza… Gentuzza e nulla più”.

Svolgimento. Che Dio ce ne guardi. Nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia, anche se dentro la compagnia di giro ci ritrovi qualche pataccaro, come Massimo Ciancimino, già processato e condannato per avere invischiato in storiacce di mafia dei galantuomini che non c’entravano nulla; o come quel Pino Maniaci, che per anni si è spacciato come giornalista coraggioso ed è finito sotto inchiesta per estorsione: secondo la procura di Palermo sparava fuoco e fiamme ma, sottobanco, prometteva benevolenza soprattutto a chi aveva la compiacenza di allungargli la mille lire. No, nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia. Perché dentro quel mondo non ci sono solo degli inquisiti sui quali prima o poi dovrà essere detta una parola di verità. Ci sono anche e soprattutto figli che hanno assistito al martirio del padre, come Claudio Fava o Lucia Borsellino o Franco La Torre; o sorelle, come Maria Falcone, che portano ancora negli occhi il terrore di avere visto, su un tratto di autostrada sventrato dal tritolo, il sangue versato dal proprio fratello. No, questi nomi non possono essere trascinati in polemiche da quattro soldi. Nemmeno quando uno di loro – ed è il caso di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice assassinato in via D’Amelio – se ne va in giro per Palermo ad abbracciare Massimuccio Ciancimino, il figlio di don Vito, prima celebrato come “icona dell’antimafia” e poi gettato negli abissi chiari dell’inattendibilità dagli stessi pupari che lo avevano offerto a giornali e talk-show come il testimone del secolo, l’unico in grado di rivelare gli intrighi delle cosche e di scardinare finalmente l’impero di Cosa nostra, con le sue ricchezze e i suoi misteri, con i suoi boss e i suoi picciotti, con le sue coperture e le sue complicità. Non chiameremo “gentuzza” neppure quelli che hanno utilizzato l’antimafia per amministrare al meglio i propri affari, per intramare nuove e più sofisticate imposture, per costruire nuove e più spregiudicate carriere; o per meglio aggrapparsi alla grande mammella dei beni sequestrati ai mafiosi – terreni, case e aziende – diventati all’improvviso una immensa terra di nessuno sulla quale hanno mangiato a quattro mani, fino a ingozzarsi, magistrati e cancellieri, avvocaticchi e commercialisti. E non chiameremo “gentuzza” nemmeno i tanti narcisi che pure popolano questo mondo. Non c’è magistrato che non abbia i suoi quattro angeli custodi, non c’è papavero dell’antimafia che non abbia diritto a una sorveglianza, non c’è pentito, vero o fasullo, che non pretenda una tutela particolare. Ah, le scorte. A volte hai il sospetto che siano diventate gli svolazzi del nuovo potere: Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia che ha trasformato l’antimafia in una macchietta della politica, può contare su cinque blindate, pagate dalla regione a peso d’oro. Uno spreco? Guai a pensarlo, ma immaginate l’effetto che fa il suo scorrazzare in lungo e in largo per l’Isola con tutto questo fragore o il suo arrivo, a ogni fine settimana, a Gela o a Tusa Marina, dove altri militari sono impegnati a presidiare le sue case. Oppure pensate a quale timore o a quale riverenza vi spingerà, se mai capiterete all’aeroporto di Palermo, la visione di Roberto Scarpinato, procuratore generale del Palazzo di giustizia e Gran Sacerdote dell’Antimafia, scortato all’imbarco per Roma non da uno ma da cinque agenti in borghese. Tre dei quali non lo mollano nemmeno quando tutti i passeggeri sono già dentro l’aereo. Ragioni di sicurezza, si dirà. E sarà anche vero, ma una domanda andrebbe comunque posta: e se la mafia fosse ancora governata da quegli stragisti che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano quanti uomini sarebbero necessari per scortare il dottore Scarpinato? Forse sette, forse sette volte sette. La verità, tanto per andare subito al sodo, è che il Piazzale degli eroi – nel quale sono stati collocati tutti i campioni della lotta a Cosa nostra – rifiuta tenacemente di accettare quello che gli storici più coscienziosi, come Salvatore Lupo, hanno accertato con la forza dei loro studi e della loro onestà. E cioè che, dopo una guerra durata oltre trent’anni, il risultato è che la mafia ha perso e lo stato ha vinto. Una verità semplice ma capace di mandare a gambe per aria non solo il concetto mistico di antimafia ma anche tutte le impalcature – e i privilegi e i narcisismi – che attorno a un tale concetto sono state costruite. Questo spiega perché la tesi del professore Lupo sia stata tanto sbeffeggiata durante una infausta audizione alla commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi. E spiega anche perché una fetta ancora consistente della magistratura palermitana insiste nel portare avanti un processo senza capo né coda qual è quello sulla fantomatica trattativa tra la mafia e alcuni vertici degli apparati statali. Quel processo serve per tenere in piedi il postulato che la storia della Repubblica abbia un doppio fondo, e che dietro ogni verità, anche dietro quella processualmente accertata, ci sia sempre una verità nascosta. Un azzardo, non c’è dubbio. Ma che consente a quei magistrati particolarmente votati alla militanza politica, di chiamare in causa qualunque esponente del potere costituito. Ricordate cosa combinò Antonio Ingroia, procuratore aggiunto oltre che maestro compositore e arrangiatore della Trattativa, pochi mesi prima di presentarsi con una sua lista, Rivoluzione civile, alle elezioni politiche di tre anni fa? Intercettò il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e ci impiantò sopra un casino mediatico di proporzioni tali da fare tremare le colonne del Quirinale. Nel braccio di ferro, Ingroia ha perso e Napolitano ha vinto. Ma il partito dei magistrati che vogliono tenere sotto tiro il potere politico resta ancora forte e agguerrito. Con una aggravante: che questo partito ha saputo anche costruirsi un’antimafia di supporto. L’antimafia di Massimo Ciancimino e di Salvatore Borsellino, tanto per fare un doloroso esempio: dove il fratello del giudice assassinato diventa fraternissimo amico del figlio di don Vito per il semplice fatto che il pataccaro è stato contrabbandato dalla magistratura politicizzata come l’unico grimaldello capace di violare il sancta sanctorum dei segreti mafiosi. Ai tempi di Giovanni Falcone, questa alleanza malsana non si sarebbe stretta. E non si è stretta. Ricordate il caso del falso pentito Giuseppe Pellegriti? Eravamo alla fine degli anni Ottanta e l’antimafia di quel tempo – i leader erano Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – si era aggrappata all’indiscrezione secondo la quale il pentito Pellegriti, un delinquentucolo di periferia, avrebbe accusato Salvo Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, di essere il mandante dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Falcone andò al carcere di Alessandria. E, dopo avere verificato che Pellegriti sosteneva soltanto cose non vere, lo incriminò per calunnia. Non la passò liscia. L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato la formula del “sospetto come anticamera della verità” – se la legò al dito e scatenò contro Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di tenere le prove nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un indimenticabile Maurizio Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto feroce. L’antimafia di oggi, quella finita nella polvere con tutti i suoi imbroglioni e i suoi pataccari, si è prestata invece a tutte le manovre giudiziarie, anche le più avventate e le più spregiudicate. E forse anche per questo, alla fine, è rotolata nel burrone profondo dell’irrilevanza. Chi è quell’uomo? – chiede a un certo punto il Signore. “E’ uno che imbratta di tenebra il pensiero di Dio. Parla senza sapere quello che dice”, risponde Giobbe.

La Carlucci e il PdL contro i libri di scuola: “Propagandano il comunismo, vanno cambiati”, scrive "Giornalettismo" il 12/04/2011.  Secondo 19 deputati del Popolo delle Libertà, scrive l’agenzia Dire, c’è bisogno di una commissione d’inchiesta per valutarne l’imparzialità. Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero “tentativi subdoli di indottrinamento” per “plagiare” le giovani generazioni “a fini elettorali” dando “una visione ufficiale della storia e dell’attualità asservita a una parte politica”, il centrosinistra, “contro la parte politica che ne è antagonista”, ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita “vergognosa”, secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento “non può far finta di non vedere” e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta “sull’imparzialità dei libri di testo scolastici”. Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio scorso e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell’avvio dell’esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: “Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?” E la “battaglia partigiana”, secondo il firmatari, viene messa in atto “osannando l’attuale schieramento di sinistra” e “gettando fango sui loro avversari”. Per “capire la gravità del problema”, sostengono i 19 deputati, “basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli”. Scopo della Commissione d’inchiesta? “Verificare quali sono i libri faziosi- spiega Barbieri interpellato dalla ‘Dire’- e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero…”. Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette ‘all’indice’ i libri di testo definiti “partigiani”, sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi ‘incriminati’, specificando che “in Italia, negli ultimi cinquant’anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico” retaggio “dell’idea gramsciana della conquista delle casematte del potere” che “si è propagato attraverso l’insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole”. Si cita ‘La storia’ di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive “tre personaggi storici: Palmiro Togliatti ‘un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali’; Enrico Berlinguer, ‘un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi ‘uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica’”. Ma anche Elementi di storia’ di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, ‘reo’, ad avviso del Pdl, di sostenere che “l’ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo”. E ancora, la ‘Storia’, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 “l’attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell’azione politica delle forze di sinistra e democratiche”. E si arriva ai tempi più recenti. “Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell’ideologia comunista in Italia- si precisa nella premessa alla proposta- i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali” e anzi “si rafforzano e si scagliano” contro “la parte politica che oggi è antagonista della sinistra”, quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d’inchiesta per verificare “l’imparzialità dei libri di testo scolastici”, la messa all’indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l’era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, “osanna” agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne ‘La storia’ di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: “Il Pds- è scritto- intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane” con “un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese”. Si tira poi in ballo la descrizione che L’età contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: “Dopo aver abbandonato l’esercizio della magistratura per passare all’attività politica nel partito democristiano” si è segnalato “per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari”. Ma il testo che più si distingue “per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche” è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l’attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la “combattiva europarlamentare” che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad “allontanare dalle cariche di partito” tutti “i propri esponenti inquisiti”. E come viene descritto l’antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, “con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro”. Secondo gli autori, “l’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese”. L’elenco dei libri “naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione”.

LA GRANDE FUGA DALL'UNIVERSITÀ.

In dieci anni perse 65mila matricole, con un calo del 20% dei diplomati che scelgono di continuare gli studi. Colpa della crisi, ma anche dalle scarse prospettive di lavoro che dà la laurea. La contrazione del sistema universitario italiano oltre ad ampliare il divario fra Nord e Sud mina però gravemente il potenziale di crescita del Paese. C'è chi dà la colpa all'aumento delle tasse, all'introduzione del numero chiuso e al taglio dei fondi statali per borse e alloggi, mentre per gli studenti il colpo di grazia è arrivato con la riforma dell'Isee, scrive "La Repubblica" il 14 gennaio 2016.

Crollo al Sud, l'ascensore sociale si è fermato, scrive Salvo Introvaia. L'università è il motore della crescita economica, sociale e politica per qualsiasi paese. Ma in Italia si è ridotta a poco più di un motorino. L'ultimo rapporto a evidenziare la contrazione complessiva del sistema universitario italiano è quello pubblicato dalla Fondazione Res, l'Istituto di ricerca su economia e società in Sicilia, presieduto da Carlo Trigilia, che nel report annuale si è occupato de "L'Università italiana al Nord e al Sud". L'istituto mette in risalto i "cambiamenti profondi nella secolare storia del sistema universitario italiano" e i non pochi "elementi di criticità che ne derivano". "Per la prima volta nella sua storia", spiegano da Palermo, il sistema universitario nazionale "è diventato significativamente più piccolo". Gli studenti immatricolati sono crollati del 20 per cento circa (65mila in meno in un decennio) mentre "i docenti passano da poco meno di 63mila a meno di 52mila unità, il personale tecnico amministrativo da 72mila a 59mila, i corsi di studio scendono da 5.634 a 4.628". E "il Fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO) diminuisce, in termini reali, del 22,5%". Una raffica di dati che assomiglia a un bollettino di guerra e rappresenta, secondo gli esperti, un ostacolo oggettivo per una nazione che vuole continuare a frequentare il club dei paesi più industrializzati della Terra. "L'Italia - si legge nello studio - ha compiuto, nel giro di pochi anni, un disinvestimento molto forte nella sua università". Una scelta politica, nonostante la crisi, opposta a quella dei maggiori paesi avanzati e in via di sviluppo. In altre parole, sottolineano gli esperti dell'istituto siciliano, "non è certo solo effetto della crisi: in Italia, la riduzione della spesa e del personale universitario è stata molto maggiore che negli altri comparti dell'intervento pubblico".

DALLA SCUOLA ALL'UNIVERSITA' IN ITALIA

ANNO

TASSO DI PASSAGGIO

2004/2005

73,10%

2014/2015

49,10%


IMMATRICOLATI TOTALI

 

2014/2015

2004/2005

Immatricolati

270.145

335.541

Fonte: Ocse

Secondo Gianfranco Viesti, che ha curato il rapporto, "senza molti buoni laureati la competitività del paese è a rischio". Inoltre, "l'università delle regioni più deboli va rafforzata al massimo, e non progressivamente indebolita, come purtroppo si sta facendo negli ultimi anni". Perché, continua Viesti, "forma le classi dirigenti, nel senso più ampio del termine; svolge attività di ricerca, anche in collaborazione con il tessuto economico locale; trasferisce tecnologie e saperi. Inoltre, specie nelle aree più difficili, è anche un presidio di civiltà". Il Mezzogiorno e i figli di operai e impiegati hanno pagato il conto più salato: 35mila dei 65mila immatricolati in meno sono spariti dagli atenei meridionali. Ma per Fabrizio Micari, neorettore dell'Università di Palermo "non ha molto significato paragonare l'Italia del 2004 con quella del 2014 perché parliamo di due mondi completamente diversi". "Gli analisti concordano nel dire - continua Micari - che gli effetti della crisi sono stati simili a quelli di una guerra". Ma per venirne fuori l'Europa ci chiede da tempo più laureati. La Strategia di Lisbona - lanciata nel 2000 con il fine di trasformare entro un decennio quella del Vecchio continente "nell'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo" - prevedeva già l'aumento del numero dei laureati. Perché i paesi asiatici e quelli in via di sviluppo del gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) avevano già eroso quote enormi di mercato ai paesi europei. Un obiettivo rilanciato con la strategia Ue 2020: entro il 2020, i laureati di età compresa fra 30 e 34 anni dovrebbero toccare quota 40%. Ma l'Italia arranca. Nel 2013, figuravamo all'ultimo posto tra le nazioni dell'Unione europea a 28 paesi, con il 22,4%. La Germania poteva contare su una quota del 33% e la Francia sul doppio di giovani laureati italiani: il 44%. Il crollo degli immatricolati rappresenta quindi una specie di spettro per il nostro paese. Dal sociologo all'esperto di mercato del lavoro, l'allarme è unanime. Per Domenico De Masi, sociologo e docente all'università La Sapienza di Roma, "la laurea non serve soltanto per avere più opportunità di lavoro, ma per vivere". "Questa è una società - continua De Masi - in cui occorrerà avere tutti la laurea perché serve pure per capire il telegiornale. La nostra è una società che per essere vissuta appieno necessita di cultura e quindi della laurea". E sul calo verticale degli immatricolati non ha dubbi. "È stato introdotto il numero chiuso e il numero di studenti immatricolati è diminuito, si tratta di una decisione scellerata, una follia assoluta". Per Francesco Ferrante, docente di Economia politica e di Mercato del lavoro alla Luiss e all'Università di Cassino, "la recessione ha sicuramente ridotto per diverse famiglie la possibilità di iscrivere i figli all'università. E la contrazione ha riguardato soprattutto giovani con reddito familiare basso e basso livello di istruzione dei genitori. L'ascensore sociale, in altre parole, si è fermato". Sul tema del valore della laurea è intervenuto di recente il ministro del Lavoro Giuliano Poletti con una dichiarazione che ha sollevato un vespaio di polemiche. "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni". Parole che hanno gettato benzina sul fuoco proprio mentre tra le famiglie meno abbienti si sta diffondendo l'idea che "che laurearsi - spiega Ferrante - non conviene più". "Un'idea - sobbalza dalle sedia - assolutamente falsa". Eppure i dati diffusi pochi giorni fa da Eurostat sembrano in qualche modo dare ragione alla diffusa percezione di inutilità: solo poco più di metà dei laureati italiani (52,9%) risulta occupato entro tre anni dalla laurea, il dato peggiore nell'Unione europea dopo la Grecia e lontanissimo dalla media Ue a 28 che nel 2014 era dell'80,5%. Ma le statistiche vanno lette fino in fondo e se alla luce di questi numeri gli sforzi per laurarsi possono apparire deludenti, per i diplomati la situazione è ben peggiore con solo il 30,5% che risulta occupato a 3 anni dal titolo (40,2% nei diplomi professionali).

IMMATRICOLAZIONI NEGLI ATENEI ITALIANI

AREA SCIENTIFICA

2004/2005

2014/2015

 

Ingegneria

35.760

38.036

6,40%

Biotecnologie

4.178

3.703

-11,40%

Scienze biologiche

9.258

7.801

-15,70%

Scienze e tecnologie chimiche

2.223

3.250

46,20%

Scienze e tecnologie fisiche

2.130

2.908

36,50%

Scienze matematiche

1.739

2.210

27,10%

Statistica

1.187

1.119

-5,70%

Scienze e tecnologie agrarie e forestali

5.741

6.832

19,00%

Scienze delle attività motorie e sportive

4.299

5.992

39,40%

Scienze e tecnologie informatiche

7.024

5.516

-21,50%

 

AREA UMANISTICA

2004/2005

2014/2015

 

Filosofia

3.525

2.748

-22,00%

Lingue e culture moderne

11.290

12.654

12,10%

Lettere

7.446

6.810

-8,50%

Storia

2.223

1.400

-37,00%

Scienze del turismo

3.679

2.369

-35,60%

Geografia

672

145

-78,40%

Beni culturali

8.088

4.275

-47,10%

Scienze dell'educazione e della formazione

17.729

10.091

-43,10%

 

AREA SOCIALE

2004/2005

2014/2015

 

Magistrali in giurisprudenza

35.415

19.257

-45,60%

Sociologia

4.495

2.454

-45,40%

Scienze economiche

10.668

9.612

-9,90%

Scienze politiche

9.166

8.387

-8,50%

Scienze della comunicazione

13.056

7.151

-45,20%

Scienze e tecniche psicologiche

10.910

7.354

-32,60%

Scienze dell'economia e della gestione aziendale

32.007

27.157

-15,20%

Fonte: Ocse

Il crollo dei nuovi ingressi all'università riguarda infatti soltanto gli studenti delle superiori in possesso di un diploma tecnico o professionale, mentre i liceali sono addirittura aumentati. E ha colpito soprattutto le lauree sociali e umanistiche: Scienze della comunicazione, Giurisprudenza e Sociologia perdono il 45 per cento. Quelle scientifiche, fatto cento il numero totale degli immatricolati, sono passate dal 28 al 34 per cento, con Matematica, Fisica, Chimica e Ingegneria in aumento. "Io sono figlio di operai e mi sono laureato negli anni '70. Oggi non mi potrei più laureare. L'articolo 34 della Costituzione in Italia è ancora in cerca d'autore perché manca una politica strutturale sul diritto allo studio", chiosa Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea. "L'aumento degli immatricolati nel settore scientifico - continua - è l'unica notizia positiva: un paese di comunicatori, umanisti e sociologi, e lo dico da latinista, non ha futuro. Il resto rappresenta una tragedia per il Paese". "E' uno scandalo - rilancia Gaetano Manfredi, presidente della Crui, la Conferenza dei rettori - che non vengano pagate tutte le borse di studio di cui gli studenti hanno diritto: non ha senso che se ti trovi in Lombardia la ottieni e se sei in Sicilia no. Su questo occorrerebbe una garanzia nazionale". "E serve - conclude il rappresentante dei rettori - un sostegno per tutti quei ragazzi che escono dagli istituti tecnici e professionali e non proseguono gli studi perché appartenenti a famiglie meno agiate o in difficoltà. Occorre un grande Piano per il Sud". Per Ivanhoe Lo Bello, vicepresidente Confindustria e delegato alle politiche sull'Istruzione, "la capacità competitiva di un paese si misura sulla capacità delle nostre università. Se continuiamo a perdere capitale umano rischiamo la desertificazione assoluta". E traccia anche una strada da percorrere. "Perdere 65mila immatricolati in dieci anni è un segnale preoccupante, soprattutto al Sud. Abbiamo ragazzi scoraggiati e che non hanno le risorse per sostenersi negli studi. Occorre un investimento serio su campus e luoghi dove i ragazzi possano risiedere e garantire in questo modo la mobilità a basso costo degli studenti. E anche più flessibilità didattica, con percorsi interdisciplinari, più autonomia e una valutazione rigorosa da parte di un agenzia terza. Occorre avviare una riflessione strategica e una discussione su tutto questo". Malgrado il quadro fosco e i tanti motivi di preoccupazione, c'è però chi riesce a intravedere la luce in fondo tunnel. "Qualche segnale si scorge", dice Micari. "Il Pil - osserva - comincia a crescere e l'occupazione pure. Anche noi a Palermo abbiamo qualche indicatore positivo: le nostre immatricolazioni sono cresciute di qualche centinaio di unità. Bisogna guardare avanti con fiducia".

Più tasse e meno spesa, numeri impietosi, scrive Salvo Introvaia. Sull'istruzione universitaria i numeri "condannano" l'Italia. Perfino la Slovenia, tra i paesi europei, investe più del Belpaese sugli studenti. Mentre Brasile e Sudafrica, con un Pil pro-capite pari ad un terzo di quello italico, fanno meglio di noi. Stando ai dati dell'Ocse - l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - il Belpaese è uno di quelli della vecchia Europa che spende meno sul sistema di istruzione: appena il 7,4 per cento della spesa pubblica complessiva, contro il 9,8 della Germania e l'8,8 della Francia. Diversa sensibilità sull'argomento dimostrano i governi dei paesi scandinavi, dove si passa dall'11,2 per cento di spesa pubblica dedicata all'istruzione della Finlandia al 14,4 della Norvegia: il doppio dell'Italia. Anche la spesa per studente conferma questo trend: l'Italia, per i soli servizi di base, investe poco più di 6mila dollari Usa a studente. Il dato riportato dall'Osce risale al 2012, ma nello stesso anno in Francia si spendevano 9mila e 500 dollari, esattamente quanto la media dei paesi Ocse, e 9mila e 200 in Germania. Uno sforzo che si traduce in un sostegno concreto per famiglie e ragazzi che vogliono avventurarsi negli studi universitari.

LA SPESA PUBBLICA PER L'UNIVERSITA'

 

% SPESA PUBBLICA RISPETTO AL TOTALE 
(2012)

SPESA PUBBLICA RISPETTO AL PIL 
(2012)

PERCENTUALE DI GIOVANI LAUREATI 30/34ENNI 
(2014)

Finlandia

11.2

6.1

45.3

Italia

7,4

3.6

23.9

Norvegia

14.4

7.7

51,4

Media Ocse

11.6

4.8

42,1

Svezia

11.7

5.9

50

Germania

9,8

4.3

31.4

Spagna

8.0

3.7

42.3

Francia

8,8

4.8

44.2

Grecia

ND

ND

37.2

Portogallo

9.8

4.5

31.3

Fonte: Ocse

Il calo di iscritti e immatricolati registrato infatti in Italia non ha riscontri nella maggior parte dei paesi del Vecchio continente. Mentre da noi le aule universitarie si svuotavano, nel resto del mondo si popolavano di nuovi studenti. In appena quattro anni - dal 2008 al 2012 -  nei paesi dell'Ocse in media l'aumento degli studenti universitari è stato del 9 per cento. In Spagna del 12 per cento e in Francia del 6 per cento. Una famiglia finlandese farebbe fatica a concepire una tassa per frequentare l'università perché in quasi tutti i paesi della penisola scandinava questo genere di balzelli non esistono neppure. E una grossa fetta di studenti percepisce anche contributi pubblici o la più classica borsa di studio. È sempre il caso della Finlandia dove, oltre a non conoscere tasse di iscrizione, il 52 per cento degli studenti viene sovvenzionato dallo Stato per studiare. In Italia - il terzo paese europeo per pressione fiscale universitaria dopo Regno Unito e Olanda - le tasse universitarie sono invece sempre più salate: 1.602 dollari Usa nel 2013/2014 contro i 215 a carico dei giovani francesi. In un decennio, dal 2004 al 2014, la pressione fiscale a carico di famiglie e studenti è lievitata del 45 per cento. L'Italia è, tra i paesi europei più industrializzati, anche quello dove il sostegno pubblico agli studenti bisognosi è minimo: appena il 20 per cento. In Germania, Spagna, Grecia e Portogallo tutti gli studenti ricevono almeno un contributo. In Finlandia "soltanto" l'80 per cento e in Francia uno studente su tre. Un divario che salta all'occhio appena si fruga tra i numeri sui servizi offerti agli studenti. Nella Penisola non si va oltre ai 4mila dollari Usa, che Oltralpe diventano 5.779 e sfiorano addirittura gli 8mila dollari nel paese della Merkel. E, come se non bastasse, arriva la ciliegina sulla torta - o forse sarebbe meglio dire il colpo di grazia - della riforma dell'Isee, l'Indicatore della situazione economica familiare in base al quale si calcolano le tasse universitari e gli esoneri. Un'innovazione che da subito gli studenti hanno percepito come sfavorevole. I primi dati forniti dall'Unione degli universitari - ancora parziali, ma riferiti al 67 per cento delle borse di studio dello scorso anno - lo confermano: a perdere il beneficio nel 2015/2016 è stato almeno uno studente su cinque. Forse il calo verticale dal 73 al 49 per cento in un decennio del tasso di passaggio dalla scuola all'università non è dovuto al caso.

Il colpo di grazia dalla riforma dell'Isee, scrive Salvo Introvaia. Secondo gli studenti, l'Italia è uno dei peggiori paesi europei per studiare all'università. E i dati sembrano dare loro ragione. Borse di studio col contagocce, tasse altissime e pochissimi servizi descrivono un mondo dove per sopravvivere occorre mettere in pratica l'ormai proverbiale arte di arrangiarsi italiana. Altrimenti, le alternative sono due: farsi sostenere dalla famiglia oppure gettare la spugna. E, a dare il colpo di grazia allo striminzito diritto allo studio nostrano, il nuovo calcolo dell'Isee: l'indice della situazione economica equivalente familiare, utilizzato per assegnare le borse di studio e per il calcolo delle tasse universitarie da pagare.

IL SOSTEGNO ALLO STUDIO (2012)

 

SPESA ANNUA PER STUDENTE DA PARTE DELLE ISTITUZIONI EDUCATIVE PER TUTTI I SERVIZI*

SPESA ANNUA PER STUDENTE DA PARTE DI ISTITUZIONI EDUCATIVE PER I SERVIZI DI BASE

SPESE PER STUDENTI PER I SOLI SERVIZI

Finlandia

17.863

10.728

7.135

Italia

10.071

6.022

4.049

Norvegia

20.016

11.824

8.192

Media Ocse

15.028

9.514

5.514

Svezia

22.534

10.589

11.945

Germania

17.157

9.179

7.978

Spagna

15.281

8.435

6.846

Francia

15.281

9.502

5.779

Grecia

ND

ND

ND

Portogallo

9.196

4.561

4.635

Regno Unito

24.338

16.692

7.646

Fonte: Ocse

Lorenzo Guastalli, studente di ingegneria a Pisa, per cinque anni ha percepito la borsa di studio che gli dava diritto a due pasti che consumava alla mensa universitaria e a un alloggio gratuito. Inoltre percepiva un contributo monetario di 1.200 euro all'anno per i mezzi pubblici e i libri. Ma da quest'anno, per il cambio delle regole sull'Isee, ha perso tutti i benefici. "Ho dovuto affittare una camera e ricominciare a fare la spesa per mangiare - racconta Lorenzo - In tutto, ogni mese spendo da 500 a 600 euro che sono costretto a chiedere alla mia famiglia. Mia madre è disoccupata e mio padre fino a poche settimane fa era cassintegrato e da poco riassunto. Per fortuna, avevano dei risparmi da parte e mi danno un aiuto per laurearmi. Abbiamo la stessa macchina da vent'anni e non abbiamo mai fatto una vacanza per mettere da parte qualche soldo in famiglia. Io ormai sono all'ultimo anno della laurea magistrale e stringo i denti. Ma un ragazzo ai primi anni rischia di lasciare perdere tutto. Purtroppo in Italia come diritto allo studio siamo al medioevo". Ora Lorenzo spera nella borsa di studio straordinaria prevista dalla regione Toscana per tutti gli studenti estromessi dai benefici a causa del nuovo Isee. Ma se tutto andrà bene, la borsa arriverà a febbraio e non darà diritto all'alloggio perché a Pisa per 3mila aventi diritto i posti nelle residenze universitarie sono appena la metà. Qualche mese fa, il Cnsu - il Consiglio nazionale degli studenti universitari, l'organo ufficiale di rappresentanza studentesca di stanza al Miur - ha pubblicato il Rapporto annuale sulla condizione studentesca in cui gli studenti bacchettano la politica. "Crediamo - si legge nel report - che lo scarso finanziamento (del sistema universitario, ndr) sia dimostrazione di una visione politica che vuole un restringimento del mondo accademico, in cui si ragiona come 'costo sul presente' e non come 'investimento sul futuro'. Al contrario, riteniamo che sia necessario puntare sull'università elevandola a priorità per il nostro paese, affinché riceva una valorizzazione coerente con il ruolo fondamentale che la conoscenza ricopre in un sistema economico competitivo e globale come quello attuale". Una critica suffragata dai dati: nell'arco degli ultimi sei anni - dal 2006/2007 al 2012/2013 - nel nostro paese i "borsisti", coloro che hanno fruito di una borsa di studio, sono calati dell'8 per cento. Mentre in Germania si è registrato un incremento del 33 per cento e in Francia del 34 per cento. Anche la malandata Spagna ha dato fondo a tutte le proprie risorse incrementando le borse di studio addirittura del 59 per cento. In Italia, il diritto allo studio langue anche se qualche segnale arriva dall'ultima legge di stabilità approvata. "In un solo anno - spiega Jacopo Dionisio, coordinatore nazionale dell'Unione degli universitari - l'Italia ha perso 25 mila studenti universitari. I fattori che incidono su questa perdita sono molteplici. Innanzitutto il problema del sotto finanziamento strutturale del sistema universitario, che riguarda in primis il diritto allo studio, un diritto costituzionalmente garantito, ma che oggi sembra un privilegio per pochi". Per Alberto Campailla, portavoce di Link-Coordinamento universitario, "esiste un enorme problema rispetto all'accesso ai corsi universitari. Come denunciano numerose indagini, il crollo delle immatricolazioni ha colpito di più le fasce più povere della popolazione dimostrando l'inadeguatezza dei servizi del diritto allo studio ed evidenziando come l'elevata tassazione costituisca una vera barriera per l'accesso agli studi, con particolare gravità nelle regioni del Sud". Qualcosa però si muove. Con l'ultima legge di Stabilità il governo ha stanziato 55 milioni in più per le borse mentre il fondo per il diritto allo studio sarà incrementato di 5milioni. E il Fondo di finanziamento ordinario degli atenei crescerà di altri 55 milioni ma solo per finanziare gli atenei virtuosi. "A fronte della gravità della situazione - conclude Campailla - le misure adottate dal governo sono totalmente insufficienti, sia sul fronte del diritto allo studio che su quello del finanziamento generale all'università".

Segnali di ripresa dalle matricole 2015-2016, scrive Corrado Zunino. Quello in corso - il 2015-2016 - potrebbe essere l’anno (accademico) della svolta per l’università italiana. Dopo dieci anni di immatricolazioni in discesa, ovvero di due studenti in meno ogni dieci che sono passati dalla maturità all’alta educazione, i segnali indicano un cambio di direzione: il ritorno alla crescita. I dati sono parziali ma significativi, da leggere con prudenza ma anche con un principio di ottimismo. Repubblica – per confrontare i numeri ufficiali del ministero dell’Istruzione ancora in ritardo – ha chiesto a 77 singoli atenei i dati aggiornati sulle immatricolazioni in corso. Cinquantotto hanno risposto garantendo la comparazione con gli iscritti al primo anno della stagione precedente. Il risultato è che trentotto (38) atenei risultano in crescita per quanto riguarda le matricole e venti (20) sono ancora in calo. Quello degli immatricolati è il dato più sensibile per capire lo stato di salute della singola università e del sistema italiano e, a questo punto della stagione, è un dato sufficientemente assestato (lo stesso non si può dire per gli iscritti totali). Senza offrire numeri in assoluto, è interessante tuttavia notare che diverse inversioni di tendenza si registrano in università grandi, a partire dalla più grande di tutte. La Sapienza di Roma torna a crescere dopo un lungo periodo di depressione: al 29 dicembre scorso ha registrato 18.034 nuovi studenti al primo anno, 223 in più (l'1,2 per cento). Va anche detto che il ritorno in positivo del gigante Sapienza sembra avvenire a scapito degli altri due atenei romani di riferimento: Tor Vergata con 5.130 matricole registrate a inizio gennaio perde 314 studenti (-6,1 per cento) e Roma Tre con 5.289 nuovi studenti al primo anno ne perde 304 (-5,7%). Cresce, ancora, un ateneo privato come la Luiss. Il polo di Milano – su performance migliori anche nella scorsa stagione – nel 2015-2016 è tutto in positivo. La Statale sale a 13.202 immatricolati (+0,8 per cento), la Bicocca a 9.814 (+0,9 per cento), la Cattolica a 8.308 (+3 per cento). E così il Politecnico e le private Bocconi e San Raffaele. Lo Iulm di Milano prende duecento matricole in più che rappresentano, viste le dimensioni, quasi l'11 per cento. Cresce di poco Bologna, crescono meglio Genova, Bergamo, Pavia e Parma. Ha un boom Modena-Reggio Emilia: +12,3 per cento. E' in positivo una grande università come Padova: le immatricolazioni a inizio anno hanno raggiunto quota 11.365, +8,4 per cento. E così vanno meglio atenei medio-piccoli come Camerino e Macerata e atenei del Sud da tempo in grave difficoltà. A Catania, a ieri, i nuovi iscritti al primo anno erano 6.469, l'11,4 per cento in più. Buoni risultati arrivano dal Politecnico di Bari, dal Molise, dalla Federico II di Napoli, dalle università del Salento e di Salerno. E’ un quadro attendibile ma parziale: di fronte a cifre ancora mosse, le interpretazioni sono azzardate, ma - probabilmente - la lunga decade della crisi di attrazione dell’università italiana alla prossima primavera si potrà dire chiusa.

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

Le persone di sinistra sono più intelligenti? Si Chiede su “La mente è Meravigliosa”. “Tutti i giorni la gente si sistema i capelli, perché non il cuore?” Vi sembra una frase intelligente? Queste parole sono state formulate dalla mente di Ernesto Che Guevara, il famoso rivoluzionario. Ci sono molte altre citazioni epiche di questo mito che sono sopravvissute fino ai giorni d’oggi. Ciò ha forse a che vedere con la sua ideologia di sinistra? Uno studio della Brock University sostiene di sì. Lo studio della Brock University nell’Ontario, Canada. Secondo i risultati ottenuti dai ricercatori della Brock University, nell’Ontario, Canada, coloro che sono meno intelligenti già durante l’infanzia sviluppano un’ideologia di destra e tendenze razziste e omofobe, rispetto alle ideologie di sinistra, che sono più aperte e comprensive. Per giungere a questa conclusione, i ricercatori si sono basati su studi condotti negli anni 1958 e 1970 nel Regno Unito. Questi studi analizzarono il livello d’intelligenza di migliaia di bambini tra i 10 e gli 11 anni, che poi risposero a domande di politica una volta raggiunta l’età di Cristo, 33 anni. Tra le domande poste ai bambini ormai adulti, c’erano questioni riguardo i pregiudizi di vivere affianco a vicini di una razza diversa o sulle preoccupazioni che sorgono quando bisogna lavorare con qualcun altro. Altre domande alle quali dovettero rispondere i soggetti riguardavano l’ideologia politica conservatrice, come rendere più severe le pene dei criminali o mostrare ai bambini la necessità di ubbidire all’autorità. Le persone di sinistra sono davvero più intelligenti? Alcune delle conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della Brock University sostengono che i politici conservatori facilitano la nascita di pregiudizi. Basandosi sui risultati delle ricerche inglesi, i ricercatori sostengono che le persone meno intelligenti si localizzano nello spettro della destra politica, perché qui si sentono più sicuri. Secondo i creatori di questo studio, è l’intelligenza innata a determinare il livello di razzismo di una persona, molto più dell’educazione e dell’istruzione. Nemmeno lo status sociale ha un ruolo importante a proposito. Semplicemente affermano che l’ideologia conservatrice è la via giusta per trasformare bambini che hanno difficoltà a ragionare in persone razziste. Le capacità cognitive sono fondamentali per avere una mente aperta. Ciò significa che coloro che hanno capacità cognitive ridotte o molto ridotte tendono ad adottare ideologie conservatrici per la sensazione di ordine che implicano. Questa è un’altra delle conclusioni dello studio. Intelligenza innata. Secondo le ricerche condotte dalla Brock University, tutto ciò significa che l’intelligenza innata ha un ruolo determinante nell’ideologia ultima adottata da un individuo. Questo significa che essere di destra è sinonimo di stupidità? Assolutamente no. Oggigiorno, in tutto il mondo le ideologie politiche sono un po’ ingarbugliate. Niente è più ciò che sembra. Possiamo definire un regime comunista come quello imposto in Corea del Nord di sinistra? Qui, i cittadini si sono abituati a vivere sotto gli ordini di un dittatore che si definisce d’ideologia progressista, ma che manipola i destini di milioni di persone con un pugno di ferro. Esistono altri esempi di paesi in cui si è tentato di stabilire un regime di sinistra e comunista, ma senza successo. Russia o Cuba, per esempio, hanno sofferto terribili repressioni popolari durante la fase della dittatura del proletariato, che alla fine si è trasformata nel mandato di un singolo leader come Stalin o Castro, con accesso limitato alla libertà o al pensiero. Ciò significa che, tra i partiti della sinistra mondiale, c’è gente camuffata che in realtà è di destra? È possibile che nell’ideologia progressista si siano infilate persone poco intelligenti che in realtà sono conservatori? Non esiste una risposta chiara a questo tipo di domande, poiché le ideologie hanno sempre meno peso in un mondo mosso meramente da interessi economici e dei partiti. In realtà, ciò che importa è avere una mente aperta e curiosa. Imparate da tutti coloro che hanno qualcosa da apportarvi nella vita. Se non avete un’intelligenza innata che apra la vostra mente, almeno stimolate la vostra intelligenza emotiva. Siate sensibili a qualsiasi tipo di tendenze e modi di essere e adottate una vita piena e felice. Come diceva Ernesto Che Guevara, se siete in grado di avere capelli splendenti, siete anche capaci di avere un cuore nobile e buono.

Quell'ossessione dello Stato di regolare la nostra vita. In Italia, sul cibo, c'è la stessa ossessione regolamentatrice dell'Unione Sovietica, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". L'idea che si possano, anzi, si debbano, regolamentare i comportamenti sociali, non lasciando il minimo spazio allo spontaneismo individuale e collettivo è l'ossessione di ogni politica. Particolarmente affetto ne è quel filone della politica, eredità del razionalismo settecentesco, che si è storicamente incarnato nella sinistra dopo la Rivoluzione bolscevica e la nascita dell'Unione Sovietica. Ho ritrovato, e osservato, tale ossessione in due Paesi che hanno interpretato la politica da versanti opposti, pervenendo a risultati profondamente diversi. In Unione Sovietica non c'era ambito della società civile che la politica non volesse regolamentare e non regolamentasse. Il risultato era stata l'estrema esasperazione del sistema politico totalitario che aveva soffocato l'intera società civile russa, mentre, di converso, lo spontaneismo sociale promuoveva quella cinese, empirica e sperimentale. In Cina, la convinzione che solo lasciando alla società civile ampi ambiti di autonomia, soprattutto economica, il Paese sarebbe uscito dal dirigismo maoista e decollato verso la modernità e la crescita, ha dato i suoi frutti; oggi, la Repubblica popolare cinese è uno dei Paesi al mondo esemplari di più felice combinazione fra spontaneismo sociale e sviluppo economico, modernizzazione, crescita economica e sociale. Ricordo che, quand'ero in Cina, avevo osservato, e apprezzato lo spirito di iniziativa di certi cinesi, maschi e femmine, che avevano affrontato l'avventura liberista, godendo e approfittando della libertà che la politica lasciava loro di intraprendere e commerciare. Ho ritrovato la stessa ossessione regolamentatrice sovietica, da noi, in Italia, da parte soprattutto di quel filone politico, terreno di sperimentazione, da parte del Partito comunista, che aveva guardato all'Urss come ad un modello da imitare, e, entro certi limiti, da parte della cultura politica e sociale di matrice religiosa, non meno autoritaria di quella comunista. È stata la grande illusione razionalistica prodotta e diffusa dalla Rivoluzione francese con la pretesa di creare, e far crescere, la «società perfetta», dove nulla era lasciato al caso e tutto dipendeva dalla previsione e dalla programmazione politica. Non credo di sbagliarmi dicendo che l'Italia è il Paese al mondo col maggior numero di permessi, licenze, e divieti e anche quello dove queste forme di razionalismo condizionano la società civile e le impediscono di sviluppare autonomamente le proprie potenzialità. Il guaio è che l'ossessione regolamentatrice fa crescere la domanda di regolamentazione, e, quindi, di politica e di burocrazia ogni volta che si rivela inadeguata ad assolvere le funzioni che le sono impropriamente assegnate...Personalmente, sono cresciuto culturalmente all'ombra dell'empirismo anglosassone generatore dell'Illuminismo scozzese che si è distinto dal razionalismo francese proprio grazie al suo scetticismo rispetto alle virtù salvifiche della regolamentazione e della conseguente previsione-programmazione razionalistica. Sono liberale grazie anche a questa formazione culturale della quale sono debitore ad uno dei miei maestri all'Università di Torino di formazione anglosassone e col quale mi sono laureato, Alessandro Passerin d'Entreves, e ho imparato da Norberto Bobbio, l'altro mio grande maestro, a leggere i classici della cultura politica moderna, evitando, allo stesso tempo, di diventare prigioniero del positivismo politico, non meno di quello giuridico, cui era afflitto Bobbio, lui sì convinto erede del razionalismo francese. Grazie a Bobbio, ho letto David Hume e sono entrato in familiarità con l'empirismo anglosassone e l'Illuminismo scozzese. Detesto ogni pretesa previsionale e programmatrice proprio a ragione della loro scarsissima prevedibilità e capacità di programmazione razionale, e coltivo, con l'empirismo, un sano scetticismo sulle capacità razionali dell'uomo. Per intenderci: non vado in giro con la Dea Ragione sulle spalle come amano fare i razionalisti di tutte le tendenze e, in particolare, quelli di formazione transalpina. Ho imparato che il mondo è popolato da individui, ciascuno dei quali persegue i propri fini, con i propri mezzi, che coincidono solo inconsapevolmente con quelli degli altri - attraverso quell'empatia della quale parla Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali - in modo spontaneo ricercando il proprio Utile senza attenersi a calcoli previsionali e programmatici altrui... Se c'è qualcosa - diciamo pure molto! - che non va nella politica italiana è la convinzione si possano regolamentare i comportamenti sociali attraverso permessi, licenze, divieti che, poi, si rivelano l'ostacolo a quello spontaneismo che sta a fondamento della dottrina liberale e della nostra civilizzazione. Mi auguro, come ho scritto recentemente, che Berlusconi faccia iniezioni di empirismo e di liberalismo nella propria cultura politica e in quella di Forza Italia. Ce n'è effettivamente bisogno...

Mille euro al minuto a un comunista. L'ex ministro greco Varoufakis ospite da Fazio per 24mila euro. Il canone serve a questo? Si chiede Alessandro Sallusti su "Il Giornale" del 29/10/2015. Mille euro al minuto. È quanto la Rai ha pagato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco, per sparare pirlate a «Che tempo che fa», il salotto televisivo personale di Fabio Fazio. Ventidue minuti, andati in onda il 27 settembre, che urlano vendetta. Non è la cifra in sé, 24mila euro appunto, più viaggio aereo pagato in prima classe, ma lo sperpero di denaro pubblico. Con in più la beffa che a staccare l'assegno è stato il più moralista dei conduttori tv a favore del più comunista dei politici europei, quello che aveva fatto accorrere ad Atene a osannarlo una nutrita pattuglia della sinistra italiana a inneggiare agli eroi di Tsipras. Lungi da noi cadere nel facile moralismo. Se uno ha mercato è giusto che incassi il dovuto. Non ci formalizziamo. È che non capiamo che mercato possa avere mister Varoufakis, economista messo al bando sia dall'Europa sia dal suo Paese. Lo hanno cacciato e a quanto risulta, nel suo girovagare per tv e salotti di mezzo mondo, noi italiani siamo stati gli unici a pagare per godere del suo verbo. Il che stride con il pianto, anche quello greco, di chi ci governa e lamenta mancanza di liquidità. Si tolgono soldi ai pensionati e poi, via Rai, si sprecano euro con i comunisti chic. Si sfora il debito e il premier si compra un nuovo lussuoso aereo. Si spendono 3 miliardi per l'emergenza immigrati e non c'è un soldo in più per i terremotati dell'Emilia e gli alluvionati della Campania. Se è così che Renzi e i neo-nominati vertici della Rai pensano di usare i soldi di quella nuova tassa occulta che è il canone in bolletta Enel, allora siamo alla truffa. Sanno gli italiani che la Rai spende due dei loro milioni ogni anno per pagare Fabio Fazio? E sanno che Luciana Littizzetto, spalla del conduttore buonista, è ricompensata con ventimila euro a puntata? Credo che a molti verrebbe voglia di farsi staccare la luce da Renzi, piuttosto che vedere buttati così i propri risparmi. Che tanto, per sapere «Che tempo che fa» basta leggere le previsioni o guardare fuori dalla finestra.

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia: Caro Dago, le consuete diatribe su quanto o quantissimo vengono pagate le star televisive sono davvero male impostate. Ci sono personaggi della televisione che marchiano a fuoco il programma da loro condotto. Lo faceva Michele Santoro, bravissimo nel suo genere (che non è il mio); lo fa Barbara D’Urso, irresistibile nei confronti del suo pubblico meridiano (i cui gusti sono distantissimi dai miei); lo fa Massimo Giletti, da anni ostinatissimo nel sorreggere lo “share” della domenica pomeriggio di Rai1. Se qualcuno obiettasse sui compensi di personaggi siffatti, io direi che non sanno di che cosa stanno parlando. Se una trasmissione di quelle che ho nominato fa o faceva due punti percentuali di ascolto in più, erano soldoni che venivano dalla pubblicità e che compensavano alla grande i cachet. La televisione funziona così, e quella pubblica e quella privata. Se paghi lautamente un ospite che ti fa scena e “ascolto” sono soldi spesi benissimo, e sta a zero l’invidia (inevitabile) di gente e scribacchini. Il caso Varoufakis è profondamente diverso. E’ figlio di una di una dinamica completamente diversa. Tanto è vero che solo alla Rai e in una televisione giapponese, il noto motociclista è stato trattato talmente con i guanti: e tanto più se stiamo parlando della Rai, di un’azienda in un cui un comune mortale tratta alla morte se avere trenta euro in più o in meno per una prestazione professionale. I 24mila euro netti (e dunque 50mila lordi) pagati all’ex ministro greco hanno tutt’altra logica. Nascono dalla necessità spasmodica di buona parte del palinsesto di Rai3 di “offrire” qualcosa di sinistra al suo pubblico che ne arde. Che di meglio di uno che da ministro greco faceva l’orgogliosissimo nel momento in cui il suo governo e il suo Paese chiedevano all’Europa i soldi di che sopravvivere sino al giorno dopo in ragione dell’Himalaya di debiti che avevano accumulato. Voi ricordate i commenti di tanti al risultato grottesco del referendum greco, all’annuncio che i greci non ne volevano sapere di pagare i loro debiti. Dio che orgogliosi, commentarono subito alcuni quaquaraquà del pronto intervento ideologico. E chi meglio del motociclista, che è poi un gran rivale di Fabrizio Corona quanto a turgore maschile, poteva rappresentare quell’orgoglio in una delle case madri della superiorità razziale della sinistra, ossia la trasmissione garbatamente condotta su Rai3 da Fabio Fazio? L’ho visto quando Varoufakis si è presentato e seduto. Da soli quella posa e quell’atteggiamento valevano i 24mila euro. Dio che cipiglio, Dio che turgore. Fuffa ideologica, la migliore di tutte. Non ha prezzo perché è una merce che ha un pubblico imponente, non meno grande di quello di Barbara D’Urso. Cappello. Che poi la Luciana Litizzetto abbia in quella trasmissione un cachet di 20mila euro a botta, davvero non so giudicare. Io non ho mai riso una volta nella mia vita alle sue battute. La mia compagna Michela sì, quasi sempre. Non so, davvero non so.

Pansa intervista Pansa su “Libero Quotidiano”: "Devo tutto alla guerra".

Caro Giampaolo, come ti senti adesso che hai compiuto gli ottant' anni?

«Tutto sommato, mi sento bene, a parte qualche acciacco inevitabile alla mia età. Ma il resto funziona e non posso che ringraziare il Padreterno. La testa è ancora lucida e la voglia di scrivere tanta. Devo confessare che il piacere di scrivere, invece di diminuire, con l'età è cresciuto. La mattina mi alzo presto e una delle prime cose che faccio è accendere il computer. Poi mi dedico a un articolo, al capitolo di un mio nuovo libro, a una lettera da inviare a un amico. Impegnarmi ogni giorno in questo esercizio mi gratifica molto. E mi ricorda che sono sempre stato un uomo fortunato».

In che cosa consiste la tua fortuna?

«Prima di tutto, nella data di nascita. Sono un ex ragazzo del 1935. L' essere venuto al mondo in quell' anno mi ha regalato molte opportunità. La prima è stata di vedere con i miei occhi il disastro di una guerra mondiale. È iniziata nel 1940 quando avevo cinque anni ed è finita nel 1945 quando mi avviavo a compierne dieci. Quello che ho visto, sia pure con lo sguardo di un bambino, mi ha insegnato che non bisogna mai lamentarsi di quanto ci accade, perché il peggio può sempre arrivare».

Il tuo ricordo più orribile del tempo di guerra?

«I bombardamenti aerei. Casale Monferrato, la mia città, non era un obiettivo strategico, ma aveva due ponti sul Po, uno pedonale e l'altro ferroviario, abbastanza vicini al centro. A partire dall' estate del 1944, gli apparecchi angloamericani tentarono di distruggerli come avevano iniziato a fare con tutti i ponti della Pianura padana. Nella convinzione che, dopo la liberazione di Roma, la guerra stesse per finire e dunque fosse necessario ostacolare la ritirata dei tedeschi. Il ponte pedonale lo colpirono subito, quello ferroviario mai. Per questo i bombardieri alleati ritornavano di continuo all' assalto».

E allora?

«Allora ho nella memoria lo schianto delle bombe. Un rumore da film degli alieni, che si insinuava dentro di te, si impadroniva del tuo corpo e ti faceva temere di morire. Invece l'andare nei rifugi antiaerei durante la notte, per me era divertente. Può sembrare una bestemmia, lo so. Ma da ragazzino precoce mi sentivo attratto dalle donne sempre un po' discinte. Se qualcuno mi chiedesse quando ho cominciato a osservare l'altro sesso, risponderei: nel grande rifugio della marchesa della Valle di Pomaro, situato a cento metri dal nostro appartamento, un palcoscenico straordinario di varia umanità».

Ma non avevi paura?

«Dopo il primo bombardamento sì, ho provato il terrore di essere ucciso. Poi mi sono abituato. Tanti anni dopo, nel leggere quel che era accaduto in Gran Bretagna, ho compreso che l'Italia, soprattutto nelle piccole città, era stata una specie di paradiso. Gli abitanti di Londra e di altri centri inglesi, come Coventry avevano vissuto l'inferno dei continui bombardamenti tedeschi. Gli inglesi stavano assai peggio di noi. Hanno sofferto la fame, da loro il tesseramento è rimasto in vigore sino agli anni Cinquanta. Noi ce la siamo cavata molto meglio».

Che cosa dicevano i tuoi genitori della guerra?

«La consideravano un castigo di Dio e speravano che finisse presto. Ma non hanno mai lasciato trasparire le loro paure con me e a mia sorella Marisa. Mio padre Ernesto, classe 1898, da giovanissimo si era sciroppato gran parte della Prima guerra mondiale, nel Genio radiotelegrafisti della III Armata, quella del Duca d' Aosta. E aveva visto gli orrori di quel conflitto. Gli inutili assalti alla baionetta, i cadaveri straziati dalle cannonate, i tanti feriti, i mutilati, i soldati con la malaria e il colera abbandonati in lazzaretti di fortuna. Era un uomo buono e pessimista, rimasto orfano di padre da bambino, insieme a cinque tra fratelli e sorelle. Mia madre Giovanna, invece, era una donna ottimista. Aveva un negozio di mode in centro, guadagnava tre volte lo stipendio di papà, operaio guardafili delle Poste. Insieme mi hanno insegnato come si deve stare al mondo».

Quando hai scoperto che ti piaceva scrivere?

«Alla conclusione della terza media. Eravamo nell' estate del 1947 e avevo dodici anni e mezzo, poiché nelle elementari avevo fatto insieme la quarta e la quinta. Come premio per un'ottima pagella, papà mi regalò una macchina per scrivere di seconda mano: una Underwood del 1914, fabbricata in America. Ho imparato subito a usarla e mi sono accorto di avere una vocazione: quella di diventare un giornalista. Cominciai presto a collaborare al settimanale della mia città, Il Monferrato. Non mi pagavano, però mi lasciavano fare. Quando sono andato all' università di Torino, a Scienze politiche, ho dedicato tutto il mio tempo alla tesi di laurea. L'argomento era la guerra partigiana tra Genova e il Po. L' avevo iniziata per partecipare a un concorso indetto dalla Provincia di Alessandria. Divenne un malloppo pazzesco, di ottocento pagine».

E che cosa accadde?

«Mi laureai con il massimo dei voti e la dignità di stampa. Era il luglio del 1959 e avevo 23 anni e nove mesi. Nel novembre del 1960 la mia tesi vinse il Premio Einaudi che mi fu consegnato dall' ex capo dello Stato, Luigi Einaudi, nella sua villa di Dogliani, con una cerimonia solenne. Quel premio convinse il direttore della Stampa, Giulio De Benedetti, a convocarmi per capire che tipo ero. Il nostro incontro durò meno di un quarto d' ora. E lui mi assunse, come in seguito fece con altri giovani laureati. Voleva svecchiare la redazione, così mi venne detto».

Un altro colpo di fortuna…

«Sì. Ma anche il risultato di una serie di circostanze che non riguardavano soltanto me. Quando iniziai a lavorare alla Stampa era il gennaio 1961. L' Italia era appena uscita del suo primo boom economico. I grandi quotidiani andavano a gonfie vele. A insidiarli non esisteva la televisione e meno che mai il maledetto web. Vendevano molte copie, raccoglievano tanta pubblicità, avevano la cassa piena di soldi».

Condizioni oggi irripetibili...

«Non c' è dubbio. Gli stipendi erano più che buoni, compresi quelli dei redattori alle prime armi. In compenso bisognava lavorare, o ruscare come diciamo noi piemontesi. Dieci ore di presenza dalle due del pomeriggio a mezzanotte. Nessuna settimana corta. Un rigore assoluto, garantito dai capi servizio, a loro volta onnipotenti. De Benedetti era un dittatore indiscusso. Quando entrava nella grande sala della redazione, tutti ci alzavamo in piedi. Soltanto quando Gidibì ringhiava: "Signori, seduti!", il lavoro riprendeva».

Fammi un esempio del rigore della «Stampa»…

«Eccone uno. Lavoravo da parecchio al notiziario italiano, quando Carlo Casalegno, il giornalista assassinato nel 1977 dalle Brigate rosse, mi chiese una recensione per la terza pagina, quella culturale. Riguardava un libro appena uscito in Italia: Il giorno più lungo di Cornelius Ryan, sullo sbarco alleato in Normandia nel giugno del 1944. La scrissi e la riscrissi con il cuore in gola. La consegnai al direttore e Gidibì la tenne nel cassetto per una settimana. Poi mi convocò e ruggì: "Questa non è una recensione, ma una cattiva cronaca dello sbarco in Normandia". Quindi iniziò a stracciarla in pezzi sempre più piccoli. E li fece nevicare sotto gli occhi».

Poi hai lasciato la «Stampa». Come mai?

«È un altro esempio della fortuna che assisteva un ragazzo del 1935. Negli anni Sessanta, un direttore che apprezzava il tuo lavoro aveva il potere assumerti da un giorno all' altro. Una circostanza irreale se guardiamo ai giorni nostri. Italo Pietra, allora direttore del Giorno, nel 1964 mi offrì un contratto da inviato speciale. Mi chiese: "Dove vuoi essere mandato in servizio: a Voghera o nel Golfo del Tonchino dove sta per cominciare una guerra che si estenderà al Vietnam?". Da monferrino sveglio risposi: "A Voghera, direttore". Pietra sorrise: "Risposta esatta. Ti assumo. Ecco il contratto da firmare. Se dicevi il Tonchino, non ti avrei mai assunto"…».

Quanto sei rimasto al «Giorno»?

«Sino alla fine del 1968. Poi Alberto Ronchey, il successore di Gidibì, mi rivolle alla Stampa, sempre come inviato. La mia base era Milano, una metropoli sconvolta dalla violenza e dagli attentati. Cortei militanti a tutto spiano, l'omicidio dell'agente di polizia Annarumma, la strage di Piazza Fontana, la fine oscura dell'anarchico Pinelli, l'arresto di Valpreda, i primi segni di vita delle Brigate rosse. Ho imparato a conoscere l'Italia, un paese ingovernabile, travolto dall' estremismo politico».

Se non sbaglio, nel 1973 sei passato al «Messaggero» dei Perrone…

«Sì, a fare il redattore capo, un mestiere che non era il mio. Ma la fortuna continuò ad assistermi. Piero Ottone mi volle al Corriere della sera. Ci rimasi sino al 1977, poi Eugenio Scalfari mi assunse a Repubblica, nata l’anno precedente. Rimasi con Barbapapà un'infinità di tempo. Quindi andai all' Espresso con Claudio Rinaldi, ero il suo condirettore. Nel 2008 lasciai il gruppone di Scalfari e mi arruolai nel Riformista di Antonio Polito. Di lì sono passato a Libero, dove sto con grande soddisfazione mia e, spero, del direttore Maurizio Belpietro e dell'editore Giampaolo Angelucci».

In tanti anni di professione, immagino che tu sia stato costretto ad affrontare non poche delle emergenze che hanno tormentato l'Italia. Quale di loro ricordi?

«Almeno tre. La prima è il terrorismo, soprattutto quello delle Brigate Rosse. Oggi non ce ne ricordiamo più, ma è stata una seconda guerra civile durata quasi un ventennio. Con un'infinità di morti ammazzati, centinaia di feriti, allora si diceva gambizzati, e un delitto che ricordo come fosse avvenuto ieri: il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Tuttavia l'aspetto peggiore, e infame, di quel mattatoio fu il comportamento di una parte importante della borghesia di sinistra. Eccellenze della cultura, dell'università, del giornalismo, delle professioni liberali. E della politica comunista e socialista. Per anni negarono l'esistenza del terrorismo rosso. Sostenevano che si trattava di fascisti travestiti da proletari. Soltanto qualcuno ha fatto ammenda di quella farsa tragica. Ma pochi, per non dire pochissimi. Molti pontificano ancora e si considerano la crema dell'Italia».

E la seconda emergenza?

«È la corruzione, un cancro che intacca, con una forza sempre più perfida, partiti, aziende, pubblica amministrazione. È un virus che si estende anno dopo anno. Ha avuto un picco al tempo di Mani Pulite o di Tangentopoli. Era il 1992 e allora sembrò che le indagini del pool giudiziario di Milano avessero la meglio. Invece era soltanto una pausa breve. Infatti tutto è ricominciato alla grande. Devo dire la verità? L' Italia è una repubblica fondata sulla mazzetta. Non può consolarci il fatto che tante nazioni siano uguali a noi».

La terza emergenza?

«È il discredito sempre più devastante che ha mandato al tappeto il sistema politico italiano. Per anni ho seguito da vicino e ho raccontato la crisi dei nostri partiti. Li ho visti ammalarsi, peggiorare, arrivare vicini all' estinzione. Adesso mi sembrano malati terminali. Molte parrocchie politiche sono già morte. E altre moriranno. Alla fine resteranno in piedi soltanto pochi personaggi, i più scaltri, i più demagoghi. È facile prevedere che saranno loro a comandare in Italia».

Stai pensando a Matteo Renzi, il nostro presidente del Consiglio?

«Certo, penso al Fiorentino, ma non soltanto a lui. Renzi oggi comanda e temo che continuerà a comandare per parecchio tempo. Avremmo bisogno di un nuovo De Gasperi, ma l'Italia del 2015 è messa peggio di quella del 1948. Allora eravamo un paese senza pace, alle prese con tutti i guai del dopoguerra. Ma avevamo fiducia in noi stessi, voglia di rinascere, capacità di sacrificio, entusiasmo politico, anche faziosità all' ennesima potenza. Oggi siamo una nazione di morti che camminano, non parlano, non si occupano di quello che un tempo veniva chiamato il bene pubblico. Prevale la paura di diventare sempre più poveri».

Come vedi il futuro dell'Italia?

«Buio e tempestoso. Adesso qualche gregario di Renzi dirà che sono un vecchio gufo menagramo, ma è proprio il personaggio del Fiorentino a indurmi al pessimismo. Non è un leader politico poiché non ha la statura intellettuale e umana per esserlo. È soltanto l'utilizzatore finale di una crisi antica della Casta dei partiti, cominciata molti anni fa. Renzi sta dominando su uno scenario di macerie. A lui interessa soltanto il potere. Non è un generoso come sanno esserlo i veri numero uno. È un piccolo demagogo, egoista, vendicativo, che si è circondato di una squadra di yes man incompetenti, pronti a obbedirgli e a seguirlo fino a quando resterà in sella. Nessuno lo scalzerà dalla poltrona e lui seguiterà a vincere per abbandono di tutte le controparti».

Nemmeno il centrodestra riuscirà a scalzare Renzi?

«Ma non raccontiamoci delle favole! Il centrodestra mi ricorda l'ospizio dei poveri della mia città. Sono convinti, o fingono di esserlo, che soltanto loro abbatteranno il Fiorentino. Ma è un pio desiderio, nient' altro. In realtà tutti i capetti di una volta si combattono per spartirsi il poco che è rimasto dell'impero di Silvio Berlusconi. Giocano con il pallottoliere e, sommando una serie di piccoli numeri, si illudono di sconfiggere Renzi. Il loro futuro è persino più nero di quello italiano. Ce lo conferma la crisi drammatica del Cavaliere. Ha un anno meno di me e nel 2016 taglierà il traguardo degli ottanta. Gli auguro di conservare la villa di Arcore e di non sentire che un giorno, all' alba, bussa alla sua porta qualche scherano di Renzi con un'ordinanza di sfratto».

Sei certo che gli oppositori attuali di Renzi non siano in grado di fermarlo?

«Forse potrebbe farcela un'alleanza che oggi sembra una chimera. Quella fra Grillo, Salvini, la Meloni e quanto resta di Forza Italia. Ma nel caso molto improbabile che questo asse prenda forma, chi può esserne il leader? Viviamo in un'epoca che considera la figura del capo un fattore indispensabile per contendere il potere politico, con la speranza di conquistarlo. Però dove sta il nuovo leader del centrodestra? Io non lo vedo».

E del centrosinistra che cosa mi dice?

«Che sta peggio del centrodestra. Quando esisteva ancora la Democrazia cristiana, un anziano deputato doroteo di Caltanissetta mi disse: "Il mio partito ricorda la masseria dello curatolo Cicco: il primo che si alza, pretende di comandare". Non rimpiango di certo la scomparsa del Pci, ma la sua fine ha lasciato un vuoto enorme. Si sta realizzando una profezia del vecchio Pietro Nenni: rischiamo di diventare una democrazia senza popolo. È quello che accade in Italia, pensiamo al grande numero di elettori che non vanno più alle urne».

Nella prima e nella seconda Repubblica tu hai votato sempre a sinistra, se non sbaglio…

«Sì, ho votato per il Pci, per il Psi e per i radicali. Poi non sono più andato a votare, da quando ho scoperto la vera natura della sinistra italiana. Me ne sono reso conto del tutto nel 2003, dopo aver pubblicato il mio libro dedicato a quanto era accaduto dopo il 25 aprile 1945: Il sangue dei vinti. Un lavoro minuzioso, che non ha mai ricevuto una smentita o una querela. Posso definirlo una prova di revisionismo storico da sinistra? Eppure la sinistra italiana, in tutti i suoi travestimenti, mi ha maledetto. E non ha smesso di sputarmi addosso nemmeno quando si è resa conto che quel libraccio aveva un successo enorme. A tutt' oggi ha venduto un milione di copie».

Tu fai il giornalista dal 1961, ossia da cinquantaquattro anni. Ha ancora senso questo nostro mestiere?

«Penso di sì, anche se è diventato una professione proibita ai giovani. Nessuno li assume, i compensi per chi vuole iniziare sono minimi. Ma io sono difeso dalla mia età. A ottant' anni mi protegge un antico imperativo del filosofo tedesco Immanuel Kant. Recita: fai quel che devi, avvenga quel che può».

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.

Toscana, vietato fare il presepe nei nidi. Uno dei 5 asili comunali di Pietrasanta decide di non allestire il presepe. Il sindaco Mallegni: "Rispettare le tradizioni", scrive Luisa De Montis Domenica 29/11/2015 su "Il Giornale".  Lo ha disposto il sindaco di Pietrasanta, Massimo Mallegni, che ha invitato anche le altre scuole cittadine non direttamente chiamate in causa dal documento che sarà inviato lunedì alla cooperativa che gestisce, per conto dei comuni i cinque nidi cittadini, ad allestire nelle proprie classi o nei luoghi comuni l'abete natalizio ed il presepe con tutti i protagonisti della natività. La disposizione, spiega una nota, "si è resa necessaria in seguito alla segnalazione di una mamma e alla scelta, in uno dei cinque asili comunali, di non allestire il presepe". Ad annunciarla è stato lo stesso primo cittadino in occasione del Consiglio comunale. "Sono arrabbiato perché, come ci ha riferito una mamma, qualcuno ha proibito di allestire il presepe mentre per l'albero di Natale sarà fatto uno strappo alla regola". "Il presepe - spiega Mallegni - rappresenta la famiglia ed identifica i valori della nostra cultura europea che ha i suoi fondamenti nei principi giudaico cristiani. Auspico che in tutte le scuole, non solo nei nidi, presidi e insegnanti, salvaguardino i simboli che sono alla base della nostra tradizione, della nostra cultura e della nostra nazione; principi che hanno ispirato e che ispirano i valori della pace, della fratellanza e della democrazia di cui questo mondo ha sempre più bisogno". Mallegni precisa che non si tratta di una crociata nei confronti di alcuna religione o fede: "È importante adoperarci tutti, al di là della propria personale posizione e sensibilità, per tutelare i valori della nostra comunità. Nessuno deve sentirsi offeso da questo invito e non è obiettivo di questa iniziativa mettere in pericolo l'integrazione e l'espressione religiosa, ma non c'è integrazione fino a quando non c'è il rispetto delle tradizioni e dei valori del paese in cui vivi".

Natale chiuso per islam. In una scuola milanese festa spostata a gennaio in nome della laicità. L'Occidente si sta suicidando, scrive Alessandro Sallusti Sabato 28/11/2015 su "Il Giornale". A poche ore dall'apertura dell'Anno santo straordinario voluto da Papa Bergoglio, piovono le cancellazioni delle feste scolastiche per celebrare il Natale cristiano. L'ultimo caso, ma certamente ne arriveranno altri, accade a Rozzano, prima periferia di Milano. Il preside ha annullato la tradizionale recita perché la canzoncina «Tu scendi dalle stelle» potrebbe offendere i bambini di religione islamica. Non contento, il preside ha anche ordinato di togliere i crocifissi dalle aule per mettersi al riparo da possibili ritorsioni dell'Isis. Qui non è questione di buonismo o razzismo, questa è pura stupidità che offende, oltre ai cristiani, la storia di questa nazione laica, nata da una guerra al Papa re dello Stato Pontificio ma che mai si è sognata, neppure tra una cannonata e l'altra, tra una confisca e l'altra di beni ecclesiastici, di radiare dai luoghi pubblici i simboli della fede religiosa. Secondo il preside in questione, la festa deve essere spostata a gennaio come Festa dell'inverno.Qui non c'entra la laicità, questo è paganesimo puro, un salto indietro di civiltà di duemila anni, quando gli antichi romani, prima dell'avvento di Cristo, celebravano giusto a fine dicembre la Festa del dio Sole. Io non voglio vivere in un Paese pagano, io non voglio costringere un bimbo islamico a intonare «Tu scendi dalle stelle», anzi per me può cantare ciò che meglio crede a patto che i nostri figli siano liberi di fare (o non fare) altrettanto, così come lo siamo stati noi, i nostri padri e i nostri nonni. Penso che la laicità dello Stato la si esalti nel «permettere a ognuno», non nel «negare ai più» di celebrare riti e tradizioni. Se questa di Rozzano è la modernità tanto cara alla sinistra, viva i conservatori. Sulle cui posizioni, strage dopo strage, stanno arrivando un po' tutti: dal moderato di sinistra Angelino Alfano, che ieri ha annunciato la chiusura delle moschee fuorilegge (a noi, per avere chiesto questo, avevano dato dei razzisti provocatori), al socialista Hollande, che ieri, per contrastare il terrorismo islamico, ha chiesto ai francesi di «moltiplicare concerti, feste e affluenza negli stadi». Torniamo a difendere l'Occidente, moltiplichiamo anche le feste del Natale cristiano.

Salviamo Natale e i nostri figli ​dal religiosamente corretto. Non è un piccolo problema il presepio negato negli asili e nelle scuole. Soprattutto dopo aver già negato il Crocifisso. Perché la laicizzazione uccide le tradizioni, scrive Giannino della Frattina Venerdì 13/11/2015 su "Il Giornale". No. Non è un piccolo problema il presepio negato negli asili e nelle scuole. Soprattutto dopo aver già negato il Crocifisso. E non lo sono le maestre della materna di Ludovica che alla mamma milanese assicurano che «no, il Natale nel nostro programma didattico non avrà assolutamente nessuna implicazione religiosa». Salvo poi lamentarsi che «i vostri figli ne hanno una visione un po' venale, parlano solo dei regali e della letterina da spedire a Babbo Natale». Ma se prima il significato glielo togliamo, non è che a tre anni se lo possono inventare da soli. È la deriva di una società sconsacrata. E non è poco, perché per Mircea Eliade «l'esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall'uomo per costruire un mondo che abbia un significato». Ecco. È questo che stiamo perdendo. Il significato. Possibilmente trascendente. Anzi è questo che la Chiesa, questa Chiesa o almeno parte di questa Chiesa sta perdendo. Non solo per gli attici (...)(...) dei cardinali o le elemosine usate per pagare i festini. Perché oggi nessun vescovo si alza e chiede indignato che ci sia un presepe in ogni classe? I principi della Chiesa facciano il loro lavoro. E non abbiano timore, perché i musulmani di timore non ne hanno. E magari l'arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, invece di mandare a tutti i bambini della diocesi i suoi auguri in un cartoncino in cui l'unica figura oltre a Gesù, Giuseppe e Maria è un bambino profugo, si occupi di più dei bambini restati senza Natale. Massimo rispetto per i bimbi profughi, ma altrettanto per il loro diritto ad avere il presepe.Nessun rimprovero alle tante brave maestre finite in un ingranaggio diabolico. Perché sul loro volto si legge il timore derivante da battaglie condotte (e probabilmente perse) negli anni passati. Magari in una scuola del centro, dove in classe non ci sono bambini di altre religioni. Dove il rispetto per l'altro è dunque solo un paravento a un mondo che nell'insegnamento del mai abbastanza rimpianto Papa Ratzinger sta sprofondando in un devastante relativismo in cui tutto è uguale. Quella notte hegeliana in cui tutte le vacche (e oggi le religioni) sono nere. L'indistinto dove non c'è più luce e direzione. E questo proprio mentre le altre religioni a cominciare da musulmani ed ebrei oggi scoprono invece il valore e l'importanza di una radicalizzazione della dottrina. Un processo non difficile da capire in un mondo la cui geopolitica va evidentemente sempre più verso uno scontro più che un incontro di religioni. Conflitti auspicabilmente culturali, ma non solo come dimostrano i cristiani sgozzati ogni giorno. «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno», direbbe anche oggi Gesù Cristo ai principi di questa Chiesa. Magari cominciando dal crocifisso e dai presepi. Giannino della Frattina

Il Politicamente corretto ha ucciso la cultura occidentale, scrive Francesco Giubilei su "Il Giornale il 13 novembre 2015. Uno dei principali mali della nostra società – forse il più profondo e grave perché subdolo, ramificato e stratificato – è il politicamente corretto. Una vera e propria dittatura – come recita il sottotitolo del libro di Annalisa Chirico che tratta di tutt’altro argomento “contro la dittatura del politicamente corretto” – che è diventata ancor più evidente con il web. Perché in una società di tuttologi, di esperti in ogni settore dello scibile umano, in un bar sport a cielo aperto come è diventata la società del XXI secolo, avere posizioni che contrastano il pensiero comune non è ormai più concesso, in barba alla democrazia. Criticare la visione della massa porta ad essere tacciati come snob o, peggio ancora, con un paradosso che stento a comprendere, di essere antidemocratici. Perché sostenendo posizioni scomode o non omologate, si offende l’altrui libertà. Così non è più possibile pubblicare sui social la foto di una cena a base di maialino arrosto perché si offende la sensibilità dei vegani, non si può più pubblicare un crocifisso perché si è irrispettosi verso le altre religioni. Il risultato è quello di annichilire la nostra storia, le nostre tradizioni e la nostra cultura, creando una società senza valori e identità e quindi senz’anima. Proprio in questi giorni sono avvenuti due episodi in tal senso sconcertanti, uno negli Stati Uniti e uno nel nostro paese. La celebre catena di caffetterie Starbucks ha deciso di eliminare la scritta “Merry Christmas” dalle tazze di Natale per rispettare le altre credenze religiose. Mi chiedo a questo punto quale sia l’utilità delle tazze natalizie se non si celebra il Natale, ah già il denaro… L’episodio accaduto a Firenze è invece ancor più grave e preoccupante: “le crocifissioni di Chagall e Guttuso, la pietà di Van Gogh, la via crucis di Fontana potrebbero urtare <la sensibilità delle famiglie non cattoliche>, e per questo le terze classi dell’elementare Matteotti di Firenze non andranno a visitare la mostra dove queste opere sono esposte, cioè la ‘Bellezza Divina’ a Palazzo Strozzi”, scrivono Adinolfi e Bocci su la Repubblica. Siamo giunti al punto che anche le opere d’arte di alcuni dei principali artisti al mondo possono urtare la sensibilità dei credenti di altre religioni, non resta che abbattere chiese e monumenti per evitare che possano creare fastidi e malumori.

Firenze, la mostra con le tele di Chagall e Van Gogh vietata ai bimbi della scuola: "Urta i non cattolici". I genitori contro la scelta del consiglio interclasse delle terze elementari dell'istituto Matteotti di fermare la gita all'esposizione "Divina Bellezza" sul rapporto tra arte e sacro. Il preside: "Nessun motivo religioso, la programmazione è ancora in corso". Inviato un ispettore del Miur, scrivono Gerardo Adinolfi e Valeria Strambi il 12 novembre 2015La Crocifissione bianca di Chagall, il quadro preferito da Papa Francesco che per l'occasione della sua visita a Firenze era stato spostato da Palazzo Strozzi al Battistero, non potrà essere visitato dagli alunni della terza elementare della scuola Matteotti del capoluogo toscano. E così neanche la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l'Angelus di Millet e le altre cento opere della mostra Divina Bellezza. Ai bambini dell'istituto così non sarebbe concesso di conoscere le sculture di Fontana, ma anche i quadri di Munch, Picasso, Matisse che, nell'esposizione fiorentina, riflettono sul rapporto tra arte e sacro avendo come filo conduttore proprio il tema della religione. La gita per gli alunni del Matteotti è vietata. Il motivo? "La visita è stata annullata per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra", si legge, secondo quanto riporta il quotidiano La Nazione, dal verbale della riunione del consiglio interclasse dello scorso 9 novembre redatto da un rappresentante di classe e distribuito a tutti i genitori. Con le proteste partite proprio da molte famiglie arrabbiate dalla decisione: "I nostri figli non potranno più studiare storia dell'arte, basata proprio sull'arte sacra? - si sono chiesti i genitori contrari al divieto - siamo a Firenze, vedremo quindi negare le gite a Santa Croce, in Duomo e agli Uffizi perché ci sono figure sacre?". Domande poste anche al preside dell'Istituto Alessandro Bussotti che però ribatte alle accuse e spiega: "La visita non è stata annullata perché nessuna visita era precedentemente stabilita, la programmazione è ancora in corso e non è detto che non si faccia. Una classe delle medie dell'Istituto comprensivo la farà. Se gli insegnanti nella programmazione avevano deciso di non farla sicuramente non è stata per motivazioni religiose. Tutti indipendentemente dalla fede devono poter godere delle bellezze dell'arte". Ribattono anche gli insegnanti delle terze del Matteotti: “L’inclusione, o meno, di visite a mostre o musei non ha motivazioni di ordine religioso, ma esclusivamente di natura didattica, nell’ambito dell’attività di progettazione, che è propria della libera espressione dell’attività docente, in relazione all’efficacia della ricaduta sul processo di apprendimento degli allievi.” Cosa sia successo nel consiglio di interclasse spetterà dunque scoprirlo ad un ispettore del Miur che arriverà forse già domani da Roma alla scuola elementare di viale Morgagni per fare luce sul caso. A confermare l'ispezione è stato il direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale della Toscana Domenico Petruzzo.  "Stamani - ha affermato Petruzzo - ci siamo sentiti con l'ispettore" che arriverà alla scuola "al più presto, forse domani". "Dobbiamo vigilare e avere cognizione del caso in modo preciso" ha continuato il direttore dell'Usr Toscana, spiegando che "occorre riserbo" fino a che non saranno "accertate con precisione le cose come stanno". Al termine degli accertamenti, ha detto ancora, "saranno prese le misure per le responsabilità che ci sono". Di sicuro c'è che quelle tre righe in uno dei quattro verbali sono state scritte, e diffuse tra i genitori. Se è vero che una scuola fiorentina ha annullato la visita degli alunni ad una delle più belle mostre fiorentine di arte sacra degli ultimi anni 'per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche' saremmo davanti ad un fatto quantomeno insensato. Non solo perché siamo da sempre la città del dialogo interreligioso, ma anche perché sarebbe un errore grossolano escludere dalle scuole la fruizione del nostro patrimonio di storia e cultura che comprende oggettivamente anche l'arte sacra, che per forza di cose da noi è arte cristiana", ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella. "Senza togliere che alla mostra "Bellezza divina", accolta in Palazzo Strozzi vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo... ma a cosa pensano certi insegnanti? - va avanti il sindaco -  Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?". Forza Italia parla invece di "Follia ideologica" mentre la Lega Nord ha organizzato una protesta pacifica all'esterno della struttura per la prossima settimana.

L'ARTE SACRA VIETATA A SCUOLA: LA STUPIDITÀ DI UN DIVIETO. Alla scuola elementare Matteotti di Firenze è stato deciso di non far visitare la mostra “Bellezza Divina” in corso a Palazzo Strozzi con opere di Van Gogh, Guttuso, Matisse, Picasso e la celebre Crocifissione Bianca di Chagall per non urtare la sensibilità dei non cattolici visto il tema religioso. Allora si dovrebbero eliminare tutte le gite ai musei italiani ed europei e togliere la storia dell’arte dai programmi, scrive Antonio Sanfrancesco il 12 novembre 2015 su “Famiglia Cristiana”. Quando l’ideologia, unita alla mancanza di buonsenso, entra nelle scuole accadono cose assurde. È il caso della scuola elementare Matteotti di Firenze dove il consiglio interclasse del 9 novembre scorso, come riferisce La Nazione, ha deciso di annullare per tutte le classi terze della scuola la visita già programmata alla mostra “Bellezza Divina” allestita a Palazzo Strozzi. Il motivo? «Per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra», recita il verbale della riunione redatto da un rappresentante di classe. Nell'esposizione si possono ammirare oltre cento opere di celebri artisti italiani che vanno da metà Ottocento al Novecento tra cui capolavori famosissimi come l’Angelus di Jean-François Millet, eccezionale prestito dal Musée d’Orsay di Parigi, la Pietà di Vincent van Gogh dei Musei Vaticani, laCrocifissione di Renato Guttuso delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, laCrocifissione bianca di Marc Chagall, proveniente dall’Art Institute di Chicago. Più altre opere di artisti del calibro di Gaetano Previati, Felice Casorati, Gino Severini, Renato Guttuso, Lucio Fontana,Pablo Picasso, Max Ernst, Stanley Spencer, Georges Rouault, Henri Matisse. I non cattolici potrebbero aversene a male, e quindi meglio non far conoscere nulla ai ragazzi. In base a questo scellerato principio, anche la storia dell’arte dovrebbe essere bandita dai programmi scolastici visto che la stragrande maggioranza di essa è sacra e ha per tema la religione cristiana. A scuola non si dovrebbe studiare la Commedia di Dante e – per restare a Firenze – dovrebbero essere abolite anche le gite in Duomo, in Santa Croce o gli Uffizi dove le immagini sacre di certo non mancano. Se così fosse, i cristiani che vanno a Istanbul non potrebbero visitare la Moschea Blu o ammirare un tempio induista in India. Il preside dell’Istituto, Alessandro Bussotti, ha fatto sapere che non era presente alla riunione spiegando che «l’eventuale esclusione della visita non ha motivazioni religiose e non è escluso che la mostra possa essere reinserita nei programmi didattici se non di tutte, almeno di alcune classi». A completare il quadro di una vicenda inquietante e grottesca insieme c’è il commento, di assoluto buonsenso, dell’imam di Firenze, Izzedin Elzir, che ha detto che andrà a vedere la mostra e che il Crocifisso «non offende nessuno ed è il simbolo di una fede religiosa che rispettiamo». Di scelta «insensata» parla il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Alla mostra», ha scritto in un post su Facebook, «vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo...ma a cosa pensano certi insegnanti? Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?».

Il direttore del museo: "Vietare la mostra? All'estero non sarebbe mai successo". Arturo Galansino, direttore generale di Palazzo Strozzi: "Quando l'ho saputo sono rimasto interdetto. Vieteranno anche i lavori di Michelangelo e Leonardo perché trattano di arte sacra?", scrive Giovanni Masini Venerdì 13/11/2015 su "Il Giornale”. Quando lo raggiungo al telefono, Arturo Galansino sembra più divertito che altro. Il giovane direttore generale di Palazzo Strozzi, fresco di nomina (è a Firenze da marzo, in precedenza aveva lavorato a Louvre e National Gallery, ndr), non si capacita della bufera che si è scatenata dopo che a una scolaresca fiorentina è stato vietato di visitare la mostra sull'arte sacra allestita proprio nel suo museo per "non offendere i bimbi non cattolici".

D'altronde il politicamente corretto è eccepito solo alla controparte politica.

Cristo nell'urina: l'opera scandalo patrocinata dalla regione Toscana. L'opera di Andres Serrano verrà esposta al Photolux Festival di Lucca e ritrae un crocifisso in un bicchiere di urina. L'ira della Lega Nord, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Un crocifisso, simbolo non solo di una religione ma anche della cultura italiana ed europea, immersa nell'urina. Chiamatela pure arte. Ma blasfema. Al Photolux Festival di Lucca, dal 21 novembre al 13 dicembre prossimi, verrà esposta "Piss Chirst", una fotografia realizzata da Andres Serrano, fotografo statunitense, che ha immortalato un crocifisso immerso in un bicchiere pieno della sua urina. Sono anni che l'opera crea scandalo. Succede dalla sua prima esposizione nel lontano 1987 negli Usa. In quel caso due senatori repubblicani portarono il caso anche in Parlamento. Da noi, invece, il Pd ha deciso addirittura di patrocinare la mostra in cui verrà esposta. Il simbolo della regione Toscana, infatti, campeggia su volantini e sul sito della mostra internazionale di di fotografia. A denunciare il fatto sono stati due esponenti locali leghisti in una nota: "È inammissibile - affermano i consiglieri regionali Manuel Vescovi ed Elisa Montemagni - che si sostengano iniziative di questo genere, dove vengono esposte opere che offendono pesantemente il cristianesimo. Un'opera che umilia Cristo e rende omaggio all'Islam". Gli esponenti leghisti annunciano che durante il festival "organizzeranno un presidio davanti alla sede della mostra per esprimere il nostro totale dissenso. Invitiamo i cittadini toscani ad unirsi a noi in questa forma di pacifica protesta che vuole difendere le nostre profonde radici cristiane". Secondo il direttore del festival, Enrico Stefanelli, invece, l'opera ha pieno diritto ad essere esposta. "Lo spirito del festival - ha detto - è quello dell'equilibrio in un contesto di libertà". "Quell'opera - continua - non è nata come un oltraggio o una contestazione del Cristo, quanto piuttosto della mercificazione delle immagini. Poi dobbiamo collocarla nel periodo storico in cui è stata realizzata, negli anni '80". Sarà. Ma mentre il crocifisso nell'urina merita di essere visto e pubblicizzato, solo ieri in una scuola di Firenze ad alcuni bambini è stata vietata la mostra con dipinti raffiguranti il Cristo perché i crocifissi "urtano i non cattolici". Allora facciamo una proposta: si annulli anche questa che urta i cattolici. Anche se già sappiamo che i buonisti ci diranno di no ed utilizzeranno i soliti due pesi e due misure. Le ragioni dei cattolici, per loro, non hanno ragione d'esistere.

Al contrario.

“Carabiniere spara”: la canzone controcorrente indigesta ai buonisti. Il singolo di Matteo Greco in difesa del diritto delle forze dell'ordine di sparare per fare il loro lavoro è stata sommersa dagli insulti della sinistra, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. “Mi sento un cantautore controcorrente. So bene che questo non mi renderà famoso. Ma non importa”. Matteo Greco non ne è irritato. La sua canzone “Carabiniere spara” ha provocato reazioni stizzite dalla maggioranza degli ascoltatori. “Perbenisti”, li chiama lui. Ma se ne farà una ragione: sa bene che il successo è più facile con un testo buonista, piuttosto che di buonsenso. L’ultimo singolo del cantautore di Falconara Marittima è diventato famoso, suo malgrado, per la quantità di insulti ricevuti. Il motivo è tutto - o quasi - nel titolo: “Carabiniere spara”. Spara ai ladri che rendono impossibile la vita nelle città. Spara (metaforicamente) al governo che non fa nulla per cambiare le cose. E così è stato messo all’indice dalle varie sinistre, culturali e non. Gli hanno dato del razzista, istigatore d’odio e c’è anche chi ha avanzato denuncia alla procura della Repubblica per apologia di reato. La canzone, la cui musica può piacere o meno, lancia un messaggio semplice su sicurezza e immigrazione. “La cittadinanza non si può regalare - afferma Greco - bisogna conquistarsela. Per ridurre la criminalità è necessario gestire l’immigrazione con maggiore intelligenza”. Concetto reso chiaro sin dalla prima strofa: “Spiegami cosa ci fa un uomo con machete in mano, nessuno che lo può fermare, nessuno che gli può sparare”.

Da cosa nasce questa canzone? 

“Da due casi di cronaca. Quello di Milano, quando Kabobo ha creato il panico con il suo machete. E la vicenda molto simile di Jesi, dove un ragazzo sfondò la vetrina di un negozio, prese due machete e si mise a camminare per tutto il centro storico. Venne fermato da un carabiniere - quello della canzone - che aveva la pistola in mano, ma non sparò”.

A lui rivolgi un complimento: “Tanto onore a te”. Perché allora il titolo della canzone sembra biasimare la scelta di non aver aperto il fuoco? 

“Bisogna partire dal principio. Una cosa simile non dovrebbe succedere: il poliziotto non dovrebbe essere messo nelle condizioni di usare le armi. Questo è (sarebbe) il ruolo dello Stato, che però non sta assolvendo al suo compito”. Ma quel carabiniere avrebbe dovuto sparare, sì o no? “Cristianamente dico che una vita risparmiata è sempre una vittoria. Il gesto che io richiamo nella canzone, “Carabiniere spara”, più che una richiesta è un avvertimento. Se non verranno trovate delle soluzioni, se i cittadini continueranno a sentirsi insicuri, saranno costretti a farsi giustizia da soli. Il mio grido è un allarme: bisogna permettere alle forze dell’ordine di fare il loro mestiere”.

Le forze dell’ordine si sentono frustrate dall’impossibilità di garantire la sicurezza dei cittadini. 

“Sono anni che sento poliziotti e carabinieri lamentarsi di essere in trincea con mezzi insufficienti. Agenti che perdono un’intera giornata a identificare un malvivente, che rischiano la vita per arrestarlo e poi lo vedono il giorno dopo fuori di prigione. Inutile lamentarsi poi delle città insicure”.

Te la prendi anche con il governo “che non dice niente”.

“Il Governo è colpevole di non aver messo al primo posto la sicurezza e la tutela della vita dei cittadini. Sembra essere distante dalla vita reale, è percepito assente”.

Perché i “buonisti”, come li chiami tu, ti hanno criticato così tanto? 

“La gente non ragiona. Preferisce stare con gli occhi bendati e coccolarsi nei bei pensieri buonisti. Bisogna invece essere razionali. Parlare di difesa significa focalizzarsi sulla vita di una persona. Pensiamo agli anziani, che hanno pagato anni di tasse per ritrovarsi obbligati a stare chiusi in casa perché se escono rischiano di essere rapinati o aggrediti. E’ questa l’Italia per cui hanno lavorato? A me questo Paese non va più bene. E l’ho cantato”.

Nel testo dici di “rivolere la mia Italia, una città libera”. 

“Il nostro è un Paese non più libero di essere vissuto. La mia Italia, invece, è quella in cui i ragazzini sono di nuovo padroni delle loro piazze e i nonni delle loro panchine.

Qualcuno ti avrà spiegato però che non è il tipo di canzone con cui si diventa famosi. 

“Lo so benissimo. Ma io scrivo quello che penso. So di andare controcorrente, ma sono anche fiero di essere riuscito a coinvolgere le forze dell’ordine. Ho ricevuto tantissimi messaggi di apprezzamento di agenti, poliziotti o soldati. Una volta l’ho anche fatta ascoltare in piazza ad alcuni carabinieri”.

E come hanno reagito? 

“Con un semplice ‘grazie’. Che vale più di mille parole. E pensare che tra i passanti che mi hanno sentito suonare e che si sono fermate, c’erano soprattutto stranieri. Questo sa cosa vuol dire?” Mi dica. “Che nel loro Paese sono abituati a far rispettare le regole. Solo in Italia vale il contrario”.

A proposito della foto del ministro Marianna Madia pubblicata su "Chi" con il titolo "con il gelato ci sa fare". c'è chi scrive Madia-Signorini: giù le mani dal pompino! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. Giù le mani dal pompino! Ecco, di fronte alla querelle Signorini-Madia, volendo essere epici, ma ancora di più sinceri, onesti, popolari, bisognerebbe dire subito così, affermando questa semplice verità, quasi un bisogno di liberazione dalla falsità, perfino dall’ipocrisia virtuosa da educandato o perfino terrazza di sinistra. E ancora di più, occorrerebbe aggiungere abbasso ogni forma di allusione, assodato che alludere in certi casi, quando c’è di mezzo il piacere, il corpo, la realtà genitale, cioè la fica e il cazzo, significa innanzitutto non consentire a un concetto di liberamente volare, quasi che dovessimo vergognarci d’aver semplicemente chiamato una certa cosa, un certo atto, con il suo nome proprio. Dunque, così come una rosa è una rosa, una fellatio è una fellatio, un pompino è un pompino, un cazzo, una fica, ecc…Per questa ragione, sebbene ne abbiamo appena pronunciato la parola, talvolta è davvero da ipocriti dire fellatio, quasi a voler nascondere dietro la grazia remota e letteraria di un affresco pompeiano la realtà delle cose, la realtà concreta del pompino, come atto di piacere e d’amore. Di voglia. Punto. Al di là di chi lo pratica e dei sessi implicati, cioè in questione. Volendo restare in ambito storico, c’è stato un tempo in cui molti infelici, forti di una cultura da bordello, erano assolutamente convinti che quella del pompino fosse una pratica “degradante”, non a caso le prostitute, attribuendo loro un tratto razzista, erano dette e ritenute anche “pompinare”, quasi come un titolo-marchio di felice e necessaria infamia, un Collare della Santissima Annunziata ulteriore, lì a garantire le loro prerogative, la loro abiezione quasi, e tuttavia doverosa. Menzogne, tutte bugie, tutti e tutte, uomini e donne, amano i pompini: farli e averli fatti, riceverli e offrirli. Tutte sciocchezze da antichi tabù da sottoscala o refettorio cattolico concentrazionario sessuofobico che tutto ciò non sia vero. Per questa ragione le allusioni alle foto della ministra Marianna Madia che lecca un cono gelato sono innanzitutto desolanti, così come lo è altrettanto, se non di più, l’idea d’essere in presenza di una lesa maestà per il fatto stesso di avere associato quel gelato all’atto sessuale di cui sopra. Anche il manifesto di “Lolita” con la ragazza Sue Lyon che, armata di occhiali a forma di cuore, tiene tra le labbra un lecca-lecca alludeva, e tuttavia quelle immagini nella loro allusione sembravano esser lì a tracciare un ideale arcobaleno di piacere nel cielo della consapevolezza sessuale. Fa davvero specie che i volti sfigurati dei bambini morti in guerra non facciano suonare la stessa sirena dello sdegno pieno, così come invece accade con il pensiero stesso di un coito orale. Ripeto: nulla è più penoso della cultura rionale dell’allusione, dell’ammicco, del doppio senso di cui si è nutrito l’avanspettacolo del peggiore casino per decenni, forte di canzoni come “Ai romani piaceva la biga, più dinamica della lettiga” o del poema di Ifigonia e delle sue ancelle che “nell’arte di fare pompini battevano le troie di tutti i casini”, e giù con le risate, e giù a ridere ancora con la mano sul “pacco” – ma è ancor più ripugnante pensare che si debba rigorosamente arrossire o magari provare sdegno davanti a un qualcosa che appartiene all’immaginario desiderante, cioè del piacere, dunque della condivisione, poiché in nome di un sacro codice ipocrita si è ritenuto che si tratti di cose indicibili. Anni fa, ragionando nero su bianco sulla sparizione del cosiddetto 69 su un quotidiano, mi ritrovavo a constatare che quel genere di doppio scambio era pressoché svanito dal palmarès delle predilezioni condivise, al contrario, volate via le vecchie bugie sessuofobiche della cultura da bordello, la fellatio – cioè il pompino o bocchino o pompa – e chiamarli qui con il loro nome è innanzitutto un fatto politico, liberatorio, viveva invece intatto e acclamato sull’ideale tabellone luminoso delle predilezioni, dei desideri, delle voglie, per questa ragione non c’è davvero scandalo nelle immagini di Marianna Madia felice del suo gelato da leccare, così come non c’è scandalo nell’affiancare quelle stesse foto al già citato manifesto del film di Kubrick. Giù le mani!

Il mondo è una community sui social network. Nessuno comunica più fisicamente. L’anonimato sui social ci protegge. Fisicamente non ci rimane che comunicare a gesti, oppure conformarsi al politicamente corretto di sinistra o al bacchettone bigotto di destra.

Riportiamo l'opinione del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico e noto saggista, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo".

La virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della nostra vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente, e spesso ha effetti più limitanti, è quello della comunicazione fra mezzi d’informazione e pubblico, fra istituzioni e cittadini, fra cittadini e altri cittadini.

Era della comunicazione dove non comunichiamo. Questo paradosso la dice lunga e ci avverte che non si ascolta più, si parla e basta.

Leggiamo sui giornali o ascoltiamo in televisione, morto per overdose…, si uccide perché va male a scuola, bambino di tre anni ucciso in circostanze misteriose,…, figli che uccidono i genitori, madri che uccidono i figli e quel che è incredibile è che le persone si stanno abituando ai fatti negativi. Divenendo negativi essi stessi. Abitudine che potrebbe essere la punta di un iceberg, dove sotto c’è un vuoto di valori causato anche da una generazione che è riuscita a mettere in discussione tutto e il contrario di tutto.

Sono andati in crisi le istituzioni, la chiesa, la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro e siamo senza un collante per regole e certezze e la community virtuale è la nostra isola felice dove sfogarci.

Ci indaffariamo a cercare amici sui social e ad aumentarne il numero sui nostri profili per avere visibilità e proseliti, per poi scoprire che proprio amici non sono. Ostilità od indifferenza sono le loro caratteristiche. Le nostre caratteristiche, perchè loro siamo noi.

Recentemente, ci sono stati diversi casi di chiusura di account legati a minacce ed offese sui principali social network. Non ultimo, il direttore del TG di La7, Enrico Mentana, che ha deciso di cancellare il proprio profilo Twitter a causa di continui insulti. Personaggi noti, del mondo dello spettacolo e non, denunciano quasi quotidianamente questo fenomeno dilagante. Insulti gratuiti, minacce, gravi offese e istigazioni alla violenza di ogni genere. C'è un po' di tutto nei social network più famosi. Chiunque, sui social network, inserisce ciò che vuole: considerazioni su politica, personaggi dello spettacolo, link divertenti, video divertenti, fotografie, aggiornamenti di stato….

Questo popolo social ciarlante ed imperito, spesso, vuol far politica......

Il paradosso è che il potere si difende punendo questi comportamenti, con l'intento di renderci tutti conformisti.

Conformista come già cantò Giorgio Gaber

"Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista.

Sono sensibile e altruista, orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista.

Da un po' di tempo ambientalista, qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo, per carità lo dico in senso letterale.

Sono progressista, al tempo stesso liberista, antirazzista e sono molto buono, sono animalista.

Non sono più assistenzialista, ultimamente sono un po' controcorrente, son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta.

Il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa, è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani e quando ha voglia di pensare, pensa per sentito dire.

Forse da buon opportunista, si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza.

Il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza, è un animale assai comune che vive di parole da conversazione.

Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori, il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo e farsi largo galleggiando.

Il conformista, il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario, sono femminista

Son disponibile e ottimista, europeista, non alzo mai la voce, sono pacifista.

Ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone.

Il conformista aerostato evoluto, che è gonfiato dall'informazione, è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie, poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato.

Vive e questo già gli basta e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi.

Il conformista, il conformista.

Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che si vede a prima vista sono il nuovo conformista."

Non so più dove girarmi. Giornali on line e non, social network, radio, tv…Non c’è scampo: il buonismo dilaga ovunque. Un buonismo fintissimo: quello politicamente corretto.

Perché oggi, in Italia, se critichi qualsivoglia malvivente sei razzista (se è straniero). 

Sei intollerante (se è italiano). 

Sei sessista (se è un uomo e tu una donna, e viceversa). 

Sei cattivo (se è un essere umano). 

Dobbiamo essere tutti bravi, altruisti e generosi. Comprensivi, giusti e dalla mente aperta. Certo che dobbiamo! Ma non significa certo che dobbiamo anche giustificare tutto e tutti o conformaci alla cultura mediatica che va per la maggiore.

Potremmo esprimere il nostro pensiero con un linguaggio che nel gergo quotidiano è consentito, mentre se diffuso a mezzo stampa è definito scorretto?

Potremmo esprimere un'opinione, senza essere tacciati come discriminatori?

La discriminazione consiste in un trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria. Alcuni esempi di discriminazione possono essere il razzismo, il sessismo, lo specismo e l'omofobia.

L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.

Insomma, politicamente corretto significa ipocrisia.

"L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". Lo afferma Papa Francesco, nell'omelia durante la messa mattutina celebrata nella cappella della Domus Santa Marta in Vaticano, presenti fra gli altri i vertici della Rai, con la presidente Anna Maria Tarantola e il direttore generale Luigi Gubitosi. "L'ipocrisia - sottolinea il Papa, facendo riferimento alla pagina del Vangelo sulla domanda dei farisei sulla liceità del tributo da dare a Cesare - non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola, mai, ma va sempre con l'amore. Non c'è verità senza amore, l'amore è la prima verità e se non c'è amore non c'è verità". I farisei, gli ipocriti, "vogliono invece una verità schiava dei propri interessi; l'amore che c'è è quello di se stessi e a se stessi: quell'idolatria narcisista li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia". Francesco punta il dito sui falsi amici che "sembrano tanto amabili nel linguaggio", sui "corrotti che con questo linguaggio cercano di indebolirci". Infatti, "gli ipocriti che cominciano con la lusinga, con l'adulazione, finiscono cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Il nostro linguaggio - conclude il Papa - sia il parlare dei semplici, con anima di bambini, il parlare in verità dall'amore".

Il politicamente scorretto è tale, però, ad intermittenza.

Sto pensando agli epiteti che sono stati lanciati ad Andreotti sulla sua scoliosi, a Berlusconi o Brunetta per la loro altezza, Alfano per il suo viso... etc. La scusa sciocca della satira non basta: anche al sesso maschile (o femminile purchè del campo avverso) vengono riservate considerazioni sgradevoli. Vogliamo fare una carrellata che non ha scandalizzato stranamente nessuno?

"Condoleezza [Rice], con quelle guancette da impunita, è la leader maxima delle donne-scimmia" (Lidia Ravera, L'Unità, 25 ottobre 2004).

"Di sicuro [il Ministro Gelmini] non è un essere umano. Dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è" (Andrea Camilleri).

"Se dopo De Nicola, Pertini e Fanfani, ci ritroviamo con Schifani, sono terrorizzato dal dopo: le uniche forme residue di vita sono il lombrico e la muffa. Anzi, la muffa no perché è molto utile" (Marco Travaglio).

Appari politicamente scorretto, anche se non lo sei? Scatta l'invettiva, secondo l'accusa dei giornalisti, anche per frasi o comportamenti innocenti.

L'invettiva razzista. Il caso forse più noto tra quelli registrati, però, riguarda la televisione. Si tratta della vicenda che ebbe per protagonista Paolo Bonolis il quale, nel corso della trasmissione di Canale 5 “Avanti un altro” ebbe la infelice idea di travestirsi da domestico filippino e di esibirsi in una gag che scatenò la reazione indignata della comunità filippina in Italia, stufa di essere considerata alla stregua di un'associazione di camerieri e di donne di servizio. Romulo Sabio Salvador, consigliere aggiunto di Roma Capitale, a nome dei suoi connazionali scrisse una lettera indignata a Mediaset, all'Agcom e, appunto, all'Unar. E proprio a proposito di filippini. Il presidente della Sampdoria parlando con Massimo Moratii, ex presidente dell’Inter, ebbe a dire a proposito di Thohir, il suo successore all’Inter: “caccia quel filippino”, giustificandosi poi con Valerio Staffelli su Striscia La Notizia dicendo “l’ho saputo dalla televisione che era indonesiano….”.  Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha dichiarato: «Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Poba - dice inventando un nome - è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree». Tavecchio è stato punito dai media, dalla UEFA e dalla FIFA.

L'invettiva omofoba. Eziolino Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), «Prendere gol in superiorità numerica al 90’ è vergognoso, non lo accetto», ha detto a Radio Groove dopo la sconfitta di Alessandria degli amaranto, e prima di esplodere: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche» Capuano è stato crocifisso dai giornali. Ormai la lobby gay in Parlamento non solo mira ad avere un matrimonio tutto loro ed avere figli non loro, ma sulla comunicazione comune vieta ogni parola riferita alla loro condizione sessuale. Più per gli uomini. Ormai è vietato dire quelli dell'altra sponda, quelli dell'altra parrocchia e poi frocio, ricchione, finocchio, culo, culattone, culano, culatino, bucaiolo, buso o busone, bardassa o bardascia, buggerone, checca, cupio, garrusu, invertito, gay, urningo o uraniano, femminello, mezzafemmina, pederasta, sodomita, invertito, pigliainculo.

L'invettiva sessista. Il settimanale diretto da Alfonso Signorini pubblica quattro fotogrammi rubati del ministro mentre mangia un gelato con il titolo “ci sa fare con il gelato” e l'Ordine dei giornalisti apre un procedimento. "Uno schifo". "Qualcosa di disgustoso". "Spazzatura". L'indignazione, a dir poco, esplode in rete insieme a disgusto e incredulità per quattro fotogrammi rubati al ministro Marianna Madia, e messi in doppia pagina su "Chi" con un titolo volgare e ammiccante. I tweet e i post su Facebook sono migliaia. Due facciate che vengono "difese" proprio dal direttore di Chi, Alfonso Signorini, che twitta: "Calippo si e gelato no?", con l'ashtag #duepesiduemisure. Il riferimento è alle foto di Francesca Pascale apparse nel febbraio 2013. Il riferimento non è puramente casuale, anzi è chiaro e diretto al servizio pubblicato tempo fa da Oggi, gruppo Rcs, in cui venivano riproposte vecchie immagini di Francesca Pascale che mangiava un Calippo nel corso di una clip per una televisione locale. Il direttore di Chi poi, intervistato da Giorgio Mulè alla presentazione del suo libro "L’altra parte di me" nella tappa catanese del tour Panorama d’Italia, ha spiegato meglio il suo pensiero: "Chi oggi s’indigna per il titolo che ho fatto alle foto della Madia che mangia il cono gelato ha marciato per anni sul calippo della Pascale. Io aderisco a una scuola di pensiero secondo cui la malizia sta negli occhi di chi guarda e non di chi la fa, accusare me di sessismo o di persecuzione a sfondo sessuale è assurdo, per non parlare di certe campagne davvero infamanti, per usare la stessa parola che usano oggi contro di me, sulle giarrettiere della Brambilla o il calendario della Carfagna".

L'invettiva pedofila. Del resto oggi tutto ha il sapore di proibito, ma anche solo pensare di essere amorevole con i figli, ti conduce subito sulla sponda più terribile: quella dei genitori oggetto di riprovazione. È una categoria semplice, assoluta e falcidiante. Ha il potere di bloccare l'azione sul nascere, perché influisce direttamente sul pensiero: è la forza del politicamente corretto, che rovina perfino i momenti di divertimento o di affetto. È il motivo per cui non si dà più un bacio innocente o una carezza, agli adulti, così come ai bambini: passi immediatamente per un maniaco o per un pedofilo. Ecco il motivo per cui i bambini non giocano più nei cortili, non prendono più un ascensore da soli, non possono giocare a palla in riva al mare, mentre è così difficile fermare i piccoli sbandati o i delinquenti, quelli veri. Ed è molto più facile fare sentire un genitore come un criminale, che fare divertire un bambino.

L'invettiva giudiziaria. Le lacrime e la rabbia lasciano il posto alla determinazione. «Mi devono uccidere per fermarmi», dice Ilaria Cucchi all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Una vicenda che ha provocato uno strascico di polemiche su cui interviene anche il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani: «Basta gogna mediatica, non c’erano prove».

L'invettiva specista. Lo specismo è l'attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui a seconda della loro specie di appartenenza. Il termine fu coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, per calco da razzismo e sessismo, con l'intento di descrivere in particolare gli atteggiamenti umani che coinvolgono una discriminazione degli individui animali non umani, inclusa la concezione degli animali come oggetti o proprietà. Il termine viene usato comunemente nel contesto della letteratura sui diritti animali, per esempio nelle opere di Peter Singer e Tom Regan. Succede spesso di leggere sui giornali o di vedere video su youtube di incredibili salvataggi, per mano umana di animali (specialmente cani) in difficoltà. Quello che però lascia perplessi è leggere di un intervento simile proprio in un luogo come quello di Carloforte, noto per la tradizionale mattanza dei tonni. Questo salvataggio, se ci si sofferma un attimo a pensare, ha davvero dell’incredibile. Uomini che si uniscono e si impegnano con tutte le loro energie per salvare una vita da annegamento certo mentre stanno per calare le reti che spezzeranno le vite, attraverso una lenta e dolorosa sofferenza, di centinaia e centinaia di pesci. Purtroppo questo è lo specismo, che quotidianamente e ovunque nel mondo continua a dilagare ma che dobbiamo cercare di abbattere. Come per l'allevamento Green Hill, ovvero: la preoccupazione riguarda solo i cani di Green Hill, non c'è nessuna condanna delle inenarrabili crudeltà perpetrate in laboratorio su altri animali quali topi, ratti o maiali.

Era della comunicazione dove non comunichiamo. Non si ascolta più, si parla e basta....

In conclusione. Come si può non essere politicamente corretti e conformisti? Basta essere corretti e veritieri nell’espressione del pensiero. Basterebbe abbeverarsi dal sapere dei buoni maestri senza tema di smentita, pensare un attimo a quello che si dice o si scrive e non vedere cose brutte in cose estremamente innocenti!

L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da una guerra civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti. Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.

Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".

Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione. Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

LAUREATI: PRECOCI O FUORI CORSO?

Poletti: "Meglio laurearsi con voti bassi ma prima". La ricetta del ministro del Lavoro di fronte ai ritardi dell'entrata dei giovani nel mercato. E i dati confermano: solo uno su tre ottiene il titolo in meno di 5 anni (quando il limite sarebbe comunque tre), scrive Salvo Intravaia il 26 novembre 2015 su “La Repubblica”. Meglio laurearsi prima con un voto più basso che dopo con 110 e lode. E' questo il pensiero del ministero del Lavoro Giuliano Poletti intervenuto a Job&Orienta, la mostra convegno nazionale su orientamento, scuola, formazione e lavoro a Verona. Poletti è stato per la verità ancora più esplicito: "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21. Così -  ha aggiunto il ministro -  un giovane dimostra che in tre anni ha bruciato tutto e voleva arrivare". Mentre nel nostro paese, ha spiegato Poletti, "abbiamo un problema gigantesco: è il tempo. I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo". Gli studenti che girano "in tondo per prendere mezzo voto in più buttano via del tempo che vale molto molto di più di quel mezzo voto". "Noi in Italia -  ha concluso -  abbiamo in testa il voto, che non serve a niente, bisogna che rovesciamo radicalmente questo criterio, ci vuole un cambio di cultura". In Italia, in effetti, i percorsi universitari durano parecchio di più di quanto prescritto dai singoli corsi di studio. I dati ufficiali del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della ricerca mettono in evidenza che soltanto un terzo -  il 34,5 per cento -  dei laureati nei percorsi triennali del 2013/2014 è riuscito a conquistare il titolo entro i 23 anni. E basta fare due conti per comprendere che, entrando all'università a 18 o 19 anni, anche sotto i 23 dall'immatricolazione anni sono passati almeno 4 o 5 anni. Un altro terzo -  il 33,8 per cento -  di giovani italiani si laurea tra i 23 e i 24 anni e uno studente su tre consegue la laurea triennale oltre i 25 anni. Addirittura 18 studenti universitari su cento per ottenere la laurea breve impiegano oltre otto anni. Le lauree a ciclo unico -  della durata di 5 o sei anni per Medicina -  costano a studenti e famiglie parecchi anni di studio in più: solo un ragazzo su quattro riesce a laurearsi tra i 23 e i 24 anni. Quattro studenti su cento arrivano al traguardo dopo sei o otto anni -  tra i 25 e i 26 anni -  e più di un quarto a 27 anni e più. Numeri simili per le lauree specialistiche -  biennali -  che assieme alle triennali dovrebbero completare l'intero corso di studi universitario: 40 ragazzi su cento la conseguono tra i 25 e i 26 anni e 35 su cento oltre i 27 anni. L'uscita in ritardo dall'università dipende essenzialmente da tre fattori: i percorsi scolastici italiani che in parecchie nazioni europee durano un anno in meno, le scelte universitarie sbagliate che inducono gli studenti e perdere preziosi anni in cambi di facoltà e i corsi universitari che, in alcuni casi, si trasformano in veri e propri percorsi ad ostacoli irti di bocciature e esami ripetuti.

Lavoro, Poletti: “Laurea a 28 anni con 110 e lode? Non serve a niente, meglio a 21 con 97″. Il ministro ha consigliato agli studenti di fare in fretta "per non dover competere con ragazzi che hanno sei anni di meno". Poi ha bocciato il posto di lavoro fisso: "Arrivano mail all'una di notte di sabato, se sono interessanti rispondo. Il lavoro si può fare in mille posti", scrive il 26 novembre 2015 “Il Fatto Quotidiano”. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti non ha dubbi: studiare tanto e laurearsi fuori corso ma con un voto alto non premia. Meglio finire l’università in fretta. “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21“, ha detto agli studenti durante la convention di apertura di “Job&Orienta”, una mostra convegno sulla formazione e l’orientamento. Il mercato del lavoro non aspetta e “in Italia abbiamo un problema gigantesco: è il tempo”, ha sentenziato il responsabile del dicastero. “I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo”. Per Poletti i giovani dovrebbero smetterla di essere ossessionati dal “prendere mezzo voto in più”, perché così facendo buttano via del tempo prezioso che non potranno più recuperare una volta usciti dall’università: “Il voto è importante solo perché fotografa un piccolo pezzo di quello che siamo”, ha detto, ma è necessario adesso rovesciare “radicalmente questo criterio, ci vuole un cambio di cultura”. Parlando dei cambiamenti del mercato del lavoro, il ministro che ha legato il suo nome al Jobs Act e all’abolizione dell’articolo 18 ha poi criticato la visione tradizionale in base alla quale “per 20 anni si studia, per 30 si lavora e poi si va in pensione”. Così come l’identificazione di un posto fisso materiale in cui svolgere il proprio lavoro. “La storia secondo cui c’è un posto dove si va a lavorare, la fabbrica, è finita. Il lavoro non si fa in un posto: il lavoro è un’attività umana, si fa in mille posti”, ha bisogno di “creatività, consapevolezza, responsabilità, fantasia“. “Faccio spesso un esempio. Arrivano delle mail all’una di notte, se le considero interessanti rispondo. Domanda: è un sabato notte, all’una, e io sono nel mio letto; quello è definibile luogo di lavoro? Per me no, però io sto lavorando, e sto rispondendo a una mail”.

Laurearsi in fretta per lavorare prima? "Spesso non conviene". Gli esperti del mondo delle imprese: "In piena crisi economica è meglio formarsi per un posto all'altezza degli studi effettuati che non accettare il primo impiego". Ma l'età media di uscita dall'università continua a scendere, con voti più bassi. Poletti corregge: "Non ho mai pensato che i giovani italiani siano choosy o bamboccioni", scrive Federico Pace il 27 novembre 2015 su “La Repubblica”. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. "Non ho mai pensato che i giovani italiani siano choosy o bamboccioni. Anzi, ho sempre espresso e continuo a nutrire molta fiducia in loro e i tanti incontri di ieri a Verona mi hanno confermato in questa convinzione. Penso anche che laurearsi presto e con buoni voti sia un'ottima cosa". Così il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, dopo il clamore del suo intervento di ieri a Job&Orienta a Verona dove aveva dichiarato che "prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni". E' meglio laurearsi con il massimo dei voti e andare un po' fuori corso o è preferibile andare di fretta e rinunciare al bel voto? Il quesito, che contrappone due posizioni estreme, ogni tanto riemerge. Così come riemerge quello che riguarda la scelta delle scuole superiori: serve o non serve andare a studiare a un liceo classico per affrontare al meglio la società? Entrambi i quesiti sembrano rimandare, forse senza renderlo esplicito, a un altro quesito: è meglio arrivare al più presto possibile sul mercato del lavoro con le competenze che il mercato chiede in quel momento o è meglio aspettare qualcosa in più e prepararsi anche a affrontare le sfide del medio e lungo periodo? Ma partiamo dal principio. Di fatto, i giovani laureati a che età arrivano al traguardo? Secondo l'indagine di AlmaLaurea nel 2015, l'età media con cui i ragazzi e le ragazze arrivano a conseguire il titolo è pari a 26,5 anni. Nell'insieme vengono considerati sia coloro che raggiungono la laurea breve, sia quella magistrale e la specialistica. Ci sono sia i ragazzi che arrivano dalle superiori, sia quelli che conseguono il titolo anche dopo aver compiuti diversi percorsi. In particolare, quelli che riescono entro i 24 anni sono quasi la metà (il 48,6 per cento). Non sembrano pochi. Poi c'è un altro 24 per cento che ci riesce a farlo tra 25 e 26 anni. Il 27,5 per cento di loro ha 27 anni e più. Di fatto oggi, il 72 per cento dei ragazzi riesce a laurearsi entro i 26 anni. Ma a che età si laureavano i ragazzi dieci anni fa? Nel 2005, l'età media alla laurea era di 27,3 anni. In dieci anni, così, l'età media alla laurea si è abbassato di quasi un anno. Quindici anni fa, l'età media alla laurea era ancora più alta e pari a 28 anni. Nel 2002, solo il 53 per cento dei laureati riusciva a raggiungere il termine degli studi entro i 26 anni. Il calo dell'età in tutti questi anni, dicono gli esperti di AlmaLaurea è dovuto al fatto che si è ridimensionata l’età all’immatricolazione, alla diminuzione della durata legale dei corsi e alla forte riduzione del ritardo alla laurea, sceso in media da 2,9 a 1,3 anni. Ovviamente i dettagli dei singoli corsi sono molti diversi, ma nel complesso, ribadiscono i dati di AlmaLaurea, la regolarità negli studi è legata a più fattori: al background socio culturale, al percorso e alla riuscita negli studi scolastici, al gruppo disciplinare e al fatto se si lavora durante gli studi. Quanto ai voti con cui i giovani arrivano alla laurea, i dati ci restituiscono un profilo interessante. Nel 2015 il voto medio di laurea è stato pari a 102,2 mentre nel 2005 il voto medio era pari a 103. In dieci anni, quindi quasi un punto in meno. Di fatto, in questi anni, l'università non sembra stare educando i ragazzi a rimanere di più e con voti alti, ma semmai li sta spingendo a fare il contrario. Li sta spingendo a laurearsi prima, anche a costo di avere voti più bassi. Ma poi, con una laurea in tasca cosa deve fare un giovane? E' per lui meglio accettare qualsiasi lavoro o trovare la giusta mediazione? In tempi di crisi come questi, i direttori del personale suggeriscono di accettare un lavoro ove le competenze, conoscenze e capacità magari non saranno sfruttate, ma almeno si potrà entrare nell'azienda cominciando a conoscerla e farsi conoscere dall'imprenditore pure se svolgendo un ruolo non adatto a lui. Però allo stesso tempo, il 65 per cento dei direttori del personale suggeriscono che in piena crisi economica, per un giovane neolaureato, è meglio un corso di formazione che un impiego che non ha a che fare con il suo percorso formativo e di esperienza. Quindi, meglio aspettare, meglio la pazienza alla fretta. Per alcuni è opportuno raccomandare ai ragazzi di andar di fretta, fare studi tecnici semmai, e offrirsi subito al mercato con competenze chiare, nette e definite. Prendere un voto basso, prendere il primo posto e via. Il ragionamento, spesso portato avanti dai rappresentanti delle imprese, appare inappuntabile, eppure le cose sembrano più complesse. Non sempre infatti arrivare presto, con qualcosa di già pronto, non sempre presentarsi come quel che chiedono le imprese in quel momento, aiuta a fare dei passi che permettono di salire, nel modo più stabile possibile, lungo la scala del proprio percorso professionale. Molti di questi profili richiesti dalle imprese (qualcuno si ricorda i tempi della bolla di Internet?) hanno infatti il problema che le loro competenze invecchiano rapidamente e le stesse imprese, nella corsa rapida che intraprendono nella competizione con il mercato, non sempre si danno da fare per dare ai loro dipendenti gli aggiornamenti che servono. Semmai alle volte, preferiscono tornare a attingere al mercato, alle nuove risorse, a quelli che sono appena arrivati con nuove competenze nette, chiare e definite. Agli interrogativi posti non ci sono risposte inequivocabili, semmai è bene che suscitano riflessioni, anche a partire dai dati. Forse quel che sembra più importante sottolineare è che, in tempi di crisi, nonostante tutto, quelli che hanno risposto meglio alla crisi, sono stati i laureati e non i diplomati. I laureati, che pur tra crescenti e nuove difficoltà, con i loro saperi non sempre così spendibili immediatamente, godono ancora di un tasso di occupazione più elevato, di oltre 12 punti percentuali.

Poletti controcorrente: «Un 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, meglio laurearsi con 97 a 21» scrive il 26 novembre 2015 "Il Sole 24 ore". «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21». I pro e i contro dei tempi medi delle lauree nostrane portano la firma del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, un giudizio netto che ha scosso gli studenti in visita al salone “Job&Orienta”, in corso alla Fiera di Verona. E dato fuoco alla miccia delle reazioni e delle polemiche sui social. «Lui aveva risolto così il problema: non s'è laureato», ha subito twittato qualcuno, stessa linea di chi ha invece scritto «In effetti, se un perito agrario può fare il Ministro del Lavoro...». Non mancano comunque i commenti favorevoli all'uscita dell'ex presidente della Lega Coop. Sempre su Twitter, un altro utente ha commentato che «è di moda insultare i potenti di turno, e spesso se lo meritano, ma penso che #Poletti abbia detto una cosa oggettivamente vera». Il ministro «sbaglia per difetto», chiosa un altro a favore del “teorema Poletti”, perchè «nella realtà internazionale, sei già out!». Meglio laurearsi prima che dopo, ha insistito il ministro continuando nel suo ragionamento, perché «in Italia abbiamo un problema gigantesco: è il tempo. I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo». «Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più - ha insistito il ministro - si butta via del tempo che vale molto molto di più di quel mezzo voto. Noi in Italia abbiamo in testa il voto, che non serve a niente», ed è importante «solo perché fotografa un piccolo pezzo di quello che siamo». Per questo occorre «rovesciare radicalmente questo criterio, ci vuole un cambio di cultura».

Poletti Laurea, la retromarcia del ministro e il mantra dei bamboccioni, scrive il 27 novembre 2015 Guglielmo Sano su "Termometro Politico". Poletti Laurea: “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico meglio prendere un 97 a 21″ ha detto ieri il ministro del Lavoro intervenuto al Salone Job&Orienta della Fiera di Verona. Ad alcuni sono corsi dei veri e propri brividi lungo la schiena a risentire i toni della mai compianta Elsa Fornero. D’altra parte, Poletti si è difeso con una nota dove ha precisato che “non ho mai pensato che i giovani italiani siano choosy o bamboccioni; anzi ho sempre espresso e continuo a nutrire molta fiducia in loro e i tanti incontri di ieri a Verona mi hanno confermato in questa convinzione. Penso anche che laurearsi presto e con buoni voti sia un’ottima cosa”. E ci mancherebbe altro. “Le mie valutazioni – ha continuato Poletti – erano riferite all’esigenza generale che la società italiana tutta, non i giovani, si chieda se il nostro modo di pensare la relazione tra l’organizzazione sociale, il sistema formativo, il lavoro e l’impresa sia adeguato ai nostri tempi e se offra ai nostri giovani le migliori opportunità per costruirsi un buon futuro”. Ancora una volta “ambizioso” Poletti, come quando a marzo al Palazzo dei Congressi di Firenze disse che tre mesi di vacanze estive per gli studenti sono troppi. “Ho riportato, probabilmente in modo troppo crudo, le osservazioni che mi fanno quotidianamente sia le persone che si occupano di ricercare e selezionare le persone per le imprese del nostro Paese, sia molti giovani che fanno esperienze internazionali, secondo cui in Italia si esce mediamente più tardi dal sistema formativo e questo rappresenta una limitazione delle opportunità per i giovani” ha detto Poletti, difendendosi strenuamente, anche se ormai la frittata era fatta (e forse anche un pò fredda). “Ho registrato che, in qualche caso, si è ironizzato sul fatto che io non sono laureato – quindi, si è pure offeso – informo gli interessati che ho lavorato fino dall’infanzia, anche durante gli studi, e che ho interrotto l’università, dopo avere sostenuto venti esami studiando di notte. All’arrivo del secondo figlio ho scelto di dedicarmi al mio lavoro e alla mia famiglia. Una scelta che mi è pesata ma che sono felice di aver fatto perchè mi ha dato molto più di una laurea”. Che dire? Alla faccia delle competenze, delle “skills” direbbe qualcuno più in alto di Poletti. Forse è meglio tornare seri. Perché mentre gli studenti vengono bacchettati da un ministro “non laureato”, l’università italiana ha preso una batosta dall’OCSE di quelle che si ricordano finché si campa. Certo ci sono 2 buone notizie: nell’istruzione terziaria abbiamo un alto tasso di laureati di secondo livello (“Laurea” di 3 anni + “Laurea Specialistica” di 2 anni) e il 20% dei giovani italiani consegue una laurea completa al fronte del 17% della media OCSE. Come si vede dal grafico dell’OCSE, però, i giovani italiani tra i 25 e i 34 anni in possesso di una Laurea Triennale hanno molte più difficoltà rispetto agli omologhi non italiani nel trovare un lavoro in Italia. Nel 2014 solo il 61,9% di essi risultava occupato (20% in meno rispetto alla media Ocse) a fronte dell’86,1% della Francia e dell’87,8% della Germania. Si parla del 25% in meno. Altro che crisi il problema: rispetto al 72,8% del 2000 abbiamo perso quasi l’11%. A ciò si aggiunga il fatto che il tasso di occupazione scende ulteriormente per i giovani che hanno genitori non laureati e che hanno meno probabilità di accedere ad una rete di relazioni sociali (leggi “raccomandazioni”).  D’altra parte, andiamo peggio anche di Spagna e Grecia. Leggendo il grafico sopra, invece, si scopre che il tasso di disoccupazione degli italiani in possesso di un’educazione terziaria tra i 25 e i 34 anni è quasi il doppio della media OCSE. Questa volta ci salviamo rispetto a Grecia e Spagna. Almeno, nel nostro paese ci sono più occupati tra i diplomati che tra i laureati: tradizionalmente anche e soprattutto da questo dato trae origine il “mantra dei bamboccioni”. Tuttavia, questa è una caratteristica da paese in via di sviluppo non da “terza” economia d’Europa. Sì, perché quella che si vuole considerare la terza economia d’Europa per l’Università spende solo lo 0,9% del Prodotto Interno Lordo, siamo quart’ultimi tra i 34 paesi OCSE. Siamo, invece, ultimi su 34 per numero di giovani laureati. Qua entrano in gioco le parole di Poletti: ma siamo sicuri che il problema siano gli studenti e non la mancanza di interventi organici e strutturali?

Filosofia della laurea di Poletti Giuliano, perito agrario, scrive sarcasticamente Roberto Ciccarelli su “Il Manifesto” del 27 novembre 2015. Poletti Giuliano, perito agrario e ministro del lavoro, va preso sul serio quando invita a laurearsi subito con un voto da schifo o a lavorare gratis al mercato. In un paese dove gli imprenditori non sono laureati (come Poletti), e si rivalgono sui figli di nessuno, il progetto è la guerra all’intelligenza collettiva. Poletti Giuliano, perito agrario non laureato è un ministro del lavoro con le idee chiare per risolvere la disoccupazione dei laureati: “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21″ ha detto sollevando le solite polemiche. Bisogna prenderlo sul serio, Poletti Giuliano, perito agrario non laureato. Nel corso del suo mandato ha sviluppato un pensiero nel merito. «Troppi tre mesi di vacanze scolastiche — ha detto a marzo 2015 — Magari un mese potrebbe essere passato a fare formazione». «Non troverei niente di strano se un ragazzo lavorasse tre o quattro ore al giorno per un periodo preciso durante l’estate, anziché stare solo in giro per le strade». Non bisogna farsi irretire dall’immaginario di questo emiliano, cresciuto nella burocrazia imprenditoriale delle coop rosse, che coltiva l’immaginario paternalistico contro i giovani immancabilmente vagabondi, scioperati o, più elegantemente, “Choosy”. L’immaginario in questione è comune alla classe dominante. Choosy fu l’epiteto rivolto da Elsa Fornero, già ministra del lavoro nel governo Monti e docente ordinaria a Torino, contro i laureati che non scelgono un lavoro qualsiasi e, anzi, lo pretendono commisurato alle competenze maturate nel corso degli studi. “Sfigati” furono definiti i fuoricorso dal viceministro del lavoro Michel Martone, dello stesso governo. «I fuoricorso hanno un costo anche in termini sociali» aggiunse Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione coevo. Con Monti a Palazzo Chigi ci fu una violenta offensiva contro i laureati, e i giovani dai 15 ai 34 anni in generale. Il messaggio fu immediatamente recepito da un’altra docente universitaria mandata a dirigere il ministero dell’Istruzione con il governo Letta. «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita» disse Maria Chiara Carrozza. Poletti Giuliano, perito agrario non laureato, ha studiato alla scuola dei professori ordinari al governo, suoi ex colleghi, e ha trovato che il paternalismo dell’impresa cooperativa che lui ha diretto per tanti anni è diffuso ovunque, ai piani alti. A cominciare dall’università. Un classico da libro cuore. Poletti Giuliano, perito agrario non laureato, ha tuttavia una visione del mondo molto precisa. Filosofica, addirittura. “In Italia — ha sottolineato — abbiamo un problema gigantesco: è il tempo. I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo”. “Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più — ha insistito il ministro — si butta via del tempo che vale molto molto di più di quel mezzo voto. Noi in Italia abbiamo in testa il voto, non serve a niente”. Il voto è importante solo perché fotografa un piccolo pezzo di quello che siamo; bisogna che rovesciamo radicalmente questo criterio, ci vuole un cambio di cultura”. Può piacere o no, ma qui c’è una visione economica del tempo, del mercato, della subordinazione, della competizione al ribasso sul costo del lavoro. C’è un’idea di posizionamento del mercato italiano nelle parti basse o bassissime sulla scena internazionale. C’è l’idea di fare i “cinesi d’Europa”, proprio quando i cinesi progettano (da tempo) di produrre tecnologia ad alto contenuto di valore e di esportarle in Occidente. La nemesi, voluta da una classe dirigente tragicamente incosciente, ma conseguente con i tagli Gelmini a scuole e università che hanno agevolato la disoccupazione e il crollo dei laureati. Come sostiene l’Ocse qui. Lavorare subito, competere, disciplinare alle nuove regole del mercato del lavoro italiano: professionalizzare l’istruzione nei settori a basso contenuto tecnologico-relazionale e precario. Un classico in un paese arretrato, brutale, ignorante dove gli imprenditori non sono laureati (come Poletti che ha diretto Lega Coop dal 2002 al 2013 e l’Alleanza delle cooperative dal 2013 al 2014) e si rivalgono sui sottoposti, i non affiliati, i figli di nessuno. Poletti rappresenta un ceto senza formazione terziaria avanzata — gli imprenditori — che hanno dato vita a una struttura imprenditoriale a gestione familiare (il 66% contro il 36% della Spagna e il 28% della Germania), incapace di «valorizzare il capitale umano», l’innovazione del lavoro e l’internazionalizzazione dell’impresa. Più che inve­stire sul lavoro e sulla formazione, il governo sta premiando i meccanismi di reclutamento di tipo familistico che, secondo il rapporto, sono diffusi in questa tipologia di aziende. Così la mobilità sociale resta il sogno degli illusi della meritocrazia. I dati citati sono di un rapporto Almalaurea. Il problema di Poletti, e dei suoi ispiratori, è che non leggono i rapporti che pure darebbero ragione alla loro impostazione professionalizzante dell’istruzione terziaria, e in particolare del mitologema tutto italiano: l’alternanza “scuola-lavoro” come lavacro del fallimento delle riforme dell’università. Quando parla del valore del voto Poletti confonde la laurea triennale con la magistrale. Per l’Ocse l’Italia produce il 20% di minilaureati contro la media del 17%. Queste persone vanno subito a lavorare. Il problema, segnala l’Ocse, è che solo il 42% dei giovani si iscriverà ai programmi d’istruzione terziaria. Siamo terzultimi, con Lussemburgo e Messico. Cosa fanno, invece, gli studenti universitari durante gli studi? Anche qui c’è una sorpresa. Le statistiche Alma Laurea hanno evidenziato da tempo un boom di stage e tirocini (+36% dal 2004), i ragazzi lavorano, sono sempre più precari, si guadagnano da vivere, con l’aiuto dei genitori. I giovani che sono attaccati, vilipesi, umiliati lavorano prima, durante e dopo la laurea. E lavorano precariamente e con redditi bassi per non dire inesistenti. La campagna di Stato contro l’università, contro la laurea come strumento per avere uno stipendio leggermente superiore al diploma, continua. Non importa che le sue tesi siano false. Le statistiche, e addirittura la realtà non contano nulla. Dal 2008 a oggi, con i tagli, e poi con lo svuotamento di senso dell’istruzione, si persegue una precisa idea del lavoro: non pagato, sottopagato, grigio. Un lavoro da schiavi, un’istruzione irrilevante per i suoi scopi. E’ la guerra all’intelligenza collettiva. Questo è il progetto.

Perché Poletti sulla «laurea con lode a 28 anni che non serve a nulla» ha ragione, scrive il 26/11/2015 Stefania Carboni su “Giornalettismo”. Secondo il ministro prima ci si butta nel mondo del lavoro e meglio è. Secondo i dati Ocse non ha tutti i torti. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha strigliato i giovani spingendoli di più a lavorare piuttosto che a laurearsi in ritardo ma con voti eccellenti. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21», ha ribadito durante l’apertura a Veronafiere di «Job&Orienta», convegno sull’orientamento e il lavoro. «I nostri giovani – ha precisato il ministro – arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo». «Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più - ha continuato - si butta via del tempo che vale molto, molto di più di quel mezzo voto. Noi in Italia abbiamo in testa il voto, ma non serve a niente». L’opinione del ministro ha riscosso una marea di critiche sui social. Non solo perché non è laureato ma perché in molti non condividono il suo pensiero sulle eccellenti carriere universitarie. Ma quello che ha detto Poletti non è errato. In Italia, come negli altri paesi europei, i laureati hanno redditi di lavoro più alti rispetto a chi ha un livello d’istruzione inferiore. Però noi, a differenza dei colleghi Ocse, sfatiamo il mito del guadagno facile con una pergamena in mano. Anzi. Secondo il rapporto Ocse “Education at a glance” nel 2014, in Italia, solo il 17% degli adulti (fascia compresa tra 25-64enni) era titolare di una laurea. Si tratta di dati simili a paesi come Brasile, Messico e Turchia. In Italia abbiamo una minore discrepanza di salario tra un diplomato e un laureato: 143% rispetto alla media OCSE del 160%. Non solo. Leggendo il rapporto Italia e Repubblica Ceca sono tra i paesi con il tasso di occupazione più basso nei laureati rispetto ai diplomati. Nonostante ciò abbiamo tanti laureati magistrali: 20% contro una media Ocse del 17%. Il nostro Paese ha il più basso tasso d’occupazione. Nel 2014 solo il 62% dei nostri ragazzi tra i 25 e i 34 anni aveva concluso il percorso universitario e trovato impiego. Circa il 35% dei 20-24enni nel 2014 non ha trovato un lavoro, né studiato, né seguito un corso di formazione (i cosiddetti NEET: neither in employment, nor in education or training). Noi italiani abbiamo la seconda percentuale NEET più alta dei Paesi OCSE. Un aspetto però va sottolineato: la laurea rappresenta comunque un forte investimento contro la disoccupazione. Specialmente nei periodi più neri. Almalaurea ha registrato come i più colpiti dalla crisi (tra il 2007 e 2014) siano stati i neodiplomati piuttosto che i neolaureati (8,2 punti contro 16,9 punti percentuali). Sei laureati su dieci trovano impiego oggi in Italia. Il problema più grosso sta tutto nella mancata coincidenza fra il titolo di studio e le competenze richieste nel mondo del lavoro. Perché? Perché i titoli di studio “non coincidono con l’acquisizione di competenze solide, sollevando interrogativi circa la qualità dell’apprendimento”. E’ una tradizione tutta italiana ritenere che perfezionandosi di più (senza vedere attorno quello che succede) sia ancora la strada migliore. Nel 2007 secondo quanto riporta un report Istat, al momento del conseguimento del titolo di studio, il 30,2% dei laureati nei corsi lunghi e oltre il 37% dei laureati triennali lavorava. La percentuale dei secondi è però più ampia. Poletti forse intendeva dire questo. Meglio affrontare il prima possibile i classici “Ti faremo sapere” piuttosto che perfezionarsi da fuori corso: anche perché sono le competenze “sperimentate” quelle che contano.

I laureati fuori corso non si lamentino se non trovano lavoro, scrive Francesco Giubilei il 27 novembre 2015. Il Ministro Poletti ha ragione: “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21″, laurearsi fuori corso con anni di ritardo non serve. In un periodo storico in cui trovare lavoro per i giovani nel nostro paese è sempre più difficile, non ci possiamo permettere il lusso di perdere tempo prezioso “parcheggiati” nelle università, soprattutto se pubbliche, in cui ogni studente costituisce un costo elevato per lo stato. Mettendomi nei panni di un datore di lavoro che riceve sul proprio tavolo i curricula dei candidati, è normale che prediligerei il profilo di un laureato nei tempi stabiliti piuttosto che un fuori corso, soprattutto se in facoltà nemmeno troppo complesse o impegnative. Eppure in molti casi un laureato a 28-29 anni che si confronta per la prima volta con il mondo del lavoro, quando i suoi coetanei lavorano già da quattro-cinque anni, e ha difficoltà a trovare un impiego, non si fa un esame di coscienza chiedendosi se, forse, il suo percorso scolastico non sia poi stato così soddisfacente. Vivendo in un periodo storico complesso e difficile, non ci possiamo permettere di fornire alibi o scusanti, dobbiamo presentarci al meglio delle nostre possibilità e, essersi laureati con tre-quattro anni di ritardo e magari nel frattempo non aver realizzato nessuna esperienza lavorativa, non è il massimo che si possa offrire a un potenziale datore di lavoro in cerca di nuove figure da assumere. Eppure il sistema universitario italiano, notoriamente non meritocratico, non punisce con la severità necessario i fuori corsi che, se si eccettua una minoranza che ha avuto reali problemi personali, familiari o di salute, sono in realtà nella stragrande maggioranza dei casi studenti svogliati o che si sono poco applicati. Si assiste così a situazioni assurde come nella regione Lazio dove vengono addirittura assegnate borse di studio a studenti fuori corso di un anno e chi si laurea con un anno di anticipo, invece di essere premiato, deve invece pagare una tassa aggiuntiva. Siamo all’assurdo. Altresì è vero che il Ministro Poletti predica bene ma razzola male poiché non è nemmeno laureato. Sarà che mi è sempre stato insegnato di parlare solo di ciò che conosco ma, se fossi uno studente fuoricorso – e non lo sono mai stato -, la predica dal Ministro non la accetterei. Ma siamo in Italia dove il Ministro della Sanità ha un diploma al Liceo Classico e non ha terminato gli studi universitari quindi tutto ci è concesso.

Poletti: «Meglio laurearsi con 97 a ventun anni». Certo, ma anche in quel caso la laurea è un investimento a perdere, scrive Francesco Cancellato il 26 Novembre 2015 su “L’Inkiesta”. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21». Parole sante, quelle del ministro del lavoro Giuliano Poletti rivolte agli studenti. Peccato però, che si sia fermato lì, nella sua analisi. Perché i dati del rapporto Ocse ,Education at a Glance 2015, cui Linkiesta ha dedicato un ampio commento dell'ottimo Thomas Manfredi, raccontano qualcosa di più. Ad esempio, che anche laurearsi con 97 a ventun anni non è che sia un grande affare, visto che il tasso di occupazione dei nostri laureati - tutti i laureati - è di venti punti più basso a quello di Francia e Germania e inferiore addirittura rispetto a quello greco. O, ancora, che l'Italia è uno dei pochi Paesi europei - anzi, l'unico tra i Paesi sviluppati - in cui il tasso di occupazione dei diplomati è più alto di quello dei laureati. O, di nuovo, uno dei pochi Paesi in cui essere giovani vuol dire avere salari quasi sicuramente più bassi rispetto a quelli di un lavoratore anziano, nonostante si ripeta a ogni convegno che oggi è più importante possedere saperi innovativi, anziché avere una grande esperienza. Insomma, se Poletti non si fosse fermato lì, a quella piccola verità da genitore infastidito dal figlio fuoricorso, forse avrebbe compreso che il problema è anche un po' suo. Perché se in Italia avere una laurea - e tantomeno un voto alto di laurea, cosa che peraltro avviene quasi sempre: il voto medio di una laurea magistrale in Italia, Paese di geni, evidentemente, è di 107,5 - non vale nulla, è colpa anche di un mercato del lavoro che non premia la conoscenza. Che attrae soltanto figure sotto-istruite e sotto-qualificate. Che dà scarso peso e altrettanta importanza ai saperi innovativi. E che quando glieli dà, li sottopaga. Probabilmente ha ragione, ministro Poletti. I giovani italiani sono dei bamboccioni che amano i libri e rifuggono quanto più possibile il lavoro. Però, d'altro canto, è anche vero che - a torto o a ragione - il mercato del lavoro che rifugge quanto più possibile i laureati. E questo non è un problema dei fuoricorso, ma di chi governa il Paese.

Poletti, la laurea e la fiera dell’ovvio, scrive Alessandro Zorco il novembre 27, 2015. È meglio laurearsi con un voto più basso a 21 anni che laurearsi con 110 e lode a 28. Da due giorni questa frase del ministro del Lavoro Giuliano Poletti campeggia su tutte le homepage e le prime pagine dei giornali cartacei. Con il suo simpatico accento emiliano Poletti – in linea con il filone paternalistico nazional-popolare inaugurato qualche anno fa dai tecnici del governo Monti – ricorda ai ragazzi italiani che è meglio laurearsi a 21 anni piuttosto che a 28. In sostanza, per dirla alla Max Catalano (il compianto opinionista di Quelli della Notte, il programma cult di Renzo Arbore): è meglio un uovo oggi che una gallina domani. Il simpatico ministro Poletti ricorda un po’ il sottosegretario all’Economia del Governo Monti, Gianfranco Polillo. Ve lo ricordate? Era quello che aveva detto che gli italiani fanno troppe ferie e non sono abbastanza produttivi. D’altronde qualche mese fa anche il buon ministro Poletti, percorrendo lo stesso filone, aveva detto che per i ragazzi delle scuole tre mesi di vacanza sono troppi. Li viziano. Non sia mai che diventino schizzinosi: choosy, come li appellava un altro ministro del lavoro cult che passerà alla storia per le sue riforme, Elsa Fornero. Il festival della generalizzazione era iniziato con le dichiarazioni del viceministro dell’era Monti Michel Martone che, appena insediato, aveva detto che “laurearsi a 28 anni è da sfigati”. Il ministro Poletti non ha fatto altro che ribadire questo concetto e in pratica, seppur con altre parole, a Verona ha spiegato ai ragazzi che laurearsi a 28 anni è da sfigati anche se fai un grande exploit e prendi 110 e lode con il bacio accademico. Perchè negli altri paesi europei, dove evidentemente i corsi di laurea sono più snelli, i ragazzi riescono ad uscire prima dalle università. E dunque anche a trovare prima un posto di lavoro. Ma, probabilmente il ministro Poletti non ne è a conoscenza, l’università italiana è diversa dalle altre università europee. La nostra università, salvo sporadiche eccellenze, è completamente staccata dal mondo del lavoro. È il mondo delle idee, una realtà puramente accademica, peraltro spesso gestita purtroppo in modo baronale, dove gli studenti sono l’ultimo pensiero, non il primo. È una realtà fatta esclusivamente di grossi tomi da studiare che nella maggior parte dei casi non serviranno a nulla nella vita lavorativa. Certo, un foglio di carta ottenuto a 28 anni rischia di essere assolutamente inutile, su questo il ministro Poletti ha perfettamente ragione. Ma questo perchè è crollato il mito della laurea a tutti i costi che ci hanno fatto respirare da ragazzini. L’Italia è piena di laureati che escono dalle facoltà universitarie senza aver fatto un minimo di pratica nel loro settore. Non sanno fare nulla. Sono imbottiti esclusivamente di teorie che inevitabilmente dopo poco tempo si dimenticano. Probabilmente, più che prendersi una laurea, oggi per un ragazzo volenteroso è molto meglio imparare almeno un mestiere che gli consenta di vivere. Provi però ad immaginare il ministro Poletti un’università più snella e meno medievale. Un’università dove alla teoria viene affiancata anche la pratica. Dove i giovani studiano, ma con la concreta prospettiva di poter fare il lavoro che hanno scelto. Sicuramente in quel caso negli Atenei italiani ci sarebbero meno studenti parcheggiati e demotivati. E provi il ministro Poletti anche ad ipotizzare un’altra cosa: un mercato del lavoro più equo e meritocratico dove le opportunità sono distribuite a tutti e non solo a quelli che hanno la raccomandazione più forte. In quel caso probabilmente ci sarebbero meno neet, i giovani che non studiano, non fanno formazione e non lavorano. Non hanno alcuna speranza di mettere a frutto la loro esistenza. La verità è che tutti parlano di riforme ma tutto rimane sempre fermo. E rimane fermo perché forse non tutti quelli che parlano hanno il reale interesse a creare sviluppo e opportunità. Ma tranquilli. Tra un po’, alla fiera dell’ovvio, arriverà qualche altro ministro del lavoro che ci dirà: “Alt, fermi tutti. È meglio un bel lavoro ben retribuito che un lavoro di merda con un salario da fame”. E tutti i giornali lo riporteranno con tanto di titoloni. Francamente per sentire delle banalità proferite con saccenza preferivo di gran lunga ascoltare Max Catalano a Quelli della notte. Almeno faceva ridere.

POLETTI: LA LAUREA SERVE SOLAMENTE A CHI NON CE L’HA! Di Antonio Maria Rinaldi del 27 novembre 2015. Il Ministro del Lavoro del governo Renzi, Giuliano Poletti, non contento di essersi aggiudicato lo scorso luglio l’ambito “Premio Supercazzola” dallo staff di Scenari Economici in forza della nota affermazione “LA DISOCCUPAZIONE CRESCE PERCHE’ C’E’ LA RIPRESA”, ritorna prepotentemente agli onori della cronaca con un’altra perla: “LAUREARSI CON 110 e LODE A 28 ANNI NON SERVE A UN FICO, E’ MEGLIO PRENDERE 97 A 21”. Premesso che attualmente in Italia, grazie proprio all’inettitudine di una classe politica di cui lo stesso Poletti fa parte, i giovani sia a 21 come a 28 anni, indipendentemente dal voto ottenuto alla laurea, non riescono ad avere nessun accesso al mondo del lavoro, la persona che ricopre la poltrona nel fondamentale dicastero del lavoro ignora completamente quale sia la situazione delle Università italiane e la realtà in cui convivono centinaia di migliaia di studenti. Ma d’altronde non possiamo meravigliarci più di tanto visto che tali affermazioni provengono da chi ha conseguito nella vita il diploma di perito agrario e che pertanto difficilmente può comprendere i meccanismi e le dinamiche a cui sono sottoposti gli studenti nel loro percorso universitario. Non tutti coloro i quali si iscrivono a qualsiasi corso di laurea hanno la fortuna di avere dietro le spalle una famiglia che gli permette di potersi dedicare completamente allo studio per tre, quattro, cinque se non addirittura sette anni, senza nessun problema o preoccupazioni per il proprio mantenimento. La mia personale esperienza si confronta quotidianamente sempre più con situazioni in cui gli studenti debbono provvedere anche al proprio sostentamento, cercando ogni mezzo possibile per “sbarcare il lunario” accettando qualsiasi tipo di lavoro, il più delle volte in nero e sottopagato, pur di avere la possibilità di potersi autosostenere e completare gli studi. Non tutti sono “figli di papà” o “bamboccioni”!!! Anzi noto che la “grinta” e la voglia di studiare è sempre più forte negli studenti c.d. “lavoratori” e se poi impiegano qualche anno in più per terminare il corso di laurea francamente poco conta. Il mondo del lavoro richiede personale sempre più preparato e specializzato non chi si presenta con un pezzo di carta in mano ma con due anni di età in meno! Il Rettore dell’Università in cui mi laureai negli anni ’70, il grandissimo prof. Rosario Romeo, ripeteva spesso che “la laurea serve solo a chi non ce l’ha”, ed aveva perfettamente ragione, come aveva perfettamente ragione (anche se l’ho capito molto più tardi!) quando nel congratularsi con me dopo il conseguimento della laurea mi disse: “Bravo, ma sappi che ora la tua laurea vale tre zeri. Arriverà un giorno, forse fra cinque, dieci o vent’anni, in cui riuscirai a mettere finalmente un uno davanti e allora varrà mille”! Ed io ora aggiungo che non conta neanche a quanti anni o con quale voto riesci a conseguire una laurea, ma come riesci poi ad utilizzarla e dalle opportunità che riuscirai a cogliere. Insomma per Poletti all’Università vale la regola del “meglio un uovo oggi che una gallina domani” ed è pertanto preferibile, secondo la sua logica, non studiare troppo per conseguire alti voti ma sbrigarsi subito a qualsiasi costo pur di prendere il tanto desiderato “pezzo di carta”. Abbiamo invece bisogno del contrario, cioè non di tanti giovani forti solo della laurea in tasca, ma soprattutto di laureati, anche con qualche anno in più, ma con la migliore preparazione possibile. Ma questo lo può solamente sapere chi si è laureato veramente (anche oltre i trent’anni!)  magari senza la tranquillità del portafogli di papà e mamma. Vuoi vedere che anche per il mese di novembre Poletti riesce ad aggiudicarsi il Premio Supercazzola di Scenari Economici? Antonio M. Rinaldi

Poletti e Merkel, due opposte visioni su studio e lavoro: laurearsi in fretta o laurearsi bene? Di Veronica De Romanis, Economista. La visione del ministro Poletti ("Ragazzi prendere alla laurea 110 a 28 anni non vale un fico: meglio prendere 97 a 21 anni") rivela una visione della società, della scuola e dell'economia completamente opposta a quella della Cancelliera Merkel che va nelle scuole tedesche esortando gli studenti a "puntare sull'eccellenza" - Chi ha ragione? “Ragazzi prendere alla laurea 110 a 28 anni non vale un fico. Meglio prendere 97 a 21 anni” questo il messaggio che il Ministro del lavoro Luciano Poletti ha voluto lasciare - ieri a Verona - agli studenti delle scuole superiori. Di tutt’altro genere è, invece, il messaggio che regolarmente la cancelliera Angela Merkel lascia agli studenti tedeschi quando, - e non avviene di rado -, va a far visita alle scuole in Germania: “cari studenti puntate all’eccellenza negli studi”. C’è da chiedersi cosa spieghi la differenza tra un messaggio che suggerisce di accontentarsi della “mediocrità” - da raggiungere “velocemente” però -, e ad un altro che mira “al massimo dei voti”. Forse non è solo che il ministro Poletti si è semplicemente diplomato mentre la Cancelliera Merkel si è laureata con lode e ha poi conseguito un dottorato in fisica quantistica. Dietro queste dichiarazioni, ci sono probabilmente due visioni un pò diverse della società, del modello di sviluppo dell’economia e, in particolare, del sistema educativo diametralmente opposte. Ma, soprattutto, di realtà del mondo lavorativo profondamente diverse. Le statistiche pubblicate in questi giorni dall’Ocse (Education at a Glance 2015) evidenziano che l’Italia è il paese i cui i laureati hanno meno probabilità di trovare un lavoro (dietro di noi solo la Grecia). Solo il 62 per cento di chi ha conseguito una laurea nel 2014 ha trovato un’occupazione, rispetto all’83 per cento della media dell’Ocse. Ma non è finita qui. L’altro dato che dovrebbe far riflettere e che l’Italia, insieme alla Repubblica Ceca, è l’unico paese tra quelli sviluppati che “vanta” un tasso di occupazione dei laureati nella fascia di età 25-34 anni inferiore a quello dei diplomati della stessa fascia di età (rispettivamente 62 e 63 per cento contro la media Ocse pari a 82 e 75 per cento). Tra i motivi che possono spiegare queste tendenze potrebbe esserci proprio il fattore “tempo”. In effetti, il Ministro Poletti non ha torto quando sostiene che “prima si entra nel mercato del lavoro meglio è”. Quello che sfugge, però, è come si possa pensare che la soluzione per ridurre il tasso di disoccupazione dei laureati in Italia sia quella di consigliare loro di laurearsi con voti mediocri. Per entrare “prima” nel mercato del lavoro basterebbe introdurre una serie di cambiamenti già presenti nella stragrande maggioranza dei paesi europei. In primo luogo, riducendo a quattro gli anni del ciclo delle scuole superiori. L’Italia è uno dei pochi paesi rimasti in Europa a far diplomare i propri studenti all’età di diciannove anni. In secondo luogo, facilitando (sia dal punto di vista normativo che finanziario) l’accesso a stage professionali durante le vacanze estive, come avviene all’estero dove si comincia già a partire dall’età di quindici anni. Si tratta di esperienze lavorative che, seppur brevi, possono rivelarsi preziose nell’orientare la scelta del percorso universitario, evitando così di intraprendere strade sbagliate che comportano perdite di tempo. In terzo luogo, rafforzando l’alternanza scuola lavoro, in modo da facilitare l’entrata nel mondo del lavoro e limitare il numero di chi si iscrive all’università senza alcuna reale motivazione ma solo perché non riesce a trovare un impiego. Da questo punto di vista, il governo ha fatto passi in avanti, ma i cento milioni per ora stanziati sono ben lontani dai due miliardi che vengono spesi annualmente per il sistema duale dal governo tedesco. Oltre al fattore tempo, un altro motivo che spiega il basso tasso di occupazione dei laureati italiani è la scarsa qualità dell’insegnamento universitario. I risultati di diversi test sulla capacità di adulti laureati di risolvere un problema o sintetizzare delle informazioni collocano l’Italia, insieme alla Spagna e l’Irlanda, in fondo alla classifica dei paesi Ocse. Date queste condizioni, prendere voti mediocri -pur di far presto -, come suggerisce il Ministro, non aiuterebbe a trovare un’occupazione. Anzi, rischierebbe di ridurre ancor di più le possibilità di un giovane laureato. Forse il Ministro Poletti non dovrebbe trarre troppe conclusioni generali dalla sua esperienza personale, che rappresenta più un “caso fortunato” che un “modello” da suggerire a milioni di ragazzi in cerca di lavoro. 

Poletti e l’università del “si salvi chi può”, scrive Rosa Fioravante. Fonte: huffingtonpost.it. Sostiene Giuliano Poletti, Ministro del lavoro e delle politiche sociali del Governo Renzi, già noto alle cronache per l’esortazione a far lavorare gratis d’estate i propri figli, che sia meglio laurearsi a 21 anni con un voto mediocre che non a 28 con 110 e lode. Tralasciando che il Ministro ignori l’ordinamento scolastico italiano che impedisce di laurearsi a 21 anni, a meno che non si sia fatta la “primina”, e supponendo che il ministro si riferisca a tutti quegli studenti fuori corso per “deliberata scelta” – cioè non costretti a causa di disagio economico, problemi di salute, necessità di assistenza alla famiglia e così via -,  l’affermazione rimane comunque più propria del registro dei luoghi comuni intorno al mondo del Sapere e del Lavoro, che non un’affermazione idonea ad un esponente del Governo; figuriamoci del titolare del dicastero che dovrebbe non dormir la notte perseguitato dai dati ISTAT, dalle parole di Tito Boeri e dalla cruda realtà di un’intera generazione a spasso. Purtroppo per il Ministro, proprio pochi giorni prima della sua infelice battuta, l’OCSE ha pubbicato Education at Glance 2015, studio condotto sui 34 paesi membri che dimostra in un colpo solo che l’Italia ha il più basso tasso di occupazione fra i laureati, non investe a sufficienza nell’istruzione superiore e ha gli insegnanti più anziani dei paesi analizzati. Insomma, non sembra affatto colpa dei giovani “lazzaroni” o “choosy” (come li chiamava una illustre predecessora di Poletti) se non c’è feeling fra mondo del lavoro e dell’istruzione. Il registro dei luoghi comuni pare però esser frequentato anche da quegli stessi giovanissimi oggetto della riflessione: ne è perfetto esempio l’intervento di Francesco Giubilei sul suo blog all’interno del sito de il Giornale, nel quale lancia strali indignati contro i propri coetanei fuori corso non adeguatamente puniti dal sistema accademico. Certo, se anche si accantonassero per un momento i problemi di un sistema di potere pubblico iper-corporativo, di politiche di spesa pubblica o riduzione della stessa mal gestite, della diffusa cultura clientelare e para-mafiosa della quasi totalità della classe dirigente e dei quadri intermedi di istituzioni pubbliche e private del bel paese, se anche si chiudesse un occhio sui tagli sempre più pesanti al finanziamento degli atenei, sul trattamento di dileggio riservato alla categoria degli insegnanti e degli intellettuali dall’opinione pubblica e dal ceto politico, sul problema morale ed economico costituito dalla burocratizzazione di ogni settore produttivo, spesso a copertura di un altrettanto diffuso affarismo, ecco, anche al netto della considerazione di questi “piccoli” problemi che potrebbero essere più rilevanti nel soffocare le chances di successo della nostra generazione, prendersela con i fuoricorso non sembra comunque opportuno. Come spesso accade infatti, la dichiarazione era volta a mettere gli uni contro gli altri coloro che soffrono gli stessi mali ma in forme diverse, così da celare il vero “nemico”; non stupisce che Giubilei ci sia cascato, e con lui tanti altri coinvolti nella consueta “guerra fra poveri”. Tornando al Ministro, la retorica di chi, dall’alto della propria poltrona conquistata con anni di attività all’interno di un sistema di potere cresciuto all’ombra della politica e titolato a fare il perito agrario (e davvero, la mancanza di qualifica è l’ultimo dei problemi), diventa ogni giorno più insopportabile. Poletti infatti non sostiene solo le sue perle di saggezza, ma fa anche parte di un Governo che ha archiviato con il Jobs Act una volta per tutte lo statuto dei lavoratori. Appartiene al Governo sempre applaudito da Confindustria, che si ispira a Sergio Marchionne (sì, proprio il manager contro le cui misure recentemente hanno votato i lavoratori statunitensi), che è stato superato a sinistra pure da Flavio Briatore. In sintesi, Poletti – il Compagno Poletti – sostiene un Governo che crede che il problema dell’Italia siano le ferie pagate, i contributi versati, l’impossibilità di licenziare un dipendente per motivi politici o religiosi o perché una donna è rimasta incinta. Ignorando che a prescindere dal voto di laurea e dagli anni impiegati per conseguirlo, sul mercato del lavoro siano richiesti solo schiavi. Perché questo è quello che si è, quando l’unica opzione che si ha è accettare uno stage a 50 ore lavorative settimanali e 400 euro al mese. Schiavi molto qualificati, dato che son richiesti solo laureati in tempo e col massimo dei voti che sappiano tre lingue, abbiano esperienza all’estero, e possibilmente già lavorato. Insomma, Poletti, come tanti altri privilegiati, si ostina a spiegare a chi sconta sulle proprie spalle la peggiore crisi economica, dopo quella del ’29, cosa sta sbagliando. Curiosamente, questo elenco di consigli non richiesti comprende sempre il suggerimento di rinunciare ad un pezzetto della propria dignità. Perché la gran parte del ceto politico non può dire di aver abdicato alla propria bevendosi tutte le favole della globalizzazione di mercato, della deregolamentazione della finanza e della liberalizzazione del mercato del lavoro; non può dirlo perché altrimenti dovrebbe ammettere che sono loro i primi responsabili della crisi del 2008, solo loro che hanno dimenticato che dovrebbero rispondere a chi li vota e non a chi li finanzia, e se lavoro non ce n’è né per chi si laurea a 20 o 30 anni, né con 90 né con 110, è perché, quando la ricchezza si polarizza fra un 1% di ricchissimi e un 99% di poveri e classe media che si impoverisce, l’economia non cresce. Quello che Poletti voleva dire davvero, va letto fra le righe ed è: «si salvi chi può». Tuttavia, non si vive di sola retorica e propaganda. Presto o tardi in molti capiranno che gli unici che si salvano davvero sono coloro che dicono «NO» a questo sistema politico ed economico che li marginalizza, e che bisogna negare il consenso a chi chiede di continuare a cedere diritti in cambio di favole che non si avverano mai. Bisogna dire no a chi pensa di rivedere il mondo del Sapere per adattarlo ad un mondo del lavoro così meschino senza considerare di fare piuttosto viceversa. I tanti che oggi pensano di dire «no» lo fanno cercando rifugio nella retorica razzista di Matteo Salvini, o in quella fintamente “anti-casta” dei Cinque Stelle. Fortunatamente per il nostro Ministro, chi decide di andare ad ingrossare le fila di questi due populismi sbaglia il bersaglio polemico, che non possono essere né gli immigrati né i politici, considerati razza a sé stante. Se i nostri studenti davvero capissero cosa li tiene in scacco e si organizzassero per “dire di no”, quell’1% di ricchi privilegiati sarebbe irrimediabilmente nudo, e con esso tutti i suoi più affezionati difensori, non ultimo il signor Poletti.

Lettera aperta del Dr. Antonio Giangrande, scrittore e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS.

«Il Ministro Poletti, come il viceministro Martone provoca i fuori corso universitari: "Se a quell'età sei ancora all'università sei uno sfigato". Hanno ragione, eppure finiscono alla gogna. Polemiche pretestuose sulla frase da chi ha la coda di paglia. Michel Martone, viceministro del Lavoro secondo il quale un 28enne non ancora laureato è spesso "uno sfigato". Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.»

L’Associazione Contro Tutte le Mafie consiglia ai candidati bocciati ad un concorso pubblico di chiedere copia dei propri elaborati e il verbale di correzione. Probabilmente troveranno i compiti immacolati e risulterà che il tempo, intercorso tra l’apertura e la chiusura della sessione diviso i compiti corretti, essere di pochi minuti: insufficiente per effettuare l’apertura della busta, lettura, correzione, commento e consultazione dei commissari, giudizio e verbalizzazione. Ciò prova che si è dichiarato il falso nell'attestare che il compito è stato corretto e si è commesso un abuso nel dichiararlo non idoneo. A questo punto si consiglia di presentare una denuncia penale contro i nominativi della commissione correttrice e, contro l’insabbiamento, con la postilla di essere informati della richiesta di archiviazione per presentare opposizione. Contestualmente va presentato ricorso al Tar. Tutto ciò dovrebbe portare all’abilitazione e al risarcimento del danno.

Il dr Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”, presenta il “Dossier sui concorsi pubblici truccati”.

Esso è il frutto di anni di ricerche ed approfondimenti su un sistema che sforna la nostra classe dirigente, e per questo, dai risultati che ottiene, la medesima dimostra la propria inadeguatezza.

Antonio Giangrande lo fa in occasione della prova scritta del concorso forense, che si tiene presso la Corte d’Appello, come ogni anno a metà dicembre, e in relazione alla riforma che imprime maggiori tutele alla lobby, stilata in Parlamento da chi si è abilitato con un sistema truccato.

Lo fa in seguito alla missiva del Governo del 5 ottobre 2009, in risposta alla sua richiesta di intervento per la tutela dei diritti soggettivi su un caso concreto: “esistono concorsi irregolari e violazione della tutela giudiziaria. Provvederemo”. Intervento mai arrivato.

«Nessuno come me conosce il fenomeno ed ha il coraggio di parlarne. Ho partecipato ad un concorso in polizia da incensurato e da parà. - testimonia Giangrande - Ho superato brillantemente i test scritti e le prove psico-fisiche-attitudinali: ero tra i primi, ma altri mi hanno preceduto, estromettendomi dal numero chiuso. Lo stesso dicasi per il concorso di autista dei mezzi speciali del Ministero della Giustizia. Ho partecipato ad un concorso per comandante dei vigili urbani. Lo ha vinto, precedendomi, chi l’aveva indetto e regolato, da comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale, trattenendo rapporti professionali con i commissari d’esame. Per aver pubblicato le sue motivazioni sulla stampa di tutto il mondo, sono stato denunciato per diffamazione dal Pubblico Ministero che aveva archiviato il mio esposto penale. Per anni (a due cifre) ho partecipato al concorso forense. Ho visto abilitarsi tanta gente inetta. Ho visto tante illegalità e le ho sempre denunciate. Ho pagato per questo. Il mio nome è conosciuto da tutte le commissioni d'esame ed inserito nella loro lista nera».

IGNORANTI E LAUREATI. COLPA DELLA SCUOLA? APPELLO DEI GENITORI: NON BOCCIATE I NOSTRI FIGLI.

Appello dei genitori agli insegnanti: "Non bocciate i nostri figli". Lettera a tutti gli istituti della provincia di Modena: "Bravi alle medie, disastrosi dopo. La colpa è della scuola", scrive Davide Berti su  “L’Espresso”. Si parla di Buona Scuola, gli scrutini si fermano, sale la tensione per chi ha gli esami, qualcuno ha concluso percorsi formativi, magari particolari e interessanti, con docenti appassionati. La scuola è anche questo. Poi ci sono i genitori, che nei giorni scorsi hanno preso una iniziativa che mai a Modena si era vista, forse segno dei tempi. Il coordinamento provinciale dei presidenti dei consigli di circolo, di istituto e i comitati genitori di Modena - vale a dire i genitori eletti nelle scuole e quindi rappresentanti delle famiglie modenesi - hanno scritto una lettera aperta ai docenti, ai consigli di istituto delle scuole secondarie di secondo grado della provincia, indirizzandola in modo particolare agli insegnanti delle classi prime. Motivo? Una sorta di clemenza per gli scrutini del primo anno delle superiori, che rappresentano da sempre uno degli sbarramenti più severi del percorso scolastico. Colpa delle medie troppo larghe o delle superiori troppo severe? Per i genitori la colpa è della scuola in generale. Iniziativa quanto meno curiosa: «Nei prossimi giorni - scrivono i genitori agli insegnanti - sarete chiamati al difficile e delicato compito di valutare i nostri ragazzi e di decidere sul loro futuro. Conoscendovi ed apprezzando la vostra competenza, preparazione, capacità e serietà siamo certi che saprete farlo con grande attenzione. Ci permettiamo solamente di rivolgervi un accalorato invito a riflettere sulla situazione dei ragazzi delle prime superiori. Nella scuola italiana il momento più arduo e complesso è certamente il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori. I dati dimostrano come, alla fine del ciclo triennale delle scuole secondarie di primo grado, colleghi altrettanto bravi, preparati e coscienziosi come voi “licenziano” i nostri ragazzi in misura elevatissima: all’esame di terza media la percentuale dei promossi sfiora il 99 per cento, la metà di loro con punteggi superiori al sette. I dati dimostrano che dopo soli 12 mesi gli stessi ragazzi, forse per una mutazione genetica intervenuta, hanno risultati disastrosi alla fine della prima superiore, soprattutto negli indirizzi di scuola “apparentemente più facili”, tecnici e professionali». Poi una sottolineatura: «Diciamolo, c’è qualcosa che non va. Non nei ragazzi, non nelle loro famiglie, ma nel funzionamento della scuola italiana. I ragazzi e le famiglie pagano però le conseguenze, a volte anche molto pesanti in termini di dispersione scolastica, di questa situazione. Come associazione Coordinamento Provinciale Consigli di Circolo d’Istituto e Comitati Genitori, non abbiamo soluzioni pronte, formule magiche da proporre. Non chiediamo il “6 politico”, la promozione per tutti. Sarebbe un’ingiustizia ancora maggiore per i nostri ragazzi. Vi invitiamo semplicemente a riflettere su questa situazione nella convinzione che la vostra sensibilità, la vostra preparazione, la vostra professionalità vi aiuteranno a trovare la soluzione migliore per i nostri ragazzi». È una richiesta che parla da sola...

il commento su la rubrica "Non volevo fare la prof" di Mariangela Galatea Vaglio su “L’Espresso”. I genitori di Modena e la scuola media che non va. A Modena i genitori eletti nei consigli di circolo (quindi non dei genitori qualsiasi, i genitori che rappresentano la componente dei genitori nelle istituzioni scolastiche) hanno scritto a tutte le scuole della Provincia, chiedendo ai professori delle prime di "essere clementi": i loro figli, dicono, sono usciti dalle medie con punteggi buoni, ma poi in prima superiore non arrivano al sei. Di chi sarà mai la colpa? Per i genitori è chiaro: della scuola. "Ci permettiamo solamente di rivolgervi un accalorato invito a riflettere sulla situazione dei ragazzi delle prime superiori. Nella scuola italiana il momento più arduo e complesso è certamente il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori. I dati dimostrano come, alla fine del ciclo triennale delle scuole secondarie di primo grado, colleghi altrettanto bravi, preparati e coscienziosi come voi “licenziano” i nostri ragazzi in misura elevatissima: all’esame di terza media la percentuale dei promossi sfiora il 99 per cento, la metà di loro con punteggi superiori al sette. I dati dimostrano che dopo soli 12 mesi gli stessi ragazzi, forse per una mutazione genetica intervenuta, hanno risultati disastrosi alla fine della prima superiore, soprattutto negli indirizzi di scuola “apparentemente più facili”, tecnici e professionali. Diciamolo, c’è qualcosa che non va. Non nei ragazzi, non nelle loro famiglie, ma nel funzionamento della scuola italiana. I ragazzi e le famiglie pagano però le conseguenze, a volte anche molto pesanti in termini di dispersione scolastica, di questa situazione. Come associazione Coordinamento Provinciale Consigli di Circolo d’Istituto e Comitati Genitori, non abbiamo soluzioni pronte, formule magiche da proporre. Non chiediamo il “6 politico”, la promozione per tutti. Sarebbe un’ingiustizia ancora maggiore per i nostri ragazzi. Vi invitiamo semplicemente a riflettere su questa situazione nella convinzione che la vostra sensibilità, la vostra preparazione, la vostra professionalità vi aiuteranno a trovare la soluzione migliore per i nostri ragazzi." Ora, che si deve rispondere ad una lettera come questa? Per un insegnante, sbottare sarebbe facilissimo, e anche con fondati motivi. Perché non è chiaro poi esattamente cosa richiedano i genitori con il loro accorato appello: il sei politico no, lo dicono esplicitamente. Però non vogliono che i figlioli siano bocciati. Siamo dalle parti della botte piena e la moglie ubriaca: con tutta la buona volontà anche la mente più agile non riesce a trovare soluzione a questo paradosso. Tanto è vero che anche i genitori non suggeriscono strategie: dicono ai professori "pensateci voi", come i se poveri insegnanti fossero delle specie di geni della lampada, dotati di poteri miracolosi. Intendiamoci: la situazione descritta dalla lettera è reale, e spesso noi delle medie patiamo la difficoltà di trovare un coordinamento più stretto con i colleghi delle superiori, cosa difficile non per cattiva volontà ma perché l'ordinamento scolastico odierno non lo prevede e non esistono in pratica spazi e tempi di confronto. E' vero che ogni anno escono dalle medie quasi tutti. Agli esami di terza è rarissimo il caso di qualcuno che non sia ammesso ed ancor più raro quello di qualcuno che sia bocciato. E fra tanti alcuni ragazzi escono anche avendo avuto una sufficienza che è un vero e proprio regalo. I professori delle medie sono dunque troppo di "manica larga"? Be', non sempre: come al solito le dinamiche di certi voti andrebbero spiegate meglio perché spesso e volentieri il percorso della valutazione non è compreso appieno né dal genitore né dalla società in generale. Premettiamo una cosa: se alle medie si boccia sempre meno, anzi quasi nulla, è dovuto al fatto che la società nel suo complesso ha ormai deciso che la bocciatura alle medie e in tutta la scuola dell'obbligo è inaccettabile, e reagisce piccatissima quando qualcuno non viene promosso. Il Consiglio di Classe ed il Dirigente Scolastico che si azzardino a bocciare un alunno si ritrovano nel migliore dei casi ad affrontare genitori imbufaliti che si presentano in Presidenza minacciando azioni legali, anzi spesso le minacciano addirittura ad anno ancora in corso, come forma di pressione preventiva. Ma questo passi, è almeno comprensibile: a nessuno piace vedere il figlio bocciato. Meno comprensibile è che ormai i genitori si presentino con l'avvocato al seguito ed il ricorso già scritto anche se il ragazzo viene promosso, ma con un voto che non è quello sperato. A chi non è dentro al mondo della scuola sembrerà una follia, ma a luglio non si contano i padri e le madri che arrivano infuriati perché il figlio ha avuto solo sette o solo otto, come il compagno di banco che loro non sopportano, e giudicano questa un'onta da lavare con il sangue, o per lo meno in qualche aula di tribunale. Quindi non stupiamoci se alcuni voti in uscita sono magari "generosi" più del dovuto: alla prospettiva di ritrovarsi in grane legali per anni perché si è dato sei invece di sette molti, semplicemente, risolvono la questione alzando le medie, consapevoli che poi, appena il ragazzo arriverà alle superiori, la vita farà giustizia. Vi è poi un problema di fondo, meno noto ma decisivo. I giudizi delle medie e delle superiori sono basati su criteri differenti. Alle medie avendo a che fare con ragazzi più piccoli di età, il voto della singola materia tiene conto di tutta una serie di variabili. Noi, in pratica, non valutiamo in maniera secca e semplice solo quello che l'alunno ha imparato, ma teniamo conto anche del percorso complessivo che ha fatto in un periodo così delicato come è il passaggio tra l'infanzia e l'adolescenza. Per cui ragazzini che magari hanno qualche lacuna nella preparazione specifica vengono però licenziati con la sufficienza e anche di più perché teniamo conto della loro partecipazione, della loro capacità di impegnarsi, socializzare in classe, dimostrarsi disponibili e presenti. Non avendo per giunta la possibilità di rimandare a settembre come alle superiori l'alternativa è secca: o si boccia a giugno o si promuove. E così chi ha magari alcune materie lacunose viene mandato avanti, anche perché fermarlo e bloccarlo per un anno quando  sappiamo che ha comunque fatto tutto il possibile e più di tanto non può dare sarebbe un atto di ingiustificata e soprattutto inutile crudeltà. Va anche detto che noi delle medie nei consigli orientativi per le superiori spesso segnaliamo questo fatto, cercando di indirizzare i ragazzi nel tipo di istituto e addirittura nella scuola specifica dove sappiamo che potranno riuscire meglio. La terminologia usata dai genitori nella lettera, che definisce "più facili" le scuole tecniche o professionali, fa un po' rabbrividire: in realtà non esistono "scuole più facili" e tecnici e professionali, anzi, sono scuole molto impegnative. Gran parte dei fallimenti sono imputabili, dati alla mano, al fatto che le famiglie e gli alunni spesso non seguono il consiglio orientativo dato dagli insegnanti, oppure, peggio ancora, danno per scontato, appunto, che un tecnico o un professionale siano scuole "facili" in cui non sono richiesti studio ed impegno serrato. Da qui molto spesso nasce l'esito disastroso del primo anno. Quindi, onestamente, io non so bene cosa rispondere ai genitori di Modena. Se non una cosa: dire a prescindere che la colpa non è dei ragazzi né delle famiglie, ma della scuola e basta non è solo ingeneroso, ma anche poco logico. Dall'uscita dalle medie, pure con un voto alto e non del tutto ingiustificato, alla bocciatura in prima superiore è passato un anno. Durante il quale un ragazzo, se si impegna, è in grado di recuperare da solo le lacune più gravi, anche in più materie. Se non viene rimandato settembre ma proprio bocciato sì, è vero, c'è sicuramente qualcosa che non va. Ma non solo ed esclusivamente nella scuola media che l'ha licenziato l'anno prima, ecco.

Gli universitari? Non sanno l'italiano. Troppi strafalcioni anche tra i laureandi: all'Università di Pisa nasce il corso di grammatica base, scrive Giampaolo Iacobini su  "Il Giornale”. Gli italiani non conoscono l'italiano. E nelle università arrivano i corsi di grammatica. La strada l'ha aperta la facoltà di Giurisprudenza di Pisa: dal prossimo anno accademico sarà attivo, con frequenza obbligatoria, un corso in cui si studieranno apostrofi, accenti, verbi. Troppi gli studenti che, a un passo dalla laurea, ricordano a memoria i codici ma poi, quando si mettono alla tastiera, nonostante il correttore automatico ne scrivono di cotte e di crude, affogando in un mare di «qual'è», di «pò» ed «eccezzioni» varie, tra i flutti del «se tu non ci fossi la mia vita non esistesse». Già lo scorso ottobre un monitoraggio web effettuato dalla piazza digitale Liberiamo su un campione di 5mila utenti di blog, forum e community aveva fatto scattare l'allarme: il 73 per cento degli intervistati litigava quotidianamente con l'apostrofo. Il 68 per cento manifestava incomprensioni (probabilmente reciproche) con l'accento. Il 61 alzava bandiera bianca di fronte al congiuntivo. Dati del resto già anticipati dalle rilevazioni promosse dall'Ocse per valutare il livello di istruzione degli adolescenti: il 20 per cento mostrava disagio con la lingua madre. Con i ragazzi del Meridione a precedere i loro coetanei del Nord nella classifica degli orrori. Percentuali che, secondo il Centro europeo dell'educazione, addirittura peggiorano in coda agli studi universitari. Col 21per cento dei laureati incapace di andare oltre il livello minimo di decifrazione di un testo. «I nostri studenti non conoscono le lingue, compreso l'italiano», ammoniva che era il 2012 l'allora ministro Elsa Fornero. Probabilmente, l'unica analisi non sballata della sua parentesi ministeriale, che non ha però inciso più di tanto sulla definizione d'un problema che neppure il governo dei professori, ironia della sorte, è riuscito a risolvere. E oggi, mentre un altro governo propone una riforma che punta a cambiare i modelli organizzativi scolastici senza intervenire sui nodi educativi, negli atenei ci si arrangia. Spiega Eleonora Sirsi, docente che Pisa curerà il corso di grammatica per gli iscritti a Giurisprudenza: «I giovani hanno difficoltà grammaticali e sintattiche. E sempre più di frequente capita di imbattersi in errori di grammatica sorprendenti, punteggiatura a caso, frasi senza soggetto, incidentali che non si concludono». Colpa «del buonismo degli insegnanti e della qualità dell'insegnamento di base», a detta del linguista (ed ex ministro della pubblica istruzione) Tullio De Mauro, e forse pure del web e dei social forum, anche se una corrente di pensiero, cui appartiene ad esempio lo storico della lingua Luca Serianni, valuta positivamente il contributo delle tecnologie. Di certo all'ombra della torre pendente si è deciso di non indugiare oltre e di seguire le indicazioni venute da uno staff composto, tra gli altri, da Francesco Sabatini, già presidente e ora presidente onorario dell'Accademia della Crusca. Obiettivo? «Non migliorare lo stile, ma imparare a scrivere e parlare correttamente in italiano», taglia corto la Sirsi. Perché se per un punto Martin perse la cappa, per un congiuntivo sbagliato o un accento mal posto si può ancora perdere la faccia, e non solo quella.

...E PROMOZIONE PER TUTTI SIA!

Alle elementari e alle medie tutti promossi per legge. Da quest'anno basterà un solo professore contrario alla bocciatura e l'alunno sarà ammesso alla classe successiva. Scuole obbligate a organizzare corsi di recupero. Altra novità della Buona Scuola: il test Invalsi non inciderà sul voto finale dell'esame di terza, scrive Salvo Intravaia il 30 agosto 2017 su "La Repubblica". Bocciature "abolite" per decreto alle elementari e medie, nuovi esami e test Invalsi rivoluzionati in terza media. L'anno scolastico ormai alle porte si apre con una serie di novità introdotte dalla Buona scuola che riguardano i bambini della primaria e i ragazzini della scuola media. Per la scuola superiore occorrerà attendere ancora 12 mesi prima di vedere gli effetti della legge 107. Il governo Renzi e il suo successore Gentiloni, che ha approvato le deleghe della riforma Renzi/Giannini, hanno dichiarato guerra alle bocciature: l'Italia è una delle nazioni europee con la dispersione scolastica più alta. Alle elementari si potrà bocciare solo in caso di abbandono dell'anno scolastico o per le troppe assenze. Una situazione che riguarda una fascia marginale di alunni: tre su mille in prima elementare e uno su mille nelle altre quattro classi della primaria. In pratica, non si potrà bocciare per il profitto. "Le alunne e gli alunni della scuola primaria sono ammessi alla classe successiva e alla prima classe di scuola secondaria di primo grado anche in presenza di livelli di apprendimento parzialmente raggiunti o in via di prima acquisizione", recita il decreto legislativo 62 dello scorso mese di aprile. Nei casi di promozione "agevolata", le scuole dovranno attivare "specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento". La bocciatura sarà possibile sono se tutti gli insegnanti del consiglio di classe saranno d'accordo: "Solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione", spiega la norma. Basterà un solo parere contrario per fare scattare la promozione ope legis. Novità anche per le prove Invasi. Oltre ai consueti test di Italiano e Matematica, in seconda e quinta, in quest'ultima classe i bambini verranno sottoposti a una ulteriore prova di Inglese. Anche alla scuola media la promozione diventerà la regola generale: "Le alunne e gli alunni della scuola secondaria di primo grado sono ammessi alla classe successiva e all'esame conclusivo del primo ciclo", prevede il decreto legislativo sulla Valutazione. Tranne i casi di gravi infrazioni disciplinari e nei casi di "parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline". Situazioni in cui "il consiglio di classe può deliberare" la bocciatura ma con adeguata motivazione. Anche in questo caso potrà scattare la promozione in presenza di insufficienze in una o più discipline, a patto che le scuole avviino percorsi di supporto per colmare le lacune. Le prove Invalsi, che da qualche anno si svolgono solo in terza media, non saranno più in concomitanza con gli esami conclusivi e non incideranno più sul voto finale. Si svolgeranno entro il mese di aprile, saranno effettuate al computer - computer-based - e contempleranno anche una prova di Inglese. Così come avverrà alla scuola elementare, tutta la fase di spoglio delle schede e di caricamento al computer degli esiti degli Invalsi sarà a carico degli insegnanti, come "attività ordinaria d'istituto". E la partecipazione alle stesse costituirà requisito di ammissione agli esami. Dopo anni di polemiche e dibattiti, l'esame di licenza media verrà semplificato: solo tre prove scritte - Italiano, Matematica e Lingue straniere - e un colloquio. Per gli indirizzi musicali, durante lo stesso colloquio, è prevista una prova pratica relativa allo strumento studiato. Alla media, più che le risultanze degli esami, la Buona scuola premierà la carriera scolastica. Il voto finale sarà espresso in decimi - con eventuale lode - e scaturirà dalla media tra il voto di ammissione e la media dei voti delle prove d'esame. E a presiedere gli esami sarà lo stesso dirigente scolastico dell'istituto in cui si svolgo gli esami. Niente più presidente esterno.

Scuola, vietato bocciare alle elementari e alle medie. SCUOLA TUTTI PROMOSSI. Scuole: studenti promossi a elementari e medie per legge. Ecco i 2 solo casi di bocciatura, scrive "Affari Italiani" il 30 agosto 2017. Scuola, addio studenti bocciati. Tutti promossi a scuola. Tra le novità introdotte dalla riforma del governo, la Buona Scuola, ha praticamente abolito la bocciatura sia alle scuole elementari sia alle scuole medie. Il provvedimento che cancella le bocciature a scuola almeno nelle intenzioni, dovrebbe porre un freno all’altissimo numero di alunni vittime di dispersione scolastica. L’Italia è una delle nazioni con il più alto tasso di dispersione scolastica che si registri in tutta Europa. Si cerca di cambiare il trend evitando nuovi studenti bocciati.

Addio bocciature per scarso rendimento scolastico. Con la riforma della Buona Scuola, un alunno delle elementari o delle medie potrà essere bocciato solo in caso di abbandono dell’anno scolastico o per le troppe assenze fatte registrare. Casi rari: le statistiche dicono che sono tre alunni ogni mille in prima elementare e un alunno ogni mille nei restanti quattro anni scolastici. Sono gli unici due motivi per bocciare gli alunni. Tradotto: addio bocciature per scarso rendimento scolastico.

Il compito delle scuole. E gli alunni che superano l’anno scolastico pur con carenze e deficit evidenti? Le scuole dovranno mettere a disposizione specifiche strategie per colmare queste situazioni. La bocciatura potrebbe comunque essere possibile qualora tutti gli insegnanti del consiglio di classe siano d’accordo e solo qualora vi siano casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione. Basta che uno degli insegnanti non sia d’accordo sulla bocciatura e l’alunno dovrà essere promosso. Ha senso non bocciare gli studenti di scarso rendimento? Quesito che dividerà gli italiani.

Le scuole medie. Passando alle scuole medie gli alunni potranno essere bocciati in caso di grave infrazione disciplinare o nel caso di parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più materie (bocciatura sempre giustificata con adeguata motivazione).

«Giusto bocciare alle elementari». Il governo non vuole il divieto. Via libera alle norme per attuare la riforma. «Si deve ripetere solo in casi eccezionali». La preside: il problema sono i voti troppo alti, scriveva il 14 gennaio 2017 Claudia Voltattorni su "Il Corriere della Sera”. È giusto bocciare alla scuola elementare? Sì, devono aver pensato ieri mattina in Consiglio dei ministri dove il tema è stato al centro di un mini-dibattito durante la discussione sulle 8 delle 9 deleghe della Buona scuola portate a Palazzo Chigi dalla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. L’esecutivo ha dato il via libera a 8 dei 9 decreti attuativi che rappresentano un po’ il «secondo tempo» della riforma (rimasto fuori solo quello sulla revisione sul Testo unico della scuola: ci sarà un disegno di legge ad hoc). E parlando della delega sulla valutazione degli studenti (dal 2018 novità per l’esame di terza media e la maturità), l’agenzia Ansa racconta che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto di inserire il divieto di bocciatura degli alunni alle elementari, «un peso che resta tutta la vita». Contraria la ministra Fedeli che invece ha eliminato il divieto inserito originariamente nella prima stesura della delega. Però ha previsto che «l’alunno possa essere non ammesso solo in casi eccezionali e comprovati». «Ma questo è un falso problema: da anni la bocciatura alla scuola primaria è un caso più unico che raro e, se prevista, è concordata con la famiglia, proprio nell’interesse del minore», dice Wilma De Pieri, preside dell’Istituto comprensivo Armando Diaz di Meda (Monza). In effetti, ormai quasi la totalità degli alunni viene ammessa alla classe successiva, nonostante non tutti a volte lo meritino. Ma, spiega la dirigente, «bocciare un bambino quasi mai porta a qualcosa di buono, anzi, spesso sfocia in comportamenti da bullo verso i più piccoli». D’altronde, Maria Montessori e don Lorenzo Milani hanno sempre considerato la bocciatura un’assurdità («la scuola non deve spingere fuori») e pure l’Ocse la definisce «dannosa» perché «chi deve ripetere di solito non recupera» e ha «un costo elevato per il Paese». Piuttosto, sottolinea la preside De Pieri, «è la valutazione il vero nodo: alle elementari c’è un appiattimento generale con bimbi inchiodati su 9 e 10, con lo choc dopo i primi 6 delle medie». Ma «la scuola deve premiare il merito, altrimenti il motto diventa “l’importante è partecipare”»

Scuola dell’obbligo, da quest’anno vietato bocciare. Lettera di Mario Bocola su Orizonte scuola del 30 agosto 2017. È stata messa al bando la bocciatura e la promozione si acquisisce ormai ope legis. Si tratta della promozione per legge quella che traspare dalla lettura attenta di una delle otto deleghe della “Buona Scuola” varate dal governo Gentiloni che entreranno pienamente in vigore dall’anno scolastico che sta per cominciare. Lo spirito della delega sulla valutazione degli apprendimenti degli alunni della scuola primaria e della scuola secondaria di I grado è quello, scricto sensu, di dichiarare guerra aperta alle bocciature. Alla scuola primaria la bocciatura è consentita soltanto in caso di numerose assenze o nel caso di abbandono della frequenza della scuola.

Per il profitto si deve essere promossi. L’art. 62 del decreto delega recita infatti che “le alunne e gli alunni della scuola primaria sono ammessi alla classe successiva e alla prima classe della scuola secondaria di I grado anche in presenza di livelli di apprendimento parzialmente raggiunti o in via di prima acquisizione”. Tradotto in parole povere: se un alunno presenta numerose insufficienze e non ha raggiunto pienamente gli obiettivi prefissati può essere promosso, tanto li raggiungerà sine die. Quindi promozione assicurata per legge. Però le scuole dovranno in questo caso attivare “specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento”. Escamotage per dire chiaramente all’alunno: noi ti promuoviamo ma tu dopo devi impegnarti per colmare le lacune. Come per la scuola primaria, dove fino ad ora la bocciatura era considerata un tabù, anche per la scuola media la situazione sarà identica. Infatti in questo segmento di scuola dell’obbligo bocciare diventerà quasi un peccato mortale. Infatti, sempre lo stesso decreto delega sulla valutazione prevede che “le alunne e gli alunni della scuola secondaria di I grado sono ammessi alla classe successiva e all’esame conclusivo del primo ciclo tranne in casi di gravi infrazioni disciplinari e nei casi di parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline”. Anche in siffatto caso l’alunno ottiene la promozione nelle discipline in cui presenta insufficienze, a patto che le scuole organizzino percorsi per colmare le lacune. Ma l’alunno pensa: tanto mi hanno promosso, il prossimo anno studio il minimo sindacale tanto mi promuovono lo stesso. È un messaggio aberrante quello che la scuola invia agli alunni e alle famiglie, perché poi le famiglie vogliono che i propri figli vengano promossi. La bocciatura viene vista come una punizione inflitta all’alunno non come occasione di prendere consapevolezza di non aver studiato per un intero anno scolastico. Ad avvalorare ancor di più il clima di maggiore tendenza a promuovere tutti sono i Dirigenti Scolastici che mantengono sempre un atteggiamento favorevole nei riguardi degli studenti grazie ad una linea di condotta che va quasi sempre nella direzione di “aiutare” l’alunno che presenta numerose insufficienze tributandogli la magica frase: “diamogli fiducia promuovendolo”. Questo perché subentrano numerosi fattori ragioneristici, cioè la formazione delle classi, la salvaguardia delle cattedre per non parlare dei benefici economici e degli standard ministeriali che ciascuna istituzione scolastica ottiene se trasmette al MIUR un quadro molto positivo delle promozioni ottenute a conclusione dell’anno scolastico che vanno a premiare l’azione del Dirigente in termine di iscrizioni. Allora che senso ha promuovere tutti se vogliamo puntare verso una scuola di qualità?; così andiamo inevitabilmente verso il basso provocando un livellamento dell’istruzione. Che tipo di società potremo aspettarci in futuro se tutti ottengono la promozione? Sono tutti bravi? No, bisogna fare dei distinguo. Allora l’alunno sempre impegnato, attento, diligente lo andiamo a mortificare, a squalificare, perché poi dirà: l’anno prossimo studio il minimo, tanto vengo promosso alla stessa stregua di chi non studia. Stiamo attenti e vigili perché sulla pelle degli insegnanti scorre la linfa che farà germogliare la futura classe dirigente di questo sgangherato Paese!

TITOLATI SI’, TITOLATI NO!

Essere o avere: questo è il dilemma!

“Quando sento parlare Salvini mi rendo conto di quanti libri non ha letto, dei film che non ha visto, delle canzoni che non ha ascoltato. Basta sentirlo parlare per capire che è un fuoricorso che non si è laureato, nonostante gli sforzi“. Lo ha detto il leader di Ncd, Angelino Alfano, intervenendo alla convention del partito, di fatto proseguendo quello che è ormai un lungo “botta e risposta” fra lui e il segretario della Lega Nord.

Alfano a Salvini: "Io sono laureato e tu no". Quando lo scontro politico passa dai titoli. Il ministro dell'Interno usa la laurea per attaccare il segretario leghista. Ma scorda che nel suo governo in tre sono senza laurea. E riapre il calderone dei complicati rapporti tra i politici e i titoli di studio mancanti, inventati, presi in ritardo e messi in dubbio, scrive Susanna Turco su “l’Espresso”. In un’altra giornataccia delle sue, pur di trovare un argomento da lanciare contro il leader leghista Matteo Salvini, Angelino Alfano, capo dell’Ncd, l’ha buttata sul titolo di studio: “Basta ascoltare Salvini e si capisce perché è un fuori corso. Uno che non si è nemmeno laureato nonostante i notevoli sforzi”, ha detto. Con il che simpaticamente apparendo nello stesso tempo fuorimoda e d’una certa età. Non che, persino in politica, una laurea sia carta straccia s’intende. Ma, senza stare a scomodare Platone, è appena il caso di notare che in questo periodo i titoli di studio in politica non vanno per la maggiore: non tanto perché al governo ci sono tre ministri senza laurea. Ma soprattutto perché la memoria dell’era Monti, il governo non solo dei laureati, ma addirittura dei professori, sta andando a scatafascio, tra penose esperienze politiche e tragici lasciti di esodati e di pensionati da risarcire. A dimostrazione, una volta di più, di quanto non sia affatto scontato che il sapere tecnico vada a braccetto con l’arte politica, o perfino col fare le leggi. E per di più risfodera, Alfano, un argomento più vecchio persino dell’età che porta. L’idea cioè che la laurea sia un discrimine, la controprova di essere entrati in un campo di ottimati: roba che rimanda al mondo dei padri, più che a quello dei figli, per i quali la laurea può anche non darsi, ma comunque è una conquista relativa visto che non basta più, da sola, a fare la differenza. Non per caso, alle ultime politiche Beppe Grillo andava urlando ai quattro venti che il “più scemo” dei suoi candidati, mediamente giovanissimi, aveva per lo meno “una laurea e un master”: precisando, peraltro, che “Non contano solo questi titoli”, ma anche per esempio, l’esser madre di tre figli, con tutta la “esperienza ad amministrare” che ciò comporta. Né è da dimenticarsi che una delle ultime polemiche di governo sui laureati aveva il segno inverso: “Se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato”, fu la celeberrima gaffe con la quale Michel Martone, giovane professore e sottosegretario al lavoro, oltre ad attirarsi un mare di simpatie, chiarì a suo modo cosa la laurea è diventata (per chi può permettersela): il prodromo a un master. L’orgoglio di rivendicarla capita invece per lo più a politici di una certa età. Esibire il titolo di studio che si ha, o che magari nemmeno si ha. Come fu il “grave errore dovuto a un complesso di inferiorità” di Oscar Giannino, giornalista economico, la cui esperienza politica fu appunto devastata nel 2013 dalla mancanza della sua propria asserita doppia laurea in Legge e in Economia (per non parlare del master a Chicago): il suo Fare per Fermare il declino, dopo quella vicenda, fu travolto al punto che le cronache riportano di come, dopo la tragedia, il capolista in Umbria Eugenio Guarducci girasse per la campagna elettorale portandosi appresso, tipo vessillo sacro, la sua laurea in architettura, con tanto di cornice dorata, prontamente staccata da una parete del corridoio di casa. Ecco, perché poi le più roventi polemiche del tipo “io sono laureato e tu no”, paiono appartenere in effetti ad un’altra stagione, ad altri uomini. In un Parlamento composto per due terzi da dottori in qualcosa (419 su 630 alla Camera, 210 su 315 al Senato) che Renzi sia laureato, come Angelino Alfano e Mara Carfagna, importa poco. Che non lo siano Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, Andrea Orlando, ministro della Giustizia, o Matteo Orfini, presidente Pd, importa altrettanto. E invece, giusto a proposito di Guardasigilli, c’è traccia di un piccato botta e risposta che Piero Fassino, da ministro della Giustizia, ebbe con il leghista Roberto Castelli, che peraltro sarebbe stato il suo successore a via Arenula: “Fassino ha fatto il classico come me, ma io sono laureato e lui no”. “Non è vero, mi sono laureato in scienze politiche con 110 e lode”. “E in che anno?”. “Nel 1998, a Torino”. “Ah, dunque ha studiato mentre faceva il sottosegretario agli Esteri…”. Insomma si arrivò a un passo da quel che fece poi Pier Luigi Bersani: pubblicare su Facebook la copia del suo libretto universitario (tutti 30, 30 e lode, un 28), dopo che da ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini gli aveva dato dello “studente ripetente”. Andando più indietro, c’è traccia di un comprensivo Clemente Mastella (“ho grande rispetto per chi ha studiato all’università della vita”) che tuttavia a Porta a porta chiarisce “io la laurea ce l’ho”, o di uno sdegnoso Pier Ferdinando Casini, che a un comizio precisa: “Mi chiami pure dottore, sono laureato a Bologna”. C’è l’affondo del forzista Francesco Giro contro Rutelli, che a un certo punto s’era detto pronto a fare “un corso di aggiornamento a Berlusconi”: “Lezioni di storia da Francesco Rutelli che non è stato capace di portare a termine i propri studi universitari di architettura? Sarebbe ridicolo”. In effetti è stato proprio Berlusconi l’uomo più affezionato al genere: il che forse spiega perché adesso Alfano ritiri fuori quell’argomento. Nel 2001 il Cavaliere ne fece un pezzo della propria campagna elettorale: “Quelli dell’Ulivo non sono neanche laureati”, andava dicendo. Fregandosene per esempio che Bossi fosse solo diplomato perito tecnico elettronico alla scuola Radio Elettra, che Marco Follini e Maurizio Gasparri fossero fermi alla maturità classica, a quella scientifica Francesco Storace e Gianni Alemanno (che poi si è laureato, da ministro, nel 2003), a quella linguistica Stefania Prestigiacomo (laurea triennale nel 2006). Tanto, di là, c’erano tra i non laureati appunto Rutelli, candidato premier, ma anche Massimo D’Alema (fermo a prima della tesi alla Normale di Pisa), Walter Veltroni e pure Fausto Bertinotti (perito industriale). Negli anni, ritrovandoselo poi come competitor nel 2008, Berlusconi se l’è presa soprattutto con Veltroni, definito “l’innovatore che invece di laurearsi si è diplomato in fiction”, colui che “dovrebbe prendersi una laurea visto che l’unica che ha è quella delle insolenze e delle menzogne”, quello da chiamare in caso di bisogno: “Lei signora fa l’attrice?”, chiese il Cavaliere a un incontro di partito, “allora si deve fare assumere da Veltroni. E’ lui che ha il diploma in cinematografia, io sono semplicemente un laureato con 110 su 110. Non può venire da me”, gigioneggiò il Cavaliere. Quel che è emerso poi, tra serate eleganti e bunga bunga, certo chiarisce da sé il peso sgocciolato di tali prese di posizione. Ma tant’è. Contro Berlusconi, il leader Idv Antonio Di Pietro intentò addirittura un processo per diffamazione, dopo che l’allora premier aveva detto, in un comizio a Viterbo, che l’ex pm di mani pulite “si era preso la laurea coi servizi segreti”. Un’onta che di Pietro ha continuato a citare, negli anni, come dimostrazione di tutte le menzogne berlusconiane: e che si è lavata in via definitiva solo di recente, quando l’ex magistrato ha accettato un risarcimento in denaro in cambio del ritiro della querela (ignoto il peso del gruzzolo). “E comunque il suo ex sodale Bettino Craxi non era laureato” resta in ogni caso a tutt’oggi la più chiara spiegazione di quanto a Di Pietro bruciasse l’accusa. A conti fatti, mentre per esempio nel centrosinistra si ha un atteggiamento molto noblesse (salvo adontarsi parecchio se i titoli vengono messi in dubbio, si sta sul: “Le esperienze maturate sul lavoro e nel volontariato valgono per lui molto di più anche delle mie due lauree”, come disse una volta Giuliano Pisapia) è proprio nella Lega che la faccenda risulta più problematica, faticosa da digerire. In questo, prendendo in giro Salvini, Alfano coglie qualcosa di vero. E se ora il leader leghista pur masticando amaro per i suoi cinque esami mancanti a Lettere spiega che “visti i risultati della Fornero sul lavoro, sono contento di non essermi laureato”, c’è da ricordare che Bossi all’inizio della sua attività politica (e persino alla prima moglie) fece credere d’essersi laureato. Mentre poi, anche degli studi del figlio Renzo talvolta accennò, prima che il Carroccio fosse travolto dalle inchieste sull’uso familista dei fondi del partito, dalle quali emerse una fantomatica laurea di Bossi junior conseguita in Albania. “Non ne so niente”, si difese Renzo. Così come fece anche la leghista Rosy Mauro, smentendo d’aver preso una laurea all’estero a spese della Lega con una argomentazione squisita: “Io ero asina a scuola, non mi ha mai neppure sfiorato l’idea di iscrivermi ad una università”. Va tuttavia detto che, nel mare delle lauree ad honorem che le università usano conferire ai politici (laureati e non), proprio Bossi è pressoché l’unico ad averla rifiutata: “Una laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni a me? Sono stupidaggini. Avrei potuto fare il medico, invece ho scelto la Lega”. Almeno l’orgoglio, bontà sua.

Laurea e concorso pubblico “taroccati”. Guai per il fratello di Angelino Alfano, scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. La squadra mobile di Palermo sequestra i documenti relativi alla nomina di Alessandro Alfano a segretario generale della Camera di Commercio di Trapani. L'ipotesi è che non avesse i titoli richiesti. Il caso si aggiunge all'inchiesta aperta sull'università del capoluogo siciliano. Laurea in economia e commercio fasulla e concorso pubblico per diventare segretario generale della Camera di Commercio di Trapani taroccato. E’ la pesante ipotesi accusatoria che gli inquirenti sollevano nei confronti di Alessandro Alfano, fratello minore di Angelino, segretario del Pdl. Ieri gli agenti della sezione reati contro la pubblica amministrazione della squadra mobile di Palermo sono entrati negli uffici della Camera di Commercio trapanese per sequestrare il fascicolo del concorso vinto da Alfano junior nel 2010. E proprio stamattina il fratello dell’ex Guardasigilli si è dimesso dall’incarico al vertice della Camera di Commercio di Trapani. All’inizio di dicembre Alfano era già finito tra i trenta indagati nell’inchiesta sugli esami comprati all’università di Palermo. L’indagine, che è coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Amelia Luise e Sergio Demontis, ha preso il via proprio nel capoluogo siciliano. Per l’esattezza negli uffici di segreteria della facoltà di Economia e Commercio. Dove conseguire la laurea era diventato semplicissimo. Bastava pagare, ovviamente in contanti, un’ impiegata della segreteria che in cambio inseriva nel database informatico dell’università esami mai sostenuti. E la laurea tanto agognata arrivava senza troppa fatica. L’indagine interna all’ateneo aveva già allontanato la dipendente infedele che aveva confermato di aver inserito nel sistema informatico esami fantasma in cambio di denaro. Adesso però l’inchiesta della magistratura sta cercando di far luce sui complici della segretaria corrotta e soprattutto sui corruttori. Ovvero gli studenti che acquistavano gli esami anziché studiare e sostenerli come tutti gli altri. E nella rete della procura palermitana è finito anche Alessandro Alfano, laureato nel 2009 alla triennale d’Economia e Commercio, quando aveva già compiuto 34 anni. Dal 2006 però, quando ancora non aveva conseguito il titolo di studio, Alfano era stato nominato segretario generale di Unioncamere Sicilia. Nel 2010 poi, dopo essersi finalmente laureato, il salto di qualità al vertice della Camera di Commercio di Trapani. Ben prima che si tenesse il regolare concorso pubblico, però, un esposto anonimo aveva incredibilmente predetto la vittoria del fratello dell’ex Ministro della Giustizia nella corsa alla segreteria generale. Nell’esposto si faceva anche riferimento al curriculum di Alfano Junior, tecnicamente insufficiente dato che il fratello del segretario del Pdl non avrebbe avuto alle spalle i cinque anni richiesti di esperienza dirigenziale, requisito fondamentale per partecipare alla corsa di segretario generale della Camera di Commercio trapanese. Adesso il fascicolo del concorso è al vaglio degl’inquirenti. Che stanno anche cercando di capire quali esami Alessandro Alfano avrebbe sostenuto all’università e quali invece figurerebbero nel suo piano di studi, senza che sia presente in archivio alcuna copia del verbale o dello statino. Alfano junior ostenta serenità : “Le mie dimissioni – ha spiegato – sono un atto di rispetto nei confronti di chi indaga e della Camera di commercio di Trapani affinché questa vicenda non abbia ripercussioni sull’attività svolta dallo stesso ente. Non voglio che questa vicenda si possa prestare a strumentalizzazioni politiche e pertanto ho deciso di dimettermi. Ribadisco di aver regolarmente sostenuto gli esami all’università oggetto di verifica e a tal riguardo sono pronto a dare tutte le spiegazioni necessarie alla magistratura”. Alfano è al momento indagato soltanto per frode informatica. Alcuni tra gli altri 29 ex studenti sono invece accusati anche di concorso in falso e corruzione, dato che sarebbero state trovate le prove dei pagamenti. Dal computer di Economia era possibile accedere anche ai database delle altre facoltà, e ogni tipo di esame avrebbe avuto il suo prezzo: fino tremila euro per quelli d’Economia, meno di mille per le materie di Scienze Politiche. Pagamenti rateali invece per gli esami d’Ingegneria.

Quando la laurea non serve: 7 famosi che non l’hanno mai presa, scrive Skuolanet su “La Stampa”. Da Steve Jobs a Benigni, da Mentana a Montale e Piero Angela, ecco 7 personaggi famosi che non hanno mai preso la laurea ma che hanno avuto lo stesso enorme successo nella loro carriera. Chi ha detto che la laurea nella vita è tutto? Ci sono personaggi famosi, noti alle cronache per grandi successi, che non hanno raggiunto l’ambito obiettivo che in molti si prefiggono: la laurea. Certo laurearsi è importante, ma non è l’esclusivo strumento per il successo. Vi dice qualcosa Apple o Facebook? Conoscerete sicuramente il signor Steve Jobs, con la t-shirt nera e i jeans, colui che ha inventato il Mac e l’iPhone. Ma ci sono molti altri personaggi acclamati di casa nostra che sono diventati qualcuno senza finire gli studi. Magari avrete sentito parlare di un certo Dario Fo, il Nobel per la Letteratura, il giornalista Mentana o l’esperto di Divina Commedia Roberto Benigni. Sono esempi di persone famose che non hanno ottenuto la laurea ma raggiunto lo stesso importanti traguardi. Ecco la lista:

7. Piero Angela - Il giornalista scientifico più famoso della Tv ha svelato da poco di non aver mai ottenuto la laurea. Niente titolo di studio universitario, ma grandi riconoscimenti professionali e share televisivi, per un signore che ha formato con i suoi programmi didattici migliaia di telespettatori di ogni età.

6. Enrico Mentana - E’ noto alle cronache per essere il giornalista con la lingua più veloce, rapido e scattante come un treno,si narra che in meno di 60 secondi riesce a leggere le scalette dei sommari del suo telegiornale. Enrico Mentana non ha la laurea, ma a quanto pare è riuscito lo stesso a diventare il direttore di uno dei giornali Tv più seguiti in Italia.

5. Eugenio Montale - Premio Nobel per la letteratura. Svariate centinaia di poesie scritte e insegnate nelle scuole. Il poeta degli “Ossi di Seppia” e del “Male di vivere”, grazie alle sue metafore e al suo umorismo sottile, nell’arco di 50 anni di letteratura è riuscito a segnare una traccia profonda forse più vivida dell’inchiostro per firmare un voto sopra un foglio istituzionale.

4. Roberto Benigni - Il cantore moderno della “Divina Commedia”, protagonista di alcuni tra i film più belli del cinema italiano e premio Oscar per uno dei lungometraggi più commoventi del cinema mondiale. Sicuramente un riconoscimento che vale molto più di un 110 all’università.

3. Dario Fo - “Mistero Buffo” è il titolo della sua opera teatrale più famosa, ma anche un attributo che calza bene alla faccia comica, misteriosa e umoristica che ha portato questo saltimbanco moderno a celebrare l’Italia nel mondo grazie al premio Nobel per la Letteratura. All’università non avrà preso la laurea, certo, ma ha guadagnato un riconoscimento forse più gratificante.

2.Steve Jobs - Una delle personalità più complicate quanto affascinanti degli ultimi trent’anni. Il visionario che ha rivoluzionato la tecnologia e il modo di usarla, l’uomo che ha creato uno stile cambiando radicalmente il concetto di tecnologia: all’università non ha mai preso la laurea. Dopo aver frequentato diversi corsi ha mollato tutto per un viaggio in India e nel giro di pochi anni ha fondato una delle aziende più famose e ricche del globo.

1. Mark Zuckerberg - Era partito come un gioco,poi Facebook è diventato la piattaforma più usata sul pianeta. Milioni di persone collegate unite sulla rete social più grande mai creata. Mark Zuckerberg ha avuto un’idea geniale che gli è valsa più soddisfazione della proclamazione ufficiale del suo college ad Harvard.

Se pensate che per diventare milionari sia strettamente necessaria una laurea, probabilmente non avete accortezza di come ad oggi va il mondo. Titoli magistrali? Dottorati di ricerca? Master? Niente di tutto questo favorirebbe, secondo un recente studio di Approved Index, il successo economico nell’avvio e nello sviluppo di un proprio business. I ricercatori hanno esaminato i profili delle 100 persone più ricche del pianeta, notando che ben 32 non sono laureate. Una maggioranza schiacciante rispetto agli altri gruppi rappresentati nell’indice, con 22 ingegneri, 12 dottori in business, 9 laureati in arte, 8 in economia e 3 in finanza. Posto che l’elenco considera come criterio quello strettamente economico – non si sta qui parlando di preparazione culturale o QI – pare proprio che per essere dei Paperoni una preparazione accademica conti ben poco.

Miliardari senza laurea. Un blog americano stila una classifica di 15 super-ricchi privi del titolo universitario, scrive Alessandra Carboni su “Il Corriere della Sera”. «Devi finire le superiori, così potrai andare all'università e poi, una volta laureato, sarai sicuro di trovare un lavoro in cui far carriera». Recita più o meno così l'adagio rivolto dai genitori ai figli nell'intento di convincerli a non mollare la scuola, perchè - si sa - «studiare è importante». Ma c'è anche chi è pronto a smontare l'equazione da un altro punto di vista, per dimostrare che per diventare imprenditori di successo non è sempre obbligatorio trascorrere la gioventù sui libri. A sostenere questa teoria è il fondatore del blog College Startup , che sulle sue pagine stila una classifica di celebri ricconi diventati tali pur non avendo frequentato l'università. I nomi chiamati in causa sono 15 - tutti decisamente eccellenti - elencati in rigoroso ordine alfabetico. Scorrendo la lista ci si imbatte subito nel patron di casa Virgin, Richard Branson, che ha abbandonatogli studi a 16 anni per dedicarsi alla sua prima impresa, la rivista Student Magazine. Successivamente, la sua insaziabile fame di business lo ha portato a diventare l'imprenditore di successo che sappiamo, attualmente proprietario di ben 360 aziende. Un successo nato dal nulla anche quello della stilista Coco Chanel - orfana e senza possibilità di frequentare la scuola ma determinata a «diventare qualcuno» - come pure quello di Michael Dell, che con mille dollari in tasca ed entusiasmo da vendere ha lasciato il college all'età di 19 anni per fondare PC's Limited, ovvero quello che poi è diventato uno dei più grandi nomi nel campo della produzione di Pc: Dell Inc. E che dire di Walt Disney? Il papà di Topolino ha smesso di studiare a 16 anni, ma questo non gli ha impedito di diventare il signor Disney. Oggi la Walt Disney Company produce utili per 30 miliardi di dollari. Non male. Come la carriera di Henry Ford, che sempre a 16 anni se n'è andato di casa per lavorare come apprendista macchinista, salvo poi diventare il fondatore della Ford Motor Company e rivoluzionare l'industria automobilistica. Non ultimi, ecco altri due non-laureati illustri: Bill Gates e il suo antagonista di sempre, Steve Jobs. Il fondatore di Microsoft ha abbandonato l'università e non si è mai laureato, ma domina ugualmente la classifica degli uomini più ricchi del mondo dal 1995; Jobs si è limitato a frequentare il college per un semestre (ma lui stesso ammette che dopo l'abbandono ufficiale lo ha frequentato «clandestinamente» per un anno) prima di iniziare a lavorare per Atari e successivamente fondare la sua Apple Computers. Infine, passando dall'architettura software a quella edilizia, non si può certo ignorare che anche il genio di Frank Lloyd Wright non deve il proprio successo ad alcun titolo di studio. L'architetto di Fallingwater non si è mai iscritto alla scuola superiore, ma è stato uno degli esponenti più influenti dell'architettura del ventesimo secolo. Genio, intuito, coraggio e fortuna sono alla base della storia di tutti questi personaggi di successo, ma è assai probabile che le cose sarebbero andate così così anche se avessero avuto un titolo di studio nel cassetto. Nel dubbio, vale comunque la pena di ricordare che il tempo trascorso sui libri non è mai tempo sprecato.

15 imprenditori ricchi e famosi nel mondo senza laurea, scrive Matteo Spigolon su “Azuleia”.

Mary Kay Ash. Il fondatore di Mary Kay Inc. ha iniziato commerciando cosmetici. Senza nessun tipo di formazione, ha creato con successo un marchio conosciuto in tutto il mondo. Ad oggi, circa mezzo milione di donne hanno iniziato a vendere cosmetici per Mary Kay. Il loro apprezzamento per Mary Kay Ash è incredibile.

Richard Branson. Richard Branson è meglio conosciuto per la sua ricerca del brivido, per tattiche di business estreme e spirito emotivo. Ha abbandonato la scuola all’età di 16 ed ha iniziato la sua prima avventura d’affari di successo, Student Magazine. Egli è il proprietario del marchio Virgin e di altre 360 aziende. Le sue aziende includono Virgin Megastore e Virgin Atlantic Airway.

Coco Chanel. Orfana per molti anni, Gabrielle Coco Chanel si è “allenata” come sarta. Determinata ad inventare se stessa, lanciò l’idea coraggiosa che il mondo della moda femminile si sarebbe reinventato usando il tessuto e gli stili normalmente riservati agli uomini. Un profumo che porta il suo nome, Chanel No. 5 è famoso in tutto il mondo.

Simon Cowell. Simon Cowell ha iniziato a lavorare nell’ufficio postale di una casa editrice musicale. Da allora è diventato un artista ed un responsabile dei repertori per Sony BMG nel Regno Unito, è un produttore televisivo e giudice per le gare più importanti di talent show, tra cui American Idol.

Michael Dell. Con 1.000 dollari, la dedizione ed il desiderio, Michael Dell ha lasciato il college all’età di 19 anni per avviare PC Limited, poi chiamata Dell. Dell Inc. è diventato il più grande produttore di PC al mondo. Nel 1996, “The Michael e Susan Dell Foundation” ha offerto 50 milioni di dollari di sovvenzione alla Università del Texas a Austin da utilizzare per la salute dei bambini e l’istruzione in città.

Barry Diller. Fox Broadcasting Company è stata avviata dopo l’abbandono degli studi universitari. Diller è ora presidente di Expedia, CEO di IAC / InterActiveCorp.

Walt Disney. Dopo aver abbandonato la scuole superiori a 16 anni, la carriera di Walt Disney e le sue realizzazioni sono sbalorditive. La casa di animazione più influente, Disney detiene il record per il maggior numero di premi e nomination. Nella sua immaginazione erano previsti cartoni animati Disney e parchi a tema. The Walt Disney Company ha oggi un fatturato annuo di $ 30 miliardi.

Debbi Fields. Come giovane casalinga di 20 anni senza alcuna esperienza di business, Campi Debbi ha avviato “Mrs. Fields Chippery Chocolate”. Con una ricetta per biscotti al cioccolato, questa giovane donna è diventata la maggior titolare d’azienda di successo nel campo dei biscotti. In seguito ha cambiato nome, come franchising, poi venduto, in “Mrs.Field Cookies”.

Henry Ford. A 16 anni, Henry Ford ha lasciato casa per fare l’apprendista come macchinista. In seguito avviato la “Ford Motor Company” per la produzione di automobili. Primo grande successo di Ford, il Modello T. Ford ha poi aperto una grande fabbrica per iniziare la produzione, utilizzando la catena di montaggio, rivoluzionando il processo industriale.

Bill Gates. Classificato come uomo più ricco del mondo dal 1995 al2006, Bill Gates ha abbandonato anche lui gli studi universitari. Ha avviato la più grande società di software, Microsoft Corporation. Gates e sua moglie sono filantropi, hanno una fondazione, “The Bill & Melinda Gates Foundation”, con un focus sulla salute globale e sull’apprendimento.

Milton Hershey. Con solo la quarta elementare, Milton Hershey ha avviato la sua azienda di cioccolato. “Hershey Chocolate Milk” divenne il primo cioccolato commercializzato a livello nazionale negli Stati Uniti. Hershey è inoltre concentrato sulla costruzione di una meravigliosa comunità per i suoi operai, nota come Hershey, in Pennsylvania.

Steve Jobs. Dopo aver frequentato un semestre di college, Steve Jobs ha lavorato per Atari, prima di co-fondare Apple Computers. Ora Apple ha inventato prodotti innovativi come l’iPod, iTunes, e più recentemente l’iPhone e l’iPad. Steve Jobs è stato anche il CEO e co-fondatore di Pixar, che  è stata poi rilevata dalla Walt Disney.

Rachael Ray. Pur non avendo alcuna formazione nelle arti culinarie, Rachel Ray si è creata un nome nel settore alimentare. Con numerose mostre sul Food Network, un talk show e libri di cucina. E’ anche apparsa in riviste prima di debuttare con la propria rivista nel 2006.

Ty Warner. Unico proprietario, CEO e presidente di Ty, Inc., Ty Warner è un esperto uomo d’affari. Ty, Inc., fatto $ 700 milioni in un solo anno, con la “Beanie Babies” mania, senza spendere soldi in pubblicità! Da allora ha ampliato l’offerta per includere le bambole Ty Girlz, in diretta competizione con le bambole Bratz.

Frank Lloyd Wright. Non avendo mai frequentato il liceo, Frank Lloyd Wright ha superato ogni previsione quando è diventato il più autorevole architetto del ventesimo secolo. Wright progettò più di 1.100 progetti, di cui circa la metà effettivamente costruiti. I suoi disegni hanno ispirato numerosi architetti a guardare la bellezza intorno a loro ed a migliorarla.

Un mito da sfatare: tutti all’università. La laurea non deve né può essere la massima delle aspirazioni. Ci sono professioni redditizie e indispensabili per una società che non richiedono affatto una formazione universitaria. Una buona formazione professionale basta. Dati USA, scrive Norberto Bottani su “Oxydiane”. Per riuscire nella vita e guadagnare bene non è indispensabile avere una laurea. Di cosa c’è bisogno per riuscire in una società? Quale è la chiave del successo? La laurea? Esperti americani contestano la pertinenza di questa ipotesi. Gli esperti di politiche scolastiche, le organizzazioni internazionali come l’OCSE, i macro economisti che si occupano di scuola, da decenni concordano sul fatto che la proporzione di una fascia d’età che si laurea è un fattore determinante della crescita economica . Tutti spingono dunque per aumentare la proporzione dei giovani che si laureano. Questo è uno degli indicatori con i quali si compar la qualità delle politiche scolastiche, ovverosia le politiche che riescono a portare all’università una proporzione rilevante e crescente di una fascia di età e a far sì che la percentuale di studenti che conclude con successo gli studi universitari con una laurea oppure con un dottorato sia sempre più alta. Questa è la via della massificazione degli studi superiori. Poco importa poi se questi laureati fanno fatica a trovare un posto di lavoro. In taluni paesi è più facile che trovi un posto di lavoro un diplomato dell’istruzione e formazione professionale che non un laureato. Questa situazione, non è la regola, ma è ormai assai comune e dovrebbe indurre a riflettere sugli indirizzi espansionisti delle politiche scolastiche. Il buonsenso popolare la pensa diversamente e ritiene che una laurea in generale sia garanzia di un lavoro migliore e di guadagni maggiori nella vita. Un diploma universitario è considerato come un fattore che assicura una vita più felice. Ci si deve però chiedere se l’iscrizione a un’università e la frequenza a corsi universitari siano la sola via per ottenere questi obiettivi, per essere più felici nella vita, per stare meglio, e "dulcis in fundo" per garantire la crescita economica di un paese.

A cosa servono gli studi universitari? David Leonhardt in un articolo pubblicato sul "New York Times" Il 17 maggio scorso intitolato "Il valore degli studi universitari" contesta l’opinione di coloro che ritengono che gli studi universitari sarebbero sopravalutati. Per esempio, è vero che oggigiorno occorrono molti più nano-chirurghi che non 10 o 15 anni fa ma il loro numero resta relativamente esiguo comparato al fabbisogno di infermiere e infermieri. Per funzionare il sistema della sanità necessita di migliaia di personale infermieristico nel prossimo decennio e non di migliaia di nano-chirurghi. Orbene, non è necessario andare all’università per diventare infermieri o infermiere. Questa formazione la si può impartire anche al di fuori dell’università. Un ragionamento analogo si può applicare per molte altre professioni. Questo argomento certamente pertinente mette in evidenza un punto debole alla formazione universitaria, ovverosia l’alto tasso di mortalità universitaria esistente in molti sistemi scolastici. Molte università falliscono la missione di laureare i loro studenti. Il risultato di questo disastro sono costi elevati per l’ente pubblico nonché delusioni per molti studenti che passano anni all’università senza ottenere nessun titolo. Quale lezione si deve trarre si chiede il New York Times da questa situazione? Dobbiamo persuadere molti studenti che non vale la pena andare all’università oppure dobbiamo mettere in atto i provvedimenti necessari che permettano di elevare la percentuale di laureati e dei dottorati, generalizzando la frequenza dell’università e tentando di ottenere a livello universitario quanto il sistema scolastico non riesce ad ottenere prima, ossia la riuscita di tutti gli iscritti? Per rispondere a queste domande il giornalista del New York Times ricorre a dati molto semplice e molto eloquenti: quelli riguardanti gli stipendi di un laureato rispetto a qualsiasi altro diplomato. Immaginiamo per un minuto che il divario tra la paga di un laureato e quella di qualsiasi altro sia andato calando negli anni recenti. In questo caso coloro che contestano l’opportunità dell’espansione degli studi universitari avrebbero ragione e potrebbero dimostrare, prove alla mano, che la laurea e il dottorato hanno perso di valore. Purtroppo però coloro che contestano la pertinenza di un’espansione degli studi universitari raramente tirano in ballo questo argomento perché altrimenti si troverebbero in difficoltà. È infatti appurato che la laurea o il dottorato garantiscono salari elevati e quindi una vita in linea di massima migliore, come dimostra la tavola seguente che riguarda l’evoluzione del guadagno medio settimanale di un laureato americano dal 1979 in poi. Come si può vedere molto bene dalla tavola, fa osservare Leonhardt, la paga reale dei laureati (in modo grossolano si considera in questo articolo il lessico "guadagno" analogo a quello di "paga") nel corso di questi ultimi 25 anni è aumentata mentre la paga reale di tutti gli altri gruppi di diplomati è diminuita. Il New York Times pubblica anche un’altra tavola che rende questo confronto ancora molto più eloquente. Nei confronti di qualsiasi altro gruppo, negli Stati Uniti, i laureati non hanno mai guadagnato così bene come ora sottolinea Leonahardt. In termini assoluti, ovviamente, anche loro sono stati penalizzati dalla profonda recessione iniziata alla fine del 2007. Però i laureati hanno sofferto molto meno, in media, di tutti gli altri lavoratori con un livello di istruzione inferiore. Inoltre, hanno corso minori rischi di perdere posti di lavoro e il loro livello di rimunerazione è resistito molto meglio di quello degli altri. In modo del tutto teorico, si può supporre che queste tendenze non abbiano nulla a che fare con i livelli d’istruzione che gli studenti universitari ricevono, afferma Leonhardt. Forse, il guadagno dei laureati ha poco o nulla che fare con l’università e rispetto a quanto gli studenti sapevano conosceva prima di frequentarla, ma l’economia è cambiata e favorisce attualmente le persone che hanno frequentato l’università e che hanno conseguito una laurea. Il beneficio che gli studi universitari generano è un problema difficile da risolvere e che va studiato attentamente. In ogni modo, non ci possono essere dubbi in proposito. Gli studi universitari procurano un vantaggio innegabile dal punto di vista salariale e dell’occupazione. Per dirla in altro modo, se voi foste uno studente di 19 anni che deve decidere se andare o meno all’università, sareste disposti a scommettere il vostro futuro sull’idea che le tavole qui presentate, riguardanti gli Stati Uniti, ma che in effetti possono essere applicate anche ad altri paesi, siano una pura coincidenza? Questa la domanda che pone l’autore dell’articolo del New York Times.

Studi universitari o superiori non sono sempre necessari. Secondo l’Ufficio federale americano di statistiche del lavoro che è un poco l’equivalente dell’ISFOL italiano, soltanto sette delle 30 categorie professionali che crescono molto rapidamente esigeranno nel prossimo decennio il possesso di una laurea; tra le 10 categorie in testa solamente due pongono questa condizione. In molte professioni gli studenti farebbero meglio a investire il loro tempo e i loro soldi iscrivendosi a corsi professionali piuttosto che andare all’università. Quest’argomento è difeso da pochi economisti i quali denunciano le pressioni politiche per avere molti più studenti all’università. Questa è una soluzione tra molte altre che meriterebbero di essere studiate in maniera più accurata. Ci sono risposte molteplici che meritano di essere prese in considerazione dal punto di vista della crescita economica. In altri termini ci vuole coraggio oggigiorno per sostenere che l’università non è per tutti, come lo dimostrano per esempio le statistiche sull’esito degli studi universitari. La mortalità universitaria in Italia per esempio è del 50%. Negli Stati Uniti soltanto il 30% della popolazione ha un diploma universitario. Si può pertanto chiedere se questo sia il problema scolastico più pressante è più urgente. Negli Stati Uniti , ma anche in Francia, in Germania, in Inghilterra, per non citare che alcuni paesi, un numero crescente di studenti si orientano dopo la maturità o dopo il diploma verso una formazione tecnica superiore a livello universitario e non si indirizzano più verso studi universitari tradizionali che sono molto costosi e molto più lunghi. L’idea secondo la quale cinque anni di università per conseguire un master siano essenziali per riuscire nella vita è contestata da un numero crescente di economisti, di politologi, di universitari e di responsabili politici. Sempre più si leggono articoli nei quali si afferma che altre opzioni meritano di essere prese in considerazione come per esempio quelle offerte dalle scuole universitarie professionali, questione alla quale, in Italia, la fondazione TRELLLE ha dedicato un seminario internazionale e un quaderno.

La transizione dalla formazione alla vita attiva. La transizione dalla formazione alla vita attiva è cambiata in questi ultimi decenni anche per i laureati i quali ovunque incontrano difficoltà crescenti per trovare un posto di lavoro che corrisponda alla loro formazione, ai sacrifici effettuati per laurearsi dopo anni di studio esigenti. Il numero dei laureati e dei dottorati che sono disoccupati resta elevato nonostante le considerazioni riguardanti i benefici che la laurea o il dottorato possono procurare nel corso dell’attività professionale. Un numero crescente di laureati e diplomati è costretto a svolgere professioni che nulla hanno a che fare con una formazione e i diplomi conseguiti come per esempio barista, conducente di torpedoni, camionisti, impiegati d’ufficio con contratti di durata determinata, camerieri, pizzaioli, eccetera. Questi studenti si consolano pensando che questa sia una tappa inevitabile, un trampolino, sulla via del successo. Nel frattempo, questi laureati preparano e spediscono decine di curriculum vitae sperando di ricevere una risposta positiva. Purtroppo, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale, ossia dopo sessant’anni circa, nessuna generazione ha conosciuto difficoltà analoghe per trovare un posto di lavoro. Gli studi universitari non rappresentano più una promozione né funzionano come un ascensore sociale perché le prospettive di carriera sulle quali sfociano sono pessime. Secondo l’articolo pubblicato dal Wall Street Journal il 15 maggio scorso a cura di Joe Queenan i laureati di oggi sono confrontati a tre ostacoli formidabili.

Il primo è rappresentato dalla recessione economica. Il numero dei posti di lavoro è drammaticamente diminuito . Non ci sono più posti di lavoro e quelli che esistono non corrispondono al tipo di formazione al quale l’Università o gli istituti universitari professionali preparano e neppure a quanto hanno in mente i laureati che hanno speso anni ed anni di studio per diplomarsi.

In secondo luogo, i figli della classe media non sono stati mai educati emozionalmente alla transizione dalla formazione alla vita attiva e ad entrare nel mondo del lavoro con tutte le sue leggi e la sua durezza.

In terzo luogo, laddove gli studi universitari sono a pagamento, i debiti che il giovane ha dovuto assumere per completare gli universitari peseranno per decenni sulle loro spalle. Indubbiamente la situazione diventa drammatica. Non ci si deve neppure illudere: anche un’economia molto flessibile come quella americana dove è relativamente facile che non è in Italia costruire un’azienda o un’impresa, ricevere fondi e aiuti da una banca o da una fondazione, essere riconosciuti per l’originalità delle idee e delle proposte, queste competenze non sono affatto diffuse, non appartengono a tutti. In ogni modo questa una soluzione è del tutto particolare. Il problema immediato è soprattutto psicologico: la sconvolgente scoperta che il lavoro disponibile all’inizio del 21º secolo sarà piuttosto un inferno che non un paradiso. I giovani laureati avranno a che fare sul posto di lavoro con capi meno competenti e meno preparati di lavoro, che non esiteranno a umiliarli, che non prenderanno affatto in considerazione le loro qualità o i loro interessi. Occorrerà ingoiare molti rospi, accettare le umiliazioni.

La Laurea? Meglio non averla, scrive Bastiancontrario F. su “Valdichiana Oggi”. Questo di stasera è il sesto caso. Li ho contati tutti, uno dopo l'altro, in questo inizio Agosto. Amici o amiche laureate, fra i 25 e i 30 anni, col conto in banca prossimo allo zero e in cerca di lavoro. Magari subito dopo la laurea hanno iniziato a tentare di aprirsi qualche via nel campo per il quale avevano studiato, ma poi sapete com'è, c'erano solo gli stage (non retribuiti), i genitori cominciavano a rumoreggiare, le raccomandazioni mancavano e dopo 6 mesi o qualcuno in più di puro e semplice sfruttamento con illusioni poi restate tali hanno iniziato a farsi qualche domanda. Del tipo: qualche soldo dovrà iniziare a entrarmi nelle tasche, altrimenti tocca continuare a farsi mantenere dai genitori e non è tanto bello. Ergo. cerco un lavoro. Un lavoro "normale". Non c'entra niente con quello che sognavo di fare, non ha nulla a che vedere con quello che ho studiato e in cui potrei mettere a frutto le mie conoscenze e competenze, ma pazienza...almeno mi entra in tasca qualche soldo per un po', poi si vedrà. Il problema è andare a cercare un lavoro "normale" con la laurea in tasca. Sono appunto 6 gli amici/amiche con cui in questi ultimi giorni parlando è emerso sempre lo stesso identico problema. I datori di lavoro "normale" (che so...cameriere, commesso...) sembrano essere allergici ai laureati. Tant'è che è meglio non presentare il curriculum, o comunque non dire che si ha la laurea. Sei indizi, probabilmente, fanno una prova. "Ah, hai due lauree e vuoi venire a lavorare qui?" è la frase che risuona con annessa faccia a metà fra lo schifato e il diffidente ad ogni tentativo di farsi assumere, anche "a chiamata", part time o per poche ore a insindacabile giudizio e bisogno di chi ti dà il lavoro. Il tono è quasi pregiudiziale. Perchè? Chissà, forse pensano che uno laureato che viene a chiedere di fare il cameriere è lì perchè ha fallito nel suo ramo, e quindi non vale granchè. Oppure hanno paura che non si impegnerà, avendo studiato per qualcos'altro, oppure che pretendendo di più in quanto reduce da molti anni di studio potrà rivelarsi un insostenibile rompicoglioni. Oppure costoro sono semplicemente il simbolo di una classe imprenditoriale italiana sempre più squallida e incapace di gestire in modo degno le risorse umane (e infatti poi i risultati si vedono). Il bilancio finale è che se hai la laurea e vuoi fare il commesso ti passano avanti gli altri, quelli senza laurea. Ecco, forse piuttosto che continuare per settimane e settimane a discutere del ministro Kyenge e delle sue litigate coi leghisti, dei processi di Berlusconi o di chissà quale altra minchiata utile solo a gettare fumo negli occhi e guadagnare tempo consci di non essere in grado di fare niente (ma di non volersene comunque andare) i nostri governanti potrebbero ipotizzare una riforma del lavoro e incentivi alle assunzioni un po' diversi rispetto a quelli esistenti. Anche perchè all'estero a fare i camerieri ti ci prendono anche con la laurea e sarebbe brutto, dopo la fuga dei cervelli, trovarsi di fronte anche alla fuga dei camerieri.

Una laurea serve eccome, scrive Luca Ronchi su “Sardegna Reporter”. Anche oggi ho lavorato parecchio. Sono giorni di lavori casalinghi, questi. Spostamenti di roba, pulizia di magazzini, conservazione di vecchie cose, eliminazione di altre, accatastamenti il più possibile razionali di oggetti e mobili. Coloro che l’hanno fatto, sanno di cosa parlo. Ci si muove in ambienti angusti, a volte malsani, pieni di polvere e umidità e poco illuminati. Si ha fretta di finire per riposarsi e farsi una doccia ma si ha anche fretta di completare il lavoro per poterlo guardare con soddisfazione e dire. “Ah, come l’ho fatto bene!”. E in questi frangenti capita di doversi misurare con piccole questioni pratiche, che sarebbero anche semplici se non fosse per l’ambiente ostile in cui si opera. Tocca risolvere problemi rognosi, arrangiarsi con quel che c’è, prendere decisioni in fretta chè le mani sono due e le braccia più di tanto non ci arrivano a fare le cose. E allora l’inventiva, la fantasia, l’esperienza e -perché no- qualche nozione di fisica rimasta a circolare per le sinapsi da quei lontani giorni del liceo, concorrono a fare la differenza tra un lavoro di schifo e un lavoro fatto bene. E succede di capire che aver studiato fino alla laurea può avere il suo porco senso anche in questi casi limite. A me è capitato ieri. Stavo sistemando le parti di un mobile smontato in precedenza. Pezzi lunghi anche due metri, larghi più di un metro e pesanti, molto pesanti. Li stavo sistemando infilandoli, sdraiati sul lato lungo, in uno spazio stretto tra uno scaffale già traboccante di scatole e un altro mobile più alto di me. Per evitare di graffiarli strisciandoli contro il pavimento ruvido, avevo sistemato per terra dei listelli di legno. L’idea era di posarveli sopra, e così ho fatto. A lavoro quasi finito, con i listelli ormai bloccati dal peso di tutto  quel legname, mi accorgo che restava un po’ di spazio, una sorta di piccolo pozzo incastrato tra lo scaffale, il mobile più alto di me e i pezzi ormai mirabilmente affastellati dalle mie sapienti mani. Un piccolo spazio che, in quanto maschio raziocinante alle prese con un lavoro muscolare e intellettuale, avevo intenzione di sfruttare a pieno, sistemandovi altri pezzi di forma e dimensioni appropriate. Ma occorreva prima di tutto calare in fondo a quel pertugio un altro listello di legno, per proteggere i nuovi oggetti da graffi e urti. Esco dal magazzino, mi avvicino alla catasta del legname e individuo con fare sicuro un piccolo legno di lunghezza e spessore perfettamente adeguati all’uopo. Orgoglioso, mi avvicino all’anfratto e faccio per depositare il prezioso tacco sul pavimento. Le mie lunghe braccia (le ho veramente lunghe) non sono sufficienti a toccare il pavimento da quella posizione e dunque dovrò optare per un lancio calibrato del tacco verso la posizione utile. Il piccolo legno, per mia sfortuna, anziché depositarsi nel luogo da me individuato, con un rimbalzo inatteso va a sistemarsi di sbieco su una delle pareti del cunicolo, rappresentata da una porzione del mobile di cui sopra. Disdetta! Come fare? Il braccio non ci arriva. Non ho voglia di tornare fuori a prendere altri legni, che tra l’altro piove. Di spostare il mobilio già adagiato sui listelli non se ne parla, e in testa torna la domanda: che fare? D’improvviso, mentre il tarlo dello sconforto inizia a far merenda con i miei neuroni, alzo lo sguardo allo scaffale traboccante di oggetti e vi scorgo l’arma finale. Con serena disciplina allungo il braccio, la afferro, me la guardo compiaciuto. Me la giro un po’ tra le mani assaporando il momento in cui, grazie ad essa, assesterò il colpo ferale al recalcitrante oggetto. È perfetta, la mia arma. Cilindrica, robusta, leggera, cava. La sua lunghezza è quella giusta: quaranta centimetri. La sua larghezza è quella giusta: riempie perfettamente la mia mano, richiusa e serrata su essa. È micidiale. Sembra forgiata allo scopo da un’intelligenza antica. Armato di essa mi inchino verso il mio dovere, la dirigo sicuro verso il legno e, facendo leva con salda impugnatura, sistemo il tacco nella posizione prestabilita. È fatta. Le membra si rilassano mentre lentamente mi risollevo. Staziono così per qualche istante, indugiando con lo sguardo ora al lavoro compiuto, ora al cilindrico utensile che adesso riposa inerte nella mia mano. E l’occhio mi cade, dopo tanti anni, sulle scritte che compaiono lungo la sua superficie laterale: Università degli Studi di Pisa… Gent.mo Dr. Luca Ronchi… Il presente involucro contiene esemplare originale del Suo diploma di laurea. E poi dice che la laurea non serve. Caz.

Comunque la laurea è preferibile averla, meglio se meritata, ossia si siano capiti e memorizzati i dati e le nozioni studiati. Essere ignorante significa essere in balia degli stronzisti e cazzisti di turno, che ti propinano stronzate e cazzate per verità acclarate. Se le cose tu le sai, e non certo sapute dai media o da pseudo intellettuali partigiani, la verità gliela sbatti in faccia. Anche con le pezze al culo la tua soddisfazione arriverà! Perché ci si deve ricordare che chi ha, spesso, non sa, e costui, per disbrigare le sue necessità burocratiche o culturali, parte dei suoi averi li dovrà dare a chi sa.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani. 

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

 “La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.  

ISTITUZIONI IN CONFLITTO. LA GUERRA TRA GENITORI ED INSEGNANTI.

Qualche giorno fa ero nella scuola del mio figlio quindicenne, seconda liceo scientifico, per parlare con un suo professore, scrive Paolo Rastelli su “Il Corriere della Sera”. Niente di particolare, essenzialmente questioni organizzative sull’ora alternativa alla religione. Non avevo appuntamento, quindi ero ultimo in coda (ho scoperto troppo tardi che anche se c’è l’ora di ricevimento, bisogna prendere l’appuntamento perché più di un certo numero di genitori non viene ricevuto, nel tempo a disposizione, logico ma non ci avevo pensato). Così ho avuto modo di vedere gli altri genitori e ascoltare un po’ i loro discorsi, senza intervenire. Due mi hanno colpito in modo particolare. Una mamma che continuava a inveire perché la figlia era stata bocciata l’anno prima alla maturità e aveva dovuto ripetere l’anno (professori farabutti, è stata una strage, tutta colpa di quello di lettere, o di matematica, o di chissà chi ma comunque non della figlia). E una coppia che, dopo aver incontrato l’insegnante, parlava con il figlio (16-17 anni all’aspetto) e gli riferiva la solita formula del “non si impegna abbastanza, potrebbe fare di più”; la risposta del ragazzo, “dovreste dire a quella stronza di non dire stronzate”, è stata accolta con partecipe mitezza.

"Non si permetta di giudicarlo!", se i genitori insultano i professori. La denuncia di una docente aggredita per aver giudicato male un tema ("Non è farina del tuo sacco"). Poi si scopre che a insultare è un agente di polizia che ora le chiede di ritirare la querela. E l'episodio diventa un caso di coscienza e "rispettabilità" dei professori, scrive Salvo Introvaia su “La Repubblica”. "Non è farina del tuo sacco". E a scuola scoppia il putiferio: i genitori dello studente, accusato dalla docente di avere consegnato un compito "taroccato", si presentano a scuola e aggrediscono verbalmente l'insegnante che teme anche il "contatto" fisico. Dopo mezz'ora di improperi e parole in libertà, i genitori imbufaliti perché la prof si era permessa di "screditare" l'alunno davanti alla classe vengono messi alla porta dai bidelli. E pochi giorni dopo si beccano una querela. Adesso, l'insegnante  -  che nel frattempo è stata contattata dai genitori che si sono scusati di quei minuti di "lucida follia"  -  non sa che fare: ritirare la denuncia o proseguire nell'azione giudiziaria? Anche perché, protagonista dell'ennesima aggressione nei confronti di un docente della scuola pubblica italiana, questa volta, è un servitore dello stato: un poliziotto che rischia di avere la carriera rovinata. Non un semplice cittadino. La vicenda, che racconta la stessa insegnante  - docente di Italiano  -  si verifica in una scuola del meridione d'Italia. E potrebbe essere presa ad esempio di come sono cambiati negli ultimi decenni i rapporti tra genitori ed insegnanti. Un tempo, i genitori avallavano quasi sempre l'azione del docente. Oggi, evidentemente no. "Erano le 12,15 e mi chiama al telefono la vicepreside per dirmi  -  racconta l'insegnante in questione  -  che ero attesa da due genitori per un colloquio. Io faccio presente che avrei avuto altre due ore di lezione e che non potevo riceverli prima delle 14,15. Ma la collega mi sollecita perché i due genitori sono impazienti e non possono aspettare due ore". Qualche giorno prima, durante la correzione di un compito di Italiano sull'articolo di giornale in prima A, la prof aveva chiesto ad un alunno: "Leggi il tuo elaborato". E dopo averne ascoltato la prima parte aveva aggiunto: "Non è farina del tuo sacco, andiamo avanti". Proseguendo la lezione con la lettura di altri componimenti. Una offesa imperdonabile per i genitori che si recano a scuola per parlare con la docente. "Lei si è permessa di dire a mio figlio che il compito non era farina del suo sacco", inveisce il papà. "Ma se non mi posso più permettere di dire ai miei alunni che i loro compiti, peraltro svolti a casa, non sono farina del loro sacco, io non posso in alcun modo esercitare il mio ruolo in classe", fa presente la docente. A questo punto interviene la madre che "accusa" l'insegnante "di non avere voluto interrogare come volontario il figlio per recuperare un brutto voto". A questo punto l'insegnante fa presente che non per ragioni didattiche non accetta volontari e che il compito a casa non è stato valutato a nessuno. Ma la mamma insiste sostenendo che la prof "perseguita il figlio". Alla discussione, che si accende, assistono anche altri insegnanti, gli alunni delle altre classi e i bidelli. Ma anche il ragazzino. Dopo oltre venti minuti di batti e ribatti la professoressa fa presente che ha ancora un'ora di lezione da svolgere e invita i genitori a rivolgersi al dirigente scolastico. E il papà dell'alunno perde la testa. "Lei non capisce niente, non capisce neanche l'Italiano, anche se insegna Italiano!", grida in faccia alla docente.  E, col dito indice puntato quasi dentro l'occhio della malcapitata, aggiunge: "Stia attenta, io la rovino, lei mi deve ascoltare, io sono un sottufficiale di Polizia". "Mi meraviglio  -  prova a rispondere la docente  -  lei dovrebbe rappresentare la legalità!". "Io vengo qui  -  incalza il genitore infuriato  -  quando voglio e come voglio e lei mi deve ascoltare perché è pagata per questo". E conclude: "Tanto voi non fate niente, in classe giocate!". Dopo qualche settimana, la professoressa presenta una querela contro i due genitori. E, appresa la notizia, i due si presentano al cospetto della prof. dichiarandosi pentiti e dicendo all'insegnante che una eventuale condanna avrebbe stroncato la carriera al poliziotto con gravi ripercussioni anche a livello economico. "Mi mettono a passare carte per tutta la vita", ha spiegato alla professoressa il papà del ragazzino. Fra qualche giorno, le due parti si dovrebbero incontrare per una soluzione bonaria della questione. L'insegnante, offesa, vilipesa e quasi aggredita fisicamente non sa che fare: perdonare i minuti di follia dei due genitori e ritirare la querela o andare avanti per la propria strada a tutela della sua professionalità e di quella di tutti i suoi colleghi?

Genitori e insegnanti, alleati o nemici? Il rientro sui banchi di scuola dei nostri figli ci propone una questione spesso delicata, quella dei nostri rapporti con i loro insegnanti, scrive “Donna Moderna”. Spesso tra genitori ed insegnanti dei figli si instaura un ottimo clima di fiducia e stima che si riflette in modo positivo sull’educazione e sulla crescita personale e culturale dei nostri ragazzi. Purtroppo, però, accade anche il contrario. Spesso genitori ed insegnanti si pongono su fronti opposti e chi ne paga le spese sono proprio i ragazzi. Pensiamo a problemi frequenti e molto comuni, come, ad esempio, ai troppi (a detta dei genitori) compiti assegnati ai bambini nel corso delle vacanze estive, o a particolari situazioni familiari o personali di alcuni bambini, che richiederebbero una particolare attenzione e cura da parte degli insegnanti ma non la ricevono. Che i vostri figli siano alle scuole elementari, alle medie o al liceo, la situazione non cambia di molto. Abbiamo raccolto tante opinioni diverse e quel che è emerso è per un verso che, spesso, l’insegnante non è più considerato - come accadeva un tempo - una figura di riferimento nell’ambiente familiare ma è visto solo come una “tappa” nella crescita dei figli. Una figura insomma, che per diverse ragioni è un po’ sminuita. Per un altro verso, spesso, i papà e le mamme, mediamente molto più colti di alcuni anni fa, assumono un istintivo atteggiamento di protezione nei confronti dei loro figli e leggono ogni segnalazione da parte degli insegnanti come una critica all’intelligenza dei loro bambini o peggio, come una critica a loro stessi impedendo ogni dialogo. C’è da dire anche che purtroppo, ogni tanto, gli insegnanti hanno poco tempo a disposizione per dialogare con i genitori e non sono sempre abili comunicatori. Alcune volte, esprimere le cose con maggior tatto potrebbe essere già un punto di partenza.

Il risultato finale comunque, e quel che si lamenta da più parti, è che di fatto si è un po’ perso l’obiettivo di fondo che dovrebbe essere comune a genitori e ad insegnanti: l’educazione e la formazione dei ragazzi. Abbiamo parlato di questo delicato argomento con alcune insegnanti che sono anche mamme di figli che frequentano la scuola. Queste mamme-insegnanti ci hanno dato un suggerimento prezioso: un invito alla comunicazione ed all’ascolto reciproco. Sembra poca cosa, e forse banale, ma non lo è. Insegnanti e genitori dovrebbero assomigliare ad una squadra che collabora per la formazione ed il benessere dei bambini e dei ragazzi, più che a due diverse squadre concorrenti…

Quei genitori sindacalisti dei figli. “Lo cambi di banco? Ti denuncio”. Da Milano a Palermo: docenti sotto accusa per un rimprovero o per aver requisito un cellulare. I prof: insegnare impossibile, scrive Riccardo Bruno su “Il Corriere della Sera”. Lo studente, che si nasconde dietro il nome del pilota Fernando Alonso, chiede aiuto su Internet: «Un prof mi ha ritirato il cellulare e se l'è tenuto, posso denunciarlo?». Risposta pronta di Woody: «Sì. È Furto!!! Potresti registrare una conversazione, lo porti a dire che te lo ridarà quando vuole lui!!! Fallo, avrai il coltello dalla parte del manico!!! Odiosi prof!!!». Benvenuti nel campo di battaglia della scuola italiana. Studenti in guerra contro insegnanti. Come sempre. Ma, ed è questa la novità, sempre di più spalleggiati dai genitori. Liceo di Roma: alla professoressa gli studenti fanno sparire gli occhiali, lei perquisisce gli zaini. Quando a casa i ragazzi raccontano tutto, qualche papà invece di sgridare il figlio va dai carabinieri e denuncia l'insegnante per abuso dei mezzi di correzione. Noale, Venezia, scuola media: un ragazzino viene scoperto a imbrattare le aule. La dirigente scolastica lo convoca, la madre non la prende bene. Le si presenta davanti, l'afferra per il collo e la spinge contro il muro. La donna torna a casa, la preside va al pronto soccorso. Imperia, scuola elementare. La bimba, sei anni, graffia e punta la matita contro i compagni. La maestra la fa sedere vicino alla cattedra. I genitori minacciano un esposto alla Procura: così la danneggiano psicologicamente. «Li ho chiamati, ragionando è stata trovata una soluzione. Abbiamo fatto dei gruppi, che a turno girano nella classe». In questo modo Franca Rambaldi, a capo dell'ufficio scolastico provinciale, è riuscita a calmare le acque. «Le famiglie sono troppo ansiose, vanno subito in crisi, si irritano facilmente, alla minima difficoltà partono all'attacco». I genitori non si fidano più degli insegnanti, credono che tocchi a loro sopperire all'educazione inadeguata, alle carenze della scuola. Insomma, si sentono «sindacalisti dei propri figli». «Se non si restituisce dignità alla professione degli insegnanti, se non si rinnova la partecipazione dei genitori e degli studenti, allora la microconflittualità è destinata a crescere», ipotizza amaramente Gianna Fracassi, segretaria della Flc-Cgil. I docenti si sentono sotto assedio. «Non metta per favore il mio nome, non voglio avere problemi...». Chi parla insegna in un liceo psicopedagogico della provincia di Milano. È una prof all'antica. «Lo ammetto, sono un po' rigida. Ma le regole vanno rispettate». Ogni giorno è una trincea. Capitolo primo: «Vedo una studentessa durante la lezione che armeggia con il cellulare. Le chiedo di consegnarmelo. Lei si rifiuta, glielo ritiro. Il papà va dalla preside, dice che gliel'ho strappato, che non era mio diritto...». Capitolo secondo: i compiti in classe. «Vogliono le fotocopie, controllano le correzioni. Cercano di incastrarti, di sindacare il tuo lavoro...». A una collega di Treviso, istituto professionale, è andata peggio. Anche lei preferisce restare anonima. «C'è un ragazzo che insulta i compagni. Io lo rimprovero, ma, mi creda, in modo tranquillo. Il padre si arrabbia, inizia a mandare lettere: mi accusa di essere un cattivo docente, di manipolare gli studenti. Scrive al preside, al provveditore...». Va a finire che viene chiamata a Roma, audizione alla sezione disciplinare del ministero. «Prima di me ascoltavano un pedofilo... Per fortuna i ragazzi hanno testimoniato in mio favore...». Dice che di storie così ce ne sono tante. Racconta che, sempre a Treviso, hanno scoperto degli studenti che per gioco facevano la pipì a terra. Il preside ha ordinato loro di pulire. I genitori hanno minacciato denuncia: violazione delle norme igieniche. I sindacati raccolgono ogni giorno casi e lamentele. «In classe si vive con molto disagio - osserva Massimo Di Menna, della Uil scuola -. Il docente conquista a fatica il riconoscimento della sua funzione. E molti sono spinti a pensare: ma chi me lo fa fare...». Giacomo Siracusa, insegna a Palermo, scuola primaria. «Una mia collega ha impedito a un bambino di dare fastidio ai compagni. I genitori hanno invece detto che l'aveva picchiato, l'hanno portato al pronto soccorso. Si sono fatti fare il referto. Tutto inventato. Siamo scoraggiati, amareggiati». Il segno di quanto sia serio il conflitto lo danno i dati del 114, il numero dell'Emergenza infanzia gestito dal Telefono azzurro. Tu ti aspetti che chiamino per violenze o episodi gravi. E invece uno su cento telefona per denunciare «difficoltà relazionali con gli insegnanti». Episodi come questo. Una madre di un bambino di 9 anni si sfoga con l'operatrice: «Mio figlio ha problemi di adattamento, ma gli insegnanti invece di aiutarlo lo puniscono ingiustamente...». Il 114 raccoglie la testimonianza, contatta la scuola. La dirigente spiega che «la madre è una persona poco collaborativa, che urla e insulta...». Viene organizzato un incontro, c'è anche il servizio sociale. La situazione migliora: la madre diventa più disponibile, il bambino finalmente si integra. La soluzione in fondo era semplice: bastava guardarsi negli occhi e dialogare.

Il fannullone, l'impreparato, l'ansiosa. «La colpa? Degli studenti, non nostra». Tre casi (non limite) di insegnanti raccontati dai verbali degli ispettori, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. A leggere le relazioni degli ispettori ci si sente quasi colpevoli. Come chi guarda dal buco della serratura un professore, e la sua classe. Magari sepolta sotto un lessico burocratico, ma nei verbali degli «Affari interni» del ministero della Pubblica Istruzione scorre un pezzo di vita vera della scuola, quello meno bello. La fatica quotidiana, l'autostima in picchiata degli insegnanti, il loro malessere, e in alcuni casi una buona dose di cialtroneria. Ci si può sentire male, nell'assistere al calvario personale della professoressa C. che insiste nel negare la sua incapacità di adattarsi a una realtà «che non è più come quando avevo cominciato». Si può provare rabbia davanti all'ostentato menefreghismo del suo collega R. che spezzetta le proprie assenze per impedire la nomina di un supplente e manda la sua classe al macello nell'anno della maturità. Sono documenti che dicono molto, tranne della propria utilità. A scuola, le punizioni e i provvedimenti sono spesso virtuali. Se l'interessato fa ricorso, e lo fa quasi sempre, si riparte da capo. Comunque, funziona così: un preside riceve le lamentele di studenti, genitori o colleghi. Se non trova altre soluzioni, chiama l'Ufficio scolastico provinciale, il quale esamina il caso e inoltra la richiesta di ispezione all'Ufficio scolastico regionale che manda un suo esperto. La «verifica ispettiva» e il suo esito compiono il percorso inverso, fino a essere notificati al diretto interessato. Dopo le sue controdeduzioni, il primo grado di giudizio spetta al Consiglio provinciale di disciplina, ma in caso (frequentissimo) di ricorso la pratica finisce a Roma, alla Sezione disciplinare del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione, che essendo anche organo di tutela sindacale per sua natura è portato a troncare, sopire. Tempo medio dall'arrivo degli ispettori alla decisione definitiva: un anno e mezzo. Durante il quale il docente sotto osservazione continua a insegnare. Quelle che seguono sono storie che nella loro essenzialità riassumono alcune patologie della scuola d'oggi. Si è ovviamente scelto di mantenere l'anonimato su persone e luoghi. Era una come tante. Da quindici anni insegnava nello stesso Istituto, mai nessuna lamentela sul suo conto. Nell'ottobre del 2004 la professoressa C. incomincia a sentirsi perseguitata dai colleghi. «Mi hanno emarginato» dice all'ispettore. I suoi studenti non hanno pietà. La vedono in difficoltà e iniziano ad approfittarne. La dileggiano, le ridono in faccia, la sfottono per l'aspetto trasandato. Comincia ad accumulare assenze su assenze, una docente che negli anni precedenti aveva fatto solo quattro giorni di malattia. È entrata in una spirale negativa «nella quale — scrive l'ispettore — la qualità didattica decade rapidamente in ogni suo aspetto». Nei primi due colloqui, la professoressa C. «tende a rifiutare questa sua immagine». Nega che vi siano problemi, sostiene che è tutto normale. Solo al termine dell'ultimo incontro chiede che venga verbalizzata una sua «dichiarazione difensiva». Questa: «Io ho sempre insegnato. Faccio le stesse cose di un tempo. Sono i ragazzi che sono diventati diversi. Non riesco più a capirli, e non capisco perché non mi seguono». In un nuovo incontro la professoressa C. comincia a parlare di quello che l'ispettore definisce «un disagio intervenuto». Soffre di ansia, la sola idea di uscire di casa ed entrare in classe «provoca sconforto morale e fisico». Lentamente, «accetta la procedura». Si sottopone ad una visita medico-collegiale. L'inidoneità all'insegnamento arriva come una liberazione. «Alza la voce». Gli studenti urlano al professor G. di farsi almeno sentire. Quattro mesi dopo, non fanno più nemmeno quello. Nelle sue ore, quando lui entra, loro escono. L'insegnante soffre di «incapacità didattica conclamata» secondo l'ispettore. «La sua conoscenza della materia si è totalmente diradata nel tempo». L'inviato del ministero assiste alle lezioni del professor G. e capisce che il problema non è solo nella sopraggiunta ignoranza di una materia studiata vent'anni prima. «L'incapacità professionale è dovuta anche a una situazione di scarsa autostima che si riflette in una bassissima immagine di sé». L'insegnante fa lezione con tono di voce sommesso, rigido, le mani abbandonate lungo i fianchi, rivolgendo le spalle agli studenti. Nel colloquio con l'ispettore non riconosce il problema. Agli studenti, che gli chiedono di spiegare argomenti che loro, da soli, riconoscono come importanti, contrappone un rifiuto netto. «Stessero attenti, imparerebbero. Io spiego, e a chi non segue metto un 2 sul registro» è la sua tesi. Nell'atteggiamento «di totale chiusura del professor G., che gli consente di frapporre un muro tra sé e gli altri», l'ispettore rileva come all'insegnante «manchi del tutto la coscienza della funzione di apprendimento degli studenti». Viene formulata una richiesta di «dispensa dal servizio», ovvero l'assegnazione «ad altro incarico». Il professor G. fa ricorso. Viene decisa un'altra ispezione. «Il professor R. dimostra una compiaciuta e totale inosservanza dei più banali obblighi di servizio». A questa realtà «indiscussa da colleghi, dirigenti superiori e alunni» oppone uno «stato di permanente e strumentale aggressività, all'interno del quale ogni pretesto risulta utile per creare conflitto e tensione all'interno dell'Istituto». Il professor R. «non conosce il programma e non gli importa di conoscerlo». In classe, legge il giornale. Il professor R. ha altri interessi. Insegnando in un Istituto serale, di giorno esercita una seconda professione «non autorizzata». Le assenze sono comunque numerose, e non c'è mai preavviso. Visto l'orario delle lezioni, «risulta estremamente difficile reperire supplenti». E comunque, il professor R. non lo consentirebbe mai. «Nel mese di novembre e dicembre del presente anno scolastico, la scuola ha dovuto fare fronte ad un periodo di assenza per malattia del professor R. che si è protratto per un totale di 42 giorni, senza essere stata messa dall'interessato nelle condizioni di poter nominare un docente supplente, a causa del fatto che il prof R. non ha presentato un'unica richiesta di giustificazione dell'assenza, ma al contrario l'ha segmentata in quattro diversi periodi, ogni volta facendo pervenire alla scadenza di ognuno un nuovo certificato medico. Un'incuria che ha fatto sì che per i suoi studenti vi sia stato di fatto un mese di interruzione dell'anno scolastico». Lo sbarramento difensivo del professor R. consiste in una serie di denunce a carico di preside e vicepreside, al ritmo di due a settimana. Al colloquio, il professor R. sostiene che i suoi alunni «sono bestie che meritano il mio disprezzo». L'ispettore la pensa diversamente: «Studenti lavoratori che dedicano, anche con fatica, parti non irrilevanti del proprio tempo alla frequenza di un corso di studi, le cui aspettative di apprendimento in discipline di primaria importanza sono state regolarmente frustrate e le conseguenze sono risultate evidenti in sede di Esami conclusivi». Quando c'è, il professor R. si fa notare. All'uscita da scuola ha aggredito il suo vicepreside, ed è quasi venuto alle mani con alcuni dei suoi studenti inferociti. Conclude l'ispettore: «In un contesto individuale segnato da negligenza, menefreghismo ed arroganza, il professor R. nulla ha dell'educatore». In prima istanza, viene chiesto il trasferimento a un corso diurno e non serale. Dopo corsi e ricorsi, viene invece deciso il «monitoraggio» del professor R. per la durata di un anno.

Genitori permissivi ed insegnanti perseguitati? Si chiede “Contro Educazione”. I genitori difendono i loro figli, talora in modo eccessivo, contro gli insegnanti, prendendo per buono ciò che i figli raccontano loro di quello che accade a scuola. E’ un fatto certamente nuovo e rivoluzionario, con il quale, piuttosto che promuovere campagne di mobilitazione collettiva e paranoide, occorrerebbe fare seriamente i conti. E’ un fatto: le famiglie, in larga parte, sono cambiate. Merito o demerito di un’atmosfera sociale molto diversa, di una “società educante” allargata, di una cultura psicologica più diffusa, di un codice materno che sta lentamente soppiantando quello patriarcale.
Ora, sembra che ciò sconvolga molto chi ha sempre creduto che scuola e famiglia dovessero stringere un patto di solidarietà contro i ragazzi, un patto disciplinare e normativo, quello che ha dominato per anni e in virtù del quale i ragazzi cercavano di tenere nascoste eventuali “monellerie” compiute a scuola o giudizi negativi degli insegnanti. Quel patto che spesso raddoppiava le umiliazioni patite a scuola con quelle patite a casa. Dove il cattivo voto diventava punizione (spesso fisica) in famiglia. Un mondo che riteneva i ragazzi alla mercé del mondo adulto, che poteva disporne a piacimento, essendo inteso che i ragazzi non avevano titolo ad esercitare alcuna decisione in proprio (almeno fino alla maggiore età) e che tutto ciò che veniva fatto, veniva fatto sempre per il loro bene. Sappiamo come funzionava tutto ciò. Si trattava di un sistema repressivo, violento, che forse (e sottolineo il forse) conseguiva alcuni obiettivi formativi per altro assai discutibili (una certa disponibilità al’obbedienza, alla dipendenza e alla sottomissione) ma indubbiamente favoriva nevrosi e complessi di ogni genere. Oggi le famiglie, in larga misura, sono cambiate. Abbiamo assistito al germoglio della famiglia “affettiva”, che vezzeggia i suoi virgulti, li ascolta, li difende, li assolve persino.
A prima vista non mi pare tanto male, se è così. Credo che una famiglia del genere non sia da considerarsi poi tanto strana se tenda a prendere le difese di un figlio che si lamenta di essere stato maltrattato da un adulto in altra sede, sia esso insegnante, prete o allenatore (ricordiamoci che molti ragazzi e ragazze per anni e per secoli non hanno avuto il coraggio di denunciare gli abusi di cui sono stati vittime, in famiglia o al di fuori di essa, anche in virtù di un atteggiamento di sottomissione e di mancanza di interlocutori adulti validi). Certo questo può produrre qualche inconveniente: i ragazzi che non amano un adulto possono calunniarlo o farlo perseguitare per sciocchezze. Ma questo è un dato ormai ineliminabile e che, a mio giudizio, dovrebbe indurre la scuola e gli insegnanti alla massima accortezza riguardo ai loro metodi normativi. Essi non vanno più di moda, quali che siano. Occorre che ogni sanzione sia sempre ben giustificata e giustificata in primis ai ragazzi stessi, che ormai hanno imparato a difendersi e anche a offendere, facendo leva sulla protezione che i genitori di oggi sono disposti a fornire loro. E’ finita l’epoca in cui l’insegnante e il genitore impugnavano insieme la bacchetta e la cinghia per raddrizzare le schiene poco docili. Oggi i sistemi punitivi sono caduti in grande discredito. E di ciò ritengo che non ci si dovrebbe lamentare, essendo stati, specie nei confronti di bambini e ragazzi, una vera e propria piaga, che ha fatto e deve continuare a fare scandalo. Non c’è alcun bisogno di punire. C’è bisogno di accordarsi, di spiegare, di negoziare, con il linguaggio e le forme adeguate alla comprensione di bambini e ragazzi. Sequestrare un cellulare può sembrare un fatto ovvio. Ma è davvero così? Perché occorre sequestrare un cellulare? Il vero problema non sarà che spesso gli insegnanti non riescono a suscitare l’interesse necessario a rendere non necessariamente preferibile distrarsi con il cellulare? Mi rendo conto che non sia facile ma indubbiamente oggi il problema è questo. Stare a scuola non è più un fatto così pacificamente accettato. Né dagli allievi né dai genitori. Occorre che la scuola conquisti una sua autorevolezza fondata sui fatti, non sulla disciplina. E che impari a persuadere i suoi allievi, obbligati a frequentarla, e sottolineo obbligati, che vale la pena essere lì. Che vale la pena persino spegnere o silenziare il proprio cellulare. Mi pare onesto. Se io dovessi essere obbligato a trascorrere ore e ore in un luogo tutt’altro che attraente, in compagnia di adulti spesso tutt’altro che interessanti, a fare cose che reputo tutt’altro che di mio gusto, dubito che sarei contento se mi sequestrassero una finestra sul mondo come può essere considerato il cellulare o simili. Credo che occorra finirla con una cultura che ha dato per scontate molte cose, anche che essere a scuola sia un fatto di per sé educativo in quanto obbligatorio o in quanto normato da un sistema disciplinare spesso violento e incurante della sensibilità di bambini e ragazzi. E’ una cultura di cui occorrerebbe vergognarsi più che avvertire la nostalgia. Forse oggi i genitori, anche per compensare alle loro manchevolezze, alla loro mancanza di tempo, alla loro distrazione, sentono la necessità di riconquistare l’amore dei figli anche con un eccesso di protezione. Può darsi, come può darsi che questo indebolisca i ragazzi e li renda più fragili. Queste spiegazioni, queste diagnosi non mi convincono fino in fondo. I ragazzi di un tempo erano spesso molto vili, molto dipendenti, molto incapaci di farsi valere di fronte all’autorità. Oggi essi non amano farsi mortificare e hanno imparato a reagire. Credo sia un buon segno. Un segno di cui forse, molto presto, ci si accorgerà anche in altri contesti sociali e politici. E’ colpa della famiglia affettiva, della società permissiva, della caduta dei “valori”, quelli dell’obbedienza, della norma e del dovere? Beh, se è così ben venga. Ben venga la fine di un sistema di oppressione di cui ritengo che la gran parte dei bambini e dei ragazzi di questo mondo abbiano il diritto di essere definitivamente esonerati. Questo non significa assolverli sempre e comunque ma, come per gli adulti, ritenerli persone con pieni diritti, con i quali ogni gesto, ogni imposizione, ogni richiesta deve essere spiegati, legittimati, concordati. Altro che scuola della frustrazione, del sacrificio e della sanzione!

CHI GIUDICA CHI?

Università, commissione zero titoli per giudicare chi diventa professore. Chi vuole diventare docente universitario deve convincere esaminatori che spesso vantano meno meriti scientifici di lui. Un paradosso previsto dalla legge, con conseguenze nefaste. Perché così il merito non viene premiato. E i nostri atenei sfigurano nelle classifiche mondiali, scrive Stefano Vergine il 31 agosto 2017 su "L'Espresso". Professori universitari senza nemmeno una citazione scientifica. Chiamati a giudicare candidati-professori che di citazioni ne hanno centinaia. È la storia paradossale della commissione che un mese fa ha annunciato chi saranno i nuovi docenti ordinari di geografia in Italia. Ruolo ambitissimo; stipendio di partenza da oltre 3 mila euro netti al mese. Ma non è il salario a essere messo in discussione qui. Piuttosto il metodo attraverso cui vengono scelti i professori del domani, più precisamente la statura scientifica di chi li seleziona. Tutto legale, meglio dirlo subito. È infatti la legge a prevedere questa contraddizione in cui si è trovato stritolato Marco Grasso, novarese di 51 anni, professore associato di geografia economica e politica all’università Bicocca di Milano. In aprile, insieme a centinaia di colleghi, ha inviato la candidatura per diventare ordinario. Si chiama abilitazione scientifica nazionale ed è una sorta di patentino, indispensabile per poter poi partecipare a concorsi ed essere eventualmente assunto come docente presso le università italiane. Un filtro anti-raccomandati, insomma, frutto della riforma voluta nel 2010 dall’allora ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. L’abilitazione aveva infatti l’obiettivo dichiarato di frenare il nepotismo imperante negli atenei italiani. Perché, centralizzando il processo di selezione, fino ad allora appannaggio esclusivo delle singole università, promuovere l’amico dell’amico sarebbe risultato più difficile e il merito avrebbe avuto finalmente un riconoscimento. Così almeno si diceva. Le cronache giornalistiche, i ricorsi alla giustizia amministrativa e le inchieste giudiziarie degli ultimi anni hanno dimostrato che le cose non sono andate come l’ex ministro auspicava. Professori che hanno truccato il curriculum per far parte delle commissioni, conflitti d’interesse fra giudici e giudicati, accordi sottobanco tra membri di diverse giurie. Scandali che hanno costretto Stefania Giannini, succeduta alla Gelmini, ad apportare alcune modifiche alla riforma.

La storia dell’ultimo concorso per diventare professore di geografia mostra però che i problemi sono ancora tanti. E fornisce una spiegazione in più per capire come mai, ancora una volta, fra i primi 100 migliori atenei del mondo (selezionati nell’Academic Ranking of World Universities) anche quest’anno non ce ne sia nemmeno uno italiano. Il profilo di Grasso è quello di un tipico cervello in fuga. Proprio coloro che il nuovo sistema punta in teoria a far tornare indietro. Economista e geografo, è un esperto di cambiamenti climatici. Studia gli effetti del surriscaldamento globale. Per esempio. Dove si trasferiranno gli abitanti di quelle zone del mondo che già stanno diventando invivibili? Che cosa si potrà coltivare in Italia quando la temperatura si sarà alzata mediamente di 2 gradi?

Laurea in economia alla Bocconi di Milano, corso di specializzazione in sistemi dinamici e ambiente al Politecnico della Catalogna, dottorato di ricerca in geografia al King’s College di Londra, Grasso ha insegnato all’estero per parecchi anni: Sydney, Amsterdam, Stati Uniti e Inghilterra. «Poi sono diventato papà, volevo far crescere mio figlio in Italia e ho fatto di tutto per poter tornare qui», racconta davanti a una granita in un bar di Milano. Pantaloncini corti e maglietta, Grasso sembra il tipico prof che si potrebbe incontrare in un campus universitario del Nord Europa, lontano dallo stereotipo del barone italiano. Dalla sua ha decine di pubblicazioni su riviste scientifiche autorevoli. La sorpresa di Grasso è stata quella di essere bocciato da una commissione con “zero tituli”, per citare l’ex allenatore dell’Inter, José Mourinho. Uno degli aspetti cruciali per decidere se concedere l’abilitazione è infatti la produzione di documenti scientifici da parte dell’aspirante professore, prova tangibile della capacità di fare ricerca. Ai candidati per il posto di ordinario di geografia, quello a cui ha partecipato Grasso, era richiesta la pubblicazione negli ultimi 15 anni di almeno due articoli su riviste di classe A. Fanno parte di questa categoria, per dire, Nature e Geoforum: pubblicazioni di qualità indiscussa. Quanti articoli devono aver scritto i commissari su questo tipo di riviste? Zero. Lo prevede l’Anvur, l’agenzia del ministero dell’Istruzione responsabile del processo di selezione dei nuovi docenti. Il risultato paradossale è che Grasso, con all’attivo tre pezzi su riviste di fascia “A”, è stato valutato da persone che su quei giornali non hanno mai scritto una riga. Una contraddizione che potrebbe aver penalizzato molti altri candidati: scorrendo la lista dei requisiti richiesti ai commissari si vede infatti che sono moltissimi i settori per i quali non sono previste pubblicazioni in riviste di fascia “A”. Tanto per citarne alcuni: storia moderna, scienza delle finanze, economia applicata, statistica, demografia. Ma c’è di più. Un’altra variabile presa generalmente in considerazione per valutare le qualità di uno studioso sono le citazioni, cioè il numero di volte in cui un suo lavoro scientifico viene menzionato da altri articoli accademici. Anche qui Grasso pensava di avere il terreno spianato. Su Scopus , una delle banche dati più usate per la letteratura scientifica, il geografo novarese conta infatti 18 articoli e 212 citazioni. E i membri della commissione chiamata a giudicarlo? Questo il loro palmares. La presidente della giuria, Emanuela Casti, tre articoli e diciannove citazioni. Il segretario, Gian Marco Ugolini, due articoli e nessuna citazione. Girolamo Cusimano e Laura Federzoni: un articolo a testa e nessuna citazione. Chiude la cinquina Gavino Mariotti, il cui nome sulla banca dati non compare. Il sito del ministero dell’Istruzione mostra che Grasso non è stato il solo a essere bocciato da questa commissione. Lo stesso è capitato per esempio a Francesco Chiodelli, Cecilia Pasquinelli e Oreste Terranova: tutti e tre candidati al ruolo di professore di geografia (associato, in questo caso), tutti e tre respinti nonostante una produzione scientifica molto maggiore rispetto a quella dei commissari. 

Va detto che per diventare docente non basta essere un prolifico ricercatore. I requisiti sono parecchi, dalle esperienze di insegnamento alle partecipazioni a convegni. Nelle motivazioni della bocciatura di Grasso i commissari scrivono che, «seppure di discreta qualità», i titoli posseduti dal candidato «quasi sempre non sono collocabili all’interno del settore concorsuale di geografia». Come dire: ha fatto cose accettabili, ma spesso riguardavano altri ambiti. Il punto qui non è però giudicare se sia stato giusto non concedere l’abilitazione a certi candidati, ma se è autorevole un sistema universitario in cui un aspirante professore viene valutato da studiosi con una produzione scientifica molto più bassa della sua. Perché, come in ogni ambito, maggiore è l’autorevolezza di chi giudica e maggiore sarà quella dell’istituzione stessa. E quella dell’università italiana, stando alle classifiche, non è proprio delle più invidiabili.

Università, l'ossessione della produttività può danneggiare i migliori. "Quanto vali? significa adesso "Quanto sei in grado di produrre". Accade nelle istituzioni universitarie in balia di agenzie di valutazione chiamate a misurare quanto siano produttivi docenti e dipartimenti. Così si riduce l'arbitrio dei baroni, ma si rischia di penalizzare non solo i fannulloni, ma i professori più dotati, scrive Roberto Esposito il 10 luglio 2017 su "L'Espresso". Può sorprendere, in una società che sembra perdere ogni rapporto con i propri valori, l’espandersi inarrestabile dell’ideologia della valutazione. Ormai siamo tutti valutati. Non ascoltati, considerati, sostenuti nelle nostre fragilità pubbliche e private. Ma valutati sì. In termini economici di utilità, di performance, in cui occorre misurare il “capitale umano” che ciascuno, potenziale imprenditore di se stesso, può vantare. Del resto la trasmigrazione del concetto di valore dall’ambito etico a quello economico non poteva portare ad altro. “Quanto vali?” significa adesso “quanto sei in grado di produrre?”. Tutto ciò non solo a prescindere da considerazioni sociali, contestuali, personali. Ma anche in base a dati puramente quantitativi, misurabili e appunto valutabili in maniera numerica. Se in campo economico tale indagine di mercato è comprensibile, trasferita ad altri settori rischia di determinare effetti controproducenti e vere e proprie storture. Per esempio valutare in questi termini la situazione di un malato in una struttura sanitaria pubblica può portare a conseguenze catastrofiche. Ma l’impatto – per usare un vocabolo amato dai valutatori – su altri ambiti può risultare del pari devastante. È quanto accade da tempo nelle Università, ormai in balia, per i loro finanziamenti, di agenzie di valutazione destinate a misurare il “valore” dei singoli docenti e dei Dipartimenti in cui essi operano. Numero degli studenti, numero delle pubblicazioni dei docenti, numero delle citazioni dei loro lavori, numero dei brevetti, degli stage attivati, degli sbocchi professionali. Nulla sfugge alla griglia approntata dalle agenzie di valutazione allestite ovunque – prima l’Aeres in Francia poi l’Anvur in Italia. Ciò che esse si ripromettono è misurare in maniera oggettiva, perché numericamente definita, il valore quantitativo prodotto da singoli e da collettivi, finanziati in base a tale indice. Da quel momento i dossier, le schede, i formulari prodotti dalle strutture accademiche e dai docenti superano di gran lunga quello dei prodotti stessi della ricerca. Ciò che conta è che questi entrino nelle griglie prefissate, dando luogo a una cifra superiore, pari o inferiore a una serie di “mediane” preventivamente fissate. Chi le supera passa – nei ruoli accademici superiori, nelle abilitazioni scientifiche nazionali, nei Collegi dei Docenti dei Dottorati. Chi non ha gli stessi numeri – di articoli, citazioni, brevetti – resta fuori. Ciò, si dice, non senza qualche ragione, ha finalmente abolito l’arbitrio dei vecchi baroni, gli accordi sottobanco, i privilegi che effettivamente caratterizzavano il sistema universitario precedente. Oggi tutto ciò è finito, dissolto dalla nuova neutralità oggettiva. Basta contare. I numeri non tradiscono. La giustizia accademica è infine instaurata. Restano, però, aperte alcune domande. Chi valuta i valutatori? Essi – si risponde – sono valutati con le medesime mediane adoperate per i candidati da valutare. Ogni valutatore, a sua volta, si avvale di numerosi sottovalutatori che egli stesso individua in base alle proprie valutazioni delle loro capacità valutative. Sembra uno scioglilingua. Ma le cose stanno davvero così. Un sistema volto all’oggettività del giudizio si basa su una serie di scelte soggettive discendenti di cui sfugge solo il primo anello, che riguarda il vertice dell’Agenzia, di nomina governativa. Del resto su tutto sorveglia il Miur, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, a sua volta garantito dall’alta responsabilità del Ministro in carica, scelto dai partiti di governo in base a criteri del tutto esterni a quelli applicati a valutandi e valutatori e anzi, possibilmente, mai sottoposto ad esami di pubblico rilievo. Non basta. La cornice dell’intero quadro si è evoluta nel tempo. Mentre fino a poco fa si poteva pensare che, per chi fa ricerca scientifica, almeno nell’ambito delle scienze umane, i “prodotti” più rilevanti fossero i libri – in gergo accademico, “le monografie” – a un certo momento si è stabilito che non è più così. Ciò che conta sono solo gli articoli – anche di due-tre pagine – pubblicati in riviste collocate preventivamente, in base a una apposita valutazione, nella cosiddetta fascia A. Soltanto chi le dirige o chi è suo buon conoscente, può pubblicare in esse articoli che, s’intende, verranno neutralmente valutati dai valutatori che gli stessi direttori hanno scelto. Ma non basta. Queste riviste, ai fini della valutazione, non sono uguali. Valgono solo quelle del settore disciplinare del valutando, cosicché, se questi ha interessi di tipo interdisciplinare – che so, di architettura se insegna storia dell’arte o di filosofia politica se insegna filosofia morale – va severamente punito con l’esclusione dall’ambito dei salvati e precipitato in quello dei sommersi.

L’esito, borgesiano, di questo sistema è che la Commedia di Dante non otterrebbe la valutazione positiva perché non attinente a un settore disciplinare specifico, visti i suoi riferimenti, appunto “interdisciplinari”, filosofici, cosmologici, politici, etc. Ancora, Francesco De Sanctis sarebbe bocciato in un’abilitazione in Storia della Letteratura Italiana, perché, insieme alla sua grande “Storia” non ha scritto sufficienti articoli; Einstein non passerebbe perché, rompendo paradigmi e convenzioni scientifiche del tempo, non avrebbe potuto organizzare lo scambio di citazioni necessarie con i colleghi. E così via. Tutto ciò, naturalmente, questi effetti perversi, non sono ignorati da chi ha messo in piedi, magari anche in buona fede, il sistema. Ma sono considerati danni collaterali rispetto ai suoi aspetti positivi. Che in effetti ci sono, soprattutto per i peggiori: coloro che non pubblicano abbastanza vengono adesso giustamente esclusi. A pagare il prezzo sono tuttavia i migliori, cioè coloro il cui prestigio internazionale spinge a scrivere i propri libri, spesso tradotti in diverse lingue, senza preoccuparsi delle griglie, delle fasce, delle citazioni e così via. Ve li immaginate, per restare nel campo della filosofia, Habermas e Derrida che cercano le riviste di fascia A per scrivere dodici articoletti? E coloro che fanno ricerca scientifica perché dovrebbero tentare di innovare il proprio campo, rischiando di non essere citati dai colleghi più tradizionali? Questo spiega perché sta nascendo un silenzioso movimento di protesta, sfiducia, stanchezza che porta diversi professori, soprattutto in area umanistica, a lasciare l’Università. Per dedicarsi finalmente alla ricerca. Non per non essere valutati, ma per non finire preda di un dispositivo inefficiente e contraddittorio.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

 

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

 

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

 

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

 

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

 

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

 

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

 

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

 

Vengo anch'io? No tu no

 

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

 

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

GITE: L'INCUBO DEI VIAGGI DI ISTRUZIONE.  

Non volevo fare la prof, scrive Mariangela Galatea Vaglio su “L’Espresso”. Gite scolastiche: renderle "obbligatorie" per i docenti non serve. In gita (chiamiamole così per capirci, il nome reale sarebbe "viaggio di istruzione") succede da sempre un po' di tutto. E' inutile far finta di non vedere, o non voler vedere. Gli alunni, anche i più calmi e tranquilli, in gita si trasformano: aspettata tutto l'anno, viene vissuta come una valvola di sfogo, ed in quei due o tre giorni si concentrano  le aspettative di mesi e mesi. Cosa che nel migliore dei casi si risolve in qualche simpatica ragazzata; nel peggiore, e la cronaca degli ultimi giorni lo dimostra, può diventare una occasione per atti di bullismo e di nonnismo nei confronti dei più deboli ed indifesi del gruppo,. Azioni cui gli insegnanti faticano a mettere in freno perché, in gita, nessuno, diciamolo sinceramente, è in grado davvero di controllare cosa può succedere. La visita di istruzione è una importante esperienza didattica: serve a responsabilizzare gli alunni ed a farli crescere. Per alcuni, prima ancora che essere una occasione di visitare posti che non hanno mai visto, è più che altro la prima esperienza che consente loro di farlo "da soli": senza i genitori a risolvere problemi e a coccolarli, in un gruppo di pari dove devono imparare ad affrontare le prima piccole pratiche difficoltà della vita. Un momento formativo ancora prima che culturale, necessario, anche se sembra difficile da credere, per una generazione di ragazzi che a 10 anni in molti casi ha visto già gran parte del mondo. Ma lo ha fatto in famiglia ed in maniera iperprotetta, e così alle volte anche i più apparentemente smaliziati, lasciati a salire su un pullman da soli o a sistemarsi in una camera d'albergo, si perdono come davanti all'ignoto. Nata dunque come una opportunità di approfondimento e di crescita personale, la gita però si sta trasformando in un incubo, soprattutto per i docenti accompagnatori. Perché gli alunni che vengono in gita, specie quelli delle superiori, sono incontrollabili. Poco abituati in famiglia ad avere regole certe, faticano a capire che se ci si muove in gruppo queste sono necessarie e vanno rispettate, per quanto possano sembrare alle volte assurde. Inoltre la "gita", proprio per il fatto che si è fuori dal consueto ambiente scolastico standard, di per sé è spiazzante, anche per i docenti. Che devono tenere sotto controllo troppe cose e troppe persone in uno scenario che essi stessi conoscono poco, per cui è facile che possa sfuggire qualcosa, o che la sorveglianza diventi più lasca. Più passano gli anni, più il numero di docenti che decide di non dare la disponibilità ad accompagnare le classi in gita sale. Faccio parte anche io della categoria, e per molti e fondati motivi. Il primo è quello di essermi resa conto di non poter garantire ai miei alunni ciò che mi viene richiesto dalla legge. Quando si è in gita, il docente accompagnatore è tenuto alla sorveglianza, sempre e comunque. Si è uno ogni 15 alunni, ma gli alunni sono esseri umani e vivono 24 ore al giorno, come tutti. Il che vuol dire, in soldoni, che io docente, dovrei garantire 24 o 48 ore di sorveglianza continua e ininterrotta sui 15 fanciulli che mi sono affidati. Qualsiasi cosa capiti loro, se inciampano sul marciapiede, attraversano senza guardare all'improvviso la strada,  se fanno a botte, se si tirano gavettoni e organizzano scherzi stupidi ma letali, tutto ciò cade sotto la mia diretta responsabilità, e posso essere perseguita penalmente e civilmente per i danni che possono subire. Ora io confesso, molto sinceramente: non sono in grado di farlo. Sono un essere umano anche io:  durante il giorno ho fame, sonno e anche qualche momento in cui l'attenzione cade. Non me la sento di prendermi questa responsabilità, specie se poi i ragazzi che mi sono affidati sono alunni che già in classe sono difficili da tenere sotto controllo. Qualunque genitore penso si sia reso conto da solo che spesso persino i figli che ha allevato lui hanno, quando sono fuori e con lui, dei tiri inaspettati: ecco, io dovrei portare in giro per il mondo ragazzi che non ho nemmeno allevato io e che spesso e volentieri non sono neppure molto lesti ad obbedire agli ordini che devo dare per garantire la loro sicurezza. E non ho nessuna intenzione, un domani, di ritrovarmi a processo perché Pierino della 3B alle due di notte, dopo che lo avevo mandato in camera sua, si è arrampicato sul cornicione ed è caduto di sotto, o perché ha organizzato uno "scherzo" nei bagni ai danni del compagno e lo ha picchiato mentre io, in perfetta buona fede, perlustravo il corridoio del piano di sopra. L'ipotesi quindi ventilata oggi, di rendere per il personale docente obbligatorio l'accompagnare i ragazzi in gita, non è una soluzione. E il problema non è neppure quello di "pagarci di più". Una diaria maggiorata (o meglio, una diaria qualsiasi, visto che oggi non ne percepiamo in pratica nessuna) non basta a limitare l'ansia che l'idea della gita suscita in molti docenti, per i possibili rivolti legali. Che non sono neppure solo quelli penali, ma anche lo stress e le polemiche che poi tocca affrontare per provvedimenti e sanzioni presi e comminati ai ragazzi nel corso della gita o subito dopo, a seguito di loro comportamenti poco consoni. Non siamo cattivi, noi docenti che ci rifiutiamo, e neppure poco motivati. E' che semplicemente ci rendiamo conto che non siamo in grado di dare ai nostri alunni un servizio di qualità in quei giorni in cui li portiamo in giro, perché la normativa pretende da noi ciò che non si può pretendere da un essere umano. Più che parlare di imporre obblighi o di elargire mance, bisognerebbe riflettere su questo. Tutti. Seriamente.

SCUOLA: ROBA DI SINISTRA CHE SFORNA STUDENTI ANALFABETI.

La riforma Gentile. La riforma Gentile è una serie di atti normativi del Regno d'Italia che costituì la riforma scolastica organica varata in Italia. Prese il nome dall'ispiratore, il filosofo neoidealista Giovanni Gentile, Ministro della Pubblica Istruzione del governo Mussolini nel 1923. Infatti, la Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia del 2 giugno 1923 n. 129 aveva pubblicato il Regio Decreto n. 1054 del 6 maggio 1923 dal titolo: "Ordinamento della istruzione media e dei convitti nazionali". L’art. 27 recita: le supplenze ai posti di ruolo e gli incarichi di insegnamento di qualunque specie sono scelti e conferiti dal preside. Firmato Benito Mussolini.

Scuola, Renzi come Mussolini? La prova del web nella Gazzetta Ufficiale, scrive Americo Mascarucci su "Intelligo News". “La supplenza ai posti di ruolo e gli incarichi di insegnamento di qualunque specie sono scelti e conferiti dal preside”. No, non stiamo parlando della riforma della scuola e delle polemiche che hanno accompagnato la decisione del Governo di affidare ai dirigenti scolastici la scelta degli insegnanti nei propri istituti. No, questa disposizione è contenuta nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia numero 129 del 2 giugno del 1923 e porta la firma dell’allora capo del governo Benito Mussolini. Nelle ultime ore questo reperto storico ha preso a circolare sui social network con il chiaro intento di dimostrare come la scelta di Renzi di conferire poteri straordinari ai dirigenti scolastici non abbia precedenti nella storia d’Italia se non nel governo fascista. Renzi come Mussolini dunque? Il senso è quello e l’accostamento ovviamente ci può stare tutto, soprattutto se si considera il carattere decisionista che ha portato il premier a tirare dritto per la sua strada ignorando gran parte delle critiche provenienti da sindacati, docenti e studenti. Fa un certo effetto leggere oggi quella disposizione firmata dal Duce con la quale vengono delegati ai presidi tutti i poteri in ordine all’arruolamento dei docenti effettivi e delle supplenze. Ovviamente si trattò all’epoca di una scelta in linea con l’idea di stato propugnata dal Fascismo, uno Stato in cui a decidere erano i prefetti per ciò che concerneva l’attività di governo nelle province e i presidi per ciò che riguardava il governo della scuola. Qualcuno ovviamente ha già commentato che se il buongiorno si vede dal mattino c’è poco da stare allegri. Eh sì, perché nel giugno del 1923, data di pubblicazione della Gazzetta Ufficiale in questione, Mussolini non aveva ancora assunto i poteri dittatoriali, non c’era ancora stato l’omicidio Matteotti e quindi le strutture democratiche del Regno d’Italia, seppur fortemente ridimensionate, erano comunque ancora operative.  “Anche Mussolini voleva la buona scuola”, “Il super-preside non lo ha inventato Renzi, ma Mussolini” e così via, questi i commenti più frequenti che si stanno leggendo in queste ore su internet. Ma Renzi fortunatamente non è Mussolini e l’Italia non il Paese degli anni Venti. Ma si sa, agli italiani piace voltare sempre la faccia all’indietro nell’assurda consapevolezza che la storia si possa ripetere sempre uguale a se stessa. Fu così per Bettino Craxi, è stato così per Silvio Berlusconi, entrambi eternamente raffigurati affacciati sul balcone di Piazza Venezia in orbace e fez, tanto per dimostrare il carattere autoritario di certe decisioni. Oggi tocca a Renzi, il cui principale obiettivo sembra essere quello di velocizzare l’Italia impedendo che resti impigliata nei gangli della burocrazia, una burocrazia farraginosa che spesso anziché risolvere i problemi li aggrava notevolmente. E questo all’epoca piaccia o no era anche l’obiettivo di Mussolini appena salito al potere dopo la Marcia su Roma. Del resto non è certo un caso se per anni la scuola italiana è andata avanti con la riforma Gentile, anche questa retaggio dell’epoca fascista. Una riforma che in tanti hanno cercato di cambiare nel corso del dopoguerra ma conservandone l’impianto generale nella consapevolezza che non tutto ciò che era figlio del Fascismo fosse da buttare. Oggi rispunta la figura del dirigente scolastico tutto fare, contestata dai sindacati e dal personale docente oltre che dagli studenti per i quali ogni riforma è sempre e solo da buttare. Lasciare tutto com’è perché nulla cambi. Saranno i fatti a giudicare se la riforma di Renzi avrà successo o meno. Intanto, dopo il piccolo balilla che fa il saluto romano all’asilo è il turno del nuovo Mussolini in versione fiorentina e poco importa se a Palazzo Chigi il novello Benito ci è andato senza neanche bisogno di marciare su Roma. Elena Curti, la figlia di Benito Mussolini: "Renzi come mio padre". Intervista di Francesco Borgonovo e Pietro Senaldi su “Libero Quotidiano”. Elena Curti è l’ultima figlia vivente di Benito Mussolini. È nata nel 1923, dalla relazione del Duce con Angela Cucciati, la moglie di Bruno Curti, un capo fascista della prima ora. Seppe di essere sangue del sangue di Mussolini quando aveva diciotto anni, e a lungo lavorò per Alessandro Pavolini. Ogni giovedì, come ha ricostruito Mauro Suttora analizzando i diari di Claretta Petacci, accompagnava il gerarca nello studio del Duce, e Claretta era gelosissima di questa ragazza bellissima e giovane. Ignorava che fosse la figlia di Benito e non un’altra amante. Lo scoprì molto più tardi, dopo il 25 aprile del 1945. Elena infatti faceva parte del convoglio composto dai gerarchi e dallo stesso Duce diretto in Valtellina e, da lì, in Svizzera. Fu tra gli ultimi a vedere Mussolini vivo. Elena è una signora elegante, colta, brillante. Di una lucidità a tratti spietata. Si è fatta accompagnare nella redazione di Libero dalla nipote. «Non ho figli, non ho mai voluto farli perché quando uno li fa poi li deve crescere bene, ci vogliono soldi e prima di tutto due genitori che vanno d'accordo. I miei due padri e soprattutto mia madre mi hanno fatto soffrire molto. Quando ero bambina continuava a dirmi che ha fatto di tutto per perdermi». Non teme di dare giudizi politici, anche ruvidi. Per esempio su Giorgio Almirante... «Non mi è mai piaciuto, fin dal primo momento. Questione di pelle, quando me l’hanno presentato era un rappresentante di saponette mal vestito, poi l’ho rivisto in Parlamento. Ma in tanti anni non ha mai fatto nulla di veramente importante per i fascisti. Era bravo solo a parlare, ed è stato bravo a farsi il suo appartamento, bello e grande nel centro di Roma. Si accontentava di avere il partito al 5% facendosi votare dai nostalgici di cui non si è mai davvero occupato».

Intende dire per i reduci di Salò?

«Certo, e guai a chiamarli repubblichini, a Salò c’erano solo italiani che amavano l’Italia. I repubblichini sono quelli arrivati dopo, che si sono fatti una carriera sulle spoglie dei ragazzi morti».

E del successore di Almirante, Gianfranco Fini, cosa pensa?

«Anche Fini non mi è mai piaciuto. Peggio perfino di Almirante. Ma la politica non mi interessa. Non ho mai votato Berlusconi. Ho votato a lungo quello che si beve la sua pipì, come si chiama… Pannella. E poi Verde, perché mi interessa tutto quello che ha a che fare con la natura».

Oggi, invece, c’è qualche politico che apprezza?

«Credo che al prossimo giro voterò per Renzi, perché mi ricorda Mussolini. È uno che non guarda in faccia a nessuno, va anche contro i suoi pur di fare quello che si è prefissato. All’inizio mi piaceva il presidente Napolitano. Poi però ho capito che faceva solo gli interessi di una parte sola. Mattarella non mi piace, non condivido il suo elogio dei partigiani. Non doveva farlo. Il ricordo che ho io dei partigiani è di gente ignorante, che mi ha rubato tutto. Mi hanno rubato tutti i soldi, mi hanno cacciato di casa, mi hanno preso pefino il mio collo di lince. Quando sono diventata ricca la prima cosa che ho fatto è comprarmi una pelliccia di lince lunga dalla testa ai piedi; quella è stata la mia rivincita».

E a destra, chi stima?

«Negli anni Cinquanta a Roma organizzavo delle grandi cene a casa mia. Venivano anche i deputati comunisti. Si rideva e si scherzava. Altri uomini... Stimavo molto Mario Tedeschi, il direttore de Il Borghese. Lo chiamavamo Mariolino perché era magro, poi a furia di mangiare è diventato Marione; si è arricchito ma si è meritato tutto, faceva un giornale straordinario, vera destra quella».

Ci può raccontare quegli ultimi giorni con Mussolini?

«Ero assieme al Duce sull’autoblindo che avrebbe dovuto portarci in Svizzera. Per una serie di circostanze dovute al destino, ci siamo dovuti fermare, perché la strada era interrotta da due alberelli. I tedeschi erano dietro di noi. A un certo punto, quando siamo ripartiti, i tedeschi si sono accorti che il gommone della nostra autoblindo era stato bucato da alcuni chiodi a tre punte. La causa prima e ultima di questa tragedia sono stati proprio questi chiodi. Da lì il titolo del libro del 2003 in cui ricostruisco la vicenda, “I tre chiodi”, appunto».

Dove pensava di andare?

«Io pensavo di andare al confine svizzero dove doveva esserci la riunione dell’ultimo baluardo di difesa della Repubblica sociale italiana in attesa dell’arrivo degli americani».

Che ruolo aveva?

«Io lavoravo per il Partito fascista. Per questo motivo - oltre che per la relazione personale con Mussolini - mi sono trovata in quelle circostanze. Sono venuti a prendermi la notte prima, mentre lavoravo al partito. Il Duce all’inizio non era con noi bensì su un’auto. Poi Pavolini lo ha invitato a salire sull’autoblindo. Io ero a fianco di Mussolini ma quando il convoglio si è fermato lui è sceso, perché i tedeschi gli avevano consigliato di vestirsi come uno di loro e salire sul loro camion. La scusa era per proteggerlo, invece era un tranello per consegnarlo ai partigiani in cambio del permesso di proseguire. I tedeschi dicevano di avere il lasciapassare dei partigiani ma quando li hanno incontrati tutti i militari sono scesi dal camion e Mussolini, poveraccio, è rimasto a bordo. Dico poveraccio perché gli avevano detto di far finta di essere ubriaco. E lì lo hanno catturato. È stata tutta una sceneggiata per imprigionare Mussolini. I tedeschi dopo questa bella trovata se ne sono andati».

Dunque Mussolini è stato tradito dai tedeschi?

«Tradito, tradito… Altroché tradito…».

Quando lei si è separata da Mussolini ha capito che c’era qualcosa di strano, che qualcosa non andava?

«L’ho capito dopo, quando poco più tardi sono stata catturata anche io. Sentivo tutti che dicevano “Hanno preso Mussolini, hanno preso Mussolini”. Tutti battevano le mani. Io non ci credevo, invece era vero».

Qual era lo stato d’animo di Mussolini in quell’ultimo giorno?

«Sembrava indifferente. Non sembrava minimamente preoccupato di quello che stava succedendo. Era assolutamente sereno, sicuro di risolvere i suoi problemi».

Si ricorda le ultime parole che le ha detto?

«Mi disse: gli italiani mi hanno tradito, tanto vale andare con i tedeschi. Poi però anche i tedeschi l’hanno tradito e l’hanno consegnato per salvarsi: a Dongo è stata un’imboscata».

Che ricordo ha lei di Mussolini come uomo?

«È un uomo che io conoscevo, non per merito o per colpa mia, da quando aveva quarant’anni. Per vent’anni l’ho conosciuto per tramite di mia mamma. Mia mamma ha seguito Mussolini nella sua ascesa, nei momenti più fulgidi della sua conquista, del potere… Andava sempre a Roma a trovarlo, poi è subentrata quella arpia della Petacci…».

Sua madre come ha conosciuto Mussolini?

«In quegli anni c’era un grande fermento in Italia. Si costituirono come dei plotoni di gente per autodifesa. Il marito di mia madre faceva parte di uno di questi gruppi per la difesa della popolazione. C’era un professore comunista, si chiamava Gadda, e lui andò con il suo gruppo davanti alla scuola del professore per intimidirlo. Ma poi è scappato un colpo di pistola che ha ucciso questo professore, e il mio patrigno è stato incarcerato con i suoi compagni. Disse allora a mia madre di andare da Mussolini che era ancora direttore di giornale. E mia mamma andò, facendosi accompagnare da mio nonno, che conosceva Mussolini poiché era già un fascista - anche se allora non si diceva così - e anticlericale. Si sono conosciuti lì. E poi hanno portato avanti la relazione».

Torniamo a quel 26 aprile. Che cosa è accaduto a lei, dopo che Mussolini ha lasciato l’autoblindo?

«Io sono rimasta lì, arrivò un gruppo di partigiani e cominciò a sparare. Pavolini e altri saltarono giù dell’autoblindo e si diressero verso il lago. Mi guardai intorno. I partigiani sparavano di sbieco da un pianoro, una pallottola colpì un uomo che era accanto a me, lo chiamavano il Nonnino, un fascista della prima ora. Morì lui e non io. Così saltai dall’autoblindo, non senza una certa paura. Dall’alto ho subito sentito gridare: “Mani in alto, mani in alto”. E mi hanno presa».

E l’hanno portata in carcere...

«Beh, di sicuro non mi hanno offerto l’aperitivo. Mi hanno perquisito e mi hanno trovato una rivoltella in tasca. Era di mio fratello, che era un militare. Me la lasciò a Como, dicendomi: “Tu ne farai buon uso”. Certo. Infatti quando mi hanno presa i partigiani l’unica a cui hanno trovato addosso un’arma ero io… I partigiani parlavano in dialetto, non sapevano l’italiano. Oltre a farci prigionieri erano anche ignoranti. Mi hanno portato via tutto, anche la borsetta con 75 mila lire di allora. Intanto a Milano mia mamma era dovuta scappare, perché i partigiani erano andati anche lì, per prenderci la casa. Non eravamo ricchi, eravamo in affitto. Certo, mia mamma andava con Mussolini, ma non si è mai arricchita non ha fatto come la Petacci...».

E lei come se l’è cavata?

«Trovandomi la pistola in tasca, i partigiani volevano affibbiarmi la morte di uno che avevano ucciso loro per sbaglio. Poi intervenne un angelo del cielo. Ho sentito una voce che ha detto: “Fermi, fermi, questa me la lavoro io”. E io pensavo: “Oddio, mi lavori come vuole, ma almeno mi lasci viva”. Invece è stato bravissimo e mi ha salvato. Mi ha domandato come fossi finita sull’autoblindo, e io gli ho raccontato che mi avevano raccolto lungo la strada, mentre andavo in montagna, anche se non era vero. Lui ha finto di crederci. E ha avuto un buon pretesto per salvarmi la vita. Io non so chi sia quest’uomo. Avrei voluto tanto ringraziarlo, ma non ho mai saputo chi fosse».

Poi cosa è accaduto?

«Mi dicevano: “Mani in alto”, e io ebbi uno scatto di rabbia. Mi girai verso il partigiano che lo gridava e gli dissi: “Ma quali mani in alto, non vedi che non sono armata, non ho nulla e sono stanca”. Pensavo che mi avrebbe sparato alla nuca, invece mi diede un colpo con il fucile, vidi tutto il sangue che mi colava… Ma per un momento mi sono sentita brava, soddisfatta… A quel punto mi hanno portato in caserma. Ho dormito per terra. Ero con altre persone, giovani e non giovani, i fascisti del paese. Ho fatto cinque mesi di carcere. Era pieno di cimici, spaventoso. Vivevamo in condizioni terribili. C’era un cono stretto, con sotto un coperchio, dove le prigioniere andavano a fare i loro bisogni. E a turno la mattina lo svuotavamo. Era la cosa più carina che c’era. In carcere ho imparato come cacciare le cimici dalle brandine, dando fuoco agli ingranaggi del lettino. Mi accusavano di collaborazione con il fascismo, volevano darmi venticinque anni. È dovuta intervenire mia madre a svelare che c’era sotto…».

Che cosa ha pensato quando ha viste le immagini di piazzale Loreto?

«Le ho viste molto dopo. Non volevo vederle. Poi un mio amico me le ha messe sul computer. È quanto di più vergognoso sia mai successo in Italia, la cosa più orrenda… Non so trovare le parole per descrivere questo sconcio di appendere per i piedi un morto, andarlo a pestare, tutti felici… Noi italiani siamo così cattivi, così villani? Trucidare un morto e poi vantarsi di averlo fatto? Ma come è possibile? Voi non avete idea di questo, perché non lo avete vissuto. Un uomo come Mussolini, che è stato idolatrato, perché lui amava circondarsi di persone che lo adoravano, un po’ come oggi Berlusconi, che è stato un grande come imprenditore e ha risollevato l’Italia ma come politico... niente, non vuole lasciare lo scettro. Un uomo come Mussolini, così osannato da vivo, è stato poi così abbrutito; ma da morto, perché da vivo nessuno aveva il coraggio... Ma se avesse lasciato cinque anni prima tutto questo non sarebbe successo ma non andiamo più avanti a parlarne per favore, che mi sento male…».

"Valutazioni e merito entrano nella scuola. Il sindacato dice no e difende il suo potere", ad affermarlo il Ministro Giannini in una intervista al Messaggero.

Parola di preside. Attenti, arriva il preside (im)potente, scrive Corrado Sancilio, preside dell’Istituto “Agostino Bassi” di Lodi, su  “Il Cittadino”. «C’è poca scelta tra le mele marce» ci ricorda William Shakespeare. Un monito che si addice benissimo al dibattito aperto sul riconoscimento di un maggior potere che Renzi e il ministro Giannini vogliono riconoscere ai presidi. Tra i critici più illustri non può sfuggire lo scrittore siciliano Andrea Camilleri che non esita a sottolineare quanto «sbagliato sia dare tutto questo potere ai presidi perché ce ne sono di bravi e meno bravi». Sono d’accordo a metà. Innanzitutto direi che probabilmente non è esatto parlare di «potere» in mano ai presidi, come pure ritengo esagerato definire il preside un «manager». E vediamo perché. Partiamo dalla situazione attuale. A capo di un istituto c’è dunque una figura professionale, il preside, che risponde per tutti davanti a tutti.Però per prendere certe decisioni ancora oggi è tenuto a consultare i sindacati, a scorrere le graduatorie, ad assegnare le supplenze alla cieca, a non disporre direttamente di risorse economiche per incentivare il personale. Per spostare un bidello da una sede all’altra, ad esempio, se non addirittura da un piano all’altro dell’istituto, il preside deve concordare con i sindacati dei criteri che legittima la sua decisione. Per disporre degli incentivi destinati al personale, che sia docente o non docente, il preside deve passare da una contrattazione d’istituto che talvolta si trascina per mesi, la cui conclusione avviene, talvolta, per sfinimento di una delle due parti. Per assegnare una funzione a qualcuno il preside deve presentarsi sempre con il «cappello in mano» e sperare che la sua pietosa espressione possa colpire la sensibilità di chi ascolta. Per distribuire gli incarichi il preside talvolta, è chiamato a compiti di «giudice di pace», nel senso che deve mettere pace tra i contendenti che si accusano vicendevolmente di godere di speciali favoritismi. Intanto l’anno scolastico scorre tra un tribunale e l’altro davanti al Giudice del lavoro, al TAR per controversie sugli appalti, all’Avvocatura di Stato per definire le azioni a difesa, agli Avvocati che presentano ricorsi per conto di genitori arrabbiati per i voti bassi assegnati o per le sospensioni comminate ai propri pargoli. Ecco. Questo è il quadro, ridotto all’essenziale, del preside di oggi che il ministro Giannini vorrebbe investire con più poteri per i quali molti si sono scatenati. A mio modo di vedere non è questione di essere bravi o meno bravi, del resto non siamo nati tutti bravi o tutti meno bravi, è questione solo di riconoscere a chi è chiamato a rispondere dell’operato collettivo, di dare maggiori capacità organizzative e fra queste ci stanno anche la gestione del personale, delle risorse assegnate, dell’organizzazione del servizio, delle eventuali sperimentazioni didattiche. In fondo è questo il principio ispiratore dell’autonomia da anni riconosciuta, ma mai regolamentata. Pensare di trovarsi di fronte ad un ammasso di mele marce, vuol dire agire in una realtà scolastica classificata solo al ribasso, in una realtà fatta esclusivamente di basso profilo, e così si finisce con l’impedire a chiunque di esprimere un giudizio positivo. Se così fosse come potrebbe essere possibile, allora, puntare al meglio tra quelli che sono tutti scadenti? Perché scandalizzarsi sulla chiamata diretta del personale da parte del preside? Anzi. Personalmente avrei preferito la Giannini ancor più coraggiosa. Del resto questa chiamata diretta tanto diretta poi non è. Il preside, infatti, dovrà attingere da un albo territoriale che di fatto limita di molto la chiamata diretta. Avrei preferito che le cattedre o i posti liberi fossero messi a bando, lasciando tempo a chiunque di presentare domanda per poi selezionare il personale dopo un colloquio gestito da una commissione consultiva presieduta dal preside a cui va riconosciuta comunque l’ultima parola. Eppure questo disegno di legge, che dovrà passare dal Parlamento, sono sicuro che alla fine uscirà probabilmente annacquato. Si è già scatenato un temibile fuoco di sbarramento da parte di alcune forze politiche, alcune categorie professionali non esclusi i sindacati che si vedono esautorati del loro potere contrattuale. Questo sì che è un potere. Nella scuola di oggi i sindacati non dovrebbero avere un ruolo così condizionante. Loro sì che con un forte potere contrattuale limitano anche l’organizzazione scolastica che finisce per avere delle ricadute sia sulla didattica che sull’educazione dei ragazzi. Se per Camilleri è sbagliato dare così tanto potere ai presidi, per Roberto Ciccarelli, giornalista del «Manifesto» questa specie di potere è un «mix di neoliberismo e autoritarismo, un marchionnismo molecolare» che evidentemente rovina la festa. Trattasi della festa dei docenti che sia pur incapaci di insegnare vedono nelle graduatorie e nei punteggi la via tutelare che consente loro di rovinare i ragazzi; della festa che consente al personale ata (amministrativi – tecnici – ausiliari) di trovare nella scuola lo “sfogatoio” dei propri limiti professionali. Nossignore. Così non va. Con tutto il rispetto verso eccellenti personaggi come lo scrittore Andrea Camilleri, mi sento tuttavia di dire, dopo qualche decennio che ricopro il ruolo di preside, che lavoro accanto a docenti, non docenti, ragazzi e famiglie, le cui responsabilità vanno tutelate, la cui professionalità va riconosciuta, la cui gestione va garantita senza per questo essere diretta espressione di un «marchionnismo molecolare». Evidentemente Roberto Ciccarelli non ha mai messo piede in una scuola o non ha mai avuto la sfortuna di vedersi i figli (se ne ha) affidati a dei docenti casinisti e incapaci. «Il potere logora chi non ce l’ha» amava ripetere il grande Andreotti, ma noi presidi in tutti questi anni non siamo stati mai logorati dalle stupidate di certi docenti, dalle malefatte di un certo personale non didattico o dalle cretinate di certi miei colleghi che di tanto in tanto la cronaca consegna alla riflessione dei lettori. Noi presidi siamo una categoria speciale. Lavoriamo 45/50 ore alla settimana, guadagniamo mediamente 55 mila euro lordi all’anno con una detrazione fiscale che arriva al 47% (fonte “Corriere della Sera”), siamo chiamati, talvolta, in servizio anche nei giorni festivi e l’estate mentre gran parte delle persone sono ad abbronzarsi al mare davanti a un fritto misto o in montagna davanti a un piatto di pizzoccheri con patate, verze e formaggio fuso, noi dobbiamo predisporre gli atti per la chiusura di un anno scolastico, organizzare gli esami di riparazione e preparare l’avvio di un nuovo anno scolastico, il tutto condito con le classiche reazioni di genitori arrabbiati per i motivi più disparati, o con la pazienza di recarsi nei tribunali a difendersi da denunce ed esposti. Coraggio Ministro Giannini dia ancor più poteri al preside. Corrado Sancilio, preside dell’Istituto “Agostino Bassi” di Lodi.

Perché la sinistra ha tanto a cuore la scuola pubblica?

Silvio Berlusconi: ''A scuola ci sono gli insegnanti di sinistra, dunque le famiglie devono avere un bonus per mandare i propri figli nelle scuole private cattoliche''.

C’è in Italia la consapevolezza secondo cui i docenti italiani siano “inculcatori” di idee nefaste e comuniste nella mente dei giovani. Così come è evidente che si pensi che i docenti appartengano ai poteri forti in mano alla sinistra, mentre tutti i mali della scuola e la impreparazione, rispetto agli alunni europei, dei nostri ragazzi è dovuta alla provenienza sessantottina dei docenti, definiti pure: fannulloni, ignoranti e paraculi.

Infatti anche a sinistra si è concordi su questo. Il 18 ottobre 2014 il Ministro Giannini è stata a Palermo per svolgere un incontro del tour sulla "Buona scuola". Molte le domande da parte di Dirigenti e docenti. Il resoconto lo ha fornito Repubblica.it grazie ad un articolo di Corrado Zunino. Tra le domande, poteva non mancare quella sulla possibilità da parte delle scuole di licenziare i docenti "inadatti"? Questa la risposta del Ministro Giannini riportata da Zunino: "Dobbiamo entrare in un nuovo modello di istruzione che, innanzitutto, dia certezza e stabilità agli insegnanti precari, poi li avvii a una formazione permanente, quindi alla possibilità di essere valutati. La nuova scuola dovrà offrire incentivi a chi merita e si impegna e alla fine, certo, dovrà occuparsi con rigore e severità di chi non fa bene il suo mestiere. Oggi la scuola è troppo sindacalizzata. È sana, ma ha bisogno di irrobustirsi".

Alla sinistra questa affermazione non va giù. Il merito non deve decollare. Ed allora…Il popolo del Pd in corteo contro il Pd, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista” il 6 maggio 2015. Ieri è sceso in piazza il popolo del Pd. Non succedeva da tanto tempo, almeno in queste proporzioni. Ci sono state sette grandissime manifestazioni, e poi molte altre iniziative minori. A Roma hanno sfilato per circa tre ore, da piazza della Repubblica e piazza del Popolo, non meno di centomila persone. In larga maggioranza donne. E’ stato uno dei cortei più grandi degli ultimi anni. I sindacati dicono che mai, in passato, c’era stato nella scuola uno sciopero così compatto. Le adesioni allo sciopero sono state attorno all’80 per cento. Quasi tute le scuole sono rimaste chiuse. La manifestazione di Roma, che ho seguito per tutta la mattinata, era una tipica manifestazione di popolo. Molto combattiva, arrabbiata, però pacifica, serena, anche un po’ allegra. E molto, molto unita. La cosa che più mi ha colpito è la contraddizione tra composizione del corteo e ”nemico” del corteo. Il corteo era essenzialmente un corteo del Pd. il ”nemico” era dichiaratamente il Pd. Ieri il popolo del Pd è sceso in piazza contro il Pd, contro il proprio partito, e questa è una novità politica assoluta. C’erano state, in altri momenti, frizioni notevoli tra base e vertice del partito. Generalmente questo succede quando il partito è al governo. Accadde ai tempi di Prodi, quasi vent’anni fa, quando i sindacati scesero in piazza contro la manovra economica. Però non c’era questa contrapposizione così netta, questa furia. Ieri quasi tutti gli slogan erano contro Renzi. Definito Matteo-babbeo. Moltissimi degli slogan contro Renzi erano mutuati da vecchi slogan contro Berlusconi. La richiesta più larga era quella di ritirare immediatamente e in blocco la riforma cosiddetta della ”buona scuola”, che non piace a nessuno. La seconda richiesta era di ritirare proprio il governo…Dimissioni. Renzi non sembra un tipo che si fa impressionare dalla protesta. Recentemente ha spiegato che non sono tre fischi a spaventarlo. Prima ancora aveva bellamente ignorato forti manifestazioni dei metalmeccanici e un grande sciopero generale di Cgil e Uil. A differenza di Berlusconi, che ha sempre avuto un certo timore verso il popolo e la politica di massa, Renzi ha sempre dimostrato di non tenerla in nessun conto. Però ora c’è una novità. La protesta non viene da forze esterne al suo partito e al suo bacino di consenso, ma viene proprio da lì, dal suo bacino elettorale. Non si tratta più di accettare o rifiutare la sfida con Landini, e con la classe operaia del Nord, che in gran parte è già da tempo fuori dell’orbita renziana: ora il problema lo pongono gli insegnanti, milioni di insegnanti che sono l’anima e la carne del Pd. La ministra dell’istruzione Giannini, in questa occasione, ci ha quasi fatto rimpiangere Maristella Gelmini. La Gelmini, vi ricordate, fece una bella gaffe sostenendo che esiste un tunnel che corre da Ginevra al Gran Sasso…La Giannini ha fatto di peggio. Prima ha accusato di squadrismo un gruppo di insegnanti e di precari che contestavano la sua riforma. Poi ha definito lo sciopero di ieri uno sciopero ”politico” e quindi di poco peso. Non c’è bisogno di spiegare a nessuno che gli insegnanti non sono squadristi. La grande inesperienza politica della ministra Giannini e la sua brevissima biografia politica solo in parte giustificano queste scivolate, che certo non aiutano ad alleggerire il clima teso tra insegnati e governo. Ma la sciocchezza maggiore detta dalla ministra è quella sullo sciopero politico. Intendendo per sciopero politico qualcosa di simile a una iniziativa ”eterodiretta”: Cioè la Giannini sostiene che dietro la protesta degli insegnanti ci siano forze politiche interessate a indebolire il governo-Renzi. Probabilmente la ministra si è limitata ripetere slogan sentiti dire tante volte a Berlusconi, di fronte alle proteste sindacali. In politica succede che si scimmiotti un leader. Però mentre nelle accuse di Berlusconi c’era molta propaganda e un po’ di verità (perché dietro, o accanto alle grandi proteste sindacali, ovviamente, c’erano i partiti di sinistra) in questo caso c’è solo propaganda, e molto debole. Quella di ieri è stata – forse per la prima volta – una manifestazione sindacale del tutto autonoma, e infatti si contano sulla punta delle dita di una sola mano gli esponenti politici che hanno partecipato: Fassina, D’Attorre, Vendola, Fratoianni…e il quinto non mi viene in mente. Dunque ora bisogna vedere se Renzi vorrà seguire la sua ministra nella linea dello scontro frontale, o si preoccuperà della frattura che si è creata tra il governo e il popolo del Pd. Non è detto che questa frattura debba comportare conseguenze significative sul piano elettorale. Però un partito di governo non può reggersi solo sui voti o sulle leggi elettorali favorevoli. Deve avere un suo popolo, una sua anima. E se Renzi non interviene su questo piano della lotta politica – che fin qui non gli è stato molto congeniale – rischia di indebolire enormemente la posizione del governo. Non so se gli insegnanti avranno la forza per dare uno scossone vero a questo mondo politico imbambolato. Però hanno i numeri per farlo. Ieri è stata una prova generale. Potrebbero non fermarsi. Ancora nel 2002 fu la classe operaia a fermare la linea di destra del governo Berlusconi, a modificare l’azione di governo, a spostare a sinistra l’asse della battaglia politica. Molti anni prima era stata sempre la classe operaia a dare una spallata al centrosinistra prima maniera (quello di Moro e Fanfani) e a costringerlo a politiche egualitarie e di forte intervento sociale. Ora la classe operaia è in gran difficoltà. Debole, isolata. Chissà che non possa essere proprio questo popolo di classe media e insegnanti a costringere il Pd a rifare un po’ di conti.

Come spesso accade le ragioni e i torti non sono mai da una parte sola, scrive Il Direttore de “Il Gazzettino”. Sul tema delle contestazioni alla riforma della scuola credo si imponga però una riflessione, che non mi renderà popolare agli occhi di alcuni lavoratori della scuola. Dal dopoguerra ad oggi in Italia si sono succeduti decine di governi di colore diverso e ciascuno di loro aveva ovviamente al proprio interno un ministro dell'Istruzione o delle Politiche scolastiche. Una carica che è stata occupata da esponenti di vario orientamento politico e culturale. Ad occuparsi della scuola ci sono stati ministri democristiani, comunisti o ex comunisti, laici, forzisti, montiani. In qualche caso si trattava di politici di professione, in altri di tecnici (spesso insegnanti), prestati alla politica. Insomma, sia detto in senso positivo, non ci siamo fatti mancare nulla. Eppure ogni volta che un governo (di destra, di centro o di sinistra) presenta una riforma della scuola, scattano immancabili le contestazioni, gli scioperi, le polemiche furibonde. La domanda sorge spontanea: è mai possibile che tutte ma proprio tutte le riforme siano sbagliate, danneggino irrimediabilmente la scuola, consegnino troppo potere agli uni e agli altri soggetti (oggi nel mirino ci sono, per esempio, i presidi)? Neppure nel caso della giustizia si è giunti a tanto. Il sospetto, o il cattivo pensiero, è che in realtà in ampi settori della scuola e della rappresentanza di insegnanti e personale non docente, al di là delle legittime rimostranze per tagli e stipendi inadeguati, covi una profonda resistenza al cambiamento e prevalga una sostanziale volontà di mantenere lo status quo. Il problema è che in gioco c'e il futuro della scuola italiana e con esso quello dei nostri ragazzi e del nostro Paese.

Paola Mastrocola: "Il sindacato ha rovinato la scuola e l'Italia. Oggi insegnanti scarsi sfornano studenti analfabeti", scrive "Il Mattino", con un articolo pubblicato il 5 maggio 2015. "Mi auguro che questa sia davvero l'ultima sanatoria e che si torni ad assumere giovani insegnanti preparati e qualificati. Affermando finalmente una parola finora sconosciuta: il merito", "il sindacato ha rovinato non solo la scuola, ma l'Italia", "abbiamo insegnanti che cambiano continuamente scuole. Poi arriva un supplente bravo e un preside non può neanche trattenerlo! In una cattiva scuola, le famiglie fuggono e non iscrivono i propri figli; una buona scuola invece crea un modello, allarga una sana competizione e innanzitutto afferma il merito". Lo afferma Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante di liceo scientifico, in una intervista al Mattino: "Su questo il sindacato dovrebbe fare sentire la sua voce. La verità è molto triste: la scuola italiana sforna analfabeti, ragazzi che non sanno più pensare, apprendere e studiare". Una situazione, secondo Mastrocola, causata da "tante cose, a partire dalla scarsa qualità degli insegnanti e dei metodi di apprendimento. Io sono del 1956, ma quando ho finito la terza media sapevo tradurre dal latino e leggere Dante e Tasso. Oggi mettiamo lavagne elettroniche, Pc, ebook, ma dovremmo cercare di dare capacità cognitive e logiche agli studenti. Altrimenti sarà sempre peggio". E parlando del potere dato ai presidi per la scelta degli insegnanti precisa: "A condizione che non siano costretti a interpretare il loro ruolo come quello di un burocrate che firma e passa carte. In tutte le scuole esiste una voce corale, anonima. Tutti, dalle famiglie ai professori passando per gli alunni, sappiamo quali sono gli insegnanti più bravi. E allora, visto che giustamente abbiamo voluto tanto l'autonomia, utilizziamola: diamo ai presidi questa centralità nella valutazione. Alla luce del sole e con trasparenza".

Sindacato custode della conservazione, scrive “Lo Spiffero”. Scuola in piazza. I torinesi Oliva e Mastrocola, scrittori e insegnanti, entrambi di sinistra, prendono le distanze dalle manifestazioni odierne contro il provvedimento del governo Renzi. “Una riforma migliorabile, ma che va nella giusta direzione”. «Il sindacato continua a essere il custode della conservazione». Non usa metafore Gianni Oliva, storico e scrittore - in questi giorni in libreria con "Tesoro dei vinti" - ma anche ex assessore regionale alla Cultura e all’Istruzione, per descrivere l’atteggiamento di chi, questa mattina, ha portato migliaia di docenti in piazza per contestare il provvedimento sulla “Buona scuola” varato dal governo Renzi. Una ferita che brucia, quella con il mondo della scuola, da sempre riferimento culturale e bacino elettorale della sinistra, con la categoria degli insegnanti componente di quel ceto medio riflessivo che per lungo tempo è stata una delle stelle polari delle politiche progressiste. Svestiti i panni del politico e indossata la giacca da preside – attualmente è a capo del liceo Majorana di Moncalieri, dopo aver guidato il D’Azeglio e il Cavour di Torino – Oliva fornisce la sua impressione su un progetto di riforma che probabilmente “necessita di alcuni correttivi”, ma certamente “va nella direzione giusta”. Si parte dal ruolo del preside che certo non deve essere uno sceriffo (e l’ha capito pure la maggioranza presentando emendamenti in tal senso), ma neppure burocrate con le mai legate che “per sanzionare un suo insegnante che non insegna bene oggi non può fare nulla. Oggi – dice Oliva - per assumere provvedimenti nei confronti di un docente occorre che questi o abbia alzato le mani sugli studenti oppure dia di matto”. La figura del dirigente d’istituto oltreché spauracchio per quegli insegnanti che ne temono poteri assoluti e discrezionali, è per Oliva uno dei nodi più complessi che necessitano di una soluzione. “È giusto che il dirigente possa scegliere gli insegnanti, visto che poi risponde dei risultati ottenuti dal suo istituto. Questo elimina le preoccupazioni di chi teme clientelismi, amicizie a altro di peggio alla base di questa scelta”. Come detto, però, la riforma può essere migliorata secondo lo storico torinese: “L’impianto funziona, ma…”. Ma? “Per esempio mancano gli ispettori che dovrebbero valutare i docenti in presenza di situazioni che vanno al di là delle prerogative di un preside. Rinforzare il settore ispettivo è uno dei punti su cui si dovrebbe puntare”. Altro che sceriffi, i presidi oggi hanno le mani legate. Un punto di vista condiviso in gran parte con un’altra scrittrice-insegnante, Paola Mastrocola, che in un’intervista al Mattino parla di merito, “spazzato via” e di un sindacato che “ha rovinato non solo la scuola ma l’Italia”. Perché “in una cattiva scuola, le famiglie fuggono e non iscrivono i propri figli; una buona scuola invece crea un modello, allarga una sana competizione e innanzitutto afferma il merito”. E poi le regole che affidano ai rappresentanti dei lavoratori un potere sempre crescente. Come quella che “impone di concordare con i sindacati l’erogazione dei fondi di incentivazione agli insegnanti”. Pochi euro, ma sui quali la decisione finale su chi beneficiare con quel premio non spetta, come logico, al dirigente dell’istituto, ma impone a quest’ultimo di avere il placet dei rappresentanti sindacali. “Forse lo sbaglio del governo è stato quello di aver voluto accelerare troppo, nelle modifiche, questa riforma. Un po’ di gradualità probabilmente avrebbe evitato timori” poi cavalcati dal sindacato e oggi manifestati nello sciopero. Gli emendamenti ci sono, non pochi dello stesso Pd come annunciato dal componente della commissione di Montecitorio Umberto d’Ottavio, ma sul testo presentato dal ministro Giannini la contestazione ha avuto gioco facile. “Il messaggio passato è quello del preside che può e decide tutto – ammette Oliva – Non è così, ma le paura di fronte a questa interpretazione sono comprensibili”. Non solo questi i timori, e forse questi non sono neppure i più giustificati. Altri di cui non si fa cenno negli slogan tantomeno negli attacchi frontali del sindacato al governo sono celati in norme e commi che spesso collidono. “La finanziaria ha di fatto cancellato la possibilità per i vicepresidi di poter essere manlevati dall’insegnamento – spiega Oliva – e questo porterà dal prossimo anno quando saranno scoperti oltre duemila posti dirigenziali con conseguenti scavalchi per molti presidi, a una situazione oggettivamente difficile e al limite del collasso”. Altro che presidi sceriffi, la scuola così com’è pare un far west dove per anni a far valere la legge sono stati altri. Come nel caso, minimo ma indicativo, della scelta su come e a chi dare gli incentivi.

Se la scuola licenzia un prof incapace. Il docente di Treviso cacciato per «scarso rendimento». L’ultimo caso nel 1987. Lo sgomento dei sindacati. Il successo della legge Brunetta, scrive “Il Foglio” il 9 marzo 2015.

Il signor L., cinquant’anni passati, docente di ruolo di educazione tecnica all’Istituto superiore Einaudi-Scarpa di Montebelluna, Treviso, è stato licenziato dal preside della scuola per «protratto scarso rendimento». I sindacati e le associazioni di categoria faticano a ricordare episodi analoghi. Le segnalazioni sull’insegnante licenziato sono partite lo scorso anno dagli alunni: notavano valutazioni incongruenti, cioè voti molti bassi in compiti in classe corretti e giudizi entusiasti per quelli sbagliati. Hanno avvisato il preside dell’istituto, Gianni Maddalon, l’altro protagonista della storia. A questo punto è partito l’iter delle verifiche: il preside ha avvisato l’ufficio scolastico regionale che ha inviato gli ispettori a controllare il lavoro del prof. Ci sono voluti sei mesi. In autunno è arrivato il licenziamento. Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 7/3

Non sono gli ispettori a decidere i licenziamenti: è una responsabilità che spetta al preside. Certificato che il professore non è capace a insegnare, la palla torna sempre al capo d’istituto, che decide il da farsi. Racconta Maddalon: «Non ho dormito la notte ma alla fine ha prevalso l’interesse generale. Mi spiace molto per quel professore». Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 7/3

Non che il preside non rischi nulla: il professore si rivolgerà sicuramente al Tar. Se dovesse essere reintegrato, sarebbe lo stesso Maddalon a pagare i danni di tasca sua, perché così dice la legge: «Ho famiglia, tre figli, un mutuo e uno stipendio di 2.600 euro al mese. E la responsabilità di 4mila studenti». Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 7/3.

A memoria di presidi e sindacati, un destino simile a quello del professore di Montebelluna spettò solo a una insegnante di Padova nel 1987: fu licenziata perché ritenuta incapace di stare in cattedra. Fece ricorso al Tar e al Consiglio di Stato, che le diedero torto. Comunque nel frattempo era morta. Camilla Mozzetti, Il Messaggero 6/3.

Il preside Maddalon sembra aver dichiarato guerra alle storture della scuola: «Siamo un branco di 12 dirigenti usciti dall’ultimo concorso che agisce insieme, scambiandosi informazioni e procedure. Lo scopo è garantire la qualità della scuola. Controlliamo un bacino di ventimila studenti». I risultati, oltre al licenziamento del prof: due anni fa hanno scovato la truffa di Davide G., cinquantaduenne dirigente amministrativo, silurato per aver messo le mani nelle casse della scuola (197mila euro depositati in Svizzera), l’anno scorso è stata la volta di Fernando C., 55 anni, maestro elementare sospeso per maltrattamenti nei confronti degli alunni. Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 7/3.

In poco tempo Maddalon è diventato un eroe locale: i cittadini lo ringraziano, gli danno pacche sulle spalle. Dice: «Lo fanno anche perché hanno capito che sto rischiando». In realtà c’è poco da esultare: resta il caso umano di un professore rimasto senza lavoro. E infatti il Provveditore dell’Ufficio scolastico provinciale, Giorgio Corà, spegne gli entusiasmi: «Prendo atto che è stato usato uno strumento del nostro ordinamento, ma non mi piace quando sento dire che si sta facendo pulizia». Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 7/3.

I sindacati sono inorriditi. Marta Viotto, segretario generale provinciale della Flc-Cgil: «Questo sistema mi spaventa perché attiva un clima di sfiducia, di tensione, di paura. E mi spaventa che il preside dica che ha avuto coraggio e che la gente si complimenti con lui. Ci possono essere momenti difficili in 42 anni di lavoro. Cos’ha fatto la dirigenza per il professore? Nulla». Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 7/3.

Si poteva evitare il licenziamento? In genere il docente inadeguato viene spostato di mansione, passa dalla cattedra a un ruolo amministrativo. C’è però una condizione minima e indispensabile che deve esistere: il sì della Commissione sanitaria all’inidoneità per ragioni di salute. Ma per il docente di Montebelluna i dottori non hanno riscontrato problemi di questo tipo. Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 7/3.

Il licenziamento degli insegnanti esiste. Quelli alle prime armi possono essere rimossi dall’incarico e non ottenere una cattedra se, alla fine del secondo anno di prova, la scuola evidenzia delle incapacità didattiche. Ma è difficile imbattersi in licenziamenti per chi una cattedra l’ha ottenuta da tempo e, soprattutto, per motivi legati al suo modo di insegnare. Il professore in questione non era un novellino: era entrato in ruolo nel 2007. Camilla Mozzetti, Il Messaggero 6/3.

Le norme che regolano i licenziamenti per i professori sono diverse: si va dal contratto nazionale, al Testo Unico sulle disposizioni legislative in materia d’istruzione del 1994, al decreto legge 150/2009, firmato dall’ex ministro della pubblica amministrazione, Renato Brunetta. In tutte è prevista anche la rimozione dall’incarico per inadempienza didattica. Camilla Mozzetti, Il Messaggero 6/3.

La maggior parte dei licenziamenti per un professore avvengono soprattutto per motivi disciplinari e vanno dalle assenze ingiustificate da scuola all’offesa di colleghi o studenti fino a tutti i reati previsti dal codice penale. Camilla Mozzetti, Il Messaggero 6/3.

Secondo i dati del ministero, degli 800mila insegnanti in servizio, quelli che in un anno scolastico sono stati sottoposti a procedimenti disciplinari sono poco più di duemila (2.276). Di questi, 746 sono stati archiviati o prosciolti, 433 sono stati sospesi dal servizio e solo in 29 casi si è arrivati al licenziamento. Per gli altri (1.068), non si è andati oltre il richiamo. Orsola Riva, Corriere della Sera 9/12/2014.

A un sondaggio di Skuola.net il il 9,2% di 7.106 studenti ha detto di aver preso botte dagli insegnanti. Un altro 14% sostiene che sia capitato ad altri ragazzi della scuola. Se poi si passa all’offesa verbale, le risposte affermative sono oltre il 30% (più un altro 25% che riferisce di episodi capitati ai compagni). Orsola Riva, Corriere della Sera 9/12/2014.

Vittorio Lodolo D’Oria per 21 anni è stato nel collegio medico per l’inabilità al lavoro della Asl di Milano: «Se fino a pochi anni fa l’incidenza dei disturbi psichiatrici fra chi si presentava al nostro sportello era del 33%, oggi è dell’80%. La situazione può solo peggiorare, dato che la legge Fornero ha alzato l’età pensionabile a 67 anni». Anche nei casi in cui i problemi di un professore sono evidenti, per un preside è quasi impossibile intervenire, perché teme di incorrere in una causa per mobbing. Orsola Riva, Corriere della Sera 9/12/2014.

Ma il cambiamento è nell’aria. A ottobre il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ha detto che è necessario poter licenziare gli insegnanti che non lavorano. E che «oggi la scuola è troppo sindacalizzata». OrizzonteScuola.it calcola che tra i lavoratori dell’istruzione uno su due è iscritto ai sindacati. Corrado Zunino, la Repubblica 19/10/2014.

La prima svolta è stata nel 2009, con il decreto legislativo anti-fannulloni voluto da Brunetta. Teresa Merotto, segretario di Cisl scuola Treviso: «Ha inciso in maniera forte perché al dirigente viene richiesto in maniera esplicita di procedere qualora ci siano dei fatti da segnalare. Se non lo fa, il preside stesso potrebbe a sua volta essere coinvolto in procedimenti disciplinari. Diventando in questo caso lui stesso oggetto di contestazione». I sindacati mettono in luce un inasprimento che li preoccupa. Alessandra Vendrame, La Tribuna di Treviso 5/3.

Qualche altra novità forse è in arrivo con la riforma del pubblico impiego: tra le ipotesi al vaglio nel ddl Madia, ci potrebbe essere la semplificazione dell’iter per verificare il lavoro di un docente, togliendo anche la parte che fa ricadere sul preside il risarcimento nel caso di licenziamento illegittimo. Huffington Post 30/12/2014.

E poi a togliere il sonno ai sindacalisti c’è la riforma della scuola, soprattutto nella parte che riguarda gli aumenti salariali. Infatti il vecchio sistema basato solo sugli anni di servizio sarà abolito. Ne nasce uno nuovo, a carattere misto, con il 30% riservato all’anzianità e il 70% ai bonus di merito. Fra cui i tanto discussi crediti didattici, che valuteranno la «qualità dell’insegnamento». E il riconoscimento per questi crediti passerà anche, oltre che dalla documentazione prodotta dall’insegnante, attraverso il parere di studenti e famiglie. Lorenzo Vendemiale, il Fatto Quotidiano 4/3.

CAMBIARE LA SCUOLA? IMPOSSIBILE!

Cambiare la scuola? Missione impossibile. Il liceo di Gentile. Le medie del centrosinistra. Poi basta. Fino ai dubbi sulla Buona Scuola di Renzi. Perché nelle aule italiane le riforme restano lettera morta. Nel progetto proposto 
alla discussione pubblica solo due dei dodici punti di partenza riguardano "cosa" insegnare. E nessuno il "come", scrivono Angiola Codacci-Pisanelli e Roberta Carlini su "L'Espresso". Deciso si cambia. Niente più materie ma argomenti multidisciplinari, niente più cattedre ma gruppi di lavoro in cui professori e studenti siedono insieme intorno a un tavolo. In Italia? No, in Finlandia, paese che ha già risultati eccellenti nei test di comparazione tra gli studenti di tutto il mondo (Pisa) ma sente il bisogno di «un'educazione nuova per preparare le persone al lavoro». Si cambia. Bisogna insegnare quello che è davvero essenziale: non storia o matematica ma condizione umana, «identità terrestre», comprensione, etica, strategie per affrontare gli imprevisti e altre materie che Edgar Morin ha elencato tra i Sette saperi necessari all'educazione del futuro. A questi saperi essenziali, nel recente Insegnare a vivere il filosofo ha aggiunto un'altra materia, Essere francesi: chissà come questo capitolo verrà tradotto nella versione italiana del volume, in uscita a maggio per Raffaello Cortina. Ma questo, appunto, succede in Francia, dove è in gestazione una riforma sostanziale che riprende molti spunti delle provocazioni di Morin. Scopo ambizioso: tagliare alla radice la mala pianta dell'apartheid che spinge alcuni francesi di origine magrebina a farsi affascinare dal terrorismo islamista. "La nostra macchina organizzativa è già al lavoro e se i tempi del Parlamento saranno quelli previsti a metà maggio saremo perfettamente in grado di fare questo enorme sforzo". Lo dice la ministra dell'Istruzione, Stefania Giannini, ospite del videoforum di Repubblica tv. Si cambia dappertutto, insomma, ma non in Italia. Dove per trovare una riforma degna di questo nome bisogna risalire a più di cinquant'anni fa, alla legge che istituì la scuola media. Eravamo nel 1962, il presidente del consiglio era Amintore Fanfani, il ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui, ed era il governo delle convergenze parallele, che pur essendo ancora un monocolore Dc e non un vero centrosinistra contava sull’appoggio di Psdi e Psi. A voler risalire più indietro si arriva addirittura al 1923: capo del governo Benito Mussolini, alla Educazione Nazionale Giovanni Gentile che al contrario di quello che si pensa comunemente dà l’impostazione ancora in uso non solo ai licei (classico e scientifico), croce e delizia della scuola italiana, ma anche alle elementari. Quindi: elementari e licei risalgono agli anni Venti, con le medie arriviamo agli anni Sessanta. E oggi? La riforma annunciata trionfalmente da Matteo Renzi dopo l'approvazione in Consiglio dei ministri del 12 marzo - e da allora faticosamente in cammino in Parlamento - sembra aver già scontentato tutti. Non solo gli insegnanti precari che lavorano nella scuola a vario titolo da anni o anche decenni e che speravano nell'assunzione promessa (vedi l'articolo di Roberta Carlini a pagina 68) ma anche chi sperava di vedere cambiamenti concreti nella preparazione degli studenti, che tanto lascia a desiderare. Nei test Pisa siamo al trentaduesimo posto su 64 paesi, l’abbandono scolastico secondo l'Istat è del 17 per cento (cinque punti più della media europea) e per il consorzio Almalaurea più della metà degli universitari non ce la fanno a tenere il passo con gli studi, portando il tasso di abbandono al 55 per cento, il più elevato tra i paesi dell’Ocse. Benedetto Vertecchi, decano dei pedagogisti italiani, taglia corto: «In realtà non capisco come la si possa chiamare riforma. Tuttalpiù de-forma, come direbbe Tullio De Mauro». Che però per parte sua alza le mani: «Per spiegare quello che non va in questo progetto ci vorrebbero pagine e pagine», spiega il linguista, ministro della Pubblica Istruzione nel 2000 per il governo Amato, che ai problemi della scuola ha dedicato diversi libri e molti intereventi su quotidiani e settimanali. È vero che il testo è ancora in discussione, e quindi teoricamente aperto a variazioni. Ma già nel progetto per la "Buona scuola" proposto dal governo Renzi alla discussione pubblica nel settembre scorso, solo due dei dodici punti di partenza riguardavano cosa insegnare, e nessuno il come. Nel disegno di legge presentato in parlamento, tra gli obiettivi della riforma si elencano a raffica il potenziamento, l'introduzione o il reintegro di una quantità di materie: inglese, matematica, musica, arte, diritto, economia, creazione di video e programmi, nonché il rispetto di legalità, ambiente, paesaggio e monumenti. «Ma di materie ne abbiamo già fin troppe», protesta Paola Mastrocola, scrittrice che alla sua esperienza come professoressa di Lettere in un liceo scientifico si è ispirata direttamente per saggi e romanzi ("Una barca nel bosco", "Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare", Guanda) e indirettamente per il libro più recente, una divagazione in forma di favola epistolare su cosa (e chi) serve davvero e cosa no ("L'esercito delle cose inutili", Einaudi). «Educazione alimentare, stradale, sentimentale, sessuale», elenca la scrittrice. «Educazione alla legalità, alla solidarietà... Tutto bene: ma poi i nostri ragazzi non sanno più leggere e scrivere. La "Buona scuola" di Renzi vuole reintrodurre la musica, ed è un'idea bellissima: tutte le materie che spingono i ragazzi a esprimersi artisticamente sarebbero le benvenute. Ma dove lo troviamo il tempo per insegnarle? È vero che si parla di scuole aperte tutto il giorno, tutti i giorni e tutti mesi dell’anno: ma allora non resterebbe più il tempo per la solitudine e la concentrazione per gli studenti e quello per l'aggiornamento dei professori, che sono altrettanto importanti. Nel mio libro "La scuola raccontata al mio cane" proponevo di alternare tre ore di lezione e tre di meditazione in solitudine...». "Il presiede della Buona Scuola è un leader educativo. E' una persona che viene dal mondo della scuola, sarei tentata di dire un preside-rettore, cioè una persona che si mette al servizio nel suo mondo di appartenenza con strumenti e poteri che gli permettono di prendere decisioni". Lo dice la ministra dell'Istruzione Stefania Giannini nel videoforum di RepTv."La definizione di sceriffi lasciamola ai film western. Io penso che il principio di autonomia responsabile sia l'unico che può cambiare le cose". Resta il fatto che del disegno di legge in discussione in Parlamento 76 pagine su 130 sono dedicate non ai contenuti ma ad assunzioni e ristrutturazioni. «Del resto», commenta Claudio Gentili, vicedirettore Education di Confindustria, che insegna anche Economia della conoscenza all'Università di Bergamo, «lo stesso Renzi l'ha definita "un provvedimento per rimettere i temi della scuola al centro", che affronta le questioni dell’edilizia scolastica e del precariato, temi sicuramente molto importanti. Tuttavia nel testo presentato in consiglio dei ministri sono apparse 13 deleghe pesantissime, con novità rilevanti che possono cambiare profondamente la scuola delineata nel '74-75 dai decreti Malfatti». Già: i decreti "Malfatti di nome e di fatto", come li definì a suo tempo una vox populi ancora di moda con un facile gioco di parole sul cognome del ministro Franco Maria, uno dei più longevi nella storia dell'Istruzione italiana: in un periodo di governi brevissimi, fu confermato per per ben cinque anni a capo del ministero. I decreti che portano il suo nome, nati sull'onda lunga delle contestazioni del '68, sono quelli dell'apertura alla democrazia (consigli di classe per i docenti, rappresentanti per gli studenti) e alla sperimentazione (come il "progetto Brocca", che univa materie dello scientifico a diritto ed economia). Se Malfatti voleva rispondere al Sessantotto, uno dei motivi che tarpano le ali alla riforma Renzi è proprio qui: «È la mancanza di prospettiva», come spiega Vertecchi. Fino ad oggi, i tentativi di rimettere mano all'organizzazione della scuola avevano un fine preciso, che corrispondeva a quello più importante per il paese in quel periodo storico. «La scuola italiana nasce quando il neonato Regno d’Italia decide che il paese deve avere una profonda rivoluzione culturale, e un popolo in prevalenza analfabeta deve arrivare almeno a saper leggere e scrivere», ricorda Vertecchi. «E un secolo dopo la riforma della scuola media è riuscita perché ha portato gli studenti a competenze di scrittura e lettura più approfondite, più adatte al boom economico degli anni Sessanta». In fondo, nel loro piccolo, anche altri tentativi di riforma avevano uno scopo chiaro. Negli anni Ottanta sembrava che uno degli handicap dei giovani italiani fosse il fatto di andare a scuola un anno in più dei coetanei europei: e l'allora ministro Luigi Berlinguer studiò il modo di accorpare elementari e medie in un unico corso di sette anni. Riforma uccisa sul nascere dal cambio di governo: con il presidente Silvio Berlusconi e il ministro Letizia Moratti elementari e medie restano com’erano (con un sospiro di sollievo delle private che concentrano la loro offerta soprattutto sui primi anni di scuola) e si punta invece sulle "tre i": inglese, informatica e impresa dovevano formare giovani pronti per il mercato del lavoro e una carriera di successo. Passano pochi anni, al governo c'è sempre Berlusconi, al ministero Maria Stella Gelmini, e le "tre i", rimaste sostanzialmente lettera morta, vengono sostituite dalla "grande t", quella dei tagli: a partire dalle sperimentazioni nei licei e dal pool di maestri che consentivano il tempo pieno alle elementari. Cade vittima dei tagli anche il nome del ministero: dal 2008 l'istruzione non è più "Pubblica", a conferma del ruolo sempre più importante che il governo conta di affidare alle scuole private. Ecco: la "Buona scuola" di Renzi non si capisce proprio dove vuole andare a parare. E quel poco che è chiaro, è anche chiaramente impossibile. Prendiamo l'inglese, il grande ammalato dell'istruzione italiana. Il 12 marzo 2015 Renzi ha garantito «particolare attenzione, dalla primaria, alla assoluta professionalità di chi insegna l'inglese, per dare insegnamenti non appiccicaticci - per cui si fa fare un corsettino alla maestra - ma si richiede un inglese assolutamente perfetto». Ma come si concilia questo con i 150 mila "vecchi docenti" da confermare? «E a noi che siamo già a scuola, chi ci insegna a fare lezione in un inglese perfetto?», chiede la Mastrocola. Che però nella Buona Scuola di Renzi vede soprattutto un pericolo: l'autovalutazione. «Giudicare il valore di un professore è difficilissimo, ma di certo è sbagliato usare il criterio del numero delle bocciature. Perché così si spingono le scuole a promuovere tutti, abbassando ancora di più il livello dell’istruzione. E questo», sottolinea con passione, «è un danno grande ed irreparabile soprattutto per i ragazzi delle famiglie meno abbienti, quelli che proprio in un livello altissimo di istruzione vedono l'unica chance per migliorare culturalmente e socialmente». Altro punto forte dell’attuale progetto di riforma è il rilancio dell'autonomia. «E questo è il vero nodo», commenta Gentili. «Siamo in mezzo al guado per un'autonomia che è stata concessa ma a metà: non c'è la possibilità di decidere né la gestione del personale né l’organizzazione scolastica. Infatti in teoria le scuole possono scegliere di modificare il 20 per cento del curriculum, per esempio togliere 3 ore di arte e mettere 3 ore di scienze. Ma questo non avviene perché il collegio dei docenti difficilmente approva modifiche che vanno a ledere lo status di alcuni di loro». Forse è vero che i tempi sono sempre più incerti, e che è difficile anche capire in quale direzione andare. «Molti di noi sono cresciuti studiando al liceo sugli stessi libri di testo usati dai genitori», nota Vertecchi. «Oggi invece un bambino il primo giorno di scuola inizia un viaggio che non sappiamo assolutamente prevedere dove lo porterà. Certo però, da chi si occupa di istruzione, ci si aspetterebbe almeno un po' di cultura...». A chi ispirarsi? Gentili cita tre libri: "Una testa ben fatta" di Morin («propone meno materie e più scienze integrate, con un docente leader capace di insegnare in modo interdisciplinare»), "Formae mentis" di Howard Gardner («sostiene come la nostra scuola sia disegnata per premiare l'intelligenza logico-matematica, mentre esistono intelligenze multiple - spaziale, interpersonale, cinestetica etc - che presuppongono una didattica personalizzata»), e infine "Modernizzare senza escludere" di Bertrand Schvartz, «un ingegnere di Lille secondo cui il lavoro rimotiva allo studio, quindi alternare ore di studio e ore di lavoro significa far capire allo studente che il lavoro ha una funzione culturale e che la buona scuola favorisce l'occupabilità». Oltre ai libri, però, chi si propone una riforma dovrebbe prima di tutto conoscere le scuole. De Mauro in un'intervista recente ricordava che «Giuseppe Bottai che era un razzista, ma un grande ministro, per i primi sei mesi preferì ispezionare le scuole senza nessun preavviso. Questo significa andare a vedere seriamente come sono». Renzi e i suoi consulenti sulla Buona Scuola (a partire dal ministro di riferimento, Stefania Giannini, il cui nome curiosamente non viene fatto mai) sei mesi ormai non ce li hanno. Ma almeno possono guardare "Tutte le scuole del Regno", di Marco Bechis e Caterina Giargia, presentato da Raiuno il 29 marzo e ora in giro per festival (prossima tappa a Milano il 26 aprile, per "Cinema italiano visto da Milano"). È il racconto di quattro scuole di Palermo e della loro preside. Che all’inizio del film si sveglia dopo un incubo: la sua scuola è stata trasformata in un albergo. Ecco: questo, nella riforma edilizia della "Buona scuola" di Renzi, di sicuro non c'è.

Ma con la "Buona Scuola" i precari restano. Ecco quanti sono. La riforma voluta da Matteo Renzi si propone di chiudere con la piaga del precariato. Invece le lascerà fuori ancora un bel po'. Che continueranno a cercare supplenze, protestare e sperare nel concorso prossimo venturo, scrive Roberta Carlini su "L'Espresso". All'inizio dovevano essere 150.000. Poi, nel disegno di legge sulla "Buona scuola", sono diventati 100.701: quasi il 10 per cento dell'organico attuale delle scuole. Ma alla fine i precari assunti dal primo settembre potrebbero essere solo 50-60.000. Perché l'operazione parta, infatti, serve che la legge sia approvata in tempi rapidi entro fine maggio. Impresa quasi impossibile, visto che il ddl, approvato il 12 marzo 2015 in consiglio dei ministri, si è poi inabissato nelle stanze dei tecnici, della Ragioneria, del Quirinale. In mancanza della legge, non partirà il nuovo “organico funzionale” e si potrà solo sostituire chi va in pensione. Ma per applicare i nuovi criteri sarà necessario un decreto legge. Il mondo dei "precari della scuola" è un labirinto senza mappe. Un universo brulicante e complicato, che tra poche settimane sarà spaccato in due dalle assunzioni. La "Buona scuola", che voleva chiudere con la piaga dei precari nella scuola, ne lascerà ancora fuori un bel po'. Continueranno a protestare, cercare supplenze, sperare nel concorso prossimo venturo. Ma soprattutto a riempire carte per i tribunali, per una valanga di ricorsi che è già pronta ad abbattersi sul "piano assunzionale", parola vecchia che campeggia, all'articolo otto, dentro la nuovissima "Buona scuola". Che prima che ai docenti darà lavoro a molti avvocati. «Addio alle graduatorie, da ora in poi si assume per concorso». Correva l'anno 2012, e l'allora ministro Profumo risvegliò le speranze di molti. In oltre centomila si misero in fila per il primo concorso nella scuola bandito dal 1999. Doveva essere il primo di una nuova serie: il secondo era annunciato già per la primavera 2013. Invece non se ne fece niente. Due governi dopo, il piano-scuola di Renzi si trova tra i piedi, in prima fila, le vittime di quel concorsone: quelli che pensavano di avercela fatta, i circa 6.600 idonei che hanno superato le prove, ma erano in sovrannumero rispetto alle cattedre disponibili. Sono i grandi esclusi della Buona scuola. «Gli idonei non sono vincitori di concorso, altrimenti si chiamerebbero vincitori di concorso», ha detto il premier, cercando di chiuderla lì. E invece ha riaperto una controversia gigantesca. Gli idonei, sui social e in ogni dove, spargono le loro ragioni: il merito, innanzitutto. Perché chi ha superato una prova selettiva deve essere scavalcato da chi sta da tempo nelle graduatorie, ma potrebbe anche non aver mai fatto concorsi né insegnato negli ultimi anni? E poi le leggi, a partire dal Testo unico sulla scuola che prevedeva l'accesso al ruolo per concorso e la validità per tre anni di quelle graduatorie. Lo stesso spot originario della "Buona scuola" parlava di assunzione per «tutti i precari storici e tutti i vincitori e gli idonei dell’ultimo concorso»; promessa fatta anche da vari ministri e parlamentari. «Quel concorso era bandito solo per le cattedre esistenti, non doveva creare nuove graduatorie. Se qualcuno ha fatto promesse che non doveva fare, non è colpa nostra», dice Francesca Puglisi, renziana di ferro, che intende guidare la pattuglia dei senatori del Pd ad approvare il ddl in tempi brevi. Ma l'esercito degli idonei preme per emendamenti che li ripeschino. Se non riusciranno per le vie parlamentari, quelle giudiziarie sono già spalancate. All'Anief - associazione della scuola specializzata nella macchina dei ricorsi - non hanno più tempo neanche per rispondere al telefono. Perché gli idonei sono solo la prima fila, dietro c'è una massa di altri docenti precari pronti ad andare dal giudice. In gergo si chiamano "seconda fascia", o "graduatorie di istituto". Sono quei prof rimasti fuori dalla madre di tutte le graduatorie - la Gae, Graduatoria ad esaurimento - che a un certo punto ha chiuso i battenti. Ma quando una scuola ha bisogno di supplenti, non sempre li trova pronti nelle Gae, proprio nelle materie e nelle zone in cui servono. Così i nuovi, soprattutto i più giovani e molto spesso i matematici, i fisici, gli insegnanti di scienze, arrivano dalla "seconda fascia". Per loro, niente assunzione col piano Renzi. Sono arrabbiati neri, visto che hanno avuto la sventura di entrare nella scuola negli anni in cui si alzavano le asticelle dei requisiti, e man mano che conquistavano un titolo questo si rivelava insufficiente. «Sono 60mila persone che hanno fatto i Tfa, tirocini formativi attivi, e poi i percorsi abilitanti dei Pas», dice Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola. Molti di costoro potrebbero avere qualche diritto da vantare, davanti al giudice: perché lo Stato fa prendere ai laureati degli ulteriori titoli per insegnare (e a caro prezzo: 2.500 euro all’anno come minimo), e poi non li tiene in minimo conto? Dal Miur rispondono: aspettate, ci sarà a breve il prossimo concorso. Che a questo punto comincia ad affollarsi. Giovanni Romano Gargarelli è uno dei giovani dannati della seconda fascia (trent’anni, insegna a chiamata, nelle scuole superiori romane). Ha fatto tutto per bene, in apparenza: laureato in matematica a 24 anni, si è iscritto subito ai corsi del Tfa. Ma ha sbagliato i tempi, e non certo per colpa sua: «Stavo finendo la specializzazione quando si è bandito il concorso Profumo, e non l’ho potuto fare. Intanto si erano chiuse le graduatorie, e non potevo entrare più: che fare?». Alcuni suoi colleghi sono andati dall’avvocato; hanno chiesto di essere ammessi al concorso con riserva, e il giudice ha dato loro ragione. Lui no, ed è rimasto fuori sia dalla Gae che dal concorso. Nel frattempo ha fatto ricorso anche lui, per entrare nelle graduatorie, e ha sempre insegnato, ma anche stavolta non sarà pescato. Come lui, ce ne sono tanti altri, rimasti fuori delle graduatorie, ma attivi nella scuola. Il punto è che i criteri per entrare in quella Gae che a parole tutti volevano sopprimere sono cambiati continuamente, e spesso per mano giudiziaria. L’ultima sentenza, del Consiglio di Stato, è arrivata proprio nei giorni del ddl della “Buona scuola”, e ha riconosciuto a 3.000 che avevano preso il diploma nelle vecchie magistrali il diritto di entrare in graduatoria: e ancora non è chiaro se queste tremila maestre sono entrate in paradiso all’ultimo momento o se hanno vinto fuori tempo massimo e resteranno nel purgatorio precario. Peggio ancora per i 500 che in gergo si chiamano i "congelati ex Ssis", altro lascito del precedente percorso di specializzazione, rimasti fuori dalle graduatorie quando quelle scuole sono state chiuse. Una gigantesca sala d'attesa invece è preparata per oltre 23mila maestre della materna: per loro, tutto è rinviato alla riforma detta 0-6, quella che unificherà nidi e scuole dell'infanzia. Infine ci sono i supplenti "lunghi", i più stabili dei precari. Quelli che hanno fatto supplenze continue, per oltre trentasei mesi, e che hanno visto le loro ragioni trionfare davanti alla Corte di giustizia europea, che ha condannato l’Italia per abuso di precarietà. Anche per loro, niente assunzione automatica, a meno che non siano anche iscritti nella famosa Gae. Secondo il governo, la sentenza europea obbliga lo Stato a risarcirli (se chiederanno i danni), non ad assumerli. E il Miur pensa di cavarsela con 10 milioni per il 2015 e altri 10 per il 2016, per indennizzare i precari "lunghi", del cui numero dà un’interpretazione molto restrittiva. Intanto, per prevenire altri guai, il governo ha deciso di proibire di dare incarichi a chi ha già avuto contratti per tre anni. Così, gli over 36 si trovano ad essere all’ultimo girone degli esclusi: non solo non vengono assunti, ma vengono cacciati dalle aule di scuola. C’è da giurare che anche loro andranno ad affollare quelle dei tribunali.

I COMUNISTI NON SI MANGIANO I BAMBINI: SI MANGIANO TUTTA LA SCUOLA!

A scuola, prima che l'inno nazionale, "Fratelli D'Italia", insegnano "Bella Ciao".

Pivato Stefano - Bella ciao. Canto e politica nella storia d'Italia. Testimonianza della adesione a un ideale, espressione di una fede politica, modalità che conferma ed esalta il senso di appartenenza e comunione a un gruppo: il canto è una delle manifestazioni più significative di condivisione di un credo sociale. Cadenza lo svolgersi della politica, ne sottolinea gli eventi principali, ne accompagna l'evoluzione. Se è uno dei segnali più significativi della partecipazione della gente comune, il canto risulta un documento utile per capire la storia. Il libro, con un'ampia antologia di brani, racconta una storia d'Italia inedita, dal Risorgimento a oggi, attraverso la colonna sonora dei canti di protesta.

"Bella ciao Canto e politica nella storia d'Italia" di Stefano Pivato, recensione di Luciano Luciani. In ogni tempo i canti popolari hanno espresso le aspirazioni più profonde delle classi subalterne, testimoniando sia l’adesione degli sfruttati a un ideale alto di emancipazione, sia un forte e radicato senso di identità e appartenenza. Il canto sociale e quello politico non solo hanno espresso in maniera immediata la durezza della fatica e i patimenti della miseria, costituendo non di rado lo strumento più efficace per scagliare violente invettive contro gli sfruttatori, ma hanno scandito le vicende della politica e ne hanno rimarcato i fatti più significativi, accompagnando gli operai e contadini nelle loro lotte e manifestazioni di massa. Rappresentano, insomma, l’espressione più diretta della partecipazione delle masse alla storia con il loro carico di passioni, emozioni, sentimenti: dati pure questi importanti e, perfino per gli storici accademici, atti a comprendere il senso e la “temperie” reale degli avvenimenti, almeno dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, da quando la politica come pratica riservata solo agli aristocratici o ai ceti alto borghesi è diventata strumento di socializzazione anche per il popolo. E’ questo il motivo conduttore di Bella ciao Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza, di Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Urbino: un filo che si dipana dalle origini del nostro Risorgimento fino ai più recenti rapper come i 99 Posse, Jovanotti, Manu Chao, cantori delle nuove e inedite povertà del millennio appena iniziato e dei sogni degli emarginati della società globale. E in mezzo i variegati orientamenti politici e ideali del nostro faticoso processo di unità nazionale e i canti che li esprimevano: inizialmente caratterizzati solo da un generico patriottismo si andarono progressivamente definendo in senso anticlericale, repubblicano, tingendosi via via di anarchia, di socialismo, dell’utopia comunista… E l’autore non trascura, poi, i versi ingenui degli emigranti; i testi che offrirono consolazione agli antifascisti irriducibili; le rime, dense, pregnanti della lotta partigiana in montagna e quelle polemiche e irridenti degli anni difficili dell’immediato dopoguerra. Un merito grande del libro di Pivato? L’avere evitato un atteggiamento che ha contrassegnato fino ad appena ieri tanti studiosi delle tradizioni popolari: cioè, quello di riguardare sempre se non con disprezzo almeno con una certa arcigna severità a tutte manifestazioni dell’industria musicale. L’autore di Bella ciao restituisce, invece, dignità culturale – e quindi anche politica – non solo alla canzone d’autore, ma anche ad alcuni prodotti del mercato discografico, restituendo puntualmente al lettore la storia, spesso aspra, della dialettica sviluppatasi negli anni Sessanta e Settanta tra canzone militante, con i suoi testi ideologici e le sue sonorità elementari, e la musica leggera “tout court”, le sue spiccate professionalità, i suoi circuiti miliardari, la sua capillare diffusione e distribuzione. Un confronto impari: e infatti la canzone politica e sociale, anche per i propri errori tra cui quello di una orgogliosa e ribadita autosufficienza dai meccanismi economici, sembra sparire nel corso degli anni Ottanta e Novanta. “Tutto” scrive Giuseppe Vettori, studioso del folklore italiano “sembra svanire nel nulla. Il movimento di massa nato intorno alla cultura popolare impallidisce, si dissolve: niente più pubblico, né libri, né dischi, né convegni, né spettacoli, né dibattiti… quel ‘popolo’ comincia a trasformarsi in ‘gente’ sempre più indifferenziata”, opaca, segnata in senso qualunquista. Ma alla maniera dei fiumi carsici la canzone politica e sociale torna a riapparire più vitale di prima “all’inizio del nuovo millennio, allorché la piazza si ripopola: cortei pacifisti, manifestazioni sindacali, adunate dei disoccupati e dei senza casa affollano un luogo sociale frequentato solo dai turisti. E mentre i congressi dei partiti della sinistra celebrano la fatica del lavoro quotidiano opposta alla facile etica del successo dell’era berlusconiana, attraverso Una vita da mediano di Luciano Ligabue, i giovani che ora tornano a manifestare riscoprono anche la tradizione del canto sociale” (p. 320). Tocca ora alle generazioni più recenti rielaborare, secondo modi del tutto nuovi, del tutto originali, la straordinaria ricchezza rappresentata dalle parole e dalle melodie dei loro nonni e dei loro padri.

"I comunisti mangiano i bambini": ecco tutta la verità. Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea, racconta nel suo libro come è nata la più riuscita invenzione della propaganda anticomunista. Fra realtà terribili e grandi bugie storiche: tutta la verità sulla leggenda, scrive “Today”. Prime pagine di giornali dai titoli catastrofici. Un fronte anticomunista particolarmente "aspro" per l'esperienza del fascismo. Storie vere e storie ingigantite. Così è nata una delle invenzioni in assoluto più riuscite della propaganda anticomunista: la leggenda che narra dei comunisti che mangiano i bambini. La storia di questa "favola" è sapientemente raccontata e spiegata da Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea all'Università di Urbino, nel libro "I comunisti mangiano i bambini". Una "favola" che è stata costruita ad arte sulla verità degli episodi di cannibalismo registrati in Unione Sovietica durante le terribili carestie degli anni Venti e Trenta. Da lì alla finta deportazioni di bimbi italiani in Russia e ai titoli: "Madre! Salva i tuoi figli dal bolscevismo" il passo è stato brevissimo. E' il '43, è l'Italia della propaganda di Salò, e viene pubblicata la notizia terrificante di una deportazione in Russia di bimbi italiani dai 4 ai 14 anni. Il manifesto della Repubblica di Salò "titola": "Chi salverà i vostri figli?". Tanti genitori preferiscono uccidere i figli e poi suicidarsi. Tutto è naturalmente falso. Ma in Italia diventa tutto "magnificamente" vero. "Da noi - scrive Pivato - finita la guerra la leggenda assume aspetti più dilatati che altrove, vuoi perché l’esperienza del fascismo enfatizza lo scontro con il comunismo e suscita timori e paure più che in altre realtà, vuoi perché dalla metà degli anni Quaranta in Italia opera il più grande Partito comunista dell’Occidente. E dunque la reazione del fronte avverso è particolarmente aspra". Tanto aspra da fare credere che i "comunisti mangiano i bambini".

«Quando i comunisti mangiavano i bambini». Un libro dello storico Stefano Pivato spiega com’è nata la leggenda. Anni 20: carestia in Urss, poi casi (veri) di antropofagia. La notizia (falsa) di rapimenti rilanciata dalla Rsi. La guerra fredda, le elezioni e i manifesti di Boccasile, scrive  Alesandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Nel 1944 i giornali della Rsi avviarono una vera e propria campagna stampa per propagandare la vicenda (falsa) dei bambini deportati in Urss. «Papà salvami!», «Madre! Salva i tuoi figli dal bolscevismo!». Stalin nelle sembianze mostruose di un orco. La falce e il martello impressi nelle fauci di ragni orribili. Soldati russi e alleati raffigurati come spettri. Tutto su pieghevoli, pagine di riviste, manifesti dalle tinte caravaggesche illustrati sovente da chine illustri, quelle di Luigi Boccasile e Walter Molino. Un periodo tra il 1944 (siamo a Salò, e il fronte divide l’Italia in due) e la metà dei Cinquanta (nell’Italia della ricostruzione). Ad arroventare gli anni tra guerra mondiale e guerra fredda c’è stata (anche) quell’accusa di mangiare i bambini, l’invenzione in assoluto più fortunata della propaganda anticomunista. Una leggenda fiorita sulla verità degli episodi di cannibalismo registrati in Unione Sovietica durante le terribili carestie degli anni Venti e Trenta. A raccontare come tale leggenda sia nata e si sia ingrossata nel tempo è un libro - intitolato «I comunisti mangiano i bambini» - di Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea e rettore dell’Università degli Studi Carlo Bo di Urbino. Il saggio, edito dal Mulino, è ricco di illustrazioni d’epoca. Da «La Domenica del Corriere» del 1944 con la rappresentazione della falsa notizia sulla deportazione in Unione Sovietica dei bambini siciliani, trattata e ingigantita poi dal manifesto della Repubblica di Salò rivolto alle mamme italiane («Chi salverà i vostri figli?»), all’orco comunista, appunto, con le sembianze di Stalin. Che terrorizza pure quel bambino sotto le spoglie del nuovo anno del ’55. Quella frase - «i comunisti mangiano i bambini» - Pivato è andato a cercarla pure su Google. Le citazioni sono centinaia di migliaia. Il web le ha moltiplicate in tutte le lingue. «Les communistes qui mangent les enfants», «kommunisten fressen kleine kinder», «communists eat babies», «los comunistas se comen a los nino». Non mancano le traduzioni in cinese e russo. Una diffusione planetaria per una leggenda che trova le sue radici in quelle storie di antropofagia registrate nella ex Urss e di cui diedero testimonianza le stesse autorità sovietiche anche in resoconti dell’epoca. Tanta fame, i cadaveri mangiati per sopravvivere. Oltre a diversi cronisti (pure Benito Mussolini nel 1922, non ancora duce, sulle colonne del Popolo d’Italia) lo raccontarono scrittori - russi e non -, intellettuali e dissidenti come Gorkij, Koestler, Solzenicyn, Grossman. Un fatto storico che venne ripreso e amplificato dalla propaganda di Salò. Nel ’43, proprio a ridosso di Natale per aumentare l’impatto emotivo, viene pubblicata la notizia terrificante di una deportazione in Russia di bimbi italiani, dai 4 ai 14 anni. Un tam tam incessante di giorni, con cronache che raccontano di donne straziate dal dolore, di genitori che decidono di uccidere i loro bambini e poi di suicidarsi piuttosto che lasciarli partire per la Russia. Si racconta di navi affondate con il carico di bambini: un falso, ovviamente . Ma un falso che, soprattutto in Italia, fatica ad essere cancellato. Da noi, scrive Pivato, finita la guerra la leggenda assume «aspetti più dilatati che altrove, vuoi perché l’esperienza del fascismo enfatizza lo scontro con il comunismo e suscita timori e paure più che in altre realtà, vuoi perché dalla metà degli anni Quaranta in Italia opera il più grande Partito comunista dell’Occidente. E dunque la reazione del fronte avverso è particolarmente aspra». Un crescendo che si alimenterà, sostiene Pivato, ancor più nei decenni di guerra fredda, con lo scontro sempre più feroce tra Dc e i comunisti. Che raccontavano - pure loro - di bambini che rifiutavano il cibo offerto dalle organizzazioni cattoliche convinti che fosse avvelenato, «perché i preti uccidevano i bambini per spedirli in paradiso». Ma intanto siamo arrivati ai giorni nostri. L’Orco con la falce e il martello che mangia i bambini è sempre lì, nell’immaginario ritagliato tra politica e propaganda. Lo sa bene Silvio Berlusconi che tra paradossi, barzellette e asserite verità ne ha detto sovente nelle sue campagne elettorali. Bimbi non mangiati dai comunisti, semmai «fucilati». Oppure, nella Cina di Mao, «bolliti per concimare i campi». Compare anche Francesco Cossiga a «sdoganare», sul filo dell’ironia, la leggenda. Quando D’Alema arriva a palazzo Chigi - è la prima volta di un ex Pci e siamo nel 1998 - il presidente emerito gli regala un bambolotto di zucchero. «Così non interromperai la tradizione dei comunisti che mangiano i bambini».

Perché “i comunisti mangiano i bambini”? Da dove viene una delle leggende più creative e fortunate della comunicazione politica novecentesca, scrive “Il Post”. Su Repubblica del 10 novembre Simonetta Fiori ha raccontato l’ultimo libro dello storico Stefano Pivato – “I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda”, edito dal Mulino – in cui si riprende e racconta una delle invenzioni più creative e radicate della comunicazione politica del Novecento spigandone l’origine (che è un elemento di realtà), evoluzione e fortuna, soprattutto in Italia: quella sui comunisti che mangiano i bambini. Oggi dicono che accada il contrario, che siano i bambini a mangiarsi i comunisti, o quel che resta di loro. Ma quella dell’orco rosso, terrifico divoratore dell’infanzia, non è una favola che si possa facilmente liquidare. Perché come tutte le leggende racconta molti dei pregiudizi, degli odi e dei timori di una comunità. E nel nostro caso racconta la storia di un Paese che fatica a crescere, ancora prigioniero d’una credulonità contadina e di un’eccitazione emotiva comprensibile solo in tempo di guerra. Un’Italia che ancora non riesce a chiudere completamente con una delle invenzioni più fortunate e resistenti della comunicazione politica novecentesca. La bestia di Pollicino ridipinta con le sembianze mongole di Stalin. O, più in generale, la leggenda dei comunisti che si nutrono di carne tenera. Lo specchio moltiplicatore del web la riproduce ovunque nella scena planetaria. Basta un click perché si riverberi in tutte le lingue del mondo. Uno storico da sempre attento alla mentalità, Stefano Pivato, s’è preso la briga di andare a contare i siti sull’argomento, stupefatto dall’enorme diffusione del mito. Ma soltanto da noi può vantare un record che attiene alla durata e soprattutto al suo radicamento, non solo nei recessi dell’immaginario popolare ma nella dignità ufficiale della sfera pubblica. Ed è il bel saggio di Pivato a farcelo notare (I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Il Mulino). Dal ventennio nero a quello azzurro, dagli articoli di Mussolini a quelli contemporanei del Giornale, da Guareschi a Berlusconi, passando per Cossiga che regala gustose bamboline di zucchero al neopremier D’Alema, il ceto politico e intellettuale italiano si mostra affezionato a uno degli archetipi più perturbanti della vulgata anticomunista. E se non mancano le ragioni storiche — la lunga esperienza del fascismo che di quel mito fu l’iniziale propagatore e la presenza in Italia del più grande partito comunista d’Occidente — bisognerebbe però affidarsi a un bravo psichiatra collettivo per risalire alle cause di una patologia ancora corrente. A svuotarne il senso originario non sono bastate neppure le armi della satira, che ha risposto con oltre cinquant’anni di ritardo a un accorato appello di Pietro Ingrao rivolto all’intellighenzia italiana: «Ci sarà mai uno scrittore che sappia bollare questi seminatori di discordia?». Ci ha provato Paolo Villaggio in uno dei suoi racconti surreali, immaginando un ingolosito Togliatti che ordina bambini fritti, mentre Nenni appesantito da una fastidiosa gastrite ne ordina uno crudo, «possibilmente ancora vivo». E se Gaber cantava «Qualcuno era democristiano perché i comunisti mangiavano i bambini», più di recente Crozza ne ha ricavato un personalissimo albero alimentare: «Fassino è la dimostrazione che i bambini non fanno ingrassare». Ma soltanto sette anni fa Palazzo Chigi doveva chiedere scusa al governo di Pechino per una gaffe del premier, che aveva evocato prelibati bolliti di neonati in salsa cinese.

Lo stesso autore poi ha scritto un libro su un mondo di cui egli stesso ne ha fatto parte, ma che critica quando sono gli altri a dettar legge.

J’accuse In un pamphlet edito da Donzelli, l’ex rettore Stefano Pivato si scaglia contro l’«Homo academicus». Narcisismo e cecità dei baroni uccidono l’università italiana. Autoreferenzialità, fobia digitale, concorsi «adattati»: è l’Italia che non vuole cambiare «Bisogna avviare una profonda autocritica», scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Mio padre era un professore universitario, ragion per cui aveva le abitudini tipiche dei professori universitari. Guardava tutti dall’alto in basso, non scendeva mai dalla cattedra, neanche in famiglia. Era una cosa che non sopportavo fin da quando ero bambino». Tranquilli: l’ingombrante genitore del nostro scrittore non era senese, non era barese, non era bresciano e neppure foggiano o trentino. La testimonianza, infatti, è di Haruki Murakami, uno dei più celebri romanzieri giapponesi. Tutto il mondo è paese? Ma certo. Esiste tuttavia un Homo academicus specificatamente italiano. Al punto che Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea a Urbino dove è stato anche rettore, autore di libri deliziosi a cavallo fra storia e costume come Vuoti di memoria , Il secolo del rumore , Il nome e la storia, ha deciso di dedicare a questa specie umana un feroce e divertito pamphlet. Si intitola «Al limite della docenza». Piccola antropologia del professore universitario , è edito da Donzelli, e dimostra che non sempre, come dice il vecchio adagio, cane non morde cane. In questo caso prof. morde prof. e rettore morde rettore. Come quello che, «magnifico di un’università del Nord in carica da ventotto anni» si levò furente all’assemblea della Crui dell’ottobre 2010 scuotendo i colleghi con parole di fuoco contro il limite di sei anni ai rettorati eterni voluto da Mariastella Gelmini e contro l’introduzione del codice etico. «L’etica si pratica, non si legifera!» Boooom! C’era il pienone quel giorno, alla conferenza dei rettori. Troppo spesso però, secondo Pivato, l’ Homo academicus italicus somiglia a quel Bernardino Lamis protagonista d’una novella di Pirandello «descritto mentre tiene la sua “formidabile” lezione. Il docente è “infervorato” a tal punto che solo alla fine si accorge di aver parlato a un’aula priva di studenti». L’ex rettore ne è certo: «Coinvolta in scandali di vario genere, l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie di attitudini». Come l’autoreferenzialità. Due che s’incrociano dicono: «Come stai?». Al contrario, «una certa tipologia di docente ha l’abitudine di salutarti con una formula piuttosto diffusa nell’ambiente universitario e, stringendoti la mano, senza chiederti nulla, ti dice “come sto io”. Insomma parla unicamente di se stesso». E tutto va di conseguenza: «Il professore “come sto io?” se riceve da un amico o un collega un libro, calibra il suo entusiasmo dal numero delle citazioni che ha ottenuto nell’indice dei nomi». E «non parte mai dai problemi universitari, che riguardano in particolare gli studenti e attengono alla diffusione del sapere. Ma dai “suoi” problemi. Che sono al centro del mondo». E mosso da «uno smisurato ego», pubblica libri che non vende a nessuno, ma se lo incrociate «vi dice subito che il libro è giunto già alla terza o quarta edizione, e magari che sta entrando in classifica, pronto a scalzare i best sellers di Camilleri...». Di più: «Spesso l’importanza del volume è sottolineata dal numero delle pagine che il docente “come sto io” mima allargando a dismisura le mani per darti l’idea del “tomone” che ha pubblicato. Come se l’importanza di un libro si misurasse a chili». E naturalmente il libro «fa giustizia di tutte le teorie e le ipotesi precedenti». E se la grafomania fosse sfogata negli ebook? Ma per carità! «Un buon numero d’insegnanti, soprattutto quelli delle discipline umanistiche, non ha ancora dimestichezza con gli strumenti digitali. Anzi, oppone loro un vero e proprio rifiuto. La motivazione più ricorrente è quella che la scrittura con carta e penna riveste un fascino d’ antan che non può contaminarsi con la modernità». E per di più non sarebbero più possibili certi trucchetti per imporre l’adozione del proprio tomo agli studenti. Come quello di un docente che, per evitare che gli allievi si passassero i libri usati, ha fatto stampare il suo con un’accortezza: «L’ultima parte era costituita da una serie di pagine con domande ed esercizi che lo studente doveva compilare a penna e quindi staccare e consegnare al professore per la verifica. In questo modo, terminato l’esame, il testo, mancante della parte finale, non era più utilizzabile». C’è chi dirà: «Uffa! Veleni». No: come giustamente recita la fascetta, quello di Pivato è un pamphlet malizioso, irridente ma tremendamente serio. Che getta sale sulle piaghe di un sistema universitario troppo spesso ostile a ogni riforma. Legato a riti e reverenze ampollose verso il Chiarissimo, l’Amplissimo, il Magnifico... Dove il rettore d’un ateneo privato al Nord può essere contemporaneamente il «magnifico» in «un’altra università del Sud a circa millecinquecento chilometri di distanza». Dove «il camaleontismo del professore mostra incredibili doti di adattamento ai meccanismi concorsuali» e l’imperativo è taroccare de Coubertin: «L’importante è partecipare ma soprattutto vincere». Insomma, un luogo chiuso dove «i codici etici concretamente adottati dalle università affrontano tendenzialmente tutti i temi, ma per lo più in modo astratto». Dove esattamente al contrario che nei grandi atenei internazionali che sono un viavai di eccellenze, lo jus loci , il radicamento vita natural durante nel cantuccio della propria facoltà, «costituisce una delle regole più ferree». Dove le ore obbligatorie di lezione sono al massimo 120 l’anno contro le 192 in Francia, le 279 in Baviera, le 252 (ma fino a 360) in Spagna, le 240 in Gran Bretagna... Abbiamo scommesso: c’è chi liquiderà il pamphlet, frutto di un grande amore ammaccato per l’università, come uno sfogo brillante ma fatto di mezze verità. E sbufferà: ma come, uno dei nostri che offre munizioni ai nostri nemici! Vadano a rileggersi Curzio Malaparte e la sua idea del patriottismo: «Un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza».

Ma quant'è bella la vita dei docenti universitari. In un pamphlet in libreria in questi giorni, Stefano Pivato traccia un ritratto tagliente e autocritico della tribù degli ordinari, associati e ricercatori, immutabile e soprattutto insondabile, scrive Maurizio Di Fazio “L’Espresso”. È alto il tasso di mortalità studentesca negli atenei italiani. La colpa viene di norma attribuita agli studenti stessi; e delle responsabilità didattiche dei docenti universitari nessuno dice niente. “Al limite della docenza” di Stefano Pivato, “piccola antropologia del professore universitario” (Donzelli Editore), ricalibra questo assunto. Ed è un ritratto-pamphlet divertente, tagliente e autocritico della tribù degli “ordinari, associati e ricercatori”, immutabile e soprattutto insondabile. L’autore, certi aspetti, atteggiamenti, tic identitari e collettivi, li conosce bene, dall’interno: insegna lui stesso, da quarant’anni, Storia contemporanea all’università. Ha ricoperto anche il ruolo di rettore. Entrò in ruolo subito dopo la “liberazione del ’68”. Misteriosa creatura stanziale, a differenza di quanto accade in America o nel resto d’Europa: addio clerici vagantes, “il docente, nella generalità dei casi, si laurea, cresce e progredisce in carriera nella stessa università”. Ma i nostri radar letterari non l’hanno mai intercettato: De Amicis narrava di un maestro elementare e Don Milani di insegnanti delle scuole medie. Idem al cinema: tranne “Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone, non viene in mente altro. La stessa cronaca si ricorda dell’“homo academicus” nostrano solo quando c’è da rovistare dentro casi di parentopoli, concorsi truccati e “sex for 30” sul libretto. Eppure la prima Università occidentale è tricolore, quella di Bologna risale, infatti, al 1088; e subito dopo la Chiesa, l’Accademia è la più antica tra le istituzioni, “nel tempo ha perfezionato i propri meccanismi, chiusi e non contaminati col mondo esterno, fino a renderli perfetti. Anche nelle loro storture” scrive Pivato. Fuori dal tempo, statico ma adattivo, il barone o baronetto nazionale è il più anziano del Vecchio continente: anche adesso che la sua età pensionabile è stata anticipata a 70 anni, tra i lamenti dei 75enni e le invidie dei non ancora quarantenni che restano una frangia simbolica, il 12 per cento del totale. In “Al limite della docenza”, Stefano Pivato apre passando in rassegna i fondamentali “tipi da cattedra”. Come il prof. “Come sto io?”. “Solitamente, quando due persone si incontrano, si chiedono vicendevolmente Come stai? Una certa tipologia di docente, se ti incontra, senza chiederti nulla, ti dice “Come sto io?”. Segue elencazione dei saggi che ha scritto, dei convegni a cui ha partecipato, delle lodi che ha ricevuto. “L’Accademia è fatta così. Ancor prima che di riconoscimenti scientifici, si nutre di solleticamenti a uno smisurato ego”. L’egolatria, e la vanità, sarebbero le due pietre angolari della mentalità del docente. Insieme a un’eterna conflittualità tra simili: “Litigo, dunque sono”. “Litigare è una forma assoluta per certificare la propria presenza; e magari, giustificare la propria assenza”. Così i professori più attaccabrighe sono spesso i più assenteisti. E in pochi ambienti come quello accademico l’insinuazione maliziosa, la diceria, la diffamazione giocano un ruolo tanto importante. Proliferano, come cellule impazzite che si penserebbero radicate in ben altri strati della società, le lettere anonime; vedersi dare dello iettatore può pregiudicare una carriera già avviata. I docenti universitari si sentono tutti autori di bestseller, anche se “hanno pubblicato presso un anonimo stampatore” e si ingegnano in mille modi per costringere i propri studenti a comprarne qualche copia. Uno dei loro mantra più comuni, al ritorno da una lezione, è questo: “Era piena zeppa di studenti” . In verità, a volte, non c’era quasi nessuno. Il “tribalismo universitario” si è formato e consolidato nel corso dei secoli. Ecco allora il “Chiarissimo” (professore ordinario), il “Magnifico” (rettore), l’“Amplissimo” (preside di facoltà). Anche l’apparato iconografico non scherza, e non muta. La liturgia del potere non conosce strappi. Potere talvolta lungo una vita: ci sono stati rettori che hanno governato per decenni. Non appena possibile, gli Insegnanti Massimi sfoggiano toghe, ermellini e altri paramenti. E se c’è un qualcosa che li manda in visibilio, è la parola (sempre più in disuso) “concorso”. “Perché il concorso gratifica il vincitore ma, in misura non minore, anche chi lo fa vincere”. Il docente-tipo necessita di uno spazio sempre più agevole: anche se ha pochi studenti, vuole un’aula più grande e uno studio personale sconfinato. È singolare la sua concezione del tempo. Il semestre universitario dura circa tre mesi e mezzo, e l’ora quarantacinque minuti. E “talvolta, secondo un’antica consuetudine, se ha impegni di varia natura e deve chiudere in fretta”, reintroduce d’imperio la lectio brevis. Sui generis anche la sua settimana lavorativa, che copre la prima o la seconda parte, in corrispondenza delle ore di lezione:  “per chi svolge la lezione durante la prima parte, la settimana inizia il lunedì pomeriggio e termina il mercoledì mattina; per quanti svolgono lezione nella seconda parte, la settimana inizia il mercoledì pomeriggio e termina il venerdì mattina”. Bella la vita del professore universitario nella penisola, impiegato pubblico a se stante, “non esistono cartellini da timbrare e gli impegni di lavoro sono interpretati in maniera alquanto lasca”. Il suo obbligo è di 350 ore annue, cifra che comprende le lezioni, le attività collegiali e le commissioni d’esame e di laurea. Il carico di lezioni può oscillare invece tra le 60 e le 120 ore, soglia molto più bassa di quella di un qualsiasi suo omologo europeo: 192 ore in Francia, 240 in Gran Bretagna, da 248 a 279 in Germania, da 252 a 360 in Spagna. E le stravaganze non cessano qui: “alcuni docenti mettono in calendario la prima lezione settimanale alle 18 e la seconda alle 8 del mattino successivo, esaurendo così, in breve tempo, la loro permanenza settimanale in Facoltà”. Tanto i codici etici introdotti dalle singole università sono, più che altro, petizioni di principi: le sanzioni restano sulla carta, e i docenti peggiori e improduttivi al loro posto. Anche se questo significa un cospicuo danno d’immagine e un minore trasferimento di risorse all’ateneo interessato. Stefano Pivato racconta poi che ai professori universitari come lui non viene richiesto di essere abili nell’insegnamento. Come se conoscere equivalesse automaticamente a saper insegnare. L’esame di abilitazione nazionale se ne disinteressa; i metodi sono cristallizzati ad almeno un secolo fa. In tempi in cui tutto scorre vorticosamente, sarebbero consigliabili nuove strade, ma invece si ricorre ancora alla lezione ex cathedra, “che è rimasta la stessa, di fronte a un pubblico di studenti aumentato a dismisura dal punto di vista quantitativo e qualitativo”. Mille anni dopo la fondazione dell’Università bolognese, a quindici anni di distanza dalla “riforma-spezzatino Berlinguer”, e a un tiro di binocolo dalla babelica “riforma Gelmini”, per l’opinione pubblica esterna “il docente è misurato dalla validità dei suoi studi, dall’attenzione che ricevono i suoi libri e dal prestigio delle case editrici che li fanno uscire”. Per la tribù universitaria, invece un docente vale esclusivamente per la funzione che occupa all’interno dell’Accademia. Anche se ha pubblicato un solo libro in decenni di “ricerca e insegnamento”. Anche se è di destra. O di sinistra. “Per la sua strenua difesa del territorio, dell’identità e dello jus loci è assimilabile al tipo antropologico leghista”. O lepenista. Uscire dal guado e aprirsi al mondo, anche fisicamente. Più doveri e meno diritti acquisiti. Perché “prima di qualsiasi riforma, bisogna riformare se stessi”. E perché spetta a loro il compito di formare le classi dirigenti del futuro. È questa la proposta, docente, di Stefano Pivato.

Fermi tutti! Micromega ha scoperto come sistemare la scuola italiana: basta cantare in classe “Tu scendi dalle stelle”, scrive Francesco Amicone  su “Tempi”. Per la rivista è tutta colpa della Chiesa se la nostra scuola non è al passo di quelle dei paesi del nord. Da noi si invitano in classe i preti, là fanno lezioni con le prostitute e i peluche a forma di fallo e vagina. «Il Vaticano e la scuola: “Cosa nostra”». L’equiparazione, solo allusa, tra mafia e Chiesa compare nell’ultimo numero di Micromega, dedicato all’istruzione. La rivista diretta da Paolo Flores D’Arcais contrappone l’idea di una scuola all’avanguardia, democratica, esclusivamente statale, di stampo nord europeo, alla realtà educativa italiana, “ostaggio” della Chiesa Cattolica e dipendente dai simboli del cristianesimo. L’accusa non riguarda esclusivamente i “diplomifici” e le scuole paritarie (accusati di sottrarre risorse alle scuole di Stato per produrre cattivi studenti). Il problema riguarda anche la scuola di Stato. Un paio di esempi comparativi: nelle scuole di Stato italiane si ospitano vescovi che blaterano di carità cristiana; in Danimarca, si invitano le prostitute a conversare di sesso. Nell’Europa laica e pluralista, i bambini conoscono se stessi usando peluche a forma di fallo e di vagina; in Italia li si obbliga a giocare con il presepe. Altri argomenti, oltre alla sessualità, sono trattati seriamente da Micromega. Dovrebbero dimostrare che senza preti, lezioni di religione, crocifissi, presepi, l’istruzione in Italia ne trarrebbe giovamento. Adele Orioli, in «Il Vaticano e la scuola: “Cosa nostra”», descrive la cappa di oscurantismo da cui è asfissiata l’Italia. Il panorama è fosco. Ogni angolo del belpaese è deturpato dall’opera della mano devota di una beghina o di un prete. Ovunque si vedono «immagini sacre, statuine di santi e madonne, in qualche caso veri e propri altarini con tanto di candele votive. Una presenza che talvolta – nota la giornalista – è persino riduttivo definire martellante, fagocitante, oppressiva. Non solo a prima vista». Una presenza che non rispetta i confini, la separazione fra ciò che è Stato e ciò che è Chiesa. Nel capitolo “Reliquie, gite e santuari”, Orioli può dimostrare l’esistenza di una sciagurata connessione Stato-Chiesa con qualche fatto di cronaca. Qualche anno fa, ricorda, «a Pedara, alle pendici dell’Etna, l’urna contenente i resti di Karol Wojtyła è stata prima trasportata in corteo nei corridoi di tutti i plessi scolastici da un sacerdote con tanto di paramenti sacri, in seguito è stata oggetto di apposita assemblea». Orioli rende noto che «sempre in Sicilia, girano per le scuole le reliquie congiunte alle scarpette di Santa Lucia». A Roma, nel 2011, i funzionari dell’Ufficio scolastico della Regione Lazio, con arguzia, mascherarono un pellegrinaggio per cinquemila studenti al santuario del Divino Amore, con una “gita” che prevedeva un «percorso di progressiva consapevolezza» che «consente di “sfondare la notte” nella luminosità del giorno che nasce». È evidente, dunque, che attraverso la scuola, la Chiesa cattolica attenta al pluralismo e alla laicità della Repubblica. Orioli prosegue la sua disamina. Aggirando le leggi, con l’aiuto di magistrati pilateschi, «quante messe di inizio e fine anno, di Natale e di Pasqua, o persino per il santo patrono di turno, sono tutt’oggi celebrate nelle scuole di tutta Italia?». «E le preghiere – continua Orioli – che dovrebbero più di altri fenomeni essere ricordi di un lontano passato, sembrano essere tornate in auge, tanto all’inizio quanto alla fine delle lezioni». E che dire del presepe? Dei canti di Natale ad «alto contenuto confessionale»? Non è forse vero che la scelta dei maestri cada quasi sempre su “Tu scendi dalle stelle” invece che su “Jingle bells”? Sarà mica un caso? Non è certo un caso che nell’editoriale introduttivo al compendio sull’istruzione, Micromega promuova la versione grillina di democrazia, nella quale si parla di «sovranità-di-tutti-e-di-ciascuno» e non si fa cenno alla parola “popolo” (articolo 1: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»). Si tema di mettere in luce la contraddizione fra governo di tutti-e-di-ciascuno con la sovranità popolare. Si dovrebbero bandire dalle scuole gli esempi di Santa Lucia, Don Bosco, Giovanni Paolo II, ed elevare al rango di “modello educativo” l’edificante comportamento del signor «Franco Coppoli di Terni», un maestro che durante le sue lezioni «esercitava la sua funzione pubblica, particolarmente delicata, senza la presenza di un simbolo monoconfessionale», spogliando il muro dell’aula del crocefisso. Nella scuola di Stato concepita da Micromega, pare che lo studente, più che a formarsi come uomo, come cittadino, venga piuttosto chiamato a comportarsi da piccolo despota illuminato. Sarà un bene per la democrazia?

Questo è solo l’inizio di una carrellata di assalti della sinistra alla dirigenza “Scuola”.

Alle scuole private un fiume di soldi pubblici. Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari, mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. L'ingresso degli studenti in un liceo pubblico di RomaC’è un paradosso nel mondo dell’istruzione che sopravvive alle riforme e ai proclami. Da una parte scuole pubbliche a corto di risorse, con 250 mila insegnanti precari ed edifici senza sicurezza come testimoniano i crolli nell’asilo di Milano e nella media di Bologna di inizio gennaio. Dall’altra istituti privati che continuano a essere finanziati da Stato e Regioni con una dote che sfiora i 700 milioni di euro l’anno, senza che alle sovvenzioni corrisponda un controllo sulla qualità. Il governo Renzi ha promesso di mettere mano almeno alle condizioni delle aule, con un piano di investimenti ambizioso che però stenta a partire proprio per la carenza di fondi: l’operazione richiede quattro miliardi di euro. Così il dossier “La buona scuola” considera inevitabile il sostegno agli imprenditori dell’istruzione: «Va offerto al settore privato e no-profit un pacchetto di vantaggi graduali, attraverso meccanismi di trasparenza ed equità che non comportino distorsioni». Così ogni anno il ministero dell’Istruzione versa poco meno di mezzo miliardo alle paritarie. Un lascito mai rimosso del secolo scorso, quando il maestro non arrivava nei paesi più remoti e ai piccoli studenti ci pensavano soprattutto le suore. Oggi quel finanziamento è un nervo scoperto tra i pasdaran della statale ad ogni costo e i paladini delle strutture private. Per i primi andrebbe cancellato il contributo per gli istituti laici e confessionali che vogliono stare sul mercato, mentre i secondi difendono la possibilità di educare ai valori cattolici o con sistemi alternativi. La rivoluzione annunciata più volte da Renzi per la scuola non ha cambiato nulla. Le due opzioni sono sempre sullo stesso piano, rispolverando un vecchio mantra caro al centrodestra italiano: la libertà di scegliere dove mandare i figli a scuola è sacrosanta e siccome le paritarie costano, ci vuole un aiutino. Tesi sposata in pieno anche dal ministro Stefania Giannini: «Dobbiamo pensare una scuola che sia organizzata dallo Stato o dall’iniziativa privata. Dobbiamo uscire dalla logica che ci siano gli amici delle famiglie contro gli amici dello Stato». Per gli “amici delle famiglie” sono riservati per quest’anno 473 milioni, necessari ad accogliere quasi un milione di allievi dai tre ai diciotto anni. Fondi che arrivano da Roma in base al numero di sezioni e che solo negli ultimi anni sono scesi sotto quota mezzo miliardo. La riduzione è stata di venti milioni, poco più del tre per cento imposto ai ministeri dalla spending review, ma ha fatto lievitare il malcontento. Come spiega padre Francesco Macrì, presidente della federazione degli istituti cattolici: «Siamo il vaso di argilla più debole di tutti, subiamo il taglio dei finanziamenti a fronte di una crescita di responsabilità e di impegni educativi». Di diverso avviso Massimo Mari della Cgil:«Quella della Giannini è una presa di posizione degna dei governi democristiani. Con un problema mai superato: al centro dell’istruzione c’è il cittadino e non la famiglia. Finanziare la scuola cattolica contrasta con lo Stato stesso». Ancora più tranchant la Rete studenti:«Investire nelle paritarie è un insulto ai milioni di ragazzi che frequentano istituti che cadono a pezzi, senza servizi e sotto finanziati». Le statali italiane superano quota 41 mila, tutte le altre sono 13.625. Di queste, oltre 11 mila sotto forma di cooperativa, congregazione o srl offrono un ampio ventaglio di formazione. Per stare in piedi chiedono una retta che può arrivare fino ad ottomila euro all’anno. Tanto. E allora oltre allo Stato ci pensano gli enti locali a dare una mano, con il buono-scuola della Regione Lombardia a fare da modello o gli aiuti dei comuni emiliani: a Bologna il milione di euro destinato ogni anno alle scuole d’infanzia è stato bocciato da un referendum. Governatori e sindaci alimentano un altro fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico stimato dalla Cgil in altri 200 milioni, che si somma alla sovvenzione ministeriale. Un assegno in bianco, che non premia solo le eccellenze: finisce pure ad enti privati che non brillano per qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame. Tra le distorsioni più frequenti delle private ci sono gli insegnanti alle prime armi che diventano vittime del ricatto. Funziona così: per scalare la graduatoria nazionale devono accumulare punteggio con le ore di docenza, ma i professori a spasso sono così tanti che pur di mettere da parte ore utili sono disposti a salire in cattedra a gratis. Lezioni a costo zero e tenuti sotto scacco nel purgatorio delle parificate per prendere il volo il prima possibile verso il paradiso delle statali. Paolo Latella, insegnante e sindacalista Unicobas, ha raccolto le testimonianze: «È un fenomeno così diffuso che tocca almeno il cinquanta per cento delle strutture. “Vuoi che ti pago quando c’è la fila fuori?” è la risposta più frequente data dai gestori senza scrupoli ai docenti disarmati». In centinaia firmano il contratto e una lettera di dimissioni senza data. È sufficiente aggiungerla e cacciarli. Senza strascichi in tribunale. Lo stipendio in diversi istituti è sotto la soglia di sopravvivenza: ci sono esempi di retribuzioni da 200-300 euro al mese, significa due euro all’ora. E poi un elenco vergognoso di condizioni a cui sottostare. Dai rimborsi della maternità da restituire, fino alla pratica del pagamento con assegno mensile da ridare in contanti alla segreteria. Centinaia di casi, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, con tanto di minacce e pressioni. Tutte segnalazioni anonime, come se fare la prof fosse un mestiere a rischio. «Per sei anni sono stata malpagata a Cagliari. Sei mesi fa ho fatto una denuncia all’ispettorato del lavoro e ho scoperto l’ovvio: i contratti a progetto che avevo firmato sono illegali». Dopo l’esposto però la beffa. Licenziata con una motivazione paradossale: «Mancanza di fiducia a causa del mio comportamento». Epicentro del fenomeno la provincia di Caserta, dove si contano oltre 400 tra srl e cooperative e solo 217 istituti con lo stemma della Repubblica. Da qui arriva la storia di Maria: «Ho lavorato un anno intero senza ricevere neppure un euro, firmando però la busta paga. Ho fatto anche gli esami di idoneità senza portare a casa nulla, tutto sotto minaccia di licenziamento e di perdere posizioni in graduatoria». In Campania nelle scuole private resiste anche la pratica dei “diplomifici”: pago tanto, studio poco e prendo il pezzo di carta. Ecco il racconto di una ragazza bolognese:«A Nola mi sono presentata tre volte per le prove scritte ed orali. Mi facevano copiare tutto». È una delle testimoni ascoltate dai finanzieri dopo il sequestro di due istituti nel Napoletano. La maturità partendo da zero, grazie a registri taroccati e atti pubblici falsi. Il tutto per 12mila euro in contanti. A chi organizzava la truffa sono finiti in tasca milioni di euro: in centinaia si sono catapultati qui da Roma, Foggia e dalla Sardegna. Per prendere un diploma che non vale nulla: dopo l’inchiesta i titoli sospetti sono stati cancellati. Sul fronte dei finanziamenti, in Lombardia una dote ad hoc è stata il vanto dell’ex presidente Roberto Formigoni. Partiti nel lontano 2001, in tredici anni i contributi regionali hanno superato quota 500 milioni. Messi a disposizione in nome della possibilità di scegliere: la libertà educativa è in mano ai genitori, che se vogliono iscrivere i propri figli nelle scuole cattoliche ricevono sostegno dal Pirellone, che sborsa una parte delle rette. Un sistema fortemente contestato dalla Cgil, come spiega Claudio Arcari: «Per come viene distribuita, la dote finisce alle famiglie benestanti, alimentando un diritto allo studio al contrario: tanto a chi si può permettere rette da migliaia di euro e nulla a chi ha poco». L’aiuto non si è inceppato neppure con la bocciatura del Tar dello scorso aprile. Ecco come è andata. Due studentesse milanesi fanno ricorso: troppa differenza (a parità di reddito familiare) tra quanto destinato a loro - tra 60 e 290 euro - e quello che va a una coetanea privatista, che può intascare fino a 950 euro. Una disparità non accettabile per i giudici amministrativi: «Senza alcuna giustificazione ragionevole e con palese disparità, le erogazioni sono diverse e più favorevoli per chi frequenta una paritaria». La sentenza è tuttavia una vittoria a metà perché è stata respinta la parte del ricorso che colpiva il sostegno economico. E anche per quest’anno scolastico sono arrivati trenta milioni di euro sotto forma di dote. La scelta del leghista Roberto Maroni è stata copiata dal compagno di partito Luca Zaia. Il governatore veneto ha messo sul tavolo 42 milioni (21 per gli asili nido e altrettanti per le scuole d’infanzia) con questa motivazione: «Il Governo ci vorrebbe più impegnati nella costruzione di asili pubblici. Noi diciamo che questa è la nostra storia e che non ci sono alternative alle comunità parrocchiali e congregazionali. In Veneto non cerchiamo e non vogliamo nessuna alternativa». Non sempre vince il malaffare. Oltre ai predatori voraci e governatori generosi, non mancano le buone pratiche: inclusione sociale, esperienze di eccellenza e una visone moderna dell’insegnamento. A Rimini il centro educativo italo-svizzero (Ceis) è stato fondato nel dopoguerra dal Soccorso operaio elvetico. Una istituzione privata  laica che col tempo è diventata un modello: niente cattedre, orari flessibili e classi che  gestiscono in autonomia le lezioni per oltre 350 bambini fino a dieci anni. Di questi, cinquanta hanno una qualche forma di disabilità, oltre il triplo di una scuola pubblica. Un’attenzione simile a quella riservata dall’Istituto per le arti grafiche di Trento, di proprietà della congregazione dei Figli di Maria Immacolata, ma finanziata interamente dalla Provincia. È normale trovare in ogni classe almeno un paio di ragazzi con handicap. «Il dualismo normalità-disabilità va superato», afferma il direttore Erik Gadoni: «Ognuno può portare un contributo al gruppo in cui è inserito». Ottimi i risultati anche sul fronte dell’autismo. Rudy è un ragazzo con la sindrome di Asperger: quando entrò la prima volta si nascondeva sotto il banco. Grazie un percorso ad hoc allargato alla famiglia e ai compagni, la sua capacità relazionale è migliorata. E adesso Rudy ha lasciato Trento per iscriversi all’università. Una vita normale, dopo cinque anni e tanti investimenti per la sua educazione. A buon fine. Ha collaborato Paolo Fantauzzi.

«Spesso le paritarie sono un ritrovo di somari». Parla Mila Spicola, insegnante di Palermo, nella direzione del Pd e autrice del saggio “La scuola s’è rotta”, continua Michele Sasso su “L’Espresso”.

Mila Spicola: «Il problema delle paritarie non è economico, è costituzionale. Lo Stato in realtà finanziando le scuole paritarie risparmia, perché il costo unitario per studente è inferiore rispetto al costo della pubblica, il problema è verificarne la qualità. O meglio, come diceva Aldo Moro, proprio a proposito delle scuole private, verificarne il “rigore didattico” e oggi troppo spesso non lo si fa. L’articolo 33 dichiara: “Senza oneri per lo Stato”, e in realtà risparmia, cosa che spesso non si sottolinea abbastanza, ma non so che risparmio c’è se chiudiamo gli occhi sull’ignoranza generata dai diplomifici».

Mila Spicola non fa sconti. Insegnante palermitana è nella direzione del Pd e ha pubblicato il saggio “La scuola s’è rotta”.

Dove vanno a finire i quasi 700 milioni di euro all’anno per le paritarie?

«Purtroppo ancora oggi troppe paritarie sono dei carrozzoni che stampano diplomi. Specie al Sud. Non lo dico io, lo dicono le cronache, lo dicono i dati. Il privato da noi spesso non è indice di qualità, ma al contrario di dequalificazione per gli studenti. Anche questo non lo dico io, ma lo conferma una relazione allegata alle rilevazioni Ocse Pisa del 2009. In regioni come la Campania i docenti sono sfruttati e i maturandi prendono puntualmente il massimo dei voti, anche questo risulta da denunce e inchieste».

Le associazioni delle scuole cattoliche si appellano alla libertà di educazione..

«Ci sono diverse scuole di pensiero: c’è chi crede che la scuola sia un luogo in cui si educano i cittadini, e allora un pensiero condiviso di valori e conoscenze, c’è chi crede che sia una propaggine della famiglia, e dunque ai valori di quella famiglia deve aderire. Io credo che ci debba essere sì quella libertà educativa, ma la certificazione di un titolo, poi spendibile in modo uguale nel territorio nazionale ed extranazionale ha dei vincoli di uniformità valutativa e di rispondenza. È una questione di equità e di certificazione dei titoli, non solo di libera scelta. E comunque io mi sento di sostenere l’istruzione della Costituzione che dice che dobbiamo fornire una: cultura laica, inclusiva e di qualità».

Come se ne esce tra istituti che cadono e pezzi e docenti senza diritti?

«Attenti a non confondere i motivi economici con quelli della verifica del rigore didattico. Con le private, ripeto, lo Stato risparmia. Se dobbiamo assicurare la libertà educativa delle famiglie, ed è legittimo, dobbiamo però assicurare quel rigore, perché poi forniremo titoli e diplomi validi. Quindi se ne esce vincolando i finanziamenti alla verifica della qualità e al rigore dell’insegnamento. Posto che chi vuole sostenerle potrebbe farlo liberamente con l’otto per mille, secondo me avrebbero persino più fondi».

In tempi segnati dai tagli come si migliora l’offerta?

«Non siamo più in tempi di tagli, siamo in tempi di fondi e anche consistenti alla scuola: per l’edilizia, per le assunzioni, per i fondi di funzionamento. Per cui adesso davvero si può scrivere una storia diversa. La qualità della scuola pubblica deriva anche dal pluralismo. E l’intenzione di assicurare la stessa qualità dovrebbe essere pari a tutti: statali, private, del nord come del sud. Le eccellenze nelle scuole paritarie sono poche, rispetto a quelle statali, il resto, se non funziona è da verificare e valutare attentamente».

«Non è libero un paese dove si deve pagare per iscrivere un figlio in una scuola paritaria», scrive “Tempi”. Dario Antiseri e il «massacro» delle scuole paritarie. Una questione di numeri ed economica, ma anche di principio. «E Renzi da che parte sta?». Interessante commento oggi di Dario Antiseri sul Corriere della Sera. Antiseri si chiede come mai le scuole paritarie siano tante bistrattate e indifese all’interno del panorama politico e sociale italiano. Antiseri ricorda che lo stesso Antonio Gramsci era un difensore della libertà educativa: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà della scuola è indipendente dal controllo dello Stato». Se non «fa meraviglia» che i «sinistri» abbiano tradito questa idea di Gramsci, più sbalorditivo è il poco interesse che i cosiddetti liberali e, spesso, anche tanti sedicenti cattolici hanno per la libertà in campo educativo. «La scuola statale» scrive Antiseri «è un patrimonio grande e prezioso che va protetto – salvato innanzitutto dallo statalismo, cioè a dire dal monopolio statale – inefficienti e sciupone – nella gestione del sistema formativo». E tuttavia, annota, «di continuo viene additato come un furto pubblico alla scuola paritaria». Ma questo non è vero, come si vede dalla «miseria» che lo Stato italiano elargisce alle paritarie, «soprattutto se paragonato al contributo elargito alle scuole non statali da Paesi come il Belgio, l’Irlanda, la Germania, la Spagna o l’Inghilterra». Gli statalisti, poi «si guardano bene dal fare i conti e dal dire quanto la scuola paritaria (cattolica e laica) fa risparmiare allo Stato. Dai dati Miur 2012: alunni delle scuole statali: 7.737.639; alunni delle scuole paritarie: 1.036.403, di cui 702.997 iscritti alle scuole cattoliche. Finanziamento totale alle scuole statali: 40.596.307.956; finanziamento totale alle scuole paritarie: 498.928.558 euro. Costo allo Stato in media per alunno di scuola statale: 5.246,60 euro; costo allo Stato in media per alunno di scuola paritaria: 481,40 euro. Le scuole paritarie, dunque, in un anno, hanno fatto risparmiare allo Stato la bella cifra di 5.000.000.000 (cinque miliardi) di euro. In dieci anni – con un calcolo per difetto, dato che il numero degli alunni iscritti alle paritarie è progressivamente diminuito – la scuola paritaria ha fatto risparmiare allo Stato oltre 50 miliardi di euro». Questi numeri, però, non dicono tutto. Perché, oltre all’aspetto economico, c’è anche un aspetto di principi e valori. «Non è giusto – scrive l’editorialista – e soprattutto non è libero un paese dove una famiglia che iscrive un figlio a una scuola paritaria debba pagare per questa sua scelta di libertà. Uno Stato che costringe a comprare pezzi di libertà non è uno Stato di diritto. E, intanto, negli ultimi tre anni è morta una scuola libera ogni tre giorni – ogni tre giorni è morto un pezzo di libertà». Questo «massacro» però è ignorato dagli stessi cattolici impegnati in politica. Eppure i vescovi e prima di loro Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco hanno più volte richiamato tutti a mantenere viva la «fiaccola della libertà in una lotta quotidiana per la sopravvivenza delle scuole paritarie, cattoliche e non». «Una volta messi al sicuro gli edifici scolastici», scrive Antiseri, «il presidente Matteo Renzi come pensa di risolvere il problema della parità scolastica? È d’accordo o no con la Risoluzione del Parlamento europeo sulla libertà di insegnamento? Pensa che abbiano ragione i Vescovi, e non solo loro, o si sente schierato dalla parte dei tanti pretoriani del monopolio statale dell’istruzione? Considera o no il buono-scuola una urgente e necessaria terapia per i mali del nostro sistema educativo? Pensa anche lui che è servizio pubblico solo ciò che è statale? Aveva torto quel rappresentante di sinistra il quale, anni fa, dichiarò che il buono-scuola è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti?».

Continua con il crocifisso le battaglie della sinistra per un appiattimento ideologico alle loro posizioni.

"Punite il professore che toglie il crocefisso". Franco Coppoli ha rimosso il simbolo religioso durante le sue lezioni in classe a Terni e ora rischia una sospensione. La seconda dopo quella del 2008 finita con un mese senza stipendio e ora davanti al Tribunale. A dicembre un docente triestino per lo stesso motivo ha ricevuto una censura, continua ancora Michele Sasso su “L’Espresso”. Un altro crocefisso rimosso e il rischio di un’altra sospensione. La colpa del professore Franco Coppoli: ha tolto l’immagine di Cristo e della cristianità in una scuola pubblica. È accaduto all’istituto tecnico industriale e geometri “Allievi-Da Sangallo” di Terni e l’ufficio scolastico regionale per l’Umbria ha deciso di convocarlo per giovedì 5 febbraio per il contraddittorio in sua difesa. Ecco l’accusa nel procedimento disciplinare a suo nome: «Il fatto che abbia divelto dalle pareti di quattro aule in cui fa lezione i crocefissi fissati con una vite a pressione e con la colla provocando danni alle pareti durante le ore di lezione e che successivamente sempre durante le attività didattiche abbia proceduto personalmente a chiudere i fori». Ma c’è di più. Nella comunicazione si «evidenzia che i fatti che si contestano, la rimozione dalle aule, sono stati oggetto di precedente procedimento disciplinare a suo carico e che pertanto rappresentano una recidiva». Otto anni fa al trasferimento da Bologna a Terni per insegnare italiano e storia entra in classe e decide di staccarlo dal muro durante le sue lezioni. «Non esiste alcuna norma che impone o legittima il crocefisso nelle scuole superiori. Ed io avevo semplicemente rivendicato la libertà di non fare lezione sotto un simbolo appeso di una specifica confessione religiosa, invocando la libertà di insegnamento, la libertà religiosa e la laicità dello Stato e della scuola pubblica previste dagli articoli costituzionali» racconta Franco Coppoli. All’inizio la cosa non sembra creare problemi, ma dopo qualche settimana gli studenti si riuniscono in assemblea e “a maggioranza” decidono che nelle classi il simbolo deve stare alla parete. Lui non si arrende e continua a staccarlo dal muro per rimetterlo al proprio posto prima di uscire dalla classe. Risultato: un mese senza insegnamento e stipendio. La Corte d’Appello di Perugia il 15 ottobre scorso ha respinto il ricorso presentato dal docente contro la sentenza che ha ritenuto insussistente la discriminazione denunciata e legittima la sospensione di trenta giorni. «Ricevere un provvedimento disciplinare per la pretesa di insegnare in ambienti che siano inclusivi e laici è assurdo. C’è un ipocrisia di chi scende in piazza per la libertà di parola del settimanale “Charlie Hebdo” mentre si straccia le vesti per i simboli cattolici presenti nelle nostre aule», commenta Coppoli. Oggi il rischio è ancora più alto: la dirigente ha chiesto un lungo allontanamento e perfino il licenziamento. Un caso-limite che fa il paio con la vicenda di Davide Zotti, il professore di filosofia triestino sottoposto a indagine disciplinare per lo stesso motivo. Per Zotti è arrivata una "censura", la sanzione stabilita dall’ufficio scolastico che, verificato il curriculum del docente ha rinunciato alla sospensione optando per una sorta di ammonizione, una nota di demerito. Ma sempre di una sanzione si tratta. «Mi è stato spiegato che il mio gesto sarebbe stato da sospensione - dice Davide Zotti - ma non avendo altre "macchie" sul curriculum, si sono limitati alla censura. Per me rimane sempre una sanzione ed è grave comunque perché ne va del mio ruolo di insegnante e di quella che è una battaglia di civiltà che ritengo ancora legittima». La sentenza del 2011 della Corte europea dei diritti dell’uomo non aiuta certo, dopo che ha stabilito che il crocefisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane perché questo simbolo non lede né il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, né il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione. «Ancora oggi – è il commento di Raffaele Carcano, segretario dell’unione degli atei e dei razionalisti – cercare di insegnare o esercitare la propria attività lavorativa in luoghi pubblici non connotati da alcun simbolo religioso è difficile e pesante. Basti pensare alla vicenda del giudice Luigi Tosti (Assolto ma licenziato per motivi disciplinari) e le raffiche di provvedimenti contro questi docenti: il cammino per i diritti civili e la laicità dello Stato è ancora in salita».

Anche per la questione dei gay la sinistra monta una guerra che non c’è.

La guerra della scuola agli omosessuali. Tra boicottaggi, licenziamenti e "manuali". Negli istituti italiani si fa sempre più feroce la battaglia di associazioni dei genitori e organizzazioni religiose per "bandire la teoria del genere" e "difendere la famiglia tradizionale". Con il risultato che si moltiplicano gli episodi di omofobia e i dibattiti sulla sessualità vengono banditi, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. Avevano promesso la guerra al mondo “omosex” e a una non meglio precisata “teoria del genere”. Avevano annunciato che si sarebbero battuti affinché nelle aule scolastiche parole come “gay”, “lesbiche”, “transgender” ma anche “monofamiglie” e “unioni civili” non entrassero mai. E la promessa è stata mantenuta. La chiamano “battaglia a difesa della famiglia tradizionale”, è promossa da associazioni e organizzazioni religiose, e in teoria dovrebbe semplicemente sponsorizzare l’importanza e la bellezza di un’unione composta da uomo e donna. In realtà, si tratterebbe di una campagna di boicottaggio verso qualsiasi tentativo di spiegare l’omosessualità in classe, che sta avendo come teatro alcuni istituti scolastici e che rischia di avere conseguenze deleterie. Poiché gli effetti - come dimostrano recenti fatti di cronaca - si sono già cominciati a far sentire. Un insegnante omosessuale costretto a dimettersi e un alunno preso a calci in aula da un professore che gli avrebbe urlato “essere gay è una brutta malattia”, tanto per fare due esempi. Scenario di entrambi gli episodi, la cattolicissima Umbria. Da dove questa campagna è partita e si è poi estesa in quasi tutta Italia, come risulta a l’Espresso e come conferma l’associazione Arcigay, che oggi lancia l’allarme parlando di “clima di odio” e che continua a ricevere segnalazioni quasi quotidiane da parte di allievi, insegnanti e genitori laici, preoccupati da questa “deriva oscurantista”. E’ iniziato tutto - appunto - nella provincia di Perugia, dove le famiglie di alcuni studenti si sono viste recapitare fuori dalle scuole un “manuale di autodifesa dalla teoria del gender”, redatto dal forum delle Associazioni familiari dell’Umbria e dall’organizzazione La Manif Pour Tous Italia, che riunisce varie confessioni religiose. Il vademecum in questione - senza troppi giri di parole - invita i genitori dei ragazzi a boicottare ogni tentativo di affrontare l’argomento omosessualità in classe e a rifiutare negli istituti scolastici gli incontri con rappresentanti di associazioni gay, esponenti della “cultura omosessuale” o “la diffusione di materiale didattico pericoloso”. Sul sito dell’organizzazione, inoltre, compare una lista di asili “gay friendly” dai quali stare alla larga. “Controllate costantemente che nella scuola di vostro figlio non si parli di omofobia. Sono parole chiave che nascondono l’indottrinamento della teoria del gender. Controllate ogni giorno i loro quaderni e diari. E date l’allarme!”, si legge nel decalogo distribuito alle famiglie. Rapidamente, il manuale di autodifesa si è diffuso anche in altre regioni italiane. In Veneto, per esempio. A Venezia recentemente alcuni insegnanti di religione sono corsi ai ripari improvvisando lezioni nelle quali si mettono in guardia i ragazzi “dalle insidie dell’ideologia omosessuale” mentre a Verona il consiglio comunale ha approvato una mozione “per monitorare i progetti di educazione sessuale e affettiva nelle scuole cittadine”. E così dall’autunno scorso le scuole veronesi sono tenute, in base alla mozione, ad avvertire preventivamente i genitori dei corsi e degli approfondimenti sulla sessualità, e allo stesso tempo il Comune è impegnato a raccogliere eventuali segnalazioni e proteste da parte delle famiglie preoccupate che nelle ore di educazioni civica si parli “di famiglie omosessuali, adozione e relazioni gay”. Neppure la Capitale è rimasta immune alla “crociata”. Nel celebre liceo romano Giulio Cesare è finito in rissa - e con un ricorso al Tribunale civile da parte dei genitori - il tentativo da parte di un docente di far leggere agli studenti alcuni passaggi di un romanzo di Melania Mazzucco, che descriveva scene di amore omosessuale. In Piemonte la situazione non sembra essere migliore. Eppure nelle aule scolastiche, di educazione alla sessualità (di qualunque genere), ci sarebbe proprio bisogno. Soprattutto per permettere agli studenti di superare paure e pregiudizi. Visto che i casi di omofobia continuano a essere all’ordine del giorno. All’istituto Pininfarina di Moncalieri, per esempio, è ancora in corso un’inchiesta interna sulla frase pronunciata lo scorso novembre da un’insegnante di religione: “Dall’omosessualità si può guarire con la psicanalisi, perché è un problema psicologico”, avrebbe detto la donna. Racconta a l’Espresso Giorgio B., 16 anni, studente del Pininfarina e attivista di Arcigay Torino: “Per anni ho dovuto subire battute e minacce più o meno velate, per via della mia omosessualità. Poi ho deciso di fare coming out, con i miei compagni e con la mia famiglia, ed è stata una liberazione. Da allora ho cominciato a ricevere lettere, sfoghi, segnalazioni da parte di studenti di tutta Italia. E mi sono reso conto che la situazione è allarmante. L’omofobia non può più essere tollerata come semplice “libertà di opinione” ma trattata per quella che è: discriminazione”. A riferire un panorama inquietante è anche una recente indagine effettuata Studenti.it, popolarissimo portale dedicato agli allievi delle scuole medie e superiori. Secondo loro, il 58 per cento degli studenti italiani ha subito o ha direttamente assistito in prima persona a episodi di omofobia. Nei dettagli, il 38 per cento riferisce di essere stato testimone di episodi di discriminazione e di omofobia da parte di studenti verso altri studenti, il 12 per cento dichiara di aver assistito a episodi di questo genere da parte di professori ai danni degli allievi e l’8 per cento rivela di esserne stato vittima in prima persona. A spiegare bene la situazione è il circolo Arcigay Omphalos di Perugia, il primo a denunciare la diffusione degli “opuscoli di autodifesa dalla teoria del gender”. “Questo è il risultato delle campagne di odio che i movimenti oltranzisti cattolici e di estrema destra stanno portando avanti in tutto il Paese - spiega il presidente Patrizia Stefani - Le loro manifestazioni, apparentemente silenziose e rispettose, sono invece intrise di odio e discriminazione non solo verso le famiglie “arcobaleno”, ma anche verso chiunque non condivida con loro una visione di ‘famiglia tradizionale’”. “Con sospetto e diffidenza - aggiunge Stefani - vengono guardate anche le famiglie composte da un solo genitore o da coppie conviventi che hanno figli senza essere regolarmente sposate”. Contattata da l’Espresso, l’associazione La Manif pour tous - co-autrice del vademecum “contro l’ideologia del genere" - respinge al mittente ogni accusa, parlando di semplice libertà di espressione: “Sono stati gli stessi genitori dei ragazzi a chiederci di redigere questa guida - spiega il presidente Filippo Savarese - tutto questo perché le famiglie sono intimorite dagli incontri che avvengono a scuola con le associazioni pro-gay e vogliono poter scegliere l’educazione da impartire ai propri figli”. “Basti sapere - aggiunge Savarese - che la nostra raccolta firme online a difesa della famiglia tradizionale ha già raggiunto quasi 21mila adesioni”. A chi li accusa di essere omofobi (l’associazione si scaglia apertamente contro l’entrata in vigore di una legge contro l’omofobia), rispondono: “Essere contro le unioni gay non significa essere omofobi”. Sul sito dell’associazione, però, alla voce “tredici motivi per dire ‘no’ alla legge sull’omofobia” compare un articolo firmato dall’avvocato Gianfranco Amato, presidente di Giuristi per la Vita, già autore di controverse dichiarazioni sul matrimonio omosessuale nelle quali paragonò il matrimonio fra due uomini  a quello fra “un uomo e un cane”. Stavolta l’avvocato - invocando la libertà di espressione - cita le Sacre Scritture: “l’omosessualità rappresenta una grave depravazione, Il catechismo definisce l’omosessualità come un insieme di atti intrinsecamente disordinati e contrari alla legge naturale. Se questa legge fosse approvata dirlo diventerebbe un reato”. A spingere la discussione più in là, sottolineando una mancata presa di posizione del governo in materia di educazione “al diverso”, è invece l’associazione Equality Italia, che si occupa di diritti, e che ricordando il vuoto legislativo in materia di omofobia lancia un vero e proprio “j’accuse” al governo Renzi, colpevole di aver fatto troppo poco in questo campo: “Il ministro dell’Istruzione Giannini ci deve spiegare una volta per tutte se sta con la laicità della scuola o con le organizzazioni religiose, vista la mancanza di educazione alle differenze nelle aule scolastiche”, dichiara il presidente Aurelio Mancuso. “Ma la responsabilità di questo Medioevo di ritorno non è solamente del ministero dell’Istruzione - aggiunge Mancuso - perché quando ci sono casi di omofobia, sia ai danni di studenti che di insegnanti, non possiamo far a meno che notare un assordante e gravissimo silenzio da parte dei sindacati della scuola. Una situazione che ci fa sentire tremendamente soli”.

San Giuseppe gay, i pastori gay, le luci massoniche: ma che Natale è? Si chiede Francesco Signoretta su “Il Secolo D’Italia”. Dalle lezioni gay ai presepi gay fino agli addobbi natalizi ispirati ai simboli massonici. È un Natale trasformato, svuotato, messo al bando. Un Natale di cui non si ricorda la radice profonda, il culto, la religiosità. Tutto viene costruito per soddisfare il politicamente corretto, il Vangelo scritto dalla sinistra, la moda che vede imporsi l’amore omosessuale. Ma non fila liscio, perché si scatena la ribellione della gente comune, delle famiglie che non vogliono vedere toccate le loro tradizioni. Gesù bambino accudito da una coppia gay. Fa ancora discutere lo scandalo in un centro commerciale della periferia di Piacenza: il presepe gay friendly con il bambinello adottato da una coppia di fatto. Nel centro commerciale ci sono diversi negozi, ma non è stato possibile ricostruire in quale fosse stato allestito il presepe.  L’opera con i due San Giuseppe era in vendita. I cittadini hanno protestato con l’addetto alle vendita, ed è stato rimosso». I pastori che si tengono per mano. A San Miniato invece il dibattito viene scatenato per due manichini. Due personaggi vestiti da pastori che camminano insieme, tenendosi sotto braccio. Tra le mani di uno dei due un cartello ispirato alle parole del Papa: «Cerchiamo di superare la cultura dello “scarto” con la cultura della solidarietà». L’attenzione i è concentrata tutta sulla coppia di pastori che ormai ha acceso anche la curiosità dei media nazionali attirati dalla notizia di un presepe “gay-friendly” realizzato addirittura in Curia, nella stanze del seminario vescovile. Il precedente del 2011: due San Giuseppe e la fecondazione. Gesù bambino, il bue, l’asinello e due San Giuseppe. L’iniziativa, del 2011, fu del centro sociale bergamasco, che allestì un presepe senza Maria, ma col bambinello accudito da genitori gay, rappresentati da due statuette di Giuseppe. Nella visione del centro la sacra famiglia era «una coppia di fatto» che ha «usufruito della fecondazione eterologa». Poi ci sono le luminarie “massoniche”. Come se non bastasse a Bologna hanno fatto discutere le luminarie ispirate all’iconografia della massoneria. L’opera di Luca Vitone è stata fatta sul ponte che scavalca i binari della stazione: una serie di immagini (il triangolo, l’occhio e il circolo di raggi), la cui combinazione, osservata in prospettiva da due luoghi precisi, prende la forma di chiari riferimenti massonici.

A me il presepe non mi piace, scrive “Il Secolo D’Italia”. Celebre citazione dal “Natale in casa Cupiello” di Eduardo de Filippo, divenuta simbolica. Il presepio, è scontato, deve piacere a tutti, si deve fare per forza e secondo le convenzioni. Anche questo Natale il presepe ci è stato ammannito con delle regole precise: la crisi mondiale dipende dalla crisi dell’euro che dipende dalla crisi economica italiana che è colpa di Berlusconi; per fortuna c’era un uomo nobile e senza macchia – che casualmente si trovava a fare il custode della Costituzione con coraggio, saggezza e una serie lunghissima di altre virtù che magicamente si ritrovano tutte nella sua persona – che ha deciso per tutti noi quale fosse la soluzione; la soluzione era che l’Uomo del Colle aveva a sua volta trovato un uomo della provvidenza a cui nessuno dava sino ad allora una lira ma che abbiamo scoperto tutti all’improvviso essere – appunto – l’uomo della Provvidenza. L’uomo della Provvidenza, chiamati a sé altri uomini e donne della Provvidenza (la quale è improvvisamente divenuta molto prolifica, ma prima dov’era?), in un solo mese di Fase Uno ha risolto tutti i problemi d’Italia e quindi dell’euro e quindi del Mondo. La credibilità internazionale italiana è tornata a mille (?!), l’incubo dello spread è finito (?!), l’economia italiana si è rimessa in moto, la politica ha ritrovato concordia e credibilità e siamo tutti più alti e più biondi (?!?!?!?!). È assolutamente così. Bisogna crederci: lo dicono Napolitano e il Repubblichiere della Sera. E se non vi piace, fatevelo piacere. E non dite che “la democrazia è sospesa” sennò San Giorgio s’incazza e la Befana (Fornero?) vi porterà solo carbone (che vi scala dalla pensione…).

Dopo il Crocifisso, il presepe: la sinistra “in lotta” dall'Italia alla Francia, scrive Girolamo Fragalà su “Il Secolo D’Italia”. Non c’è solo il caso della scuola di Bergamo, dove il preside – nonostante le proteste – continua ostinatamente a insistere che il presepe «crea divisione». Come se fosse una strategia studiata a tavolino, si diffonde a macchia d’olio la crociata contro i simboli della religione cattolica, non solo in Italia ma anche in Europa. Una sorta di passaparola aiutata dall’ideologismo della sinistra. Prima contro il Crocifisso nelle aule e nei luoghi pubblici, poi contro il Natale, poi ancora contro la capanna con il bue e l’asinello. Tutto fa notizia, tutto fa brodo. Niente pastori, niente Re Magi. Torna puntuale la polemica sui presepi in Francia, che vede opposti i fautori delle radici cristiane della Francia – che vorrebbero vedere la tradizione bene in evidenza negli edifici pubblici _ e i difensori del laicismo di Statp, che si dicono indignati dall’esposizione do quello che giudicano un retaggio religioso. A dar fuoco alle polveri è stata una decisione giudiziaria: chiamato in causa dalla Federazione del libero pensiero, il Tar di Nantes, nell’ovest, ha ordinato al Consiglio regionale della Vandea – la terra più ancorata alle antiche tradizioni cattoliche in Francia – di smontare il presepe che, come ogni anno, aveva esposto nell’ingresso della propria sede. Pur di vietare il presepe, si pesca una legge del 1905. Il Tar si è basato su una legge del 1905, che sancì in Francia la separazione fra chiese e stato. Il consiglio regionale, presieduto da Bruno Retailleau (la destra dell’Ump) ha annunciato ricorso. È un sindaco molto popolare, Robert Menard (Front National di Marine Le Pen), già fondatore di Reporters sans Frontieres, che nella sua Beziers (nel sud) si è opposto alla sentenza decidendo di mantenere il presepe in municipio. Ma le associazioni lo hanno già minacciato di ricorrere anche al Tar locale per far rispettare la “laicità repubblicana”.

Ci sbeffeggiano e non difendiamo i nostri valori. Per colpa di chi? Si chiede Francesco Signoretta su “Il Secolo D’Italia”. L’Italia è stata arrendevole. Volutamente arrendevole. E ora ne paga le conseguenze perché ha paura, se si guarda allo specchio non si riconosce, traballa, arranca. In tanti hanno accerchiato il nostro patrimonio di valori, cercando di spezzettarlo, umiliarlo, in nome di non si sa quale principio di solidarietà o eguaglianza. E la colpa non è dei musulmani che – eccetto gli integralisti – seguono la loro religione. La colpa è di chi, per un fine politico, ha lasciato deridere le nostre tradizioni, mettere all’angolo i cattolici, senza difenderli. Anzi, attaccandoli. I nostri valori calpestati, la sinistra soddisfatta. Nessuno, a sinistra, ha mosso un dito per difendere il Crocifisso nelle aule scolastiche o nei tribunali. “Non è giusto che sia lì” perché potrebbe offendersi qualcuno. Ignoranza. Malafede. Il Crocifisso, anche per i non credenti, è un simbolo, un valore. È il sacrificio per il bene degli altri. E non ha mai fatto male a nessuno. Nessuno, a sinistra, ha mosso un dito (anzi, in troppi hanno sorriso soddisfatti) quando qualche preside ha vietato il presepe nelle scuole. Men che meno quando il presepe è stato umiliato, stravolto, usato politicamente , come nel caso del San Giuseppe rappresentato come un gay o dei pastori omosessuali, o di Gesù nato con l’utero in affitto. L’ora di religione nelle scuole? Quasi del tutto vanificata. Bisogna accettarla, è volontaria. Qualcuno dovrebbe spiegare che studiare non significa cambiare credo. Il cristianesimo è cultura, non indottrinamento. E la cultura non ha paletti. Se una persona è di destra è giusto e normale che legga Marx, fa parte della formazione individuale. Se una persona è di sinistra è giusto che legga Giovanni Gentile, arricchisce la formazione individuale.

Vietato contraddire, si finisce “sotto processo”. È stato criminalizzato chi ha difeso la famiglia tradizionale opponendosi ai matrimoni omosessuali. È stato criminalizzato chi ha detto che i bambini hanno il diritto di crescere con la figura paterna e materna e che quindi non è il caso di aprire alle adozioni gay. Si è giunti a imporre, in alcuni istituti scolastici, la cancellazione di “padre” e “madre” dai moduli. Il tutto con il tacito consenso o con l’approvazione palese della sinistra. E ora siamo nudi, incapaci di esigere rispetto per i nostri valori cristiani.

OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.

Taormina condannato per aver detto “Non assumo gay”, libertà d’opinione a rischio, scrive  Riccardo Ghezzi su “Quelsi” L’avvocato Carlo Taormina è stato condannato a pagare 10.000 euro di danni per una frase pronunciata durante una trasmissione radiofonica. A comminarla è stato il giudice del lavoro di Bergamo, Monica Bertoncini. Una notizia anomala, che crea pure un precedente nebuloso. Intanto non è chiaro per quale motivo sia stato messo in mezzo un giudice del lavoro, visto che non sussiste un caso di mobbing o di licenziamento per ingiusta causa. Proprio per questo non si capisce chi sia davvero la parte lesa. Andiamo con ordine: durante la trasmissione “La Zanzara”, condotta da Giuseppe Cruciani e David Parenzo, l’avvocato Taormina aveva definito i gay insopportabili, fastidiosi e contro natura, sottolineando che non ne avrebbe mai assunto uno per farlo lavorare nel proprio studio. Attenzione però: non ha licenziato un gay solo a causa della sua omosessualità. Ha semplicemente formulato un’ipotesi, esprimendo un’opinione. Taormina quindi è stato condannato per un reato d’opinione, tipico dei paesi autoritari. Ma neppure per diffamazione, ma da un giudice del lavoro. Dovrà pagare 10.000 euro. A chi? Al gay che ha licenziato? No, perché non esiste. La parte lesa è “Avvocatura per i diritti Lgbt – Rete Lenford”, una delle tante associazioni gay-friendly che strizzano l’occhio alla sinistra, ma che forse proprio per questo si dimenticano di quelle libertà individuali che dovrebbero far parte del loro patrimonio e dei loro ideali. Associazioni che chiedono e rivendicano spesso giusti diritti, ma pretendono di farlo cancellando la libertà di opinione e mettendo bavagli. Appurato che iniziative giudiziarie di questo tipo sono utili anche a fare arricchire tali associazioni, grazie a giudici compiacenti che gli danno ragione e condannano i malcapitati querelati, proviamo ad analizzare quali sarà il reale impatto della sentenza del giudice del lavoro:

1) Taormina continuerà a non voler assumere gay, essendo questo il suo orientamento. E probabilmente non ne assumerà mai qualcuno. Semplicemente, d’ora in poi eviterà di dirlo in pubblico. Non a caso si chiamano “reati di opinione”.

2) L’omofobia vera o presunta continuerà a esistere. I gay potrebbero continuare a essere discriminati all’interno del mondo del lavoro, ma se non sono appoggiati dall’associazionismo di sinistra non ne caveranno un ragno dal buco. Mentre i gay vengono discriminati, ardite associazioni lgbt chiedono risarcimenti danni a personaggi pubblici che parlano in radio ma non è dimostrato che facciano veramente ciò che dicono. A meno che la Rete Lenford e il giudice del lavoro di Bergamo non abbiano le prove che Taormina abbia discriminato omosessuali sul posto del lavoro. 3) Si può ipotizzare che un gay che dichiari di non voler assumere eterosessuali non verrebbe mai querelato né condannato, perché certe discriminazioni vere o presunte non smuovono il magico mondo dell’associazionismo
4) Un datore di lavoro che non assume gay o li discrimina sul posto di lavoro, ma evita di dirlo in radio, continuerà a passare inosservato e ad apparire come una persona di larghe vedute.

Ci sono poi risvolti “tecnici”. Ad ipotizzarli è il sito Horsemoon Post, secondo cui Taormina potrà chiedere il risarcimento per dolo o colpa grave. Il giudice del lavoro di Bergamo non solo non ha tenuto conto dell’articolo 21 della Costituzione italiana, ma ha del tutto frainteso il concetto di discriminazione. A questo punto poco importa se Taormina abbia agito con scienza e coscienza per tendere un trappolone alla magistratura usando i gay come “cavallo di Troia”, come ipotizzato dall’Horsemoon Post, oppure se abbia espresso una sua reale opinione, discutibile e antipatica finché si vuole, e solo ora s’è accorto di poter diventare il paladino della libertà di opinione. Quello che conta è che questa sentenza potrebbe fare storia, con implicazioni pesanti anche su quella che è la responsabilità civile dei magistrati.

«Non assumo gay», Taormina condannato per discriminazione. La difesa del noto avvocato: «Esiste la libertà d’espressione, sancita dalla Costituzione», scrive “Il Corriere della Sera”. Condanna per discriminazione anche in appello per l’avvocato Carlo Taormina. La Corte d’appello di Brescia ha infatti confermato la condanna che nell’agosto scorso il tribunale di Bergamo aveva inflitto all’ex parlamentare: risarcimento di 10mila euro ad un’associazione che tutela i diritti delle persone omosessuali e pubblicazione sul Corriere della Sera della sentenza. Nell’ottobre del 2013, durante la trasmissione «La Zanzara» di Radio 24, alla domanda del conduttore Giuseppe Cruciani se avrebbe mai assunto un omosessuale nel suo studio, l’avvocato Taormina aveva risposto «sicuramente no», precisando anche che «nel mio studio faccio una cernita adeguata in modo che questo non accada». Anche nel caso si fosse presentato nel suo studio un laureato a Yale, per Taormina non avrebbe potuto lavorare nel suo studio: «Perché lo devo prendere, faccia l’avvocato se è così bravo e così, diciamo, così capace di fare l’avvocato si apra un bello studio per conto suo e si fa la professione dove meglio crede», ha detto durante la trasmissione. L’associazione «Avvocatura per i diritti Lgbti», rappresentata dagli avvocati Caterina Caput e Alberto Guariso, aveva denunciato per discriminazione Taormina e in primo grado aveva vinto. Ora la conferma della condanna in appello. Secondo i giudici bresciani l’avvocato Taormina «ha manifestato, pubblicamente, una politica di assunzione discriminatoria» e «si tratta quindi di espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso al lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso». Il fatto poi che Taormina sia famoso e’ un’aggravante: «Questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni, e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività». Taormina nel ricorso in appello ha sostenuto che durante la trasmissione aveva solo espresso un’opinione e che la libertà di espressione è sancito dalla Costituzione. Per i giudici di Brescia, «è pure vero che l’articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale. E’ quindi evidente che la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati». «Particolarmente contenta del risultato raggiunto». Così Maria Grazia Sangalli, Presidente dell’associazione avvocatura per i diritti lgbti, associazione difesa dagli avvocati Caterina Caput e Alberto Guariso. L’avvocato Caput ricorda come i giudici abbiano affermato che l’articolo 21 «non può spingersi a violare altri principi costituzionali che ha individuato nell’articolo 2 (tutela del singolo cittadino nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, ovvero il luogo di lavoro), 3 (principio di uguaglianza), 4 (diritto al lavoro) e 35 (tutela del lavoro). La Corte ha interpretato le norme anti-discriminatorie alla luce della stessa normativa europea e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, mentre in Italia, caso unico in Europa, si fatica ancora ad approvare una legge che sanzioni penalmente i reati d’odio verso le persone omosessuali e transessuali e a dare riconoscimento giuridico alle coppie formate da persone dello stesso sesso».

Omofobia, l'avvocato Taormina condannato anche in appello: "Niente gay nel mio studio". La Corte d'appello di Brescia ha confermato la sentenza del giudice del lavoro di Bergamo. Il legale dell'Avvocatura per i diritti Lgbt: "Finora in Italia non avevamo registrato decisioni analoghe", scrive Ilaria Carra su “La Repubblica”. L'avvocato Carlo Taormina «Niente omosessuali nel mio studio», aveva detto l’avvocato Carlo Taormina. E anche in secondo grado i giudici lo condannano per discriminazione. La Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza con la quale, nell’agosto scorso, il giudice del lavoro di Bergamo aveva imposto all’ex parlamentare di Forza Italia un risarcimento di 10mila euro a un’associazione che tutela i diritti delle persone omosessuali. «Se la tenga lei l’omosessualità... io non ne ho alcune né in simpatia né in antipatia, non me ne frega niente, l'importante è che non mi stiano intorno (...). Mi danno fastidio. (...) Parlano diversamente, si vestono diversamente, si muovono diversamente, è una cosa assolutamente... eh... assolutamente insopportabile, guardi. È contro natura»: sono alcuni stralci delle affermazioni che Taormina aveva rilasciato il 16 ottobre 2013 rispondendo alle domande di Giuseppe Cruciani e David Parenzo, conduttori della trasmissione radiofonica La Zanzara in onda su Radio24. Frasi nelle quali, secondo i giudici bresciani, manifestano «pubblicamente una politica di assunzione discriminatoria», «espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso al lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso». Aggrava il fatto che Taormina sia noto al pubblico: «Questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività». Esulta l’avvocato Alberto Guariso (Avvocatura per i diritti Lgbt): «È un bel risultato, una sentenza importante perché sancisce la tutela generalizzata delle persone che possono subire uno svantaggio anche da semplici dichiarazioni. Annunci pubblici che secondo il giudice hanno un effetto di limitare un’opportunità di lavoro, oltre che di una umiliazione personale. Sono due gradi di giudizio conformi: sentenze analoghe in Italia finora non ce n’erano». Come riporta il partale Redattore sociale, Taormina nel ricorso in appello ha sostenuto che durante la trasmissione aveva solo espresso un'opinione e che la libertà di espressione è sancita dalla Costituzione. Per i giudici di Brescia, invece, "è pure vero che l'articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale".

La reazione dei lettori de Il Giornale alla condanna di Taormina, scrive “Gay Burg”. Un tribunale ha condannato Carlo Taorima per discriminazione nei confronti dei gay, ma i lettori de Il Giornale pare non l'abbiano presa molto bene. Ed è così che ch'è chi accusa la giustizia di voler imporre che i gay debbano piacer per forza, chi invoca la responsabilità civile dei giudici per chiedere la condanna chi ha emesso la sentenza o chi sostiene che non si sia nulla di discriminatorio nel dire che «non si assumerebbero fr*ci». Qualcuno aggiunge: «Ancora non esiste la legge contro la cosiddetta omofobia e già c'è chi la applica?», lasciando evidentemente intendere che quegli insulti dovrebbero rientrare nella tanto sventolata «libertà d'opinione». Non manca poi chi sottolinea che lo studio dell'avvocato sia privato e rivendica come «in casa sua uno possa decidere chi fare entrare». «Questi magistrati non hanno altro da fare? -scrive un altro- Mi pare che ci siano cose ben più gravi da perseguire». Già... perché perdere tempo con una causa in difesa dei gay quando la si potrebbe lasciar andare in prescrizione per occuparsi delle più meritevoli cause lanciate dai Giuristi per la Vita contro chiunque osi parlare di omosessualità? A coronare il quadro non poteva mancare chi si dice pronto a sostenere che i gay si auto-discrimino per il solo fatto di esistere: «Fino a prova contraria -dice- chi ha fatto della "discriminazione" il suo verbo sono i gay. Sono loro che si discriminano esattamente come afferma Taormina col loro modo i esprimersi, col loro vestire, con le loro pagliacciate che vanno sotto il nome di gaypride e l'elenco potrebbe continuare. L'orientamento sessuale dovrebbe essere una cosa prettamente personale e intima, lo sbandierare la propria omosessualità facendone un vanto è un insulto al buon gusto prima ancora che all'intelligenza. Ma evidentemente è di moda e sopratutto "rende", infatti ogni gay deve essere considerato come un discendente diretto di Pico della Mirandola se non si vuole essere subito tacciati di omofobia. Ormai i gay hanno ragione a prescindere e se sul lavoro sono nulli vietato dirlo e rimarcarlo». Non è bello far notare le cose, ma quest'ultimo personaggio dovrebbe forse notare come con il suo messaggio stia sbandierando la sua eterosessualità che, stando al suo ragionamento, dovrebbe essere una cosa prettamente personale e intima...Ma più di tutto è sempre interessante notare come a scrivere queste frasi inaccettabili siano le stesse persone che si dico convinte che la legge contro l'omofobia sia superflua dato che in Italia non c'è né omofobia, né discriminazione.

Difesa liberale di Taormina dal gay-correct, scrive di Corrado Ocone su “L’Intraprendente”. C’è da restare allibiti. Non ho altre parole per commentare la sentenza di condanna dell’avvocato Carlo Taormina a 10.000 euro di multa per aver affermato, nell’irriverente trasmissione radiofonica La zanzara, che nel suo studio non avrebbe mai assunto gay perché la loro è una tendenza sessuale “contro natura”. Sia beninteso, sono anche allibito del fatto che qualcuno pensi seriamente queste cose oggi, nell’anno di grazia 2014. Ma a parte il fatto che la vita è bella perché è varia, dovrebbe essere chiaro che la libertà di opinione è un valore non negoziabile, è la libertà senz’altro. Ognuno ha il diritto di pensare quello che vuole e come vuole. E, se non si è d’accordo con le idee di qualcuno, le si può sempre criticare. O, al limite, evitare di andare a cena con lui. È l’abc del liberalismo e dell’Occidente, direi. Tutto il resto è chiacchiera che lascerei alle Boldrini di turno. Ma già sento l’obiezione dei moralisti e quella dei legulei appellantesi ad una legge realmente esistente e voluta da alcuni sciagurati rappresentante di un Parlamento già da tempo delegittimato. Costoro si appelleranno alla legge contro la “discriminazione” e affermeranno che una cosa è avere un’opinione e altra cosa metterla in atto favorendo nel mercato del lavoro un determinato tipo di persone. Quasi come se il mercato del lavoro, così come ogni altro mercato, non fosse un luogo di libera contrattazione ove tutti volta a volta produciamo, acquistiamo o vendiamo prodotti o servizi in base ai nostri gusti e preferenze. Che se sono contrarie alle idee dell’avvocato Taormina possono sempre censurarle nell’unico modo possibile in un regime di libertà: non acquistando da lui i suoi servizi legali, anche se (è da dimostrare) fossero efficaci. Il fatto è che qui, in questo caso da manuale, si saldano in una miscela esplosiva tutti i vizi italici: l’odio per il privato (ognuno dovrebbe essere libero di fare quel che vuole a casa sua, in questo caso nel suo studio di avvocato); una concezione sostanzialistica della giustizia, a cui non viene semplicemente affidato il compito di far rispettare poche leggi formali e universali ma addirittura quello di cambiare il mondo e di punire per educare; una legislazione demagogica e velleitaria, volta a soddisfare ipocritamente il moralismo di un’opinione pubblica spesso immatura; il protagonismo di certi magistrati. È con l’acquiescenza stupida di un’opinione pubblica che, quando non è immatura, è sicuramente dormiente, che, poco alla volta, ci costruiamo le catene che limiteranno sempre più in futuro la nostra libertà. Sarebbe necessario fermarsi, ora che siamo ancora in tempo..

Libertà di pensiero. Anche per Carlo Taormina. Fatali le frasi contro i gay pronunciate a Radio24, scrive Alessandro Mlòn su “Il Tempo”. E' partita la caccia al Taormina. Brutto, sporco e cattivo. E pure razzista, becero e discriminante. Sarà. Forse sì. O magari no. Sta di fatto che la condanna da 10.000 euro inflitta all'Avvocato Professore, già Principe di Filettino, è ridicola e grave al tempo stesso. Ridicola, perchè Taormina ha espresso un'opinione prettamente personale, senza passare ai fatti. Grave, perchè crea un pericoloso precedente in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi e di natura sessuale. O presunti tali. Le affermazioni del Proff - pronunciate a La Zanzara il 26 ottobre 2013 (Niente omosessuali nel mio studio) - seppure condite dall'oramai consueta ed inconfondibile coloratissima irriverenza del Taormina 2.0 - non possono e non debbono in alcun modo rappresentare prova inconfutabile di reato per chicchessia cittadino del Belpaese. Incluso il Principato di Filettino. Perchè basterebbe semplicemente addurre che l'avvocato non è in alcun modo passato ai fatti per contraddire e confutare l'assoluta ipocrisia di una condanna che ha tutte le sembianze di esser stata più punitiva che legislativa. Come aver voluto dare una bella e sana lezione morale ed educativa al malvagio e disumano professor Carlo. Mentre una norma si applica a rigor di legge, in punta di codice, e attraverso il tanto acclamato e propagandato Stato di diritto. Non certamente perchè un individuo, tanto discutibile e spietato per quanto l'opinione pubblica possa dipingerlo, risulti simpatico od antipatico, buono o cattivo, liberale o conservatore, pro o contro i gay. Questo è il punto, cara giudice del lavoro di Bergamo Monica Bertoncini, che ne ha ordinato l'irrisoria e simbolica ammenda (roba che se voleva dar l'esempio almeno 100.000 dovevano essere, gli euri) e pure lei, cara Associazione per i diritti Lgbt-Rete Lenford, cui vanno i diecimila danari, oggi così trionfalista e su di giri per questa illusoria quanto controproducente vittoria anti-omofobia. Il punto è che anche il cittadino privato Carlo Taormina ha l'assoluta facoltà di esprimere la sua. Potendo in tutta libertà pronunciarsi su qualsivoglia argomento, dal calcio alla politica, dall'economia alle case chiuse, dalle lesbiche ai transessuali. E' ha tutto il fottutissimo diritto di aborrare i matrimoni gay, di schifare con tutta l'anima il Gay Pride, di ritenere gli omosessuali malati e contro natura, e pure di dichiarare al mondo intero di non voler assumere lavoratori omosex. Con buona pace del più esimio ed autorevole Ordine professionale, e anche delle infinite sigle d'associazionismo gay. Perchè Carlo Taormina è un privato cittadino, e non deve dare ne' fornire alcun esempio morale od educativo, se non nel rispetto della propria deontologia professionale. Perchè Carlo Taormina ha lo stesso potere di parola ed espressione che ha ogni altro libero cittadino italiano. Incluso quello di dire e manifestare la propria ripugnanza ed abominio, o quello che ai più viene considerato una sparata, una boiata pazzesca, una mostruosità. E, ancora, perchè Carlo Taormina ha detto semplicemente ciò che pensava, e che pensa. Senza sbatter la porta in faccia ad alcun gay. Senza pestare due uomini che si baciavano. Senza bloccare o fermare alcun carneval pride. E questo, Signori della Corte, si chiama libera manifestazione del proprio pensiero. E non può essere considerato reato. Perchè non rappresenta reato. Questa  condanna, da ascrivere in toto alla più classica ed insopportabile ipocrisia made in Italy, rischia seriamente (eufemismo) di sortire l'effetto opposto ai sensi della lotta all'omofobia che le associazioni gay si prefiggono. Primo, perchè viene fatta pubblicità gratuita alle frasi di Taormina, che ora può avvalersi di tutto lo spazio possibile per rilanciare, passando da carnefice a vittima predestinata del sistema. Secondo, perchè comunque l'avvocato potrà sempre 'respingere' le candidature gay che si presentano nel proprio studio, adducendo le più svariate e plausibilissime giustificazioni, senza che nessuno, tanto meno Grillini & co., possa venirne a conoscenza, e senza che ciò costituisca in alcun modo discriminazione alcuna. Terzo, perchè alle parole si risponde con le parole, mai con le sentenze. Ultimo, ma non per importanza, perchè tutto questo ennesimo non richiesto polverone sulle presunte questioni omofobe, non fa altro che discriminarli, i gay. Perchè la legge li considera 'hors categorie'. Perchè così appiano come una lobby, o ancora peggio come una casta. E perchè gli si toglie la loro legittima e sudatissima conquistata normalità. Etichettandoli dentro un ghetto giuridico e morale che anche loro - siamo pronti a scommetterci - rifiutano e combattono quanto noi. 

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

Il testo di “Bella Ciao”.

Una mattina mi son svegliato,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

Una mattina mi son svegliato

e ho trovato l'invasor.

O partigiano, portami via,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

O partigiano, portami via,

ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E se io muoio da partigiano,

tu mi devi seppellir.

E seppellire lassù in montagna,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E seppellire lassù in montagna

sotto l'ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E le genti che passeranno

Mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano»,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

«È questo il fiore del partigiano

morto per la libertà!»

I testi di Faccetta nera e Giovinezza che mai faranno cantare a scuola.

FACCETTA NERA

Se tu dall'altopiano guardi il mare,

moretta che sei schiava tra gli schiavi,

vedrai come in un sogno tante navi

e un tricolore sventolar per te.

Faccetta nera, bell'abissina

aspetta e spera che già l'ora s'avvicina

quando saremo vicino a te

noi ti daremo un'altra legge e un altro Re.

La legge nostra è schiavitù d'amore

il nostro motto è libertà e dovere

vendicheremo noi camice nere

gli eroi caduti liberando te.

Faccetta nera, bell'abissina...

Faccetta nera, piccola abissina,

ti porteremo a Roma liberata

dal sole nostro tu sarai baciata

sarai in camicia nera pure tu.

Faccetta nera sarai romana,

la tua bandiera sarà sol quella italiana,

noi marceremo insieme a te

e sfileremo avanti al Duce, avanti al Re.

GIOVINEZZA testo del 1922

Su, compagni in forti schiere,

marciam verso l'avvenire

Siam falangi audaci e fiere,

pronte a osare, pronte a ardire.

Trionfi alfine l'ideale

per cui tanto combattemmo:

Fratellanza nazionale

d'italiana civiltà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Non più ignava nè avvilita

resti ancor la nostra gente,

si ridesti a nuova vita

di splendore più possente

Su, leviamo alta la faccia

che c'illumini il cammino,

nel lavoro e nella pace

sia la vera libertà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Nelle veglie di trincea

cupo vento di mitraglia

ci ravvolse alla bandiera

che agitammo alla battaglia.

Vittoriosa al nuovo sole

stretti a lei dobbiam lottare,

è l'Italia che lo vuole,

per l'Italia vincerem.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Sorgi alfin lavoratore

giunto è il dì della riscossa

ti frodarono il sudore

con l'appello alla sommossa

Giù le bende ai traditori

che ti strinsero a catena;

Alla gogna gl'impostori

delle asiatiche virtù.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà 

GIOVINEZZA testo successivo

Salve o popolo di eroi,

salve o Patria immortale,

son rinati i figli tuoi

con la fe' nell'ideale.

Il valor dei tuoi guerrieri

la virtù dei pionieri

la vision dell'Alighieri

oggi brilla in tutti i cuor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

del Fascismo è la salvezza per la nostra libertà.

Dell'Italia nei confini

son rifatti gli Italiani,

li ha rifatti Mussolini

per la guerra di domani

Per la gloria del lavoro

per la pace e per l'alloro

per la gogna di coloro

che la Patria rinnegar.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

I poeti e gli artigiani

i signori e i contadini,

con orgoglio di Italiani

giuran fede a Mussolini.

Non v'è povero quartiere

che non mandi le sue schiere,

che non spieghi le bandiere

del fascismo redentor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Bella Ciao. A 4 anni. Stamattina sono andato alla festa di fine anno dell’asilo di mio figlio qui a Milano, scrive Nicola Porro. Ha quattro anni e come i suoi coetanei ha indossato una maglietta colorata. Mi siedo e ascolto i cori che fanno le diverse classi: canzonette regionali rappresentative dell’unità d’Italia. Il tema generale erano i 150 anni dell’Italia e i bambini erano vestiti con magliette che formavano il tricolore. La recita va avanti con un repertorio di classici: Va pensiero, il Piave. E finalmente, si fa per dire, arriva Bella ciao. Si finisce poco dopo con l’inno d’Italia. Vi devo dire che non è mi è piaciuta. Che razza di scuola insegna ad un bambino di 4 anni, Bella Ciao?

Polemiche alle elementari di Porta Nuova sulla decisione di far cantare agli alunni un ritornello ispirato all' inno partigiano. Bella ciao a scuola. «E noi disertiamo la festa». Alcuni genitori minacciano di boicottare la recita di fine anno. Il preside: non è un canto sovversivo, scrive Sacchi Annachiara su “Il Corriere della Sera”. Canteranno in coro « Scuola ciao » . Per salutare i bambini di quinta elementare e dare l' arrivederci a compagni e insegnanti. Si metteranno in ordine per classe, come hanno imparato durante le prove. Il ritornello farà così: « Scuola ciao, scuola ciao, scuola c i a o c i a o ciao » , sulle note della canzone partigiana Bella ciao . E, a quel punto, un gruppetto di genitori minaccerà di andarsene. Portandosi via anche i figli. Festa di fine anno con polemica, quella di oggi alle elementari dei Bastioni di Porta Nuova. L' inno della Resistenza, scelto come « base » per il commiato dei bambini, ha incontrato prima qualche perplessità tra alcuni docenti e genitori per scatenare, poi, una vera e propria ostilità. « Le maestre sono state povere di idee: potevano scegliere qualsiasi altro motivo » . A parlare è la mamma d i uno dei 260 bambini iscritti. « Sono di origini friulane, per me quella canzone ha un significato forte. Certo, qui a Milano non ci sono ricordi drammatici come i nostri, ma è stato comun que un errore clamoroso, una grave leggerezza. E la cosa peggiore è che questa vicenda sarà strumentalizzata politicamente » . Polemiche o no, i bambini canteranno comunque. La festa seguirà fedelmente il programma: giochi all' aperto, mostra di manufatti e il grande coro finale. Lo ha deciso il preside dell' istituto, Alberto De Donno: « Bella ciao non è un canto sovversivo o anticostituzionale, fa parte della tradizione popolare. Certo, forse si poteva scegliere Ciao Mare , ma in ogni caso il nostro è un messaggio di auguri. Lo ripeto: non c' è nessuna volontà di dividere o di colorare politicamente la festa dei bambini. Il brano è stato scelto perché è molto orecchiabile » . Parole ribadite in una lettera scritta dal preside a insegnanti e famiglie: « È un canto innocente » . E per una nuova polemica ne riaffiora un' altra passata, quella sul presepe. « Sotto Natale, all' ultimo minuto - è la replica di alcune mamme - ci è stato spiegato che il presepe poteva offendere i bambini di religione non cristiana . Risultato: non si è fatto. Ma se siamo noi quelli offesi, allora non succede niente » . Sospira i l preside: « L' anno prossimo cercheremo di rendere più unita la scuola: questi, evidentemente, sono segnali di sofferenza. Sono dispiaciuto perché la festa voleva unire, non dividere. Speriamo solo che i genitori non ritirino i bambini al momento del canto » .

Il caso segnalato da “La Gazzetta di Modena”. “A scuola no ai canti di natale ma via libera a Bella Ciao?”. Barcaiuolo (Fratelli d’Italia) incredulo: «"Bella Ciao" insegnata ai bambini delle elementari dove invece è vietato insegnare canti natalizi o pasquali di matrice religiosa. Siamo in Italia o in Corea del Nord?». È quanto si chiede incredulo Michele Barcaiuolo capogruppo Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale che intende così denunciare pubblicamente qualcosa che non condivide. «In questi giorni sono stato contattato da molti genitori che scandalizzati, mi hanno segnalato l'atteggiamento che ormai in molte scuole modenesi gli insegnanti hanno assunto nei confronti delle svariate festività civili o religiose. - spiega - E' ormai noto a molti che sono moltissime le scuole modenesi , che per non urtare "altre sensibilità" scelgono, in occasione di festività come il S. Natale e la S. Pasqua di non insegnare ai bambini nessun canto, nessuna poesia che abbia qualsiasi riferimento alla matrice religiosa delle festività. Trovo questo atteggiamento e queste scelte incomprensibili, sopratutto in Italia dove perfino un ultrà laico come Benedetto Croce sosteneva "non possiamo non dirci cristiani per l'enorme influenza che la cultura, l'arte e l'architettura cristiana hanno in una Nazione come l'Italia". Ma se possibile , in questi giorni si sta facendo di peggio : in diverse scuole elementari di Modena ci sono insegnati che stanno insegnando ai bambini a cantare "Bella Ciao" come canzone prodromica a giustificare tutto ciò che e' stato fatto dai partigiani. Non sono certo bambini di 7, 8 o 9 anni a dover approfondire le pagine buie e le ombre della resistenza (cit. Giorgio Napolitano) ;ma certo indottrinare dei bambini con la vulgata storica voluta da chi in questa città da 70 anni continua a fare il bello e il cattivo tempo non e' il modo migliore per consegnare il domani alle nuove generazioni, sembra invece che a Modena ci siano aspetti educativi che più che a guardare alla formazione dei bambini guardino alla Corea del Nord». Voi che ne pensate?

Bella Ciao. Controstoria della Resistenza”. Autore Giampaolo Pansa. Il 25 aprile chi va in piazza a cantare "Bella ciao" è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell'Italia. È un'immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell'Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. "Bella ciao" ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall'agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile. La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati.

Dalla piazza greca di Tsipras alla Francia di Charlie Ebdo, dalle manifestazioni antigovernative in Turchia a quelle contro Yanukovich in Ucrainia, fino ai cortei di Occupy Hong Kong. Bella Ciao viene cantata in tutto il mondo. Ma come è nata? Quando? Perché è diventata globale?

Tutto il mondo (Italia esclusa) canta in piazza Bella ciao. La storia Da Atene a Parigi, da Istanbul a Hong Kong, la canzone della Resistenza diventa inno di libertà. Mentre nel nostro Paese è ritenuta a torto solo un manifesto comunista, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica” A Parigi l'emozione di Bella Ciao è la resistenza della libertà d'espressione alla barbarie dei kalashnikov, ad Atene accompagna l'utopia populista di Tsipras, a Hong Kong scandisce l'opposizione alla Cina comunista, a Istanbul canta la rivolta contro l'Islam autoritario di Erdogan. Solo in Italia Bella Ciao è all'indice, confusa con Bandiera rossa e L'Internazionale , e mai cantata, come si dovrebbe, con l'alzabandiera del 25 aprile, ma trattata come un inno comunista, degradata da canto laico della liberazione e della concordia repubblicana a ballata dei trinariciuti, a manifesto del Soviet italiano. E invece, nel mondo, la canzone della Resistenza ha fatto la sua resistenza, e ha vinto, anche contro se stessa. È infatti evasa dalla gabbia del braccio armato e del pugno chiuso con la forza della melodia tradizionale, con quelle due parole "ciao" e "bella" che sono le password della nostra identità, con i timbri e i toni che sono il meglio della leggerezza di Sanremo, con la dolce malinconia del bel fiore sulla tomba, e ovviamente con il partigiano morto per la libertà e non per "la rossa primavera" della falce e martello e neppure per il sol dell'avvenire della filosofia classica tedesca. Insomma Bella ciao ce l'ha fatta a riaccendere le emozioni originarie che la resero colonna sonora della guerra partigiana al nazifascismo, quando fu preferita a Fischia il vento , proprio perché, "era più ecumenica ". E la sua storia e la sua memoria "la accreditano come la canzone che unifica le speranze e le attese della democrazia" ha scritto Stefano Pivato in Bella ciao. Canto e politica nella storia d'Italia ( Laterza, 2005). Fu insomma la canzone delle forze politiche costituenti, tutte laburiste antifasciste e repubblicane, anche se in modi diversi e tra loro conflittuali, ma tutte Bella ciao: un fiore di montagna come educazione civica. E per capire che è tornata ad essere un inno internazionale di libertà basta rivedere su Repubblica. it tutte quelle labbra che a Parigi scandiscono "Una mattina / mi son svegliato / e ho trovato l'invasor". Nessun professore comunista li dirige, nessun libro marxista li ispira quando fondono Bella ciao e La Marsigliese dondolando e mixando "sotto l'ombra di un bel fior" con gli evviva alla memoria degli artisti di Charlie Hebdo, e senza mai andare né fuori tempo né fuori moda. Ed è emozionante la compostezza del coro un po' stonato di Istanbul con tutti quei turchi che battono il tempo con le mani: "E se io muoio / da partigiano / tu mi devi seppellir " diventa resistenza al martirio di Kobane, agli arresti dei giornalisti, all'oscurantismo religioso. È un contagio che arriva sino ad Atene, si diffonde senza radio e senza Ipod, ricorda l'epoca euforica degli anni Sessanta: Bella ciao come i Beatles, il vecchio canto della libertà italiana come la musica dei progetti, delle illusioni e degli azzardi, il nostro fiore di montagna contro il terrorismo in Europa, contro la mortificazione delle donne in Turchia. E sorprende e diverte a Hong Kong la voce di un italiano contro la violenza di quel terribile mondo arcaico che è la Cina. Certo, la storia di Bella ciao era già una specie di leggenda. Agli inizi del Novecento fu il canto delle mondine nelle umide risaie attossicate: "Oh mamma che tormento / io mi sento di morir". E ci sarebbe persino una versione Yiddish incisa a New York nel 1919. Mille ricerche sono state fatte sul giro del mondo di questa canzone che è stata folk, ebrea, swing e tradotta anche in giapponese Ma, come accade talvolta in filologia, le ricerche riportano sempre al punto di partenza: Reggio Emilia, 1940. Nella geografia della memoria Bella ciao è infatti il luogo della Resistenza condivisa, il ritmo della lotta antifascista che fu comunista, cattolica e azionista, come la Costituzione. Ed è, Bella ciao, come "la ballatetta" di Guido Cavalcanti, che "va leggera e piana" e "porterà novelle di sospiri ... quando uscirà dal core ". Il dolce stil novo sapeva già, prima del pop, che la canzonetta è una febbre musicale, e come l'acqua fresca sembra niente ma è tutto, e se c'è nebbia fa vedere il sole, e dà coraggio a chi ha paura. E, infatti, fischiettata o cantata in coro, Bella ciao ha sconfitto quell'altra Bella Ciao , spacciata per eversione e per rivoluzione. Insomma il fiore del partigiano fu, a torto, classificato, non come uno dei pochi canti della democrazia , ma come politica cantata, accanto agli inni del movimento operaio, "Su fratelli su compagni / su venite in fitta schiera", e alle canzoni dolenti degli anarchici, "Addio Lugano bella / o dolce terra mia", e all'orrendo inno che la Dc fece suo: "O bianco fiore / simbolo d'amore / con te la pace / che sospira il core". I comunisti risposero: "Il 25 aprile / è nata una puttana / e le hanno messo nome / Democrazia cristiana ". Ecco, Bella ciao è un'altra storia, e sembrava che lo avessero capito tutti. La cantarono infatti Claudio Villa e Yves Montand, Gigliola Cinquetti, Francesco De Gregori e Giorgio Gaber, canzone impegnata e canzone scanzonata. Finché i leghisti al governo di alcune città del Nord (Treviso, Pordenone ...) proibirono di suonarla il 25 aprile. E Berlusconi, più potente, tentò di abolire la festa della liberazione dal nazifascismo sostituendola con la festa della liberazione da tutte le dittature. E gli pareva che "Forza Italia/ perché siamo tantissimi " fosse più nazionalpopolare di "È questo il fiore / del partigiano / morto per la libertà". Le ha proprio viste tutte, la nostra Bella ciao . È stata persino stonata in tv da Michele Santoro dopo l'editto bulgaro che lo cacciava dalla Rai con Biagi e Luttazzi. In quell'Italia pazza la solita serva Rai arrivò persino al tentativo di festeggiare i 150 anni dell'Unità suonando a Sanremo sia Bella ciao sia Giovinezza, e di nuovo la canzone della Repubblica fu spacciata per inno comunista attraverso il gioco della somiglianza- contrapposizione con l'apologia del fascismo, suonata per par condicio... Ebbene Bella ciao ha superato anche quell'oltraggio. E adesso che ha conquistato il mondo, forse riconquisterà anche l'Italia.

Il fenomeno. "Bella ciao", da canto partigiano a inno globalizzato. Dalla campagna elettorale di Tsipras alla solidarietà a Charlie Hebdo, la canzone folk più nota della Resistenza varca i confini e si fa sempre più attuale, scrive “la Gazzetta di Reggio”. "Bella ciao" eterna, anzi sempre più attuale. La canzone folklorica cantata dai simpatizzanti del movimento partigiano italiano durante e dopo la seconda guerra mondiale, che combattevano contro le truppe fasciste e naziste, si è trasformata negli ultimi anni in un inno alla libertà, risuonato un po' ovunque: dalle piazze in rivolta ai funerali, dalle manifestazioni di piazza agli studi televisivi. Solo in Italia, scrive Repubblica in articolo di Francesco Merlo, il canto è ancora oggi etichettato come un "manifesto comunista". La circolazione di Bella ciao, durante la Resistenza è documentata e sembra circoscritta soprattutto in Emilia. Dopo la Liberazione la versione partigiana di Bella Ciao venne poi cantata e tradotta e diffusa in tutto il mondo grazie alle numerose delegazioni partecipanti al Primo festival mondiale della gioventù democratica che si tenne a Praga nell’estate 1947, dove andarono giovani partigiani emiliani che parteciparono alla rassegna canora “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”, dove inventarono il tipico ritmico battimano.

Giovanna Marini ricorda che tutto nacque a Reggio Emilia, dalla mondina Giovanna Daffini. Nelle scorse ore, "Bella ciao" ha chiuso ad Atene la campagna elettorale per le elezioni politiche di Alexis Tsipras, nella versione dei Modena City Ramblers. «Siamo sempre molto colpiti dall'entusiasmo che suscita Bella Ciao anche fuori dall'Italia. È la canzone che porta con sé valori molto forti e sinceri». E se Tsipras dovesse vincere, la folk band modenese annuncia che «canteremo Bella Ciao in greco». La famosissima versione dei MCR era stata suonata anche all'ultima edizione di Festareggio al Campovolo. Come inno alla libertà, "bella ciao" è stata rispolverata anche all'indomani degli attentati terroristici di Parigi, ecco christophe Aleveque che la canta in una trasmissione tivu di solidarietà a Charlie Hebdo e alle sue vittime. A Istanbul, "Bella ciao" è risuonata in piazza nell'ottobre 2013, adottata da Occupy Gezi: cantata in turco, ma con il ritornello in italiano. E sempre nella capitale turca, ecco la band rivoluzionario-socialista Yorum che la suona dal vivo con decine di artisti sul palco. Persino a Hong Kong, il canto è stato rispolverato dalla Rivoluzione degli ombrelli, cantato dal prete italiano Franco Mella.

Bella Ciao? Oggi la potrebbe cantare anche Marine Le Pen, scrive Stefano Baldolini su L'Huffington Post. Cantata in piazza Omonia dai sostenitori del divo Tsipras, a Parigi dai cittadini colpiti a morte dalla strage di Charlie, "Bella Ciao" è tornata. O meglio (fortunatamente?) non se n'è mai andata. Protagonista anche in passato, in luoghi e situazioni improbabili e molto lontane tra loro, ma oggi la coincidenza è evidente. È un destino dei classici esser rivisitati e non perdere colpi, assumere connotati e senso diverso in funzione del contesto e del tempo. È stato così anche per il nostro inno di Mameli, tabù della sinistra negli anni in cui i nazionalismi erano tutti di destra e oggi intonato nei comizi e nelle direzioni del Pd. Vittima del frullatore post ideologico, "Bella Ciao" può essere cantata e strattonata da tutti, è talmente intensa e diretta da non finire sgualcita. Ma cosa reclama "Bella Ciao" oggi? Certo, non può prescindere da un afflato di libertà che è sempre preceduta da forme vitali di resistenza e protesta ("È questo il fiore del partigiano Morto per la libertà"). Solo, che oggi, da piazza Taksim a Occupy Wall Street, da Charlie a piazza Omonia, l'inno partigiano è rivendicazione - in primis - di sovranità. Di rivendicazione della propria sovranità di cittadini e popoli contro scelte imposte da altri, potenti con nome e cognome o istituzioni senza volto. Erdogan o i lupi di Wall Street, i terroristi integralisti che vogliono occupare lo spazio libero delle idee, la Bce. Chiunque attenti all'occupazione - percepita come abusiva - dello spazio individuale e collettivo, mentale o fisico, è considerato invasore. Da cacciare, da respingere. Ecco perché non dovrebbe sorprenderci se un giorno, vicino o lontano, un'esponente come Marine Le Pen, potrebbe cantarla. Non suoni come mera provocazione, ma solo come una logica conseguenza. Non foss'altro per semplice proprietà transitiva: se Marine Le Pen simpatizza per Tsipras e i sostenitori di Tsipras cantano Bella Ciao, il passo successivo è nelle cose. Perché l'obiettivo è lo stesso: quello di recuperare la sovranità del popolo contro "l'invasore" sovra-nazionale. L'ha cantata, per scherno e impropriamente, Matteo Salvini, contro "l'invasione degli immigrati", ma lo potrebbe fare - persino con maggiore legittimità - la sua amica leader del Front National.

LAICITA' A SCUOLA: A FAVORE DELL'ISLAM E CONTRO LE TRADIZIONI CRISTIANE.

La sinistra si batte per eliminare ogni simbolo che inneggia all'italica tradizione ed appartenenza in nome di una sudditanza ideologica e strumentale.

Storia del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane di Rosci Valentina su “Diritto”. L’esposizione dei crocifissi nelle scuole pubbliche viene disposta mediante circolare con riferimento alla Legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione di Stato. L’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici in genere, è data con ordinanza ministeriale 11 novembre 1923 n. 250, nelle aule giudiziarie con Circolare del Ministro Rocco, Ministro Grazia e Giustizia, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867 recante “Collocazione del crocifisso nelle aule di udienza”, che recita: “Prescrivo che nelle aule d’udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocifisso, secondo la nostra tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia. I capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni Comunali affinché quanto esposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte quale si conviene all’altissima funzione della giustizia”. In materia scolastica si ricordano, le norme regolamentari art. 118 Regio Decreto n. 965 del 1924 (relativamente agli istituti di istruzione media) e allegato C del Regio Decreto n. 1297 del 1928 (relativamente agli istituti di istruzione elementare), che dispongono che ogni aula abbia il crocifisso. Con circolare n. 367 del 1967, il Ministero dell’Istruzione ha inserito nell’elenco dell’arredamento della scuola dell’obbligo anche i crocifissi. Nei Patti Lateranensi e successivamente nelle modifiche apportate al Concordato con l’Accordo ratificato e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985 n.121, nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle scuole o, più in generale negli uffici pubblici, nelle aule del tribunale e negli altri luoghi nei quali il crocefisso trova ad essere esposto. Con parere n. 63 del 1988, infatti, il Consiglio di Stato ha stabilito che le norme dell’art 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. del 26 aprile 1928 n. 1297, che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non possono essere considerate implicitamente abrogate dalla nuova regolamentazione concordataria sull’insegnamento della religione cattolica. Ha argomentato il Consiglio di Stato: premesso che “il Crocifisso, o più esattamente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della Cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa, le norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare – continua il Consiglio di Stato – che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico”. Le norme citate dovrebbero, però, ritenersi implicitamente abrogate dal d.lgs. 297/94 in cui all’art. 107, nell’elencazione puntuale delle suppellettili che compongono l’arredo si fa riferimento esplicito solamente all’attrezzatura, l’arredamento e il materiale da gioco per la materna. In modo più chiaro ed esplicito l’art. 159 stabilisce “Spetta ai comuni prevedere al riscaldamento, all’illuminazione, ai servizi, alla custodia delle scuole e alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari…”. L’art. 190 stabilisce che “i Comuni sono tenuti a fornire (…) l’arredamento” dei locali delle scuole medie. Nessun riferimento al crocifisso. Sicchè si potrebbe sostenere che le norme dell’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. n. 1297 del 1928, dovrebbero ritenersi implicitamente abrogate ex art. 15 preleggi, perché il d.lgs. 297/ 94 regola l’intera materia scolastica. Tuttavia restano in vigore in forza dell’art. 676 dello stesso decreto intitolato “norme di abrogazione” il quale dispone che “le disposizioni inserite nel presente testo unico  vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”. Orbene, alla specificazione del contenuto minimo necessario delle locuzioni generali “arredi” ovvero “arredamenti” contenute negli artt. 107, 159 e 190 concorrono le due disposizioni regolamentari citate, comprendendovi anche il “crocifisso”. Così si può affermare che le disposizioni del d.lgs. 297/94, come specificate dalle norme regolamentari citate, includono il crocifisso tra gli arredi scolastici. Conclusivamente, poiché non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute, né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata da norme anteriori, né, come ha ritenuto il Consiglio di Stato, attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, le disposizioni di cui all’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e quelle allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297, devono ritenersi legittimamente operanti. La Corte di Cassazione (Sez. III, 13-10-1998) ha affermato in particolare, che non contrasta con il principio di libertà religiosa, formativa della Costituzione, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche: “Il principio della libertà religiosa, infatti, collegato a quello di uguaglianza, importa soltanto che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione di contenuto religioso ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di culto, fermo restando che deve prevalere la tutela della libertà di coscienza soltanto quando la prestazione, richiesta o imposta da una specifica disposizione, abbia un contenuto contrastante, con l’espressione di detta libertà: condizione questa, non ravvisabile nella fattispecie”, nella quale si discuteva della lesività del principio di libertà religiosa proprio ad opera dell’esposizione del crocifisso nell’aula scolastica adibita a seggio elettorale. In una recente decisione, invece, la Cassazione ha ritenuto contraria al principio di laicità l’esposizione dei crocifissi nei seggi elettorali, prendendo ad esempio una decisione del Tribunale Costituzionale tedesco del 1995. Escluso che l’articolo 9 del nuovo Concordato con la Chiesa cattolica – in cui la Repubblica italiana prende atto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” – possa costruire idoneo fondamento normativo alla prassi amministrativa in materia, la Suprema Corte rigetta anche la “giustificazione culturale”, contraddicendo espressamente l’avviso del Consiglio di Stato. Non è sostenibile, infatti, “la giustificazione collegata al valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva”, per il contrasto in essa implicito con il divieto delle differenziazioni per motivi religiosi. È lecito esporre un crocifisso in un’aula scolastica, in un tribunale o in un ufficio pubblico, questa scelta può offendere la coscienza del non credente o dell’appartenente ad una confessione religiosa contraria a tale simbologia? L’esposizione contraddice la “laicità dello Stato”? E a che tipo di simbologia deve essere ascritto il crocifisso: identità religiosa o culturale? Nel corso dell’anno scolastico 2002-2003, Adel Smith, cittadino italiano di religione musulmana, domanda all’insegnante della scuola di Ofena (in provincia di L’Aquila), frequentata dai suoi figli, di rimuovere il crocifisso appeso alla parete o, in subordine, di appendervi un quadretto con la sura del Corano. L’insegnante accondiscende a questa seconda richiesta, ma viene smentita dal dirigente scolastico il quale impone di rimuovere il quadretto. Assistito da un avvocato, Adel Smith ricorre al Tribunale di L’Aquila per ottenere un pronunciamento d’urgenza. Investito della questione, il Tribunale ribadisce il carattere laico della Repubblica italiana e delle sue istituzioni e il 23 ottobre decreta la rimozione del crocifisso. Un’ordinanza successiva ha invece revocato tale rimozione poiché ha ritenuto che l’istanza presentata non integrasse una domanda “meramente risarcitoria”, ma si concretizzasse nella richiesta di una misura di carattere inibitorio idonea ad interferire nella gestione del servizio scolastico, dal che la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La rimozione del crocifisso scatena un’aggressiva polemica pubblica e una vera e propria campagna per il rilancio del crocifisso così che la maggior parte degli italiani hanno fatto questo tipo di ragionamento: “L’offesa è grande. Insopportabile. Una prevaricazione. Un esproprio. Un Tizio entra nel tuo alloggio, si accomoda in poltrona, ha libero accesso al frigorifero, usa il tuo bagno e invece di ringraziare per l’ospitalità, ti ingiunge di togliere dalla parete quel “coso” lì. Sarà anche un coso ma permetti decido io se deve restare lì o sparire”. Un ragionamento un po’ rozzo ma tale vicenda ci fa comprendere che oggi la questione dei simboli religiosi, a partire dal sostrato argomentativo connesso alla rivendicazione della libertà di coscienza e della neutralità dello Stato, può trasformarsi in un momento di “scontro tra religioni e civiltà”. Una questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal TAR del Veneto, avente ad oggetto gli artt. 159 e 190 del d. lgls. n. 297 del 1994, come specificati dall’art. 119 allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297 e dall’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924 n. 965, nella parte in cui includono il crocefisso tra gli arredi scolastici, nonché l’art. 676 d.lgs. 297/94, nella parte in cui conferma la vigenza degli artt. 119 allegato C del R.D. 1297/28 e 118 del R.D. 965/24. Il Tribunale remittente sostiene che il crocifisso è essenzialmente un simbolo religioso cristiano, di univoco significato confessionale, che l’imposizione della sua affissione nelle aule scolastiche non sarebbe compatibile con il principio supremo di laicità, desunto dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 della Costituzione, e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; che la presenza del crocifisso, che verrebbe obbligatoriamente imposta ad alunni, genitori e insegnanti, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, attribuendo ad essa una ingiustificata posizione di privilegio. La Corte Costituzionale con ordinanza 389/2004 ha ritenuto di non doversi pronunziare in quanto le norme in esame hanno natura regolamentare, norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né conseguentemente, un intervento interpretativo. In questa prospettiva, l’ordinanza della Corte, con le sue argomentazioni tecniche, pare suggerire un inasprimento di toni senza rinunciare a continuare ad interrogarsi. Tuttavia il dibattito in corso sull’esposizione del crocifisso pare sempre meno legato alla religione, alla religiosità e alla fede e invece strumentalizzato dai politici di destra e di sinistra. 

Crocifisso a scuola, assolta l'Italia. Ribaltata la condanna del 2009. Chi ha ragione? si chiede G. Galeazzi su su “La Stampa”. Il crocefisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane. Questo è quanto ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, che con una sentenza definitiva della Grande Camera, votata da 15 giudici su 17, ha dichiarato che la presenza in classe di questo simbolo non lede nè il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, nè il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione. Per il governo italiano e il fronte pro-crocefisso è una vittoria a tutto campo. Nel motivare la sua decisione la Corte afferma come il margine di manovra dello Stato in questioni che attengono alla religione e al mantenimento delle tradizioni sia molto ampio. Ma i quindici giudici che hanno votato a favore della piena assoluzione delle autorità italiane sono andati oltre. Nella sentenza si legge infatti come la Corte non abbia trovato prove che la presenza di un simbolo religioso in una classe scolastica possa influenzare gli alunni. E come nonostante la presenza del crocefisso (definito simbolo passivo) conferisca alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico, questo non sia sufficiente a indicare che sia in atto un processo di indottrinamento. Si sottolinea infatti che nel giudicare gli effetti della maggiore visibilità data al cristianesimo nelle scuole si deve tener conto che nel curriculum didattico non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e che l’ambiente scolastico italiano è aperto ad altre religioni. Nessun commento dall’avvocato Nicolò Paoletti, difensore di Soile Lautsi, la cittadina italiana di origini finlandesi che aveva presentato ricorso alla Corte. Dichiarazioni euforiche, invece, di coloro che hanno strenuamente difeso l’importanza della presenza del crocifisso nelle scuole italiane. «È una pagina di speranza per tutta l’Europa», ha commentato monsignor Aldo Giordano appena il presidente della Corte di Strasburgo, Jean Paul Costa, è uscito dall’aula dopo la lettura della sentenza. Il rappresentante della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha quindi sottolineato come la Corte abbia preso una posizione coraggiosa e abbia tenuto conto delle preoccupazioni che in questo momento gli europei esprimono nei riguardi delle loro tradizioni, dei loro valori e della loro identità. Gli ha fatto eco il vice ministro della giustizia russo, Georgy Matyushkin, che è intervenuto davanti alla Grande Camera in favore dell’Italia ed è volato appositamente da Mosca per assistere alla lettura della sentenza. Il minisro russo si è detto «molto soddisfatto per l’approccio della Corte». Ma anche il direttore dello European Centre for Law and Justice, Gregor Puppinck, ha definito la sentenza «un colpo che mette un freno alle tendenze laiciste della Corte di Strasburgo e che costituisce un cambiamento di paradigma». Lo European Centre for Law and Justice era una delle organizzazioni no profit che si erano costituite parte terza a favore dell’Italia nel procedimento. Alla lettura della sentenza, che è avvenuta in un’aula piena di studenti e funzionari del Consiglio d’Europa, erano presenti anche l’ambasciatore italiano Sergio Busetto, oltre agli ambasciatori cipriota e greco e ai rappresentanti della diplomazia armena, lituana, e di San Marino. Tutti Paesi che assieme a Bulgaria, Romania, Malta e Principato di Monaco erano intervenuti a favore dell’Italia. La sentenza emessa oggi mette la parola fine al ricorso «Lautsi contro Italia». Un fascicolo che fu aperto dalla Corte nel 2006 e che nel 2009, con una sentenza in primo grado a favore delle tesi della ricorrente, suscitò una vera alzata di scudi contro la Corte. L’indignazione fu tale che il governo italiano ricorse immediatamente, chiedendo e ottenendo la revisione del caso da parte della Grande Camera. In questo suo appello, andato a buon fine, l’Italia ha potuto contare non solo sui dieci Paesi che «ufficialmente» si sono presentati come parti terze davanti alla Corte, ma anche sul contributo di diverse ong, di parlamentari italiani ed europei e del lavoro diplomatico condotto dal rappresentante della Santa Sede. «Esprimo profonda soddisfazione per la sentenza della Corte di Strasburgo, un pronunciamento nel quale si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell’identità culturale del nostro Paese», ha dichiara il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. «Il Crocifisso sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà. È un simbolo dunque che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia nè alla laicità dello Stato, nè alla libertà religiosa. Oggi è un giorno importante per l’Europa e le sue istituzioni che finalmente, grazie a questa sentenza, si riavvicinano alle idee e alla sensibilità più profonda dei cittadini», ha concluso il ministro.

Toglie il crocifisso dall’aula. «Non me ne faccio nulla». Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà», scrive Francesco Alberti su “Il Corriere sella Sera”. Il caso di un’insegnante in una prima elementare. Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà». Via un altro. L’ennesimo. Tolto dalla parete a cui era appeso da anni. E scoppia la polemica. C’è chi parla di «strage dei crocifissi». E chi, più laicamente, si rifugia nel concetto di tolleranza e invita al reciproco rispetto. Siamo a Bologna, nella scuola elementare «Bombicci», classe prima B. Il simbolo religioso scompare pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni. Qualcuno, probabilmente dall’interno della scuola, avverte l’ex parlamentare pdl Fabio Garagnani, personaggio piuttosto combattivo in materia, che parte in quarta, informando della rimozione il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il vicedirettore regionale dell’ufficio scolastico, Stefano Versari. Per nulla scandalizzato invece il preside del comprensivo di cui fa parte la scuola, Stefano Mari: «Non esiste alcuna legge dello Stato che impone l’obbligo di ostensione del crocifisso, ma solo un regolamento del 1928 sugli arredi scolastici, poi superato nel 1999 da norme che conferiscono autonomia ai singoli istituti: dipende dalla sensibilità dei docenti». A riprova di ciò, prosegue il dirigente, «negli istituti che fanno parte del mio comprensivo, che riunisce 1.400 studenti tra elementari e medie, in moltissime aule il crocifisso non c’è mai stato o è stato tolto, mentre in altre è presente». Un processo graduale, aggiunge, «avvenuto negli ultimi anni e quasi passato inosservato in un clima di reciproca tolleranza tra chi lo avrebbe voluto e chi no». Fino ad oggi. Ora la polemica rischia di montare. Il giornale dei vescovi, Avvenire , censura l’episodio, ricorda l’ordinanza del 2011 della Corte di Strasburgo che impose a una scuola media di Abano Terme (Padova) di riappendere il crocifisso, ma soprattutto riporta le parole di un calibro da novanta come il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, il cui parere giuridico è agli antipodi di quello del preside Mari: «Non è rimesso alla scelta di qualcuno se togliere o meno il crocifisso - afferma il giurista -, non ci possono essere interpretazioni da scuola a scuola. Se è vero che la regolamentazione vigente sui simboli religiosi, che li vuole affissi nelle aule, può sembrare datata, è altrettanto vero che, chiamato a esprimersi, il Consiglio di Stato ne ha riaffermato la validità». Ma il preside insiste: «Credo che la questione vada risolta a livello amministrativo, è finito il tempo in cui tutto veniva deciso centralmente dal ministero». L’insegnante che ha tolto il crocifisso preferisce non esporsi. Raccontano che a chi le chiedeva spiegazioni sulla rimozione del simbolo avrebbe sbrigativamente risposto «di non farsene nulla». Il preside fa da scudo: «È inevitabile che sia turbata dalle polemiche, ma continua il suo lavoro e per ora non si registrano proteste dalle famiglie degli alunni». Ma Garagnani incalza: «È un problema di libertà, i genitori non si facciano intimidire».

Ma non solo il crocifisso si vuol togliere. Anche il Presepe.

Il sottosegretario all'Istruzione: "Sì al presepe a scuola; vietarlo non aiuta l'integrazione". Gabriele Toccafondi, coordinatore regionale Ncd Toscana, sottosegretario di Stato all’Istruzione, e l'intervento su La Nazione: "Non interrompiamo le nostre tradizioni".  Caro direttore, ho seguito con attenzione le inchieste dedicate da La Nazione ai “presepi vietati” nella nostra città. Questo tema ci permette di affrontare un dibattito sul rapporto tra identità e cultura nei Paesi occidentali secolarizzati e multiculturali, sui concetti di accoglienza e di dialogo. L’idea che per rispettare le altre culture e religioni sia necessario rinunciare alle proprie tradizioni, o rinnegarle, è un’idea decisamente bizzarra, che mai ha fatto parte della storia delle civiltà, e che si è affacciata nel mondo occidentale solo da pochissimi anni. Vietare il presepe non aiuta né il dialogo né l’integrazione, ma anzi sottolinea le differenze, allontana mondi che invece dovrebbero conoscersi e avvicinarsi. Come facciamo a dialogare con gli immigrati di altre culture e tradizioni, che vengono a vivere da noi, se non siamo in grado di trasmettere loro la nostra civiltà, le nostre usanze e le nostre credenze, ciò che abbiamo di bello? Il Natale è la memoria di un fatto storico e non solo un avvenimento di fede per molti credenti. E’ talmente un fatto riconosciuto e universale che ai bambini non puoi nascondere che si festeggia qualcosa durante Dicembre e così pur di nascondere la nascita di Gesù dentro una grotta in alcune scuole ci si inventa qualcosa da festeggiare: dall’albero di natale, alla neve fino a bizzarre creazioni come il topolino che porta i doni ai poveri o al pesciolino rosso dentro l’acquario. Non sarebbe più semplice dire le cose come stanno? E poi, sono davvero così sicuri, questi presidi e insegnanti che vietano il presepe, che gli alunni stranieri e le loro famiglie siano contrarie alla realizzazione della capannuccia negli istituti educativi? Io ricordo che proprio qui, a Firenze, esponenti di rilievo della comunità islamica locale dissero, qualche anno fa, che era opportuno e formativo che i loro figli potessero conoscere usanze e tradizioni del Paese in cui erano venuti a vivere. Impedire la realizzazione di un presepe in una scuola è un atto che reputo privo di ragioni, di un malinteso senso di laicità, che si nasconde dietro la presenza di alunni stranieri o di altre religioni, ma che nulla ha a che vedere con una sana laicità positiva, in grado di accogliere e valorizzare, non di censurare. Come stabilito anche dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2011, neppure il crocifisso esposto nelle aule scolastiche viola il principio della laicità degli istituti educativi. Che male può fare un simbolo come il presepe? Mi auguro che i docenti e dirigenti scolastici che hanno impedito a tanti bambini di avere una capannuccia nelle loro scuole, riconsiderino la loro decisione, in questi ultimi giorni prima del Natale: perché un vero dialogo con chi appartiene a tradizioni culturali diverse si può impostare solo valorizzando e facendo conoscere le radici più profonde della nostra identità.

Il presepe, bersaglio sbagliato, scrive Edoardo Crisafulli su “Avanti On line”. Un Preside ha vietato il Presepe, “un focus cerimoniale e rituale che può risultare soverchiante”: gli alunni di origine straniera, cospicua minoranza nella sua scuola, subirebbero l’imposizione di “ciò che non appartiene” loro. Concordo sul fatto che “la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione.” Ma questa decisione mi pare assurda. Il Presepe fa parte della cultura italiana come l’arte sacra, la musica barocca e la Divina Commedia. Non è un mero simbolo di fede. Sarebbe folle pretendere che l’alunno islamico (o buddista o quel che è) si converta al cristianesimo. Ma chi vuole integrarsi in Italia deve assimilare la nostra cultura. Altrimenti sarà un cittadino privo di un’identità. Non c’è bisogno di credere nella resurrezione di Cristo per ammirare la pittura di Giotto e la poesia di Dante, così come non occorre compiere sacrifici a Giove per apprezzare la mitologia classica. Il cristianesimo, inteso come fenomeno culturale, non deve apparire estraneo, o alienante, a chi ha scelto di vivere a casa nostra. I cristiani d’Oriente non studiano forse il Corano, un vero e proprio capolavoro linguistico, nonché testo di base della civiltà arabo-islamica, cui anche loro appartengono? Nessun cristiano colto nega che l’arabo classico — la koiné di tutti gli arabi – è, essenzialmente, una lingua coranica. Se c’è un simbolo più religioso che culturale, quello è il crocefisso. Ma il Preside, che ha “cose più importanti” di cui occuparsi, ha deciso di lasciarlo “appeso ai muri”. Se lo togliesse, i credenti ne farebbero “una questione di Stato”. Più facile bandire l’innocuo Presepe, che spunta a ridosso del Natale, per poi svanire subito dopo l’Epifania. Una volta affermato il principio demenziale che il Presepe offende la sensibilità islamica, dove arriveremo? Proibiremo la lettura a scuola del Canto XXVIII dell’Inferno dantesco, perché il Profeta Maometto vi compare nella veste sommamente offensiva di un dannato squarciato dal mento fin dove si “trulla”; punizione vergognosa, riservata agli scismatici, ai seminatori di discordia, come erano reputati i musulmani nel Medioevo? E metteremo alla berlina il Manzoni cristiano in quanto credente in una divinità falsa e bugiarda? No, non è questo il compito di una scuola laica, che forma i cittadini della polis secolare. Il vero laico è un liberale, un libertario. La laicità è una neutralità attiva: lo Stato laico non propaganda né una singola religione né l’ateismo; crea semplicemente le condizioni politiche che garantiscono la libertà di culto. La censura del Presepe non è un’affermazione di laicità, e non è neppure frutto della degenerazione di uno spirito laico intollerante. È piuttosto figlia del politically correct saccente e confusionario che imperversa da anni negli Stati Uniti, e che ora è approdato sulle nostre coste. Un multiculturalismo di bassa lega, con una spruzzata di giacobinismo a senso unico (l’unica tradizione da azzerare è la nostra), viene spacciato come una riedizione dell’Illuminismo progressista. I sacerdoti del politically correct, in nome della tolleranza verso lo straniero e il diverso, impongono forme subdole di censura o di auto-censura: chi non si adegua ai loro dettami subisce una gogna mediatica. Il multiculturalista serio è fatto di tutt’altra pasta: ama la diversità, perché è consapevole che il pluralismo religioso/culturale arricchisce la società civile. A una condizione, però: che venga rispettata la libertà e la dignità di tutti. Solo così il principio liberale è adattabile al mondo cosmopolita d’oggi. La cifra del laico autentico, peraltro, è la coerenza: anche quando degenera nella polemica anti-religiosa, ha il coraggio di prendersela ex aequo con preti, rabbini, imam e monaci: per lui, tutte le religioni positive sono ricettacoli di superstizione e di fanatismo. Mica rinnega la sua tradizione culturale per esaltarne una straniera, esotica, perché così va di moda nei circoli radical-chic! In certi ambienti di sinistra invece si usano due pesi e due misure: si insorge (giustamente) quando viene offeso l’islam, ma si tace o si gongola se qualcuno dissacra il cristianesimo o inveisce contro il Papa (da questo punto di vista, Oriana Fallaci non aveva tutti i torti). Agli apostoli del multiculturalismo suggerisco la lettura di Innamorato dell’Islam, credente in Cristo, di Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito dai jihadisti in Siria, il quale ha dedicato la sua vita al dialogo interreligioso basato sulla reciprocità. Se noi dobbiamo rispettare l’islam, i musulmani devono fare altrettanto con noi. Il dialogo interreligioso è una faccenda maledettamente seria: Dall’Oglio, forse, ci ha rimesso la pelle. Ho avuto l’onore di conoscerlo a Damasco, nel 2011. È stato lui a insegnarmi una grande verità, valida anche per chi non è credente: per confrontarmi con chi crede in un Dio diverso dal mio, non devo rinnegare la mia religione. Tutt’altro: la devo professare (o difendere) con orgoglio. Cosa fare, allora? Abolire l’insegnamento del cattolicesimo nella scuola pubblica (unico vero vulnus alla laicità), oppure garantire, per equità, la medesima importanza a tutte le religioni professate dai cittadini italiani? A mio avviso, l’educazione religiosa, fatto di coscienza individuale, spetta alle famiglie, non allo Stato. Sarebbe sbagliato inaugurare una sorta di carnevale variopinto di tutte le fedi. Lo Stato, però, ha il dovere di insegnare la storia del cristianesimo, quale disciplina curricolare. Che sia un docente di lettere o di storia a insegnarla, laicamente. La nostra civiltà ha radici cristiane, oltreché pagane (greco-romane) – e qui consiglio, a chi pencola verso le tesi dei teocon, il saggio di Luciano Pellicani, Le radici pagane d’Europa. Il vero scandalo, oggi, non è il Presepe: è l’ignoranza: i nostri figli non conoscono le parabole evangeliche e le narrazioni bibliche. Senza quei codici culturali, tanta parte della nostra letteratura e della nostra tradizione artistica risulta incomprensibile. Anche la polemica sui crocefissi la risolverei in chiave culturale: sostituiamo quelli bruttissimi di plastica con riproduzioni di Giotto o di Cimabue. Che ogni classe adotti una croce dipinta della tradizione pittorica italiana. Trasformare un fenomeno artistico, qual è il Presepe, in un simbolo religioso, è anche un grave errore politico. I fascio-leghisti non si sono fatti sfuggire l’occasione per specularci sopra: “Ecco la sinistra che plaude all’Eurabia islamizzata!’ Non lasciamo la difesa delle nostre tradizioni alla Lega e a Casa Pound: la rappresentazione della natività – l’espressione più poetica della religiosità popolare italiana – fu inventata da San Francesco d’Assisi. Per testimoniare, ogni anno, la nascita in assoluta povertà e umiltà di Cristo. Un messaggio formidabile per i creso-cristiani d’ogni tempo, che difendono a parole la cristianità mentre la tradiscono trescando con i potenti di turno. Riappropriamoci, noi socialisti, del Presepe e denunciamo l’uso politico distorto che ne fanno coloro che annacquano lo spirito rivoluzionario, sovversivo del cristianesimo. Ecco perché io, agnostico e laico-socialista, amo il Presepe e lo voglio esposto nei luoghi pubblici, così com’è: un bambino adagiato in una mangiatoia, in una grotta. E a chi sparge a piene mani il seme dell’odio e dell’intolleranza ricordo i bei versi di Trilussa “Ve ringrazio de core, brava gente/ pe’ ‘sti presepi che me preparate,/ ma che li fate a fa? Se poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…”.

La sinistra a favore dei mussulmani contro i cristiani. L'Islam astio al principio di reciprocità.

La persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, scrive Salvatore Lazzara. Gesù nel Vangelo, ricorda ai discepoli: “Beati voi quando, vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. La promessa di Gesù non prevede per i suoi seguaci vita facile. E’ il mistero della sequela, un cammino che costa a quanti aderiscono, un prezzo altissimo. In alcuni casi è richiesto il dono della vita, per testimoniare la fede nel Signore morto e Risorto. Già nel nuovo testamento sono registrati i primi attacchi contro i cristiani: dopo la morte in croce del maestro, i discepoli ebbero paura ad annunciare ciò che avevano visto e udito, per paura di essere uccisi. E’ necessario che il Risorto stesso indichi ai discepoli con le apparizioni nel giorno dopo il sabato, la via da seguire. Durante una riunione a porte chiuse, presente la Madre di Gesù Maria, ricevono il dono dello Spirito Santo, il quale li abilita a proclamare che Gesù è il Signore, e quanti ascoltano la loro parola, gli abitanti di Tiro, di Sidone, della Cappadocia, intendono nella loro lingua il messaggio del Dio fatto carne e crocifisso per la salvezza degli uomini. Da questo punto in poi, i discepoli vivranno incomprensioni, delusioni, tradimenti, fino a versare il sangue per la fede. Il primo martire di cui abbiamo notizia è Stefano, il quale viene ucciso brutalmente perché si rifiutava di rinnegare Gesù. Sono esemplari le ultime parole pronunciate da questo discepolo del Signore, che ricalcano quelle dette da Gesù sulla croce prima di morire. La tradizione dei primi secoli ha tramandato alcuni atti dei primi martiri della fede, molto suggestivi e pieni di spunti di riflessione. Le persecuzioni si scatenano contro i cristiani quando non vogliono cedere ai compromessi o alle false divinità. Tutto ciò produce odio, perché la parola di Dio condanna il male e ciò che di brutto il mondo possiede. Cito per tutti san’Ignazio di Antiochia, il quale catturato non volle essere liberato per diventare nelle mandibole dei leoni frumento di Cristo macinato per la salvezza del mondo. Certamente non possiamo analizzare i motivi e le lunghe persecuzioni cruente dei cristiani nell’arco dei 2000 anni, ma possiamo sintetizzare i vari periodi per comprendere il faticoso annuncio della Parola di Dio all’umanità. Fino al quarto secolo, i vari imperatori romani nel vasto territorio sotto la loro giurisdizione, tentarono in tutti i modi di eliminare il Cristianesimo che si diffondeva sempre più attraverso le vie commerciali, con la complicità di alcuni ufficiali militari, che avendo sentito ciò che Gesù aveva fatto ad alcuni colleghi, come ad esempio la guarigione del figlio del centurione, -il quale prima dell’ingresso del Signore nella sua casa esclamò-: “Guarda io non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito…”-, suscitava in quanti ascoltavano sentimenti profondi di commozione e di partecipazione. La “nuova fede”, fece breccia sugli schiavi, i quali vedevano nel Cristianesimo, la liberazione dalla condizione di oppressi. Sappiamo dai racconti, che molti di essi erano a servizio dei potenti del tempo. Venendo a contatto con loro, cominciarono a convertirsi per la fedeltà che i servi mostravano verso la nuova religione. Tutto ciò turbava gli equilibri politici, sociali e religiosi del tempo. Sentendo odore di minaccia al potere costituito il cristianesimo, cominciò ad essere perseguitato in tutto l’impero con le grandi campagne messe in atto da Diocleziano, Tito, Nerone, il quale accusò i cristiani di essere responsabili del famoso rogo-incendio di Roma, che lui stesso aveva fatto appiccare. Per giustificare le efferate esecuzioni e sbarazzarsi di questa nuova forma di religiosità, Nerone non ebbe scrupoli ad addebitare ai cristiani un atto che non avevano commesso, soltanto per placare la sua coscienza ed affermare il personale potere nei confronti dei sudditi. Con la conversione di Costantino al cristianesimo, cominciò un era di pace e di libertà. Cominciarono le costruzioni delle Basiliche, e il culto era permesso alla luce del sole. Il cristianesimo a poco a poco cominciò a diventare parte strutturale della società, arrivando a permeare la vita dei fedeli in modo totalizzante. Certamente non siamo qui ad esaminare tutti gli aspetti positivi e negativi del processo storico descritto, ciò che conta e comprendere la difficoltà in cui ad esempio si trova oggi l’espansione dell’Islam, alla luce di quanto ho affermato. Ai tempi di Costantino, il potere sociale e religioso erano uniti indissolubilmente. L’imperatore era il depositario, il custode del creato, perché da Dio riceveva la potestà di governare. Dunque dalla religione partiva ogni input per regolare la vita della società. Ogni cosa era subordinata alla Bibbia, e dalla Scrittura si prendeva ispirazione per stabilire le leggi etiche e morali. Questo sistema naturalmente ha subito parecchie modifiche nel tempo, fino ad arrivare ai tempi odierni, portando dietro di se integralismi, fondamentalismi, e tante volte scelte sbagliate che hanno causato la morte di tanta gente innocente. Dobbiamo purtroppo dire che lo schema citato, ha portato a persecuzioni accanite contro i cristiani e viceversa.   Questa struttura ancora oggi è usata dall’Islam nei paesi a maggioranza musulmana. E’ il Corano con le sue leggi a determinare il corretto svolgimento della vita dei cittadini. Ogni cosa prende spunto e trae ispirazione dalla parola di Allah. Tutto ciò che non coincide con il predicato religioso islamico, deve essere abbattuto con ogni mezzo. Ogni musulmano è chiamato ad osservare il Corano, e da esso prendere spunto per la vita familiare e relazionale. Le società islamiche oggi vengono classificate in moderate e radicali. E’ una divisione che a me personalmente crea diverse perplessità e problemi. Cosa significa essere moderati? Forse non usare la violenza per convertire? Oppure cosa significa radicali? Usare la violenza come via per raggiungere la conversione degli infedeli a scapito del dialogo e della civile e pacifica convivenza con chi non accetta l’Islam? Sono domande complicate, da cui nasce la confusione e la persecuzione di cui noi oggi siamo testimoni contro i cristiani in generale e le minoranze religiose. Nei paesi musulmani, generalmente ai cristiani è riconosciuta la libertà di professare la loro fede, ma con limitazioni in alcuni paesi. In Arabia Saudita è formalmente vietata ogni religione che non sia quella musulmana; la presenza di stranieri cristiani è tacitamente tollerata, ma essi non possono in alcun modo manifestare la propria fede. Persino il possesso della Bibbia è considerato un crimine. In generale nei paesi arabi i cristiani sono oggetto, da parte della popolazione musulmana, di forme di discriminazione più o meno gravi, che negli ultimi decenni hanno portato molti di loro a emigrare o a convertirsi all’Islam. La popolazione cristiana è in calo pronunciato in tutti i paesi del Medio Oriente. La conversione di musulmani al cristianesimo è poi vista come un crimine (apostasia) e, anche nei paesi in cui la legge la consente, i convertiti sono spesso oggetto di minacce e vendette da parte della popolazione. Mentre in Occidente si combatte ogni forma di religiosità di carattere cristiano in nome di una falsa laicità aggressiva, in alcuni paesi a maggioranza islamica il percorso è inverso. I musulmani al potere cercano in tutti i modi di “islamizzare” gli stati in cui sono a maggioranza con leggi che favoriscono lo sviluppo dell’Islam, ma che penalizzano di molto le altre religioni, le quali strette nella morsa della persecuzione diventano sempre più minoritarie. In Europa la confusione ideologica porta allo smantellamento culturale, causando effetti devastanti: la costruzione di moschee, il Real Madrid ha dovuto togliere la croce della scudetto perché il maggiore azionista della squadra è diventato un famoso emiro musulmano, le continue polemiche contro l’allestimento dei presepi, l’insegnamento della religione nelle scuole, il crocifisso nelle aule pubbliche, le difficoltà relazionali in alcune città europee importanti a maggioranza musulmana che avanza silenziosa, la natalità, gli investimenti economici, fanno parte di una persecuzione precisa e metodica contro i cristiani portata avanti dai cosiddetti moderati, che pur non prevedendo il sacrificio cruento con lo spargimento del sangue, condiziona la libertà del cristianesimo in nome della tolleranza e dell’accoglienza. A questo punto possiamo fare un accenno all’epoca delle Crociate, considerate a torto come persecuzioni contro i non cristiani, ma il tempo a disposizione è poco. Contrariamente a quanto è stato affermato dai libri di storia foraggiati dai nemici del cristianesimo, -come possiamo vedere dall’immagine- (foto 1), avevano uno scopo chiaro e limpido: difendere i luoghi santi dalle invasioni islamiche. Mentre le conquiste musulmane avevano ed hanno come obiettivo la conquista dei territori, per convertire all’Islam gli infedeli, contrariamente i crociati difendevano e riconquistavano con la forza i luoghi santi. Certamente non tutto è stato rose e fiori…. Ma permettetemi di dire che bisognerebbe rivedere con onestà queste pagine di storia senza i pregiudizi di quanti avversano in tutti i modi la presenza cristiana nel mondo. I cristiani a Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2 per cento, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano. Se ne contano approssimativamente il 35 per cento, ma in diminuzione rispetto a qualche anno fa. “Più i cristiani lasciano il Paese, più i cristiani diventano un’esigua minoranza, più alcuni principi della modernità, come ad esempio i diritti umani, vengono a cadere”, avverte il gesuita egiziano padre Samir, esperto di questioni mediorientali. “Con la diminuzione degli elementi cristiani si fa un passo indietro nell’economia ma, ancor di più nella politica, e soprattutto in tutto ciò che è legato ai diritti umani: la situazione della donna, la libertà religiosa, la libertà tout court, il progresso sociale, i diritti sociali per i più poveri e i deboli”. Anche per questo motivo sentiamo tra i musulmani – intellettuali e non solo, politici e anche gente di media cultura – dire: “Per favore, non andatevene! Rimanete! Abbiamo vissuto insieme per secoli!”. Dal 2000 ad oggi i cristiani vittime di persecuzioni sono stati 160.000 ogni anno. Ogni 5 minuti un cristiano viene ucciso a causa della propria fede.

Don Salvatore Lazzara - Sacerdote da 17 anni, è cappellano militare all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Da Cappellano Militare ha svolto i seguenti incarichi: Maricentro (MM) La Spezia, Nave San Giusto con la campagna addestrativa nel Sud Est Asiatico, X° Gruppo Navale in Sinai per la missione di Pace MFO. Successivamente trasferito alla Scuola Allievi Carabinieri di Roma. Ha partecipato alla missione in Bosnia con i Carabinieri dell’MSU. Di ritorno dalla missione è stato trasferito alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Dopo l’esperienza nei Carabinieri è tornato a Palermo presso i Lanceri d’Aosta (Esercito).  Per Da Porta Sant’Anna curava inizialmente la rubrica “Al Pozzo di Sicar”; da Luglio 2014 ha assunto il ruolo di Direttore del Portale.

E poi c'è lei. Peppa Pig. Oggetto di strali dei benpensanti.

E' attualmente il cartone animato più famoso e visto al mondo, ma anche dai genitori che, in caso di stanchezza giornaliera, piazzano i figli davanti alla  tv, incantati dal maialinio super star. Ma ora Peppa Pig finisce nell'occhio del ciclone. Tutto per una presunta parolaccia pronunciata dal maialino in un nuovo episodio. E ora le mamme protestano: "Siamo scioccate". A denunciare l'episodio è Natalie, una mamma inglese di 30 anni che si è resa conto del turpiloquio di Peppa Pig dopo che la sua bambina aveva ripetuto una strana parola. L'episodio incriminato è in un DVD in cui si fa un riferimento a una band. Da "Rocking Gazzelle" diventano "Fucking Gazelle", almeno secondo quanto ha capito la mamma. "Sono scioccata", ha detto la donna al Daily Mail. "Quando ho sentito mia figlia dire certe parole l'ho rimproverata ma poi mi sono resa conto che era tutta colpa del cartone". La donna si sente responsabile e colpevole e conclude dicendo che non permetterà mai più ai suoi bambini di vedere il cartone. Anche Peppa Pig potrebbe rimanere vittima dell’elevato livello di attenzione per la prevenzione degli attentati. La simpatica maialina rosa potrebbe essere messa al bando. Le nuove linee guida della Oxford University Press, la casa editrice dell'ateneo inglese che pubblica testi scolastici e prodotti editoriali educativi. Secondo queste indicazioni c’è il divieto di pubblicazione di riferimento al maiale e alla sua carne per non offendere i musulmani e gli ebrei. L’Università è un’autorità negli ambienti culturali inglesi e, se dovessero essere accolti i suggerimenti, il cartone animato che fa impazzire i bambini di tutto il mondo potrebbe essere messo al bando. La censura dell’Università arriva subito dopo gli attentati di Parigi. Sulla questione sono intervenute perfino le comunità ebraiche e musulmane che hanno definito la vicenda un tentativo “politically correct senza senso”.

Liberateci da Peppa Pig: sta rovinando i nostri bambini, scrive di Lucia Esposito su “Libero Quotidiano”. C'era una volta Heidi che faceva "ciao" alle caprette e aiutava l'amica Clara in carrozzina, c'erano i Barbapapà animalisti ed ecologisti che ci lasciavano di stucco coi loro "barbatrucchi" e le trasformazioni più improbabili. C'era Winnie the Pooh, l'orsetto grasso che lievitava all'ombra del bosco dei cento acri bevendo ettolitri di miele ma capace di grandissimi gesti di amicizia. C'era la cagnetta Pimpa che perdeva per strada le sue macchie rosse ma che faceva la felicità del suo padrone Armando… Mai si erano visti in televisione dei maiali che ruttano senza ritegno, grugniscono in continuazione, si rotolano nel fango allegramente e che, quando ridono, si ribaltano sul pavimento sbellicandosi come idioti. Liberatemi, vi prego, dalla famiglia Pig. Qualcuno mi spieghi cosa c'è di educativo in questo cartone che sta lentamente trasformando mio figlio di tre anni in un suino. «Tu sei mamma Pig», mi dice quando si sveglia. «No, Francesco io non sono un maiale», gli rispondo piccata. Lui arriccia il naso, dice «oink» e scappa via. Quando al mattino va a scuola, si guarda attorno con la stessa attenzione con cui un bracco ungherese cerca i tartufi nel bosco e, appena intercetta una pozza d'acqua, si fionda per saltarci dentro. «Come Peppa Pig» salta e ride mentre i suoi occhi roteano come biglie per individuare un altro specchio d'acqua fangoso in cui rotolarsi come un porcellino. Inutile provare a spiegargli che i maialini sono sporchi e puzzano e che la loro casa, il porcile, è un posto lurido e nauseabondo. Lui dice che «Patata City» (la città in cui vive la maledetta famiglia Pig) è bella e pulita. Per non parlare del rutto tra una portata e l'altra, diventato la colonna sonora dei miei pasti. Davvero non so come sia capitato ma lo spirito della famiglia Pig si è impossessato di lui e viene fuori senza alcun ritegno proprio quando tutti tacciono e non si può far finta di non aver sentito. «Non si fa, i maiali lo fanno» e lui: «Ma io sono Peppa Pig». Allontanarlo dal tavolo non fa che scatenare il processo di identificazione con la famiglia di suini perché invece di piangere, invece di starsene umiliato in camera, va in bagno, prende il braccio della doccia fa cadere acqua sul pavimento e si mette a saltare nella pozza. Per chi è fuori da questo incubo perché non ha figli tra i due e gli otto anni, Peppa Pig è un cartone animato che ogni sera ipnotizza mezzo milione di bimbi. È la storia di una famiglia di maiali (mamma Pig, papà Pig, il fratellino George di due anni e la protagonista Peppa di quattro anni). I suini non vivono in un porcile ma, pur mantenendo comportamenti propri della specie, sono umanizzati. Il povero signor Pig, il padre, è un pasticcione inetto, incapace di fare qualsiasi cosa (in un episodio per piantare un chiodo, fa crollare una parete) che si fa prendere in giro dai figli senza dire un «oink» sia perché è più grasso del normale sia perché è un fallimento che cammina. Lui e sua moglie non sono in grado di dare una sola regola comportamentale ai figli e, quando ci provano, non sono credibili. Non si fanno rispettare. Peppa e George fanno quello che vogliono, inzozzano di fango la casa, rompono il pc con cui la mamma lavora. Viziati e ribelli, trasmettono ai bambini l'idea che tutti sono uguali, che la loro parola-grugnito vale quanto quella dei genitori. Vogliamo poi parlare di George? A due anni dice solo e sempre «dinosauo», attaccato come una cozza al suo peluche verde ripete ossessivamente le stesse cose da centinaia di puntate senza che nessuno (tranne Peppa Pig che lo chiama «tontolone») si faccia delle domande sull'evoluzione del linguaggio del piccolo, senza che nessuno gli spieghi che si dice «dinosauro» e gli dia qualche informazione in più sull'animale preistorico. I dialoghi sono semplici, il vocabolario basico, i personaggi ripetono sempre le stesse parole, il disegno dei cartoni è elementare, eppure i bambini sono pazzi di questi porcellini. Molti esperti dicono che Peppa Pig piace tanto perché riproduce un modello di “famiglia normale”: i genitori che vanno al lavoro, i figli affidati ai nonni, le gite della domenica, i capricci a cui non seguono punizioni... Adesso, gli psicologi avranno anche le loro ragioni ma io da un po' ho vietato al mio bimbo di vedere «Peppa Pig»: perché per me non è normale che a cena rutti con lo stesso orgoglio di chi prende dieci in pagella. Ridatemi i barbatrucchi di Barbapapà!

E poi Peppa Pig è un maiale e non è corretto parlarne in un'Italia Islamica voluta dalla sinistra contro gli italiani cattolici.

Follia islam, fatwa per fatwa. Vietati rock, calcio, cani e bici. Le scomuniche religiose possono costare la vita. Ma osservarle tutte vuol dire non vivere più, scrive Massimo M. Veronese su “Il Giornale”. Ha una fama sinistra ma la fatwa, o fatawi al plurale, in fondo, è solo un codice di comportamento quotidiano e non è obbligatorio rispettarlo. Per avere valore deve uscire dalla bocca di un'autorità religiosa, ma in troppi, hanno denunciato alcuni analisti algerini, si attribuiscono un ruolo nell'Islam e si sentono autorizzati a dettare legge a caso. Le fatawi vietano gadget, oroscopi, la riproduzione di cd e dvd. Per non dire del nuovo profumo «Victoria's Secret: Strawberries and Champagne» ritirato dal governo dagli scaffali di Doha senza bisogno di una fatwa perchè «va contro le abitudini, le tradizioni e i valori religiosi del Qatar». Ma in questi anni abbiamo visto anche di peggio.

Le palle di neve. É l'ultima in ordine di apparizione: vietato costruire pupazzi di neve in Arabia Saudita, fatwa dell'imam Mohammad Saleh Al Minjed. Dice che realizzare uomini o animali di neve è contrario all'Islam. Unica eccezione, riporta Gulf News , i pupazzi di neve raffiguranti soggetti inanimati cioè navi, frutta o case. La reazione però è stata piuttosto gelida.

I pokemon. Pikachu, Meowih, Bulbasaur, sono stati accusati di complotto giudaico-massonico, e messi al bando dallo sceicco saudita Yusuf al-Qaradawi, ideologo dei Fratelli musulmani. Vietata la loro vendita in tutta l'Arabia Saudita. I Pokemon, sentenzia la fatwa, si sono coalizzati per far diventare ebrei i musulmani. Bastasse un cartoon.

I tatuaggi. Fresca anche questa. La Direzione Affari Religiosi di Turchia guidata dal Gran Mufti Mehmet Gormez, principale autorità religiosa islamica del paese, ha emesso una fatwa contro i tatuaggi: «Allah ha maledetto coloro che cambiano il loro aspetto creato da Dio». Spacciati Materazzi e Belen.

Il calcio. La fatwa dello sceicco Abdallah Al Najdi si basa sul principio che vieta ai musulmani di imitare cristiani ed ebrei. Si può giocare ma con regole diverse: niente linee bianche in campo, niente squadre di 11 giocatori, porte senza traverse, chi grida gol va espulso e niente arbitro perchè superfluo. Come del resto nel nostro campionato...

I croissant. Ad Aleppo una commissione sulla sharia ha emanato un editto religioso contro il consumo di croissant, considerati il simbolo della colonizzazione dell'Occidente. Il babà invece va bene ma solo se si chiama alì...

La chat. Chi chatta online attraverso i social network con persone dell'altro sesso commette peccato. Lo stabilisce la fatwa dello sceicco Abdullah al-Mutlaq, membro della Commissione saudita degli studiosi islamici. Poi hanno fatto retromarcia: si riferiva a un caso isolato da non generalizzare. Non mi piace.

Il rock. L'ha decisa in Malaysia la Commissione del consiglio per gli affari islamici secondo la quale la musica rock va spenta perché fa male allo spirito. E c'è una variante, il black metal, che essendo dominata dall'immaginario occulto, ha il potere di traviare e stravolgere le anime dei giovani musulmani. Il liscio non si sa.

Il sesso. Fare l'amore si può. Ma non nudi. «Esserlo durante l'atto sessuale invalida il matrimonio» la fatwa imposta dallo sceicco Rashar Hassan Khalil. Non tutti sono d'accordo. Il presidente del comitato delle fatwa di alAzhar, Abdullah Megawer, ha corretto, come si suol dire, il tiro: nudità ammesse, ma a patto che i partner non si guardino.

La bicicletta. A lanciarla è stata la guida suprema della Repubblica islamica, l'ayatollah Ali Khamenei in persona: proibisce nel modo più assoluto la bici alle donne iraniane.

Il cane. Nonostante sia per l'Islam un animale impuro, il cane è molto diffuso come animale domestico in Iran. Così il grande ayatollah Nasser Makarem-Shirazi ha emesso la sua fatwa: «Non c'è dubbio che il cane sia un animale immondo». Pur ammettendo che il Corano non dice nulla in proposito. E allora?

Lo yoga. Oltre 10 milioni di persone hanno partecipano in India a una lezione di massa di yoga per il Guinness dei Primati. La cosa però non è piaciuta ai vertici religiosi musulmani di Bhopal che hanno lanciato una fatwa per condannare l'esercizio come «antislamico» e «pagano» per il riferimento al dio Surya.

La festa di compleanno. Celebrare compleanni e anniversari di nozze non può avere spazio nell'Islam. Lo dice il Gran Muftì dell'Arabia Saudita, Sheikh Abdul Aziz Al-Alsheikh. «Un musulmano dovrebbe solo ringraziare Allah se i suoi figli stanno bene e se la sua vita matrimoniale è buona». Le classiche nozze con i fichi secchi.

L'eclisse. Una fatwa lanciata dal gran mufti d'Egitto proibisce ai musulmani di osservare l'eclissi. «Mette in pericolo la vista dell'essere umano e poiché l'islam proibisce all'uomo di mettere in pericolo la sua vita è peccato guardare l'eclisse». E con questa siamo al buio pesto.

La sinistra tace sulla mercificazione dei bambini.

Nuovo video shock Isis, bambino spara ai prigionieri. Ragazzino di 10 anni giustizia due uomini, scrive Benedetta Guerrera su “L’Ansa”. Non c'è limite all'orrore jihadista: dopo le bambine kamikaze in Nigeria, costrette dai terroristi di Boko Haram a farsi saltare in aria imbottite di esplosivo, un nuovo terribile video dell'Isis mostra un ragazzino che impugna una pistola e fredda due ostaggi come un boia consumato. Immagini scioccanti, che dimostrano come la follia del terrore non si fermi più davanti a nulla. Nei nuovi otto minuti di orrore, pubblicati sui siti jihadisti e rilanciati dal Site (il sito Usa di monitoraggio dell'estremismo islamico sul web), la scena è simile a tante altre diffuse in questi mesi di atroce propaganda da parte degli assassini dell'Isis. Solo che in questo caso, il boia ha il volto pulito di un bambino che non avrà neanche 10 anni. "L'Isis ha raggiunto un nuovo livello di depravazione morale: usano un bambino per giustiziare i loro prigionieri", ha commentato postando un fermo immagine del video sul suo account Twitter Rita Katz, la direttrice del Site. Le vittime vengono presentate come due kazaki, di 38 e 30 anni, accusati di essere "spie russe". Prima della loro esecuzione i due confessano di essere "agenti del Fsb", i servizi russi, inviati in Siria per raccogliere informazioni sui jihadisti e soprattutto sui 'foreign fighter' russi. Dalle parole delle due spie si evince che sono stati in Turchia sulle tracce di qualche 'pezzo grosso' dell'Isis, il cui nome è però omesso. Il più giovane dei due 'rivela' anche di essere stato reclutato per uccidere "un leader dello Stato islamico". Il filmato, intitolato "Uncovering the enemy within" (Scoprire il nemico interno) e targato al Hayat media center - la 'casa di produzione' dello Stato Islamico - è di ottima qualità e ha un montaggio quasi cinematografico. Al momento dell'esecuzione ad opera del bambino, i due uomini appaiono inginocchiati a terra e hanno le mani legate dietro la schiena. Non indossano la tradizionale tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo, che di solito i jihadisti fanno mettere agli ostaggi occidentali, ma una divisa azzurra. Alle spalle dei due condannati ci sono il ragazzino armato di pistola e un terrorista con la barba lunga e il kalashnikov che parla in russo. E' lui che spinge il bambino verso le sue vittime. Proprio a questo punto, quasi a voler enfatizzare il momento, le immagini vengono trasmesse al rallentatore e con un gioco di dissolvenze, mentre il terrorista ripete le ennesime minacce ai "nemici di Allah": il ragazzino, che ha un vistoso orologio al polso e indossa una felpa nera e pantaloni mimetici come il suo 'superiore', solleva la pistola e spara un colpo alla testa di ciascuno dei due prigionieri. Un colpo secco, sulla nuca, con incredibile freddezza. I due cadono a terra, il ragazzino si avvicina e ne finisce uno con altri due spari. Poi solleva il braccio con la pistola in segno di vittoria e sorride. Un video agghiacciante, che potrebbe essere una squallida messa in scena, costruita ad arte dai jihadisti dell'Isis, abili comunicatori del terrore. Nonostante le due vittime vengano colpite alla testa infatti, non si vede il proiettile uscire, né il sangue sgorgare dalla nuca o dal collo. Ma sono immagini che comunque lasciano sgomenti. Anche perché subito dopo la sequenza dell'uccisione parte il frammento di un altro video che era già stato pubblicato dall'Isis a novembre in cui lo stesso ragazzino appare in un gruppo di bambini kazaki che si addestrano a usare i kalashnikov. "Sarò uno di quelli che vi sgozzerà, kafiri", diceva il ragazzino. Anche in quel caso il filmato era scioccante, quasi irreale. Una ventina di bambini che smontavano e riassemblavano kalashnikov e poi miravano inginocchiati ai loro bersagli. "Sono la nuova generazione, saranno loro che scuoteranno la Terra", recitava una voce fuori campo.

Quanti sono i bambini soldato nel mondo. Il report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di minori arruolati sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013, scrive Cristina Da Rold su “L’Espresso” Il fenomeno dei bambini soldato pesa sempre di più, ma non si può contare. Le stime riportate da Amnesty International parlano di 300 mila bambini coinvolti in conflitti armati nel mondo, il 40% dei quali sarebbero bambine. L'Onu ne stima 250 mila. Se si cerca di definire con maggior dettaglio i contorni del fenomeno, il profilo diventa infatti subito sfumato. UNICEF, Human Right Watch, Child Soldier International, Amnesty International, le Nazioni Unite e molte altre realtà che si occupano di salvaguardare le condizioni dei minori nelle aree colpite dalla guerra, riportano la presenza ancora oggi come cinquant'anni fa, di bambini soldato, maschi e femmine, in molti paesi del mondo, dall'Africa al Sud America, al Medio Oriente. Secondo le stime UNICEF per esempio sarebbero 9000 i bambini soldato coinvolti in Sud Sudan, 2500 in India e addirittura 10000 quelli che avrebbero abbracciato le armi nella Repubblica Centrafricana. Tuttavia non ci sono dati certi e le stime spesso divergono di molto fra di loro, soprattutto in ragione della fluidità del fenomeno. Ogni anno infatti vengono effettuati numerosi raid fra la popolazione civile, più o meno noti alle milizie internazionali, dove vengono reclutati nuovi bambini da inserire nelle file degli eserciti, governativi e non. Al tempo stesso però altri vengono sottratti alle forze armate grazie all'azione di realtà come le Nazioni Unite. Il bilancio è dunque difficile. Il punto di riferimento più recente e più dettagliato in questo senso è un Report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite Children and armed conflict, che prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di bambini soldato sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013. Come emerge dalla mappa però, solo per una parte di questi paesi, quelli evidenziati in rosso, le Nazioni Unite sono in grado di fornire dei numeri. Per gli altri, quelli colorati in nero, la presenza di bambini soldato per quanto accertata, non è quantificata con esattezza.

Armi giocattolo e fiabe sui martiri, niente tv. Ecco come si educa un bambino al jihad. Nel manuale per la donna jihadista, i consigli pratici per diventare la mamma perfetta. E insegnare ai figli ad essere «combattenti e ad avere paura solo di Allah: la chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli», scrive Daniele Castellani Perelli “L’Espresso”. Niente tv. Sì a pistole giocattolo e freccette. E prima di andare a nanna una bella favola sul jihad. Queste sono solo alcune delle regole che deve seguire una mamma perfetta per educare un piccolo jihadista. Il testo è uno di quelli per cui un mese fa Runa Khan, una donna di Luton, mamma di 6 bambini, è stata condannata in Inghilterra a cinque anni per aver incitato su Facebook al terrorismo. Fa parte di un vero manuale per la donna jihadista, chiamato “Il ruolo della Sorella nel Jihad”. Ma la sezione più interessante è sicuramente quella dedicata all'educazione dei bambini, una specie di “Emilio” rousseauiano pensato per il jihad. Lo è alla luce del ruolo centrale che i bambini sembrano avere nella strategia e nella propaganda dei terroristi islamici, quasi fossero impegnati nella costruzione di un uomo nuovo, fin dai primi anni. Lo confermano ora due notizie macabre degli ultimi giorni: il video del bambino kazako che, puntando una pistola, ucciderebbe per lo Stato Islamico due presunte spie russe e poi festeggia il suo gesto (in realtà dal video non è dmostrato che sia stato lui a ucciderli), e l'uso di almeno una bambina ricoperta di esplosivo per degli attentati compiuti da parte dell'organizzazione nigeriana Boko Haram. Ma già in precedenza erano note le tante foto di bambini vestiti con i simboli dell'Isis che circolano da tempo su Twitter e gli altri social media, tra cui quelle del britannico Siddhartha Dhar in posa con neonato e fucile, ma anche quella di Ismail, di Longarone, in Veneto, che il padre Ismar Mesinovic ha portato con sé in guerra strappandolo alla madre cubana. Alla stessa Runa Khan, 35 anni, sono state trovate foto dei figli con pistole e spade, ma aveva anche indicato dettagli del modo in cui raggiungere la guerra in Siria dall'Inghilterra e su un sito per estremisti si era augurata che un giorno suo figlio diventasse un jihadista. Il manuale era già noto da qualche anno agli specialisti, ma secondo l'istituto americano Memri (Middle East Media Research Institute) ora è tornato particolarmente in auge proprio per l'Isis. Lo dimostra lo stesso caso di Runa Khan, che quel testo l'ha pubblicato su Facebook nel settembre del 2013. Ma cosa dice esattamente il manuale? Nel capitolo “Come educare bambini mujahid (combattente nel jihad, ndr)” si descrive questo compito come «forse il più importante per le donne». Si deve insegnare ai bambini, che siano maschi o femmine, «ad avere paura solo di Allah»: «La chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli. Non aspettate che raggiungano i sette anni, potrebbe essere troppo tardi!». Poi ecco i consigli: «Racconta loro storie della buonanotte che parlino dei martiri e dei mujahideen. Sottolinea che non devono colpire i musulmani, anzi perdonarli, e che devono esprimere la loro rabbia sui nemici di Allah che combattono contro i musulmani. Magari crea un surrogato di nemico, ad esempio un sacco da colpire, e incoraggia i bambini, specialmente i maschi, a usarlo, a costruire la propria forza così come a imparare a controllarsi e a saper dirigere la propria rabbia». E per quanto riguarda lo svago? «Elimina se puoi completamente la tv, che perlopiù insegna cose senza vergogna, anarchia e violenza casuale. Inoltre la tv instilla pigrizia e passività, e contribuisce a un abbandono mentale e fisico. Se non puoi proprio eliminarla, usala per video che trasmettano l'amore per Allah e per il jihad. Ce ne sono alcuni anche sull'addestramento militare». Per i videogiochi il discorso è simile. Meglio di no, ma se proprio non può farne a meno allora sì a quelli militari. Il manuale invita poi a comparare «queste caratteristiche con gli aspetti salutari del gioco e dello sport, da cui può trarre beneficio in termini di disciplina e forza fisica». Qualche esempio? Il tiro al bersaglio con armi giocattolo, il tiro con l'arco e le freccette, «che permettono di sviluppare un buon coordinamento mano-occhio», e giochi militari che siano divertenti. Quanto agli sport, sì a arti marziali, nuoto, equitazione, ginnastica, sci, e poi altre attività come la guida di veicoli, l'orientamento nei boschi, il campeggio e l'addestramento per la sopravvivenza. Ci sono anche consigli di lettura, ovvero libri militari («meglio se con le figure») e siti web, il tutto già a partire da quando il bambino ha «due anni o anche meno»: «Non sottovalutate l'effetto duraturo di ciò che quelle piccole orecchie e quei piccoli occhi possono assimilare nei primi anni di vita!». Il manuale ricorda che «i bambini imitano quello che fanno gli adulti», e invita a iniziare sin dai primi anni perché così «non affronteranno poi battaglie interne quando diventeranno più grandi e saranno più coinvolti nel mondo». Ma a giudicare dalle notizie degli ultimi giorni bisogna dire che questo è un testo a suo modo moderato, laddove ad esempio raccomanda di non tenere le armi vere alla portata dei bambini, e di non usarle davanti a loro, oppure di non uccidere altri musulmani. Vuol dire che Isis e Boko Haram hanno alzato ancora più in là l'asticella. È la conferma che il jihadista di oggi è ancora più spietato di quello di ieri. È una nuova generazione.

Non solo apologia dell'Islam, ma anche tentativo di resuscitare una ideologia morta in nome di una falsa tolleranza.

I partigiani e la lezione di comunismo alle elementari. In Romagna l'Anpi celebra il Pci in un libro per le elementari. E le famiglie romene insorgono, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Papà cosa vuol dire "utero in affitto"?». Domande che ti vengono, all'età di dieci anni, solo se ti capita di leggere di femminismo, comunismo, guerra partigiana e D'Alema, in un libretto gentilmente donato dall'Anpi locale alle scuole elementari di Cervia, nella rossa Romagna, nel corso di una serie di lezioni. L'autore del librettino è Giampietro Lippi, presidente dell'Associazione nazionale partigiani a Cervia, «esponente del Pd» secondo un genitore di una delle scuole coinvolte, Raffaele Molinari, che sul suo blog denuncia l'«indottrinamento di partito» a spese dei bambini. Nel libretto distribuito nelle classi di quinta elementare, nel corso di vari incontri a scuola, non si rievocherebbe solo la storia dei partigiani e delle staffette, perché «tutte le storie sono raccontate per rendere idilliaco il ricordo del Pci, con innumerevoli note dove si citano personaggi del grande Partito comunista, le immagini col pugno alzato... Insomma comunismo ovunque», lamenta Molinari. Il quale riporta alcuni passi del libretto per rendere meglio l'idea: «Ho incontrato allora tanta brava gente. Tra i tanti, uno che ricordo con stima e simpatia, era il padre del nostro D'Alema, che aveva come nome di battaglia "Braccio"». O anche quest'altro: «Le portava l'Unità , perché la leggesse e incominciasse ad interessarsi alle cose vere della vita, ed Anna poco alla volta capì che era importante scegliere il fronte politico con il quale accasarsi e scelse il Pci». I genitori hanno chiesto spiegazioni alla scuola: «Dalle informazioni raccolte in un colloquio con la maestra - spiega Molinari - è risultato che Lippi è stato autorizzato ufficiosamente dalla direzione didattica di Cervia. Non una visita occasionale, ma un vero e proprio programma di lezioni, per tre settimane. Una sorta di arruolamento in vista del settantesimo anno della liberazione di Cervia». Il presidente dell'Anpi di Cervia, invece, è sconcertato dalle accuse: «Assurde, fuori luogo, senza senso - ci spiega al telefono - Io non faccio politica, racconto la storia, se le staffette partigiane erano comuniste o socialiste cosa devo farci, nasconderlo? Io sono un ex democristiano, si figuri, anche se adesso sì, sono iscritto al Pd. Questa iniziativa nelle scuole è nata insieme all'amministrazione comunale (guidata dal Pd, ndr ) e alla direzione didattica, per coinvolgere le scuole nel settantesimo anniversario della Liberazione a Cervia. C'è una bella differenza tra fare propaganda di partito e parlare delle staffette partigiane! Sono sconcertato dal livello culturale di certa gente, non meravigliamoci se l'Italia va male». I più arrabbiati per la sua iniziativa sono i genitori immigrati dall'Europa dell'Est, che del comunismo hanno un ricordo più vivo. Sui cancelli della scuola hanno appeso dei cartelli: «No al comunismo nelle scuole», «Il comunismo rovina i nostri figli», in romeno e altre lingue slave. E, mentre si parla di denunce partite all'indirizzo del presidente Anpi, oggi i genitori inscenano un corteo silenzioso nel centro della città: «In piedi, senza schiamazzi, senza rumore, reggendo in mano un libro di storia come segno della nostra protesta».

"Sì agli immigrati, convinci un leghista". Così la scuola indottrina i nostri figli. Bufera per il tema assegnato da un insegnante agli allievi di una scuola vicentina. Il Carroccio: "È inaccettabile", scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Un clamoroso caso di indottrinamento politico: è questa l'accusa con cui la Lega Nord del Veneto si scaglia contro un insegnante dell'istituto "Ceccato" di Thiene, in provincia di Vicenza, reo di aver assegnato agli studenti un tema dal titolo "Persuadi un tuo compagno leghista che l'immigrazione non è un problema bensì una risorsa". In difesa del Carroccio si è levata l'europarlamentare Mara Bizzotto, che della Lega è anche vicepresidente regionale: "Quanto successo all'istituto Ceccato è molto grave e conferma come esistano purtroppo insegnanti che mischiano, in modo scorretto e inaccettabile, i propri convincimenti politici con l'insegnamento - continua l'onorevole Bizzotto - La scuola dovrebbe essere un luogo di libertà e una palestra di educazione e di vita, non un luogo di indottrinamento politico secondo i convincimenti politici del professore di turno". "Bene hanno fatto i genitori e gli studenti che hanno segnalato questo grave comportamento da parte dell'insegnante che, mi auguro, sarà severamente ripreso dagli organi competenti - conclude la Bizzotto - I nostri ragazzi hanno bisogno di una scuola che insegni, che funzioni e che svolga il proprio ruolo: i professori che vogliono far comizi o proselitismi politici li devono fare rigorosamente fuori dalle classi e fuori dalle scuole!". L'episodio risale a qualche giorno prima delle ferie natalizie. "Un professore si permette - ha rincarato la dose il consigliere regionale leghista Nicola Finco - di dare giudizi politici in classe su un partito come se il problema in questi giorni non fosse l'islam; nel frattempo i benpensanti radical chic di sinistra si scandalizzano perchè l'assessore regionale all'Istruzione scrive alle scuole affinchè in classe si tratti del problema del terrorismo islamico che è solo e unicamente cronaca".

Tema: «Immigrati sono una risorsa convinci un tuo compagno leghista». La bufera sulla traccia assegnata agli studenti dell'istituto Ceccato di Thiene. Salvini: «Pazzesco». L’europarlamentare Fontana: Pd regali tessera al prof, scrive Elfrida Ragazzo su “Il Corriere della Sera”. La parola «leghista» nel testo di un’esercitazione di italiano scatena la polemica. A sollevarla è il Carroccio attraverso Michele Pesavento, della segreteria politica del partito di Vicenza. Sotto accusa è una traccia per un esercizio di argomentazione proposto da un’insegnante di lettere agli alunni di una classe terza dell’istituto tecnico Ceccato di Thiene. «Dopo aver preso in considerazione i dati sull’immigrazione in Italia e dopo aver letto l’articolo – si legge nel documento diffuso - scrivi un testo argomentativo in cui persuadi un tuo compagno leghista che il fenomeno migratorio non è un problema, bensì una risorsa». Venuto a conoscenza dell’accaduto da alcuni genitori, Pesavento attacca: «Quella traccia è offensiva e razzista, l’insegnante di lettere ha trasformato quell’aula in un “pensatoio politico”». Ed invita il preside a «vigilare su chi ha confuso l’istituto Ceccato con una tribuna elettorale» e la docente in questione «a lasciare a casa tessera e ideologie politiche». Interviene anche il segretario federale della Lega Matteo Salvini: «Pazzesco!», Scrive in un tweet. Il consigliere regionale della Lega Nord Nicola Finco ricorda il caso sollevato da lui stesso sulla presenza dell’eurodeputata Alessandra Moretti, candidata alle elezioni regionali venete per il Pd, ad una festa di un istituto comprensivo di Arzignano prima di Natale. «Basta con la politica in classe. Le aule scolastiche non sono circoli del Partito democratico o della sinistra, serve rispetto – dice – Altrimenti i veri fondamentalisti non sono i leghisti, bensì certi professori di cui si può fare volentieri a meno. Invece di preoccuparsi di leghisti da persuadere, il docente potrebbe spiegare ai ragazzi cosa accade nel mondo in queste ore». L’europarlamentare della Lega Nord Lorenzo Fontana commenta sarcastico il caso di Thiene, Fontana chiosa serio: «La scuola è luogo di istruzione e formazione, non di propaganda politica, anche se è noto come sia un vizio storico della sinistra metterci becco. E poi quel professore dà per scontato l’assunto che l’immigrazione è una risorsa. E se un alunno non la pensasse così che succede? Mi piacerebbe conoscere i metodi di questo prof». E conclude: «Quel professore se proprio ha la fregola della politica può sempre iscriversi al Pd, sempre che non lo sia già. Ma fossi del Partito democratico gli regalerei la tessera. Motivazione: alti servigi al partito e alla causa della sinistra».

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri)

"La scuola italiana in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti si ispiri alle idealità del Fascismo, educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a nobilitarsi nel e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione fascista". Benito Mussolini.

Il fascismo, fin dai primi anni in cui prese il potere si preoccupò di rafforzare le proprie basi ideologiche e il consenso sociale. Uno dei mezzi utilizzati era l'indottrinamento ideologico a partire dalla scuola. Dal neo-governo fascista venne, infatti, approvata la Riforma Gentile che proponeva una nuova forma di organizzazione scolastica, con l'introduzione dell'Esame di Maturità e la Religione come materia obbligatoria. Il partito si preoccupò anche di garantire un'impostazione dei vari programmi secondo un criterio nettamente di parte, introducendo testi scolastici come il noto libro di testo unico per le Elementari. All'organizzazione scolastica si aggiungevano varie forme di indottrinamento legate soprattutto all'attività fisica e alle parate.

Poi le cose son cambiate. E’ nato l’indottrinamento comunista e di sinistra in generale.

Scrive Giorgio Israel. Un ragazzino di 13 anni mi dice di detestare la letteratura. Il suo sguardo scettico, mentre gli vanto la bellezza dei classici e gli parlo della Divina Commedia, mi spinge a una sfida temeraria: «Te ne leggo un canto». Procedo temerariamente, aspettandomi sbadigli e il rigetto finale condito del tipico insofferente sarcasmo adolescenziale. E invece funziona. Tanto funziona che il ragazzino mi chiede se non potremmo fare altri incontri e continuare, e poi chiede: «Ma perché a scuola non ci fanno leggere testi così? Guarda invece cosa mi è toccato in questi giorni». È un brano di Gino Strada sugli “effetti collaterali delle guerre”. Lo leggo tutto e non ha niente di letterariamente valido: è una predica ideologica noiosa scritta in modesto italiano. Colgo l’occasione per sfogliare l’antologia del ragazzino: c’è da restare a bocca aperta. Al brano di Strada seguono due pagine di “competenze di lettura” dove l’alunno deve mostrare di aver capito il testo apponendo crocette nelle caselle giuste. Seguono pagine di indottrinamento sotto il titolo “che cosa succede nei paesi dove c’è la guerra”; poi ancora competenze di lettura e scrittura “contro la guerra”, per finire con una pagina incredibile. Contiene una serie di immagini, per lo più banali o stucchevoli, come quella di un gruppo di bambini a cavalcioni su un cannone, e prescrive il seguente compito: «osserva i cartelli contro la guerra, poi scrivi per ognuno una frase-slogan»…

Come la dobbiamo chiamare? Competenza di manifestazione di piazza? È finita qui?

Niente affatto. Seguono le “competenze grammaticali”, in cui l’alunno è invitato a mostrare di saper far uso della locuzione “sarebbe meglio”: riempi lo spazio con i puntini nella frase «Invece di fare la guerra, sarebbe meglio…», e così via. Seguono le “competenze di cittadinanza attiva”, in cui l’alunno deve dar prova di aver assimilato i concetti di conflitto, guerra e pace, costruendo una “mappa concettuale” sul tema. E, come se non bastasse, l’acme di un tormentone di decine di pagine è una “verifica di fine unità” e… una prova Invalsi. Non capisco in base a quale diritto la scuola pretenda di indottrinare i ragazzi all’idea che tutte le guerre siano egualmente sporche. Dovrei forse accettare che i miei figli considerino la guerra di liberazione dal nazifascismo – grazie alla quale sono potuti venire al mondo – alla stregua della guerra scatenata dalle armate hitleriane? Non saprei immaginare una prepotenza più oscena. Ma andiamo avanti. Ometto di fare un elenco completo degli autori che popolano l’antologia, per non offendere nessuno, anche se credo che né Jovanotti né Luciano Violante abbiano mai compreso nelle loro aspirazioni quella di competere con Tolstoj e Pirandello. Consiglio di sfogliare alcune delle antologie che circolano nelle nostre scuole per constatare che ormai questa è la concezione della letteratura che le ispira. E pongo alcune semplici domande.

Qualcuno può davvero seriamente pensare che questo sia un modo valido per instillare l’interesse per la letteratura, per la lettura, per la scrittura? Non è giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla deriva che sta prendendo la funzione istituzionale dell’istruzione?

L’attuale dibattito sulla vicenda della lettura del romanzo di Melania Mazzucco in un liceo romano è tutto centrato attorno al dilemma se sia giusto o no scegliere dei testi adatti a combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere o se tale scelta sia mera pornografia. Pare che per molti, inclusi alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, la funzione della scuola sia ormai meramente ideologica. Si dirà che Melania Mazzucco è una vera scrittrice a differenza di Strada ma, la vera questione è se, a fronte del panorama sterminato di letteratura di livello indiscutibilmente alto, e con cui si potrebbero riempire decine di antologie, si preferisce cancellare Leopardi a vantaggio di testi il cui unico indiscutibile merito è di avere una funzione ideologica. Le denunce legali, che finiranno puntualmente nel nulla, sono un’azione senza senso. È più appropriato denunciare (in termini non legali) la deriva di una scuola che sta rinunciando all’educazione al bello, e la guarda con sarcasmo come se fosse orpello di altri tempi; che rinuncia ad appassionare i ragazzi al piacere di leggere prose e poesie di valore universale, a discuterli in classe senza questionari di competenze e senza pagine pieni di imbecilli quesiti a crocette; lasciando che la determinazione di posizioni su temi come il sesso, la famiglia, la guerra o l’ambiente, sia conseguenza della formazione libera di una personalità strutturata sull’amore per la conoscenza, la cultura, la bellezza artistica in tutte le sue forme. La scuola non dovrebbe impicciarsi di imbastire “lotte” contro questo o quello, di educare a pensare in questo o quel modo, di insegnare a compilare cartelli da portare in piazza, selezionando la letteratura su questi criteri. Perché, così facendo, la sua funzione educativa si trasforma in ciò che vi è di più brutto: l’indottrinamento ideologico. Brutto e diseducativo, perché è caratteristico delle società totalitarie e come tale stimola le peggiori forme di intolleranza.

Non potrò mai dimenticare che, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, Alberto Lecco, un grande romanziere dimenticato – dal cui capolavoro “Anteguerra” si potrebbero trarre brani antologici ben più validi di quelli che vengono propinati – fece questo commento: «Il comunismo finito? Comincia solo adesso…». Aveva ragione. Il comunismo dei soviet, dei comitati centrali e delle commissioni centrali di controllo è finito da un pezzo. Ma il comunismo come costruttivismo sociale, come aspirazione a una società basata sull’indottrinamento ideologico, è più vivo che mai, metastatizzato nella forma del “politicamente corretto” che, sotto la veste di una bontà ipocrita e falsa, propina incessantemente le prescrizioni soffocanti di un conformismo sociale costruito a tavolino, in cui non c’è più spazio per il libero sviluppo della personalità.

L’intellighenzia sinistra non finisce mai di stupire, scrive “Il Fazioso”. Certi professoroni dei nostri licei, dopo l’abituale giro in sezione, si impegnano al massimo per trovare occasioni per fare della sana propaganda nelle scuole. E sono veramente fantasiosi se per il loro scopo piazzano a tradimento persino delle versioni di latino contro Berlusconi. Ora la prof mattacchiona tenta di difendersi in ogni modo, spiegando l’alta importanza didattica della versione. Il preside difende la docente parlando di tentativo di incuriosire gli studenti con l’attualità, ovviamente nessuno ha pensato all’opportunità di una versione palesemente contro il premier. Ma che sarà mai? Ci spiegheranno che non c’è dietrologia politica ma piuttosto educazione d’avanguardia. Il prossimo passo è portare Berlusconi nella matematica con qualche problema sul suo patrimonio finanziario (ovviamente condito da qualche passaggio denigratorio). Quanto sono furbi questi sinistri.

Istruzione o Indottrinamento? Si chiede David Icke su “Crepa nel Muro”. La "istruzione" esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba o il crematorio. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che "la istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola." Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè la università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che la intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa ... Una sera mi trovavo in discoteca, e la pista da ballo era vuota perché il DJ aveva messo su della musica che le persone non volevano ascoltare. Questo insopportabile egocentrico si rifiutò di cambiarla, e io chiesi se fosse una scelta così intelligente, date le circostanze. Quello si indignò. Aveva la prova di essere intelligente, avendo un diploma! Che ridere. La intelligenza fondamentalmente consiste nel rendersi conto che le persone non ballano perché la musica fa schifo, e nel mettere al suo posto qualcosa che piaccia; un diploma consiste nel dire al sistema ciò che esso ti ha detto di dire. Cosa c’è di intelligente in questo? Il sistema relativo alla istruzione, o Programma di Distribuzione Automatico di Salsicce è parte essenziale dello ipnotismo sistemico. Il programma della istruzione è organizzato in modo sistematico con tre principali obiettivi:

1 – Impiantare nella realtà un convincimento in linea con la illusione della Matrice. Questo è abbastanza semplice. Non devi fare altro che offrire agli studenti la versione ufficiale della scienza, della storia, della religione e del mondo in generale. Questo viene fatto programmando gli insegnanti attraverso la scuola, la università e la facoltà di magistero; poi li si manda fuori a programmare la generazione successiva con le stesse fesserie che è stato detto loro di insegnare e di credere. Come disse Oscar Wilde: “Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro passioni una citazione.” La maggior parte degli insegnanti, come anche dei medici, degli scienziati, della gente del mondo della informazione, e così via,è ciò che il mio amico Mark Lambert definisce ‘i ripetitori’. Essi non fanno che ripetere ciò che qualcun altro ha detto loro, invece di accedere attraverso la coscienza alla propria verità. Si tratta di una realtà di seconda mano. Il procedimento è simile a quello dello scaricamento di informazioni su disco (insegnante) seguito dalla sua riproduzione in un gran numero di copie (ragazzi e studenti). Nell’ambito di scuole e istituti superiori si ha il permesso di discutere poco o nulla che esuli da questa versione convenzionale della vita, e i punti di riferimento alternativi dai quali osservare questa realtà indottrinata da una altra prospettiva sono scarsi, sempre ammesso che ve ne siano. I ragazzi passano attraverso questo distributore automatico mentale e nel frattempo vivono con adulti (altri ripetitori) che hanno già assorbito la stessa programmazione, e in più guardano mezzi di informazione (altri ripetitori) che ripete a pappagallo la stessa storia ‘ufficiale.’ Non c’è da meravigliarsi se i ragazzi credono che la illusione sia reale quando ogni fonte di ‘informazione’ dice loro che è così.

2 – Trasformare i ragazzi in robot che seguano gli ordini dell'insegnante (sistema). Ciò richiede il Programma del Bastone e della Carota. Si rende molto più facile ai ragazzi la accettazione del volere degli insegnanti (personificazione del sistema), piuttosto che il mettere in discussione la autorità ed i concetti in cui essi dicono di credere. Ricompensa uno e punisci l’altro. "Fa come ti dico e credi a ciò che ti racconto" viene instillato fin dalla più tenera età in quello indottrinamento che chiamiamo scuola, istituto superiore e università. Gli esami rappresentano il sistema che richiede di sentirsi dire ciò che ti hanno detto che devi pensare. Sono la prova che conferma se un download sia andato o meno a buon fine. Quando fate il download di qualcosa su un computer, appare un piccolo box con la scritta: "Vuoi aprire questo file adesso?" Voi lo aprite per assicurarvi che i dati siano stati scaricati correttamente. E’ questo che sono gli esami. I bambini indipendenti, che rifiutano il download, vengono considerati una influenza distruttiva. Avete notato che – mentre possono esserci disaccordi su come si insegna ai ragazzi – raramente vi sono discussioni su cosa viene loro insegnato? Questo perché la Matrice ha una tale presa sulla realtà umana che il cosa venga insegnato è accettato pressoché universalmente. In verità, se le scuole introducessero corsi sulla spiritualità in relazione alla Unità di tutto e alla illusione della forma, i genitori controllati dal Programma Divino protesterebbero furiosamente contro questa offesa alla loro fede cristiana, islamica, ebraica, ecc. ai bambini non solo viene somministrato del veleno per bocca, ma anche attraverso la mente.

3 – Soffocare nella popolazione/bersaglio (ragazzi) qualsiasi idea di unicità e spontaneità. Le scuole sono per lo più zone proibite alla spontaneità e al libero pensiero perché sono consumate dalle regole. Questa è una perfetta preparazione al mondo degli adulti, il quale è strutturato nello stesso modo. La unica differenza è che gli insegnanti per adulti si chiamano agenti di polizia, funzionari statali, ispettori del fisco, più tutti gli altri cloni - per la maggior parte ignari – al servizio della Matrice. Stavo leggendo che in Inghilterra, in una scuola secondaria, è stato proibito agli alunni di tenere per mano o abbracciare il proprio fidanzatino / fidanzatina allo interno dello edificio. Il preside si è giustificato dicendo che un tale comportamento non sarebbe stato consentito ad adulti sul luogo di lavoro. I ragazzi vengono plasmati per diventare una mente collettiva ad alveare, piuttosto che espressioni di unicità. Comportatevi allo stesso modo, e credete allo stesso modo. Un’ultima cosa: perché agli adulti non dovrebbe essere permesso di baciarsi e abbracciarsi sul luogo di lavoro? Accidenti, solo nella matrice lo affetto poteva essere sottoposto ad un regolamento.

Come ottenere l’obbedienza. L'indottrinamento scolastico, scrive Corrado su “Scienza Marcia”. Immaginiamo una ristretta cerchia di persone, un’oligarchia, che voglia mantenere il proprio potere politico/economico sopra una nazione sfruttandone il popolo: quali sono i metodi migliori per consolidare tale potere e renderlo inattaccabile? I metodi sono diversi, anche perché ci sono due strategie di fondo per mantenersi al potere:

1) Quella di esercitare il potere in maniera ferrea e dittatoriale, mostrando palesemente che chi si oppone rischia di venire incarcerato, torturato, ucciso;

2) Quella di fingere di fare tutto il possibile per il popolo, peccato che ci siano i nemici esterni, i nemici interni, le calamità naturali, le crisi ricorrenti del sistema economico, le recessioni, fattori difficilmente controllabili che vanificano gli sforzi che il potere fa “per il bene del popolo”.

Ovviamente questi sono due schemi di massima, che in realtà non si realizzano mai in maniera “pura”. Anche le dittature esplicite nel corso della storia hanno cercato di presentarsi di volta in volta come “necessarie per il bene del popolo, della repubblica, del regno, della nazione” ed hanno cercato di fingere di fare del bene per i propri sudditi. Anche le dittature implicite (come le odierne “democrazie”) pur fingendo di agire per il bene dei sudditi utilizzando il pungo duro con gli avversari più irriducibili, quelli che hanno capito l’ipocrisia del sistema politico e la denunciano, la combattono. Anche nelle nostre finte democrazie che si oppone radicalmente al sistema di potere smascherandone le menzogne rischia di essere incarcerato, torturato, ucciso. In tutti i casi però ci sono degli strumenti che vengono utilizzati da quasi tutte le oligarchie/dittature (esplicita o implicita) per mantenersi saldamente al potere:

- la creazione di finti nemici;

- la divisione del popolo in due o più fazioni che si contrappongono su tematiche di poca importanza (come dicevano i romani “divide et impera” ossia “dividi e governa”);

- il grande risalto dato a manifestazioni di nessun valore, giochi, sport, intrattenimenti futili (ai tempi dei romani c’erano i “circenses”, ossia i giochi del circo);

- la garanzia della sopravvivenza alimentare, senza la quale si rischia una seria rivolta (per governare i romani distribuivano “panem et circenses”, “pane e giochi circensi);

- l’infiltrazione nei movimenti di opposizione di massa per manovrarli a loro insaputa;

- l’utilizzo di tecniche di controllo di massa (tramite l’applicazione delle più raffinate tecniche derivate dallo studio della psicologia di massa, della sociologia);

- il controllo dell’emissione della moneta;

- il controllo sulla formazione della cultura;

- il controllo della scuola;

- il controllo dell’informazione (il cui utilizzo distorto serve anche a nascondere agli occhi della gente la maniera in cui si utilizzano tutti gli altri strumenti di controllo).

Quando avrò più temo forse mi metterò a dimostrare che le nostre “democrazie” sono oligarchie mascherate, che i veri poteri forti che stanno dietro ai burattini che siedono in parlamento non hanno scrupolo ad usare le peggiori forme di violenza e di coercizione contro chi si oppone ad essi. Basterebbe ricordare il clima di violenza e di repressione totalitaria che si è respirato a Genova nel 2001 (governo di destra), e a Napoli pochi anni prima (governo di sinistra) in occasione di due manifestazioni dei no-global per rendersi conto che il potere che comanda le nostre “democrazie” è violento per natura (detto questo non mi confondete con un aderente ai movimenti no-global per carità, non rientro né in quella né in altre etichette). Quando avrò più tempo mi impegnerò a dimostrare come i governi utilizzino tutte le strategie sopra elencate. Per adesso mi limito ad una sola affermazione: sarebbero stupidi se non le utilizzassero. Volete che governi che utilizzano le migliori e più raffinate tecnologie scientifiche (ad esempio per spiare e controllare tutto e tutti) e non usino le più sottili e raffinate strategie di controllo sociale, pensate davvero che si astengano dall’infiltrarsi nei gruppi di opposizione per pilotarli nascostamente ed utilizzarli per i propri fini? Non vi rendete conto che il leader della cosiddetta “opposizione no-global” è un medico che porta acqua al mulino del Nuovo Ordine Mondiale diffondendo il pregiudizio che l’AIDS sia causato dall’HIV? Non vi ricordate di quando il TG della RAI disse che “i servizi segreti italiani erano a conoscenza del piano per il rapimento di Aldo Moro due settimane prima che avvenisse la strage di Via Fani?”. Non vi ricordate di come in quei giorni arrivò una soffiata sul posto in cui era nascosto Moro e di come la polizia evitò di controllare l’informazione? Lo so, l’informazione dei mass-media non aiuta certo a ricordare certi “dettagli” di fondamentale importanza. Se riuscirò un giorno parlerò di come vengono utilizzate tutte queste tecniche di manipolazione/controllo/dominio, ma oggi voglio parlarvi di una di esse in particolare, perché ci lavoro: la scuola. Cosa c’è di meglio della scuola per indottrinare le persone? Se n’era accorta subito la chiesa quando lo Stato Italiano ha deciso di istituire una scuola elementare pubblica. “Orrore! Orrore! - hanno gridato il papa e tutti i preti in coro - sacrilegio! L’istruzione l’abbiamo sempre gestita noi fino ad ora, guai a chi la sottrae al nostro controllo”. Con questo non voglio certo affermare che lo stato abbia inaugurato una scuola pubblica incentrata sulla libertà, perché se l’educazione gestita dai preti era sicuramente di parte, anche la scuola pubblica serviva ad inculcare nei futuri cittadini tutta una serie di idee preconcette: “lo stato è buono”, “il potere è buono”, “il re è buono”, “il re è bello”, “il papa è santo”, “è giusto morire per la patria”, “non ribellarti al potere”. Un tipico esempio è quello della Germania/Prussia ai tempi di Bismarck , il quale affermò senza giri di parola che voleva utilizzare la scuola per infondere uno spirito militaresco nei allievi. A giudicare dai risultati che si sono ottenuti nel giro di 50 anni (Hitler, il nazismo, la seconda guerra mondiale) bisogna dire che quell’indottrinamento militare è stato decisamente “proficuo”. Cosa pensate che sia cambiato da quei lontani termini? La forma sì, certamente la forma è cambiata, ma la sostanza? Nel 2001 ad esempio è stato decretato dal ministro dell’istruzione Moratti l’osservanza di tre minuti di silenzio per commemorare i morti delle torri gemelle a New York, squallida manovra per indurre un’approvazione della guerra USA contro l’Afghanistan e della partecipazione Italiana al conflitto (sebbene in una maniera minore e molto subdola, inviando un contingente al comando degli USA solo dopo l’occupazione militare di quella Nazione e la caduta del vecchio governo). Forse qualcuno pensa che la scuola, almeno quella pubblica, garantisca un confronto fra diversi modi di pensare, diverse opinioni politiche, idee contrapposte. In realtà questo succede limitatamente al fatto che i professori e i maestri hanno diversi orientamenti politici, votano per partiti differenti, e quindi si lasciano sfuggire discorsi e battute contro questo o quell'uomo politico. Per il resto l'omologazione all'interno della classe docente é fortissima, soprattutto quando entrano in gioco la storiografia e la scienza ufficiale, oppure il "sentimento religioso" ed il cosiddetto "amor patrio" (che raramente coincide con il vero amore per la propria terra e per i propri connazionali, mentre troppo spesso é bieco nazionalismo). In tutti questi casi non solo vi é un quasi totale allineamento dei docenti sulle stesse posizioni, ma chi tenta di esprimere il suo dissenso viene spesso trattato come un folle o come un fastidioso rompiscatole. Nei primi anni del 2000 nella scuola italiana (a partire dal già menzionato episodio relativo ai morti dell’11 settembre 2001) si é preso il brutto vizio di indire dei minuti di silenzio per commemorare la morte di alcune persone, facendo così una ben curiosa distinzione fra morti da commemorare e su cui riflettere, e morti su cui é meglio non soffermarsi col pensiero. A quanto pare qualcuno vuole inculcare nelle menti delle persone, e dei alunni in particolare, l'idea che le vite degli esseri umani non abbiano tutte uguale dignità e valore. Per due volte l'iniziativa é stata imposta direttamente dal governo, ma le altre volte sono stati i singoli dirigenti scolastici a decidere "autonomamente" (le virgolette sono dovute al fatto che lo hanno fatto praticamente tutti adeguandosi ad un andazzo nazionale). Di conseguenza l'istituzione scolastica ha cercato di imporre una particolare visione politica della realtà secondo la quale, ad esempio, i 3000 morti delle torri gemelle sono da ricordare e commemorare e sono più importanti sia del milione di iracheni uccisi dalla guerra e dall'embargo negli anni '90, sia dei 3000 bambini che muoiono di fame ogni giorno. Alla stessa maniera i militari italiani (superpagati e volontari) morti a Nassirya sono da ricordare e commemorare per il loro "sacrificio per la pace" a differenza degli operai (sottopagati e sfruttati) che muoiono quotidianamente negli incidenti sul lavoro. In quell'occasione una mia timida espressione di dissenso é stata stigmatizzata dal preside (che era persino contrario alla guerra in Iraq). Non credo che abbia capito che, per quanto mi dispiacesse per la morte di quelle persone, non ritenevo opportuno che la scuola venisse utilizzata per imporre simili commemorazioni dal fine prettamente politico. Avete mai visto una simile commemorazione quando sono morti 10 operai di una fabbrica? A quanto pare per i mass media e per le istituzioni, scuola compresa, la vita di un operaio é meno importante di quella di un militare. Per altro molti militari inviati in Iraq facevano sfoggio nei loro alloggi di simboli fascisti, ed é quindi più che legittimo dubitare del fatto che fossero lì a rischiare la vita per la pace; forse molti di loro si sono ritrovati in Iraq perché attratti dall'alta paga e dalla voglia di un'avventura esotica. Ma la scuola con le sue commemorazioni calate dall'alto impone implicitamente un punto di vista, ed invece che organizzare una riflessione sul conflitto iracheno, una discussione sull'opportunità di quella missione militare all'estero, fa semplicemente da grancassa al trambusto mediatico, e contribuisce al risorgere di quel discutibile "sentimento della patria" che nasconde il rilancio della funzione offensiva dell'esercito; un esercito che, in barba alla costituzione, è stato impiegato in 15 anni per ben 4 volte in operazioni militari al seguito delle guerre statunitensi. Anche quando c'è stata la strage dei bambini in una scuola della Cecenia si è ripetuta a scuola la commemorazione silenziosa; curiosamente questa volta non é stata imposta direttamente dal governo, ma organizzata dal solito trambusto dei mass-media. Ma il copione non è per questo cambiato di molto: siccome i terroristi Ceceni venivano presentati come islamici e siccome gli USA ed i loro alleati erano impegnati in una serie di guerre contro il “terrorismo islamico” qualcuno deve avere deciso di utilizzare anche questo triste avvenimento per orientare la coscienza delle masse, e degli alunni in particolare. E che dire del Papa commemorato col solito minuto di silenzio e ricordato come "uomo di pace"? Proprio lui che col riconoscimento precipitoso delle repubbliche secessioniste della ex-Jugoslavia aveva accelerato un processo che avrebbe portato alla guerra fratricida? Proprio lui che dei preti uccisi nella guerra civile spagnola, aveva beatificato solo quelli fedeli al fascista Franco? E non parliamo delle sue discutibili scelte in ambito religioso per evitare di scrivere un trattato sull'argomento. Intendiamoci, non mi interessa in questa sede discutere sulla bontà o sulla presunta santità del defunto Papa Giovanni Paolo II, quello che intendo rilevare é che la scuola rendendo omaggio alla memoria di alcune persone e dimenticandosi invece di altre, fa una scelta che ha dei significati politici ben precisi, e che puzza tanto di indottrinamento. "La scuola dell'indottrinamento scientifico". Quanto al resto, o meglio, per quanto riguarda tutti gli aspetti controversi della cultura ufficiale che vengono esaminati in questo sito, di confronto e di contrapposizione ce n'é ben poca, ma quello che é peggio è che il confronto o viene vietato o viene ostracizzato in ogni maniera. Se é comprensibile il fatto che i docenti siano stati ingannati da un certo sistema di gestione del potere e della cultura e che quindi non discutano quasi mai argomenti che mettano in dubbio certe presunte verità (in particolare sull'affidabilità della medicina ufficiale, sugli espianti, sull'aids, sulla psichiatria, sulla preistoria), ben diverso é il fatto che quando ci si prova a prospettare un confronto su questi tempi si scatenino i peggiori isterismi che portano perfino a vietare l'approfondimento di certe tematiche controverse. La mia pluriennale esperienza di docente nella scuola superiore mi ha permesso purtroppo di verificare che su certe questioni l'atteggiamento di rifiuto del dissenso e di condanna di chi esprime opinioni difformi é del tutto generalizzato. Ecco un primo esempio.

Espianti e trapianti. Liceo scientifico di Caravaggio, agli inizi del 2000, su proposta di una professoressa la scuola approva una visita ad un ospedale per andare ad assistere in diretta ad un'operazione di trapianto. Al di là del fatto che una simile iniziativa si potrebbe subito giudicare di cattivo gusto, la cosa peggiore è stata la maniera in cui la scuola ha reagito alle proteste contro tale iniziativa. In seguito ad un volantinaggio di protesta della "Lega nazionale contro la predazione degli organi" che cosa ha pensare di fare l'istituzione scolastica per garantire una serena discussione di approfondimento su questo tema controverso? Semplice, ha chiamato un medico favorevole ai trapianti per tenere una conferenza rivolta soprattutto agli alunni delle ultime classi, senza pensare minimamente a prevedere alcun contraddittorio. Come lo volete chiamare questo? … "orientamento guidato"? ...Il caso ha voluto che il giorno stesso in cui era prevista quelle conferenza a favore dei trapianti io fossi stato invitato nella stessa scuola a tenere una relazione sull'embargo in Iraq. Si trattava di iniziative all'interno di quella che viene (spesso impropriamente) chiamata "autogestione", uno spazio di alcuni giorni dedicato a dibattiti, discussioni, approfondimenti su tematiche sociali e politiche di attualità. Finita la mia relazione sull'Iraq sono venuto a sapere che subito dopo iniziava la conferenza sui trapianti. Allora ho chiesto ad alcuni alunni responsabili dello svolgimento di quella "autogestione" se potevo partecipare alla conferenza per esprimere pareri opposti a quelli del conferenziere e permettere un contraddittorio. Per essere corretto non sono entrato nella sala in cui si svolgeva la conferenza prima di chiedere ed ottenere un permesso. Risultato: dopo 10 minuti in cui ho contestato alcune affermazioni del relatore ufficiale arriva il vicepreside ha "espellermi". Ma come, non era un'autogestione? No, risponde il vicepreside, in realtà si trattava di una "co-gestione", ossia un'iniziativa gestita dalla direzione scolastica in collaborazione con gli studenti, ed il mio intervento non era previsto. L'idea di approfittare della presenza di un esperto che potesse ravvivare il dibattito e creare un contraddittorio é ovviamente fuori dalla portata di certe persone. Dopo qualche anno è successo il bis in una scuola in cui insegnavo, quando con una collega di Italiano abbiamo affrontato il tema dei trapianti, facendo leggere articoli pro e contro la donazione degli organi (da notare che la mia collega è moglie di un medico che ha lavorato in rianimazione e certificato alcune “morti cerebrali”), ed a fine anno abbiamo pure organizzato una presentazione ai genitori ed alla scuola il lavoro da noi svolto. In questo “happening di fine anno” sono stati anche presentati i dati:

fra gli alunni di quella classe (primo liceo) che hanno approfondito l’argomento, nonché fra i genitori che erano stati coinvolti nella discussione, l’80% era contrario alla “donazione degli organi”;

fra gli alunni di un’altra classe (sempre una prima liceo), che non aveva mai approfondito la tematica, nonché fra i loro genitori, l’80% era favorevole alla “donazione degli organi”.

In quell’occasione io ho anche espresso (cercando persino di moderarmi a causa della mia “veste istituzionale”) alcune mie perplessità sulla donazione degli organi, mentre un dottore (il marito della mia collega) ha espresso la sua convinzione sulla correttezza della dichiarazione di “morte cerebrale” pur facendo alcuni distinguo sulle modalità con cui avveniva la “donazione”. Risultato: il preside mi ha additato al pubblico disprezzo come indottrinatore durante una riunione collegiale dei docenti della scuola (lo ringrazio per avermi considerato così bravo da indottrinare e convincere non solo i miei alunni ma persino i loro genitori che hanno solo ricevuto dei materiali di opposte tendenze sul trapianto e la donazione degli organi). Come se non bastasse durante un colloquio personale mi ha precisato che i docenti che avevano fatto propaganda esplicita alla donazione degli organi hanno agito bene, mentre io che ho provato (con tutti i miei limiti) ad informare sul pro e sul contro della questione ho agito male ed ho indottrinato gli studenti !!! Ah dimenticavo, il mio preside si vantava di “essere di sinistra” (e che vuol dire)? Ah dimenticavo, due anni dopo hanno fatto in un’altra classe un lavoro di ricerca sui trapianti, avendolo saputo mi sono offerto come collaboratore per contribuire ad una informazione non settaria. Non solo mi hanno escluso, ma nei lavori dei ragazzi non ho visto traccia del dubbio, nemmeno del dubbio, che trapianti/espianti potessero essere poco utili e poco etici. Avete capito come funziona la scuola?

E poi c'è ancora un'altra storia.

"Raccogliamo soldi contro il cancro". Sempre nella stessa scuola mi sono opposto alla raccolta di fondi per un’associazione che “lotta contro la leucemia”, che sostiene i trapiantati di midollo (e che quindi propaganda, sebbene indirettamente, il trapianto di midollo). Ho provato per 4 anni a chiedere su quali basi scientifiche si potesse affermare che il trapianto di midollo fosse utile nella cura della leucemia, e devo dire che a volte ho litigato ferocemente con alcuni docenti (povero me, com’ero ingenuo a quei tempi!). Per 4 anni mi hanno detto che “le prove ci sono”, “te le porteremo prima o poi”. Poi ho chiesto per telefono all’associazione “contro la leucemia” e avessero tali dati. “Non ne abbiamo - è stata la risposta - si rivolga ai medici dell’Ospedale”. Poi finalmente mi sono rivolto a Internet (perché non ci ho pensato prima?) e ho scoperto che la mortalità per leucemia è del 67%, quella per trapianto di midollo … indovinate! Intorno al 66% (con la maggior parte dei decessi nei primi due anni dal trapianto). Un’ottima cura quella del trapianto non c’è che dire, tanto è vero che in quella scuola si usava raccogliere fondi per “la lotta alla leucemia” in memoria di una ragazza leucemica che era stata trapiantata ben due volte ed era morta. Due insuccessi non sono bastati per aprire gli occhi. E adesso cosa credete che sia successo quando ho stampato quei dati (presi dal sito del ministero della sanità e dal sito dell’Istituto nazionale dei tumori) e li ho mostrati ai miei colleghi? Niente, niente di niente, tutto come prima. E si continuano a raccogliere fondi. Avete capito come funziona la scuola?

No, no, non è finita, perchè è la volta del'AIDS!

AIDS: Vietato dissentire. Sempre la solita scuola, propongo di realizzare in alcune classi un lavoro di confronto pro e contro l'ipotesi che l'HIV causi l'AIDS, mi riesco persino a procurare due medici relatori di opposte tendenze. Inizio ad approntare il materiale di studio, pro e contro, presento il progetto in presidenza (anche per i finanziamenti, per quanto piccoli, del caso), e per correttezza lascio (con grande anticipo) una copia del progetto ai colleghi di scienze per stimolare il dibattito e per verificare se da parte loro ci fossero eventuali perplessità. Risultato: i colleghi di scienze non dicono niente fino alla riunione del collegio docenti in cui si discutono i vari progetti ... poi d'improvviso in quell'occasione esplodono tuonando contro di me e dicendo che il mio progetto è pericoloso. E d'altronde come dargli torto? Sì, è pericoloso, i ragazzi potrebbe iniziare a pensare con la loro testa. Ma di cosa avevano paura? Se l'AIDS fosse sicuramente una malattia virale ci vorrebbe poco a smontare le tesi di chi pensa che siano altri i fattori che scatenano tale mortale sindrome. Se fosse tutto così vero, così sicuro, un approfondimento tematico da parte degli studenti, persino un confronto coi fautori di teorie differenti li rassicurerebbe sul fatto che l'AIDS è una malattia infettiva e che bisogna difendersi con ogni mezzo dal contagio dell'HIV. Eppure ... vietato, sissignori, vietato! I dogmi sull'AIDS non si possono discutere. Ovviamente tutti i colleghi intimoriti dalla levata di scudi del team di scienze cosa pensate che abbiano votato? Vietato, vietato, proposta da bocciare! Però questa volta c'è il lieto fine. Uno dei colleghi di scienze ha avuto il coraggio di approfondire la questione, leggere i libri dei "dissidenti" e degli "eretici", confrontare le loro tesi con quelle ufficiali, e poi alla fine dell'anno dichiarare di fronte ai docenti tutti che si era convinto che l'AIDS non fosse una malattia infettiva. Un'altra collega a fine anno mi ha confessato che aveva più dubbi che certezze sull'argomento. Due docenti di scienze su 5 non è poco, specie se sono gli unici che si mettono in discussione, perchè in tal caso la percentuale sale al 100%. Poi ho scopeto che una docente di scienze era particolarmente contraria al mio progetto: aveva lavorato come volontaria in Africa per "curare i malati di AIDS"! Penso proprio che non avrebbe mai accettato di mettere discussione il proprio operato.

Ooops, non è finita! Che ne dite di Telethon?

Soldi per la ricerca genetica. A me non piace per niente (a dire poco) perchè finanzia la vivisezione, perchè la ricerca genetica credo abbia finalità ben diverse da quelle dichiarate, perchè i geni sono solo una parte del problema ma è fondamentale l'interazione con l'ambiente: ci sono diversi casi di malattie "genetiche" che non si manifestano se si segue una certa alimentazione. Ma la lista sarebbe è lunga. Per farla breve, in un'altra scuola (tanto il problema è sempre lo stesso) l'anno scorso si sono raccolti fondi per Telethon, io ero contrario, ho comunicato la mia contrarietà ai docenti che hanno sostenuto l'iniziativa (tali iniziative ovviamente non vengono discusse in nessuna sede, vengono approvate tout court!) e al preside. Dietro mia richiesta e insistenza l'unica motivazione che sono riusciti a produrre per una tale raccolta di fondi è che "si spera che queste ricerche alla fine producano qualche risultato positivo". Qualcuno mi ha detto che però "i ragazzi sono stati informati", non hanno donato soldi a scatola chiusa. "Informati come?" chiedo io. "Con gli opuscoli Telethon!" è l'ingenua risposta. A quanto pare quando si parla di medicina la par condicio non esiste, la scienza ufficiale non si tocca. Avete capito come funziona la scuola?

“Si cambia partendo dai bambini”: prove tecniche di indottrinamento? Scrive il Comitato Articolo 26. Prima di questo, si consiglia di leggere l’articolo precedente (200 milioni per l'educazione di genere) per comprendere i presupposti a partire dai quali vengono sviluppati i ragionamenti qui riportati.

Istruzione: 200 milioni per l’educazione di genere! Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università  è il nome di una nuova proposta di legge che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di prevenire  il femminicidio e di combattere le discriminazioni. Cosa ci potrai mai essere di male in una iniziativa simile e chi potrebbe non condividere finalità così nobili? Per esempio chi, informandosi e approfondendo, ha visto cadere il velo dell’apparenza e ha ormai chiaro che per “genere” non si intende (solo) il sesso femminile contrapposto al maschile, ma tutta una concezione della sessualità e della persona.  Al contrario, chi si limiterà a restare in superficie accontentandosi di qualche slogan senza volersi affacciare ai contenuti più profondi della “rivoluzione gender”, forse continuerà a ritenere le voci critiche come posizioni incomprensibili e reazionarie, ma con il rischio concreto di venire manipolato da un’ideologia che cerca di far credere che neppure esista. L’attuale classe politica avrà una responsabilità enorme nel caso in cui voglia volgere lo sguardo altrove per non vedere che dietro ai concetti di “educazione alla parità” o di “decostruzione degli stereotipi sessisti”, in realtà si cela una visione radicale ed inaccettabile della persona, dell’identità sessuale e della famiglia. Lo ripetiamo: se l’unica finalità di questi programmi fosse educare al rispetto tra maschi e femmine, valorizzare il ruolo delle donne nella storia o criticare l’oggettivazione dei corpi femminili nelle pubblicità, ne saremmo tutti ben lieti. Ma come è ormai manifesto nelle gender theories, come viene recepito da svariati documenti internazionali e poi messo in pratica anche in molte scuole di casa nostra, educare “alle differenze di genere” troppo spesso sottintende condurre i giovani all’indifferentismo sessuale e al non concepirsi come donne o uomini, ma come individui per i quali la caratterizzazione sessuale, l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono fluidi, continuamente modificabili e in fin dei conti irrilevanti. E’ emblematico il fatto che quando si parla di  stereotipi di genere, si finisca sempre a parlare di stereotipi in base all’orientamento sessuale (come del resto fa anche la risoluzione n.2011/2116 per l’eliminazione degli stereotipi di genere in Europa, che la suddetta proposta di legge richiama). Il percorso classico è partire sottolineando le differenze individuali (una donna camionista o un ragazzo amante del  cucito) per arrivare ad affermare che le differenze non esistono affatto, vale a dire che non esiste un quid che sostanzia naturalmente l’umanità come divisa in maschi e femmine. Cosa ne deriva? Che non solo sarebbe indifferente come nasciamo, ma anche il nostro orientamento sessuale, pena il diventare discriminanti. E a partire da questo presupposto, la mamma che fa la torta o la bambina che culla la bambola diventano immagini che indurrebbero ad una disparità tra maschi e femmine e alimenterebbero una cultura misogina: ecco quindi che vanno eliminate dalle teste (e dai testi) degli studenti. Un esempio di educare alle differenze sarebbe il libro “Mi piace Spider Man”, che viene consigliato alla scuola materna dai 4 anni (?!?). La piccola protagonista deve combattere non pochi “stereotipi” per conquistare la sua cartella “da maschio” che le piace tanto. E va bene; ma perché qualche pagina dopo, le fanno dire – a lei che di anni ne avrebbe sei – che ha capito che “da grande potrà avere un fidanzato o una fidanzata”? A sei anni? Come ha scritto pochi giorni fa Karen Rubin su “Il Giornale” a tal proposito,  non si considera che “di un universo femminile che contempla più volti, i bambini piccoli conoscono solo la parte che li riguarda… Poco importa che faccia l’astronauta o la dottoressa: la mamma il piccolo la vorrebbe sempre con sé. E’ degradante tutto ciò?… Si sogna una società dove padri e madri siano interscambiabili e le torte non siano più menzionate, neanche fossero droghe pesanti… C’è un errore in tutto questo. La mamma che cucina e la bambina che culla la bambola non sono stereotipi, sono ruoli di genere che si legano strettamente all’identità di ogni essere umano. Se la mamma prepara il cibo per il suo piccolo non trasmette debolezza ma amore. Se il padre è virile perché protegge i figli e la moglie manda un messaggio di forza e coraggio. Se invece picchia la sua compagna non è una questione da ridurre a stereotipi”. E come conclude la Rubin “duecento milioni di euro – questo l’esborso per questa riforma scolastica a carico nostro, che siamo abituati ad autotassarci per dotare di carta igienica le scuole  dei nostri figli - sono davvero sprecati per censurare le immagini. Usiamoli per educare gli uomini e lasciamo in pace i bambini“.

In un paese democratico sui banchi di scuola ci si dovrebbe sedere per imparare l’arte lunga e difficile della vera libertà, e non per subire un indottrinamento, che appoggia per altro su discutibili basi filosofico-teoretiche spacciate per scientifiche. Da quanto si evince da una recente intervista apparsa su La Repubblica, non la pensa così Valeria Fedeli, PD, vicepresidente del Senato, che parla proprio di un insegnamento che si vuole rendere normativo e vincolante e il cui contenuto ormai dichiarato è l’ideologia gender. In questa intervista con poche parole viene liquidata un’intera civiltà, basata sulla legge di natura e sulla forma corrispondente di razionalità: “i luoghi comuni che inchiodano maschi e femmine a stereotipi, che ignorano quanto l’altra metà del cielo ha fatto in tutti campi”. Come se la porzione più consistente di questi importanti conseguimenti femminili non fosse stata realizzata all’interno della suddetta civiltà. Ci viene da chiederci se la Fedeli si renda conto che la società che programma di decostruire partendo dalla scuola è proprio quella che l’ha condotta a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Senato (mentre una donna presiede la Camera e si riscontra una parità tra ministri di sesso maschile e femminile); citando delle frasi della sua intervista ci viene da tranquillizzarla, perché i fatti già dicono altro: oggi parlare come fa lei di passività delle donne può giusto essere un vecchio ricordo stereotipato, mentre il tempo di crisi che le famiglie concrete stanno affrontando ha già messo in fuga tutti i principi azzurri su piazza, per cui i sogni delle femminucce si sono adeguati diventando molto più a buon mercato. L’educazione di genere – che dando credito a qualcuno neppure esisterebbe, quasi fosse una teoria del complotto di pochi reazionari – verrebbe così introdotta tramite un apposito disegno di legge nelle scuole e nelle università nell’intento di spazzare via, in nome di una libertà banalizzata,  l’inaccettabile adeguarsi alla verità dei programmi educativi tradizionali, elaborati dalla razionalità del buon senso naturale e presupponenti la differenza sessuale come dato di fatto autoevidente ed  inamovibile. E’ incredibile il prezzo che si è disposti a pagare pur di distorcere la realtà. E’ impressionante il modo semplicistico con il quale il sistema scolastico venga etichettato come anticaglia da cestinare: le elementari vengono banalizzate come fucina di storielle discriminatorie e non come primo stadio della scolarizzazione, più che mai rispettoso della differenza sessuale, non in nome di un’ideologia conservatrice, ma perché indirizzato ad esseri umani, molto vulnerabili e manipolabili, che trovano in tale differenza il loro primo solido orientamento identitario. Nell’intervista della Fedeli si parla di parità, di uguaglianza, di rispetto, di libertà. Parole altisonanti, politicamente corrette, che incantano lettori ed ascoltatori, che mettono d’accordo tutti, ma lasciate come sono del tutto prive di contenuto, diventano oggetto di una manipolazione semantica gravissima, venendo in modo subdolo riempite di contenuti razionalmente inaccettabili. Ma la cosa più paradossale è che questo peana per la libertà si conclude, nel massimo dispregio del principio di non contraddizione, con un’affermazione programmatica dal sinistro tenore totalitario e liberticida: “si cambia partendo dai bambini, gli uomini di domani“. L’avrebbe condivisa Pol Pot. Si parte dai bambini, arrivando a sottrarne l’educazione sessuale ai violenti e retrogradi genitori, perché solo in esseri indifesi e non ancora formati dal punto di vista razionale può sperare di attecchire in profondità una visione dell’uomo tanto priva di base scientifica e per questo lontana dalla realtà come quella propugnata dall’ideologia ipersessualizzata del gender. E vorremmo chiudere permettendoci una riflessione, un appello che speriamo che la prima firmataria della legge voglia ascoltare: è stato preso in considerazione il fatto che il fenomeno della violenza contro le donne è fortemente connesso al fenomeno dell’ipersessualizzazione della società e del mondo maschile? Domanda: siamo certi che l’investimento dei 200 milioni di euro per tirare la volata al gender e agli standard OMS con la loro sovra-esposizione al sesso fin dalla più tenera età non si riveli un doloroso boomerang proprio per il mondo femminile che si vorrebbe proteggere?

L’ideologia oggi è la mancanza di serietà. Una prof racconta, scrive Marina Valensise su “Il Foglio”. Anna Maria Ansaloni è una prof un po’ speciale, è vero. Insegna al Leonardo da Vinci-Duca degli Abruzzi, il liceo tecnico di via Palestro, quartiere centrale. E’ convinta che la scuola non debba fare quello che “vogliono le famiglie”, ma “formare il cittadino”, e pensa anzi che le famiglie oggi siano spesso ignare dei veri problemi della scuola. Ma su un punto conviene con l’allarme lanciato dal presidente del Consiglio, quando difende l’insegnamento libero contro l’indottrinamento ideologico. “I genitori sanno che i loro figli escono dalla scuola sprovvisti delle competenze che invece loro avevano alla stessa età. Per questo, insistono perché la scuola sia più seria, più attenta alle conoscenze di base, più centrata sulla disciplina e sul rigore”. Anna Maria Ansaloni è un’entusiasta, è un’insegnante che adora insegnare. E’ convinta che l’egemonia di sinistra non sia altro che un ricordo sbiadito: “E’ semplicemente morta. La sinistra non esiste più, nel mondo della scuola è irrilevante, mi pare. Tieni conto che la maggioranza degli insegnanti oggi quarantenni ha vissuto gli ultimi vent’anni con Berlusconi. L’ideologia semmai sopravvive come abitudine di costume, nell’occupazione, che non è un fatto politico, ma un rituale di passaggio”. La prof Ansaloni insegna Italiano e storia in una seconda e terza classe, ha le idee chiare e i mezzi per realizzarle: “Il vero dramma è la scuola media, dove i ragazzi disimparano ciò che apprendono alle elementari. Vedo ragazzi che scrivono a matita perché poi così possono cancellare, ma scrivono compiti di otto pensierini che non sono da scuola superiore. Io perciò lavoro molto sul costruire le regole. I ragazzi purtroppo sono molto lenti e disordinati. Vanno educati a un certo ordine nell’esporre gli argomenti, a una notevole quantità di compiti sistematicamente valutati e compresi, alla chiarezza dal punto di vista linguistico. Fraintendimento e intendimento per loro sono la stessa cosa. Per lavorare sul senso delle parole e sulla forma scritta, devi tornare ai testi appresi a memoria, perché senza chiarezza non c’è conoscenza. Devi fargli capire che la fatica è inevitabile, mettere sanzioni chiare e rispettarle”. La professoressa Ansaloni, dunque, ha rafforzato i programmi di lettura. Una volta al mese riunisce gli studenti di 14 e 15 anni nella biblioteca della scuola per discutere con signore di 60 o 70 anni dello stesso libro, e a volte incontrare l’autore. “Mi piace tantissimo parlare con queste signore, mi ha detto un ragazzino, non sono mica come mia madre. Non è l’alunno a parlare, ma il lettore e il lettore è trasversale”. In questo modo si accrescono le competenze linguistiche, si supera un problema didattico. “Noi adottiamo libri di testo inadeguati ai ragazzi” dice infatti la prof Ansaloni. “Per capirli devi decodificarli, e per questo cerco di costruire una sintesi, di fare scrivere i miei allievi su quel testo, di fargli poi valutare cosa realmente ne hanno capito. Dobbiamo ampliare il lessico. Una volta i nostri figli parlavano con 300 parole, ora ne usano 50. Perciò io punto a rafforzare il programma scolastico col lavoro di lettura e di scrittura e la verifica attraverso i questionari. E’ vero che molti miei colleghi non mi seguono, "lasciami stare, mi dicono, con 1.600 euro al mese, per mantenere moglie e due figli devo fare tre lavori". Ma risultati ci sono. Se dico ai miei ragazzi, guarda, quel tizio non ha né artigli né zanne, loro continuano, sì però non voleva essere sbranato. Vuol dire che qualcosa dei ‘Promessi Sposi’ è rimasto: il lessico e la lettura gli si è sedimentata dentro e in modo naturale”. C’è anche un altro handicap dei giovani d’oggi: nessuno scrive più in corsivo. “Il corsivo è scomparso. Abituati col computer e l’sms scrivono tutti in stampatello, alcuni non sanno più come si scrivono certe maiuscole in corsivo. Non è solo una questione di grafia o calligrafia. In stampatello, usano frasi sintetiche di comunicazione, non di espressione: vado, vengo, anziché – penso di venire, avrei intenzione di andare, con una struttura della frase paratattica, senza principali e secondarie, ma con una sfilza di principali spesso con la stessa forma verbale. Il corsivo invece prevede un certo tempo in cui pensi, elabori, unisci le lettere, ti dà una capacità riflessiva, permette un’elaborazione concettuale che implica l’uso di articoli, aggettivi, la punteggiatura, la varietà di forme verbali e l’espressione di sé. Oggi i ragazzi è proprio questo che vogliono evitare:  non sanno né vogliono scrivere di sé, esprimere emozioni, anche se ce le hanno dentro. Allora devi aiutarli. Io per esempio quando leggiamo un sonetto di Dante, ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’, chiedo ai ragazzi di cercare dei raffronti con l’immensità, con Dio, con la spiritualità. Loro li trovano nelle canzoni di Vasco Rossi o Jovanotti, e per me è un successo”. La maggiore soddisfazione, però, Ansaloni dice di averla “tutti i giorni quando entro in classe, perché insegnare mi diverte da morire, quando i ragazzi trascorrono un’ora senza rendersene conto, quando vedo all’intervallo quello con la cresta che ti cita una frase di Manzoni. Adesso sta leggendo il ‘Postino di Neruda’ di Skármeta, e una sua allieva rumena, brava e determinata, che dopo la scuola lavora come babysitter, quasi non ci crede: ‘Professoressa, le metafore le possiamo fare anche noi…’”.

Scuola: arriva il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica. Chi sgarra sarà sospeso. Un deputato del Pdl ha proposto un'aggiunta al testo unico sulla scuola per impedire agli insegnanti di fare propaganda politica. Secondo lui questo avverrebbe soprattutto in Emilia Romagna. A vigilare dovranno essere i dirigenti scolastici, scrive Marta Ferrucci su “Studenti”. Fabio Garagnani, deputato del Pdl, ha proposto una aggiunta al testo unico sulla scuola: il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica.  Dovranno essere i dirigenti scolastici a vigilare e per chi sgarra è prevista la sospensione da 1 a 3 mesi. "L'importante era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare propaganda politica o ideologica per i professori". Per quanto riguarda le sanzioni queste dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo della legge. La propaganda politica" -secondo garagnani- "non può trovare tutela nel principio della libertà dell'insegnamento enunciato dall'Articolo 33 della Costituzione. Un conto infatti è tutelare la libertà di espressione del docente, un'altra è quella di consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica". E sarebbero molti i casi in cui i professori oltrepassano questo limite; per Garagnani accade soprattutto in Emilia Romagna, tra i professori iscritti alla Cgil". Per Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil si tratta di una proposta "delirante" ed ha aggiunto che "gli insegnanti educano, non inculcano". Ha ragione Garagnani o si tratta di una proposta "delirante"?

"Troppi libri comunisti a scuola", Pdl: Ci vuole una commissione d'inchiesta, scrive Agenzia Dire su “Orizzonti Scuola” - Iniziativa di 19 deputati guidati da Gabriella Carlucci, all'indice i testi di storia: "Gettano fango su Berlusconi". Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero "tentativi subdoli di indottrinamento" per "plagiare" le giovani generazioni "a fini elettorali" dando "una visione ufficiale della storia e dell'attualità asservita a una parte politica", il centrosinistra, "contro la parte politica che ne è antagonista", ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita "vergognosa", secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento "non può far finta di non vedere" e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta "sull'imparzialità dei libri di testo scolastici". Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio 2011  e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell'avvio dell'esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: "Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?" E la "battaglia partigiana", secondo il firmatari, viene messa in atto "osannando l'attuale schieramento di sinistra" e "gettando fango sui loro avversari". Per "capire la gravità del problema", sostengono i 19 deputati, "basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli". Scopo della Commissione d'inchiesta? "Verificare quali sono i libri faziosi - spiega Barbieri interpellato dalla Dire - e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero...". Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette all'indice i libri di testo definiti "partigiani", sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi incriminati, specificando che "in Italia, negli ultimi cinquant'anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico" retaggio "dell'idea gramsciana della conquista delle casematte del potere" che "si è propagato attraverso l'insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole". Si cita La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive "tre personaggi storici: Palmiro Togliatti, un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali; Enrico Berlinguer, un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi, uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica". Ma anche Elementi di storia di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, reo, ad avviso del Pdl, di sostenere che "l'ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo". E ancora, la Storia, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 "l'attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell'azione politica delle forze di sinistra e democratiche". E si arriva ai tempi più recenti. "Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell'ideologia comunista in Italia - si precisa nella premessa alla proposta - i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali" e anzi "si rafforzano e si scagliano" contro "la parte politica che oggi è antagonista della sinistra", quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d'inchiesta per verificare "l'imparzialità dei libri di testo scolastici", la messa all'indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l'era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, "osanna" agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: "Il Pds - è scritto - intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane" con "un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese". Si tira poi in ballo la descrizione che L'età  contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: "Dopo aver abbandonato l'esercizio della magistratura per passare all'attività politica nel partito democristiano" si è segnalato "per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari". Ma il testo che più si distingue "per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche" è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l'attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la "combattiva europarlamentare" che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad "allontanare dalle cariche di partito" tutti "i propri esponenti inquisiti". E come viene descritto l'antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, "con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro". Secondo gli autori, "l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese". L'elenco dei libri "naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione".

Bagnasco contro i "campi d'indottrinamento" gender. Scrive Massimo Introvigne su “La Nuova BQ”. Lunedì 24 marzo 2014, aprendo il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che la presiede ha affrontato con grande determinazione la problematica della famiglia e dell’ideologia di genere. «La preparazione alla grande assise del sinodo sulla famiglia, che si celebrerà in due fasi nel 2014 e nel 2015, nonché il recente concistoro sul medesimo tema – ha detto Bagnasco – hanno provvidenzialmente riposto l’attenzione su questa realtà tanto “disprezzata e maltrattata”, come ha detto il Papa: commenterei, “disprezzata” sul piano culturale e “maltratta” sul piano politico». Il cardinale ha inquadrato la natura ideologica del problema: la famiglia è diventata il nemico da abbattere. «Colpisce che la famiglia sia non di rado rappresentata come un capro espiatorio, quasi l’origine dei mali del nostro tempo, anziché il presidio universale di un’umanità migliore e la garanzia di continuità sociale. Non sono le buone leggi che garantiscono la buona convivenza – esse sono necessarie – ma è la famiglia, vivaio naturale di buona umanità e di società giusta». Il cardinale è andato oltre: non è rimasto sul generico, ma ha citato come esempio dei maltrattamenti che la famiglia subisce un episodio specifico, su cui – lo ricordiamo per la cronaca, senza rivendicare primogeniture – per prima «La nuova Bussola quotidiana», nel silenzio generale, aveva attirato l’attenzione. «In questa logica distorta e ideologica – ha detto Bagnasco –, si innesta la recente iniziativa – variamente attribuita – di tre volumetti dal titolo “Educare alla diversità a scuola”, che sono approdati nelle scuole italiane, destinati alle scuole primarie e alle secondarie di primo e secondo grado. In teoria le tre guide hanno lo scopo di sconfiggere bullismo e discriminazione – cosa giusta –, in realtà mirano a “istillare” (è questo il termine usato) nei bambini preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra padre e madre… parole dolcissime che sembrano oggi non solo fuori corso, ma persino imbarazzanti, tanto che si tende a eliminarle anche dalle carte». Durissimo il commento del presidente dei vescovi italiani «È la lettura ideologica del “genere” – una vera dittatura – che vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni. Viene da chiederci con amarezza se si vuol fare della scuola dei “campi di rieducazione”, di “indottrinamento”. Ma i genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati? Si è chiesto a loro non solo il parere ma anche l’esplicita autorizzazione? I figli non sono materiale da esperimento in mano di nessuno, neppure di tecnici o di cosiddetti esperti. I genitori non si facciano intimidire, hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza: non c’è autorità che tenga». Parole chiarissime: altri vescovi prendano esempio. La strategia enunciata esplicitamente da Papa Francesco nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» – il Papa di certe questioni, comprese quelle (citate in nota nel documento come esempio delle «questioni» cui si allude) della famiglia e del gender, non parla, chiede che siano gli episcopati nazionali a intervenire – non piace a tanti nostri lettori, e dalle strategie, che non sono Magistero neppure ordinario, si può certo legittimamente dissentire. Però qualche volta le strategie funzionano: dove tace il Papa, i vescovi parlano. È successo negli Stati Uniti, in Polonia, in Croazia, in Portogallo, in Slovacchia. Ora succede anche in Italia, e non si può non ricordare che – come sempre avviene nel nostro Paese – prima di aprire con questa relazione il Consiglio Permanente della CEI venerdì scorso Bagnasco è andato in udienza dal Papa, cui questi testi sono di regola previamente sottoposti. Vediamo se questa rondine farà, come ci auguriamo, primavera.

Genitori, reagite all'imposizione dell'ideologia gender!. L'edizione di domenica di RomaSette, il settimanale della diocesi di Roma, evidenzia e valorizza l'azione del Comitato Articolo 26 contro i molteplici tentativi di introdurre nelle scuole l'ideologia gender, scrive Giuseppe Rusconi su Zenit.org. Per questa domenica iniziale d’Avvento RomaSette - l'inserto settimanale di Avvenire - ha scelto come articolo di apertura un testo sull’ormai allarmante dilagare anche nelle scuole romane – dagli asili nido in poi - dell’imposizione dell’ideologia del gender, secondo la quale la differenza tra maschile e femminile è solo una costruzione culturale e dunque va “decostruita” nel senso che ognuno non è quel che è e si vede, ma ciò che si sente e pensa di essere. Il titolo è “Gender a scuola. La protesta dei genitori”. In un box si danno indicazioni su un modulo, da inviare al dirigente scolastico dell’istituto dei propri figli, per la richiesta di consenso informato sulle iniziative ‘educative’ improntate all’ideologia del gender. Nella stessa pagina, appare su quattro colonne anche un articolo molto chiaro dal titolo: “Strategia Lgbt, i consulenti sono a senso unico”, accompagnato dall’occhiello: “Ventinove associazioni del mondo gay a fianco dell’Unar (Ndr: il noto Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) per la formazione, otto nei progetti finanziati dalla Regione Lazio. Proposta politica con una bozza di ordine del giorno per il Consiglio comunale: indottrinamento tra i banchi”. Si noterà qui subito che proprio la Regione Lazio – retta da Nicola Zingaretti - ha sborsato 120mila euro per i progetti pro-gender, mentre non si risparmia neppure la giunta Marino di Roma Capitale, grazie anche al sostegno entusiasta dell’assessore alla Scuola Alessandra Cattoi, che ha affidato all’associazione lgbt “Scosse” la formazione delle educatrici degli asili nido e delle scuole materne comunali della città. Nell’articolo di Roma Sette si ricorda il caso scoppiato presso l’asilo nido comunale “Castello Incantato”, in zona Bufalotta, laddove ai pargoli si legge ad esempio la “Piccola storia di una famiglia” (casa editrice Stampatello): tale cosiddetta “famiglia” comprende due donne che si fanno donare il “semino” necessario alla procreazione da una clinica olandese, tanto che alla fine la nascitura avrà “due mamme: solo una l’ha portata nella pancia, ma entrambe, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori”. E’ proprio dal tristo episodio del “Castello Incantato” che ha preso spunto l’idea di alcuni genitori di costituire il “Comitato Articolo 26”. Perché 26? Ci si riferisce all’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: I genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli. Il Comitato è aperto a genitori, docenti, professionisti dell’educazione, di diverso credo religioso e filosofico, che “rifiutano con decisione l’indottrinamento gender nelle scuole italiane di ogni ordine e grado e che rivendicano, in maniera costruttiva, la priorità delle famiglie in tema di affettività e sessualità”. Tra gli obiettivi “diffondere un’informazione oggettiva e scientifica in merito alla cosiddetta ideologia gender”, “vigilare e segnalare gli aspetti ideologici pedagogicamente infondati e pericolosi, di progetti educativi e scolastici relativi a educazione sessuale e/o affettività, educazione alle differenze, lotta alla discriminazione tra bambini e bambine, lotta all’omofobia e/o al bullismo omofobico”, “sostenere e accompagnare il diritto dei genitori ad affermare e perseguire la priorità della propria missione educativa nei confronti dei figli”. Nell’articolo di Roma Sette sulla strategia Lgbt si ricorda inoltre che “a livello nazionale è in piena attuazione” tale strategia triennale, partorita due anni fa dall’Unar “istituito in seno al Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio”. Era il tempo di Monti, poi venne Letta e la strategia andò avanti, così come con Renzi. Del resto è dei giorni 26 e 27 novembre 2014 il corso per dirigenti scolastici organizzato a Roma dal ministero dell’Istruzione e dall’Unar con la collaborazione del Servizio lgbt di Rete nazionale delle Pubbliche amministrazioni antidiscriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Il Gruppo nazionale di lavoro è composto da 29 associazioni di settore, tutte rigorosamente lgbt. Il 23 febbraio scorso, il settimanale della diocesi di Roma aveva già dedicato quasi tutta la prima pagina all’ “operazione ideologica” del “gender in classe”, con un editoriale chiaro, pacato e fermo di don Filippo Morlacchi, in cui il direttore dell’Ufficio pastorale scolastica del Vicariato scriveva: “Anche in altri Paesi europei la potente minoranza favorevole al gender ha dettato l’agenda degli impegni scolastici; ma le associazioni di genitori hanno alzato la voce e prodotto agili pubblicazioni per avvertire le famiglie del fenomeno. Forse è tempo che anche in Italia non solo i cattolici, ma tutti gli uomini convinti della bontà della famiglia naturale si esprimano pubblicamente”. Un auspicio che è stato concretizzato in questi mesi da diverse associazioni e comitati a livello cittadino, regionale, nazionale (in primis la Manif pour tous Italia e le Sentinelle in piedi), in buona parte nell’area cattolica ma aperte a tutti. A livello di diocesi, ricordiamo poi l’esemplare "Nota su alcune urgenti questioni di carattere antropologico ed educativo" dei vescovi del Triveneto per la Giornata della vita 2014, la grave preoccupazione della Conferenza Episcopale toscana e di alcuni altri vescovi. Nelle ultime settimane sono successi altri fatti gravi, oltre alle intimidazioni fisiche e verbali con cui sono state bersagliate in diverse città le Sentinelle. Ad esempio una docente di religione cattolica dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri è stata fatto oggetto ingiustamente di una pesantissima campagna di stampa originata dalle affermazioni (pare del tutto inventate) di uno studente attivista lgbt. Esposta al pubblico ludibrio dai mass-media, nelle prime reazioni a caldo non è stata certo difesa neppure dall’estemporaneamente remissivo arcivescovo di Torino. Grazie ad Avvenire è stata poi ristabilita la verità almeno per i lettori del quotidiano della Cei, oltre che per l’ambiente locale. La diocesi di Milano dal canto suo è incappata in un paio di decisioni che hanno destato molta perplessità tra non pochi cattolici: le scuse ufficiali per un’indagine statistica non certo segreta (rivolta a oltre seimila docenti di religione cattolica) e la negata solidarietà per un docente di religione (sospeso dalla scuola, con l’Ufficio scuola della Curia che ha aperto un procedimento di verifica) colpevole di aver mostrato a nove alunni di una terza liceo un documentario molto realistico, “L’urlo silenzioso”, su quel che succede durante un aborto. E’ stata la fiera dell’ipocrisia interessata, se si pensa alle tante immagini crude sfornate da tg e trasmissioni varie per ragione di audience. Intanto, in pieno sviluppo dell’applicazione della strategia totalitaria lgbt, l’Unione degli atei e agnostici razionali (Uaar), l’Arcigay, la Rete degli studenti medi ha trovato modo il 18 novembre di inviare una lettera allarmata al Ministro dell’Istruzione, all’Unar e alla Presidenza del Consiglio per denunciare che “stiamo assistendo ad un vero e proprio attacco nei confronti degli studenti e del sistema scolastico tutto, da parte di una frangia conservatrice e omofoba del nostro Paese”. Proclamano e minacciano i firmatari: “Il Ministero, e il Governo tutto, devono avere il coraggio di superare i tabù e di non fare della battaglia alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale un mero spot propagandistico. Riteniamo che il Ministero debba adoperarsi affinché tutte le scuole prevedano programmi didattici strutturati, destinati agli studenti, sull’educazione alle differenze, in cui si parli di identità di genere, orientamento sessuale e sesso biologico, e che investa nella formazione degli insegnanti, fornendo loro gli strumenti necessari così da evitare che casi come quelli sopracitati si ripetano”. Non è finita. Tuonano infatti atei, “studenti medi” e Arcigay: “Chiediamo, infine, di coinvolgere nei tavoli ministeriali le realtà sociali, le associazioni e le organizzazioni studentesche che da anni combattono le discriminazioni e l’omofobia e di far sì che questi percorsi producano finalmente soluzioni concrete”. La lettera contiene poi già una velata minaccia per gli istituti cattolici paritari, che certamente la lobby sogna costretti ad accettare l’auspicato indottrinamento oppure a chiudere. Nel resto d’Europa tentativi di tal genere sono già in corso, come in Gran Bretagna o sono minacciati, come in Francia. Insomma: la legge “antiomofobia” a firma Scalfarotto ancora non è stata approvata e già produce i suoi effetti liberticidi, dato che – oltre alle intimidazioni continue – i propugnatori dell’ideologia del gender si fanno sempre più sfrontati. Il rischio è che, considerato quanto è successo fin qui, molti scelgano il silenzio per evitare di essere lapidati dai media della nota lobby. Quel che è capitato del resto a Guido Barilla è estremamente significativo. Sbilanciatosi l’anno scorso in favore della famiglia del ‘Mulino Bianco’, è stato coperto di insulti e minacce; ha così ritenuto molto opportuno profondersi in mille scuse e agire in modo tale che oggi la Barilla è pienamente riabilitata. Come scrive il Washington Post  ha ottenuto 100/100 nella classifica delle imprese gay-friendly, avendo in un anno fatto “una marcia indietro radicale, aumentando i benefit sanitari per i dipendenti transgender e le loro famiglie, donando soldi per le cause dei diritti gay", oltre che ingaggiare consulenti come il “gay più potente d’America”, David Mixner, fiero dei risultati ottenuti. Ora per la Barilla del Guido rieducato mancano solo gli spot con protagoniste coppie omosessuali. Non temete, verranno presto. Si dovrà poi vedere se qualcuno non preferirà a quel punto assaporare un altro tipo di pasta.

GENERAZIONI DI IGNORANTI. L'ABBANDONO SCOLASTICO.

Ecco quanti studenti non vanno a scuola. L'abbandono scolastico è una vera e propria piaga senza fine. Ecco i numeri di questa tragedia, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. La "campanella" non è suonata per tutti. Lunedì scorso è stato primo giorno di scuola per gran parte degli studenti italiani, per molti altri bambini e adolescenti, invece, è stato un lunedì come tutti gli altri: nessuna ansia per le nuove materie, nessuna preoccupazione per i professori e meno che mai per eventuali brutti voti in pagella. Per questi ragazzi è sconosciuto non solo il suono della campanella d’inizio lezione ma persino l’edificio scolastico. In Calabria, i Carabinieri hanno denunciato 165 nuclei familiari che non hanno iscritto i propri figli alle scuole dell’obbligo. Le motivazioni? In base agli accertamenti effettuati dai militari, sono molteplici spesso aggravate da condizioni socio-economiche difficili in cui i minori sono vere risorse per la famiglia che li avvia a saltuari lavori piuttosto che alla gestione quotidiana di mansioni di controllo su fratelli più piccoli. Ma la mancata frequenza o l’abbandono del percorso di studi è un serio problema che affligge molte Regioni del Sud Italia anche se con delle insospettabili aree del Centro-Nord. Ma chi abbandona lo studio o non inizia neppure? I maschi o le femmine? Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione la maggiore propensione all’abbandono scolastico, è da parte degli alunni di sesso maschile ed è particolarmente evidente nelle aree più disagiate del paese: per la scuola secondaria di I° grado, la differenza è particolarmente elevata soprattutto in Sicilia, Sardegna, Campania e Calabria; per la scuola secondaria di II grado oltre alla Sicilia, alla Sardegna, Calabria e alla Puglia spiccano, a sorpresa, anche le Marche e la Liguria. Gli alunni a “rischio di abbandono scolastico” se analizzato per fasce di età ha dimensioni molto diverse. Ad esempio, per la scuola secondaria di I grado, il 17,6% degli alunni a rischio di abbandono ha un’età inferiore ai 14 anni, il 43,7% un età compresa tra i 14 e i 16 anni, il 34,3% è tra i 16 e i 18 anni e il 4,4% è sopra i 18 anni. Quanto alla scuola secondaria di II grado, la composizione percentuale per età mostra che appena lo 0,1% degli alunni “a rischio di abbandono” ha meno di 14 anni, il 6,1% ha un età compresa tra 14 e 16 anni, il 28,8% è tra i 16 e i 18 anni e ben il 65% ha raggiunto la maggiore età. Infine, analizzando la percentuale degli alunni “a rischio di abbandono” sugli iscritti a settembre 2013, emerge che l’1,24%, calcolato considerando gli alunni di tutte le età, scende allo 0,24% nell’ambito dell’età dell’obbligo, ossia considerando gli alunni fino ai 16 anni di età. L’Anagrafe Nazionale degli Studenti del Ministero dell’Istruzione, ha registrato che nell’anno scolastico 2011/2012 il numero di alunni “a rischio di abbandono” è stato di 3.409 ragazzi per la scuola secondaria di I grado (0,2% degli alunni iscritti a settembre) e di 31.397 studenti per la scuola secondaria di II grado (1,2% degli alunni iscritti). Nella secondaria di I grado, gli alunni “a rischio di abbandono” sono prevalentemente iscritti al secondo e al terzo anno; il fenomeno è più evidente nella scuola secondaria di secondo grado in cui l’abbandono interessa prevalentemente il terzo e quarto anno di corso. In Italia l’unica Regione ad avere raggiunto il target europeo, con un valore dell’indicatore pari al 9,9% è il Molise. Il fenomeno dell’abbandono scolastico continua a interessare in misura più sostenuta il Mezzogiorno, con punte del 25,8% in Sardegna, del 25% in Sicilia e del 21,8% in Campania. In confronto al 2011, Marche, Trentino Alto Adige, Liguria e Umbria registrano un miglioramento rispetto agli anni precedenti. Ma com’è il grado di istruzione in Italia rispetto agli altri Paesi d’Europa? Nella graduatoria dei ventisette Paesi UE, in base ai dati del Miur, l’Italia occupa ancora una posizione di ritardo e si colloca nella quart’ultima posizione, subito dopo il Portogallo. Il divario con il dato medio europeo è più accentuato per la componente maschile (20,5% contro 14,5%), in confronto a quella femminile (14,5% contro 11,0%).

MENO STUDENTI E PIU' PROF DI RELIGIONE.

Scuola, aumentano ancora i prof di Religione. Ma sempre di meno gli studenti. Secondo i dati diffusi dalla Cei riferiti all'anno 2013-2014 i docenti sono aumentati del 3,7%. Ma aumentano anche i ragazzi che preferiscono dedicarsi ad altre attività, dall'11,1% all'11,5%. Oltre 600 milioni annui il costo per lo Stato, scrive Salvo Intravaia su “La Repubblica”. E' un settore che non conosce crisi quello degli insegnanti di Religione. Uno dei pochi, nel nostro Paese. Nonostante l'inesorabile calo di alunni che seguono la materia, come avviene ormai da alcuni anni a questa parte, i prof di Religione continuano a crescere. Con un costo per le casse dello Stato che ha superato abbondantemente il mezzo miliardo di euro all'anno. Ma quello che interessa gli insegnanti di Religione sembra un aumento davvero inarrestabile, e per certi versi inspiegabile, visto che anche nell'anno appena concluso gli insegnanti di Religione hanno fatto registrare l'ennesimo saldo positivo. Il dato emerge dall'annuale rapporto pubblicato qualche giorno fa dal Servizio nazionale della Conferenza episcopale italiana per l'insegnamento della Religione Cattolica sui dati relativi all'anno scolastico 2013/2014. Un dossier ricco di dati sugli alunni che si avvalgono della Religione  -  ancora in calo  -  e di una serie di numeri sui docenti di Religione Cattolica. Che in appena dodici mesi, certificano dalla Cei, sono aumentati di 839 unità, pari al 3,7 per cento. Un dato che potrebbe essere ancora più consistente considerato che nel 2012/2013 vennero censite le scuole ricadenti in 201 diocesi, mentre per l'anno successivo sono stati raccolti i dati relativi a 194 diocesi. Mentre, nello stesso periodo, gli alunni che preferiscono dedicarsi ad altre attività quando entra in classe l'insegnante di Religione sono cresciuti dall'11,1 all'11,5 per cento. E se l'aumento dei docenti specialisti nelle scuole elementari e materne può essere giustificato dal pensionamento delle maestre "generaliste" in possesso anche della certificazione per insegnare Religione, l'aumento dei prof di Religione alle Medie e alle Superiori sembra davvero inspiegabile. Perché il loro numero segue quello delle classi, che è cresciuto di pochissimo giustificando l'assunzione di appena 61 insegnanti in più e non i 344 in più che figurano nel bilancio annuale. Secondo i dati del bilancio di previsione per il 2014, tutti gli insegnanti di Religione  -  individuati dagli ordinari diocesani, che rilasciano l'attestazione per insegnare la disciplina  -  costano 668 milioni di euro all'anno. Una cifra che comprende anche i finanziamenti per remunerare le attività alternative alla Religione.

"LA BUONA SCUOLA" TRA ECCELLENZE E ASSENTEISMO.

"Ecco la buona scuola". Lettera aperta al Premier Matteo Renzi (e al Ministro Giannini e ai referenti dell’Istruzione in Italia).

Gent.mo Presidente Renzi, mi chiamo Daniele Manni, sono un docente di Lecce e, pare, sono fra i 50 finalisti al mondo candidati al titolo internazionale di Premio Nobel per l’Insegnamento, il “Global Teacher Prize” della Varkey Gems Foundation. In Europa siamo solo in nove e due in Italia (quasi il 30%), anche se so perfettamente di essere solo stato fortunato ad avere qualcuno che si è preso la briga di segnalare il mio operato alla Fondazione perché, dietro questa punta di iceberg, sono certo si nascondono centinaia di colleghi altrettanto meritevoli di questo “titolo”, i quali lavorano, sperimentano e innovano ogni giorno, nel silenzio delle loro aule, fianco a fianco con i loro fortunati studenti. Ho deciso di scriverle perché oggi sono “qualcuno” e questo mio quarto d’ora di notorietà durerà appena un mese, fino a quando non diverrò un banale “ex” finalista e le mie parole avranno certo un peso diverso. Cosa le chiedo? Niente di più di quanto lei non stia ripetendo negli ultimi giorni, ossia più considerazione in Italia per la professione docente, più “ritmo” nella scuola. Solo che, oltre ad ascoltare e ad apprezzare i suoi nobili intenti, mi piacerebbe che in questo nuovo anno vedessimo azioni concrete, un po’ come facciamo noi “bravi” insegnanti “da Nobel” con i nostri alunni, agendo e creando risultati e non solo annunciando cambiamento e innovazione. E di azioni concrete per riqualificare il nostro ruolo nella società italiana me ne vengono in mente due. La prima, a rischio di sembrare banale, è quella di rendere semplicemente “dignitoso” lo stipendio che ci viene riconosciuto, perché oggi, dignitoso, non lo è affatto. Se, pur essendo i peggio pagati e ricevendo poca o nulla stima dalla società civile, riceviamo lode e attenzione internazionale e la nostra opera quotidiana rende la scuola italiana una delle “istituzioni” più apprezzate dalla cittadinanza (al terzo posto, dopo Papa Francesco e le Forze dell’Ordine*), chiedo a Lei e al governo che rappresenta, cosa potrebbe essere la Scuola italiana se il corpo docente ricevesse più credito e dignità? Come pensa che la società possa apprezzare una figura così importante per la vita ed il presente (non solo il futuro) dei nostri figli se lo Stato è il primo a ridicolizzarne il lavoro con un riconoscimento inadeguato? Comprendo benissimo che questo è un momento certo non facile per mettere sul tavolo un piano di aumenti per la categoria, ma qualche primo, piccolo segnale non sarebbe affatto una mossa errata. Se si sta chiedendo se questo mio è un tentativo per ottenere ciò che in tanti non sono riusciti negli ultimi vent’anni, la risposta è …sì. La seconda possibile azione è quella di ideare e realizzare iniziative concrete atte a valorizzare la professione, approfittando anche di ogni possibile occasione per enfatizzare, rendere pubbliche e diffondere le opere meritorie e le persone meritevoli nella scuola, ogni qualvolta se ne presenta l’opportunità. Vuole qualche esempio? La Varkey Gems Foundation ha come mission quella di alzare il livello di considerazione dell’insegnamento e si è inventato un premio da 1 milione di dollari per accendere i riflettori di tutto il mondo su questa straordinaria professione (sempre che il governo ed il ministero italiano abbiano, anch’essi, questa mission). E’ vero, loro sono ricchi e hanno i soldi, ma quanta ricchezza abbiamo noi italiani in termini di creatività ed inventiva? E non sta certo a me suggerire modi e metodi efficaci. Concludo augurando a noi docenti che lei possa prendere minimamente in considerazione quanto le ho scritto e augurando a Lei, ai suoi cari e a tutto il suo staff un 2015 proficuo, sereno e ricco di sorrisi. Con grande rispetto e fiducia. Daniele Manni.

Assenteismo, sono i docenti calabresi a “marinare” più volte la scuola, scrive Alex Corlazzoli su “Il Fatto Quotidiano”. La rivista “Tuttoscuola” ha raccolto gli ultimi dati sulle assenze nelle aule italiane. I maestri della scuola dell’infanzia sono costretti a letto più spesso dei professori delle superiori. I più diligenti sono gli insegnanti piemontesi, Calabresi, sardi e siciliani si ammalano più dei docenti piemontesi, marchigiani e veneti. A tracciare la mappa dell’assenteismo nelle scuole italiane è la rivista “Tuttoscuola” che ha raccolto gli ultimi dati disponibili per fare una fotografia delle assenze nelle aule italiane. Primo dato: a essere costretti a letto sono più i docenti della scuola dell’infanzia che i professori delle scuole superiori. E se gli insegnanti si assentano per malattia in media 11,33 giorni, il personale Ata (ausiliario tecnico, amministrativo, bidelli) e i tecnici di laboratorio, stanno a casa in media 16,93 giorni lavorativi con punte oltre i 19 giorni per il personale non docente ligure (19,77), emiliano-romagnolo (19,37) e laziale (21,3). Ma a fare da capofila dell’assenteismo è la capitale del lavoro, Milano dove i bidelli si ammalano 21,3 giorni medi. La lente d’ingrandimento di “Tuttoscuola” è andata a vedere cosa succede nelle aule di Nord, Centro e Sud. Ad avere una salute di ferro sono coloro che hanno una cattedra in Piemonte: hanno accumulato nove giorni di assenza nell’anno. A seguire i marchigiani con 9,4 giorni e i veneti che arrivano a 9,6 giorni. In fondo alla classifica i docenti calabresi che si assentano quasi il doppio dei colleghi piemontesi ovvero 15,4 giorni: il loro primato riguarda tutti gli ordini di scuola con una punta a sfavore dei professori della scuola superiore di primo grado che arrivano a 17,7 giorni medi all’anno. Ciò significa che prof e maestri calabresi fanno in media tre settimane a letto l’anno. Ad avere la salute cagionevole sono anche i sardi con i loro 13,7 giorni di assenza e i siciliani che ne accumulano 13,6. Il settore dove si sono registrati più problemi è la scuola dell’infanzia che ha registrato un 12,1 giorni pro capite di assenza con punte elevate in Calabria (15,26), Sicilia (14,48) e Lazio (14,34). Segue la scuola secondaria di primo grado dove i professori hanno dovuto fare ricorso al medico 11,9 giorni. Va meglio alle superiori dove ci si ferma a 10,7 giorni di assenza. Numeri che Sergio Govi di “Tuttoscuola” conosce bene: “Purtroppo da due anni la Funzione Pubblica e il Miur che pur ricevono i dati non li hanno resi pubblici. Per aggiornare il quadro abbiamo dovuto far riferimento agli ultimi dati disponibili relativi all’anno scolastico 2011/12, confrontandoli con gli anni precedenti. Va detto, tuttavia, che l’Inps ha recentemente pubblicato una sintesi delle certificazioni di malattia dei lavoratori dipendenti privati e pubblici del 2013 dove emerge una netta tendenza all’incremento di assenze da parte dei dipendenti pubblici rispetto a quelli del settore privato. Rispetto al 2011 l’incremento dei certificati presentati nel 2013 dai lavoratori privati è stato del 1,1% mentre per i pubblici dipendenti del 27%. Questo aumento riguarda anche i lavoratori della scuola che si ammalano di più magari per brevi periodi. L’effetto Brunetta non ha avuto alcun effetto: si è passati dai 7,56 giorni del 2009/2010 agli 11,33 del 2011/2012 nella scuola”. Gavi smentisce chi pensa di confermare i luoghi comuni leggendo questi dati: “Se si guarda il personale Ata, ci sono punte di assenze al Nord. Non si può dire che il Sud è più assenteista nonostante la cattiva eccellenza della Calabria”. Evidenti, invece, le conseguenze del giro di vite sugli organici: “La riduzione sul personale ha inciso sull’organizzazione del lavoro del personale Ata. Così come va precisato che la scuola dell’infanzia ha un orario di servizio di 25 ore settimanali con compresenze ridotte al minimo”. A buttare acqua sul fuoco è il segretario della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo che pur ammettendo che anche nella scuola esistono i furbetti, difende la categoria a spada tratta: “A differenza di altri settori del pubblico, nella scuola non abbiamo grandi problemi di assenteismo. E’ grave che non siano forniti i dati sulle malattie ma non c’è alcuna patologia. Sulle assenze agiscono vari fattori: nella scuola dell’infanzia c’è una maggiore usura del lavoro rispetto alla secondaria superiore dove si fanno 18 ore settimanali. I bidelli dopo i tagli fatti hanno carichi sempre maggiori. Si tratta di guardare anche ai diversi contesti. Forse è ora di parlare di lavoro usurante per alcuni settori: penso alla primaria e all’infanzia”.

La scuola dove stanno a casa quattro professori su dieci. Alla «Santi Bivona» di Menfi (Agrigento) 70 insegnanti su 170 si dichiarano malati o parenti di disabili: così hanno diritto a tre giorni al mese di permesso, scrive Riccardo Bruno su “Il Corriere della Sera”. La vicepreside attende all’ingresso con un sorriso malizioso: «No, io non ho la 104». Che non è un modello di automobile ma una legge, nata 22 anni fa per tutelare i lavoratori con gravi disabilità o costretti ad assistere figli e genitori in difficoltà. Qualcuno ne ha approfittato. Ad Agrigento è diventata un’epidemia, in questa scuola di Menfi, sulla costa meridionale della Sicilia, l’Istituto comprensivo «Santi Bivona», dove è stato battuto ogni record: 70 casi su 170 tra docenti e bidelli. Oltre il 40 per cento, carte mediche alla mano, sarebbe messo davvero male. «Abbiamo un triste primato, lo so» allarga le braccia la preside, Teresa Guazzelli. A novembre ha consegnato l’elenco dei beneficiari della 104, come ha chiesto a lei e a tutta la provincia il provveditore, e adesso aspetta di capire cosa fare. «Noi dirigenti non possiamo che prendere atto delle certificazioni. Non abbiamo mansioni investigative, né possiamo valutare le singole patologie». È evidente che anche a lei questo andazzo non piace, non solo per quel senso civico e di dovere che gli viene da tradizione familiare (il padre, il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, proprio in queste terre fu ucciso dalla mafia nel ‘92) ma anche per ragioni pratiche. «Gestire tutto questo personale con la 104 pone non pochi problemi organizzativi». La norma dà diritto a 3 giorni al mese di permesso, per curarsi o curare gli altri, soltanto alla Santi Bivona di Menfi sono 210 giornate lavorative che vengono a mancare. «E c’è qualcuno che ti avvisa la mattina stessa che non verrà a scuola» lamenta la preside Guazzelli. Nella provincia di Agrigento, capitale italiana dell’invalidità, vera o presunta, la bomba è deflagrata quando lo scorso settembre la Procura ha arrestato una ventina di persone, sopratutto medici compiacenti, e ne ha indagato oltre 100. Due anni di inchiesta, intercettazioni e pedinamenti, per dipingere un quadro che il gip ha definito senza timori «un circo». Nel quale ci sono pneumologi che soffiano nello spirometro perché il paziente non è in grado di sbagliare da solo il test, o radiologi che invitano «a mettersi storti» per far apparire patologie inesistenti. Molti hanno ammesso e raccontato anche altro, e adesso la Procura ha aperto un nuovo filone con quasi 300 persone coinvolte. «Ci sono evidenti storture, un sistema di diffusa illegalità. Qualcuno non ha fatto il proprio dovere e ancora una volta è toccato alla magistratura svolgere una funzione di supplenza» osserva il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo, che sta seguendo il corposo fascicolo con il capo dell’ufficio Renato Di Natale e il sostituto Andrea Maggioni. Sulla strada però i pm stanno trovando altri alleati. Il provveditore Raffaele Zarbo ha da poco concluso il primo censimento sui beneficiari della 104, perché finora nessuno sapeva esattamente quanti fossero, e consegnato il cd all’Inps. I numeri sono da capogiro: 1.043 docenti su 4.031 considerando scuola dell’infanzia, primaria e medie; 469 su 1.823 nel personale Ata, dai direttori amministrativi ai tecnici. Praticamente uno su 4, con una punta di oltre il 30 per cento tra gli insegnanti d’asilo. «Se si scoprissero anomalie o falsità sono pronto a prendere provvedimenti disciplinari o a spostare il personale» promette il provveditore. I vantaggi di farsi scudo della «104» sono molteplici. Non solo permessi garantiti, a volte si aggiunge anche un riconoscimento economico. E soprattutto, nel mondo della scuola, permette di chiedere il trasferimento definitivo o provvisorio vicino casa. «In una provincia come la nostra con tanti docenti e pochi posti, di fatto solo chi ha la 104 si vede accolta la domanda» ammette il provveditore Zarbo. Adesso che la lista c’è, l’Inps ha in programma una verifica di massa, oltre 1.500 persone da sottoporre nei prossimi mesi a una visita medico-legale di verifica. Mai avvenuto in Italia. «È almeno da dieci anni che denunciamo questo malcostume, speriamo che sia la volta buona» si augura Dorenzo Navarra, maestro (senza la 104) di Sciacca costretto ogni giorno a raggiungere la cattedra a Palermo, 200 chilometri andata e ritorno. Come presidente dell’associazione «Insegnanti in movimento», mille iscritti, è pronto a costituirsi parte civile nel processo che si farà sui furbetti delle cartelle cliniche. «Abbiamo visto di tutto, perfino colleghi che erano in permesso e poi mettevano online le foto della crociera, talmente si sentivano tranquilli. Si è toccato il fondo, e molti non lo sopportano più».

Assenteismo: bidelli milanesi a letto 21 giorni all'anno. I dati di una indagine di Tuttoscuola sui permessi per malattia del personale Ata: i docenti si ammalano la metà di collaboratori scolastici e personale amministrativo. E dal 2009 è boom..., scrive “Affari Italiani”. A casa per malattia 21,33 giorni all'anno. Questo il risultato dell'indagine promossa da Tuttoscuola sull'assenteismo di bidelli, personale amministrativo e tecnici di laboratorio (il personale Ata) nelle scuole di Milano e della Provincia. Il personale Ata trascorre a letto complessivamente 172.999 giorni l'anno. Il dato del capoluogo è il peggiore di tutta la Lombardia, dove la media scende a 18,8 giorni lavorativi "saltati" all'anno. Godono apparentemente di migliore salute i docenti milanesi, ammalati solo 11,1 giorni l'anno. I dati, che si riferiscono all'anno scolastico 2011-2012, preoccupano perché le precedenti rilevazioni (2009-2010) avevano fatto registrare una media di assenze per malattia del personale Ata di 11,9 giorni e dei docenti di 6 giorni. Un netto incremento, dunque.

SCUOLA E SUPPLENZA. GUERRA TRA POVERI. PUNTEGGIO E GRADUATORIE: TRUFFA O PREGIUDIZIO RAZZISTA?

Gli analfabeti e La Buona Scuola. “Nei decenni scorsi per affiancare le rivoluzionarie riforme della Scuola sono state coniate nuove denominazioni - scrive Adolfo Valguarnera su “L’Espresso”. Quando feci la prima supplenza nella scuola pubblica ci si rivolgeva al preside chiamandolo “Signor Preside” e lo si indicava così anche quando si parlava di lui in terza persona. Siccome a conferirmi l’incarico fu una donna, allo stato civile nubile, per doveroso rispetto alla sua illibatezza, la si chiamava “Signorina Preside”, e lei ovviamente accettava. Quando accorparono in una unica istituzione la scuola materna, quella elementare e la media, nacque l’Istituto comprensivo (IC) e a dirigerlo fu ovviamente preposto il “Capo di Istituto Comprensivo”, che sembrava sottolineare che fosse persona comprensiva, indulgente, clemente. Quando ai presidi venne conferita la dirigenza (con aumento di compiti e pochi soldi) si coniò il termine “Dirigente Scolastico”. Qualcuno osservò che sembrava una diminutio, dato che “scolastico” è il livello più basso della conoscenza di una lingua straniera. Ci vorrebbe una enciclopedia per elencare tutti i cambi di intitolazione di scuole, di direzioni, di uffici e delle sigle correlate. La più accettabile mi sembra la nuova denominazione del Ministero con l’acronimo Miur, la cui pronuncia impone di disporre le labbra come per dare un bacio. Dalle prime valutazioni sul documento “La buona Scuola” presentato da Renzi, sembra che l’opinione pubblica si attenda meno rivoluzioni linguistiche e più provvedimenti di sostanza”.

Scuola, assalto alle graduatorie: guerra tra poveri del Nord e Sud, scrive Alex Corlazzoli, maestro e giornalista, su “Il Fatto Quotidiano”. “Non si affitta ai meridionali”. Sono passati più di cinquant’anni da quando si vedevano sui balconi degli appartamenti di Torino o Milano questi cartelli. Oggi, ad ascoltare le parole del presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni che ha chiesto concorsi pubblici regionali di fronte all’ondata di prof meridionali che cercano una cattedra al Nord, dovremmo affiggere davanti alle nostre aule i cartelli con scritto: “Qui non insegnano meridionali”. Il gioco per la Lega Nord è stato fin troppo facile di fronte a un’evidente migrazione scolastica dal meridione al settentrione che dura ormai da anni. Per quanto riguarda gli albi regionali, la Lega nel disegno di legge (S. 2411) aveva già proposto che i candidati scegliessero liberamente in quale regione eleggere il proprio “domicilio professionale”, senza vincolo di residenza. Il meccanismo che proponeva, puntava su una prova di preparazione effettuata nella regione scelta dal candidato. Il tutto, a detta loro, per  fungere da “calmiere” agli spostamenti dalle zone con meno opportunità di lavoro. Una visione “leghista”, “separatista” e discriminante nei confronti degli abitanti del Sud che vivono nel nostro stesso Paese, almeno fin quando la Lega non riuscirà ad essere maggioranza in Italia. Resta, tuttavia, un problema. I numeri aiutano a capirlo: il 53 per cento delle oltre 28 mila cattedre messe a disposizione del ministero per le assunzioni nel 2014 andranno alle scuole del Nord. La maggior parte di questi posti finirà ai docenti meridionali. A Milano basta scorrere le graduatorie ad esaurimento per vedere che delle 245 assunzioni, 241 andranno a siciliani, pugliesi e calabresi. Dati che stanno creando, in un momento di grave crisi occupazionale, una guerra tra poveri del Nord e poveri del Sud. Per comprendere ciò consiglio a tutti tra il 29 e il 30 agosto una gita all’ufficio scolastico provinciale del proprio territorio: incontrerete uomini e donne, famiglie, 50enni, giovani sotto i 30 che arrivano a Milano, a Cremona, a Gorizia o a Mantova con la valigia e la cartina in mano. Persone che hanno lasciato la loro famiglia, i loro amici, una casa, le loro tradizioni, i loro sapori, i loro amori, per un posto di lavoro in un luogo sconosciuto. E’ la storia di tanti precari del Sud che ho incontrato in questi anni d’insegnamento. E lì, all’ufficio scolastico provinciale, i “colleghi” del Nord spesso guardano con diffidenza agli altri. Ancora una volta la politica, tuttavia, non ha centrato l’obiettivo. Anziché alimentare questo conflitto tra maestri meridionali e settentrionali, la Lega Nord e anche i partiti del Centrosinistra, avrebbero dovuto preoccuparsi del fatto che di fronte allo sfacelo della scuola italiana, gli insegnanti sono ancora troppo pochi. Davanti a dati della dispersione scolastica che necessiterebbero di un esercito di maestri nelle città del Sud, si registrano sempre più tagli e di conseguenza un calo di iscrizioni alle graduatorie da parte degli aspiranti insegnanti che chiedono di migrare. Non solo, a Maroni forse sfugge un altro tema: il reclutamento così com’è è umiliante e poco utile alla scuola. Da una parte crea una mancata continuità didattica, dall’altra non offre alla scuola la possibilità di valutare gli aspetti psicologici, relazionali, pedagogici di un docente ma lascia tutto nelle mani di una lista (graduatoria) dove si arriva in cattedra per slittamento. Non nascondo da tempo una proposta alternativa ovvero la chiamata diretta da parte delle scuole con un comitato di garanzia eletto tra i docenti ed un responsabile del personale che valuti il curriculum dell’aspirante docente. Un’ultima osservazione: in questa partita giocata dalla politica, i più stolti sono proprio i docenti che ancora una volta si sono lasciati usare da chi porta una spilla al bavero della giacca, dando spazio ad una guerra assurda tra poveri. Qualche anno fa, di fronte all’ennesima umiliante chiamata all’ufficio scolastico provinciale, feci uno sciopero della fame per richiamare l’attenzione sul problema. Gli unici a girarmi le spalle, a prendere la via più larga per evitare di essere coinvolti in questa manifestazione, furono proprio i colleghi. Ma in fondo agli italiani, soprattutto ai docenti italiani, piace essere trattati da burattini dal burattinaio di Palazzo.

Nord vs Sud. E' guerra tra precari della scuola. Gli aspiranti docenti del Nord in rivolta contro i "precari" del Sud che hanno invaso le loro graduatorie. Ecco come evitare che un insegnante del Sud "rubi" una cattedra al Nord, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. Precari del Nord contro precari del Sud. E’ scoppiata, almeno su Facebook, una “guerra” tra poveri, quelli della scuola: i supplenti. A ribellarsi e a manifestare tutto il loro malessere e la rabbia sono i supplenti residenti al Nord che quest’anno si sono visti rubare il posto in graduatoria, e quindi sfumare l’immissione in ruolo. Insomma, secondo gli aspiranti insegnanti “nordici” sarebbe in atto una vera e propria invasione, un assedio da parte dei colleghi provenienti da Campania, Sicilia, Calabria, Basilicata  e Puglia. Il motivo? Il 53 per cento delle oltre 28 mila cattedre messe a disposizione dal ministero per le assunzioni di quest’anno andranno a scuole del Nord. Ma a sedere in cattedra saranno per la maggior parte docenti meridionali trasferitisi di recente. Nella lista della scuola primaria della provincia del capoluogo toscano, Firenze, le prime 55 posizioni sono occupate da altrettante new entry: 16 siciliani, 33 campani e 2 calabresi. E sono proprio quelle utili per le immissioni in ruolo di quest’anno. Due aspiranti maestre di ruolo, inoltre, sono nate all’estero e altre due, le più “settentrionali” delle 55, sono originarie di Frosinone.

Professoressa Susanna Garosi, insegnante di lettere toscana, cosa sta succedendo? C'è davvero questa "invasione"?

“Per fermare questa "invasione", basterebbe che i nuovi inclusi nelle graduatorie dei precari della scuola che provengono da altre province, fossero inseriti non "a pettine", cioè in base ai loro punteggi fra i supplenti senza così precederli nelle graduatorie. In sostanza occorrerebbe fare quello che invece si fa con le graduatorie dei docenti a tempo indeterminato cioè di ruolo: sarebbe sufficiente inserirli in fondo alle liste a prescindere dai loro punteggi. Faccio un esempio: se un docente a tempo indeterminato decide di passare dalla provincia di Grosseto a quella di Livorno, anche se ha 200 punti e l'ultimo degli insegnanti della provincia di Livorno ha per così dire 50 punti, ha la precedenza il docente che era già su Livorno, non il contrario. Sarebbe necessario che l'ordinanza per i docenti a tempo indeterminato venisse estesa anche a quella dei precari. Tutto qui. Ma al nostro Ministero questo non interessa".

E' vero che questo esodo crea anche forti tensioni, per non dire odio tra i vari supplenti che si vedono usurpato il posto di lavoro?

"Più che odio fra i docenti si tratta di dissapori, perché chi era già in quella graduatoria da anni, visti i tempi che corrono, rischia di restare senza lavoro e devo dire che questo succede molto spesso".

E questo malessere, ha ricadute sui ragazzi e sull'insegnamento?

"Tutto ciò non ha ripercussioni specifiche sui ragazzi, ma sulla didattica sì, perché magari hanno avuto lo stesso insegnante di una determinata materia per anni e poi all'improvviso se ne trovano un altro. E, credetemi, questo non è una cosa da poco".

Come per Firenze, la situazione si ripete anche in provincia di Prato e in provincia di Lucca: quasi tutti i posti andranno a docenti meridionali. Idem in Lombardia. Ad esempio, in provincia di Milano saranno 245 le assunzioni a titolo definitivo per la scuola primaria. Nelle prime posizioni troviamo ben 241 trasferiti da altre province: 116 siciliani, 54 campani, 21 pugliesi e 18 calabresi. In totale, 209 meridionali, il 93 per cento. Stessa situazione anche in Piemonte .

Scuola, vi raccontiamo il terremoto nelle graduatorie dei precari. Dal Nord e dal Sud. Le testimonianze dopo la denuncia del rimescolamento prodotto dalle migliaia di richieste di supplenti meridionali nelle graduatorie centro settentrionali, scrive “La Repubblica”. "Non siamo carne da macello". E nasce il profilo Facebook dall'eloquente titolo "Ora basta!!!". I supplenti delle scuole settentrionali sono sul piede di guerra: dicono no all'invasione dei "terroni" nelle "loro" graduatorie per le immissioni in ruolo e per le lunghe supplenze. Nel corso dell'ultimo aggiornamento delle cosiddette graduatorie ad esaurimento  -  quelle che servono a reclutare metà degli assunti a titolo definitivo di ogni anno e al reclutamento dei supplenti annuali  -  le liste provinciali delle regioni padane sono state letteralmente invase da precari del Sud in cerca di una cattedra fissa. Ecco perché. Nel 2007 Fioroni trasformò le graduatorie permanenti dei precari in graduatorie ad esaurimento consentendo, "per l'ultima volta", il trasferimento di provincia. Ma nel 2011 il blocco cade e viene anche diminuito  -  da cinque a tre anni  -  l'obbligo di rimanere nella provincia dove si è entrati di ruolo. Nel frattempo i tagli della Gelmini, che colpiscono selvaggiamente il Sud, e il calo della popolazione scolastica fanno il resto. L'esodo determina lo scavalcamento di migliaia di colleghi del posto che rimarranno a bocca asciutta. Forse anche senza supplenze. Un mezzo disastro che sta creando una vera e propria guerra tra poveri Nord-Sud. Domenica Tusa, 47 anni, dopo una quindicina d'anni da supplente di scuola elementare in provincia di Palermo, lo scorso mese di aprile ha deciso di fare il grande passo: trasferirsi in provincia di Firenze alla ricerca di quella stabilità lavorativa che la Sicilia non le ha mai dato. Lascerà il marito a Palermo "per chissà quanti anni". E sarà costretta a "sradicare la figlia diciassettenne dal suo ambiente". La figlia più grande studia all'estero. Storie umane di precarietà che combaciano con quelle delle colleghe settentrionali. Ilaria Tovani, prima della migrazione in massa, era ben piazzata nella lista della scuola dell'Infanzia in provincia di Lucca, adesso è al 324° posto. "La nostra provincia  -  spiega l'insegnante  -  è stata la più colpita d'Italia. In pratica la collega che si trovava al primo posto è scivolata al 155° posto. Noi supplenti del luogo non solo vediamo sfumare l'immissione in ruolo ma anche la possibilità di ottenere supplenze, rischiando a settembre la disoccupazione. Ci siamo organizzati nel web con il profilo Facebook "Ora Basta". Non vogliamo che tale vicissitudine venga liquidata come uno scontro fra nord e sud bensì come istanza di ripensamento delle norme che regolano il reclutamento dei docenti". "Mi sono laureata in Scienze della formazione con i massimo dei voti  -  racconta la collega di graduatoria Angelica Pera  -  e subito sono entrata a scuola con supplenze che si rinnovavano di anno in anno, fino a raggiungere (a graduatorie pulite e senza aggiornamento) circa la 35ma posizione. Adesso, mi ritrovo 303° posto. Non mi piace parlare di Nord-Sud perché stanca essere additati come razzisti, soprattutto non sarò io a strumentalizzare questa condizione. Ciò però non toglie la mia rabbia e incredulità per un sistema marcio e corrotto. Vogliamo  -  aggiunge  -  solo poter lavorare sul nostro territorio, vogliamo poter stare tranquilli sull'assegnazione dei punteggi perché qui si stanno calpestando troppi diritti. Come coloro che si spostano, ho anch'io il diritto di lavorare ma è solo una lotta tra precari, che forse raggiungeranno il ruolo all'età della pensione. Graduatorie ad esaurimento  -  conclude  -  che esauriscono solo le forze, le speranze e la passione di chi è iscritto". L'idea di una protesta sui social network è venuta a Rosaria Miranda, supplente di scuola materna della provincia di Firenze. "Quando ho visto la nuova graduatoria  -  racconta con tanta rabbia in corpo  -  sono entrata nella disperazione e scoppiata a piangere. Mi sono trasferita in Toscana 12 anni fa. Oggi, ho 44 anni e mi sono sposata nel 2008 restando lontano da mio marito che non può spostarsi dalla Campania, dove sono nata. Viviamo lontani da sempre e ho deciso di non avere figli per non fare vivere loro tutti questi disagi. Amo il mio lavoro, ma questo è troppo. Non si tratta di guerra tra Nord e Sud: io sono meridionale trapiantata al Nord. E' una questione di certezza delle regole. Ero al 49° posto nel 2013 e sarei entrata di ruolo, a ma adesso sono scivolata al 185° posto. A settembre, non so cosa accadrà". "E' giusto? Come faremo a campare?", si chiede. E sbotta: "Non siamo carne da macello!". I numeri spiegano meglio di qualsiasi storia l'entità del fenomeno. Oltre metà  -  il 53 per cento, per l'esattezza  -  delle oltre 28mila cattedre messe a disposizione dal ministero dell'Istruzione per le immissioni in ruolo, a decorrere dal primo settembre, andranno in scuole ubicate al Nord, dove i posti vacanti abbondano. Ma saranno per la maggior parte appannaggio di docenti meridionali trasferitisi di recente. Basta citare qualche esempio. Nella graduatoria della primaria della provincia di Firenze, le prime 55 posizioni (quelle utili per le immissioni in ruolo di quest'anno) sono occupate da altrettante new entry: 16 siciliani, 33 campani e 2 calabresi. Due sono aspiranti maestre di ruolo sono nate all'estero e potrebbero essere anche queste meridionali. E altre due, le più "settentrionali" di tutte, sono originarie di Frosinone. Stesso discorso in provincia di Prato e Lucca, per la scuola dell'infanzia: quasi tutti i posti andranno a docenti meridionali. Le graduatorie dei grossi centri sono state prese d'assalto dai siciliani in fuga dalla regione con la disoccupazione più alta d'Italia. In provincia di Milano saranno 245 le assunzioni a titolo definitivo per la scuola primaria. Nelle prime posizioni troviamo ben 241 trasferiti da altre province: 116 siciliani, pari al 47 per cento di nuovi assunti, 54 campani, 21 pugliesi e 18 calabresi. In totale, 209 meridionali. Anche la provincia di Torino è terra di conquista per i siciliani: nelle prime 129 piazze (quelle utili) della primaria troviamo 65 siciliani e 15 campani. Andranno a non meridionali soltanto 17 posti, di cui 13  -  il 10 per cento appena  -  a Torinesi doc. Tra centinaia di graduatorie di scuola dell'infanzia, primaria, media e superiore non è facile calcolare in quanti abbiano deciso di andare "su al Nord" per l'agognata cattedra fissa: si tratta certamente di diverse migliaia. Ancora una volta ci vengono incontro i numeri. Le graduatorie delle province meridionali si sono letteralmente svuotate. Prendendo ad esempio la scuola primaria si registra un meno 21 per cento di iscritti a Palermo, un meno 23 per cento a Napoli e 12 per cento in meno di aspiranti in provincia di Bari e Reggio Calabria. Di contro, sempre alla primaria, a Firenze la graduatoria si è allungata del 26 per cento, a Milano del 15 per cento e a Prato addirittura del 57 per cento. Ma il record spetta alla graduatoria di scuola dell'infanzia di Lucca  -  da dove è partita la protesta che si sta estendendo a tutto il Nord  -  che, nel giro di 12 mesi, ha visto crescere gli iscritti da 156 a 439: più 181 per cento. Il balzo in avanti da guinness dei primati lo ha fatto Rosaria Mallardo. Nel 2013, si trovava in provincia di Napoli al 1622° posto della graduatoria ad esaurimento della scuola primaria, senza speranza alcuna di entrare di ruolo né di ottenere una supplenza lunga. Spostandosi nella graduatoria di Prato si piazza adesso al 18° posto, quanto basta per essere assunta in ruolo già quest'anno o al massimo il prossimo. Nel trasferimento ha fatto un balzo di 1604 posti. Un altro record. Tra comitati e proteste attraverso il  web, i precari settentrionali scippati del posto stanno cercando referenti politici di tutti gli schieramenti per evitare il peggio. Ma il tempo stringe perché le nomine sono alle porte: i provveditorati devono farle tutte entro il 31 agosto. Mentre ad incendiare le polveri ci pensa la Lega, con l'ex senatore Mario Pittoni, che spara a zero contro l'ex ministro Maria Chiara Carrozza e i "titoli facili e i punteggi generosi" dei docenti meridionali.

Graduatorie, ma il punteggio è giusto? Si chiede Corrado Zunino su “La Repubblica”. Il caos delle assegnazioni supplenti è ancora largo e diffuso, dopo sedici giorni di scuola. Al Centro e al Sud, soprattutto. Il guaio di quest'inizio stagione è che una delle ragioni è l'inaffidabilità delle graduatorie, sempre più appoggiate su punteggi gonfiati. "Orizzonte scuola" ha raccontato come nell'Ambito territoriale di Roma una docente per la scuola dell'infanzia è stata proiettata in testa con 712 punti, di cui 600 solo per i titoli. Un errore iperbolico poi rettificato, ma spesso c'è dolo. Un insegnante di Lodi e sindacalista Unicobas, Paolo Latella, ha organizzato un dossier di 25 pagine in cui ha raccolto le testimonianze di chi insegna in alcune delle 13.625 scuole paritarie italiane. Al Centro-Sud i dirigenti delle private spesso non pagano i docenti garantendo loro, unico bene, l'assegnazione di punteggi che prima o poi consentiranno il salvifico salto nella scuola pubblica. Le denunce pervenute al blog di Latella raccontano casi così: "Nella provincia di Lodi insegnanti hanno comprato certificati e diplomi falsi in scuole paritarie della provincia di Cosenza, una è sotto sequestro. Ora si contendono il posto nella terza fascia... ". Poi, "nel Salernitano il titolo viene acquistato pagando... " e "nell'istituto paritario di Firenze il preside ci obbligava a mettere i voti sul registro a matita perché, ho capito dopo, lui li cambiava". In Calabria prof privati hanno aperto associazioni culturali per versarsi autonomamente i contributi: sono pagati 250 euro al mese in nero. Da Catania arrivano segnalazioni di assunzioni con contemporanea lettera di dimissioni firmata: "Non voglio denunciare lo sfruttamento perché sono io che, per amor del punteggio, sto a tanto". A Palermo presidi complici hanno rilasciato certificati di servizio falsi "a gente che dietro una cattedra non c'era mai stata". In un istituto nella provincia di Ragusa è norma non pagare i dipendenti: "Mi hanno fatto la gentilezza del punteggio e in sede di esame la preside ci ha detto i nomi di chi doveva essere promosso senza nessuna domanda". In un'altra scuola del Ragusano hanno proposto questo: "Se tieni la classe con il nome di un altro titolare ogni due mesi ti diamo 15 giorni per il punto". Accettato. Per questa raccolta di vergogne, il prof-sindacalista Latella ha ricevuto minacce di morte. Le segnalazioni in Abruzzo - su tutte una grande scuola secondaria di Pescara e un istituto di Francavilla al Mare - sono diventate così numerose e dettagliate che il direttore generale dell'Ufficio scolastico ha scritto una lettera a tutte le parificate lamentando l'utilizzo di "personale sprovvisto del titolo di studio e di abilitazione". Il regno delle paritarie truffa è la Campania. A Caserta ci sono 413 scuole non statali a fronte di 211 pubbliche. Al provveditorato locale nel 2011 sono stati ritrovati 32 mila diplomi in bianco. Nel marzo 2013 il dirigente dell'Ufficio scolastico provinciale nonché alto dirigente del ministero, Maurizio Piscitelli, è stato indagato dalla Procura di Napoli per aver contribuito a truccare un concorso per dirigenti scolastici: 10 mila euro in tre tranche girate dai candidati per essere scelti. Nel corso del suo mandato lo stesso Piscitelli aveva denunciato svariate false abilitazioni. Inchieste delle procure campane hanno toccato l'Istituto Verga di Frattamaggiore e il Don Bosco di Sant'Antimo, entrambi collegati all'Istituto Europeo di Padova. La Vittorio Emanuele e la Luca Pacioli di Nola, l'Achille Lauro di Torre Annunziata. L'indagine sulle scuole fantasma nel Cilento, provincia di Salerno, conta 132 indagati. A fianco degli esami di maturità regalati agli studenti, questi istituti fornivano stage post-abilitazione e master falsi a insegnanti pigri. Un problema parallelo si è aperto con diverse università telematiche. L'ha sollevato in un convegno Giorgio Federici, lui presidente della Iul, università online con sede a Firenze. "Alcuni atenei, soprattutto telematici", ha scritto, "taglieggiano i precari della scuola". Con i tre punti garantiti dai master e il punto ottenuto con i corsi di perfezionamento "costringono gli aspiranti supplenti a iscriversi a corsi che non hanno credibilità". Alla Iul provano a fare lezioni serie, ma gli insegnanti-allievi si ribellano: "Oltre a pagare devo anche studiare?". Le 1.500 ore dei master online offerti sono tutt'altro che certificabili. A Lesina, provincia di Foggia, coltivatori diretti e casalinghe con 14.000 euro ottenevano false lauree e abilitazioni per il sostegno da una vigilessa: 55 persone si sono inserite così nelle graduatorie docenti in tutta Italia. Le scuole di Pescara, oggi, sono invase da insegnanti foggiane. E Roma conosce un notevole afflusso di docenti dalla Campania, spesso salite in classifica dopo un passaggio in una scuola parificata: "Trentenni della provincia di Napoli hanno punteggi superiori alle 55 enni che insegnano da noi", racconta una preside del centro della capitale. Il Viscontino, elementari e medie, ha ospitato un'insegnante di spagnolo (napoletana di Marigliano) che vantava 49 punti a fronte dei 39 ottenuti. La filiera Miur-provveditorato ne era informata, non ha mosso un dito. Lo scorso aprile la giovane insegnante è stata rinviata a giudizio per falso ideologico: i master certificati dall'Università San Pio V di Roma, la Luspio, non erano stati portati a termine. E un intero comitato a difesa del liceo Democrito, siamo a Ostia, il mare della capitale, ha denunciato al ministero e alla procura il fatto che la preside del liceo non abbia mai fornito i documenti che attestino la sua laurea.

La palla, è presto detto, è ripresa dalla stampa del nord, velatamente razzista.

Ecco il trucco dei prof del Sud per togliere il posto a quelli del Nord, scrive Attilio Barbieri su “Libero Quotidiano”. Il 2014 è il primo anno in cui vengono completamente azzerati gli effetti del blocco sulle graduatorie provinciali degli insegnanti precari. Il risultato è il caos, ma soprattutto la rottamazione di migliaia e migliaia di insegnanti in lista da anni al Nord Italia, che precipitano di decine di posizioni. Ne ha parlato ieri il quotidiano La Stampa, descrivendo la situazione in Piemonte. Ma è tutto il Settentrione a essere in subbuglio. A scalzare i precari del Nord sono i loro colleghi provenienti dalle regioni meridionali, Sicilia, Calabria e Campania in testa. Un fenomeno accentuato dalla revisione avviata dal ministero dell’Istruzione negli ultimi tre anni sugli organici delle scuole in funzione degli studenti iscritti. Se il numero di bambini e ragazzi è basso viene ridotto anche l’organico degli insegnanti. A scapito, inevitabilmente, dei precari. Molti di loro si sono trasformati così in «perdenti posto» e hanno alimentato un flusso gigantesco verso il centronord. Fino allo scorso anno era però in funzione lo sbarramento introdotto dai governi di centrodestra e riaffermato dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Due decreti, in particolare, servirono ad arginare un esodo che già allora era destinato ad assumere proporzioni bibliche. Un primo decreto imponeva al precario di scegliere una sola provincia per iscriversi alla graduatoria degli insegnanti non di ruolo, quella di residenza. Poi, sulla spinta delle organizzazioni sindacali, la Cgil in particolare, le maglie si ampliarono, consentendo al precario di registrarsi sì in una provincia, potendo però indicarne altre due. In queste ultime, però, sarebbe entrato dal fondo, Senza scalzare nessuno. A far saltare l’argine sono state le numerose sentenze del Tar che hanno cancellato di fatto i vincoli introdotti dai decreti ministeriali. Così i precari di Lecce, Siracusa, Crotone, Benevento Sassari e via dicendo sono entrati nelle graduatorie provinciali al centronord «a pettine», vale a dire non dal fondo come sarebbe stato giusto, ma con il punteggio maturato nel frattempo nelle graduatorie di provenienza. La rottamazione degli insegnanti non di ruolo in Piemonte, Lombardia, Veneto, Fiuli ed Emilia è cominciata così. Ma si trattava di un’invasione largamente annunciata. I provvedimenti abrogati dal ministro Maria Chiara Carrozza (premier era Enrico Letta) dopo le sentenze dei Tar, erano destinati a provocare inevitabilmente il terremoto che si è verificato quest’estate, con la pubblicazione sul web delle nuove graduatorie. I precari del Sud, infatti, hanno tutti punteggi altissimi, maturati grazie alla disinvoltura con la quale, nel Meridione, si riesce a farsi inserire in organico nei plessi scolastici, anche senza fare un’ora di supplenza. Oppure insegnando in più scuole private contemporaneamente. Questa situazione era nota e proprio da qui traggono origine i provvedimenti con cui la Gelmini cercò di arginare il maxi esodo. I risultati dell’inserimento «a pettine» sono esplosivi. Insegnanti che dai primi posti in graduatoria si vedono precipitare oltre il cinquantesimo. Uno scivolamento che per i docenti delle materie con meno ore come filosofia, geografia o scienze, significa dire addio alla speranza di diventare di ruolo. Insomma, una condanna al precariato a vita. L’anno scolastico che sta per iniziare è decisamente importante per il popolo dei «senza cattedra». Da qui al 2017, infatti, entreranno in ruolo con contratto a tempo indeterminato ben 63mila docenti. Presi proprio dalle graduatorie in cui maestri e professori del Nord sono stati scavalcati dai colleghi del Meridione. Ad aiutare i precari siciliani, calabresi, pugliesi e campani a iscriversi nelle province dove avrebbero avuto la certezza matematica di balzare in testa alle graduatorie sono stati alcuni portali web, incluso quello della Cgil Scuola, che offrivano una guida per accompagnare passo passo l’aspirante insegnante di ruolo a compilare i moduli per entrare nelle graduatorie «sicure».

Sulla stessa falsariga continua Nino Materi su “Il Giornale”. "Caro sindacato, spiegami tu come posso fregare la scuola". Migliaia di docenti accettano di trasferirsi dal meridione al settentrione. Ecco le loro "suppliche" ai patronati sui trucchi per tornare presto a casa. «Ho accettato la cattedra di Filosofia a Milano, ma c'è un modo per tornare al più presto nella mia città, Reggio Calabria?». «Sono un precario siciliano, insegnerò Ragioneria in un istituto di Firenze in qualità di supplente. Il maestro Sperelli (Paolo Villaggio) con i suoi alunni nel film "Io speriamo che me la cavo". Ma devo proprio rimanere in Toscana per un anno intero?». «Sono un docente di Latino di Torre Annunziata, prenderò servizio in un liceo di Treviso. Ma come farò con 1.200 euro di stipendio a sopravvivere qui dovendo pagare 800 euro di affitto?». «Sono una professoressa di Bari, salirò a Verona per insegnare Scienza in un istituto tecnico-industriale, ho lasciato in puglia i miei due bambini piccoli. È vita questa? Posso beneficiare di qualche permesso straordinario?». Di lettere come queste, Sostene Codispoti, «memoria storica» del sindacalismo scolastico, ne ha lette a centinaia. Potrebbe farne un libro. Codispoti è stato estromesso dallo Snals perché a lui le «zone d'ombra» non piacciono. Tanti suoi colleghi invece - attualmente nella stanza dei bottoni - alle zone d'ombra sono abituati e nella palude dei codicilli che aggirano le norme ci sguazzano. Fedeli a una «tradizione» che nel mondo della pubblica istruzione consente (sempre «legittimamente», per carità) di fare le cose più ingiuste. Compreso la scalata delle graduatorie scolastiche grazie a punteggi spesso farlocchi e che magari fanno retrocedere agli ultimi posti chi prima era in testa alla lista. Per decenni abbiamo assistito allo scandalo di prof che dal sud arrivavano al nord (il flusso opposto è sempre stato più raro), firmavano la «presa di servizio» e il giorno dopo già chiedevo il trasferimento a casa. Un andazzo, inconcepibile per un paese civile, che però garantiva sinecure, prebende e rendite di posizioni un po' a tutti: sindacati, docenti e politici. La scuola va in malora, ma a lor signori va bene così. Lo «sconfinamento» dei prof precari in regioni diverse da quelle di provenienza è un'ingiustizia, uno scandalo, un perfetto meccanismo per creare una guerra tra poveri (prof del nord vs prof del sud, esattamente l'incontro di boxe che si replicherà quest'anno), ma è anche lo strumento ideale per gestire «pacchetti» di migliaia di iscritti tra prof e personale Ata, tutta gente da blandire per poi ritrovarsela amica in tempi di battaglia elettorale. Il primo a cercare di spezzare questa catena perversa fu nel 2006 il ministro Fioroni, mettendo dei paletti alla libertà di spostarsi da una regione all'altra. Ma a seguito di una sentenza della Corte costituzionale e di un pronunciamento della Corte di giustizia europea che hanno ritenuto tali limitazioni «discriminatorie», si è tornati allo status quo ante . E oggi, con il netto calo al sud delle iscrizioni (in un anno sono state eliminate circa 80 mila cattedre), riecco il caos. Per gli insegnanti meridionali non c'è posto nelle «proprie» regioni e quindi riparte la «transumanza». Ma anche se fisicamente, ad esempio, dalla Sicilia si va in Lombardia, «mentalmente» si resta giù dove - comprensibilmente - si cercherà di tornare al più presto, perché magari lì si è lasciata la famiglia; o perché al nord con poco più di mille euro al mese non si riesce a campare. In teoria, oggi, la legge prevede il divieto di trasferimento per almeno 3 anni (erano 5, ma poi l'ex ministro abbassò il «vincolo di permanenza»), ma questo è un vincolo puramente formale. Basta un bel certificato medico, e il gioco è fatto. Già tre anni fa la Regione Veneto propose di introdurre la regola della «residenzialità» ma si trovò dinanzi al muro di gomma del Quirinale che «scongelò» le liste recependo le proteste delle Regioni del Sud. Alcune cifre sono impressionanti: per la scuola primaria nella provincia di Bergamo, il 100% delle cattedre è stato assegnato a docenti provenienti dal sud; il 98% nella provincia di Milano; l'84% nella provincia di Torino e il 91% per nella provincia di Lucca. Una possibile soluzione? L'introduzione di concorsi pubblici regionali (con il criterio della residenza) e il vincolo di permanenza nella provincia di prima nomina. Lo propongono Lega e Forza Italia, ma la sinistra risfodera gli slogan del '68: «No all'istruzione di classe». Tradotto: la scuola resta cosa loro.

Graduatorie ad esaurimento: nessun trucco del Sud per rubare il posto ai docenti del Nord, scrive Massa Maria Francesca su “Blasting News”. Numerosi articoli parlano di uno "strano trucco" dei docenti del Sud per rubare il posto ai docenti del Nord, ma quale?Graduatorie ad esaurimento: il trucco del Sud. La pubblicazione degli elenchi provvisori delle Graduatorie ad esaurimento ha sollevato non poche polemiche tra il personale della scuola, e in modo particolare trai i docenti che, con il trasferimento di circa 30mila unità dal territorio del Sud a quello del Nord, hanno fatto slittare la posizione di numerosi docenti precari, sfumando la speranza di un'immissione in ruolo per l'anno scolastico 2014/2015. Numerosi sono gli articoli pubblicati sull'esodo dei docenti del Sud verso il Nord e numerose sono le polemiche sul trasferimento da una provincia alla'altra. Non ci sarebbe nulla di male sulle polemiche, in quanto comprensibile che la perdita di posizione nelle Graduatorie ad esaurimento dalle quali si attende dopo anni di precariato di entrare in ruolo possa comportare non pochi malumori, ma non è accettabile l'avanzata della teoria secondo la quale i docenti del sud avrebbero utilizzato un trucco per scalare le Graduatorie in oggetto e rubare, così, il posto dei docenti del Nord. Ma di quale "trucco" si tratta esattamente?

Graduatorie ad esaurimento: il trucco dei docenti del Sud. In questi ultimi giorni, di seguito alla pubblicazione delle Graduatorie ad esaurimento e alla valutazione del numero di 30mila docenti che dalle scuole del Sud si sono trasferiti nelle scuole del Nord e ottenendo una posizione migliore rispetto a quella posseduta nelle Graduatorie della propria provincia, non si è fatto che leggere articoli ingiuriosi che mirano a giustificare una posizione che gli stessi docenti si sono guadagnati con un punteggio di servizio. In realtà, infatti, i docenti del Sud che hanno superato i colleghi insegnati del Nord lo hanno fatto con la valutazione del punteggio di servizio, un punteggio più alto e che per questo permette di ottenere una posizione più alta in Graduatoria. Nessun "trucco", dunque, come molti articoli hanno sottolineato, a "rubare" il posto dei docenti del Nord, ma una semplice valutazione del punteggio. Ma anche questa valutazione oggettiva non è bastata a sciogliere dubbi e ad alleviare gli animi. Il punteggio di servizio è diventato anch'esso "un trucco", ottenuto dai 30mila docenti del Sud in modo "poco onesto", proprio per "rubare" il posto ai docenti del Nord. Su Facebook si leggono insulti e lettere offensive verso i docenti del Sud per il "furto del posto" e verso i docenti del Nord "per le dichiarazioni considerate razziste". Intanto si procede al completamento della pubblicazione delle Graduatorie ad esaurimento e l'attesa per la presentazione della domanda di reclamo, per modifiche da apportare sul punteggio titoli e servizi. Differenti problematiche sono anche sorte per la disparità nella valutazione del punteggio assegnato al superamento del concorso 2012 e il conseguimento del titolo di abilitazione all'insegnamento. Il "trucco" dei docenti Sud per rubare il posto ai docenti del Nord nell'inserimento nelle Graduatorie ad esaurimento potrebbe comprendere anche questa tipologia di disparità tra i titoli. Staremo a leggere i successivi aggiornamenti sull'argomento.

GLI SCANDALI E LE SPECULAZIONI IN QUESTO SETTORE DAL 1999 FINO AI NOSTRI GIORNI. COME DERUBARE FUTURO E SOLDI A INTERE GENERAZIONI DI DOCENTI. LA DIMOSTRAZIONE, “A NORMA DI LEGGE”, CHE IN ITALIA NON C’E’ PIU’ STATO DI DIRITTO, scrive Valentina Amico su “Link Sicilia”. Nelson Mandela, fra gli altri, diceva: “L’istruzione è il grande motore dello sviluppo personale. È attraverso l’istruzione che la figlia di un contadino può diventare medico, che il figlio di un minatore può diventare dirigente della miniera, che il figlio di un bracciante può diventare presidente di una grande nazione”. Concetti come “fondamenti della democrazia”, “stato di diritto”, “uguaglianza sociale”, “libertà degli individui”, vengono meno in assenza di un buon funzionamento della “Pubblica Istruzione”. Questo, a sua volta, è imprescindibile dalla lotta al precariato, causa principale del progressivo calo della qualità didattica denunciato dalle più recenti classifiche internazionali, di cui gli studenti italiani non sono responsabili, ma semplicemente vittime. Non è certo necessario far parte della VII Commissione (Cultura, scienza e istruzione) o addirittura essere ministra dell’Istruzione per capire che il contratto di lavoro a tempo determinato perpetrato per 15-20 anni costringe gli alunni a un continuo cambiamento dei docenti a danno della qualità didattica, come dimostra lo stesso binomio “continuità didattica = qualità didattica”. “Prof modenesi scippati della cattedra”, “Precari toscani scavalcati dai trasferimenti dal Sud”, “Nasce il gruppo Basta! contro la disastrosa gestione delle graduatorie ad esaurimento”, sono solo alcuni degli innumerevoli titoli di articoli-denuncia comparsi in questi giorni in tutta la stampa nazionale, ma che preoccupano tutti tranne il presidente del Consiglio dei ministro e il presidente della Regione Sicilia. Dopo decenni di mala politica onorevolmente perpetrata dai predecessori di Renzi e Crocetta, di fronte ai giganteschi tagli che hanno colpito la Sicilia, privandoli qualsiasi speranza di ottenere il ruolo nelle loro sedi di origine, tanti docenti precari siciliani si sono trasferiti in massa nelle graduatorie delle province del Nord del nostro Paese, scavalcando anche di 50 posizioni i colleghi ivi residenti da sempre. Come dire, “dividi et impera” e guerra fra poveri fu. Risultato: fiorentini, milanesi, modenesi, etc. che fino a pochi giorni fa, trovandosi primi in graduatoria, erano pronti a firmare per il ruolo, al momento della pubblicazione dell’aggiornamento delle graduatorie si sono ritrovati dalla posizione n. 1 a quella n. 51, a volte anche n. 100 a causa dell’inserimento di colleghi meridionali.

A proposito della Toscana, su Orizzonte Scuola si legge: “Il consigliere regionale del PD, Daniela Lastri, ha assunto l’impegno di tutelarli (…) ”, indicando le iniziative che metterà in campo:

• una mozione per fare pressione su Governo e Parlamento perché si affronti con urgenza quanto sta accadendo con le graduatorie cosiddette ad esaurimento;

• sollecitare interventi per “congelare” la situazione, nella speranza che non vengano indetti concorsi in questo momento.

E il PD siciliano che fa? Ovviamente tace. Dopo essere stato complice della statalizzazione degli istituti provinciali, ovviamente tace. Nessuno infatti rileva che la suddetta statalizzazione, in particolare quella dell’ex IPCL “Ninni Cassarà” di Palermo, fortemente voluta dal presidente Crocetta con il consenso del PD, è una delle tante cause dell’esodo in corso di migliaia di docenti siciliani. Questo perché nel passaggio dalla provincia allo Stato non si è persa l’occasione di dare un colpo di scure sulla pianta organica in vigore fino al giorno dell’ “abbandono” della scuola da parte del nostro presidente della Regione. Certo, perché la “rivoluzione” si fa così, “liberandosi” di una scuola; evidentemente anche per Crocetta e per il PD Sicilia “di cultura non si mangia”. Ma chi sono questi precari? Come evidenziato dal seguente elenco, sono semplicemente le lenti attraverso le quali qualsiasi altro Paese d’Europa e del mondo che si possa definire “democratico” viene messo nelle condizioni di riconoscere che quello nostro, la “Bella Italia”, non è più uno “Stato di diritto”. Il seguente elenco presenta sia una breve descrizione dell’eterno calvario cui sono stati sottoposti i precari della scuola, scandali di cui né Renzi, né Crocetta, né tantomeno gli esponenti del PD siciliano sembrano mai essere stati al corrente:

Il concorsone farsa

1999: un’intera generazione è alle soglie della laurea e l’allora ministro dell’Istruzione Pubblica del Governo Prodi, Luigi Berlinguer (nella foto tratta da ilsusidiario.net), decide di bandire il tanto atteso concorso a cattedra. Si lavora strenuamente per laurearsi entro i termini di presentazione della domanda di partecipazione al concorso. Molti investono fior di quattrini per la preparazione, “soldi benedetti”, perché il bando prevede l’“assunzione diretta” dei vincitori del concorso. Tutti ci crediamo, se lo dice il Governo che è pure di (“centro-sinistra”), ci crediamo, certo. I tempi di espletamento del concorsone sono lunghissimi, siamo nel 2000, le prove d’esame sono ancora in corso, si capisce che prima del 2001/2002 non si saprà niente circa l’esito.

La truffa delle scuole di abilitazione SISS/SISSIS.

A questo punto Berlinguer & Co partoriscono un’idea “geniale”: si decide di abolire i concorsi, perché, dicono, “il sistema di reclutamento del personale scolastico va rinnovato e riformato” e vengono istituite le scuole di specializzazione per l’abilitazione all’insegnamento, le cosiddette “SISS/SISSIS” della durata di ben 2 anni, frequenza obbligatoria, incluso un monte d’ore di tirocinio nelle scuole. Comincia la truffa, i signori al Governo sfoggiano tutta la loro furbizia, perché le scuole di specializzazione sono sì create e gestite dall’Università pubblica, ma anche a pagamento e costano l’occhio della testa (milioni delle vecchie lire!). Il ministero, inoltre, sa benissimo che alla SISSIS vorranno accedere anche coloro che avevano partecipato al concorso perché, non sapendone gli esiti, e non avendo nessuna occupazione, a questi non resta che provare anche la carta della scuola di specializzazione. L’altra beffa consiste nel fatto che, per ogni classe di concorso, il bando mette a disposizione solo una ventina di posti, per cui, per accedere alla scuola, è necessario superare una prova scritta e una orale e solo i primi venti classificati possono frequentare la suddetta scuola. Non si capiva il perché del numero chiuso per l’accesso ad una scuola “pubblica-a pagamento”. La risposta del ministero fu chiara: “Perché a noi non sembra serio far abilitare tante persone che non potranno essere poi impiegate; noi fra due anni prevediamo che, fra pensionamenti e nuovi posti, si libereranno venti cattedre per una determinata classe di concorso e venti docenti abiliteremo, che saranno così pronti per l’assunzione”. Passano gli anni e l’inganno comincia a manifestarsi: pochi dei vincitori del concorsone vengono assunti, tutti gli altri continuano a lavorare da precari, compresi i neo-abilitati della SISSIS.

I tagli della Moratti.

Si giunge al 2001, il giro di affari intorno alle scuole di specializzazione per l’abilitazione all’insegnamento è enorme e non sfugge al fiuto del nuovo governo Berlusconi che, nelle vesti della ministra Moratti, continua a bandire concorsi di accesso alla scuola. Milioni e milioni di lire e di euro rubati a generazioni di laureati aspiranti insegnanti. Ma l’opera della Moratti non si ferma qui: con la sua riforma taglia migliaia di cattedre e per i precari le possibilità di ricevere un incarico di supplenza annuale si riducono di anno in anno.

Il disastro Gelmini.

La Gelmini (foto a destra tratta da leformiche.net) rimane fedele alla politica “anti-scuola pubblica”, il disastro è compiuto: per effetto dei suoi tagli aumentano le cosiddette “classi in esubero”, come quella del “diritto”, “storia dell’arte”, “lingua tedesca”, “lingua francese”. I governi successivi, compreso quello attuale, non fanno nulla per cambiare lo status quo.

Il Profumo taroccato.

Quanto al concorso indetto dal ministro Profumo nel 2012, basta dire che la sua unica funzione è stata quella di aggiungere precari a precari. Intanto però il Governo Renzi annuncia l’indizione di un ulteriore concorso (!). Per non parlare dell’imbarazzo che si prova nel dover ricordare che molti colleghi esclusi al primo test di ammissione al concorso sono stati successivamente nominati membri di commissioni giudicatrici.

La nuova emigrazione.

Questa è la realtà nuda e cruda: se da neo-abilitati, nel 2002, i precari riuscivano ad ottenere un incarico annuale di un’intera cattedra (18 ore), oggi i più fortunati ottengono 2/3 ore annuali. La maggior parte rimane a mani vuote, pronte ad essere però presto riempite: dal manico della valigia che farà loro compagnia nel faticoso viaggio della “Nuova Emigrazione”. Fino a qualche tempo fa si parlava di “Fuga dei Cervelli”, espressione usata in riferimento all’emigrazione da parte di validi ricercatori e scienziati italiani che, se il nostro Paese non era in grado né di riconoscere, né di valorizzare, trovavano fortuna all’estero, dove la meritocrazia sicuramente funziona molto meglio che in Italia. La “Fuga dei Cervelli” veniva percepita come un fenomeno grosso modo limitato, come se, in fondo in fondo, ci si allontanava per libera scelta, visto che per rimanere in Italia bastava cambiare mestiere, abbandonare la ricerca, adattarsi magari a fare l’insegnante o il dipendente di una qualsiasi azienda. Finché, dunque, si parlava solo di “Fuga di Cervelli”, tutto sommato, si “tirava a campare”, i vari salotti televisivi di politica e attualità di tanto in tanto ponevano la questione, pochi si scandalizzavano per i primi dieci minuti successivi ai servizi sul tema, pochissimi si impegnavano a fare concretamente qualcosa al fine di arginare tale fenomeno. Oggi, invece, tra il 2013 e il 2014, sempre più frequentemente ricorre l’espressione “Nuova Emigrazione”, una realtà di proporzioni molto più grandi, se non gigantesche, riflesso di un momento storico preoccupante, per usare un eufemismo. Cosa si intende per “Nuova Emigrazione”? Il sostantivo non ha bisogno di particolari spiegazioni: il significato di “Emigrazione” è chiaro a tutti; l’uso dell’aggettivo “Nuova”, invece, necessita di importanti precisazioni: il massiccio flusso migratorio che sta caratterizzando questo momento cruciale della storia del nostro Paese non ha nulla a che vedere con quello che ciclicamente si è registrato dal dopoguerra ad oggi. È un’altra cosa. “Nuova” nel vero senso della parola, in quanto mai verificatasi prima. Siamo infatti abituati ad associare la parola “Emigrazione” alle storiche immagini di uomini e donne che, sfortunati al punto da non aver ricevuto istruzione alcuna, migravano con valigie di cartone e roba raccolta in grandi fazzoletti, nella speranza di sbarcare il lunario fuori dall’Italia. Oggi i protagonisti dello stesso fenomeno sono persone altamente istruite, sempre più spesso con laurea, dottorato, master, abilitazione ad una professione, ampia produzione scientifica e, non da ultimo, curricula tali da far vergognare la maggior parte dei deputati di tutte le legislature della Repubblica Italiana a causa della pochezza dei curricula degli stessi parlamentari!

Che cosa sta succedendo?

Succede che, dopo decenni di mala politica sia di “centro-destra” che di “centro-sinistra”, in Italia non c’è più futuro per “nessuno”. Non solo per i cosiddetti “Cervelli” brillanti ed intraprendenti; non solo per coloro che non hanno avuto la possibilità di andare a scuola, bensì per “nessuno”. Neanche per coloro che, nella speranza di trovare un qualsiasi lavoro sufficiente a garantire una vita dignitosa a se stessi e ai propri figli, negli ultimi 10 -15 anni, in qualità di lavoratori “precari” e in attesa della realizzazione delle ottimistiche, truffaldine, profezie dei vari governanti, del tipo “stiamo uscendo dal tunnel”, andavano perfezionando il proprio livello di preparazione frequentando master, dottorati, scuole di specializzazione etc. Risultato: dopo essere stati sfruttati per più di un decennio, a molti non viene neanche rinnovato lo storico contratto a tempo determinato. I “precari” si sono trasformati in “disoccupati”. Una volta, dopo anni di onorato servizio, si passava dalla condizione di lavoratore a tempo determinato a quella di impiegato a tempo indeterminato; oggi si passa dallo stato di precario a quello di disoccupato. Il Paese intero sta per precipitare nel baratro.

Il pizzo legalizzato e la pseudo-meritocrazia di Renzi.

Chi rimane in Italia continua a pagare “il pizzo legalizzato” dei FORCOM, altro grande scandalo della storia della scuola italiana. In sintesi: nel sistema di reclutamento previsto dai bandi di aggiornamento delle graduatorie per ogni diploma di perfezionamento o master “acquistato” presso FOR.COM – Consorzio Inter-universitario o altre scuole telematiche private, vengono attribuiti da 1 a tre punti, cosicché il povero precario che ha conseguito la propria posizione in graduatoria grazie al servizio maturato onestamente e ai titoli conseguiti solo studiando, è costretto a pagare quest’altro titolo conseguibile, appunto, solo pagando, non studiando, onde evitare di essere scavalcato in graduatoria dal collega che, avendo meno titoli di studio vero e meno servizio, si è convinto a comprarne uno. Piccolo dettaglio: ciascuno di questi titoli costa almeno 600 euro ( fino a migliaia di euro). Ma la cosa più bella è che Renzi parla di “meritocrazia” pur mantenendo il seguente sistema di valutazione: i diplomi acquistati a fior di quattrini presso le università private telematiche fanno punteggio, mentre le pubblicazioni scientifiche, le esperienze di docenza universitaria, le borse di studio finanziate da prestigiosi centri di ricerca non valgono niente! Insomma puoi essere pure un ignorantone, ma se sei ricco e paghi superi chiunque!

TFA solo per i ricchi.

Oggi ai precari delle classi in esubero (storia dell’arte, diritto, tedesco, etc.), quelli che ormai non hanno alcuna speranza di prendere incarichi annuali, il governo Renzi offre una “grande chance”: pagare circa 4.000 euro per il conseguimento dell’abilitazione per il sostegno tramite la frequenza dei TFA (in pratica una prosecuzione delle vecchie SISSIS) presso l’università “pubblica”. L’accesso al concorso è possibile solo dopo aver superato un test preliminare la cui tassa ammonta a 100 euro a testa non rimborsabili (un enorme giro d’affari), i posti disponibili sono 20 circa per ogni università e chi avrà avuto la “bravura” e la “fortuna” di entrare, dovrà pagare circa 4.000 euro di iscrizione. Mentre migliaia di docenti precari, padri e madri di famiglia ormai ridotti sul lastrico, si rivolgono alle banche allo scopo di ottenere un prestito necessario a pagare il TFA di sostegno, il ministero annuncia che i posti disponibili di quest’area spettano prioritariamente ai docenti di ruolo delle classi in esubero. Ennesima beffa. La domanda è: perché continuare ad aprire bandi di concorso abilitanti se le graduatorie scoppiano di precari storici a rischio “Caritas”? Per incassare soldi? Ammesso e concesso che sia per questo, che caspiterina di fine fanno questi soldi, visto che si assume così poco?

Stato di diritto?

Perché in Italia, a parità di titoli conseguiti e di servizio maturato, ci sono docenti che riescono a lavorare ogni anno, sia pure da precari, e altri che negli anni hanno visto progressivamente ridursi il numero dei posti e delle ore disponibili fino a non ricevere più nessun incarico? Esistono dunque lavoratori di serie A e lavoratori di serie B? La risposta ufficiale è: spiacenti le classi nelle quali siete abilitati sono oggi in esubero (a causa dei tagli da noi effettuati). Ora, in quale Stato di diritto è possibile che un Ministero possa con una tale disinvoltura ingannare i cittadini, emanando bandi di concorso per l’accesso a scuole di abilitazione all’insegnamento, facendo versare loro cifre esose raccolte a suon di sacrifici e rinunce, obbligandoli a due anni di frequenza con tirocinio annesso e connesso, sfruttandoli per decenni con contratti a tempo determinato e sotto pagati per poi dire loro: “Signori è stato un piacere!”? Il tutto nel silenzio assordante di Crocetta e del PD, ma tra le urla di Renzi che grida: “Meritocrazia” “Meritocrazia”! Non ci risulta che questa sia prevista anche nei sistemi basati sulla schiavitù…

CHI INSEGNA A CHI. "L'HA DETTO LA TELEVISIONE": MA NON E' VERO.

Qualche decennio fa "l'ha detto la televisione" era la frase che conferiva verità assoluta a un'informazione precedentemente data. Un suggello dogmatico capace di levare ogni dubbio e troncare qualsiasi discussione. La tv non era un elettrodomestico, ma una sorta di oracolo. La frase, in realtà, più che alla televisione in generale si riferiva al telegiornale. Veniva, perciò, riposta completa fiducia nell'attività giornalistica.

L'ha detto la televisione. Niente di quello che ci viene mostrato in televisione sia esattamente com’è raccontato. Però, come diceva Enzo Jannacci quando di canali televisivi ce n’erano solo un paio, la televisiun la g’ha na forsa de leun, la televisiun la g’ha paura de nisun, scrive Giovanni Lodi. Non credo alla televisione. Per spiegarmi, credo che niente di quello che ci viene mostrato in televisione sia esattamente com'è raccontato. Però, come diceva Enzo Jannacci quando di canali televisivi ce n'erano solo un paio, la televisiun la g'ha na forsa de leun, la televisiun la g'ha paura de nisun. Qualche tempo fa "Striscia la notizia" ha dedicato alla nostra professione uno dei suoi servizi. Se volete (ri)vederlo potete cercare la puntata dell'8 marzo 2012 sul sito del programma. Non è la prima volta che la trasmissione (con la forza di un leone) si occupa di odontoiatria. Questa volta, tuttavia, l'obiettivo del servizio non è la segnalazione di un abusivo o la denuncia di venditori di lauree taroccate. Ci viene mostrato un giovane "con un bel po' di problemini" che nella stessa giornata si reca da quattro colleghi per altrettante visite, uscendone (udite udite) con quattro piani di trattamento e quattro preventivi diversi, come spiega tra l'allarmato e lo stupito l'inviato, prima di andare a chiedere lumi a due figure istituzionali. Ai pochi che mi hanno chiesto un parere sul servizio, ho risposto come segue. 1) I tre piani di trattamento non erano tanto diversi, mentre il quarto si differenziava per essere troppo poco interventista, atteggiamento non necessariamente sbagliato e che, comunque, mette al riparo il collega dall'accusa (sempre in agguato) di volerne approfittare. 2) Il piano di trattamento deve essere il risultato di decisioni condivise tra paziente e medico, quindi le differenze potrebbero benissimo essere conseguenza di un diverso comportamento del paziente (che la televisione non ci mostra). 3) Infine la ricerca ci dice che gli strumenti a disposizione dell'odontoiatra per la diagnosi della carie e per decidere del suo trattamento sono soggetti a grandissima variabilità. Sui preventivi diversi è inutile spendere troppe parole: piaccia o no, in Italia i costi delle cure odontoiatriche sono determinati dal mercato. A voi, invece, domando quante volte vi sia capitato di vedere in televisione un'intervista a un paziente con un ginocchio malconcio che, visitato da più specialisti, ne ottenga piani di trattamento diversi (rileggetevi il "Cacciatore di farfalle" di gennaio). Credo che limitarsi a confutare nel merito la tesi del servizio, peraltro piuttosto "obliqua", non sia utile alla professione. Che per diverse ragioni, qualcuna forse neanche sbagliata, gode di cattiva stampa, mentre agli occhi dei cittadini il profilo dell'odontoiatra sembra mutare da figura medica a fornitore di servizi. Una cosa che ho notato è che nel servizio di "Striscia" non si fa mai cenno alla parcella dovuta per la visita. Spero di sbagliarmi, ma temo che i quattro colleghi non l'abbiano chiesta.

''L'ha detto la tv''. Tecniche e modelli di persuasione mediatica. Tesi di Laurea Magistrale. Facoltà: Lettere e Filosofia. Autore: Federica Pollastrelli. La televisione é diventata uno dei mezzi più efficaci per il fenomeno denominato costruzione sociale della realtà. Costruzione della realtà perché le informazioni che recepiamo dalla tv si trasformano in idee, credenze e valori che a loro volta influenzano il modo di percepire il mondo circostante e il modo di relazionarci con gli altri. Il processo che ha portato la televisione a diventare uno strumento tanto influente è stato graduale, a volte intenzionale altre meno, ma sicuramente le tecniche nel tempo si sono affinate grazie ai progressi in campo psicologico e sociologico, che hanno contribuito a chiarire le dinamiche comunicative degli individui e gli effetti della comunicazione mediatica. Se le prime teorie degli anni Venti vedevano l'individuo come una tabula rasa, quelle più recenti, ridimensionano il concetto di media onnipotenti e propongono la tematica della costruzione sociale della realtà. Nell'attuale società dell'immagine è la televisione, attraverso le immagini a veicolare determinate visioni di ciò che ci circonda, condizionando, quindi, quello che noi spettatori percepiamo. Tra le tecniche più note per “realizzare” la costruzione sociale della realtà vi è l'utilizzo del frame. Dato che le persone solitamente ragionano secondo quadri di riferimento costituiti da immagini o conoscenze culturali, l'utilizzo del frame, che significa letteralmente cornice di riferimento, serve per arrivare al nòcciolo di un argomento esprimendo simultaneamente il proprio modo di concepirlo. Questa, che può sembrare una banale semplificazione, è in realtà una tecnica molto efficace e sottile, in quanto non solo permette un controllo sui contenuti detti ma anche e soprattutto su ciò che non viene detto, stabilendo così un'implicita censura. Un'ulteriore conferma del fatto che la televisione ha il potere di condizionare la realtà, possiamo trovarla anche nella comunicazione politica nel momento in cui è venuta a contatto con il mezzo televisivo. Attualmente, l'efficacia del discorso politico è strettamente connessa agli schemi narrativi della tv. L'immagine del leader ha acquisito sempre più peso, diventando perfino più importante dei suoi discorsi e il fattore intrattenimento sembra essere fondamentale per ottenere consenso e visibilità, da qui anche il termine politainment. Anche l'informazione, oltre all'utilizzo del frame, fa molto leva sulle immagini e di conseguenza sull'emotività dell'ascoltatore. Se pensiamo ai servizi giornalistici degli ultimi tempi, possiamo vedere come la cronaca nera abbia in un certo senso il monopolio sugli altri generi informativi. Questo perché da un lato abbiamo accettato e cerchiamo la cosiddetta “tv del dolore” e dall'altro lato perché il valore di notiziabilità è più alto e i giornalisti riescono ad andare avanti per diversi giorni fornendo piccole note di colore o sviluppi sullo stesso argomento. Inoltre, le tinte forti dei servizi servono alle reti per garantirsi il numero maggiore di ascolti. Anche per quanto riguarda la pubblicità ritroviamo lo stesso discorso di costruzione della realtà perché se questa agli inizi era più legata a far conoscere dei beni di uso comune, oggi il suo utilizzo è asservito alla creazione di bisogni indotti per cui i beni vengono caricati di significati simbolici per invogliare all'acquisto facendo leva sulle pulsioni e i desideri, a partire dai bisogni reali fino a quelli riguardanti l'immagine di sé, l'autostima, ecc. Lo sfruttamento della narrazione televisiva crea delle realtà parallele che inevitabilmente condizionano le nostre scelte e quindi le nostre vite. Anche l'utilizzo degli stereotipi veicola determinati significati che dalla televisione influenzano poi le nostre cognizioni. Questo succede perché la tv ricorre spesso al loro utilizzo, anche solo per ragioni di massima efficienza, dato che si tratta di messaggi semplici e facilmente riconoscibili dal destinatario, perché hanno origine nel senso comune. Ma purtroppo gli stereotipi non sono mai neutri, anzi sono molto spesso discriminatori e portano come conseguenza un appiattimento della la realtà, condizionandone addirittura il significato, e a lungo termine ci fanno accettare con fiducia e senza senso critico ciò che la televisione ci propone, senza averne fatto esperienza. L'ultima parte dell'elaborato pone in evidenza la figura femminile, in relazione all'impoverimento dei significati prodotto dal mezzo televisivo. Già dagli esordi della tv la donna è stata presentata come una figura accessoria, cercando solo la valorizzazione del suo corpo piuttosto che altre sue abilità, a dispetto dell'uomo che di solito invece viene caratterizzato più per il suo talento o le sue attitudini. La conseguenza è stata quella di modificare la percezione della figura femminile stessa: anche noi donne oggi ci guardiamo con occhi maschili, perché abbiamo interiorizzato i canoni insiti nello stereotipo che ci vuole seriali, perfette e sempre giovani.

"Lo ha detto la televisione". Quali sono gli effetti della tv sui bambini? Il risultato di un'indagine in una Scuola Elementare della provincia di Milano. Il medium "televisione" più autorevole della parola scritta. La fiducia nel messaggio filmato e l'emulazione, scrive Claudio Dramis su “Pedagogia”. Televisione: compagna di giochi e coadiuvatrice nella crescita, o mostro tecnologico freddo e omologante? Il dibattito è aperto e da più parti oramai si assiste alla continua bagarre che ha visto scendere in campo sociologi, filosofi, pedagogisti, insegnanti, sacri guru del medium televisivo, tutti animati dal primordiale desiderio di rivalsa sugli altri, a dispetto della ragione e dell'evidenza. A farne le spese ancora una volta sono loro: i bambini. In questi ultimi anni gli unici studi organici, tesi a verificare il reale "grado di dipendenza e omologazione comportamentale" nel rapporto tra medium televisivo e bambini, sono stati svolti negli Stati Uniti, per essere successivamente esportati ed adattati ai singoli casi nostrani. Lo studio che in sintesi propongo qui di seguito rappresenta un serio tentativo di personalizzare e caratterizzare il fenomeno, circoscrivendolo alla nostra realtà. La ricerca, i cui risultati sono stati integralmente pubblicati, è stata condotta con la supervisione dei professori Emanuele Ronchetti ed Emilio Mazza - entrambi docenti di Storia della Filosofia presso l'Università Statale di Pavia - su di un campione di 332 bambini di età compresa tra i sei e i dieci anni, della Scuola Elementare Anna Frank di Rho (Milano). Gli obiettivi dello studio sono stati: "misurare" l'impatto emotivo della televisione nei ragazzi esposti al suo influsso e stabilire il reale fattore di influenza della televisione a livello comportamentale e di fiducia nell'informazione. Ai bambini, suddivisi in due sottogruppi, sono stati mostrati due telegiornali appositamente registrati per l'occasione per poterne successivamente valutare l'impatto. I due reportage di cronaca mandati in onda, entrambi della durata di trenta minuti, riguardavano la costruzione di un nuovo centro commerciale al posto della scuola. In un caso si è inoltre aggiunto che tutti gli studenti sarebbero stati smistati in altre scuole del circondario di lì a due anni. Al secondo gruppo è stato invece fatto credere che si sarebbero trasferiti tutti quanti in un'altra scuola entro la fine dell'anno scolastico. I bambini di entrambi i gruppi erano propensi a credere alla rispettiva versione dei fatti giornalistici loro presentati, per il solo fatto che era stata la tv a riferirli. A questo punto è stato sottoposto ai due gruppi di bambini un manoscritto sotto forma di libro vero e proprio, che smentiva entrambe le versioni dei fatti in precedenza comunicati dalla televisione. Il risultato è stato che solo il 19% dell'intero campione ha creduto alla versione scritta della stessa informazione, mentre il resto del campione ha continuato a credere alle notizie comunicate dalla tv, nell'una o nell'altra versione fornita. Sui due gruppi sono stati misurati gli effetti della violenza indotta ed è stato testato concretamente quanto radicato fosse il messaggio televisivo interiorizzato dai due gruppi. Per completezza di informazione va ricordato che entrambi i telegiornali sono stati realizzati con tecniche e mezzi elementari, senza l'aiuto di alcuna immagine o situazione spettacolare. Anche in questo caso la previsione non è stata smentita. I due gruppi, mostrando un atteggiamento molto aggressivo l'uno nei confronti dell'altro, hanno sostenuto la propria versione dei fatti, attaccando molto duramente, a livello verbale e in taluni casi ricorrendo anche alle mani, i compagni del gruppo opposto. Il secondo esperimento ha invece più propriamente inteso verificare se esista davvero una correlazione diretta tra violenza trasmessa dalla televisione e quella innescata nei soggetti più giovani esposti al suo influsso e se questo tipo di relazione esista anche nel caso di un messaggio non violento. In due fasi successive e distanziate nel tempo, abbiamo sottoposto i bambini, per più pomeriggi consecutivi e per più ore, ogni volta ad una programmazione televisiva operata ad hoc. L'esposizione al medium televisivo si è verificata durante l'arco di due settimane per un'ora al giorno. Si è poi proceduto ad una fase di "decantazione" di un mese, prima di esporre nuovamente i ragazzi ad un'altra programmazione con le stesse modalità e tempi della prima volta. Nel primo caso è stata loro mostrata una serie di cartoni animati e telefilm dove erano presenti in notevole percentuale atti di violenza palese e incitamento all'azione. Nella seconda tornata abbiamo invece fatto l'esatto opposto, trasmettendo un'intera serie di cartoni animati e telefilm dove i messaggi predominanti erano amore, amicizia, affetto, invito alla solidarietà e così via. L'intenzione era di verificare se - come dimostrato da altre ricerche internazionali, come ad esempio quella di Charles S.Clark - solo gli aspetti violenti avessero presa sul subconscio del bambino. I risultati sono stati molto divergenti. In effetti, subito dopo la messa in onda della programmazione "violenta", soprattutto nei maschietti, si è verificato una sorta di risveglio collettivo che ha portato ad emulare le gesta, verbali o d?azione vera e propria, dei personaggi che avevano popolato i cartoni animati o i telefilm trasmessi poco prima. Mentre l'ambiente esterno, le figure autoritarie, hanno mantenuto un atteggiamento neutrale, né di repressione o controllo né tantomeno di invito alla violenza o compiacimento, procedendo con la visione dei programmi, le reazioni aumentavano per intensità e durata, coinvolgendo in parte anche le bambine del gruppo. Nel secondo caso, di fronte a una programmazione "non violenta", le manifestazioni evidenti, diffuse sia tra bambini che bambine, sono state soprattutto di natura verbale molto pacata (di solidarietà nei confronti del protagonista, un'azione "buona", o di disapprovazione nei confronti del "cattivo"), o emotiva (lacrime e pianto). Il protrarsi dell'esperimento per le due settimane non ha dato particolari dati di rilievo, soprattutto per ciò che riguarda l'intensificarsi delle reazioni e la loro durata. A distanza di tempo dalla messa in onda delle trasmissioni è stato verificato il grado di memoria dei contenuti delle trasmissioni e dei messaggi contenuti a livello latente o palese. I risultati in questo caso sono stati divergenti e sorprendenti. Il messaggio "violento" o "d'azione" aveva lasciato nei bambini un ricordo vivido ed acceso: è bastato ricordare loro un personaggio o un momento di particolare suspence per scatenare in loro reazione molto vivaci e aggressive. La risposta alla sollecitazione attraverso il ricordo di immagini non violente è stata molto più pacata. Si è comunque evidenziato che se i bambini vengono seguiti e sollecitati di continuo, anche i messaggi "buoni" possono condizionare il loro comportamento. L'operazione ha richiesto molta pazienza e tempo, ma alla fine si è potuto stabilire con assoluta certezza che anche un messaggio "buono" può penetrare il subconscio del bambino. I bambini sono stati sollecitati singolarmente per misurarne il grado di reazione in presenza di estranei. In questo caso si è potuto vedere come tutti i maschietti di età compresa tra i sei e gli otto anni non dimostrassero alcuna inibizione nei nostri confronti, e che addirittura il 73% dei bambini in esame non ha avuto remore nel proporre un comportamento violento a fronte della sollecitazione. Questa percentuale è invece caduta al 39% nel caso di bambini tra gli otto e i dieci anni. Si è invece notato come, nel caso di una sollecitazione "nonviolenta", solo il 23% dei bambini, comprese quindi anche le bimbe, hanno risposto in modo positivo, mentre la restante fetta ha dimostrato una gamma di sentimenti che andavano dall'indifferenza, al semplice commento verbale pacato, all'incomprensione del messaggio di fondo contenuto nella programmazione televisiva.

Non andate a ripetizione dalla televisione. La cultura si veicola solo coi libri. Il piccolo schermo non insegna, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quando ero a Catania c'era un programma di formazione detto delle 150 ore ed io venivo spesso chiamato a tenere conferenze nei paesi circostanti, ad Acireale, Giarre e Riposto, con un pubblico popolare che amava la cultura e voleva sapere. Oggi la cultura viene erogata dalla televisione che, con centinaia di canali, ti dà infinite cose interessanti, ma crea un rapporto totalmente diverso rispetto a quello che aveva il conferenziere che parla a te personalmente, a cui tu fai domande, con cui hai un rapporto umano che poi ricorderai per anni. La televisione mostra, racconta, diverte, emoziona, informa; ma non insegna. Per insegnare ci vogliono due cose apparentemente opposte. La prima è l'autorità, il prestigio, il credito personale dell'insegnante. Il rapporto fra maestro e allievo è squilibrato. Uno sa più dell'altro e questa superiorità gli viene riconosciuta nel rapporto faccia a faccia. L'altro elemento è la possibilità di chiedere chiarimenti, di far ripetere e di dissentire. In televisione queste condizioni mancano entrambe. Nel dibattito televisivo tutti quelli che discutono sullo schermo hanno la stessa autorevolezza, possono avere tutti ragione. Tu, partecipando da casa, ti consideri uno di loro, ma la tua è una illusione di appartenenza, in realtà sei fuori, non puoi parlare, non conti nulla. E se non conti nulla, se non puoi obbiettare, dire la tua, non puoi nemmeno imparare. Non puoi imparare nemmeno quando c'è uno che insegna come fa Daverio in Passepartout. Perché corre veloce sui quadri, sui monumenti, ma non ti chiede se hai capito, non puoi chiedergli di ripetere ciò che ti interessa. E così non ricordi niente. Perché invece il libro insegna? Perché lo leggi e ritorni sul letto, sottolinei, scrivi una critica, prendi appunti, pieghi una pagina e tutto questo resta sul testo, che diventa così un libro vissuto, riscritto, commentato, corretto da te. Per questo impari, perché la lettura è un dialogo, un dibattito che puoi riprendere in seguito insistendo sulla tua tesi o cambiando idea. Impari perché il libro è un pensiero che elaborate insieme tu e l'autore. Invece davanti alla tv sei solo uno spettatore.

Dal “l’ha detto la tv” al “l’ha detto la Rete”. Per i politici il Web è la nuova entità metafisica, e non sono solo gli M5S a citarla continuamente. C’è uno spirito che circola nel Palazzo e che possiede, a turno, i politici italiani: la Rete. Articolo determinativo ed Erre maiuscola, come un’entità metafisica e trascendente, capace di decidere le sorti dell’Italia. Chi pensava che la retorica digitale fosse esclusiva del M5S — specializzato nel vedere nel web la soluzione di tutti i mali — è stato costretto a ricredersi: la Rete è diventata per tutti gli schieramenti la ragion politica di candidature, rinunce e cambiamenti. L’elezione del Presidente della Repubblica è stato il trionfo della sua transustanziazione. Insospettabili compresi: da Stefano Rodotà («La mia candidatura girava in Rete da mesi» ha dichiarato) a Mario Monti, secondo cui il nome di Anna Maria Cancellieri è emerso «con forza dalla Rete». Nei talk show che affollano il palinsesto televisivo, quando la discussione si fa difficile, ecco comparire la Rete a smuovere le acque, nemica o amica dello schieramento a seconda di chi parla. Tanto nessuno può smentirla, la Rete.

L'ITALIA CHE COPIA.

Maturità, ecco l’Italia che copia, scrive Alex Corlazzoli su “Il Fatto Quotidiano”. Alzi la mano chi non ha copiato all’esame di maturità. In Italia siamo fatti così: un popolo che si arrangia, che prova a farcela, che di fronte ad una difficoltà trova il modo per superarla. La prova del nove arriva dai dati, diffusi da qualche ora sul portale www.studenti.it: al terzo scritto, il 39% dei maturandi ha copiato. Come ha fatto? Perché? Chi ha permesso che ad un esame di Stato, perché questo è sulla carta, quasi la metà degli studenti allungasse l’occhio sul foglio del compagno o si passasse la prova da un banco all’altro? Le risposte a questi interrogativi potremmo provare a darle insieme. Intanto guardiamo a ciò che è accaduto: di fronte alla prova redatta dalla commissione interna con dei quiz su cinque materie, il 39% dei maturandi ha dichiarato di essere riuscito a copiare; di questi il 23% è stato così “bravo” da essere riuscito a scopiazzare tutto da un compagno e il 16% ha ammesso di aver abbastanza “rubato” risposte. Percentuali che suscitano qualche riflessione: se così tanti ragazzi hanno avuto necessità di copiare, forse va preso atto che questo tipo di prova è troppo difficile o forse la Scuola non prepara a sufficienza gli studenti. Che senso ha allora un esame dove buona parte dei maturandi si “arrangia” per ottenere il miglior voto possibile che sarà poco fedele alle reali competenze dei nostri ragazzi? Ecco il parere di uno dei protagonisti: “Le richieste erano abbastanza generiche. Il problema è ripassarsi tutti i programmi di tutte le materie per trovarsi poi solo tre richieste. E’ ovvio che uno studia tutto in modo superficiale e poco in modo preciso. Ed è qui che entra in gioco il tuo fantastico vicino di banco! A quel punto le intelligenze si fondono e si compensano”. Aggiungiamo un altro dato: secondo l’indagine del portale studenti.it,  il 25% avrebbe avuto l’aiutino del professore. Giusto? Sbagliato? Di là del giudizio (vista com’è impostata la maturità in Italia anche chi scrive avrebbe dato una mano ai suoi ragazzi), dobbiamo registrare questo dato e prenderne atto: da una parte l’Invalsi soffre del cheating ovvero la manipolazione diretta da parte dei docenti attraverso il suggerimento, dall’altra la maturità è altrettanto una fotografia falsata delle competenze dei nostri ragazzi. Non sono un fanatico della legalità, al punto da puntare il dito contro chi copia, ma se questo Paese funziona così diciamolo con chiarezza: alla maturità si copia; al concorsone si portano i “pizzini” o si chiede l’aiutino; al test d’ingresso all’università si trova il modo per farcela. L’importante è saperlo. Non facciamo finta che tutto va ben, come cantava Ombretta Colli.

IL TEST INVALSI E IL FENOMENO DEL "CHEATING" (INGANNO).

In Campania, Sicilia, Calabria, Molise, Puglia (seppur risalente la china) i docenti che danno l'aiutino agli alunni durante le prove Invalsi, soprattutto durante le prove d'esame di licenza media. A dare le tendenze ieri al Ministero, durante la presentazione dei risultati delle prove 2014, Roberto Ricci, Dirigente di ricerca dell'invalsi. Il fenomeno è stato battezzato con il termine anglosassone "cheating", che deriva dal termine Cheat (imbrogliare, frodare) e che in questi ultimi anni viene monitorato attraverso processi di identificazione di tipo statistico complesso. Un esempio banale, se un'intera classe risponde correttamente ad una domanda, statisticamente non è accettabile, quindi, ho la voce è passata velocemente o il prof ha dato la soluzione a tutti. Ed è proprio su questo secondo caso che l'Invalsi insiste, perché si tratta di un esempio negativo a livello educativo. Altri fattori che sono indicatori di imbrogli possono essere: punteggio troppo elevato rispetto alla media nazionale; troppe risposte identiche all'interno della classe; basso numero di risposte non date. Un sistema che si affina negli anni con nuovi parametri, al fine di restituire statistiche nazionali ripulite e veritiere. Le statistiche ci dicono che il fenomeno è diffuso soprattutto alle superiori, anche se un apice indicato ieri da Ricci riguarda proprio gli esami di licenza media, in un crescendo che si acuisce aumentando il grado scolastico. Un fenomeno rilevante, almeno statisticamente, al Sud, ma al Nord non si scherza. Basti ricordare che lo scorso anno l'Invalsi restituì i test a ben 78  scuole tra Trentino e Lombardia per comportamenti anomali.

Test Invalsi: "cheating" per gli studenti italiani? Si chiede Francesco Trovato su “Oggi Media”. "Cheating" per gli studenti italiani all’ultimo test Invalsi, secondo i primi dati diffusi dall’agenzia governativa, preposta alla valutazione del sistema di istruzione in Italia, conferma, specie nelle regioni del Sud, la tendenza “generosa” di professori buoni e, altrettanto, di alunni preparati, ad aiutare i compagni in difficoltà. Il test Invalsi nasce, in via sperimentale, nei primi anni di questo Millennio, diventando, a tutti gli effetti, una prova di esame nella scuola secondaria di primo grado, la cosiddetta scuola media. Dal momento che essa diventa oggetto di valutazione finale, unitamente alle altre prove che canonicamente vengono somministrate, tra cui Matematica, Italiano e lingue comunitarie, ci si rende conto di come un test impegnativo possa segnare il “destino" del discente che si appresta a varcare le scuole superiori. Ebbene, le prime rilevazioni del Test Invalsi confermano l’aiutino, “cheating”, fornito agli alunni, sebbene il fenomeno, ancora da leggere nei dati completi, sembra non avere peso rilevante nel tracciare il quadro complessivo dello stato di salute educativa fornita dalla scuola italiana. Per anni le scuole del sud di Italia hanno visto un trend negativo, ad eccezione di qualche oasi di felicità come la regione Puglia, segnando una iato netta con le meglio preparate scuole del Nord del paese. Oggi, secondo l’agenzia educativa, questo gap sembra drasticamente ridursi almeno nella scuola primaria, portando il Sud a livelli paragonabili al Nord. Il test Invalsi, che quest’anno, ha visto ben due milioni e trecento mila studenti, di quinta elementare, di terza media e del secondo anno del Biennio delle Superiori, per un totale indicativo di circa 130 mila classi, sta portando ala luce lo straordinario livello di maturazione formale di contenuti e competenze per i ragazzi degli istituti tecnici, elevati al rango del Liceo, “nobile” culla dello studio teorico e degli assi culturali fondamentali dei saperi; in particolare, risalta il successo formativo nelle regioni del Nord-Est, in particolare del Friuli, Veneto e Trentino, con la sorpresa Marche. I dati del Test Invalsi, in futuro, senza cortine fumogene e senza tendenziose manipolazioni della sua natura di strumento di rivelazione tesa a migliorare la qualità del sistema di istruzione del nostro paese, potranno rappresentare il plafond di base da cui partire per aiutare le scuole, gli alunni e i professori del territorio con le maggiori difficoltà sotto il profilo socio-educativo. E’ indubbio che il ragazzino della periferia non ha gli stessi "tools" e gli stessi stimoli e "visio" della cittadinanza propositiva del discente dell’ambiente “Tranquillo”. Solo in questa dimensione il Test Invalsi può divenire strumento di lavoro indispensabile e imprescindibile per ogni docente.

L’imbroglio nell’Invalsi e l’opinione dei docenti, scrive Pasquale Almirante su “Tecnica della scuola”. Secondo l'Invalsi il fenomeno del "cheating" che significa imbrogliare, bluffare è una pratica adottata dai docenti per aiutare gli alunni alle prove. Tanti i commenti sulla nostra pagina Fb, ma rimane il mistero del motivo per cui tale "esercizio" sarebbe di più adottato al sud, anche se il nord non è del tutto esente. E ne abbiamo chiesto il motivo e per lo più, sulla base dei commenti su Facebook, si è capito che nella maggioranza dei casi il suggerimento ai ragazzi è un modo per snobbare un test ritenuto inutile, come dice Maria Luisa, Maurizio, Giuseppe, Gianna, Oscar (fatta la legge trovato l'inganno), Normanna (ci guadagnano solo gli imboscati Invalsi), Sara (che siano inutili se ne sono accorti anche dove sono stati dottati per la prima volta), Carmela, Rita (meglio come una volta), Maddalena (boicottarle aderendo agli scioperi), Rosanna, Lu Isa, Gianluca (tecnicamente dubbie e obsolete). Pochissimi i sostenitori: Michela "utili per eliminare distorsioni e discrepanze nella valutazione. Non è possibile che nel liceo di una data città ci siano cinque 100 in una quinta classe, e non come caso eccezionale, in altri contesti territoriali analoghi un solo 100 in tutto l'istituto"; Mary: "come vi siete accorti di questo bluff? Il nord è sempre più avanti combinazione, ma poi i migliori professionisti sono del sud: chissà perché?" Paola invece sostiene che il "cheating" sia una forma di protesta anche nei confronti "del tempo speso ad inserire al computer quei dati, in un mese così impegnativo come maggio.... E poi una prova unica per tutte le tipologie di scuola non ha senso. Infine eviterei polemiche nord-sud". Ma subito dopo si passa alla critica verso la classe dei docenti italiani: "è la peggiore del mondo" per Marcello, ma sarebbe "la migliore del mondo" per Salvatore, mentre per Giovanna "è forse la meno "addomesticabile". Lorella invece è chiara: "come mai il "cheating" si "verifica soprattutto in quelle 3 regioni? Grazie ai concorsi truccati e alle lauree comprate". Di uguale avviso, ma più determinata, Tiziana: "una parte della classe docente andrebbe ... eliminata! Le mele marce vanno tolte, altrimenti fanno marcire piano piano tutte le altre"; ma non suggerisce come "andrebbe eleminata", non certo fisicamente, vogliamo sperare. Favorevole alle prove Invalsi pochissimi nostri lettori su Fb: Carmen: "Le prove Invalsi sono un modo, certamente parziale, ma intelligente di valutare gli apprendimenti dei nostri ragazzi. Io insegno italiano e le trovo ben costruite. Con tanto lavoro dietro. Se i docenti non credono alla validità di questi test non dovrebbero temerle. Ma il teatcher cheating mi fa capire il contrario"; e Michela: "se ben concepite rappresentano, ad oggi, l'unico tentativo di pervenire a valutazioni obiettive e unificate. La discrezionalità nella valutazione tra scuola e scuola, città e città rimarrebbe sempre troppo ampia". Come si vede il dibattito, ancora del tutto parziale sulla nostra pagina Fb, non ha però centrato la domanda capitale: perché, secondo i nostri lettori, gli aiutini da parte dei professori agli alunni alle prove Invalsi primeggiano soprattutto al Sud? Non ci serve per farne statistiche, ma solo per capire la tendenza generale. Sicuramente ci piacerebbe sapere la loro opinione anche su un'altra domanda capitale: perché secondo loro il sud arranca sia nelle prove Invalsi e sia anche in quelle Ocse-Pisa?

TEST INVALSI INUTILE E LA SCUOLA A COLORI.

Test Invalsi: cosa c'è che non va e come si potrebbero cambiare. Poco supporto alle scuole. Domande scadenti. Nessun questionario per conoscere meglio genitori, studenti e insegnanti. Sovrapposizione fra prove nazionali e internazionali. Così da 30 anni le valutazioni standard dicono sempre le stesse cose delle nostre scuole. Senza che per questo l'educazione migliori. Ecco dove bisognerebbe intervenire, secondo due grandi esperti, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. È un rito che si ripete ogni anno. Col suo corredo di stress, fatica e proteste. I test Invalsi, introdotti per la prima volta 13 anni fa e diventati d'obbligo per tutti gli studenti italiani, dalle elementari alle superiori, catalizzano battaglie e speranze come pochi altri aspetti della scuola dell'obbligo. Valutare infatti è difficile. E se la misura viene imposta dall'alto può risultare odiosa. Quest'anno alla guida dell'ente è arrivata una nuova presidente, Anna Maria Ajello, che promette di voler cambiare le cose e di ascoltare i pareri di chi dissente. “l'Espresso” ha chiesto a due esperti di provare a spiegare, concretamente, cosa c'è che non va in queste prove. E come potrebbero migliorare. Così Bruno Losito , docente a Scienze della formazione all'Università di Roma Tre e per 15 anni responsabile dei quiz internazionali dell'Invalsi, e Clotilde Pontecorvo , professore emerito di Psicologia evolutiva alla Sapienza, raccontano cosa servirebbe, secondo loro, per rendere i test più giusti ed esatti. E quindi forse più benvoluti. «L'aspetto forse più disperante, dei test Invalsi, è che gli elementi di fondo fotografati dai risultati di oggi sono gli stessi degli anni '70», inizia Losito: «Gli esiti nazionali sono oltremodo prevedibili: la distanza del Sud dal Nord, l'arretratezza delle regioni meridionali … Uno si chiede a cosa serve continuare a insistere sulla valutazione se poi non cambia niente. È frustrante». «Io c'ero, 30 anni fa, nella squadra che ha avviato le prime prove standard per misurare le competenze degli alunni», racconta Pontecorvo: «E in effetti ciò che scoprimmo allora a livello nazionale è purtroppo quello che emerge ancora oggi: le ineguaglianze derivano dalla collocazione territoriale». Ma è colpa dei test se alle loro domande gli studenti falliscono a seconda di dove sono nati? O della politica che non interviene a riguardo? «Bisognerebbe definire a cosa servono i quiz», risponde Losito: «Se servono per programmare politiche nazionali oppure piuttosto per permettere ai docenti della singola scuola di intervenire sulle carenze. Ma per questo ci sarebbe bisogno di supportare le classi, dare loro esperti, fondi, tempo. Da 13 anni ormai le prove Invalsi sono entrate nelle scuole. Perché non finanziare una ricerca che studi e analizzi sul serio se sono servite a qualcosa? Se a professori e dirigenti scolastici sono state utili per cambiare oppure no? Se hanno fatto avviare miglioramenti oppure sono rimaste nei cassetti?». L'altro tema eternamente discusso riguardo alle prove è loro sostanza. Di imbuti a crocette, fondamentalmente, domande chiuse a cui rispondere attingendo alle proprie conoscenze di grammatica, matematica, logica. Ma chiuse. «Io ho sempre difeso le prove scritte», spiega Pontecorvo: «Ho insegnato per 15 anni in un liceo classico e dalla mia esperienza, oltre che dai nostri studi, ho sempre tratto l'idea che le prove scritte siano più oggettive delle interrogazioni orali, nelle quali il docente mette per forza la sua parte. L'interrogazione serve per interagire, approfondire, ma non è la forma migliore per valutare. Certo, poi c'è prova scritta e prova scritta». Ovvero c'è l'abisso che separa una composizione a soggetto libero da un quiz, e da un quiz raffazzonato a uno studiato nel dettaglio. «Gli attuali test Invalsi sono molto più “chiusi” di quelli internazionali, paradossalmente», commenta Losito: «E questo per un evidente problema di costi e di tempo: vogliono fare prove universali, dirette a milioni di studenti, e correggerle in pochi mesi per restituire i risultati alle scuole entro ottobre. Così è impossibile, anche assumendo ricercatori precari. La verifica delle risposte a domande aperte è uno dei costi maggiori nel budget Invalsi. Ma sono anche le domande più importanti». Quindi? «È davvero necessario sottoporre questi test a ogni alunno in ogni classe ogni mese di maggio di ogni anno?», si chiede il docente di Roma Tre: «Non sarebbe sufficiente proporre le prove con cadenza biennale, per dare spazio a test più aperti, più complessi, quindi a correzioni più attente, così come ad analisi più profonde sui risultati da inviare ai docenti e ai dirigenti scolastici?» C'è un altro vuoto nei mega-test che impegnano in questi giorni bambini e ragazzi italiani. Ed è quello del contesto: «Anche qui, assurdamente, i test internazionali sono più attenti dei nostri», spiega Losito, che ne è stato responsabile per 15 anni: «Insieme alle domande di matematica e italiano c'è sempre un questionario rivolto agli studenti e ai loro genitori, per poter confrontare i risultati col contesto di provenienza degli alunni. Nelle prove nazionali questo aspetto manca». «Bisognerebbe averlo chiaro, e ribadirlo ogni volta: questi test servono a misurare. Non a valutare», continua Pontecorvo. Sembra una differenza lessicale, più che sostanziale, visto che il ministro che ha introdotto le prove, Letizia Moratti, li chiamava per l'appunto “ strumenti di valutazione ”, e che i dirigenti scolastici mostrano fieri i risultati sui siti web d'istituto se sono eccellenti o li nascondono se sono scarsi. «Questo è un grave errore delle istituzioni», afferma la docente della Sapienza: «Per controllare e valutare sarebbero necessari molti altri valori che ora non entrano nei risultati. E riguardano gli alunni, le loro famiglie, la posizione della scuola, il contesto. Soprattutto non servono per valutare gli insegnanti, come suggeriscono invece alcuni dirigenti». Nel 2012 l'istituto Invalsi ha speso complessivamente 24 milioni e 962 mila euro. Per i prossimi tempi calcola le sue necessità finanziarie in 16 milioni e 960 mila euro all'anno. Di questi, quattro serviranno per le prove universali nazionali; due per quelle internazionali; 850 mila euro andranno a quelle campionarie; e due milioni e mezzo infine serviranno a “supportare” le scuole nella loro “autovalutazione”. «Il confronto internazionale è indispensabile», sostiene Pontecorvo. «Ma nella fotografia che dà del Paese a livello centrale si sovrappone agli esisti delle prove nazionali», aggiunge Losito. Quindi? Si tratta di un costoso doppione? «In parte sì», risponde il docente romano: «Ed è una sovrapposizione che va risolta. Il campione selezionato per i confronti internazionali probabilmente è troppo vasto. Si potrebbe risparmiare ed avere ugualmente un parametro con cui confrontare i nostri risultati a quelli degli altri Paesi dell'Ocse». L'ultimo rischio, il più avvertito, forse, dai docenti, riguarda le conseguenze che le prove hanno nelle classi. «I nostri studenti hanno un tasso altissimo di risposte non date», spiega Pontecorvo: «Ed è dovuto al fatto che non capiscono le domande. Non sono abituati a quell'impostazione, alla formulazione dei problemi proposta dagli standard internazionali. Il rischio è che gli insegnanti allora si riducano al “teaching to the test”, ovvero ad addestrare gli alunni a rispondere ai quiz piuttosto che a rafforzare le competenze di base che questi richiedono. Una prospettiva pedagogicamente orribile». Le prove intanto aumentano però, risicando tempo all'insegnamento, fra campioni, test nazionali, confronti internazionali e questionari vari. Richiedendo straordinari ai docenti per correggere e verificare: «Il rischio è che le classi arrivino a non sopportare più l'idea di doversi sottoporre ai test», racconta Losito: «Come già sta avvenendo in paesi come la Gran Bretagna. Nel 2005, quando chiamavamo le scuole per chiedere di partecipare a una prova internazionale non si tirava indietro nessuno. I miei colleghi di oggi dicono che ora chiamano e iniziano a trovare resistenze. Continuando così andranno in sovraccarico, e senza un serio incentivo per farlo».

Scuola: se gli stranieri vanno meglio degli italiani nei test. Prove Invalsi 2014, seconda elementare, Campania. Punteggio medio degli immigrati in matematica: 222. Dei loro compagni di classe campani: 198. È un risultato "statisticamente significativo", scrive l'istituto nazionale di valutazione. E non è il solo sorpasso. Extracomunitari che studiano in Lombardia, al liceo, dimostrano competenze più alte dei loro coetanei siciliani. Anche per quanto riguarda la nostra lingua materna, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Le prove Invalsi non sono certezze assolute. E in ogni classe possono esserci bambini secchioni, a prescindere dalla nazionalità. Ma quello che emerge dai quiz sottoposti a centinaia di migliaia di studenti fra maggio e giugno del 2014 resta significativo. Perché? Perché nelle scuole elementari della Campania i bambini immigrati hanno risposto alle domande di lingua italiana e a quelle di matematica meglio dei loro coetanei nati e cresciuti in patria. Sono stati più bravi. E non di poco: il punteggio medio dei bimbi arrivati dall'estero, in algebra, è stato 222. Lo standard raggiunto dai loro compagni di classe campani è 198: ventiquattro punti in meno, in seconda elementare. E la differenza emerge anche nella comprensione della lingua: il punteggio ottenuto dai non-cittadini italiani è 203. Quello dei loro vicini di banco napoletani è 196. Obiezione: il dato potrebbe essere un'eccezione. Potrebbero esserci dei super-geni fra i 21mila studenti stranieri iscritti in Campania, provenienti principalmente da Romania, Perù, Marocco, Cina, Albania. Ma i valutatori reputano il risultato “statisticamente significativo”, come annotano nella relazione pubblicata pochi giorni fa . E il fatto non è poi così straordinario. Perché il divario fra stranieri (in questo caso primi) e italiani ritorna in molti altri casi. I quindicenni romeni, albanesi, marocchini, indiani e cinesi che vivono in Lombardia dalla nascita, ad esempio, hanno dimostrato di avere in media competenze pari a 200 punti in Italiano e 203 in Matematica. I loro coetanei siciliani, figli di genitori siciliani, si fermano a 189 e 186. Cioè dimostrano, almeno per gli standard elaborati dall'Istituto nazionale di valutazione, di avere meno dimestichezza con la lingua materna del nostro paese. Non è finita. I tredicenni extracomunitari che frequentano le scuole medie in Puglia prendono di solito 208 nei questionari di matematica. I loro compagni di classe pugliesi arrivano a 192. Ovvero stanno 16 punti più giù nella classifica delle capacità. E come in quelle della Campania, lo stesso sorpasso avviene in altre scuole elementari. Dove i bambini extracomunitari o provenienti da altri paesi della Ue hanno dimostrato conoscenze migliori dei loro coetanei: succede sia in Sardegna che in Molise. Certo non è la norma. A livello nazionale, e nel confronto interno fra classi del Centro e del Nord, i risultati degli studenti stranieri, arrivati ad essere 786mila nel 2013 , ovvero quasi il 10 per cento della popolazione studentesca, sono di molto inferiori a quelli dei loro coetanei italiani: fino a 30, 40 punti di meno. Anche se il divario, profondo soprattutto per gli immigrati di prima generazione, si assottiglia per quelli di seconda (ovvero nati in Italia). «Questo è un elemento di grande speranza», spiega Stefano Molina, dirigente di ricerca a fondazione Agnelli: «perché sono proprio le "seconde generazioni" ad aumentare, come numero, nelle nostre scuole. Si tratta di giovani che di solito a casa parlano un'altra lingua, ma si sentono italiani e non vogliono vedere proiettati su di sé gli stereotipi che attribuiamo ai genitori. Vogliono fare passi avanti». Il secondo elemento costante da Nord a Sud è che se gli alunni immigrati dimostrano difficoltà con l'italiano, ne hanno molte meno con la matematica. «I risultati Invalsi dimostrano che a mancare agli stranieri non sono la voglia, l'intelligenza, la capacità», continua Molina: «Quanto gli strumenti per superare lo scoglio linguistico. I nostri libri di testo sono spesso scritti in maniera ostica per gli stessi italiani. Ancor più per chi a casa non ha supporto o riferimenti». Ma le difficoltà con la grammatica si possono superare: «I problemi maggiori arrivano con la scrittura e l'analisi dei testi letterari», racconta il ricercatore, esperto di seconde generazioni e autore di saggi sul tema: «A Torino abbiamo organizzato in 24 scuole corsi pomeridiani specifici. E hanno avuto un successo enorme». E sulle performance straordinarie dei bambini stranieri del Sud? Sono maggiormente integrati? Il loro successo è dovuto al fatto che sono presenti in minor percentuale? A Napoli ad esempio ne sono iscritti 3259, dieci volte meno di quanti non frequentino le scuole milanesi (32000). «Temo che quelle distanze che si ribaltano, a favore degli stranieri, in Sicilia, Puglia, Calabria, Sardegna, Campania, non siano testimonianza di un successo educativo. Al contrario: significa che gli italiani di confronto sono diversi», sostiene Molina: «insomma, questi risultati sono semplicemente una cartina da tornasole del basso livello di competenze che gli alunni raggiungono in quelle regioni». L'esito che dovrebbe far più riflettere, secondo Molina, è quello che riguarda i ragazzi del secondo anno delle superiori. A 15 anni un extracomunitario nato da genitori stranieri e cresciuto in Lombardia, o in Emilia Romagna, riesce a dimostrare una maggiore conoscenza dell'italiano e della matematica di un suo coetaneo del Sud o delle Isole (il punteggio medio è 200 contro i 189, 186 della Sardegna ad esempio), «E le competenze raggiunte a 15 anni sono fondamentalmente quelle che i ragazzi si porteranno avanti tutta la vita. Sono il sapere con cui diventano adulti». L'Invalsi può sbagliare. Ma questi sono gli standard che racconta del nostro nuovo Paese.

Che meraviglia la scuola a colori. Vengono da Marocco, Cina, Filippine e Romania. Sono i compagni di corso di molti bambini italiani, in classi sempre più multietniche. Dove imparano, tutti insieme, lezioni di vita preziose, scrive Daniela Condorelli su “L’Espresso”. Owais, Sokna, Faraz, Khurram, Shoaib, Amna. E ancora: Umar, Meesum, Kene, Salim. Sono i nomi che riecheggiano nelle classi della primaria di Verdellino, provincia di Bergamo. Sono sempre di più gli alunni stranieri in Italia: 9 su cento, dice il ministero dell'Istruzione, nella scuola dell'obbligo. In certe zone vuol dire avere classi con soltanto uno o due italiani. Accade in via Ravenna a Milano, zona Corvetto, o a Zingonia, incrocio di comuni ad altissima immigrazione nel bergamasco. Corridoi con maschere africane, classi variopinte che sembrano il set di una pubblicità di Benetton, un tripudio di accenti, veli, copricapi a cipolla, occhi a mandorla e treccine. Lingua franca l'italiano, per capirsi e per studiare, per fare sport e per giocare. Qui tutti sono uguali, e non perché c'è scritto nel piano dell'offerta formativa. Sono nati qui, oppure arrivano a nove anni, disorientati; sono già andati a scuola nel loro paese o è la prima volta che entrano in classe, hanno genitori laureati o analfabeti anche nella lingua d'origine. In zona Corvetto, scuola Fabio Filzi, dove la parola "segreteria" è scritta in otto lingue, negli ultimi anni i bambini italiani sono sempre tre su venti. Gli altri vengono da Marocco, Romania, Egitto, Filippine e Cina: il consolato cinese si è trasferito in zona. Tanto Marocco, Senegal e Pakistan, invece, a Zingonia, crocevia di comuni nato a tavolino negli anni Sessanta in un'area fortemente industrializzata e diventato polo di attrazione per l'immigrazione, all'inizio dal Sud e poi dall'estero. Qui la cultura dell'integrazione ha radici lontane. La maestra Emanuela Bosco, con i suoi trent'anni di esperienza, ricorda ancora i bambini che arrivavano in classe con una chiave appesa al collo: «Erano immigrati dal Sud. I genitori lavoravano in fabbrica e loro dovevano tornare a casa a cucinare per la sera». Poi è arrivata l'ondata dall'estero: oggi sono oltre venti le nazionalità rappresentate. Vengono da Albania, Costa d'Avorio, India, Tunisia, Perù, Romania i bambini che riempiono le aule di Zingonia e Verdellino, fino al 75 per cento nella scuola dell'infanzia e poco meno alla primaria. In una sezione della materna c'è solo una bambina italiana. Una realtà che Marco Amendola, maestro, collaboratore vicario al comprensivo di Verdellino, commenta così: «Fuori di qui, quando sentono certe percentuali si spaventano. Quando sono stato assegnato a questa scuola, fresco di studi di psicologia, i colleghi mi trattavano come fossi stato mandato al fronte. Ma è proprio al fronte che si impara di più». A diventare maestri di flessibilità, a preparare programmi su misura. A usare linguaggi espressivi lasciando da parte carta e penna, perché nella scuola multiculturale bisogna mettere in gioco metodologie didattiche nuove. Amendola le ha scoperte quando, catapultato a Zingonia, si è trovato in un'aula con cinque bambini pakistani di varie età, la più piccola direttamente in braccio. Senza esperienza né strumenti, si è messo a disegnare. «Ora ho materiali ad hoc e con i più grandi usiamo la lavagna interattiva o il computer, facciamo perfino viaggi virtuali nel paese d'origine con Google Earth. Mi sono evoluto insieme a loro». Nemmeno Emanuela Bosco si fa mai trovare sprovvista di oggetti e immagini per comunicare. Nonostante l'esperienza trentennale, ha appena seguito un seminario di Camillo Bortolato, che ha ideato un metodo per insegnare la matematica particolarmente intuitivo e immediato. Spesso però l'esperienza si fa sul campo. Sono pochissimi quelli che sono riusciti a frequentare corsi ad hoc come il Ditals, attestato per insegnare agli stranieri rilasciato dall'Università di Siena, oppure Alis, progetto di apprendimento della lingua italiana per allievi stranieri. Dove la scuola è un caleidoscopio la didattica è fatta di laboratori, di attività di gruppo, "cooperative learning": si apprende facendo. Utile tutto quello che mette in gioco linguaggi diversi: canto, gioco, teatro, motricità, disegno. Non per niente la biblioteca di Verdellino abbonda di titoli Erickson eloquenti: "Organizzare i gruppi cooperativi", "Laboratorio creativo con la carta", "Laboratorio Euro". Anche i sistemi informatici sono di grande aiuto: Dominique, quinta elementare, arrivato dal Senegal, si è rivelato bravissimo in matematica grazie al traduttore simultaneo che gli permetteva di affrontare i problemi direttamente in francese. Spiega Chiara Ghezzi, responsabile dello sportello stranieri che ha sede nella scuola di Verdellino: «A volte si pensa che i bambini abbiano disturbi dell'apprendimento o ritardi, invece hanno solo bisogno di più tempo per assimilare la nuova lingua. Un tempo che può variare dai tre ai sette anni. È per questo che, sull'esempio di un progetto che ha funzionato a Borgo di Terzo, sta nascendo un servizio di consulenza per arginare l'eccesso di segnalazioni alle neuropsichiatrie infantili: si è visto che le richieste per valutare disturbi dell'apprendimento sono il doppio quando si tratta di bambini stranieri, ma spesso si tratta di valutazioni sbagliate». Marinella Villa è vicaria alla primaria di via Ravenna a Milano. «Quando un bambino straniero arriva a scuola viene effettuato un test d'ingresso per capire in quale classe inserirlo», spiega: «Usiamo materiali ad hoc messi a punto, ad esempio, dalla rete milanese Start, Strutture di accoglienza in rete per l'integrazione (ismu.org/start/): protocolli d'accoglienza, progetti di laboratori. Erano previste anche prove di comprensione in lingua madre: arabo, rumeno, cinese, tagalog (la lingua delle Filippine). Poi però sono finiti i fondi». In questo fermento di programmi mirati all'integrazione, la nota dolente è appunto la mancanza di fondi. Se tutt'Italia si lamenta per i tagli alle risorse e alle compresenze delle maestre, qui più che altrove questo significa rinunciare ad aiuti indispensabili. «Quest'anno abbiamo una "facilitatrice", l'insegnante dedicata agli stranieri, soltanto per i nuovi arrivati. Dobbiamo accontentarci di una manciata di ore», racconta Villa: «Quanto basta cioè perché il bambino impari a dirci che ha mal di pancia o che ha bisogno di andare in bagno. Fino a qualche anno fa invece, oltre alla prima alfabetizzazione potevamo permetterci di seguire gruppi per potenziare la lingua italiana». Anche a Zingonia le ore per portare fuori dalle classi i bambini che hanno bisogno di imparare o migliorare l'italiano sono sempre meno. In passato Emanuela Bosco ha potuto dedicare tutto il suo orario a gruppi di alfabetizzazione, ora può staccarsi dalla sua classe solo quattro ore la settimana. «A questo si aggiunga qualche pacchetto di dieci o venti ore ottenute grazie ai fondi regionali per le aree a forte flusso migratorio», interviene Imerio Chiappa, dirigente di Verdellino: «Un primo supporto a chi scende dall'aereo e passa da noi prima ancora di andare in Questura». Per supplire si fa rete: tra servizi sociali, comune, banca ore tra mamme, con la laureata pakistana che dà ripetizione di matematica. «Quando ci sono venti stranieri non abbiamo un problema culturale, ma gestionale», sottolinea Amendola: «Noi sappiamo bene come muoverci, ma il costo è innegabile». Finiti i soldi anche per la mediazione, almeno nel bergamasco. Se a Milano, infatti, basta chiedere di che lingua si ha bisogno con un paio di settimane in anticipo, a Zingonia il mediatore non c'è più per nessuno. E allora ci si arrangia come si può. C'è chi viene accompagnato alla consegna delle pagelle da uno zio, oppure è il fratello maggiore, già alle medie, a fare da traduttore. Ci sono poi i corsi di italiano per mamme, organizzati dallo sportello stranieri e finanziati da fondi Cariplo. Dice Ghezzi: «Spieghiamo com'è fatta la scuola italiana e le sue prassi, come si compila un modulo, come fare l'iscrizione on-line». A volte le difficoltà sono dovute al sovraccarico di lavoro per i bambini. «Molti dei nostri bambini arabi frequentano anche la scuola coranica il sabato e un pomeriggio la settimana», racconta Villa: «Come Omar, arrivato a cinque anni e mezzo: piccolo, grande forza di volontà e una famiglia molto esigente. I genitori mi fermavano ogni giorno per chiedermi com'era andato. Alla scuola araba gli insegnavano a scrivere da destra a sinistra, lui ricopiava gli avvisi al contrario. Era schiacciato dai troppi insegnamenti». Quando si insegna in una scuola multietnica non si è solo maestre, ma confidenti, un po' psicologhe un po' assistenti sociali. E il carico emotivo è forte. Capita anche di affezionarsi a un ragazzino che poi sparisce nel nulla. «Perché magari il padre deve andare a cercare lavoro a Treviso, o chissà, in Belgio», racconta Bosco. Capita di fare pacchi di cibo per Natale e di autotassarsi per pagare i debiti della mensa. Mensa che oggi, a Verdellino, è frequentata solo da metà degli alunni; gli altri a casa, perché soldi, per il buono pasto, non ce ne sono. «Spesso vivono in ambienti deprivati», racconta Bascioni, «con genitori analfabeti anche nella lingua d'origine: la maggior parte delle esperienze la fanno qui con noi». E ricorda di quando li ha portati al mare: per qualche bambino si trattava della prima volta su un treno. «Qualcuno, quando arrivano le quattro e mezza del pomeriggio, si nasconde dietro il portone: preferirebbe non tornare a casa ma restare a scuola». Non si insegna solo a leggere e far di conto: in classe della maestra Claudia un bambino arabo non voleva saperne di ascoltarla perché, diceva, era una donna. Dopo un anno ha imparato a rispettarla. Il coinvolgimento è l'anima dell'integrazione. Carnevale cinese in centro a Milano vestiti da dragoni, serate animate da piatti tipici, nonni e zie che portano involtini eritrei di riso e carne, strudel dalla Croazia e pastiera napoletana. Il cibo avvicina. A Verdellino c'è quella che Amendola chiama la "fiesta", in cui le lezione sono sospese e la scuola diventa un collante di aggregazione. Per capire bisogna capitare lì durante la "settimana di intercultura", che si tiene una volta l'anno: una kermesse di mamme che dipingono le mani con tatuaggi all'henné o intrecciano i capelli, pranzi etnici a base di couscous e té al ribes, laboratori di batik sgargianti, fiabe, giochi, musica e spettacoli da ogni parte del mondo. «Scegliamo zone geografiche che non ci appartengono, che sono altro da noi, già così misti: due anni fa il tema infatti erano i nativi americani». È cominciato come un gioco (provare le scarpe del compagno) e ne è nato il dipinto ora un po' sbiadito che campeggia all'ingresso della primaria di Verdellino. Recita un proverbio degli Indiani d'America: "Prima di giudicare un uomo prova a camminare nei suoi mocassini". È continuato scoprendo come ci si saluta in tante diverse aree del mondo: con una mano sul cuore, sfregandosi il naso o sputando sulle scarpe di chi si è incontrato, perché nel deserto usare un po' di saliva significa che l'altro è più importante della tua vita. La scuola multietnica ha un valore aggiunto, e c'è chi lo apprezza. Accade alla Morbelli di Alessandria (bambini di 17 nazioni diverse e raddoppio delle iscrizioni), o alla materna del Celio Azzurro (nel cuore di Roma), modello di intercultura su cui un paio d'anni fa è stato girato un film che raccontava l'energia e la passione di un gruppo di maestri. Più spesso però i genitori italiani sono spaventati, tanto da fuggire dalle scuole dove la presenza di stranieri è forte. È accaduto a Torino, vicino Porta Palazzo, dove un anno gli iscritti erano solo dieci, tutti stranieri, e a Milano in via Paravia, dove nel 2011 non è partita la prima elementare: niente autorizzazione dal Ministero perché su 19 bambini gli italiani erano solo due. Racconta Bascioni: «A dicembre, durante l'open day di presentazione della scuola, una mamma si è avvicinata per chiedermi se la presenza di così tanti stranieri penalizza la programmazione. Poi ha visto che l'anno scorso abbiamo rappresentato il "Mago di Oz" in inglese e quest'anno faremo "Il Fantasma di Canterville". A qualcuno possiamo apparire come una scuola-ghetto, ma chi entra e ci conosce si ferma». Interviene Villa: «I bambini partono tutti uguali: sta all'insegnante creare un clima in cui si apprende bene». Cita il successo di una bambina arrivata dalle Filippine in seconda diventata la migliore della classe. E a chi teme che il figlio rimanga indietro o non sia all'altezza delle prove Invalsi, Amendola risponde come la scuola a più colori costringa a confrontarsi con la complessità, ampliando conoscenze ed esperienze. «In centro città si fa magari qualche passo in più nelle singole materie, ma si perde in creatività e capacità di sviluppo sociale. Gli obiettivi formativi prevedono un'educazione alla cittadinanza e alla convivenza che noi viviamo nei fatti ogni giorno». La scuola vicina a piazzale Corvetto è un polo per l'autismo, il comprensorio di Verdellino ha un plesso potenziato per disabili gravi. Un caso? «La monotematicità uccide la fantasia; il mix di diversità è una risorsa per l'evoluzione personale». E in un paese in cui aumentano solo le nascite di bambini stranieri (14 ogni 100 neonati), una scuola multietnica è lo specchio della realtà in cui da adulti questi studenti vivranno.

CONCORSOPOLI. I BARONI REGNANO ALL'UNIVERSITA'.

Università, i pizzini dei baroni: "Sono il padrone dei concorsi". Le intercettazioni dei prof sotto indagine a Bari. L'ex garante della privacy raccomandava il figlio. Indagata anche l'ex ministro Anna Maria Bernini, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”.  La procura di Bari ha chiuso il primo filone dell'inchiesta sul malaffare del sistema universitario italiano: 38 indagati, due associazioni a delinquere. A essere mercanteggiati sono i posti da professori negli atenei, i mercanti sono i baroni. L'hanno chiamata "Do ut des", perché "la sostanza di quest'indagine complessa è tutta in quella locuzione latina: io do affinché tu dia". A essere mercanteggiati sono i posti da professori ordinari e associati nelle università di tutta Italia. Mentre i mercanti sono i baroni e i mammasantissima del diritto costituzionale, canonico e pubblico comparato. La procura di Bari ha chiuso il primo filone dell'inchiesta sul malaffare del sistema universitario italiano. Trentotto indagati e due associazioni a delinquere: una con base Bari, l'altra a Milano, dove sono stati inviati gli atti per competenza. L'ex ministro Anna Maria Bernini e l'ex garante della privacy Francesco Pizzetti già iscritti nel registro degli indagati. E il filone sul diritto costituzionale  -  nel quale sono stati denunciati dalla Finanza cinque dei saggi scelti dal presidente Napolitano per le riforme costituzionali  -  al vaglio dei pm. Complessivamente sono una cinquantina i concorsi "il cui andamento ed esito finale  -  sostiene la Guardia di Finanza  -  nulla hanno avuto a che vedere col merito". Esiste, dicono gli inquirenti, "una rete criminale tra i più autorevoli docenti ordinari che hanno consentito sistematicamente il prevalere della logica del favore su quella del merito e della giustizia. In sostanza i concorsi universitari sono stati celebrati, discussi e decisi molto prima del loro espletamento". "Era il barone, era il capo di tutti". Così veniva definito dai colleghi il professor Giorgio Lombardi. Insieme con il collega Giuseppe Ferrari era l'uomo che aveva in mano il diritto pubblico comparato in Italia. E si era impegnato perché Anna Maria Bernini, ex ministro di Forza Italia, vincesse un concorso. Lombardi poi si ammala, tanto da spegnersi durante l'indagine: "Io se non avessi avuto questo accidente  -  si sfoga con un collega  -  ero il padrone di tutti i concorsi. A me interessano due risultati e ne chiedo uno solo: la Bernini! Perché quando uno prende un impegno lo mantiene, io sono abituato a fare così". Le pressioni per la Bernini sono molte. Lo ammette lo stesso Ferrari. "Lo so, però ho bisogno che gli parli dieci minuti... perché io non ce la faccio più guarda, tra De Vergottini, Amato (ndr, Giuliano) e Morbidelli per la Bernini. Pizzetti te lo raccomando lui e la famiglia... non ce la faccio più". Con Lombardi che si ammala il potere è nelle mani di Ferrari. È lui stesso in un'intercettazione a spiegare quello che la Finanza definisce il "potere ventennale dell'aristocrazia ferrariana". "Quello che cercavamo di praticare era un metodo che è stato concepito in un momento in cui Lombardi pigliava tutto. C'era una specie di aristocrazia nel senso aristotelico, cioè i migliori che si accordano nell'interesse della corporazione!". La Finanza fa un conto: 18 dei 32 concorsi banditi tra ordinari e associati sono "espressione di una maggioranza di chiara appartenenza alla corporazione di matrice ferrariana, a riprova dell'esistenza di un sistema basato essenzialmente sul dato dell'appartenenza a una corrente accademica". Tra gli atti intercettati c'è una mail del professor Ferrari dalla quale si evince un'intesa tra il docente bocconiano e il collega Luis Eduardo Rozo Acuna. "Carissimo, consegno un'umile richiesta al pizzino telematico" e via un elenco di richieste. "Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi... A buon rendere. Grazie". Tra gli indagati c'è anche l'ex garante della privacy, che secondo gli investigatori fa pressioni per far vincere un concorso al figlio come evidentemente gli aveva promesso Lombardi. "Lui  -  dice al telefono con Ferrari, in riferimento a un altro professore  -  dice che gli farebbe piacere che appunto il desiderio di Lombardi si realizzasse ". Ferrari: "Stai tranquillo". Pizzetti: "È un secolo che ci conosciamo, sappiamo anche comunque quando ci siamo presi degli impegni reciproci non li abbiamo mai fatti mancare". Sono decine le telefonate di Pizzetti, che viene definito dagli investigatori "astuto e "infaticabile". "Volevo dirti che ho visto Augusto (ndr, Barbera) - dice Pizzetti a Ferrari - e anche lui una mano su Gambino potrebbe darla". E poi: "Se ti serve possono parlare anche io a padre Paolo (padre Paolo Scarafoni, ex rettore dell'Università europea di Roma, indagato, ndr)". Il concorso alla fine salterà.

Concorsopoli. I baroni regnano sull'università. Raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricorsi. Il consiglio di stato ha accolto le proteste di un bocciato e potrebbe annullare l’intera tornata di nomine. Ecco come naufragano gli atenei italiani, scrive Emiliano Fittipaldi su "L'Espresso". "Ah porci!", esclamò Perpetua. "Ah baroni!", esclamò don Abbondio». I lanzichenecchi che distrussero la Lombardia nel 1630 Alessandro Manzoni li chiama proprio così, «baroni». Dal latino "baro - baronis", termine che, dice la Treccani, indicava "il briccone, il farabutto, il furfante". I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare L'università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi. Per i baroni la strada maestra per mantenere il potere e gestire il reclutamento è, ovviamente, quella di controllare i concorsi. Come dimostra l'inchiesta "Do ut des" della procura di Bari, che sta indagando per associazione a delinquere decine di professori di diritto costituzionale: «Carissimo, consegno un'umile richiesta al pizzino telematico. Ti chiederei il voto per me a Roma... sono poi interessato a due concorsi di fascia due, d'intesa con Giorgio che ha altri interessi. Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi. A buon rendere. Grazie», si legge in una mail che il bocconiano Giuseppe Franco Ferrari ha mandato qualche anno fa a un collega, missiva ora al vaglio della Guardia di Finanza. La riforma Gelmini varata nel 2010 doveva mettere fine agli scandali e modernizzare finalmente gli italici atenei, da tempo in coda a ogni classifica delle eccellenze europee. Ahinoi, non sembra essere andata come si sperava. La nuova abilitazione scientifica nazionale (che ha da poco chiuso la tornata del 2012: i promossi a professori di prima e seconda fascia sono quasi 24 mila, i bocciati circa 35 mila) è stata un flop colossale. Nonostante un costo stimato superiore ai 120 milioni di euro, il concorso ha generato proteste a catena, incredibili favoritismi, migliaia di ricorsi al Tar e - come risulta a "L'Espresso" - anche i primi esposti mandati alle procure. La lista di presunti abusi basta leggere le accuse che arrivano da ricercatori esclusi, docenti e persino premi Nobel - è impressionante: se in qualche caso sono stati promossi candidati che vantano solo dieci citazioni (in articoli e pubblicazioni varie) a discapito di altri che ne hanno oltre seicento, tre commissari di Storia medioevale avrebbero truccato i propri curriculum attribuendosi monografie mai scritte pur di far parte della "Giuria". A Storia economica, invece, sono stati esclusi specialisti apprezzati in tutto il mondo, ma privi evidentemente dei giusti agganci: un gruppo di dodici studiosi stranieri, tra cui un Nobel, hanno così spedito al ministro Stefania Giannini una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall'esito delle selezioni. I casi sono decine: da archeologia a biochimica, da architettura a chirurgia, passando per storia economica e latino, quasi in ogni settore sono stati denunciati giudizi incoerenti e comportamenti al limite dell'etica. Che spesso nascondono, sussurrano i ricercatori frustrati, la volontà dei baroni di cooptare, al di là delle reali capacità dei singoli, i predestinati e gli "insider", cioè i candidati già strutturati nelle facoltà. Andiamo con ordine, partendo dal concorso di Diritto privato. L'abilitazione è finita sulle pagine di cronaca perché il commissario straniero (il membro Ocse è una delle novità più rilevanti della riforma) parlava solo spagnolo. Come abbia fatto Josè Miguel Embid a leggere e valutare i complessi tomi di diritto prodotti dai candidati è un mistero. "La conoscenza della lingua italiana", ha spiegato in una nota il ministero dell'Istruzione, "non è prevista dalla legge". I giudici del Consiglio di Stato si sono però fatti beffe delle giustificazione, hanno accolto un ricorso sul merito e sospeso tutto. Le stranezze non si contano. Se il commissario Maria Rosaria Rossi, ordinaria a Perugia, prima di essere sorteggiata componente della commissione aveva annunciato di voler sabotare la riforma Gelmini («a chi lavora nell'università spetta ora il compito di operare interstizialmente tra le pieghe della legge e oltre la legge stessa e sperimentare pratiche quotidiane di sabotaggio dell'ideologia che la sostiene», ha ragionato carbonara sul "Manifesto"), il ricercatore napoletano Andrea Lepore è stato promosso anche se il giudizio scritto, inizialmente, sembrava ipotizzare ben altro epilogo: «La qualità della produzione è limitata sotto il profilo dell'originalità e dell'innovatività, nonché per il rigore metodologico... Si rinvengono, tra l'altro, ampie frasi riprodotte alla lettera da lavori di altri autori precedentemente pubblicati». Andrea Lepore, in pratica, è accusato di essere un copione. Da promuovere, però, «all'unanimità». Francesco Gazzoni, professore della Sapienza e maestro indiscusso della materia (è suo il manuale di Diritto privato più venduto d'Italia), all'abilitazione nazionale ha dedicato un saggio, intitolato "Cooptazioni: ieri e oggi": «Il potere accademico è una vera e propria piovra mafiosa», si leggeva sulla rivista online "Judicium" prima che l'articolo fosse repentinamente rimosso. «Cooptare, in sé, non è un male, lo diventa quando la scelta avviene, come sempre avviene, in base a criteri che prescindono dal merito... I professori di università sono novelli Caligola, con in più il fatto di promuovere, all'occorrenza, anche asini patentati in difetto di cavalli». Il luminare fa nomi e cognomi, e se la prende con l'intera commissione di Diritto privato «inidonea a giudicare, essendo priva di autoritas sul piano scientifico». I più bravi, in sintesi, sarebbero stati bocciati perché «non avevano un'adeguata protezione accademica e perché non tutti i commissari erano in grado di leggere e capire i loro titoli». Forse il professore esagera, ma di certo qualche candidato di Diritto privato è stato più fortunato di altri. Come l'avvocato Claudia Irti, che ha scoperto che il presidente della commissione, Salvatore Patti, era stato suo tutor alla tesi di dottorato. Un conflitto di interesse non da poco per il docente, tanto più che è la Irti in persona a rispondere al telefono della sede milanese dello studio Patti: «Sì, sono stata promossa, ma ci tengo a dirle che io non lavoro per il professore. Perché rispondo al telefono del suo studio? È una situazione particolare, a Milano presidio la sede, ma faccio solo da rappresentanza. Il professore si sarebbe dovuto astenere dal giudicarmi? Significa che tutte le persone che collaborano con i membri della commissione non avrebbero dovuto presentare domanda al concorso. Le assicuro che sono tante». È il sistema, dunque, a permettere che possa accadere di tutto: se Patti, oltre alla Irti, ha potuto valutare i titoli di tre magistrati di Cassazione che potenzialmente possono essere giudici delle sue cause (tutti abilitati), il collega Francesco Prosperi dell'Università di Macerata ha promosso a ordinario il giovane Tommaso Febbrajo, un tempo suo allievo, e figlio dell'ex rettore dell'ateneo dove lo stesso Prosperi insegna. Non è un caso che il concorso di diritto privato conti già un centinaio di ricorsi al Tar. Un professore associato dell'università di Tor Vergata, Giovanni Bruno, ha già avuto soddisfazione dal Consiglio di Stato. I magistrati hanno accolto alcune censure decisive, tanto che qualcuno ipotizza che l'intero svolgimento dell’abilitazione nazionale sia a rischio: il regolamento ministeriale pubblicato nel 2011 sarebbe illegittimo, perché avrebbe dato alle commissioni un eccesso di discrezionalità nella valutazione dei candidati. Bruno ha pure mandato un esposto alla procura di Roma, accusando Prosperi di non aver partecipato a una delle riunioni in cui si definivano i giudizi: a leggere un programma accademico dell’Università di Macerata, risulta che il 29 novembre 2013 il sociologo abbia partecipato (almeno fino alle 13) a un convegno nelle Marche. Anche un altro candidato trombato, l'avvocato Giuseppe Palazzolo, ha mandato una denuncia ai pm (stavolta a Napoli) in cui chiede il sequestro della piattaforma elettronica usata dai membri della commissione. Già, alcuni candidati avrebbero voluto controllare se i loro giudici hanno davvero letto i loro titoli (mandati in formato elettronico) o abbiano promosso e bocciato alla cieca, senza nemmeno effettuare il download. Il ministero ha rigettato, però, tutte le richieste d'accesso ai tabulati. Nel 1898, in una cronaca del "Corriere della Sera", si raccontava che il ministro della Pubblica istruzione del governo Pelloux, Guido Baccelli, "impaurito e seccato dagli scandali occorsi nelle commissioni chiamate a giudicare pe' i concorrenti alle cattedre vacanti d'università, abbia in animo di abbandonare il sistema adottato quest'anno per l'elezione delle commissioni". Cos'era successo? "Qualche concorrente" spiegava il cronista "non aveva trovato miglior mezzo per riuscire, di domandare la mano di sposa alla figliola di un commissario: il matrimonio si combinava per il dopo concorso; il fidanzato, manco a dirlo, riusciva primo, e festeggiava in un giorno medesimo la cattedra e la moglie". Dopo centosedici anni e una quindicina di riforme, dopo gli scandali dell'ultimo ventennio (citiamo quelli che travolsero il concorso nazionale del 1993, le inchieste che hanno svelato le appartenenze militari alle cosiddette "scuole" e le tristi vicende dei concorsi locali, dove spesso e volentieri il candidato indigeno vince a mani basse), il legislatore sembra aver toppato anche stavolta. La legge 240, quella della riforma Gelmini, ha sì previsto dei parametri oggettivi che gli aspiranti avrebbero dovuto superare per passare l'esame (le cosiddette "mediane"), ma molti professori hanno deciso come sempre: di testa loro. In effetti gli studiosi della "Voce.info" hanno scoperto che per i concorrenti con un profilo scientifico più debole "la conoscenza di un membro della commissione ha migliorato significativamente le chance di successo". A parità di curriculum, per esempio, in Politica economica "gli insider hanno avuto il 14 per cento di probabilità in più" di passare rispetto a coloro che non frequentano gli atenei, una percentuale che sale al 23 per cento in Scienza delle finanze. Polemiche a go-go anche nella macroarea di Archeologia, dove un gruppo di accademici (tra cui Salvatore Settis, Fausto Zevi ed Ermanno Arslan) hanno scritto una lettera in cui prima attaccano «lo strumento mostruoso delle mediane, ridicolo artifizio blibliometrico che rinuncia alla qualità e fa discendere i giudizi delle quantità», poi se la prendono con i colleghi della commissione, che avrebbero aiutato le scuole più forti «privilegiando alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri, con scelte valutative a dir poco opinabili». «I talenti sono stati bocciati, i "peggiori" sono stati sistematicamente promossi, anche a Latino» ha attaccato l'ordinario perugino Loriano Zurli. Un meccanismo che non solo è amorale ma anche anti-economico, dal momento che il rilancio dell'università e della ricerca sono fondamentali - secondo tutti gli esperti - per la crescita della ricchezza nazionale. Se il professore di Biochimica Andrea Bellelli definisce «una farsa» il concorso del suo settore e ricorda che «uno dei cinque commissari sorteggiati pare non avesse le mediane», un gruppo di prof e ricercatori dell'associazione Roars (presieduta da Francesco Sylos Labini) ha sottolineato alcune scellerate scelte dell'Anvur che ha considerato "scientifiche" ben 12.865 riviste tra cui spiccano "Alta Padovana" del Comune di Vigonza, "Delitti di carta" specializzata nella giallistica, "L'annuario del liceo di Rovereto", il mensile della parrocchia di San Domenico, "Cineforum" e "Stalle da latte". Ma è capitato di peggio. A Progettazione architettonica i commissari hanno fatto letteralmente a pezzi alcuni candidati pubblicando online giudizi (leggibili da tutti) in bilico tra ironia e insulto. Il professor Giuseppe Ciorra, ordinario all'università di Camerino, bocciando una ricercatrice a Torino scrive, letteralmente, che «la candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità in tutte le direzioni... Incoraggiabile ma non recuperabile, temo». Il collega Benedetto Todaro ha definito una collega associata di Napoli, Emma Buondonno, una «candidata sconcertante, che si impegna volenterosamente in lavori completamente privi del necessario acume critico». Ciorra (che arriva a liquidare un esaminando con un definitivo «sparisca, per favore»), sembra assai più gentile quando si tratta di valutare candidati che conosce di persona. Quando è costretto a bocciare la sua ex dottoranda Rita Giovanna Elmo spiega che lo fa «con dolore umano», mentre non si fa specie nel promuovere (il suo sarà l'unico "sì") Anna Rita Emili, ricercatore in forza alla sua stessa università poi bocciata da tutti gli altri colleghi. La Emili si può consolare, è in ottima compagnia: la commissione ha fatto fuori i migliori progettisti italiani. Anche stavolta qualcuno si è lagnato con la Giannini: l'Associazione italiana di Architettura e critica «manifesta un totale dissenso contro qualsiasi atteggiamento sessista e maschilista della commissione d'esame volto a schernire le ricercatrici. Suggeriamo ai membri della commissione di mostrare anche più rispetto, in futuro, per la grammatica italiana». Il barone che sbaglia le congiunzioni, in effetti, è davvero troppo.

Il ministro Stefania Giannini: «Abolirò i concorsi universitari». «La riforma Gelmini ha fatto il suo tempo: bisogna cambiare le cose. Le singole università devono poter chiamare in totale autonomia chi vogliono». Ecco il piano della titolare del dicastero dell'Istruzione in un intervista di Emiliano Fittipaldi su "L'Espresso". Il ministro dell'Istruzione e dell'Università Stefania Giannini ha appena terminato il suo intervento al convegno della Cgil a Rimini. «Li ho quasi sorpassati a sinistra, e la cosa mi preoccupa», dice sorridendo a "L'Espresso". Il segretario di Scelta Civica la riforma Gelmini l'ha ereditata, e i risultati della nuova abilitazione scientifica nazionale la fanno ridere assai meno. «Cambierò tutto. Il sistema dell’abilitazione nazionale va trasformato, e i concorsi locali vanno aboliti tout court. Ogni università deve poter assumere i docenti che vuole. Chi assumerà parenti e ricercatori incapaci lo farà a proprio rischio e pericolo: gli atenei che produrranno poco subiranno ripercussioni economiche, gli taglieremo i fondi».

Farete un'altra riforma?

«No, ma cambieremo molte cose. I meccanismi di selezione dei nostri docenti negli ultimi vent’anni sono stati modificati ben quattro volte. Se le regole del gioco sono state corrette ad ogni lustro, i risultati sono sempre uguali: proteste, ricorsi al Tar, giudizi discutibili. Ricordo, però, che l'etica individuale e la correttezza comportamentale non si possono imporre per decreto: c'è un mondo universitario, da cui io provengo, che si deve interrogare nel profondo, in modo da evitare continui scandali e fare reclutamenti all'altezza». Sperare che i baroni si autoriformino sembra un’utopia, ministro. Voi che farete nel concreto? «Le regole dell'abilitazione nazionale sono troppo complicate, il marasma normativo ha lasciato spazio all'opacità e declinazione impropria del sistema. È questo il principale difetto della riforma Gelmini, bisogna semplificare l'impianto generale. Guarda caso sono arrivati già mille ricorsi. In futuro, per migliorare la qualità dei lavori delle commissioni e permettere carriere più rapide, dobbiamo evitare che le abilitazioni vengano fatte ogni quattro-cinque anni».

Con che cadenza saranno banditi i nuovi concorsi nazionali?

«Vorrei creare commissioni permanenti per le varie discipline. I blocchi, come si è visto, producono fiumane di candidati e decine di migliaia di domande, gli esami diventano difficili e poco controllabili. Alcune commissioni dovevano giudicare oltre mille persone, 15 mila i libri che ognuno dei cinque membri avrebbe dovuto leggere in pochi mesi. Un’enormità. In altri Paesi la valutazione continuativa esiste da decenni: anche in Italia bisogna passare dalle "tornate concorsuali" a giudizi "a sportello". Le commissioni, naturalmente, devono essere innovate dopo un certo periodo. Poi, dopo aver ottenuto l'abilitazione da parte della comunità scientifica di riferimento, il candidato potrà essere assunto».

Oggi nei concorso locale i baroni dettano legge. Vincono quasi sempre i candidati interni.

«Credo che i concorsi locali vadano aboliti per decreto. Sono convinta che le singole università debbano poter chiamare in totale autonomia chi vogliono, rispettando ovviamente standard internazionali. Bisogna che capacità, numero e importanza di pubblicazioni siano premianti. Spero che riuscirò a fare proposte concrete prima delle vacanze estive. Finora al governo ci stiamo muovendo velocemente: abbiamo iniziato le procedure per il concorso per la scuola 2015. Ci saranno 17 mila nuove assunzioni entro il 2016. Circa la metà saranno giovani, gli altri saranno presi dalle graduatorie. Ma già l’anno prossimo prenderemo altri 6-7 mila ragazzi, già idonei perché hanno superato il concorso, molto selettivo, istituito da mio predecessore Francesco Profumo».

Non c'è il rischio che con un'autonomia assoluta i dipartimenti assumano, ancor di più, chi vogliono a discapito del merito?

«Il sistema funzionerà solo se riusciremo a garantire la continuità e la trasparenza nelle abilitazioni nazionali (la seconda tornata non verrà modificata, la Giannini intende solo prorogarla fino a settembre, ndr). E, in secundis, se le università saranno sottoposte a un meccanismo di valutazione da parte del ministero e dell'Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario. Se qualcuno decide di assumere al posto di uno scienziato capace un candidato meno bravo ma raccomandato, l'ateneo sarà duramente penalizzato sotto il profilo economico. A chi non raggiunge risultati sul profilo della ricerca e delle pubblicazioni, per dirla brutalmente, taglierò i soldi. Una cosa che non ha mai fatto mai nessuno. Gli strumenti normativi già esistono, ma finora non c'è stata la volontà politica di usarli».

Lei è stata a capo dell'Università degli Stranieri di Perugia, e la riforma Gelmini è stata applaudita anche dalla Conferenza dei rettori di cui lei faceva parte. Non usa mai, nelle interviste, il termine "baroni". È un caso o non vuole dispiacere i suoi colleghi?

«Non la uso volutamente. Ma non per paura di urtare la suscettibilità dei docenti. Semplicemente, io credo che le università abbiano le loro magagne, ma che la patologia non sia così diffusa come la descrive la stampa. Esistono casi come quello di Bari o le inchieste sulla Sapienza, ma la parte sana è ampiamente maggioritaria. Quello che considero davvero infausta è la mentalità tribale di molti professori, che spesso si pongono come primo obiettivo la conservazione e lo sviluppo della propria specie. Ogni settore scientifico tira acqua al suo mulino, e a volte capita che il reclutamento ne sia condizionato. Le raccomandazioni esistono, ma quello che va combattuto è innanzitutto il corporativismo. Bisogna abbandonare la logica tribale e abbracciarne una industriale».

In che senso?

«I dipartimenti devono lavorare per dare il meglio ai loro studenti, in modo da competere con altre realtà italiane e straniere. Dal rettore fino al ricercatore, tutti devono essere responsabilizzati. Le norme che voglio introdurre faranno sì che sarà molto più difficile che qualche barone assuma il figlio, la fidanzata o l'allievo asino. Sarà costretto, dalle leggi di mercato, a chiamare chi saprà dare lustro al gruppo di ricerca, chi permetterà di accedere ai finanziamenti. Se riusciremo a compiere questa rivoluzione, staneremo i professori che non pubblicano da 10 anni, quelli che cofirmano gli articoli ma non hanno più idee innovative. Alzeremo muri di vetro in una casa da sempre protetta dal cemento armato».

La «cupola» dei concorsi universitari non si fermava di fronte a nulla, scrive Giovanni Longo su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Anche quando, nella «spartizione» dei posti, sorgeva qualche intoppo tra i più grandi baroni italiani. La Guardia di finanza li ha intercettati per mesi, ed è convinta che esistesse un'associazione in grado di pilotare concorsi universitari. A tessere le fila con importanti addentellati anche a Bari, è l'ipotesi dei pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli il professor Giuseppe Ferrari, milanese: 18 dei 32 concorsi banditi tra ordinari e associati - annotano gli investigatori - sono «espressione di una maggioranza di chiara appartenenza o vicinanza alla corporazione di matrice ferrariana, ciò a riprova dell’esistenza di un sistema di valutazione di candidati basato essenzialmente sul dato dell’appartenenza a una corrente accademica». Nell'indagine, di cui adesso si occuperanno i magistrati di Milano cui la procura di Bari ha trasferito le carte per competenza territoriale, rientrano anche i baresi Aldo Loiodice e Gaetano Dammacco. La loro posizione, come quella del dirigente in pensione dell'Ateneo barese Innocenzo Santoro e di Angelo Colarusso, patron dell'università telematica Giustino Fortunato, resterà a Bari. La Procura di Milano vaglierà la posizione di altri docenti baresi: Isabella Loidice, figlia di Aldo, Luigi Volpe e Marina Calamo Specchia, tutti ordinari di diritto pubblico comparato. Aldo Loiodice, che secondo l'accusa avrebbe tentato di «orientare» il concorso per ricercatore in diritto internazionale dell'Università telematica Unisu di Roma verso sua figlia Isabella Loiodice, viene ascoltato al telefono mentre si sfoga con una commissaria, la professoressa D'Angeli. Dammacco, interessato a sistemare un proprio protetto, viene intercettato mentre parla con il collega Bordonali di Palermo. «Questi della telematica sono inesperti e deficienti, mentre stavano facendo il decreto per bandire il concorso e nominarti membro interno, questi della telematica milanese si sono accorti che la materia non ce l'avevano. Allora sono ritornato a bomba perché io un posto lo devo per forza avere, comunque lo devo avere. E devi essere nominato tu membro interno. Allora è molto probabile che riusciamo a farla con la telematica di Benevento, perché sono accadute tante cose, Loiodice non è più il rettore, il Rettore è Fantozzi». Nel mirino degli inquirenti, come ormai noto, sono finiti decine di concorsi da ricercatore, associato e ordinario relativi a diritto ecclesiastico, costituzionale e diritto pubblico comparato. Nelle intercettazioni finiscono le trattative per comporre le commissioni. Giorgio Lombardi, uno dei baroni (poi scomparso per una grave malattia), si rende ad esempio conto di aver perso gran parte del proprio potere, mentre si spende (a quanto pare invano) per l'ex ministro Anna Maria Bernini. «Io se non avessi avuto questo accidente - dice Lombardi al telefono - ero il padrone di tutti i concorsi. A me interessano due risultati e ne chiedo uno solo: la Bernini! Perché quando uno prende un impegno lo mantiene, io sono abituato a fare così».

Inchiesta sui "baroni" da Bari lo scandalo si allarga a tutt'Italia. Chiuso il filone pugliese, sono 38 i docenti indagati, scrive Flavia Amabile su "La Stampa". Pressioni, scambi, nomi eccellenti, telefonate su telefonate intercettate per favorire un candidato piuttosto che un altro, un sistema collaudato di spartizione di posti da docenti ordinari e associati in tutta Italia. C'è tutto questo nell'inchiesta partita nel 2008 e condotta dalla procura di Bari. Il primo filone di indagini si è chiuso, gli atti sono stati inviati pochi giorni fa per competenza a Milano. Cinquanta concorsi all’esame degli inquirenti, più della metà degli esami - 18 su 32 - sotto accusa, 38 docenti finiti nel mirino. Nel registro degli indagati figurano nomi di peso come la senatrice di Forza Italia ed ex ministra per le Politiche Europee, Anna Maria Bernini, associata di diritto pubblico a Bologna, e Francesco Pizzetti, all’epoca dei fatti presidente dell'Ufficio del garante della Privacy e ordinario di diritto pubblico a Torino. Diversi i capi d'accusa: dall'associazione a delinquere, alla corruzione, fino alla truffa aggravata e al falso. Dalle indagini emerge un sistema consolidato che decideva le assunzioni in tutt'Italia in base alla corrente accademica di appartenenza. Alla faccia del merito e della trasparenza. Per il mondo dei ricercatori e dei tanti che hanno tentato di entrare nelle università italiane non è una sorpresa. Luigi Maiorano, presidente dell'Apri, l'associazione dei precari della ricerca, è categorico: «Nella nostra esperienza il sistema è una cupola che coinvolge tutti i concorsi, sia quelli per ordinari che quelli per associati o per ricercatori. Si bandisce un concorso solo quando esiste già un vincitore, una persona da sistemare, non in base alle esigenze della ricerca o della didattica. E la persona designata è sempre interna al sistema. Per noi, infatti, andare all'estero significa uscire dal sistema e perdere ogni possibilità di rientrare». Lui, infatti, è laureato in Scienze Naturali, ma ha anche un titolo di dottore di Ricerca in Natural Resources, ottenuto negli Stati Uniti, cinque borse di studio semestrali per meriti scolastici presso l'University of Idaho (Usa), un incarico di ricercatore postdottorato all'Università di Losanna ma quando è dovuto rientrare in Italia per motivi familiari si è visto chiudere un bel po' di porte davanti. Oggi è assegnista alla Sapienza, ma nemmeno con i bandi Montalcini o i bandi Sir in cui le università hanno quasi soltanto vantaggi e nessun costo si riesce a sfondare le barriere costruite intorno agli atenei: «La riposta più gentile che si ottiene è "Non rompere l'anima alle file locali"». Quattro anni fa un ricercatore si era divertito a costruire un sito di previsioni un po' particolari. Si chiama «Pronostica il ricercatore», annunciava i concorsi, ma anche i vincitori. Su 134 pronostici ne ha indovinati 110. Un po' inquietante, no? «Il sistema funziona attraverso reti - continua Luigi Maiorano -. Quando il posto da assegnare è di alto livello come nel caso degli ordinari, la rete diventa nazionale. Se invece si tratta di sistemare dei ricercatori ci si muove a livello locale ma comunque attraverso una rete che sceglie il suo candidato». L'Adi, associazione dei dottorandi e dottori di ricerca italiani, nel 2013 ha pubblicato un'analisi da cui emerge che il 93% di chi ha ottenuto un assegno di ricerca non continuerà a fare ricerca nell'università. Alessio Rotisciani, portavoce dell'associazione: «La difficoltà che si incontra nell'ottenere una stabilizzazione rende anche più stridente il contrasto con i processi seguiti durante alcuni concorsi. Quello che emerge è che anche di fronte a nuove norme, come è avvenuto con la riforma Gelmini, il sistema riesce sempre ad innescare processi adattativi che permettono di plasmare le regole in base ai propri interessi. Per questo chiediamo che siano ridisegnate le regole coinvolgendo tutti i soggetti senza calare le norme dall'alto e senza demonizzazioni come è avvenuto nel 2008 introducendo solo una stagione di tagli e demolizione dell'università».

GLI INCAPACI INSEGNANO.

Gli universitari più scarsi? Diventano tutti maestri. L'indagine dell'Agenzia di valutazione fa tremare gli atenei: bene gli studenti di Medicina. Bocciati in capacità critiche gli iscritti a Scienze della formazione, scrive Francesca Angeli su “Il Giornale”. I migliori sono gli studenti di Medicina e di Matematica. I peggiori invece gli iscritti a Scienze della Formazione primaria, ovvero i nostri futuri maestri elementari. Se nel punteggio complessivo finale i primi hanno raggiunto il massimo, 1.118, i secondi hanno registrato la performance più scarsa, 907. Una buona notizia e una decisamente cattiva dalle nostre università. Sono i risultati della prima sperimentazione sulle competenze generali dei laureandi italiani condotta dall'Anvur, l'Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca. Solo una sperimentazione che però ha già destato grande preoccupazione tra accademici, esperti e sindacati che ne contestano i metodi e i criteri. Perché? Una volta che il sistema di valutazione sarà «a regime» (insieme ai risultati di altri test eseguiti in entrata e in uscita sulle competenze generaliste e sulle specialistiche) questi risultati avranno un peso sia sull'accreditamento dei corsi sia sulla ripartizione della quota premiale del Fondo di Finanziamento ordinario. Un risultato scarso potrebbe tradursi in una riduzione di finanziamenti o addirittura nella chiusura di un corso. La sperimentazione condotta in 18 mesi su circa 6.000 studenti volontari di 12 diverse Università italiane (tra le quali la Statale di Milano e la Sapienza di Roma) ha la finalità di monitorare le capacità generali non collegate a un particolare ambito disciplinare: il pensiero critico; l'abilità nel comunicare e la capacità di prendere decisioni. La coordinatrice dello studio, Fiorella Kostoris, spiega che i risultati ottenuti sono comparabili con i test realizzati in altri 9 paesi nell'ambito di un progetto Ocse. Il primo problema che emerge dalla rilevazione Anvur è l'irregolarità del percorso di studi. Fra gli studenti del terzo e quarto anno del ciclo triennale solo il 14 per cento circa ha completato tutti i crediti formativi di base e caratterizzanti. Soltanto il 18 per cento degli studenti è in regola e questo significa che due terzi dei laureati entro il terzo anno accademico della triennale conseguono il titolo senza aver terminato i corsi di base e caratterizzanti da almeno un semestre. Il secondo problema è «la persistenza di una separazione tra le cosiddette due culture: scientifica ed umanistica». Gli studenti che ottengono ottimi punteggi nella parte letteraria del test non riescono a fare altrettanto in quella scientifico quantitativa. Sono pochissimi quelli che ottengono buoni risultati in entrambe. Il dato più preoccupante resta quello segnalato all'inizio. I risultati migliori nei test sono raggiunti dagli studenti di Medicina seguiti da quelli di Matematica, Fisica, Statistica e Psicologia. I peggiori sono «quelli degli studenti iscritti a Scienze della Formazione primaria, ovvero coloro che diventeranno maestri e maestre». Insomma i futuri insegnanti dei nostri figli sono ultimi sia nell'ambito umanistico sia in quello scientifico. Gli studenti migliori non a caso sono quelli che hanno già passato un test di accesso come quello previsto per Medicina. Il governatore di Bankitalia, Vincenzo Visco, presente al convegno dell'Anvur, ha sottolineato la necessità di «politiche che rendano il sistema di istruzione e formazione più adeguato a un ambiente sempre più competitivo e in continuo cambiamento».

IL PARADOSSO. RICERCATORI UNIVERSITARI BOCCIATI ALL’ABILITAZIONE MA COSTRETTI AD INSEGNARE.

PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI. IL RECLUTAMENTO NEGLI ULTIMI 50 ANNI. Parte I: gli anni ’60. Parte II: gli anni ’70. Parte III: gli anni ’80.

Sommario delle tre parti: I docenti universitari nei primi anni sessanta. Per entrare nei ruoli di assistente o di professore bisognava superare un concorso. La sistemazione degli assistenti straordinari. Il nuovo ruolo dei professori aggregati. Il fallimento della riforma Gui. Le anticipazioni di una riforma mai avvenuta. Le “misure urgenti” del 1973. La bomba ad orologeria dei precari. I decreti Pedini e le nuove regole per i concorsi a cattedra. Gli assegni di formazione professionale per contrastare la disoccupazione giovanile. Riforma e sanatoria del 1980.  Ruolo dei ricercatori, permanente o “ad esaurimento”? I concorsi per il ruolo di ricercatore. Un nuovo canale di reclutamento universitario anomalo: i tecnici laureati.

(Fonte: A. Figà Talamanca, Roars 20 e 25-01-2014, 02-02-2014)

I docenti universitari nei primi anni sessanta

All’inizio degli anni sessanta del secolo scorso, i docenti delle università italiane si distinguevano in professori di ruolo (a loro volta distinti in professori ordinari e professori straordinari), professori incaricati, ed assistenti.

Gli assistenti secondo l’art.1 della Legge 18 marzo 1958 n. 349, facevano parte del personale insegnante e si distinguevano in: a) Assistenti ordinari, nominati dal Ministro in seguito a pubblico concorso per titoli ed esami, b) Assistenti incaricati nominati dal Ministro (dal Rettore a partire dal 1967)  in temporanea sostituzione degli assistenti ordinari, c) Assistenti straordinari nominati dal Consiglio di Amministrazione dell’Università, d) Assistenti volontari nominati dal Rettore.

Professori di ruolo ed assistenti ordinari erano inquadrati nel cosiddetto “ruolo A” del pubblico impiego, che prevedeva tredici “gradi”, il primo grado essendo riservato al Presidente della Corte di Cassazione. I professori ordinari iniziavano (dopo lo straordinariato) con il grado VI, corrispondete a “colonnello” e potevano raggiungere il grado III, che corrispondeva a “generale di corpo d’armata”. L’assistente ordinario iniziava con il grado XI, corrispondente a “sottotenente”, e poteva raggiungere il grado VIII, corrispondente a “maggiore”, solo dopo aver ottenuto la Libera Docenza, e la relativa “conferma”.  Il professore straordinario che, come vedremo,  era sostanzialmente un professore ordinario “in prova” apparteneva al grado VII, corrispondente a “tenente colonnello”.

I professori incaricati  erano nominati dal Ministro, su proposta del Consiglio di Facoltà per un anno accademico, previo nulla osta espresso (a titolo consultivo) dalla prima sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. L’incarico poteva essere non rinnovato. Tuttavia la Legge 24 febbraio 1967, n. 62 introdusse una “graduatoria” nella assegnazione degli incarichi che privilegiava prima di tutto i liberi docenti già incaricati. La graduatoria, tuttavia, era suscettibile di “deroghe” nel “superiore interesse degli studi”.

Per i professori e gli assistenti di ruolo era previsto un organico nazionale ed il loro stipendio era corrisposto direttamente dal Ministero del Tesoro (attraverso i suoi uffici provinciali). Anche il compenso dei professori incaricati era corrisposto dal Tesoro, ma al posto delle limitazioni associate ad un “organico” si applicavano regole che limitavano il numero dei possibili incarichi retribuiti, in relazione al numero delle materie fondamentali e complementari previste dall’ordinamento didattico, e tenuto conto delle cattedre effettivamente ricoperte da professori di ruolo. Il Consiglio di Facoltà poteva però (fino al 1973) conferire incarichi di insegnamento “a titolo gratuito” per tutte le materie complementari previste dall’ordinamento didattico.

Gli assistenti incaricati, proposti dal titolare della cattedra cui l’assistente era assegnato, erano nominati per il periodo in cui il posto era vacante (per cessazione, o congedo del titolare). Anche lo stipendio degli assistenti incaricati veniva pagato dal Ministero del Tesoro.

Gli assistenti straordinari, sempre scelti sulla base di una proposta del titolare di un insegnamento, erano invece remunerati a carico del bilancio dell’università o dell’istituto di appartenenza. Il numero degli assistenti straordinari non tardò a gonfiarsi non appena emersero prospettive di ingresso facilitato nei ruoli degli assistenti ordinari. Il trucco utilizzato per superare le restrizioni di bilancio fu quello di chiedere agli assistenti straordinari di rinunciare al compenso, che veniva formalmente erogato dall’istituto di appartenenza, ma subito versato nelle casse dello stesso istituto. Per quanto irregolare appaia oggi questa pratica essa era molto frequente specialmente nelle discipline mediche. Stiamo parlando di un’epoca in cui la riforma fiscale del 1973 non era ancora vigente e  la contabilità degli istituti era tenuta in modo molto approssimativo.

Gli assistenti volontari erano nominati dal Rettore su proposta di un professore ufficiale. C’erano delle limitazioni (piuttosto larghe) al numero di assistenti volontari che potevano essere nominati presso una cattedra, ed anche a limitazioni ai possibili rinnovi. Nel 1967 fu bloccata la possibilità di nominare nuovi assistenti volontari e fu eliminata ogni limitazione al rinnovo. Per gli assistenti volontari non era previsto alcun compenso, ma potevano essere retribuite “ad horas” le esercitazioni da loro effettivamente impartite. Una legge del 1962 fissava in lire 2.000 il compenso dovuto per ogni ora di esercitazione.

La “Relazione della Commissione di Indagine sullo Stato e sullo Sviluppo della Pubblica Istruzione in Italia”, all’Allegato 1 III, così quantifica il personale insegnante delle università in servizio nel 1963: 2.067 professori di ruolo, 3.208 professori incaricati (esclusi i professori incaricati che erano anche professori  o assistenti di ruolo), 3.583 assistenti di ruolo, 669 assistenti incaricati, 4.245 assistenti straordinari, e infine 12.675 assistenti volontari. Da notare che mentre alle Facoltà di Medicina apparteneva il 21% dei professori di ruolo, le stesse Facoltà raccoglievano oltre il 38% degli assistenti di ruolo, il 50% degli assistenti straordinari ed il 43% degli assistenti volontari.

Per entrare nei ruoli di assistente o di professore bisognava superare un concorso. Il concorso per assistente di ruolo era bandito dall’Università  che, su proposta del Consiglio di Facoltà, nominava la Commissione che era presieduta dal professore titolare della cattedra alla quale il posto di assistente era assegnato. Di regola il titolare della cattedra era un professore di ruolo, ma poteva succedere, ed in effetti succedeva talvolta, che la cattedra risultasse scoperta e che il titolare della cattedra fosse un professore incaricato.

L’esito del concorso di assistente prevedeva la designazione di tre “idonei” (in ordine alfabetico) tra i quali il titolare della cattedra cui il posto era assegnato poteva scegliere il vincitore. Gli altri due “ternati” conservavano per due anni l’”idoneità” che consentiva loro di essere nominati assistenti di ruolo per un posto vacante della stessa disciplina senza un ulteriore concorso, naturalmente su proposta del titolare della cattedra cui il posto era assegnato.

Il concorso per professore di ruolo era bandito dal Ministro su proposta dell’università che disponeva della relativa cattedra scoperta. E’ opportuno chiarire che ad ogni facoltà universitaria era assegnato, direttamente dal Ministero (e senza l’intervento del Senato Accademico o del Consiglio di Amministrazione) un certo numero di cattedre, che ne costituivano l’organico. Il Consiglio di Facoltà, a sua discrezione, assegnava le cattedre scoperte all’una o all’altra disciplina, purché prevista (anche come materia complementare) dall’ordinamento didattico dei corsi di laurea afferenti alla facoltà. Una volta assegnata una cattedra ad una disciplina il Consiglio di Facoltà poteva chiedere che fosse bandito un concorso per ricoprirla. La richiesta non era automaticamente soddisfatta. Bisognava prima acquisire il parere della prima sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, un “corpo consultivo” del Ministero costituito da 24 professori ordinari eletti dai professori di ruolo delle diverse facoltà,  e da tre rappresentanti eletti, rispettivamente, dagli assistenti ordinari, dai “liberi docenti”, e dai professori incaricati.  Prima di dare parere favorevole ad un concorso, il Consiglio Superiore accertava, a sua discrezione, che vi fossero esperti della relativa disciplina, e che non vi fossero “ternati”, cioè vincitori di concorso, per la stessa disciplina che non erano stati “chiamati” da una facoltà.

La Commissione, composta da cinque professori ordinari, era eletta da tutti i professori di ruolo della stessa disciplina (o di disciplina strettamente affine, come deliberato dal Consiglio Superiore) e dai professori di ruolo delle facoltà coincidenti con la facoltà cui apparteneva la cattedra a concorso. Per fare un esempio se la cattedra a concorso era quella di Economia Politica presso una facoltà di Giurisprudenza, votavano tutti i professori di tutte le facoltà di Giurisprudenza e tutti i professori di Economia Politica o Politica Economica delle altre Facoltà. La commissione, nominata dal Ministro, sulla base dei risultati delle elezioni, poteva designare una terna di vincitori secondo una graduatoria precisa. I vincitori potevano essere chiamati da qualsiasi facoltà avesse un posto scoperto, tuttavia nessun “ternato” poteva prendere servizio prima di chi lo precedeva nella graduatoria, ed il primo in graduatoria, se chiamato dalla facoltà che aveva messo il posto a concorso, non poteva prendere servizio altrove. Di regola infatti il primo vincitore occupava il posto messo a concorso e gli altri due andavano alla ricerca di una facoltà che li chiamasse. Ma la regola ammetteva eccezioni, e poteva darsi addirittura il caso che il posto messo a concorso non fosse ricoperto, e che tutti i ternati fossero chiamati altrove.

Il vincitore di un concorso una volta chiamato da una facoltà entrava nei ruoli come professore straordinario. Dopo tre anni il professore straordinario era sottoposto ad una verifica dell’attività svolta nel triennio, da parte di una commissione nominata dal Consiglio Superiore. Se l’esito di questa verifica era positivo il professore straordinario era promosso “ordinario” ed iniziava una carriera che si sviluppava solo per anzianità. In caso di esito negativo al professore straordinario potevano essere concessi altri due anni di prova, al termine dei quali poteva essere promosso ordinario, ovvero espulso dai ruoli. E’ possibile che questa seconda eventualità non si sia mai verificata.

Nella sostanza il reclutamento iniziale, come assistente, veniva lasciato alla discrezionalità del professore titolare dell’insegnamento, l’affidamento di compiti didattici “ufficiali”, come professore incaricato, era deciso dai consigli di facoltà, e l’entrata in ruolo come professore di un candidato, anche esterno al sistema universitario, veniva decisa da una commissione eletta dai professori a livello nazionale.

Si deve osservare che, almeno fino al 1973, l’assistente, anche se assistente ordinario, era gerarchicamente subordinato al titolare della cattedra cui era assegnato. In effetti il titolare della cattedra poteva proporre la cessazione dal servizio di un assistente ordinario per “esigenze della ricerca scientifica”. In linea di principio queste esigenze erano definite dal direttore dell’istituto o “cattedra”. Ne segue che si poteva chiedere la cessazione dal servizio di un assistente anche molto attivo nella ricerca scientifica che si occupava tuttavia di problemi diversi da quelli che interessavano il direttore. La proposta di cessazione formulata dal direttore doveva essere approvata dal Consiglio di Facoltà ed era ammesso il ricorso al Senato Accademico da parte dell’interessato. Contro la decisione del Senato Accademico era possibile ricorrere al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Non mancarono tuttavia casi in cui tutti i ricorsi furono respinti. Comunque la possibilità di chiedere la cessazione di un assistente di ruolo rafforzava notevolmente l’autorità del titolare della cattedra. Bisogna dire che a partire dalla Legge 18 marzo 1958, n. 349, non fu più possibile chiedere la cessazione dal servizio di un assistente che avesse conseguito la libera docenza.

Ci sono altri aspetti dello stato giuridico degli assistenti, definito dalla citata legge del 1958, che meritano una menzione al fine di chiarire la loro posizione all’interno del sistema universitario. Gli assistenti di ruolo dopo cinque anni di servizio potevano chiedere di passare all’insegnamento nelle scuole secondarie. Con questo passaggio ottenevano anche una promozione (al IX grado della Pubblica Amministrazione). Cessavano dal servizio gli assistenti che entro dieci anni dall’entrata in ruolo non conseguivano la Libera Docenza. Gli assistenti che non erano in grado di conseguire la libera docenza erano incoraggiati dunque a passare alla scuola secondaria.

Dobbiamo anche ricordare che fino alla metà degli anni sessanta non esistevano forme di sostegno finanziario per chi, dopo la laurea, voleva perfezionarsi negli studi o avviarsi alla ricerca. La posizione aperta a chi voleva continuare gli studi e intraprendere la carriera accademica era quella di assistente volontario, ed eccezionalmente quella di assistente straordinario o assistente incaricato. Fu la Legge 31 ottobre 1966, n. 942 ad istituire borse di studio per i “laureati da non oltre un triennio”. Le borse erano annuali e rinnovabili. In seguito (Legge 24 febbraio 1967, n.62) furono previste “borse di studio di addestramento didattico e scientifico”, di durata biennale e rinnovabili per un ulteriore biennio. A queste borse potevano concorrere i laureati da non più di quattro anni e, senza limitazioni di anno di laurea,  gli assistenti volontari. La stessa legge stabiliva che non potevano essere nominati nuovi assistenti volontari, una indicazione chiara che i borsisti di addestramento didattico e scientifico avrebbero dovuto sostituire gli assistenti volontari.

Negli anni sessanta maturarono due importanti novità nel reclutamento dei docenti.

La sistemazione degli assistenti straordinari.

La prima fu la previsione di concorsi a posti di assistente di ruolo riservati agli assistenti straordinari con cinque anni di servizio. La riserva assieme alla istituzione di un numero di posti riservati pari al numero degli aventi diritto alla riserva, fu introdotta dalla già citata Legge 24 febbraio 1967, n. 62. In realtà una “sistemazione” degli assistenti straordinari era già prevista dal 1962. Proprio per questo una norma del 1962 vietò la nomina di assistenti straordinari che non occupassero la stessa posizione nell’anno accademico 1961-62. In pochi anni, a partire dal 1967,   divennero assistenti di ruolo “ope legis”, con concorsi riservati, circa 4.000 assistenti straordinari, di cui la metà appartenenti alle Facoltà di Medicina.  Negli stessi anni aumentarono anche, di circa 3.000 unità i posti di assistente assegnati con concorso aperto a tutti i laureati.

Il nuovo ruolo dei professori aggregati.

L’altra novità nello stato giuridico e nel reclutamento dei docenti fu l’introduzione del ruolo dei professori aggregati (Legge 25 luglio 1966, n.585). Uno dei difetti, da molti lamentato, dello stato giuridico del personale docente era l’assenza di posizioni intermedie tra quella dell’assistente e quella del professore di ruolo. Nel 1958 la legge che aveva reso effettivamente stabile la posizione dell’assistente ordinario abilitato alla libera docenza, aveva parzialmente corretto questo difetto. L’assistente ordinario libero docente, specie se titolare di un incarico di insegnamento, poteva essere considerato un docente stabile a tutti gli effetti. In vista della prevedibile espansione del sistema universitario, si ritenne tuttavia opportuno creare una posizione intermedia che, a differenza della posizione di assistente, non fosse gerarchicamente subordinata al professore titolare di cattedra. La proposta di istituire un ruolo di professori aggregati era anche contenuta nella già citata Relazione della Commissione di Indagine sullo Stato e sullo Sviluppo della Pubblica Istruzione in Italia che fu presentata al Ministro della Pubblica Istruzione il 24 luglio 1963.

Nel reclutamento dei professori aggregati furono introdotte due importanti innovazioni. Prima di tutto il concorso non si riferiva ad una singola disciplina ma ad un “gruppo di discipline” affini. In secondo luogo al concorso potevano partecipare cittadini stranieri o apolidi.  La titolarità di un gruppo di discipline non significava che il professore aggregato potesse scegliere quale disciplina insegnare tra quelle del gruppo, ma piuttosto che la vincita di un concorso non conferiva automaticamente al vincitore la titolarità di una disciplina. Il compito didattico veniva assegnato dal Consiglio di Facoltà che effettuava la chiamata e poteva essere modificato successivamente alla chiamata “con il concorso dell’interessato”. Poteva anche succedere che al professore aggregato fossero assegnati solo compiti di direzione di ricerca e nessun insegnamento.

La Commissione di concorso era composta da cinque membri di cui tre sorteggiati e due eletti dai professori delle discipline appartenenti al “gruppo” per il quale era bandito il concorso. Il concorso prevedeva anche una discussione dei titoli presentati ed una lezione. La legge prevedeva anche che concorsi diversi per il medesimo gruppo di discipline fossero unificati (fino ad un massimo di tre posti a concorso)  e che, in caso di più posti a concorso, la commissione fosse composta da sette membri. Tuttavia in sede di applicazione della norma il Consiglio Superiore decise di evadere questa disposizione distinguendo gruppi sostanzialmente equivalenti, con piccoli ritocchi, cioè aggiungendo o sottraendo una disciplina complementare.

Lo stato giuridico del professore aggregato era molto simile a quello dell’attuale professore associato. C’erano due importanti differenze: i professori aggregati partecipavano ai consigli di facoltà, ma il  numero degli aggregati che partecipavano al consiglio non poteva superare la metà dei professori di ruolo. Nel caso di un eccesso di professori aggregati era prevista l’elezione di una rappresentanza. La seconda differenza era che un professore aggregato di materie cliniche svolgeva automaticamente il ruolo di primario, mentre, come vedremo, il professore associato non ha diritto automaticamente ad una posizione “apicale” all’interno del sistema ospedaliero.

L’organico previsto dei professori aggregati avrebbe dovuto raggiungere nel 1969 le mille unità. I primi concorsi furono però banditi solo nel 1969. Il ruolo dei professori aggregati fu tuttavia soppresso nel 1973 con il passaggio “ope legis” dei professori aggregati in servizio alla posizione di professore straordinario.

Il fallimento della riforma Gui.

Nella primavera del 1968 naufragò sugli scogli della contestazione studentesca un disegno di legge governativo che avrebbe dovuto riformare il sistema universitario recependo le proposte della citata “Commissione di Indagine sullo Stato e sullo Sviluppo della Pubblica Istruzione in Italia”. Venne meno infatti il parziale consenso delle forze politiche, anche di opposizione, e del sindacato degli assistenti (Unione Nazionale Assistenti Universitari) sui necessari provvedimenti di riforma per l’Università. Si fece strada allora l’idea “rivoluzionaria” propugnata dai sindacati in competizione tra loro e dai partiti di sinistra, di uno stato giuridico dei docenti che non prevedesse distinzioni gerarchiche o di livello nel personale docente. Le parole chiave che riassumevano questo (peraltro assai confuso) programma erano “docente unico”. Al ruolo del docente unico avrebbero dovuto accedere con percorso in qualche modo facilitato tutti gli assistenti ed i professori incaricati. Secondo la versione più estrema sarebbero stati promossi a “docente unico” anche i borsisti.

Le anticipazioni di una riforma mai avvenuta.

Questo programma non fu mai attuato, tuttavia la Legge 11 dicembre 1969, n. 910 ne introdusse alcune “anticipazioni”. Prima di tutto non veniva più richiesta la libera docenza per la conferma in ruolo degli assistenti. Tutti gli assistenti ordinari in servizio al 31 ottobre del 1969 avevano diritto di restare in ruolo fino al pensionamento, raggiungendo per anzianità i gradi del pubblico impiego precedentemente raggiungibili solo dai liberi docenti, e cioè il grado IX ed il grado VIII. Una legge successiva (Legge 10/11/1970, n. 924) abolì poi anche gli esami di libera docenza. Il titolo di libero docente, peraltro, non fu abolito per chi già lo possedeva.

La stessa Legge 910 del 1969 introdusse la prima proroga automatica degli incarichi di insegnamento universitari. La proroga fu confermata dalla Legge 22 gennaio 1971, n. 4, e poi dalla Legge 3 giugno 1971, n.360, nella previsione della definitiva “stabilizzazione” degli incarichi operata dal Decreto Legge 580 del 1 ottobre  1973, convertito in legge dalla Legge 30 novembre 1973, n. 766.

I docenti universitari nei primi anni settanta.

Le “misure urgenti” del 1973.

Quest’ultimo provvedimento legislativo, denominato “Misure urgenti per l’università”, oltre a rendere permanenti (fino all’entrata in vigore della riforma universitaria) gli incarichi universitari, estese ai professori incaricati la partecipazione ai consigli di facoltà e promosse “ope legis” tutti i professori aggregati a professore straordinario. Inoltre lo stesso decreto istituì 7.500 nuove cattedre (da distribuire in tre anni). In realtà furono distribuite subito solo 2.500 nuove cattedre, che furono, in parte, destinate a trasferimenti, e per la maggior parte destinate a concorsi disciplinati da una nuova normativa. Si prevedevano infatti concorsi per “gruppi di discipline” anziché per singole materie. Le commissioni non furono più elettive ma sorteggiate tra i titolari delle discipline appartenenti al gruppo o ad esse “affini”. Ogni commissione, composta da cinque membri, poteva attribuire al più dieci cattedre, per cui per grossi gruppi di discipline erano previste più commissioni. Ad esempio per il concorso per il gruppo di discipline di “Analisi Matematica” furono sorteggiate cinque commissioni diverse che svolsero i loro lavori una dopo l’altra in modo da escludere i candidati dichiarati vincitori dalle commissioni che le avevano precedute. Particolarmente impegnativo (per il Consiglio Superiore) fu il problema di stabilire l’ambito del sorteggio per nuove discipline con un numero di titolari molto ridotto rispetto al numero delle cattedre a concorso. Questo fu, ad esempio, il caso delle discipline informatiche già molto richieste dalle facoltà ma con pochissimi professori che ne erano titolari.

In analogia a quanto era già avvenuto per i professori aggregati il provvedimento del 1973 apriva i concorsi a cattedra ai cittadini stranieri, a condizione che nel paese di cui erano cittadini vigessero “norme o accordi di reciprocità che riconoscano uguali diritti ai cittadini italiani”.

Il decreto interveniva anche sulle borse di studio ministeriali, che, dal 1962  avevano preso il nome di “borse di addestramento didattico e scientifico” ed erano biennali e rinnovabili per un ulteriore biennio. Queste borse furono inspiegabilmente soppresse ed al loro posto furono previsti “assegni biennali di formazione scientifica e didattica”. Si trattava di un cambiamento apparentemente solo nominale, che consentiva però di promuovere i “borsisti di addestramento” a “contrattisti”. Infatti le nuove norme istituivano novemila “contratti quadriennali” , di cui tremila erano riservati agli inquadramenti “ope legis” dei “borsisti di addestramento” e seimila erano destinati a concorsi riservati a diverse categorie: ai titolari di assegno di formazione didattica e scientifica, agli ex borsisti del CNR e di altri enti di ricerca presso le università, agli assistenti volontari, ai laureati che avevano svolto esercitazioni retribuite, e ai “medici interni con compiti assistenziali”, una categoria, quest’ultima, non prevista da alcuna norma precedente ma che era stata inventata  dalle Facoltà di Medicina quando fu vietata la nomina di assistenti volontari. Aperti a tutti i laureati avrebbero dovuto essere invece i concorsi per gli “assegni di formazione didattica e scientifica”, che erano previsti nella misura di tremila assegni ogni anno. In realtà gli assegni furono banditi solo per il 1973. Nel corso del 1974 entrarono complessivamente 12.000 soggetti in posizioni destinate, come vedremo, a divenire permanenti.

Il decreto modificò anche lo stato giuridico degli assistenti. Prima di tutto si stabilì che il ruolo degli assistenti sarebbe divenuto “ad esaurimento” alla fine del 1977, o, a seconda delle interpretazioni, alla fine del 1978. In attesa della chiusura del ruolo i concorsi sarebbero stati riservati ad alcune categorie di laureati (inizialmente titolari di contratto, o di assegno, e tecnici laureati, e borsisti di addestramento). I concorsi avrebbero previsto un solo vincitore per ogni posto, anziché una terna. Venivano direttamente inquadrati, a domanda, nel ruolo degli assistenti coloro che risultavano compresi in una ”terna” di vincitori di un concorso ad un posto di assistente. Veniva anche formalmente abolita la dipendenza di un assistente dal titolare della cattedra. Nella formulazione della legge, “le competenze amministrative nei loro confronti già spettanti  al titolare della disciplina vengono trasferite al Consiglio di Facoltà”.

Una conseguenza del raddoppio effettivo degli organici dei professore di ruolo conseguenti alla promozione dei professori aggregati e alla distribuzione di 2.500 nuove cattedre, fu, come era prevedibile, il blocco di nuovi concorsi a cattedra, nonché la mancata distribuzione delle ulteriori 5.000 cattedre che il decreto aveva promesso di distribuire entro il 1975. Quando nel 1979, si ritenne di riaprire i concorsi, anche a seguito della bocciatura in parlamento del decreto Pedini (di cui si dirà dopo), si sentì il bisogno modificare le norme sulla formazione delle commissioni. Fu approvata allora la Legge 7 febbraio 1979.

La bomba ad orologeria dei precari.

Il decreto del 1973 conteneva una bomba ad orologeria destinata a scoppiare a distanza di quattro o cinque anni. Infatti dopo quattro anni di fruizione venivano a scadere, tutti assieme, gli assegni di studio rinnovati per un secondo biennio ed i contratti quadriennali. Alle soglie del 1978 si presentavano quindi almeno 10.000 “precari” destinati, sulla carta, a perdere la loro posizione nell’università. In realtà una parte dei contratti,   quelli attribuiti direttamente “ope legis” decorrevano dal 1 novembre 1973. Bisognava quindi predisporre una soluzione prima dell’autunno del 1977. E infatti, nella primavera del 1977 fu reso pubblico un accordo tra il Ministro della Pubblica Istruzione e i sindacati CGIL, CISL e UIL, che concordata una riforma dell’assetto del personale docente universitario che prevedeva due “fasce” di docenti (professori associati e professori ordinari) rinnegando l’abolizione del ruolo dei professori aggregati deliberato per decreto quattro anni prima. Era previsto il passaggio “ope legis” degli assistenti di ruolo nella “fascia” degli associati. Si chiariva così la motivazione vera per l’abolizione del ruolo degli aggregati. L’esistenza di un ruolo intermedio raggiungibile per concorso avrebbe reso più difficile la promozione “ope legis” di tutti gli assistenti ad una posizione del tutto equivalente. L’accordo restava nebuloso sulla futura sistemazione di assegnisti e contrattisti ma ne prevedeva la proroga a tempo indeterminato.

I decreti Pedini e le nuove regole per i concorsi a cattedra.

L’unica conseguenza immediata di questo accordo fu una disposizione legislativa di proroga di assegni e contratti fino al 31 ottobre 1978, che risolveva, per il momento, il problema dei contratti in scadenza il 1° novembre 1977 (Legge 25 ottobre 1977, n. 808, art. 23). Gli accordi però furono recepiti dal Decreto Legge 21 ottobre 1978, n. 642, il cosiddetto Decreto Pedini. Questo decreto non fu convertito in legge, per decadenza dei termini. Ci fu infatti una forte opposizione del mondo accademico, guidata in gran parte da Paolo Sylos Labini, il quale attaccò violentemente il decreto sulle pagine del quotidiano “Repubblica”. L’opposizione del mondo accademico fu recepita in parlamento dal gruppo “sinistra indipendente” all’interno del quale fu molto attivo Luigi Spaventa. L’opposizione si concretò in una sorta di ostruzionismo cui prese parte anche il senatore democristiano Siro Lombardini, che fu richiamato dal capogruppo democristiano. Infine furono i radicali,  presenti in Parlamento (in particolare Mauro Mellini) ad affossare la legge di conversione del decreto con un aperto ostruzionismo, che si svolse anche nelle ore notturne.

Il Decreto Pedini fu seguito da un secondo decreto che si limitava soltanto a prorogare contratti, assegni e borse in attesa di una riforma. Fu anche approvata durante il Ministero Pedini, una legge (Legge 7 febbraio 1979, n. 31) che riformava le regole per i concorsi a cattedra introducendo un sistema misto di elezioni seguite da sorteggio, e istituiva un Consiglio Universitario Nazionale provvisorio ponendo termine alla lunga proroga della prima sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.  Secondo le nuove norme il numero dei commissari dipendeva dal numero dei concorrenti (cinque se il numero dei candidati non superava sessanta, sette se il numero dei candidati era superiore a sessanta ma non superava ottanta, nove se il numero dei candidati superava ottanta). Si procedeva quindi alla elezione di un numero di potenziali commissari doppio di quello necessario, per poi, tra gli eletti, sorteggiare i commissari.

Gli assegni di formazione professionale per contrastare la disoccupazione giovanile.

Una conseguenza dei decreti Pedini fu naturalmente il blocco di tutte le borse di studio presso le università, ed in particolare delle borse bandite dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Questo non impedì al CNR di approvare un programma di “assegni di formazione professionale” nelle discipline biologiche e mediche, che potevano essere fruiti anche negli istituti universitari e che erano riservati ai giovani iscritti alle “liste della disoccupazione giovanile”, previste dalla Legge  285 del 1977, una legge che si proponeva appunto di contrastare il fenomeno della “disoccupazione giovanile”. Proprio nel 1978 la Legge 285 del 1977  fu modificata ed integrata (dal Decreto legge 6 luglio 1978, n. 351  convertito in Legge 4 agosto 1978, n. 479) in modo da consentire agli “enti del parastato”, come era il CNR, di usufruire delle disponibilità finanziarie della Legge per programmi di “ricerca scientifica e applicata”. Il programma si presentava “senza oneri per il CNR”, in quanto per la spesa si attingeva ai fondi previsti per la Legge 285. Fu il prof. Luigi Rossi Bernardi, rappresentante degli assistenti e professori incaricati nel Comitato per le Scienze Biologiche e Mediche, e presidente dello stesso Comitato, che predispose il programma, ottenendone anche  il finanziamento a carico dei fondi della legge sulla disoccupazione giovanile. Furono previsti un migliaio di assegni. La metà degli assegni erano riservati a diplomati, che furono assegnati però in massima parte a studenti universitari che una volta laureati si unirono agli altri nell’aspirare un posto da laureato. Quasi tutti gli assegni erano per la formazione nell’ambito delle scienze biomediche. L’autore del programma, Luigi Rossi Bernardi poco dopo fu promosso a professore ordinario di biochimica e fu nominato presidente del CNR al termine del mandato di Ernesto Quagliariello. Gli assegnisti della Legge 285 esauriti i tre anni di “formazione” si trasformarono, come prevedibile, in un altro gruppo di “precari” da sistemare nelle università o negli enti di ricerca. La loro “sistemazione definitiva”, disposta dalla Legge 18 gennaio 1989, n. 14,  si rivelò più difficile del previsto, in quanto le norme che avevano istituito gli assegni avevano pudicamente omesso di prevederne direttamente l’assunzione nei ruoli delle università e degli enti di ricerca. Alla fine parte degli assegnisti andarono a ingrossare le file dei “tecnici laureati” universitari, dei quali si tratterà più avanti.

I docenti universitari nei primi anni ottanta.

Riforma e sanatoria del 1980.

A Pedini, che lasciò il Ministero nel marzo del 1979, succedette per pochi mesi Giovanni Spadolini che si limitò a distribuire la seconda tranche di cattedre previste dal Decreto Legge 580 del 1973 e a bandire concorsi a cattedra con le nuove norme. Fu il nuovo ministro, del primo governo Cossiga, il liberale Salvatore Valitutti, a mettere  a punto un disegno di legge di riforma che ripartiva dalle disposizioni del decreto Pedini. Valitutti cercò di ottenere il consenso di quella parte del mondo accademico che si era schierata contro il decreto Pedini. Atteggiandosi ad estraneo alle forze politiche e sindacali che avevano promosso l’indiscriminato “ope legis”,  si recò ripetutamente, la sera, a casa di Paolo Sylos Labini, per ottenere, se non il consenso, almeno una condizione di non belligeranza. Le condizioni dettate dalle riunioni notturne in casa Sylos Labini furono in parte recepite nel disegno di legge presentato dal Ministro, ma furono travolte dalla Commissione Cultura della Camera la cui discussione era guidata dalla forte personalità di Alberto Asor Rosa, che rappresentava l’opposizione di sinistra. Alla fine venne fuori un testo che, pur mantenendo la struttura del  decreto Pedini e dei precedenti accordi sindacali, ne attenuava gli automatismi, rispondendo così alle critiche di indiscriminate assunzioni e promozioni che avevano affossato il decreto Pedini. Venne così approvata una legge delega, la Legge 21 febbraio 1980, n. 28,  che, oltre a trattare del personale docente, introdusse anche nel sistema universitario italiano i “dipartimenti” ed il dottorato di ricerca. Il decreto legislativo che scaturì da questa legge delega è il Decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n.382, che fu messo a punto in gran parte dal nuovo Ministro Adolfo Sarti, che succedette a Valitutti, a partire dal 4 aprile 1980,  a seguito dell’uscita del partito liberale dalla coalizione di governo.

Le nuove norme prevedevano la divisione dei docenti in tre “fasce”: professori ordinari (e straordinari), professori associati e ricercatori universitari. Prevedevano anche una sanatoria per l’accesso alla seconda e alla terza fascia.

Avevano diritto ad entrare in ruolo come professori associati sulla base di giudizi di idoneità pronunciati da commissioni nazionali elettive tutti gli assistenti di ruolo, i professori incaricati con tre anni di servizio. La sanatoria si preoccupò anche di tutelare il diritto a partecipare ai giudizi di idoneità dei professori incaricati a titolo gratuito nominati dopo l’entrata in vigore nel 1973 delle norme che vietavano il conferimento di “nuovi incarichi gratuiti”. Molte facoltà avevano infatti ritenuto che fosse lecito conferire nuovi incarichi purché non si introducessero nuove discipline.

Assieme agli assistenti e professori incaricati, che erano i principali destinatari della sanatoria, furono ammessi ai giudizi di idoneità anche i “tecnici laureati” per i quali i presidi delle facoltà avessero certificato lo svolgimento di attività didattica. Diverse sentenze della Corte Costituzionale ampliarono la platea degli aventi diritto. Alla fine, ad esempio, furono ammessi alle idoneità anche gli assistenti delle cliniche universitarie che non appartenevano ai ruoli universitari, ma appartenevano ai ruoli ospedalieri.

Erano previste due “tornate” idoneative, nel senso che chi non era giudicato idoneo poteva partecipare ad un secondo giudizio idoneativo. Una terza tornata era prevista per chi avesse maturato il diritto a partecipare dopo la scadenza della prima tornata.

Gli esiti dei giudizi di idoneità furono quelli prevedibili: solo una piccola minoranza degli “aventi diritto” risultò esclusa dalla idoneità. Fu cruciale per assicurare la promozione di tutti gli assistenti delle Facoltà di Medicina il disposto del quarto comma dell’art. 102 del DPR 382 del 1980, che prevedeva che, di regola, il professore associato non ricoprisse le funzioni di primario nelle cliniche universitarie, ma fosse inquadrato, nella gerarchia ospedaliera, a “livello intermedio”. Questa disposizione consentiva di mantenere la struttura gerarchica delle facoltà di medicina nonostante la promozione degli assistenti a “professore di ruolo”. Non c’era bisogno di aprire nuovi reparti per ospitare nuovi primari: la promozione a professore associato di un assistente non ne mutava nella realtà quotidiana lo “status”.

Le norme sui professori associati stabilivano anche le regole per i “concorsi liberi”. Era prevista una commissione formata da tre professori ordinari e due professori associati. Anche in questo caso la commissione era estendibile fino ad un massimo di nove commissari in dipendenza del numero dei concorrenti. La commissione era formata con un sistema misto di elezioni e sorteggio, invertendo però il procedimento previsto dalle norme del 1979 per i concorsi di prima fascia. Si sorteggiavano prima potenziali commissari in numero triplo di quello necessario per formare la commissione e poi si procedeva ad elezioni con l’elettorato attivo spettante ai docenti del raggruppamento ed elettorato passivo spettante ai docenti preventivamente sorteggiati. Dopo l’esame dei titoli, la commissione decideva se ammettere i candidati alle prove successive che consistevano in una lezione ed una discussione dei titoli da parte del candidato.

Il DPR 382 del 1980 prevedeva anche l’accesso, attraverso giudizi di idoneità, al ruolo di ricercatore universitario di una lunga lista di “precari” appartenenti a nove diverse “categorie”: a) titolari dei contratti istituiti nel 1973, b) titolari di assegni biennali, c) titolari di borse di studio ministeriali, d) borsisti del CNR e di altri enti di ricerca, dell’Accademia dei Lincei e della Domus Galileiana, e) perfezionandi della scuola normale e della scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento di Pisa, f) titolari di borse o assegni di formazione o addestramento didattico e scientifico comunque denominati, istituiti su fondi destinati dal consiglio di amministrazione su bilanci universitari, g) assistenti incaricati o supplenti e professori incaricati supplenti, h) lettori assunti con pubblico concorso, i) “medici interni” assunti con delibera del Consiglio di Amministrazione (detti MIUCA).

Queste categorie furono ulteriormente ampliate da sentenze della Corte Costituzionale, che, ad esempio, ammise alle idoneità per diventare ricercatore anche i medici interni assunti con delibera di un Consiglio di Facoltà.

Il Decreto Legislativo 382 del 1980 aveva anche ampliato l’organico dei docenti fissando a 30.000 il numero dei professori, di cui la metà professori associati. Tuttavia, inizialmente, il numero dei posti di professore associato fu determinato dai posti necessari per inquadrare gli idonei, incrementato di 6.000 posti. Veniva anche fissato a 16.000 il numero dei posti di ricercatore universitario, di cui 4.000 da assegnare per concorso. Di questi 4.000 posti teorici, la metà avrebbe dovuto essere messa a concorso entro il 1980-81.

Quanto ai posti di professore furono destinati a concorsi “liberi” 2.800 posti di professore di seconda fascia e 2.000 posti di prima fascia. Ci vollero diversi anni perché questi concorsi fossero svolti. Ritardarono in particolare i concorsi di seconda fascia, perché si ritenne che non potessero essere svolti contemporaneamente ai concorsi di prima fascia, dal momento che alcuni professori associati avrebbero potuto trovarsi nella condizione di commissari di un concorso di seconda fascia e concorrenti di un concorso di prima fascia.

Ruolo dei ricercatori, permanente o “ad esaurimento”?

La Legge 28 del 1980, pur avendo distribuito 4.000 posti di ricercatore da destinare a concorso libero aveva deliberatamente rinviato ogni decisione sul futuro di questo ruolo. L’ultimo comma dell’art. 7 della Legge 28 stabiliva infatti che: “Dopo quattro anni dall’entrata in vigore della presente legge, il Ministro della Pubblica Istruzione, sentito il Consiglio Universitario Nazionale, presenta al Parlamento un disegno di legge per definire il carattere permanente o ad esaurimento della fascia dei ricercatori confermati e nella prima ipotesi il relativo stato giuridico. Con a stessa legge sono ridefiniti i compiti e gli organici del ruolo dei ricercatori, sulla base delle esperienze didattiche e di ricerca nel frattempo compiute e dei risultati dell’attuazione dei corsi per il conseguimento del dottorato di ricerca, dei movimenti del personale docente e delle esigenze di un corretto ed equilibrato rapporto tra le diverse fasce del personale stesso.”

Nel frattempo ai ricercatori universitari si applicava lo stato giuridico degli assistenti. Tuttavia nel dicembre del 1984, in ossequio alle disposizioni di legge il Ministro (Franca Falcucci) predispose una bozza di disegno di legge che confermava il mantenimento del ruolo, che fu inviata al Consiglio Universitario Nazionale (CUN) per il prescritto parere. Nonostante il parere favorevole del CUN, il disegno di legge fu ritirato e sostituito da un altro disegno di legge che prevedeva invece la “messa ad esaurimento” del ruolo dei ricercatori. La Ministra si era infatti uniformata al parere delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL anziché al parere del CUN. Il nuovo disegno di legge non ebbe però vita facile in Parlamento. La messa ad esaurimento dei ricercatori fu osteggiata dalla “Assemblea Nazionale dei Ricercatori Universitari” un sindacato autonomo che raccoglieva la maggioranza dei ricercatori ed era guidato da Nunzio Miraglia, un ricercatore di ingegneria di Palermo.

Ma anche i docenti delle facoltà di scienze e di ingegneria si resero presto conto che, se fosse stato confermato il mantenimento del ruolo, i concorsi in atto per le cattedre di seconda fascia avrebbero liberato migliaia di posti di ricercatori, prevalentemente nell’area delle scienze e dell’ingegneria, dove, appunto, erano più numerosi i concorsi di seconda fascia. Al contrario, la soppressione del ruolo dei ricercatori avrebbe comportato la soppressione di tutti i posti liberati dai vincitori dei concorsi di seconda fascia. Fu così che il Comitato di Coordinamento delle Associazioni Scientifiche Italiane prese posizione contro il disegno di legge. La opposizione di parte del mondo accademico era anche motivata dal timore che le posizioni “a tempo determinato” previse dal disegno di legge generassero, come era avvenuto per altre simili posizioni, una “vertenza” sulla sistemazione dei “precari”. Alla fine, nel 1987, ci fu un nuovo repentino cambiamento e, prima delle elezioni  che si svolsero nella primavera fu emanato il Decreto Legge 2 marzo 1987, convertito con modificazioni dalla Legge 22 aprile 1987, n. 158. Questo provvedimento, oltre a introdurre il regime di tempo definito per i ricercatori (la ragione principale dell’urgenza) confermava la permanenza del ruolo istituendo anche 3.000 nuovi posti.

Tuttavia le nuove norme non ridefinivano lo stato giuridico dei ricercatori, che rimaneva legato a quello degli assistenti di ruolo, una figura ormai scomparsa. Bisognava aspettare la Legge 14 novembre 1990, n. 341 perché divenisse possibile affidare un insegnamento ad un ricercatore confermato.

I concorsi per il ruolo di ricercatore.

I concorsi per il ruolo dei ricercatori erano banditi localmente sulla base di una delibera della facoltà. Il consiglio di facoltà designava un membro della commissione, mentre gli altri due (un ordinario ed un associato) erano estratti a sorte da terne designate dal Consiglio Universitario Nazionale. Molto spesso era il “membro interno” a suggerire almeno una delle terne al CUN. Talvolta bastava suggerire un solo nome (sufficiente a costituire una maggioranza assieme al membro interno) perché i sorteggi, scarsamente pubblicizzati, potevano essere facilmente manipolati. Per effetto di queste norme ambigue i concorsi per ricercatore si riducevano molto spesso alla ufficializzazione della scelta che il membro interno della commissione aveva già fatto tra i propri allievi. In pratica, la facoltà, con la scelta del “membro interno” delegava ad un solo professore il diritto di conferire un posto di ruolo ad un suo allievo.

Un nuovo canale di reclutamento universitario anomalo: i tecnici laureati.

Tra le varie categorie che avevano accesso ai giudizi di idoneità per diventare professore associato, quella dei tecnici laureati era l’unica che corrispondeva ad un ruolo che non era soppresso. Ogni tecnico laureato che diveniva professore associato lasciava libero un posto che poteva essere riassegnato. Al contrario delle cattedre e dei posti di ricercatore i posti di tecnico laureato erano assegnati dal Ministero direttamente alle “cattedre” senza che sulla loro assegnazione si potessero esprimere le facoltà, i senati accademici o i consigli di amministrazione delle università. Il Ministero, o per meglio dire, l’onnipotente direttore generale per l’università che si trovò molto spesso a ricoprire anche il ruolo di Capo di Gabinetto, poteva quindi disporre di un contingente di qualche migliaio di posti di tecnico laureato con i quali gratificare a sua discrezione i cattedratici che si presentavano a chiedere favori. Come è naturale, di questi favori usufruirono prevalentemente i cattedratici della Facoltà di Medicina di Roma, che arrivò ad annoverare un migliaio di tecnici laureati. Si racconta anche (senza peraltro disporre di prove) che al professore che veniva a chiedere un posto di tecnico laureato il Direttore Generale rispondesse che era disposto a dargli due posti purché uno dei posti fosse assegnato secondo le sue indicazioni. Dobbiamo aggiungere che le procedure del concorso per diventare tecnico laureato consentivano al “direttore della cattedra” cui il posto era assegnato una totale discrezionalità. Infatti la commissione nominata dal Consiglio di Facoltà era presieduta dal cattedratico cui era stato assegnato il posto. Ciò non toglie, naturalmente, che molti tecnici laureati reclutati dopo il 1980 fossero scientificamente ben più competenti dei loro predecessori nel ruolo, i quali erano stati promossi a professore associato, questi ultimi infatti si erano formati prima dell’introduzione e del consolidamento in Italia della “evidence based medicine”.

Come era prevedibile, allo scadere dei tre anni di servizio, i nuovi tecnici laureati si affrettarono a far domanda di partecipazione alla terza tornata di idoneità per diventare professori associati. Il Ministero, in applicazione della legge, inizialmente li escluse, ma fu sufficiente che un Tribunale Amministrativo Regionale (mi sembra la sezione di Latina del TAR del Lazio) sospendesse i provvedimenti di esclusione perché tutte le domande fossero inviate alle commissioni. Molte commissioni si pronunciarono (naturalmente a favore dei candidati) prima che una sentenza definitiva del Consiglio di Stato stabilisse che i tecnici laureati assunti dopo l’entrata in vigore del DPR 382 del 1980, cioè dopo il 1° agosto 1980, non erano ammessi ai giudizi di idoneità. Non fu accolto nemmeno il ricorso di alcuni tecnici laureati alla Corte Costituzionale, nonostante si sussurrasse che il figlio di un giudice costituzionale fosse interessato al ricorso. A questo punto il Ministero dell’Università, avrebbe dovuto fermare le procedure per le idoneità dei tecnici assunti dopo il 1° agosto 1980, sulla base della “sentenza pilota” (che formalmente si applicava ad un solo ricorso) e del rigetto del ricorso da parte della Corte Costituzionale. Il Ministero decise di accelerare le procedure, insistendo anche presso il Consiglio Universitario Nazionale perché gli atti delle commissioni fossero approvati. Si creò così un gruppetto di tecnici laureati esclusi dalle idoneità a professore associato che avevano tuttavia completato le procedure idoneative. Questo gruppetto di “miracolati”  riuscì  infine ad ottenere una sanatoria che superava, annullandole, le sentenze del Consiglio di Stato che avevano escluso dalle idoneità i tecnici laureati assunti dopo il 1° agosto 1980. Infatti il comma 7 dell’art. 8 della Legge n. 370 del 1999 dispone che: E’ legittimamente conseguita l’idoneità di cui agli articoli 50, 51, 52 e 53 del Decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, da parte dei tecnici laureati di cui all’articolo 1, comma 10, penultimo periodo, della Legge 14 gennaio 1999, n. 4, anche se non in servizio al 1° agosto 1980 i quali, ammessi con riserva ai relativi giudizi per effetto di ordinanze di sospensione dell’efficacia di atti preclusivi alla partecipazione, emesse da i competenti organi di giurisdizione amministrativa, li abbiano superati.

Questa disposizione non si applicava ai tecnici laureati assunti troppo tardi per poter partecipare anche alla terza tornata delle idoneità ad associato. Essi alla fine dovettero accontentarsi di concorsi riservati per il ruolo di ricercatore universitario come disposto dalla citata Legge 14 gennaio 1999, n.4. Disposizioni analoghe contenute in altri disegni di legge erano state bocciate per mancanza di copertura finanziaria. La Legge n.4 del 1999 superava questo ostacolo autorizzando le università a bandire i concorsi riservati, utilizzando, anticipatamente, i fondi liberati dalla soppressione dei posti di tecnico laureato conseguente al passaggio dei tecnici al ruolo di ricercatore.  Entrarono così nei ruoli di ricercatore oltre 2.000 tecnici laureati (erano 2.196 al primo settembre 2001,  secondo un servizio de IlSole24ore, quando non tutti i concorsi riservati erano stati banditi e svolti). In ogni caso, il “canale di reclutamento” costituito mediante le posizioni di tecnico laureato ha svolto un ruolo non indifferente, dopo le sanatorie del 1980, specialmente nelle facoltà di Medicina ed in particolare nelle facoltà di Medicina di Roma “La Sapienza”.

Si deve anche osservare che tra i tecnici laureati che usufruirono dei concorsi riservati c’erano anche alcuni dei titolari di assegno di formazione professionale di cui alla Legge 285 sulla disoccupazione giovanile. Infatti la Legge 18 gennaio 1989, n. 14 che sistemava definitivamente gli assegnisti stabiliva che essi non potevano essere inquadrati come ricercatori. Pertanto molti assegnisti che operavano presso istituti universitari vennero inquadrati come tecnici laureati, salvo usufruire di un secondo scivolo per diventare ricercatori.

Oggi....2014.....

Università, beffa per gli aspiranti prof: "Troppo specializzati, vi bocciamo". Decine di esclusi eccellenti in rivolta: "Favoriti i parenti dei baroni".

Mentre Matteo Renzi pensa di ricostruire l'Italia dalla scuola, qualcun altro vuol finire di distruggerla all'università, scrive Giovanni Valentini su “La Repubblica”. Una pioggia di ricorsi amministrativi s'è abbattuta sull'ultimo concorso per l'Abilitazione scientifica nazionale 2012-2013 per professori ordinari e associati che prelude poi a quella didattica con la chiamata e l'assunzione in ruolo. È una montagna di carta bollata che minaccia ora di provocare una valanga di annullamenti o di revisioni, sconvolgendo la vita già travagliata dei nostri atenei. Nell'ambito della controversa riforma Gelmini, il ministero della Pubblica istruzione aveva disposto una nuova procedura di abilitazione, introducendo la meritocrazia come principale criterio di valutazione. Questa avrebbe dovuto fondarsi su elementi trasparenti e oggettivi, definiti "bibliometrici", forniti dalla produzione scientifica di ciascun candidato nei rispettivi curricula: cioè monografie, articoli o citazioni pubblicati da riviste specializzate. Ma successivamente sono stati inseriti criteri aggiuntivi, del tutto discrezionali, in forza dei quali le commissioni di valutazione hanno ribaltato le graduatorie, suscitando anche alcune interrogazioni parlamentari.

ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. DERIVA CONCORSUALE.

I risultati fin qui pubblicati mostrano come siano stati abilitati mediamente intorno al 43% dei candidati sia alla prima sia alla seconda fascia. I risultati variano in maniera significativa da un settore concorsuale all’altro con percentuali di area che vanno - ad esempio - dal 53% dell’area 03 al 28,2% dell’area 14. Vi sono quindi settori le cui percentuali di abilitati superano il 70% come in 02/B1, e altri le cui percentuali sono di poco superiori al 20% in 14/C1. Il numero dei candidati è stato estremamente alto. A conferma del "clima da ultima spiaggia" che limiti al turnover, riduzione dei finanziamenti e delle opportunità di carriera, azzeramento delle prospettive per i tanti ricercatori più giovani, o ancora precari, hanno prodotto. Questo alto numero, frutto di un contesto drammatico, ha rappresentato uno degli elementi di distorsione sistemica e strutturale dell’intera procedura. I primi dati rendono evidente come la gran parte delle commissioni non abbia inteso l’abilitazione scientifica nazionale come una verifica dei requisiti di qualificazione scientifica dei potenziali candidati a professore di I e II fascia, ma una vera e (im)propria pre-selezione comparativa. Scelta tanto più erronea poiché le abilitazioni - che costituiscono i requisiti per la partecipazione ai concorsi e alle procedure di reclutamento negli atenei - delineano l’estensione, composizione e articolazione delle diverse discipline scientifiche nel medio futuro. Allo stesso modo appare evidente come nella maggioranza dei casi - non in tutti settori - i non strutturati siano stati largamente penalizzati, anche a parità di livelli di produzione scientifica come mostrato dagli indicatori (le cosiddette mediane). Tutto ciò lascia pensare che le commissioni abbiano in molti casi valutato, facendosi influenzare, o comunque tenendo conto, che allo stato attuale è per gli atenei estremamente difficile reclutare come professori di II fascia studiosi non già strutturati presso gli atenei italiani o comunque un numero significativo di studiosi. (Fonte: FlcCgil 23-01-2014).

ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. RISULTATI A RILENTO.

Dal 30 novembre 2013, data ultima di chiusura dei lavori delle Commissioni dopo 6, ben 6, proroghe, non siamo neanche a metà dell’opera. 184 le commissioni; 91 i risultati finora noti. Dall’ultimo post che ho scritto su questo stesso argomento, datato 8 gennaio sono usciti altri 19 risultati: 12 giorni per 19 risultati … Non è difficile calcolare, procedendo a questi ritmi, quando la novella avrà fine. Procedendo con questi ritmi serviranno ancora due mesi pieni: 58 giorni, se non erro. La fine di marzo. Intanto il numero delle commissioni che stanno riaprendo i lavori in autotutela, per mettere al riparo i propri lavori da eventuale contenzioso, sta crescendo. Pochi giorni fa erano solo due. Alla data del 22 gennaio 2014 sono dieci, più del 10% delle commissioni i cui esiti sono stati finora pubblicati. (Fonte: M. C. Monaco, filelleni.wordpress.com 20-01-2014. Roars 22-01-2014).

UN ESEMPIO DEL LAVORO DI UNA COMMISSIONE.

Si tratta di un settore concorsuale “non bibliometrico”, perciò la commissione, come in tutti i settori non bibliometrici, si è proposta di valutare la «qualità della produzione scientifica (…) sulla base dell’originalità, del rigore metodologico e del carattere innovativo della stessa» e ha ritenuto di poter «prendere in considerazione, sulla base di un motivato giudizio di eccellenza della produzione scientifica, anche candidati che non posseggano tutti i requisiti (bibliometrici)». Questo comporta la necessità di leggere le pubblicazioni scientifiche dei candidati (di rileggerle, o almeno riconsiderarle, se già conosciute). I concorrenti per la seconda fascia erano 425 e quelli per la prima 115 e, poiché alcuni sostenevano ambedue le abilitazioni, il totale effettivo era pari a 490, per un totale di circa 6.600 (seimilaseicento) pubblicazioni: monografie, articoli, saggi, tutti da valutare analiticamente a norma di regolamento.

Seguiamo l’iter di questa commissione. Nominata a fine dicembre 2012, la commissione si riunisce una prima volta a fine gennaio 2013, per fissare i criteri. Poniamo che i commissari comincino a leggere le pubblicazioni e a valutarle quello stesso giorno. Consegneranno i loro verbali al MIUR a fine novembre, esattamente dieci mesi dopo: in tutto 303 giorni, 233 se togliamo 48 fra domeniche e altre festività nazionali e 44 mezze giornate del sabato. In 233 giorni significa leggere 28 pubblicazioni (anche monografie) al giorno. E comunque in 303 giorni significherebbe leggerne 21 al giorno. Questo dal primo all’ultimo giorno, e nel contempo: fare lezione, ricevere gli studenti, tenere gli appelli d’esame e di laurea, fare ricerca – living and partly living. In realtà, se scorriamo i verbali vediamo che già ai primi di aprile la commissione è in grado di «(discutere) ampiamente dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei candidati all’abilitazione nazionale (di) II fascia» in due riunioni consecutive per complessive 15 ore, e che a metà maggio passerà a discutere i candidati alla I fascia. Dobbiamo dedurre che nei mesi di febbraio e di marzo, più qualche giorno di gennaio e di aprile, la commissione abbia letto i 5.100 (cinquemilacento) lavori dei candidati alla II fascia – anche per riscontrare l’eccellenza, ove presente, pur in assenza dei requisiti cosiddetti bibliometrici (vedi sopra). E questo è un tour de force eccezionale anche per un accademico italiano: 85 (ottantacinque) pubblicazioni il giorno, comprese le domeniche, Pasqua, Pasquetta e Festa del Papà. Ammettiamo pure che un “eccellente” accademico conosca i quattro quinti della produzione del suo settore: restano 17 (diciassette) pubblicazioni il giorno, da leggere e valutare nel rispetto dei valori in campo e con la presunzione di fare un buon servizio all’Università italiana. (Fonte: G. Avezzu, Roars 11-01-2014).

Università, il paradosso di migliaia di ricercatori bocciati all'abilitazione ma costretti a insegnare. Università, bocciati all'abilitazione ma costretti a insegnare. Il paradosso delle migliaia di ricercatori che di fatto garantiscono la didattica negli atenei ma non hanno ottenuto la "patente" introdotta dalla riforma Gelmini, necessaria per i concorsi per i docenti. Ecco alcune testimonianze, scrive Salvo Intravaia su “La Repubblica”. Bocciati, ma costretti a rimanere in cattedra ad insegnare. Ecco il singolare destino di migliaia di ricercatori universitari italiani alle prese con l'Abilitazione scientifica nazionale: la patente introdotta dalla riforma Gelmini, necessaria, in futuro, per partecipare ai concorsi per docente di prima - l'ex professore ordinario - e seconda  -  il professore associato - fascia. Ricercatori italiani, sfruttati e maltrattati? Stando ai loro racconti, sembra proprio di sì. Ma il tutto si svolge nel più assoluto riserbo, visto che nessuno se la sente di denunciare apertamente, se vuole continuare ad avere qualche chance all'interno del proprio ateneo. Noi siamo riusciti a raccogliere qualche testimonianza, ovviamente anonima. E la storia è sempre la stessa. Giuseppe (nome, ma soltanto quello, di fantasia) da anni è "costretto" a sobbarcarsi l'insegnamento di una o addirittura due materie all'università perché gli atenei italiani non hanno sufficienti professori ordinari e associati per coprire l'intero ventaglio degli insegnamenti che impartiscono. "Per preparare le lezioni e garantire un servizio all'altezza della situazione sono costretto a trascurare la ricerca scientifica per cui l'università mi ha assunto", spiega. Ma quando poi c'è in ballo l'abilitazione scientifica nazionale la maggior parte dei candidati viene bocciata in malo modo. "Con le mie pubblicazioni non sono riuscito a rientrare nelle mediane fissate dal ministero", aggiunge. Giuseppe e tanti altri non sono abbastanza bravi nella ricerca scientifica da essere promossi e vengono "trombati" nella selezione per l'Abilitazione scientifica nazionale, ma vengono mantenuti ad insegnare ugualmente le materie che hanno sempre garantito ai propri atenei, anche senza quell'abilitazione che certifica le competenze proprio per professore associato, la figura preposta all'insegnamento. Ma com'è possibile? Non sono in grado di insegnare, quindi? E allora perché continuano a farlo? Tra i tanti paradossi, l'Italia vive anche quello che vedrebbe circa metà degli studenti universitari nelle mani di "professori" non idonei all'insegnamento. I nostri figli studiano con "professori" non all'altezza della situazione? E' quello che una ricercatrice meridionale, Maria (anche questo nome di fantasia) ha cercato di fare capire ai suoi colleghi associati. Dopo essere stata silurata al concorso per l'Asn, ha preso carta e penna e ha scritto loro poche e semplici parole: "Non essendo idonea all'insegnamento, cosa devo fare: continuare ad insegnare la mia materia, oppure abbandonare la cattedra e rientrare in laboratorio per la ricerca?". La risposta è stata chiara: "In fondo cosa cambia, non eri idonea prima e non lo sei neppure adesso. Puoi continuare ad insegnare". Scorrendo le lunghissime liste delle abilitazioni scientifiche nazionali pubblicate dal ministero si scoprono tantissime Marie e Giuseppe. A. A. insegna Sociologia del territorio per i servizi sociali all'università di Chieti-Pescara. Ma non ce l'ha fatta ad acciuffare l'abilitazione. G. B. è nelle stesse condizioni a Cagliari: insegna Geometria I nell'ateneo sardo, ma non ha superato l'ostacolo dell'abilitazione. A Pavia, A. C. insegna addirittura due materie: Diritto commerciale  e Diritto dei mercati finanziari. Stesso destino anche per A. T. docente di Microbiologia generale ed Enologia a Pisa ma che non ce l'ha fatta ad ottenere l'abilitazione nazionale. "Le pubblicazioni selezionate, così come la produzione scientifica complessiva, appaiono - recita il giudizio della commissione - di livello accettabile. Tuttavia, il contributo della candidata alle pubblicazioni selezionate appare molto moderato. La continuità della produzione scientifica selezionata e complessiva indica un notevole rallentamento negli ultimi anni. Gli altri titoli presentati sono di buon livello, ma non tali da controbilanciare le precedenti valutazioni. All'unanimità, non appare giustificata l'abilitazione scientifica nazionale della candidata per il ruolo di professore di II fascia". E i numeri confermano che senza il contributo all'insegnamento dei ricercatori l'università si bloccherebbe. Secondo la banca dati del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, il corpo docente di ruolo è composto da poco meno di 55mila tra ordinari, associati e ricercatori. I professori abilitati all'insegnamento - di prima e seconda fascia - sono circa 30mila, ma gli insegnamenti che si impartiscono in tutti gli atenei nostrani sono quasi 77mila. Ogni prof dovrebbe quindi sobbarcarsi il peso dell'insegnamento di due o tre materie all'anno. Ma, di fatto, buona parte della didattica è delegata ai ricercatori ai quali viene chiesto di aderire "volontariamente". Il popolo degli addetti alla ricerca è il più numeroso: oltre 24mila ricercatori a tempo indeterminato e 1.800 a tempo determinato. I quali, gratuitamente, si accollano da anni l'insegnamento di una o due materie. In alcuni casi, i ricercatori reggono interi corsi di laurea. Ma la riforma Gelmini si è praticamente scordata di loro: dovranno partecipare all'abilitazione scientifica nazionale come qualsiasi soggetto che voglia intraprendere la carriera universitaria per ottenere il lasciapassare per il successivo concorso. Intanto, con o senza abilitazione, continuano a insegnare.

Negata senza motivazioni l'idoneità allo storico Scirè. Nel 2012, il bando per insegnare storia a Catania lo vinse una architetta, scrive Giuseppe Giustolisi  su il Fatto Quotidiano del 15 febbraio 2014. La vicenda di Giambattista Scirè, 38enne ricercatore universitario di Storia contemporanea, è la fotografia di come è trattato il merito in questo Paese. Se ne era occupato il Fatto Quotidiano un anno e mezzo fa, a proposito di un concorso di Storia, bandito dall’Università di Catania. Scirè aveva le carte in regola per vincerlo, ma arrivò secondo e l’insegnamento andò a una laureata in Architettura con master in Progettazione urbana. Fu la stessa commissione ad ammettere che quella laurea era “eccentrica” rispetto all’oggetto del bando. In attesa del Tar, che dovrebbe pronunciarsi a fine marzo, il ricercatore siciliano intanto è stato bocciato al bando per l’abilitazione all’insegnamento universitario di seconda fascia. E se a qualcuno venisse il dubbio che Scirè così bravo non è, sarebbero gli stessi commissari a smentirlo, visto che nei giudizi lo riempiono di lodi. Allora? Tutta colpa di non precisati requisiti aggiuntivi, che a Scirè mancano. Candidato di valore, 38 pubblicazioni dal 2001, articoli pubblicati in riviste prestigiose, saggi stampati da grossi editori, però Scirè è privo di requisiti aggiuntivi che nel bando nazionale del 2011 sono previsti ma non specificati e sono stati inseriti un anno dopo in un verbale della commissione. “Si tratta di requisiti discrezionali”, dice al Fatto il senatore Pd Paolo Corsini, autore di un’interrogazione parlamentare sulla commissione di Storia contemporanea e che già un anno fa si era occupato del caso Scirè. Scrive Corsini: “Questi requisiti non dipendono affatto dalla capacità e dalla qualità di ricerca del singolo candidato, ma dall’aver partecipato al comitato di redazione di una rivista ritenuta scientifica o a qualsiasi convegno, purché all’estero”. Corsini non fa nomi ma è un addetto ai lavori, fa proprio il professore di Storia moderna all’Università di Parma. E tra le anomalie si segnala il caso di venti candidati che hanno superato una sola mediana (il bando ne prevede almeno due), otto abilitati con una sola monografia all’attivo (mentre Scirè ne ha sei di livello), un altro ancora con una monografia e requisiti aggiuntivi inesistenti (vantava la partecipazione al comitato di una rivista della quale in realtà non aveva mai fatto parte) e il caso, ancora più eclatante, di una candidata promossa con tre giudizi negativi, uno possibilista e uno solo positivo. Non sono pochi i giudizi possibilisti che non fanno capire con chiarezza se sono positivi o negativi. “Un’abilitazione possibile”. “L’abilitazione ci può stare”. Queste le espressioni che ricorrono nei giudizi dei commissari. Nel caso di Scirè, un commissario, Guido Formigoni, arriva a scrivere: “Produzione significativa e corposa, ma non ha nessuno dei requisiti aggiuntivi, per questo l’eccezione da realizzare per l’abilitazione sarebbe cospicua”. Mentre Corsini si accingeva a presentare l’interrogazione, alcune settimane fa la commissione tornava a riunirsi in autotutela (dietro autorizzazione del ministero per l’Università) per sanare alcuni vizi, parte dei quali coincidono con quelli denunciati da Corsini, conferma lo stesso senatore al Fatto. Scirè adesso è disilluso. Oltre a dovere fare i conti con le ritorsioni, deve far di conto perché un altro ricorso al Tar costa parecchi soldi e un assegnista di ricerca non può attendere i tempi della giustizia. “Non mi resta che rivolgermi alla Procura della Repubblica”, dice Scirè. L’alternativa è andare via dall’Italia. E Scirè ha pensato anche a questo.

Unisalento, concorsi abilitazione il 41% dei docenti associati non diventa ordinario, scrive di Maria Claudia MINERVA su “Il Quotidiano di Puglia”. «Il candidato presenta una monografia, cinque contributi in volume, tre articoli in riviste. La valutazione delle pubblicazioni è buona per quanto attiene alla coerenza con le tematiche del settore concorsuale, scarsa per qualità della produzione scientifica.  Pertanto, la commissione, con giudizio unanime, ritiene non raggiunta la piena maturità del candidato e quindi, allo stato, lo ritiene non idoneo al conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima fascia per il settore concorsuale...». Che detto con meno diplomazia equivale a «bocciato». Recitano più o meno così i giudizi delle Commissioni scelte dal ministero delle Pubblica Istruzione, Università e Ricerca per valutare se concedere l’abilitazione ai candidati che ambiscono ai posti di associato o ordinario in tutti gli atenei italiani. Ebbene, i risultati - la cui pubblicazione per settori è cominciata il 30 novembre scorso ma non si è ancora conclusa - non sono molto soddisfacenti. Basti pensare che più del 40 per cento - il trend è nazionale - non è riuscito a superare la prova. Come a dire che nelle università la metà dei professori non potrebbe svolgere attività didattica perché sprovvisto del titolo che abilita all’insegnamento. Ma tant’è. Luci ed ombre non mancano neppure all’Unisalento, dove il treno per l’abilitazione scientifica nazionale - la nuova modalità di reclutamento dei docenti introdotta dalla Gelmini per uscire dalla vecchia logica dei concorsi di una volta che avevano visto andare in cattedra anche professori che non meritavano - rischia di lasciare a terra il 35% per cento di candidati che hanno partecipato al concorso sperando di conquistare lo status di “associato” o “ordinario”, per poi essere assunti nei posti che, da qui ai prossimi quattro anni, potrebbero rendersi disponibili (punti organico permettendo). Un lustro meno un anno, tanto dura, infatti, l’abilitazione scientifica, vale a dire: se, nell’arco di tempo indicato, un professore abilitato non riesce a conquistare una cattedra perde il titolo e deve abilitarsi di nuovo. Al momento sono stati valutati 133 settori scientifici su un totale di 184, sono invece 180 le commissioni scelte per assicurare la trasparenza e la fine dei baronati. Due, come si è detto, le abilitazioni per le quali si poteva concorrere: quella di prima fascia per gli associati che aspirano a diventare ordinari, e quella di seconda fascia, per i ricercatori che aspirano a diventare associati. Nell’ateneo salentino su un’anagrafe di ricercatori ferma a 317 unità, sono stati 173 (56%) a presentarsi per l’abilitazione scientifica. Di questi, 88 (49%) sono stati promossi, 49 (27%), invece, non ce l’hanno fatta; mentre 42 (23%) sono ancora in attesa di conoscere il verdetto. Alla fascia per l’abilitazione di professore ordinario - su un’anagrafe di 193 - hanno partecipato 120 (62%), di questi 46 (38%) sono stati promossi, 49 (41%) sono stati bocciati, altri 25 aspettano la pubblicazione della “pagella”. Complessivamente, all’Università del Salento la percentuale - sui 133 settori valutati - dei ricercatori che si sono abilitati per la seconda fascia (associato) è stata del 62%, mentre quella degli ordinari si attesta al 44%. A guardare le valutazioni - pubblicate sul sito ministeriale - i risultati non sono poi così lusinghieri e le bocciature sonore si contano nel Salento come nel resto d’Italia. Il rischio è che si metta in discussione la validità degli insegnamenti tenuti fino ad oggi da quei docenti risultati non idonei. Questa volta potrebbero essere gli studenti a puntare il dito contro gli insegnanti clamorosamente bocciati, tra i quali anche docenti con un curriculum da fare impallidire. Hai voglia a dire che le commissioni sono state ingiuste, che i respinti sono sempre i migliori, di fatto, nero su bianco, resta il giudizio inequivocabile «non idoneo». Esattamente come quando un maturando non viene ammesso all’esame di Stato e deve ripetere l’anno. Conta questo e gli effetti che può produrre, soprattutto sulle famiglie al momento in cui sono chiamate a scegliere in quale ateneo far studiare i propri figli. Sebbene, poi, come ha scritto Loriano Zurli, ordinario di Filologia latina all’Università di Perugia, bisognerebbe «comparare la produzione scientifica di almeno tre quinti dei commissari con quelle di certi candidati davvero eccellenti, bocciati benché sicuramente meritevoli di conseguire l’abilitazione nazionale».

INSEGNANTI EBBRI. SCATTA L’ALCOOL TEST PER I DOCENTI.

Torino, rivolta dei professori contro l'alcol-test. A Torino gli insegnanti obbligati (per legge) a fare il "palloncino". Il grido di dolore: "Uno spreco, e ci umiliano". Così scatta la protesta...scrive “Libero Quotidiano”. I professori torinesi sono in rivolta. Dopo l'approvazione nel 2008 della legge che impone ai dirigenti scolastici una "verifica dell'assenza delle condizioni di alcoldipendenza e di assunzione di sostanze psicotrope e stupefacenti", i professori sono stati obbligati a sottoporsi a un alcol-test. È successo nel liceo Regina Margherita di Torino, dove la dirigente scolastica, Maria Torelli,  ha imposto ai 130 docenti dell'istituto di sottoporsi ai controlli decisi dalla legge per motivi di sicurezza. "Sono controlli inutili, umilianti e anche costosi, che pesano sui fondi risicati delle scuole" afferma al Corriere della Sera Mario Frisetti, uno dei docenti dell'istituto che è anche delegato sindacale del Cub. "Ho provato a rifiutarmi ma la preside mi ha detto che avrebbe dovuto sospendermi. Quindi mi toccherà fare la visita". L'alcol test intanto approda anche in altri istituti; Tommaso De Luca, dirigente scolastico di un altro istituto di Torino, l'Itis Avogadro, si schiera con i docenti e spiega l'inutilità di questi controlli: "In caso di comportamenti sospetti, i presidi potevano già sottoporre gli insegnanti a una visita medica obbligatoria". I docenti considerano questi test come un inutile spreco di denaro, che potrebbe invece essere investito in materiali per gli studenti o in ristrutturazioni degli edifici scolastici; i controlli "costeranno tra i 3 e i 4mila euro - dice Frisetti facendo qualche conto - poi però mancano soldi per tutto il resto". Intanto, vista l'impossibilità di sfuggire ai controlli, i docenti hanno deciso di attuare una protesta simbolica e hanno organizzato una "colazione berlinese" a base di spumante. 

Alcoltest per i professori, polemiche in mezzo al caos. A Torino hanno brindato a spumante per protestare contro la legge regionale (varata un anno fa) che, in applicazione di una norma nazionale, prevede l'alcoltest ai docenti: novità definita "ridicola e umiliante" nonché "uno spreco di risorse". Così i docenti delI'istituto Magistrale Regina Margherita di Torino di via Valperga Caluso 12, stamattina alle10, hanno allestito un banchetto davanti a scuola con torte, salumi e soprattutto spumante, per poi brindare distribuendo volantini e spiegando: "Potevamo rifiutare l'obbligo di legge della visita, ma abbiamo scelto la strada della feroce ironia". Nei giorni scorsi è arrivato loro l'ordine, firmato dalla preside, di sottoporsi a una visita presso un medico privato per valutare se siano o meno dipendenti dall'alcol. Proprio la preside (al centro, con la maglia grigia), comunque, ha brevemente partecipato alla manifestazione, dicendosi "contrariata" per lo spreco di risorse pubbliche che comporterà far visitare, solo per il suo istituto, 140 professori: un conto da 4000 euro mentre, denunciano i docenti, "L'edificio cade letteralmente a pezzi" Sono stati voluti dalla Regione, ma docenti e sindacati li bocciano. . Mancano i soldi per finanziarli; Cirio: "Abbiamo detto alle Asl di mettersi a disposizione gratis", scrive Stefano Parola su  “La Repubblica”. Un test "stradale" con l'etilometro DA UN lato ci sono gli insegnanti sul piede di guerra: "I controlli dell'alcol sui docenti sono una follia, ancora una volta si cerca di umiliare i lavoratori dell'istruzione e di gettare discredito sulla categoria", tuona per esempio la Cub Scuola di Torino. Dall'altro c'è una situazione "kafkiana". Da più di un anno esiste una legge regionale che applica una norma nazionale e impone l'alcol test anche agli insegnanti, per motivi di sicurezza. Solo che i soldi per fare i controlli non ci sono. Le scuole non li hanno e la Regione ad aprile ha promesso una convenzione gratuita di cui però si sono perse le tracce. Così, nel frattempo, regna il caos, con gli istituti si muovono in ordine sparso. In un professionale di Mondovì, per esempio, poche settimane fa i professori si sono visti recapitare una comunicazione dal preside che suonava all'incirca così: "Presentatevi in questo poliambulatorio nel tal giorno per i controlli sull'abuso di alcol e stupefacenti". Tanto è bastato per far scattare il panico un po' in tutto il Piemonte. I sindacati, con la Flc-Cgil in testa, hanno chiesto e ottenuto dall'Ufficio scolastico regionale una nota che intimava alle scuole di non fare nulla, perché l'atto di indirizzo sugli alcol test è ancora "in corso di definizione". I presidi, però, hanno pensato di tutelarsi lo stesso, per evitare di incappare in sanzioni: quasi tutti hanno assunto un medico competente (se non l'avevano già) e hanno inserito la questione dell'alcolismo nel "documento valutazione rischi", cioè hanno inserito nella mappa dei possibili pericoli l'eventualità che un docente si presenti a scuola ubriaco. Qualcuno ha poi organizzato dei momenti di formazione. La preside Chiara Alpestre li ha previsti nelle sue due scuole, il liceo D'Azeglio e il Primo artistico: "Stiamo valutando  -  racconta  -  anche la possibilità di un corso online, in attesa di ulteriori ragguagli". Oggi l'Itis Avogadro terrà un'ora di lezione sulla lotta all'etilismo dedicati a tutti i docenti, ma gli insegnanti della Cub sono sul piede di guerra: "Faremo un gesto di disobbedienza civile e non ci presenteremo. Per i professori l'alcol è l'ultimo dei problemi", dice il delegato sindacale Massimo Campisi. Insomma, già scoppiano i primi focolai di ribellione, anche se dei test ancora non si vede l'ombra. "Forse le superiori hanno qualche risorsa in più, ma dubito che nelle elementari qualcuno riesca a organizzarli", fa notare Nicola Puttilli, presidente locale dell'Andis, l'associazione dei dirigenti scolastici. E spiega: "Le primarie sono riuscite a dotarsi a fornirsi di un medico, ma i soldi per gli esami dell'alcol non ci sono". E la Regione? "Da parte nostra rimane la disponibilità a far svolgere gratuitamente i controlli nelle Asl", dice l'assessore all'Istruzione Alberto Cirio. I test non sono stati decisi da lui, bensì dalla Sanità, e l'esponente della giunta Cota sta mediando: "La convenzione non c'è ancora, ma alle Aziende sanitarie è stata data indicazione di mettersi a disposizione delle scuole. Manca però l'atto formale tra ministero, Ufficio scolastico regionale e assessorato alla Sanità, che arriverà nelle prossime settimane". Lo stesso Cirio non è entusiasta dei test: "Servirebbe una via di mezzo: anziché farli a tappeto, preferirei che fosse data ai dirigenti la possibilità di richiederli per i casi più critici".

DISCRIMINARE I NORMALI. GAY POWER: IL POTERE AI DIVERSI.

"Mi denuncio: sono omofobo e pronto ad andare in galera". L'avvocato Giuliano Amato notifica una diffida al governo: "Ritiri subito il progetto alla Goebbels gestito da gay, lesbiche e trans. Stop ai fascicoli che "rieducano" docenti e bidelli", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Gli alunni devono portarsi da casa la carta igienica perché mancano i soldi, ma la Presidenza del Consiglio dei ministri, attraverso l'Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), ha deciso che fosse prioritario fornire alle scuole di ogni ordine e grado «gli strumenti per approfondire le varie tematiche legate all'omosessualità». Primo strumento: «I rapporti sessuali omosessuali sono naturali? Sì». Purtroppo però «un pregiudizio diffuso nei Paesi di natura fortemente religiosa è che il sesso vada fatto solo per avere bambini». Quindi i signori docenti sono invitati a porre agli allievi un'altra domanda: «I rapporti sessuali eterosessuali sono naturali?». Secondo strumento: «Nell'elaborazione di compiti, inventare situazioni che facciano riferimento a una varietà di strutture familiari ed espressioni di genere. Per esempio: "Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?"». L'obiettivo è che maestre e professori possano «essi stessi diventare "educatori dell'omofobia"». A Palazzo Chigi, già poco ferrati nell'aritmetica dei conti pubblici, devono essere assai scarsi anche in italiano. C'è scritto questo e molto altro nei tre opuscoli intitolati Educare alla diversità a scuola commissionati dal Dipartimento per le Pari opportunità all'Istituto A.T. Beck per la terapia cognitivo-comportamentale, con sedi a Roma e Caserta, destinati alle scuole primarie e secondarie per dare concreta attuazione alla Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull'orientamento sessuale e sull'identità di genere. Quando Gianfranco Amato, 52 anni, avvocato di Varese, ha letto le linee guida che il governo intende perseguire nel triennio 2013-2015 sotto l'egida del Consiglio d'Europa, non credeva ai propri occhi. Non solo perché la gestione del progetto risulta affidata al Gruppo nazionale di lavoro Lgbt (acronimo di lesbiche, gay, bisessuali e transgender), «formato da 29 associazioni tutte e solo di quella sponda, come Arcigay, Arcilesbica e Movimento identità transessuale», ma anche perché ha scoperto che in Italia è stata creata a sua insaputa una forza speciale per mettere in riga gli omofobi: «Si chiama Oscad, cioè Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, ed è composto da polizia e carabinieri. La sigla ricorda l'Ovra fascista. Ormai siamo a uno zelo da far invidia al Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda di quel malefico genio dell'indottrinamento di Stato che fu Joseph Goebbels». Ecco perché l'avvocato Amato ha notificato un atto di diffida stragiudiziale al Dipartimento delle Pari opportunità, all'Unar, al ministero dell'Istruzione e ai 122 Uffici scolastici regionali e provinciali. «Guai a loro se adotteranno atti o provvedimenti che diano seguito alla Strategia nazionale del governo. Quell'arbitrario documento dev'essere solo annullato». Il legale non ha agito a titolo personale, bensì come presidente dei Giuristi per la vita, un'associazione che ha sede a Roma. Ne fanno parte una quarantina di cultori delle scienze giuridiche, fra cui magistrati come Francesco Mario Agnoli, presidente aggiunto onorario della Cassazione, e Giacomo Rocchi, consigliere della prima sezione penale della medesima Corte suprema. «Non c'interessa il dialogo sui massimi sistemi, siamo una task force operativa molto agguerrita», spiega Amato, sposato, tre figli, rappresentante per l'Italia di Advocates international e collaboratore dell'Alliance defense fund, formata da legali che si occupano di cause riguardanti la libertà religiosa e la bioetica. «Ci autofinanziamo per offrire patrocinio gratuito a docenti e medici nei guai con la giustizia per motivi di coscienza».

Le maestre finiscono in tribunale?

«Agli italiani è sfuggito che il 19 settembre la Camera ha approvato il disegno legislativo promosso da Ivan Scalfarotto, deputato del Pd, gay dichiarato. Presto andrà in aula al Senato e diventerà legge dello Stato. Quando ne ho illustrato i contenuti a un amico imprenditore e a sua moglie, non volevano crederci: "Tu esageri sempre". Allora ho capito come si arrivò ai campi di sterminio: grazie all'ignoranza dei tedeschi. Tant'è che mi sono sentito in obbligo di scriverci un libro, Omofobia o eterofobia? Perché opporsi a una legge ingiusta e liberticida, edito da Fede & Cultura, che sta andando a ruba con il passaparola».

Legge liberticida?

«Hanno inventato l'emergenza omofobia per avviare una persecuzione contro chi non la pensa come loro. Il Pew research center di Washington, presieduto da Allan Murray, ex vicedirettore del Wall Street Journal, ha pubblicato uno studio mondiale sull'atteggiamento verso l'omosessualità. L'Italia è fra le 10 nazioni più amichevoli con i gay, per i quali il 74 per cento della popolazione non prova alcuna ostilità. Siamo appena un gradino sotto la civilissima Gran Bretagna. Ma poi, scusi, servono le statistiche? Puglia e Sicilia non hanno forse eletto due governatori omosessuali?».

Allora perché è stata varata la Strategia nazionale contro l'omofobia?

«Me lo dica lei. Il piano del governo prevede corsi di formazione obbligatoria sui diritti Lgbt non solo per docenti e alunni ma anche per bidelli e personale di segreteria. E che cosa vorrà dire l'impegno a "favorire l'empowerment delle persone Lgbt nelle scuole"? E il "diversity management per i docenti"? Lo chiedo ai cattolici che siedono nel governo, come Gabriele Toccafondi, sottosegretario all'Istruzione, e Maurizio Lupi e Mario Mauro, ministri ciellini».

A che serve l'Oscad?

«Già, a che serve una sorta di polizia speciale? A me risulta, proprio dai dati dell'Oscad, che dal 2010 a oggi siano pervenute appena 83 segnalazioni per offese, aggressioni, lesioni, danneggiamenti, minacce e suicidi relativi all'orientamento sessuale. Una media di 28 casi l'anno, 1 ogni 2 milioni di abitanti. E questa sarebbe un'emergenza nazionale?».

Stando agli opuscoli dell'Unar, gli insegnanti delle scuole sono tenuti a «non usare analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa» giacché «tale punto di vista può tradursi nell'assunzione che un bambino da grande si innamorerà di una donna e la sposerà».

«Sposare una donna: inaudito! Aveva visto giusto Gilbert Chesterton: spade dovranno essere sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi d'estate e che 2 più 2 fa 4. Siamo giunti a un livello tale di relativismo da far impazzire la ragione. Non si riconosce più la natura. È la teoria del gender: i ragazzi non sono maschi o femmine per un dato biologico, ma a seconda di come sentono di essere».

Insegnare che «maschio e femmina Dio li creò», come sta scritto nella Bibbia, diventerà reato?

«La strada è quella, tracciata dall'Unar nelle Linee guida per un'informazione rispettosa delle persone Lgbt, dove i credenti vengono biasimati perché descrivono "le unioni tra persone dello stesso sesso come una minaccia alla famiglia tradizionale, come contro natura e come sterili, infeconde". Nei libretti destinati ai maestri, l'Unar denuncia che "il grado di religiosità" è "da tenere in considerazione nel delineare il ritratto di un individuo omofobo" e che "maggiore risulta il grado di cieca credenza nei precetti religiosi, maggiore sarà la probabilità che un individuo abbia un'attitudine omofoba". Ed emette la condanna finale: "Per essere più chiari, vi è un modello omofobo di tipo religioso, che considera l'omosessualità un peccato"».

Perché la Presidenza del Consiglio ha affidato tutte le pubblicazioni dell'Unar all'Istituto A.T. Beck?

«È quello che stiamo cercando di scoprire. C'è stata una regolare gara d'appalto? Chi vi ha partecipato? Al vincitore quanti soldi sono andati? Quali competenze ha questo istituto? Perché il Dipartimento delle Pari opportunità ne ha sposato in toto le tesi come se fossero le uniche possibili? Si saranno accorti, a Palazzo Chigi, che nelle linee-guida per i licei viene assegnato il compitino di aritmetica antiomofobico di Rosa che compra tre lattine di tè con i suoi papà, copiato pari pari dal fascicolo per la scuola primaria? Non molto scientifico, come lavoro».

Di Antonella Montano, direttrice dell'Istituto A.T. Beck, che cosa può dirmi?

«Poco. Se non che il suo libro Mogli, amanti, madri lesbiche è stato presentato da Paola Concia, l'ex deputata del Pd firmataria di un progetto di legge contro l'omofobia bocciato dal Parlamento».

In compenso è passato quello del collega Scalfarotto.

«Testo inutile e pericoloso. Già l'articolo 3 della Costituzione sancisce che "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso". Non possono esservi cittadini più uguali di altri, come certi animali della Fattoria di George Orwell. Per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico s'introduce un reato senza definirne il presupposto. Che cos'è l'omofobia? Non esiste una definizione scientifica, né leggi o sentenze che lo stabiliscano. Poiché non è una malattia riconosciuta dall'Oms, come la claustrofobia o l'agorafobia, verrà lasciata alla libera interpretazione dei magistrati. Tipico degli Stati totalitari. Mi ricorda il reato di "attività antisocialista" nell'Urss: nessuno sapeva in che cosa consistesse, però ti faceva finire nei gulag».

Non starà davvero esagerando?

«In uno Stato liberale il cittadino sa preventivamente quali saranno le conseguenze dei suoi comportamenti. Il nostro diritto penale sanziona i fatti, non i motivi. Io rubo? Viene punito il furto. Che abbia rubato per fame - ecco un motivo - può servire al massimo per graduare la pena. Invece la legge Scalfarotto punisce i motivi. E crea una categoria privilegiata di soggetti che diventano meritevoli di tutela giuridica per il solo fatto di avere un certo orientamento sessuale».

Ho capito: la legge non le piace.

«Passato il principio secondo cui una categoria è stata discriminata, lo Stato dovrà dotarsi di sistemi riparativi e compensativi. È già successo con gli afroamericani negli Usa. Arriveremo alle quote viola, su calco di quelle rosa. Chi si dichiara gay avrà diritto a un posto di lavoro e a un alloggio. Non avendo il giudice strumenti per accertare l'omosessualità, basterà un'autocertificazione».

La legge Scalfarotto non lo prevede.

«La legge Scalfarotto non prevede nulla, qui sta l'inganno più subdolo. Punisce l'omofobia in base a un'altra legge, la Reale-Mancino, che fu promulgata per combattere l'ideologia nazifascista, il razzismo, l'antisemitismo. Con i gay parificati ai neri e agli ebrei, dire che un uomo non può sposare un altro uomo equivarrà a dire che va impedito il matrimonio fra l'uomo bianco e la donna nera».

Conseguenze penali?

«Terribili. Per una dichiarazione omofoba la legge mi punisce con 1 anno e 6 mesi di reclusione. Che diventano 4 anni se la faccio come associazione e addirittura 6 se ho una carica direttiva nella medesima. Con l'obbligo per lo Stato di procedere d'ufficio anche nel caso in cui il gay che ho offeso decidesse di perdonarmi o di ritirare la querela per evitare lo strepitus fori, cioè la pubblicità negativa».

Papa, vescovi e preti sono candidati alla galera, visto che il catechismo, al paragrafo 2.357, presenta le relazioni gay «come gravi depravazioni», dichiara che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati» e «contrari alla legge naturale» perché «precludono il dono della vita», decretando che «in nessun caso possono essere approvati».

«Sta già accadendo a tanti cristiani in giro per l'Europa. Tony Miano, 49 anni, statunitense, ex vicesceriffo della contea di Los Angeles che oggi fa il predicatore di strada, è stato arrestato lo scorso 1° luglio a Wimbledon, in Inghilterra, perché commentava davanti a un centro commerciale il capitolo 4 della prima Lettera ai Tessalonicesi di San Paolo, quella che invita ad astenersi dall'impudicizia. Ho letto il verbale dell'interrogatorio: allucinante, sembra un resoconto tratto dagli Acta Martyrum. E per fortuna che il poveretto non aveva osato proclamare in pubblico la prima Lettera ai Corinti, quella in cui San Paolo dice che "né effeminati, né sodomiti erediteranno il regno di Dio"».

Come presidente dei Giuristi per la vita, passerà 6 anni in cella anche lei.

«Se essere omofobo significa considerare l'omosessualità un peccato, ritenere che il sesso debba essere aperto alla trasmissione della vita, credere nei precetti della Chiesa, allora mi autodenuncio: dichiaro pubblicamente e con orgoglio ai funzionari dell'Unar di essere un omofobo. Mandino nel mio studio gli agenti dell'Oscad ad arrestarmi. Li aspetto».

PEDOFILIA, SUICIDI, BULLI, STUPRI E PROSTITUZIONE. LA SCUOLA DISEDUCATRICE.

Molte famiglie temono anche alcool e pedofilia, scrive il 27 novembre 2017 la Redazione di "Tiscali Notizie". Sono tantissimi i pericoli che si palesano quotidianamente davanti ai giovani studenti italiani. Pericoli concreti, che possono stravolgere un’intera vita, segnandola per sempre. Sulle pagine del Messaggero si parla di droga, alcol e bullismo, vere e proprie insidie che minacciano i più giovani anche nei luoghi che, come la scuola, dovrebbero essere dei rifugi sicuri. I genitori, stando a quanto emerge da un sondaggio condotto da Swg, percepiscono soltanto in parte questi problemi, ma si rendono comunque conto che per i propri figli l’adolescenza è oggi minacciata più che in passato. Per il 67 per cento degli italiani la principale paura è quella che i propri ragazzi facciano uso di sostanze stupefacenti. A breve distanza, con percentuali che oscillano tra il 30 e il 36 per cento, si piazzano il bullismo e la pedofilia. Le brutte compagnie e il cyberbullismo si piazzano a fine classifica, con percentuali rispettivamente pari al 29 e al 22 per cento.

Le paure cambiano a seconda dell’area geografica. Nel Centro-Italia, ad esempio, a spaventare sono le droghe (76 per cento) e l’alcolismo, che al pari della pedofilia, rappresentano l’incubo per il 38 per cento dei genitori. Nel Nord del Paese l’apprensione dei genitori è dovuta principalmente agli stupefacenti. Rispetto alla situazione del Centro, la paura per il rischio bullismo è più elevata (3 per cento in più rispetto alla media nazionale. Importante anche il livello di paura legato al rischio che i giovanissimi incappino in brutte compagnie (più 5 per cento).

Una fotografia a dir poco allarmante. “Se volgiamo lo sguardo dalle apprensioni generali dei genitori alla percezione di presenza dei diversi fenomeni nelle scuole superiori - si legge ancora sul Messaggero - ci troviamo di fronte ad una fotografia a dir poco allarmante. Per il 78 per cento delle persone la droga è molto o abbastanza diffusa nei nostri istituti scolastici. A denunciare tale presenza sono, anche in questo caso, le persone che vivono nel centro-Italia. In quest'area del Paese, il livello percepito di presenza delle sostanze stupefacenti negli istituti di secondo grado balza al 92 per cento. Un salto di 14 punti, che porta alla luce la percezione di una diffusione capillare del fenomeno. A denunciare l'onnipresenza delle droghe nelle scuole non sono solo gli adulti (81 per cento tra i genitori), ma anche i giovani (81 per cento).

In crescita esponenziale il fenomeno del bullismo. Fino a dieci anni fa la sensazione di pericolo toccava “soltanto” il 40 per cento degli italiani mentre oggi la percentuale è schizzata al 78 per cento. Il fenomeno riguarda principalmente il centro del Paese (86 per cento). Il dato in questione è stato ricavato dai giovani over 25 anni, ossia da chi, uscito da pochi anni dalla scuola superiore, ha avuto il tempo per valutare con distacco la dimensione del fenomeno: l’87 per cento degli intervistati segnala la presenza massiva del bullismo nelle scuole.

L'omertà della scuola sui professori pedofili, scrive Lunedì 12/02/2007 "Il Giornale". Un tempo, quando uno scolaro delle elementari tornava a casa, la mamma gli andava incontro e gli chiedeva: «Comè andata? Ha insegnato qualcosa di nuovo il maestro? Di che cosa avete parlato?» e altre simili domande. Oggi che le attenzioni sessuali sui piccoli sono aumentate in misura preoccupante, una mamma nel ricevere il figlio da scuola dovrebbe chiedergli: «Come si è comportato il maestro? Per caso ti ha toccata? Ha fatto strani discorsi?» e altre indagini psico-genitali. Evidentemente una mamma non può porre simili domande, ma il mio consiglio è che assieme al profitto del figlio, un genitore vigili (per quanto può, s'intende) sulla condotta in classe dell'insegnante, perché ci sono più malati in cattedra di quanto si pensi (e di quanto i magistrati appurino), e dico questo forte della mia quasi ventennale esperienza didattica. Giorni fa, un pm di Brescia ha chiesto per sei maestri, un bidello e (perfino) un sacerdote 125 anni di carcere complessivo, di cui 20 a una sola maestra. Accusa: abusi sessuali su scolari di una scuola materna. Se dovessi stilare l'elenco dei professori indagati o condannati per atti di libidine su allievi, starei a parlare per mezzora; vi basti sapere che pur essendo l'elenco nutrito, è lontanissimo dal rappresentare la realtà, perché in molte scuole la parola d'ordine è: acqua in bocca. Alcuni anni fa l'Associazione giudici minorili rilevò che invece di essere una frontiera di prevenzione contro l'abuso, la scuola il più delle volte preferisce «garantire il posto agli insegnanti sospettati di pedofilia», mettere a tacere tutto per il buon nome della scuola. Questo è verissimo. Per ben due volte, un mio collega fu denunciato al direttore della scuola per atti di libidine verso le alunne (si era arrivato alla verità attraverso i diari delle bambine). L'insegnante era sposato con figli, e per non rovinargli la vita, il preside si limitò a redarguirlo. Il collega ci ricascò; ancora una volta fu perdonato; quindi, essendo di nuovo recidivo, fu distaccato in segreteria. Uno studio curato dal centro «Hansel e Gretel» nel Torinese, fece emergere che su cinque casi di insegnanti accusati di abusi sessuali (uno dei quali condannato) nessuno fu sospeso dall'incarico. Tutti i docenti furono trasferiti, cioè tutti i docenti furono rimessi in condizione di continuare a svolgere l'attività di pedofili in altre scuole. Nessuno di noi vuole che si ripeta quanto accaduto a Edimburgo, dove un insegnante pedofilo è stato ucciso e fatti a pezzi; se una persona è malata va curata e aiutata, non divisa in parti. Però non facciamo sconti a chi tocca i bambini, il bene più prezioso della terra: «Chi scandalizza uno di questi piccoli (...) è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» ha detto lunico Maestro di cui tutti (a cominciare dagli alunni e dai genitori) si possono fidare.

Pedofilia a scuola: come gli insegnanti possono prevenirla, scrive l'8 giugno 2016 Natalia Carpanzano su "orizzontescuola.it". I recenti fatti di cronaca portano di nuovo alla ribalta la tragica problematica della pedofilia. Presunti abusi avvenuti addirittura in ambiente scolastico svolgono se possibile ancora di più, ma c’è un modo per evitare che drammi del genere si ripetano? I recenti fatti di cronaca portano di nuovo alla ribalta la tragica problematica della pedofilia. Presunti abusi avvenuti addirittura in ambiente scolastico svolgono se possibile ancora di più, ma c’è un modo per evitare che drammi del genere si ripetano? La maggior parte degli abusi sessuali è opera di un “mostro conosciuto” che fa parte della cerchia di persone frequentate regolarmente dal bambino. Il numero dei casi di abuso sessuale su minori fa paura, ma l’ampiezza di questo dramma non può essere definita però solo con le cifre, anche se già di per sé allarmanti. Reticenza e tabù nascondono infatti la vera entità di questa terribile piaga sociale. Tanti genitori ed insegnanti si sentono impreparati di fronte a questa situazione sconcertante e si chiedono come proteggere i bambini dagli abusi sessuali. Poco tempo fa, il legislatore promulgò un provvedimento che diede più di un grattacapo alle segreterie scolastiche: il Decreto Legislativo 39 del 4 marzo 2014, emanato in attuazione della direttiva 2011/93/UE contro la pedofilia, contiene una serie di migliorie alle norme esistenti, al fine di intensificare la lotta contro l'abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile. In particolare, l’art. 2 del decreto, in vigore dal 6 aprile 2014, ha integrato il Testo Unico in materia di casellario giudiziale, DPR 313/2002, prevedendo che, prima di firmare un contratto di lavoro che comporti contatti diretti e regolari con minori, il Dirigente Scolastico debba richiedere il certificato del casellario giudiziale della persona da assumere, al fine di verificare l’inesistenza di condanne per alcuni reati nei confronti di minori. Il Decreto Legislativo fu visto come l’ennesimo adempimento burocratico a carico della scuola ma aveva uno scopo più che nobile. Peccato, però, che tale ulteriore “pezzo di carta” non impedisca a persone disturbate ma non ancora condannate di venire a contatto comunque con i minori e perpetrare eventuali crimini. Ma come possono dunque gli insegnanti aiutare a prevenire abusi tanto disgustosi? Come sapientemente illustrato nel Quaderno del Telefono Azzurro “Come proteggere bambini ed adolescenti dagli abusi sessuali”, la scuola è chiamata ad adoperarsi nell’ambito della prevenzione in termini di promozione del benessere complessivo del bambino, di un clima sereno e cooperativo, basato sul rispetto reciproco, offrendo sostegno in particolare agli alunni che manifestano un disagio. È inoltre possibile inserire, a livello di programmazione, progetti specifici di prevenzione dell’abuso sessuale realizzati da persone esperte, e molte sono le attività che l’insegnante può realizzare in classe per avviare una prevenzione efficace, con l’obiettivo primario di rafforzare i fattori protettivi e facilitare l’acquisizione e il mantenimento di competenze sociali, benessere emozionale e comportamento adattivo. Risulta utile, infine, ricordare le quattro “R”, le regole alla base di qualsiasi intervento di prevenzione dell’abuso sessuale:

Riconoscere possibili situazioni di rischio, distinguendole da situazioni innocue;

Reagire al potenziale abuso tramite strategie assertive verbali e comportamentali;

Riferire l’abuso a figure di riferimento di cui ci si fida;

Rassicurare il bambino e l’adolescente nel caso in cui si senta responsabile o in colpa per quanto accaduto.

Docenti, in aula col certificato anti-pedofilia. Lo impone l’Unione europea. I sindacati: «Norme ancora incerte, per ora basta l’autocertificazione», scrive il 28 aprile 2014 "Il Messaggero Veneto". «Il supplente non ha il certificato anti-pedofilia e non lo assumo». Linea dura di alcuni dirigenti intransigenti nelle scuole pordenonesi: lavoro a rischio? Il sindacato Fl Cgil ha acceso il disco verde sulle scartoffie che minacciano l’occupazione. «I dirigenti devono richiedere l’autocertificazione e assumere i supplenti, cioè basta una dichiarazione sostitutiva del casellario giudiziale ai precari al primo lavoro – Adriano Zonta, segretario regionale Fl Cgil fa sportello a Pordenone con Gianfranco Dall’Agnese e Beppe Mancaniello –. Questo, in attesa di ricevere il certificato originale». Basterà scrivere “non sono pedofilo”. Autocertificazione obbligata, per i supplenti, se il casellario giudiziale non fosse pronto. Occhio a chi serve il certificato antipedofilia “all’europea”: esclusivamente per 1.200 precari docenti e 300 bidelli, tecnici amministrativi Ata che aggiornano i punteggi in graduatoria a Pordenone. Esonerati 4 mila docenti e Ata di ruolo nelle 42 scuole provinciali: ma di fatto, in tante scuole hanno compilato il modulo e sottoscritto «non sono pedofilo». La tutela è quella per i capi d’istituto: rischiano multe salate, oltre 10 mila euro. «Carichi di lavoro super – hanno previsto agli sportelli sindacali –, per gli uffici della Procura che devono certificare e aggiornare il casellario giudiziale ai nuovi assunti. I precari dovranno inserirlo nelle graduatorie di supplenza». Quelle che hanno i lavori in corso sono le graduatorie “24 mesi 2014-2015” degli Ata precari e “a esaurimento 2014-2017” dei docenti supplenti a Pordenone. In maggio, elenchi aperti di terza fascia per 4 mila supplenti Ata. L’autocertificazione dichiara «l’assenza a carico di condanne per taluno dei reati di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600- quinquies e 609-undecies del codice penale, ovvero dell’irrogazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori». Quello che conta, come sempre in Italia e anche in Europa, è che il certificato in ritardo sia però stato «puntualmente richiesto». I costi sono: una marca da bollo da 16 euro, una marca per diritti da 7,08 euro se il certificato è richiesto con urgenza, una marca per diritti da 3,54 euro per certificati richiesti senza urgenza. E’ meglio verificare la “tax anti-pedofilia” nelle Procure per tutti i supplenti che arrivano da fuori regione. Intanto, il sindacato ha chiesto un chiarimento a viale Trastevere. «Tanti precari ci chiedono informazioni certe – dice Zonta – per evitare errori interpretativi». (c.b.)

Scatta nelle scuole il "certificato" antipedofilia. Secondo una direttiva europea da lunedì presidi e dirigenti scolastici dovranno richiedere il casellario giudiziario di professori e bidelli per verificare che non abbiano procedimenti in corso, scrive Salvo Introvaia il 4 aprile 2014 su "la Repubblica". Certificato "antipedofilia" obbligatorio da lunedì anche per docenti e bidelli: un milione di persone in tutto. Il prossimo 6 aprile, entra in vigore il decreto legislativo che attua la "Direttiva europea relativa all'abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile". Per tutti coloro che per la propria attività lavorativa, o anche a titolo di volontariato, avranno a che fare con minori in maniera "diretta e regolare" il datore di lavoro dovrà richiedere il certificato del casellario giudiziario "al fine di verificare che non ci siano a carico del lavoratore condanne" per una serie di reati che riguardano i minori: prostituzione minorile, pornografia minorile, pornografia virtuale, turismo sessuale e adescamento dei minorenni. Tra i soggetti interessati dal provvedimento -  che mira a fare emergere eventuali dipendenti già condannati per i reati in questione e quindi potenzialmente recidivi e pericolosi -  rientrano catechisti, volontari delle associazioni, allenatori di società sportive. Ma anche la quasi totalità degli insegnanti e dei bidelli della scuola italiana che ogni giorno hanno a che fare con minorenni. La stragrande maggioranza dei 7 milioni e mezzo di alunni delle scuole nostrane -  dai due anni e mezzo della scuola materna ai 18 o 19 anni dell'ultimo anno della scuola superiore -  sono infatti minorenni. E poco importa se si tratta di bambini o ragazzi. In passato, si è già verificato che docenti o collaboratori scolastici già condannati per reati connessi con la pedofilia sono rimasti a lavorare a scuola per anni prima che qualcuno si accorgesse dell'anomalia. Il provvedimento mira anche a evidenziare eventuali "sanzioni interdittive" già irrogate a carico dei lavoratori che hanno contatti con minori. Mamme e papà, da lunedì potranno stare più tranquilli quando lasciano i figli a scuola, in piscina o in parrocchia. Ma nella scuola chi dovrà richiedere centinaia di certificati penali? E chi li pagherà? Per i supplenti temporanei il datore di lavoro è il preside. Stesso discorso, almeno per quanto riguarda la sicurezza, per i supplenti annuali e i per docenti di ruolo. Sarà lo stesso per la norma antimaniaci? Il dirigente scolastico che fra tre giorni non avesse provveduto a richiedere i certificati del casellario giudiziario di tutti gli insegnanti e di tutti i bidelli della scuola, se colto in fallo da un eventuale controllo, rischia una sanzione amministrativa che oscilla tra i 10mila e i 15mila euro. Restano comunque mille dubbi sull'applicazione della norma, almeno a scuola. Il personale tecnico e amministrativo è anch'esso soggetto alla norma? Quanto costerà ai dirigenti scolastici richiedere tutte le certificazioni in questione? E' previsto un finanziamento ad hoc o i dirigenti scolastici saranno costretti ad aumentare il "contributo volontario" richiesto alle famiglie? Forse una circolare esplicativa del ministero dell'Istruzione potrebbe aiutare i presidi che da lunedì vivranno con la scure sulla testa dei controlli antipedofili. L'ennesima tegola sulla testa degli ignari dirigenti scolastici italiani che ormai da qualche anno sono i capri espiatori di tutte le inefficienze che si verificano nella scuola italiana. Come quelle sull'edilizia scolastica che sarebbero di pertinenza degli enti locali -  i comuni per le scuole materne, elementari e medie e le province (o quello che resta delle stesse) per le scuole superiori -  ma che spesso si ripercuotono sui presidi. E che fra qualche giorno risponderanno anche di maniaci sessuali e pedofili.

“Romanzo famigliare”: alla RAI va bene anche la pedofilia. L’Osservatorio sui Diritti dei Minori ha stroncato con una critica radicale e inesorabile la fiction di Rai 1 “Romanzo Famigliare”, scrive il 10/01/2018 "Notizie Provita". Dice il Garante per l’Infanzia della Regione Calabria, Antonio Marziale: «La Rai continua a sfuggire ai dettami imposti dalla Legge per il riordino del sistema radiotelevisivo, che recepisce il Codice Tv e Minori, offrendo in prima serata una fiction il cui titolo, Romanzo Famigliare, non lascerebbe immaginare la promozione di concetti culturali diametralmente opposti a quelli di cui si ha, invece, bisogno per non mandare all’aria secoli di lavoro per la piena affermazione dei diritti dei minori». Il sociologo spiega che gli sono giunte vibrate proteste da parte dei genitori, perché in prima serata e – ripetiamo – con un titolo che non lasciava presagire alcunché di scottante, si narrava con linguaggio allusivo e scurrile la storia di una madre che cerca di far abortire la figlia adolescente rimasta incinta a seguito di una relazione con un suo docente (per quanto lui sia giovane, è sempre un adulto. E non è “normale” che un adulto metta incinta una ragazzina di 16 anni… Né è “normale” che una madre faccia del tutto per far abortire la figlia). Dice Marziale: «L’emittente radiotelevisiva di Stato ha scelto di sdoganare la trattazione di così delicate fenomenologie in un orario poco consono per bambini e adolescenti, che proprio dalla Tv attingono a stili e modelli di vita sbagliati, come la normalizzazione di un rapporto sessuale tra docente e discente, in un Paese vergognosamente primeggiante per bassissima soglia dell’età del consenso sessuale, che deve fare i conti con un lolitismo fin troppo tollerato». E “lolitismo” è un eufemismo per dire “pedofilia”. Spiega Marziale che «l’adultizzazione precoce dell’infanzia», premessa dello sdoganamento della pedofilia, appunto, non dovrebbe passare per la Rai, azienda di Stato, finanziata profumatamente con i denari dei contribuenti. «Per tale ragione chiedo ai vertici aziendali, direttore generale in testa, di posticipare l’orario della messa in ondae chiederò alla Conferenza nazionale dei Garanti, prevista per dopodomani a Roma, una netta presa di posizione al riguardo. E’ decisamente tempo di finirla con questa anarchia che non tiene minimamente conto delle esigenze della famiglia e dei più piccoli».

L'orrore delle bambine spose, scrivono il 18 Settembre 2013 Ernesto Gallo e Giovanni Biava su "L'Inkiesta". Oggi torna Francesca Riga, che ringraziamo (per la biografia, vedi a fine articolo). Il tema è caldo e attuale - matrimoni e minore età... L’abuso sessuale di bambini avviene in tutte le comunità, come è stato rivelato dal recente scandalo nella chiesa cattolica. Ma la pedofilia nell'Islam è, purtroppo una realtà diffusa, ma al contrario del resto del mondo, non è punibile. Solo negli ultimi mesi, i casi di maltrattamenti e violenze sessuali in Oriente su minorenni si contano a decine. Molti musulmani condannano l’Occidente per l’alcolismo, il sesso prematrimoniale, l’omosessualità, la nudità, ma non possono esigere la privativa dell’etica. Nell’ovest, la pedofilia e gli abusi sessuali sono illegali, la medesima cosa non può dirsi per lo Yemen, il Niger, l'Arabia Saudita e l'Afghanistan. Il coinvolgimento della polizia e l’abulia del governo danno la dimensione della diffusione di questa forma di induzione alla prostituzione infantile. L’ipocrisia morale è scandalosa in un Paese dove l’omosessualità non è solo vietata, ma ferocemente punita, anche tra due adulti remissivi. Ma chi sodomizza un ragazzo non viene considerato omosessuale ne' pedofilo. Nel Medio Oriente, parecchi uomini sono poi capaci di “appagare” le loro perversioni legalmente attraverso i matrimoni con delle bambine. Le autorità religiose ultra-conservatrici giustificano questa antica usanza tribale citando il matrimonio del profeta Maometto con Aisha, la quale aveva solamente nove anni quando il Profeta la sposò. Ma fa loro comodo concentrarsi convenientemente su alcuni testi islamici per sostenere le loro opinioni, ignorando altri testi e informazioni storiche, le quali riferiscono che Aisha in realtà si sarebbe sposata a 19 anni. Qualunque sia la propria visione sul matrimonio del Profeta, nessuna fede poteva rivendicare una superiorità morale fino a quando i matrimoni con bambine erano praticati in varie culture e società di tutto il mondo e in varie epoche. In tempi moderni, però, questi sposalizi non sono più accettabili e nessuna scusa dovrebbe essere usata per giustificarli. Sono 60.000.000 (sessanta milioni, come la popolazione dell’Italia) di bambine, e secondo l’International Center for Research on Women nei prossimi dieci anni altre 100.000.000 (cento milioni) saranno condannate allo stesso destino, la violenza, la segregazione, le gravidanze precoci, le percosse. I dati Onu attestano che in Niger il 74% delle giovani donne fra i 20 e i 24 anni è diventata moglie prima dei 18 anni, il 71% nel Ciad, il 70% in Mali, il 66% in Bangladesh; in India, il 44% dei matrimoni coinvolge ragazze minorenni, di cui il 22% ha meno di sedici anni, il 2,6% addirittura meno di tredici; nella regione Amhara, in Etiopia, il 90% delle ragazze è costretta a sposarsi prima del quattordicesimo compleanno e, in Afghanistan, il 57% delle bambine prima dei 15 anni. Fermatevi a rileggere questo paragrafo, denso di cifre che possono perdere significato, e sforzatevi di vedere che dietro questi numeri ci sono bambine! Le ragazzine a volte scappano, altre volte si suicidano. Il fenomeno è enorme. C’è un’altra piaga, come se non bastasse, quando diventano vedove. Restano completamente emarginate (ad oggi sono circa 40 milioni). Rimangono sole, senza poter tornare dalla famiglia. Secondo la cultura indù, la donna sposata appartiene per metà a suo marito ed il 90 per cento di loro finisce con il prostituirsi, il 10 per cento vive chiedendo l’elemosina pregando davanti ai templi indù. Sarebbe realmente ora di rompere questo silenzio perché queste violenze all’innocenza possono essere fermate invece di nascondersi e di sentirsi sempre di più in dovere di criticare gli altri per le azioni che ritengono peccaminose. Se in occidente la legge in teoria punisce questi veri e propri atti di pedofilia, in pratica tutti i Governi (nessuno escluso) tollerano quelle che vengono chiamate “usanze religiose”. La regola è “non interferire”. Si inizi a intervenire seriamente senza timore di “interferire nelle usanze religiose”, perché di religioso non c’è assolutamente niente in tutto questo. Si potrebbe iniziare, per esempio, con il finanziare i movimenti femministi nei Paesi islamici. Si continui poi con forti pressioni internazionali sui Governi affinché introducano leggi a tutela della donne minorenni e contro i matrimoni combinati. Che si punisca severamente ed in modo esemplare chi si macchia di questi orrendi crimini. L'istruzione è ancora la difesa migliore: mantenere i figli a scuola il più a lungo possibile, così come educare le comunità sull'impatto deleterio del matrimonio precoce sulla salute delle loro ragazze. Non solo necessità di azioni di sensibilizzazione e di prevenzione, ma anche cercare di aiutare coloro che sono già state costrette a questo orrore con incentivi finanziari alle loro famiglie per far loro proseguire gli studi, o tramite corsi di formazione professionale in modo tale da poter avere una maggiore voce in capitolo nella propria vita. Un trattamento medico di qualità è altrettanto necessario per le ragazze costrette a partorire in giovane età. Si sa che non vi è alcuna soluzione rapida, ma sembra che ci sia un crescente movimento mirato a porre fine a questo scempio. Due mesi fa, l'ex segretario di Stato Hillary Clinton, per esempio, ha annunciato la nascita di un programma pilota in Bangladesh, finanziato dall'Agenzia statunitense per lo Sviluppo Internazionale (USAID), che coinvolgerà leader religiosi, media, governi e ONG locali. L'arcivescovo Desmond Tutu, presidente di The Elders, ha annunciato un obiettivo molto ambizioso: porre fine a questa pratica entro il 2030. Molte iniziative hanno preso il via, ora si tratta attuarle passando ai fatti.

Nata il 28 Febbraio, laureata in Biotecnologie Mediche e Farmaceutiche (Ingegneria tissutale e biocompatibilità dei materiali) alla facoltà del Piemonte Orientale “A.Avogadro”, attualmente iscritta al corso di Farmacia del Dipartimento del Scienze del Farmaco di Novara. Ricercatore scientifico e modella; vari hobby, appassionata di motori in generale (Superbike, Motocross, Formula 1...) sport, in particolar modo il calcio. Scrivo per vari siti, tra i quali “Vanovarava.it” e per il giornale “Il Fedelissimo”, amo il mare, gli animali e la musica.

Suicidi, bulli e stupri Adesso la scuola dà lezioni di violenza. Abusano della compagna nei bagni, a Savona arrestati quattro studenti. Risse e vessazioni all'ordine del giorno. E va tutto in Rete, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. Premessa d'obbligo: il titolo che leggete qui sopra è volutamente un'esasperazione. Sappiamo bene che la scuola italiana, pur fra tanti difetti, non è tutta da buttare. Le nostre scuole (benché spesso riflettano alla perfezione l'immagine di un paese sempre più in crisi) restano luoghi dove i genitori continuano a mandano i figli con un certo margine di fiducia. Fiducia in cosa? Nella possibilità che imparino qualcosa che possa tornare loro utile nella vita. Eppure questo «margine di fiducia», negli ultimi tempi, si è ridotto. Non c'è giorno che le cronache non parlino di episodi di bullismo (sempre più spesso nell'inquietante variante cyber), di violenze fisiche, di abusi sessuali, di vessazioni psicologiche. Sullo sfondo, sempre lei: la scuola. Parliamo di «sfondo» perché a volte le peggiori storie che finiscono sui giornali e nei tg avvengono «all'esterno degli istituti», come tengono a precisare i presidi. Ma può una questione di pochi metri di distanza liberare la scuola dalle proprie responsabilità? Ovviamente no, anche se poi i docenti ribattono - e non senza molte ragioni - che le «responsabilità» vanno cercate soprattutto nelle famiglie dei ragazzi più problematici. «Problematici»: bella definizione sociologica per indicare quelli che un tempo venivano più semplicemente chiamati «delinquenti». È probabile che dietro un baby-criminale ci siano «cattivi» genitori, ma ciò non può essere elevato a paradigma. Giudicare a priori è rischioso. Guai a semplificare, sostenendo che - ad esempio - dietro i 4 studenti arrestati ieri a Savona per aver abusato di una loro compagna 16enne si celano «sicuramente» dei genitori «più colpevoli dei figli». E che dire della mamma della babybulla di Bollate (Milano) che, qualche giorno fa, dinanzi allo scempio delle immagini della figlia che (istigata dagli amici che riprendevano la scena coi telefoni) pestava selvaggiamente una coetanea, ha ammesso di sentirsi «fallita» come genitore? Solo qualche ora prima c'era stato chi aveva giurato di aver visto questa stessa madre «complimentarsi» con la figlia-picchiatrice per «essersi fatta rispettare». Qual è la verità? Ci troviamo dinanzi a una mamma che, onestamente, ammette le proprie «responsabilità o siamo al cospetto di una mamma-mostro? E la ragazza che nel Padovano si è suicidata perché perseguitata dai cyberbulli del sito Ask, la «chat dell'odio»? E quegli altri 6 giovani, che nell'ultimo anno, hanno fatto la sua stessa scelta disperata? Nessuno ha - e può avere - risposte certe. Sullo «sfondo» - in questi come in tanti altri casi - sempre loro, le scuole: incapaci di educare, incapaci di punire. Con professori che, per farsi «accettare» dai ragazzi, sono disposti a tutto; docenti che, per fare gli «amici» dei loro studenti, si fanno insultare e mettere le mani addosso. Esagerazioni? Provate ad andare sul sito scuolazoo e troverete una carrellata infinita di video in cui ci sono professori che vengono ridicolizzati, umiliati o - di converso - si comportano essi stessi da bulli tra raptus di violenza e sceneggiate imbarazzanti. Ovviamente non sono questi i veri testimonial di un corpo docente che, per fortuna, nella maggior parte dei casi svolge il proprio lavoro con passione e spirito di sacrificio (e con paghe ben al disotto di quelle che il ruolo di questa categoria richiederebbe). Ma sappiamo bene come, da sempre, è gestito il carrozzone della Pubblica istruzione nel nostro paese: stipendi da fame, in cambio di un occhio chiuso (anzi, spesso entrambi) sulla scarsa propensione a lavorare da parte di chi siede in cattedra. Nessun controllo, nessun aumento meritocratico. Un andazzo che fa felici solo i furbi e i mediocri. Di professori bravi ce ne tanti, ma anche questi finiscono inevitabilmente per essere fagocitati da un sistema infetto (che, in ambito universitario, raggiunge livelli pandemici). Un pessimo esempio per i giovani, ma che non può certo trasformarsi in alibi. Se ci sono studenti che si comportano da criminali e postano le loro imprese su youtube qualcosa di grave sta accadendo. Scaricare le colpe su famiglie, scuola e tecnologia è consolatorio. Peccato serva a poco.

Bullismo, Ida Magli: «La famiglia non esiste più». I genitori «non contano». Lo Stato «latita». I ragazzi «lasciati soli». Lo spiega Magli, scrive di Matteo Forlì. Bullismo punito con altro bullismo. Davanti al video virale della 16enne di Bollate che ha preso a calci in testa la compagna di scuola - filmato catturato dai telefonini e messo in rete dai presenti, più ingolositi dal consenso dei like che interessati a fermare il pestaggio - la critica senza filtri dei social network si è trasformata in tutto tranne che in una costruttiva riflessione sull'estinzione di valori negli adolescenti. Stupore, rabbia, disgusto, ma anche insulti e minacce: Facebook e Twitter hanno reso violenza (verbale) a violenza (fisica).

CRONACA SPIA DI UN FALLIMENTO EDUCATIVO. Ma la rissa all'istituto milanese, come anche le baby prostitute di Roma, le minorenni stuprate in branco da compagni (casi recenti a Modena o Milano) o le innumerevoli vessazioni ai docenti, sono spie quotidiane di un fallimento educativo. Lettera43.it, in un editoriale firmato da Fabiana Giacomotti, si è interrogata sul pessimo esempio delle madri italiane, il cui tragico atteggiamento assolutorio fa, purtroppo, tendenza. Mamme in preda a un panico educativo come è accaduto a quella di Giovi – la baby bulla di Bollate - nella sua giustificazione (sui social) al raptus della figlia («le persone possono anche sbagliare»), e nel successivo pentimento («Ho fallito come madre, chiedo perdono») davanti alla bufera mediatica e al violento tiro a segno della Rete. «Ma i genitori non contano niente. È la società a essere allo sbando dal punto di vista etico, culturale, morale», riflette Ida Magli, antropologa e saggista, per anni occupata ad analizzare il ruolo della donna nella società occidentale.

DOMANDA. Le responsabilità dell'educazione di un giovane dunque vanno oltre la famiglia?

RISPOSTA. Lo Stato, la cultura, Internet: c'è un ambiente talmente invadente e condizionante che pensare alle madri come qualcosa di determinante nell'educazione dei figli è fuori dalla realtà. Ma vale anche per i padri naturalmente.

D. Questo stato di cose a cosa è dovuto?

R. Dal fatto che la famiglia non esiste più.

D. Si spieghi meglio.

R. Oggi si parla di genitore uno e genitore due. E il risultato è una confusione di ruoli e responsabilità. Confusione che peggiorerà pure col riconoscimento dei matrimoni gay e le adozioni da parte di coppie omosessuali.

D. Quindi lei è contraria alle nozze tra persone dello stesso sesso?

R. La formazione di una persona parte sempre dalla sua identità culturale. E con due padri o due madri che riferimento può esserci nella pubertà?

D. Crede ci sia uno spaesamento etico anche da parte dei genitori?

R. Certo. Sarebbe ovviamente importantissimo che i genitori sentissero, oltre al potere, anche il dovere di assumere un ruolo guida. Ma in Italia principi e valori sono stati storicamente dettati dalla Chiesa e ora la Chiesa non esiste più. E dopo gli scandali del Vaticano ha perso stima e prestigio.

D. Anche la politica ha le sue colpe.

R. La classe politica è vergognosa. Il governo fa finta di essere legittimo, nonostante ci sia una sentenza della Consulta che dice il contrario. Viviamo in uno Stato completamente fuori dalla realtà. Che dunque ha perso un ruolo di guida dal punto di vista morale, etico, intellettuale.

D. E questo come si riflette nelle famiglie?

R. I poveri genitori sono rimasti soli, quindi non posso fare nulla.

D. La scuola può supplire in qualche modo?

R. Macché. I ragazzi vanno a scuola perché odiano stare a casa. La scuola è il posto dove evadono, fanno i comodi loro. In aula sono amorfi. E gli insegnanti davanti a 25 alunni senza il minimo interesse sono impotenti.

D. In questo contesto che peso hanno Internet e i social network?

R. Per i ragazzi la Rete è l'evasione in un mondo che non esiste, irreale. Che non li mette alla prova su nulla. Non sanno più pensare e così da adulti non avranno né conoscenze, né professionalità. Ma l'aspetto peggiore è un altro.

D. Quale?

R. Internet non ha filtri. Permette a persone con deficienze intellettuali, squilibrati ed esibizionisti di esprimersi senza limiti. Non ci sono controlli. Nessuno è responsabile di nulla. È un ambiente in cui alla fine il più violento ha la meglio. E dove i comportamenti negativi e distruttivi diventano contagiosi. Come il bullismo. Ma anche il suicidio.

D. Ma non crede che spesso si tratti di singoli episodi da non generalizzare?

R. I singoli episodi sono segnali di una metastasi profonda ed estesa di cui vittima la società. Viviamo in un'epoca di corruzione intellettuale prima che morale. Nessuno sa più che cosa sia giusto o non giusto. Quella del bullismo, delle violenze sessuali o verbali, dei suicidi sono una reazione di difesa di personalità deboli che hanno perso riferimenti. Sono reazione patologiche a una società malata.

La Prostituzione. La Procura dei minori ha aperto un procedimento conoscitivo sul fenomeno delle cosiddette «ragazze doccia», ovvero le adolescenti - tra i 14 e i 16 anni - che si prostituirebbero con i coetanei nei bagni della scuola in cambio di ricariche telefoniche, oggetti e, forse, anche di denaro, scrive “Il Corriere della Sera”. La denuncia è stata lanciata dal direttore del reparto di Pediatria dell’ospedale Fatebenefratelli, Luca Bernardo, tramite una videoinchiesta pubblicata su Corriere.it il 7 novembre scorso. Nell’intervista, il professor Luca Bernardo aveva parlato di otto ragazzine che, seguendo percorsi di assistenza relativi ad altri tipi di problematiche, come la droga o il bullismo, avevano raccontato di essersi prostituite a scuola. Sette casi su otto, sempre a quanto riferito da Bernardo, riguarderebbero ragazze di «famiglia bene» del centro di Milano, che frequentano istituti privati, una invece viene dalla periferia. Il professore ipotizzava che i casi potessero essere molti di più, e che vi potessero essere coinvolti anche adulti.  «Abbiamo individuato per ora otto ragazze ma ci risulta che il fenomeno sia molto più esteso - aveva dichiarato Bernardo al Corriere -. Le chiamano ragazze-doccia perché così come ci si fa la doccia tutti i giorni, loro quotidianamente fanno sesso. I maschietti-clienti vengono scelti in base a ciò che possono dare in cambio alle ragazze. Durante le lezioni delle prime ore sui telefonini gira il menù con prestazioni, richieste e orari per gli appuntamenti nei bagni, dove avvengono i rapporti sessuali. Le ragazze offrono le loro prestazioni anche a più persone. Per loro è una specie di gioco, un gioco molto pericoloso nel quale pensano di dominare e irretire i loro clienti». Secondo quanto spiega ora il procuratore capo del tribunale dei minorenni Monica Frediani, l’indagine aperta è un «procedimento affari civili», non ancora di carattere penale, ovvero di «un fascicolo conoscitivo a carico di ignoti ancora in fase embrionale». La procura ha dato delega a un pubblico ministero perché acquisisca informazioni. Si tratta di sentire Bernardo, che secondo gli inquirenti aveva l’obbligo di segnalare in procura eventuali notizie di reato, e identificare le ragazze. Se sono ancora minorenni, prima ancora di indagare su eventuali reati commessi a loro danno, la procura deve valutare se siano soggette a situazioni che richiedono un servizio di tutela. Se invece sono maggiorenni, ma non lo erano all’epoca dei presunti reati, allora l’indagine proseguirà per individuare chi li ha commessi. «Al momento - ha spiegato Frediani - non ci sono elementi per procedere sotto il profilo penale. Non sembra che siano stati evidenziati profili di reato, anche perché un medico altrimenti avrebbe avuto l’obbligo di denunciarli».

Per sfuggire al bullismo offriva sesso in cambio di due euro. Mandava messaggi ai suoi compagni offrendo loro prestazioni sessuali. Un nuovo caso di baby prostituzione a Milano, scrive  Valeria Roscioni. Dopo il sexting, le ragazze doccia e le baby prostitute un altro caso di sesso tra i banchi di scuola sta lasciando tuti a bocca aperta: quello della ragazzina di Como che pensava di scappare dal bullismo vendendo prestazioni sessuali per due euro e mezzo. Tanto si era valutata l’adolescente di quattordici anni la cui storia è oggi riportata sulle pagine de La provincia di Como. Umiliarsi fino a svendersi, però, non le è affatto servito: i suoi compagni hanno creato una pagina Facebook ad hoc per prendersi gioco di lei. Fortunatamente, però, i rapporti sessuali non sono mai stati consumati e i dirigenti d’istituto sono riusciti ad intervenire in tempo attivandosi con assemblee, colloquio e uno sportello psicologico e chiedendo alla polizia di oscurare la pagina in questione. Al momento la quattordicenne ha dichiarato di essere stata spinta alla prostituzione dalla sua famiglia. Nonostante questo, l’ipotesi più accreditata sembra essere quella secondo cui il suo sarebbe un caso di emulazione dovuto alla diffusione mediatica di quanto accaduto ai Parioli a Roma.

A SCUOLA SESSO, BULLISMO, VIOLENZE E GUERRA FRA BANDE. Adesso si scopre il fenomeno del bullismo femminile, qualche Tg ha fatto vedere come delle ragazzine si contendono un ponte, scrive Domenico Bonvegna. Per l'apertura dell'anno scolastico 2009-10, alcuni presidi hanno consigliato gli studenti di evitare baci ed effusioni intime per prevenire eventuali contagi della malattia HIN1, precauzioni che fanno sorridere di fronte all'inchiesta choc del Comune di Milano sugli eccessi online a luci rosse dei giovanissimi nelle scuole di Milano. In una lettera alle famiglie, l'Assessore alla salute Giampaolo Landi di Chiavenna, afferma che "c'è una dilagante cultura della micro prostituzione, ed il mezzo d'elezione è diventato ovviamente la Rete. Attraverso un sms si danno appuntamento nelle zone più nascoste della scuola per avere un rapporto sessuale e se non ricevono il permesso di uscire dall'aula si fanno cacciare fuori. Il sistema è uguale in tutti gli Istituti di Milano. Il cliente, al massimo un diciassettenne e la baby prostituta, a volte anche di tredici anni, entrambi studenti, abbassano la suoneria del telefonino e si mandano un sms per confermare gli accordi presi il giorno prima. Non sempre a incontrarsi sono soltanto un lui e una lei. Il sesso, rapido, può essere anche di gruppo. Dipende dai desideri e da cosa offre il momento". Dell'inchiesta del Comune di Milano si è interessata La Stampa di Torino che in un editoriale pubblicato il 31 agosto scorso racconta la storia delle ragazze disponibili che girano di istituto in istituto. Non è neppure indispensabile conoscersi: i ragazzini possono contare su una «lista elettronica», fatta circolare sui telefonini e sui blog via internet, che descrive la disponibilità della studentessa. Oltre al nome, cognome e numero di telefono, anche il prezzo e il tipo di prestazioni fornite: rapporti orali, sessuali completi, anali, con singoli o coppie, durante le lezioni, soltanto nell'intervallo, in cambio di vestiti firmati, ricariche per i cellulari e compiti. Liste note da tempo tra gli adolescenti, e di cui solo oggi, invece, gli adulti conoscono l'esistenza. A parlarne per la prima volta un gruppo di teenager milanesi, seguiti da Luca Bernardo, il medico ha messo in piedi un ambulatorio sul disagio giovanile (l'unico) presso il Fatebenefratelli. «Gli elenchi non restano in mano agli studenti dello stesso istituto. Si scambiano con quelli delle altre scuole, creando un vero e proprio mercato della prostituzione minorile». (Elena Lisa, sesso a scuola basta un sms, 31.8.09 La Stampa). Intanto cresce l'allarme alcol tra le ragazze, secondo Bernardo, su 70 adolescenti alcoliste, le donne rappresentano il 66%. "Il problema è che abbiamo di fronte una gioventù senza guida", afferma Antonio Lupacchino, provveditore di Milano. Parlare con gli adolescenti è la sfida più difficile. L'allarme lanciato dal Comune di Milano è comune ad altri Paesi europei, in particolare la Francia e l'Inghilterra, dove il problema disciplina è più grave che in Italia, tra l'altro anche il professore Giorgio Israel lo rilevava in un servizio apparso su Il Sussidiario.net. Un interessante servizio apparso alla fine di luglio su El Pais, di Mario Vargas Llosa, L'anno in cui nelle scuole morì l'autorità, tradotto in Italia da La Stampa di Torino. Llosa fa riferimento a un documentario della tv francese su un liceo della periferia parigina, in cui le famiglie francesi povere convivono con gli immigrati di origine sub-sahariana, latino-americani e arabi del Maghreb. Il Liceo si è distinto per scene di violenza inaudite. "Bastonate ai professori, stupri nei bagni e nei corridoi, risse tra bande a colpi di coltello e di spranghe, e, se non ricordo male, persino rivoltellate. Non so se ci fossero stati morti, ma certamente parecchi feriti e la polizia, perquisendo le aule, aveva trovato armi, droghe e alcol. Il documentario non voleva suscitare allarme, al contrario tranquillizzare, mostrando che il peggio era ormai passato e che, con la buona volontà di autorità, insegnanti, genitori e alunni, le acque si stavano calmando. Con evidente soddisfazione, per esempio, il preside faceva notare che, grazie al metal detector appena installato e sotto il quale gli studenti dovevano passare per entrare a scuola, si potevano confiscare i pugni di ferro, i coltelli e le altre armi da punta e da taglio. E, così, i fatti di sangue avevano avuto una drastica riduzione. Si erano approvate disposizioni per fare in modo che sia i professori sia le allieve non si muovessero mai da soli, anche per andare in bagno, ma sempre almeno in due. Al fine di evitare, in questo modo, aggressioni e imboscate". Ma quello che ha impressionato di più il giornalista di El Pais è l'intervista a una professoressa che con naturalezza affermava: «Adesso va tutto bene, ma occorre sapersi giostrare». Spiegava che, per scongiurare le aggressioni e le botte di prima, lei e altri insegnanti s'erano accordati di ritrovarsi, a un'ora stabilita, all'uscita più vicina della metropolitana e di camminare in gruppo sino alla scuola. Così riducevano i rischi d'essere aggrediti dai «voyous». Questi docenti praticamente erano rassegnati, ogni giorno andavano al lavoro come se andassero all'inferno, avevano imparato a sopravvivere e non sembravano neppure immaginare che il mestiere d'insegnare potesse essere qualcosa di diverso da questa loro quotidiana via crucis. Secondo Llosa questo documentario della tv francese potrebbe essere stato girato in qualsiasi posto non solo della Francia ma dell'Europa intera. L'episodio del liceo francese ci richiama alla contestazione del 68 che intendeva cancellare ogni forma di autorità e di sottomissione. Gli insegnanti di allora sostenevano che l'autorità castrava gli istinti libertari dei giovani e così invece di aver portato alla liberazione creativa dello spirito giovanile, le scuole così liberate si sono trasformate in istituzioni in preda al caos, nel migliore dei casi, e, nel peggiore, in piccole satrapie di bulli e di precoci delinquenti. Non poteva che finire così quando il maestro, spogliato di credibilità e di autorità, trasformato spesso in strumento del potere repressivo, vale a dire del nemico al quale per raggiungere la libertà e la dignità d'uomini bisognava resistere, arrivando, persino, ad abbatterlo, ha perduto la fiducia e il rispetto senza i quali gli era praticamente impossibile adempiere alla sua funzione di educatore, di trasmettitore di valori e di conoscenze. Di più: li ha persi non solo agli occhi dei propri alunni, ma anche a quelli degli stessi genitori e dei filosofi rivoluzionari che, come l'autore di Sorvegliare e punire, identificavano nel maestro uno dei sinistri strumenti di cui - proprio come gli agenti di custodia delle carceri e gli psichiatri dei manicomi - l'establishment si serve per mettere le briglie allo spirito critico e alla sana ribellione di bambini e adolescenti. Il paradosso secondo Llosa è che molti maestri, in perfetta buona fede, credettero a questa degradante demonizzazione di se stessi e contribuirono, gettando benzina sul fuoco, ad aggravare la rottura facendo proprie alcune delle più avventate affermazioni dell'ideologia del Maggio '68 nel settore dell'insegnamento come, per esempio, considerare anormale rimproverare i cattivi studenti, far loro ripetere l'anno e, persino, dare voti e stilare graduatorie tra gli allievi in base al rendimento scolastico perché, attraverso tali «distinguo», si diffonderebbero l'infausto concetto di gerarchia, l'egoismo, l'individualismo, la negazione dell'idea che tutti siamo uguali, e il razzismo. Alla fine quei docenti insieme ai filosofi libertari come Michel Foucault e i suoi incoscienti discepoli hanno, in realtà, lavorato molto alacremente perché, grazie alla grande rivoluzione da loro propiziata nel campo dell'istruzione, i poveri continuassero a essere poveri, i ricchi, ricchi, e gli atavici detentori del potere seguitassero a tenere la frusta nelle loro mani.

IL BUSINESS A NERO DELLE RIPETIZIONI ALLE LEZIONI PRIVATE.

D’accordo, siamo il Paese dall’evasione fiscale, scrive Lorenzo Salvia su “Il Corriere della Sera”. Al primo posto in Europa in tutte le sue varianti, da quella in grande stile dei paradisi off shore a quella di piccolo cabotaggio dello scontrino che non c’è. Eppure. Qualche mese fa l’istituto di ricerca Eures si è preso la briga di confrontare la percentuale di evasione tra le diverse categorie di lavoratori. Ed è venuto fuori che in cima alla classifica ci sono proprio loro, i professori: nove volte su dieci le ripetizioni che danno agli studenti sono senza ricevuta. Amanti del nero persino più degli idraulici. Un dato senza dubbio non «scientifico», perché tutto ciò che è sommerso sfugge per forza di cose ad ogni misurazione. Come pure gli 850 milioni di euro che l’industria delle ripetizioni fatturerebbe ogni anno, secondo l’associazione dei consumatori Codacons. Lo stesso giro d’affari che ha nel nostro Paese il settore dell’olio d’oliva, tanto per farsi un’idea. Un’esagerazione? Forse, ma il problema esiste e finora nessuno è riuscito a risolverlo. In teoria ci sarebbe il meccanismo dei voucher, i buoni lavoro prepagati che dal 2012 possono essere utilizzati per saldare (regolarmente) i cosiddetti lavoretti. Quasi nessuno lo sa ma anche le ripetizioni rientrano in questa categoria. Sono i datori di lavoro, cioè i genitori, che li devono comprare nelle sedi Inps o nelle tabaccherie per poi girarli agli insegnanti. Nei dieci euro di un buono sono compresi i contributi a carico dell’Inps e dell’Inail, cioè pensione e assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Ma non le tasse, che in questo caso non vanno pagate. Anche perché per l’utilizzo dei buoni c’è un tetto di 5 mila euro l’anno per singolo lavoratore. In ogni caso, nella scuola nessuno li usa. In teoria ci sarebbe un’altra strada. Nel 2007, quando si tornò ai vecchi esami di riparazione, l’allora ministro Giuseppe Fioroni aveva previsto che fossero le stesse scuole ad organizzare, gratuitamente, i corsi per quei ragazzi che dovessero recuperare debiti formativi. Ma la realtà è molto diversa dalle intenzioni e quei corsi sono una rarità. Restiamo fedeli al fai da te, con i singoli insegnanti che al pomeriggio danno ripetizioni nel tinello di casa. C’è chi si fa pagare poco, chi troppo. Chi aiuta davvero gli studenti a recuperare, chi pensa più che altro ad arrotondare lo stipendio. Ma – tolta qualche rarissima eccezione ¬– l’intero settore fa parte integrante della nostra economia sommersa. Possibile che non si riesca a trovare una soluzione? Tempo fa uno dei sindacati degli insegnanti, lo Snals Confsal, aveva proposto di estendere alla scuola il sistema dell’intra moenia, oggi utilizzato dai medici che lavorano in ospedale. Le ripetizioni verrebbero date dagli insegnanti direttamente a scuola, naturalmente non agli studenti della propria classe ma incrociando le sezioni far loro. Il prezzo diventerebbe controllato. E la somma andrebbe divisa fra i professori che decidono di aderire, e che dovrebbero aggiungerla nella loro dichiarazione dei redditi, e la scuola che avrebbe più costi dovendo allungare l’orario di apertura. I soldi che il fisco otterrebbe in più potrebbero essere trasformati in detrazioni per la famiglie, che potrebbero scaricare le ripetizioni dalle tasse. Ipotesi tutta da costruire, quest’ultima, visto che proprio gli sconti fiscali (i rimborsi che arrivano a luglio per le spese mediche e il mutuo, per capirsi) potrebbero essere tagliati per il solito problema di far quadrare i conti pubblici. L’idea resta, però. Naturalmente anche questo modello ha i suoi rischi. L’intra moenia ha i suoi problemi negli ospedali, dove la sovrapposizione pubblico e privato ha portato qualche zona grigia. Probabilmente ne avrebbe anche nelle scuole. Ma non sarebbe meglio del buco nero assoluto di adesso?

Per evitare «debiti» ai figli, le famiglie italiane mettono mano al portafogli, scrivono Antonella De Gregorio e Lilli Garrone su “Il Corriere della Sera”.  E arrivano a spendere intorno ai 1.800 euro l’anno per riparare «buchi» e salvare l’anno scolastico. Il calcolo lo ha fatto l’Adoc, che da anni monitora il «mercato» delle ripetizioni private. Un settore variegato, con molte variabili a determinare i prezzi delle lezioni: area geografica, materia da «recuperare», fama di chi insegna, necessità di chi ha bisogno di sostegno. Attraverso le sedi distribuite nei capoluoghi di Regione, l’Associazione dei consumatori ha indagato costi e richieste di chi si trova a dover colmare lacune. Un pubblico che la crisi ha assottigliato: «Rispetto all’anno scorso, c’è una flessione della domanda del 15%», dice il segretario nazionale, Roberto Tascini. «Calano un po’ anche le tariffe, soprattutto quelle dei professori (-1,8%, questione di pochi centesimi: nel 2014 si passa a 31,8 euro all’ora, dai 31,2 del 2013), mentre resta stazionario il prezzo medio delle lezioni impartite da studenti (intorno ai 22,5 euro)». Si conferma il divario tra Nord (dove si spendono 33 euro all’ora) e Sud (21 euro). Costa meno «rinforzare» un ragazzino delle medie (chiede 20 euro un prof, ne bastano 18 per uno studente universitario o un neodiplomato). E ancor meno sostenere i piccoli delle elementari (8/10 euro all’ora). Si sborsa molto più per materie specialistiche, come Matematica e Fisica (35 euro), o Greco e Latino (33 euro); meno per lingue straniere, Chimica, Italiano. Ci sono poi i casi che escono dalla media, professori di fama ed esperienza, grecisti, latinisti, fisici che arrivano a chiedere fino a 50-60 euro all’ora. E i precettori-baby sitter, che aiutano i ragazzi delle medie a fare i compiti, magari anche tutti i giorni, a partire da 15 euro all’ora. Continua la discesa dei prezzi: già nel 2013, dopo anni di aumenti, il calo era stato tra il 2,5 e il 10% rispetto all’anno precedente (mentre nel 2011 i prezzi erano lievitati del 18%). Dell’impatto della crisi si è già detto. Ma a muovere il mercato sono anche le novità nell’offerta, oltre all’aumento del numero di universitari e laureati che, per mantenersi gli studi e in attesa di occupazione. decidono di guadagnare qualcosa rimettendosi sui libri del liceo. Sui siti specializzati (da ripetizioni.it, a Openprof, da A ripetizione! a ripetizioni-online.it, il progetto Garamond pensato per i ragazzi con difficoltà nel rendimento scolastico), la corsa è spesso al ribasso. Il web aiuta a incrociare domanda e offerta per qualsiasi materia - da estimo a economia, da inglese a matematica, da greco a elettrotecnica. Aumenta la visibilità dei docenti (e le loro opportunità di lavoro), mentre gli studenti sono liberi di gestire il rapporto, senza intermediari. E confrontare le tariffe è più semplice. Qualche sito, poi, segnala con stelline i prof «con referenze»: quasi un Tripadvisor del recupero. E c ‘è spazio anche per curricula, descrizioni personali, titoli conseguiti, tariffari, metodi di insegnamento. Prezzi nella media nazionale per i vari «doposcuola organizzati». Come «Uniservice», che offre professori a domicilio in tutta Italia: un’unica sede a Milano dove si può andare per le ripetizioni (in via Marco Aurelio) e aiuto a casa altrove. A chiedere aiuto nei compiti «sono molto più i maschi delle femmine – spiegano al centro –. Ma in ogni caso gli alunni che ricorrono alle ripetizioni sono moltissimi». Le materie più richieste? Soprattutto le scientifiche, per i ragazzi dei licei scientifici. Meno gli studenti del classico, che hanno bisogno di sostegno: per loro le materie più ostiche sono soprattutto Latino e Greco. Il costo? «In media 30 euro. I professori - insegnanti di scuole superiori o universitari, ma anche ingegneri o professionisti di altro tipo - si recano tutti a domicilio». A Roma, il Centro studi Alessandro Volta propone a ragazzi singoli o in gruppo «ripetizioni per tutte le materie, utilizzando un metodo didattico personalizzato». Molto pubblicizzato, il «Doposcuola Prati» promette anche un servizio di aiuto nei compiti da parte di un gruppo di giovani laureati in quasi tutte le materie scolastiche. Classi individuali o al massimo con due allievi, pacchetti con sconto per più lezioni (17 euro l’ora per un pacchetto di sei) altrimenti il costo della ripetizione è 19euro. A Milano, un servizio gettonato per i più piccoli (elementari e medie) è Compidù: non ripetizioni, ma un nuovo tipo di doposcuola: si fa in casa (di due mamme e counsellor con un passato lavorativo nel campo della pubblicità e della comunicazione), si studia insieme a un gruppo di coetanei, con dei tutor che danno una manno. Un format nuovo, attivo in due zone della città (Sempione e Porta Venezia). Il costo varia a seconda della frequenza - tutti i pomeriggi o solo alcuni giorni - a partire da 6 euro all’ora.

Quando il budget lo permette, per aiutare a rimpolpare i voti più striminziti, quelli che non raggiungono la sufficienza, le scuole mettono a disposizione corsi di recupero continuano Antonella De Gregorio e Lilli Garrone su “Il Corriere della Sera”. Ma la spending review ha ridotto - per lo più cancellato - questa opportunità. Se le scuole non hanno risorse e non si vuole spendere una fortuna per il professore a casa, un’alternativa sono i «doposcuola» (vere e proprie organizzazioni della ripetizione di una volta) e le lezioni low cost. Oppure ci si può affidare alla disponibilità dei ragazzi più grandi che in qualche caso, a scuola, fanno da tutor ai colleghi dei primi anni: si chiama «sostegno paritario»; succede da anni, allo Scientifico Ceccano di Frosinone, o al Classico Berchet di Milano, allo scientifico Volta, di Milano. A Torino, per il secondo anno consecutivo il Comune finanzia «La scuola dei compiti», uno dei progetti dell’amministrazione contro la dispersione scolastica, che lo scorso anno - con una dotazione di 60mila euro a carico delle casse comunali - ha coinvolto 600 ragazzi di terza media e di prima superiore, bisognosi di rinforzo pomeridiano. Nell’80% dei casi, gli allievi che hanno frequentato uno dei corsi di recupero tenuti dagli studenti universitari del Politecnico e dell’Università, hanno recuperato le lacune in matematica, fisica, chimica e lingue straniere. I «tutor», più di 50, hanno tenuto i corsi a gruppi di sette-otto persone e sono stati regolarmente retribuiti, delle «200 ore». Nel progetto sono coinvolti anche insegnanti in pensione, con il ruolo di supervisori. Da febbraio ad aprile (una prima sessione si è conclusa in gennaio) si riparte con 30 scuole e una materia in più: Italiano come «Lingua2», per i ragazzi di origine straniera. Ci sono poi Comuni che offrono servizi tipo «Spazio Compiti», divisi per fasce d’età. Associazioni di studenti che offrono ripetizioni popolari fatte dagli studenti per gli studenti: succede a Bari, dove l’Unione degli studenti si è alleata con gli universitari di Link per dare ripetizioni a singoli o gruppi (da 1 fino a 3 studenti a 8 euro all’ora, e da più di 3 persone a 5 euro). A Bergamo hanno debuttato le ripetizioni scolastiche a prezzi popolari (5 euro l’ora), promosse dai Giovani Comunisti cittadini, come pratica sociale contro la crisi economica. Anche a Savona il Gruppo di Acquisto Popolare ha organizzato le «ripetizioni popolari»: ripetizioni gratuite a studenti delle Superiori in difficoltà, impartite grazie al contributo volontario di professori e laureati. Ripetizioni gratis in provincia di Roma, nel comune di Monte Porzio Catone, grazie al Progetto di sostegno didattico dell’assessorato alle Politiche Sociali e Pari Opportunità, che consente a studenti delle Superiori in difficoltà in alcune materie (Latino, Inglese, Matematica, Fisica, Chimica) di risparmiare sul costo delle ripetizioni . Lo scorso anno sono state impartite 220 ore di lezioni gratuite, permettendo alle famiglie di risparmiare oltre 7mila euro. Il sostegno didattico, calcolato in circa 200 ore distribuite tra febbraio e maggio 2014, è garantito da docenti di Scuola superiore appartenenti all’Associazione Culturale Buon Pastore. Le lezioni si tengono nella Biblioteca comunale.

I fondi statali sono sempre più esigui e così, per far fronte all’emergenza, al liceo scientifico «Fermi» di Cosenza hanno deciso di istituire dei corsi di recupero a pagamento per gli studenti che, al termine del primo quadrimestre, non hanno raggiunto la sufficienza in alcune materie, scrive Antonio Ricchio su “Il Corriere della Sera”. Una scelta senza precedenti nella storia della scuola italiana. La decisione della preside Michela Bilotta sta facendo molto discutere ma lei non sembra affatto preoccupata: «In tanti mi chiedono se questo provvedimento rappresenti il crollo del sistema scolastico pubblico. Io rispondo assolutamente no. Il sistema intramoenia è aggiuntivo e non sostitutivo dei corsi di recupero per favorire gli alunni in difficoltà e per fare emergere il lavoro nero che spesso è presente nelle lezioni private». Alle famiglie degli alunni, così come riporta la delibera approvata in Consiglio d’istituto lo scorso mese di ottobre, viene chiesto un «contributo economico» per i corsi di recupero. «Gli studenti – spiega ancora la preside Bilotta – pagherebbero 7-8 euro per ogni ora di didattica ma avrebbero la garanzia di frequentare lezioni tenute da docenti del nostro liceo». E se i professori del «Fermi» dovessero rifiutarsi di offrire tali prestazioni? «Potremmo sondare la disponibilità di altri docenti precari», taglia corto il dirigente scolastico. «Oggetto: accordo con Banca Carime per finanziamento a corsi di sostegno/studio. Si informano gli studenti e le loro famiglie che la Banca Carime ha accolto la richiesta del dirigente scolastico circa la possibilità di finanziamenti a condizioni agevolatissime». Quando la comunicazione, datata 17 ottobre, è stata inviata alle famiglie degli alunni del «Fermi», più di uno ha pensato a uno scherzo. E invece era tutto vero. Ai destinatari della missiva veniva offerta «la concessione di un fido massimo di 1000 euro» da restituire con un «tasso di interesse al 3,22%» proprio con l’obiettivo di incentivare il sostegno all’iniziativa messa in piedi al Fermi di Cosenza» anche per le famiglie che si trovano maggiore difficoltà economiche. Davanti a tale situazione, i primi a saltare dalla sedia sono stati i rappresentanti della Cgil. I docenti del Fermi iscritti al sindacato hanno subito denunciato la manovra, incassando provvedimenti disciplinari da parte dell’istituto. Il segretario regionale del comparto scuola Gianfranco Trotta, preoccupato dall’eventualità che la scelta si tramuti in un «cavallo di Troia» capace di disarticolare la scuola pubblica, va giù duro: «Far pagare i corsi di recupero significa ledere un diritto costituzionalmente garantito che è quello allo studio. È compito del dirigente scolastico attivarsi presso il ministero per trovare le risorse necessarie per garantire i corsi di recupero riservati agli studenti che presentano lacune in alcune materie. In questa Regione c’è bisogno di più cultura invece tagliano le gambe ai ragazzi». Nelle scorse settimane, anche su sollecitazione del mondo sindacale, sono arrivati al liceo «Fermi» di Cosenza alcuni ispettori del ministero dell’Istruzione. Gli 007 del Miur hanno acquisito documenti e ascoltato i protagonisti di questa controversa vicenda. Sulla vicenda si è mosso anche il mondo universitario. «L’organizzazione privatistica nel corpo di una struttura pubblica è una violenza che mina la solenne regola della gratuità e dell’obbligatorietà», attacca il costituzionalista dell’Unical Silvio Gambino. Gli fa eco Raffaele Perrelli, che dirige il dipartimento di Studi umanistici sempre all’Università della Calabria: «Questo è nient’altro che darwinismo sociale che comprime l’uguaglianza». L’ipotesi dei corsi di recupero intramoenia, comunque, resta sempre in piedi nonostante il Consiglio d’istituto abbia bocciato il loro regolamento attuativo. E c’è da giurare che le polemiche non finiranno certo qui.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

I FURBETTI DELLE BORSE DI STUDIO.

Università, i "furbetti delle borse di studio" sono ovunque. In un anno più di mille i casi registrati. I controlli intensificati dagli Atenei italiani hanno portato alla scoperta di numerosi studenti che hanno dichiarato un reddito più basso per ottenere agevolazioni e privilegi, scrive Luca Pierattini su “La Repubblica”.  I "furbetti delle borse di studio" sono in mezza Italia. Oltre al caso clamoroso di Roma, dove il 62% degli studenti controllati nei tre atenei capitolini - Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza - ha dichiarato un reddito più basso, sono numerose le segnalazioni effettuate dalle università italiane, seppur in maniera meno eclatante. Gli studenti che dichiarano meno del dovuto lo fanno per ottenere borse di studio, alloggi o anche solo per avere agevolazioni per trasporti pubblici o mense in diverse università. Un danno non solo per gli atenei, che elargiscono servizi gratuiti a chi non ne avrebbe diritto, ma soprattutto per gli studenti che avrebbero davvero diritto a tali agevolazioni e che invece finiscono per essere esclusi. Secondo la legge, chi ha dichiarato il falso rischia una denuncia per falsa autocertificazione e truffa. Le università stanno correndo ai ripari e hanno stretto accordi con la Guardia di finanza, con l'Inps (è il caso di Roma) o con l'Agenzia delle entrate per incrociare le informazioni delle banche dati del Fisco con quella anagrafica e confrontare la situazione patrimoniale degli studenti. Un ulteriore strumento di contrasto contro le false autocertificazioni è stata l'introduzione, qualche anno fa, della certificazione del reddito con l'Iseeu, l'indicatore della situazione economica pensato specificatamente per l'università. Un calcolo rilasciato da organismi riconosciuti come i Caf. In alcuni casi è servito, in altri meno. Ecco una sintetica mappa del fenomeno che va da nord a sud senza eccezioni.

Palermo. L'università di Palermo ha firmato un protocollo con la Guardia di finanza per arginare l'evasione tra gli studenti, ma i controlli, effettuati a campione, hanno scovato gli ultimi casi nel 2008. L'Ateneo tre anni fa ha aperto un Ufficio controlli riservato agli studenti che si dichiarano lavoratori autonomi, che sono circa il 10% del totale. Le verifiche sono a tappeto e il lavoro di questa task force contro l'evasione ha permesso di recuperare 400mila euro solo nel 2012.

Torino. A Torino il controllo delle autocertificazioni avviene nel 100% dei casi, almeno così dicono dall'Azienda regionale del diritto allo studio. Sui 12 mila domande per le borse di studio sono stati recuperati 700mila euro dovuti alla compilazione 'errata' dei moduli.

Genova. A Genova sono 290 le borse di studio revocate nel 2012: l'accertamento ha consentito di recuperare 300mila euro, la cifra necessaria per finanziare le agevolazioni per le matricole del 2013. I controlli nell'Ateneo vengono effettuati in collaborazione con l'Agenzia dell'entrate.

Padova. Nel 2012 un'inchiesta della Guardia di finanza di Padova aveva scoperto che su circa 400 controlli, uno su quattro risultava irregolare. Sui circa cento 'infedeli', diciotto avevano addirittura effettuato trasferimenti di capitali all'estero (per un totale di oltre 700mila euro), nonostante avessero dichiarato un reddito delle fasce più basse.

Emilia Romagna. In Emilia Romagna, l'Azienda regionale per il diritto allo studio ha trovato irregolarità nelle autocertificazioni di uno studente su cinque. Non casi eclatanti, ma omissioni nell'ordine di diecimila euro. Nel 2013 sono state ritirate 180 borse di studio (circa l'1% del totale delle domande) negli atenei di Bologna, Parma, Modena-Reggio Emilia e Ferrara.

Toscana. Nelle università toscane - Firenze, Pisa e Siena - sono state registrate più di 400 dichiarazioni irregolari su un campione di oltre 5400 controlli.

Bari. Un'isola felice sembra essere Bari, dove non si segnalano casi sospetti. Anche qui l'università ha stretto un accordo con la Guardia di finanza, ma, a causa del taglio ai finanziamenti pubblici, possono essere effettuati solo controlli a campione. Ciò significa che potrebbero esserci degli evasori, ma, allo stato attuale, non sono stati individuati.

L'aumento dei controlli ha senz'altro disincentivato le false dichiarazioni sul patrimonio. L'estensione del malcostume rimane comunque una costante in tutta la penisola, anche se il caso di Roma, che ha destato grande scalpore per le sue dimensioni, sembra essere un fatto isolato.

LA BUFALA DEI VOTI AL SUD DATI CON MANICA LARGA. PARLIAMO DEL BONUS MATURITA’: UN MODO PER FOTTERE GLI STUDENTI MERIDIONALI.

«Da sempre dal nord arrivano accuse ai meridionali. Sembra che sia come quella novella: “la volpe quando non arriva all’uva, dice che è acerba”. Prendiamo in esame le accuse rivolte agli studenti del Sud Italia. Dagli e dai ai barbari padani qualcuno crede ed ecco nascere il “Bonus Maturità», spiega Antonio Giangrande.

Lo scrittore Antonio Giangrande sul tema “Scuola ed Università” ha scritto un libro: “IGNORANTOPOLI, LAUREATI ED ANALFABETI”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media.

Da sempre sbraitano i leghisti ed i giornali faziosi.

“Diciamo basta all’assistenzialismo e alle raccomandazioni del sud. Vista la disparità di trattamento fra gli studenti del nord e quelli del meridione, è ridicolo e immorale continuare a considerare il voto di maturità un parametro valido per le graduatorie d’ingresso alle università e per l’assegnazione delle borse di studio”. Lo ha detto il deputato della Lega Nord, Davide Cavallotto, durante la conferenza stampa per la presentazione della manifestazione di protesta organizzata dai Giovani padani davanti alle principali scuole del nord. “I risultati dell’indagine Ocse Pisa (Programme for International Student Assessment) e i dati del Miur confermano come i “generosi” voti di maturità nelle scuole del sud, rispetto a quelli del nord, non corrispondano affatto all’effettivo grado di preparazione. È forse questa l’equità e la coesione territoriale di cui parla il presidente del Consiglio? A me sembra più una secessione di fatto”.

Una sfida tra "cervelloni" del Nord e del Sud. La proposta arriva dai giovani deputati della Lega Nord Paolo Grimoldi e Davide Cavallotto, alla luce di indiscrezioni sui risultati dell'ultima Maturità dai quali emerge che al Sud e 100 e lode continuano a essere il doppio che al Nord. "Leggere ancora oggi - spiegano Grimoldi e Cavallotto - che nelle scuole superiori al Sud si registrano il doppio dei 100 e lode del Nord è vergognoso e imbarazzante. Ma qualcuno crede davvero che in Campania, Sicilia, Calabria, Puglia, Lazio siano tutti geni, mentre dal Centro al Nord tutti somari? Facciamola veramente questa sfida comparativa tra i 100 e lode sudati in Padania e quelli spesso regalati nel Sud: avremmo la conferma - sostengono i due giovani leghisti - dell'assurdità del valore legale del titolo di studio, di cui la Lega chiede da tempo l'abolizione. Abbiamo moltissimi giovani padani diplomati con 100 e lode, ma anche con molto meno che si confronterebbero senza problemi con i 'cervelloni' del Sud, soprattutto con quelli usciti a grappolo da una stessa scuola superiore". Il recente secondo Rapporto di Tuttoscuola sulla qualità ha di fatto fotografato - ricordano i due deputati - il Nord Ovest del Paese come l'area territoriale dove la scuola funziona meglio, con Biella e Torino ai primi due posti della graduatoria per province. La graduatoria per Regioni vede al primo posto il Piemonte, seguito da Friuli Venezia Giulia e Lombardia. Ultime Campania, Sardegna e Sicilia. "Forse le scuole del Nord sono più selettive? - proseguono Grimoldi e Cavallotto - E' uno scandalo se non una truffa legalizzata che gli studenti del Sud partano con un 'bonus' omaggio nelle selezioni per le università, per le borse di studio e in generale con un riconoscimento nel curriculum che non corrisponde alla loro preparazione reale. E' ora di finirla. Ci spieghino, poi, com'é che questi cervelloni sono tutti senza lavoro: secondo l'ultimo Rapporto Svimez 2011 sull'economia del Mezzogiorno due giovani su tre non lavorano. Sinceramente se dovessimo assumere un laureato padano con votazione 80 e uno laureato al Sud con il massimo dei voti - concludono - non avremmo dubbi sul grado di preparazione".

“E’ inaccettabile che gli studenti del Nord siano sfavoriti nelle selezioni di Medicina e di altri corsi di laurea a numero chiuso a causa del ‘bonus maturità’ che premia le Regioni del Sud”. Così il capogruppo della Lega Nord in Consiglio regionale veneto Federico Caner, che fa seguito alla denuncia lanciata dal leghista Mario Pittoni in merito alla questione dei punti sul voto di maturità, che inciderà sull’accesso ai corsi universitari a numero chiuso. “E’ arcinota la disomogeneità di valutazione tra Nord e Sud – ha detto Caner – e proprio grazie a questa anomalia e al vantaggio di poter contare su voti di maturità più alti nel Meridione, gli studenti del Sud saranno favoriti nell’accesso ai corsi universitari a numero chiuso come Medicina”. “Un buon voto di maturità garantisce infatti da 4 a 10 punti – sottolinea l’esponente del Carroccio -: si tratta di un’ingiustizia nei confronti degli studenti del Settentrione, che di fatto sono penalizzati. Peraltro, la facoltà di Medicina mette a disposizione un numero di posti molto limitato e in grado di coprire solo la metà delle richieste, con il risultato di produrre pochi medici rispetto a quelli che servono al Nord. Per questo, come ha ricordato Pittoni, oltre a bloccare il “bonus maturità”, è quanto mai urgente dare attuazione all’art 25 comma 6 della riforma universitaria, che prevede la rideterminazione del numero dei posti disponibili nei corsi di laurea  in Medicina e Chirurgia e la loro distribuzione su base regionale, così da riequilibrare l’offerta formativa in relazione al fabbisogno di personale medico del bacino territoriale di riferimento”.

“Abbiamo chiesto al ministro Carrozza di sospendere il bonus maturità perché riteniamo penalizzi fortemente gli studenti del nord che, a causa degli standard più elevati degli istituti che frequentano, ottengono risultati più bassi rispetto agli studenti del sud. Le risposte che ci ha fornito il ministro Carrozza, contrariamente a quanto promesso dal premier Letta nel suo discorso d’insediamento, sono state assolutamente insoddisfacenti. Anche in tema scolastico riscontriamo un imbarazzante doppiopesismo ai danni del settentrione. Lo stesso voto finale dell’esame di maturità potrebbe essere inattendibile poiché, non tenendo conto del livello qualitativo medio degli studenti dei singoli istituti, penalizza di fatto i nostri studenti. Siamo in un momento di forte crisi, non togliamo ai giovani la speranza di veder realizzato il sogno di costruirsi il futuro che giudicano più affine alle loro attitudini”. Lo ha dichiarato Cristian Invernizzi, deputato della Lega Nord.

Le polemiche, attese, non sono mancate. Le curiosità nemmeno. Così come le conferme, stavolta supportate da migliaia di informazioni. La prima, su tutte: al Sud è molto più «facile» diplomarsi con un voto alto. Altissimo, in certi casi. E se non ci fosse stato quel vincolo dell'«ottantesimo percentile» - aggiunto dal ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza - forse ora avremmo migliaia di studenti del Mezzogiorno con in tasca già 8, 9, 10 punti di bonus ancora prima di effettuare il test d'ammissione all'università, scrive Leonard Berberi sul milanese  “Il Corriere della Sera”. Staccando così i colleghi del Nord che da tempo accusano di essere penalizzati dal punteggio finale perché al Settentrione «le commissioni danno voti più bassi». La preoccupazione è legittima. Due o tre punti in più alla prova d'ingresso nelle facoltà a numero chiuso potrebbero far avanzare nella graduatoria finale anche di mille o duemila posti. A confermare il divario sul voto del diploma tra i due estremi geografici dell'Italia - dopo le indagini e i risultati Invalsi - sono i dati pubblicati ieri dal ministero dell'Istruzione sul sito universitaly.it che tengono conto di tutti i voti della Maturità 2012/2013. Migliaia di tabelle, suddivise per provincia, scuola, commissione e tipologia di diploma che dicono alle aspiranti matricole se avranno diritto o no al «bonus maturità». Sono quei punti extra (da uno a dieci) da sommare a quelli che gli studenti - circa 115 mila - otterranno nei test d'ingresso in calendario la prossima settimana. Per avere diritto al «bonus» bisogna essersi diplomati con almeno 80/100 e, allo stesso tempo, rientrare nel 20% dei voti migliori assegnati dalla commissione d'esame. Le tabelle del Miur, quindi. Spiegano, indirettamente, che più è alto il voto minimo per accedere al sistema dei «bonus», più le commissioni d'esame sono state di «manica larga». Così, leggendole, si scopre che se a Milano, a livello provinciale, si accede al «bonus maturità» con almeno 87 (per i diplomi al liceo classico) e 84 (allo scientifico), più giù, a Catanzaro, si prendono «bonus» soltanto se diplomati con, rispettivamente, 97 e 96. Dieci e dodici punti di differenza. Nella provincia di Bari servono almeno 97 (classico) e 94 (scientifico). Va peggio - o meglio, a seconda dei punti di vista - a Brindisi, Crotone, Vibo Valentia ed Enna: qui il «bonus» al classico è previsto soltanto per chi si è diplomato addirittura con 100, il massimo. Risultati che spiegherebbero, ancora una volta, come al Sud le commissioni abbiano dato a tanti maturandi voti altissimi. Il «bonus», in realtà, scontenta anche per le distorsioni. Tanto che, a parità di diploma e di scuola, uno guadagna punti, l'altro no. Bisogna spulciare tra le tabelle dei singoli istituti per scoprire le differenze. Il sito skuola.net, per esempio, ha notato che al liceo scientifico «Avogadro» di Roma uno studente della sezione C diplomato con 93/100 non ha diritto a nessun punto extra da sommare al risultato del test universitario perché capitato in una commissione che, mediamente, ha attribuito punteggi elevati. L'esatto opposto di quello che succede a un suo compagno della sezione F che, con lo stesso risultato, ha diritto a sei punti di vantaggio. Stessa storia, ma destini diversi, per chi si è diplomato con 82 al liceo scientifico «Cremona» di Milano: chi è stato interrogato dalla 43esima commissione ora può aggiungere al test universitario un altro punto. Chi, invece, ha avuto lo stesso voto, ma con la 44esima commissione, non prende nulla. Il minimo per accedere al bonus, in quest'ultimo caso, è 90. Il sistema non piace del tutto anche al ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza. «La votazione non è omogenea - ha spiegato - perché ci sono scuole in cui è più facile prendere voti alti. È complicato, poi, avere un metodo obiettivo per equiparare le valutazioni tra gli istituti perché le commissioni sono diverse». Nel frattempo, mentre c'è anche chi pensa di fare ricorso al Tar, la prossima settimana si parte con i test universitari. Martedì tocca agli aspiranti veterinari (10.812 iscritti). Il giorno dopo alle professioni sanitarie. Quindi il 9 a Medicina e Odontoiatria, il 10 ad Architettura.

Dello stesso tenore è l’articolo di “La Repubblica”. L'Italia è spezzata in due: nord vs sud, non è una novità. E al centro del mirino, questa volta, ci sono i voti di maturità. Il bonus, ottenuto in base al punteggio del diploma e utile per i test di ammissione all'università, svela le differenze tra meridione e settentrione: 10-12 punti tra Milano e Catanzaro, per fare un esempio. La situazione non è nuova, ma questa volta arrivano le informazioni concrete. Come riporta Il Corriere della Sera nell'edizione di oggi, sabato 31 agosto, al sud gli studenti ottengono mediamente voti più alti. E se non ci fosse stato quel vincolo "dell'ottantesimo percentile" - voluto dal ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza - troveremmo migliaia di studenti del mezzogiorno, che, finito il liceo, avrebbero in tasca 8, 9 o addirittura 10 punti di bonus maturità in più ancora prima di presentarsi ai test di ammissione all'università. I dati - La preoccupazione del settentrione è legittima. Solo pochi punti in più all'esame di maturità, regalato o non, potrebbero far avanzare anche di mille o duemila posti nella graduatoria finale per accedere alle facoltà a numero chiuso. A conferma di ciò, i dati pubblicati ieri, venerdì 30 agosto, dal ministero dell'Istruzione, in relazione ai voti di maturità 2012-2013. Nel sito, le tabelle che possono aiutare gli studenti a capire se avranno diritto o meno al cosiddetto "bonus", un massimo di 10 punti extra da aggiungere a quelli che gli studenti aspiranti universitari otterranno nei test di ammissione alle facoltà a numero chiuso, in programma per la prossima settimana. Come riporta sempre Il Corriere, per avere diritto al bonus di maturità si deve aver ottenuto un punteggio uguale o superiore agli 80/100 e, allo stesso tempo, rientrare nel 20% dei punteggi migliori assegnati dalle commissioni d'esame. E alcune sono state di manica larga. Se a Milano si accede al bonus con almeno 87 punti nel liceo classico e 84 in quello scientifico, dalla parte opposta dello stivale, a Catanzaro, si ottengono i bonus se si è diplomati con 97 e 96. Un divario di dieci e dodici punti. Per non parlare delle situazioni più lampanti: Brindisi Crotone, Vibo Valentia ed Enna arrivano a quota 100. E allora va da sé come le commissioni abbiano dato voti molto alti, ripetiamo, meritati o meno. Ma anche prenderli, a volte, non serve. Il sito skuola.net ha riportato un episodio a dir poco bizzarro: uno studente del liceo scientifico, diplomatosi con voto 93, non potrà accedere ai bonus maturità perché la commissione ha conferito in media punteggi alti al resto della scolaresca. Un suo compagno con lo stesso punteggio, ma di una diversa sezione, avrà diritto a sei punti. Il ministro Carrozza non appare del tutto soddisfatta: "La votazione non è omogenea - ha sottolineato - perché ci sono scuole in cui è più facile prendere voti alti. E' complicato, poi, avere un metodo obiettivo per equiparare le valutazioni tra gli istituti perché le commissioni sono diverse". Una falla nel sistema?

Ed ecco allora per accontentare i detrattori degli studenti meridionali interviene il ministro Carrozza.

MERITOCRAZIA?

Bonus maturità: un 86 al professionale vale di più di un 92 al classico, scrive Pietro De Nicolao. Finalmente il MIUR ha pubblicato tutti i dati necessari al calcolo del “bonus maturità” per il numero chiuso, che confermano le critiche mosse al sistema del bonus. Gli studenti dei licei classici e scientifici i più penalizzati. Il bonus può essere migliorato? No: meglio abolirlo. Il 30 agosto 2013 il MIUR ha pubblicato sul sito Universitaly i dati dell’80° percentile per tutte le commissioni di maturità del 2013, che serviranno per il calcolo del bonus maturità.

Cos’è il bonus maturità? Il DM 449 del 12 giugno 2013, che sostituisce la precedente disciplina ideata da Francesco Profumo, stabilisce che per l’ingresso ai corsi di laurea a numero chiuso i candidati debbano essere disposti in graduatoria ed accedere ai posti disponibili in ordine di merito. Ad ogni candidato viene assegnato un punteggio in centesimi. Di questi, 90 punti dipendono dal test di ammissione vero e proprio, e 10 punti dipendono invece dalla carriera scolastica precedente: in particolare, dal voto di maturità. Il problema è che il bonus non dipende in modo diretto e assoluto dal voto di maturità: come spiegato nel precedente articolo, per aver diritto al bonus si devono verificare contemporaneamente due condizioni:

ottenere almeno 80/100 alla maturità;

essere nel “top 20%” della propria commissione d’esame: è il famoso 80° percentile.

Se queste condizioni sono soddisfatte, il bonus si calcola direttamente in funzione del voto di maturità secondo la tabella contenuta nel decreto. Il bonus maturità è stato recentemente riformato: al contrario di quanto si potrebbe credere, esso non fu ideato dal Ministro Maria Chiara Carrozza, né da Francesco Profumo, ma risale al 2008, quando al Ministero dell’Istruzione c’era Giuseppe Fioroni. Si potrebbe dibattere a lungo sull’opportunità stessa di considerare il voto di maturità nell’ambito dell’ammissione ai corsi di laurea universitari. Oltre a pensare che ciò sia inopportuno, noi riteniamo che ciò comporti delle difficoltà tecnicamente insormontabili, come sarà evidenziato nella lettura di questo articolo. Esaminiamo le criticità connesse all’applicazione della condizione numero 2: l’80° percentile varia al variare dell’indirizzo, della scuola e della commissione di maturità (anche all’interno della stessa scuola). Sul sito di Universitaly si possono esaminare i dati di ogni commissione di maturità d’Italia, relativamente all’anno scolastico appena concluso. Lo stesso sito ci fornisce poi dati aggregati di notevole interesse, che si possono ottenere dal primo menu a tendina (“selezionare l’Esame di Stato sostenuto”):

selezionando “in Italia a.s. al 12/13″, la provincia e il tipo di scuola si ottengono i dati per la singola classe;

selezionando “in Italia in aa.ss. precedenti al 12/13″, si ottengono i percentili provinciali dei diversi tipi di diplomi;

selezionando “all’estero in una scuola italiana”, si ottengono i percentili nazionali per tipo di diploma;

selezionando “all’estero in scuola straniera o in scuola straniera in Italia”, si ottiene il percentile nazionale complessivo, che è 86.

Guardiamo i percentili nazionali divisi per tipo di scuola.

Tabella C – Percentile per tipologia di diploma a livello nazionale. Attenzione: qui ragioniamo su un modello che rappresenta il tipico liceo classico, il tipico istituto tecnico, il tipico istituto professionale, ecc.: un modello semplificato su scala nazionale. Questa tabella è la madre di tutte le assurdità del bonus maturità. Lo studente del tipico istituto professionale che prendesse 86/100 avrebbe diritto a 3 punti di bonus maturità; lo studente del tipico liceo classico che prendesse 92/100 si ritroverebbe con 0 (zero) punti di bonus. Ai lettori il giudizio. Ci si potrebbe chiedere come varia la probabilità di prendere almeno un punto di bonus maturità al variare del voto di maturità. Come probabilità si intende la percentuale di classi esaminate. Tutti gli studenti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Il grafico precedente si può scomporre, disaggregando i dati delle classi per indirizzo di studi. Questo grafico si legge così: si fissi innanzitutto un voto di maturità sulle ascisse; allora il valore sulle ordinate indica la probabilità per lo studente di ottenere il bonus, ottenuta come la percentuale di classi esaminate in cui egli otterrebbe il bonus. Esempio concreto: lo studente prende 82/100. Se è sopra l’80° percentile, da tabella ministeriale egli ha diritto ad un punto di bonus. Al liceo classico, otterrebbe un punto di bonus solo nel 6% delle classi; all’istituto professionale, invece, la percentuale salirebbe al 62%. Con un voto di 88/100 lo studente del liceo classico si aggiudicherebbe i 3 punti di bonus solo nel 29% delle classi, mentre con lo stesso voto lo studente dell’istituto professionale se li aggiudicherebbe nel 93% delle classi. Se il voto diventasse 95/100, invece, lo studente del classico otterrebbe i 7 punti di bonus nel 70% delle classi, e quello del professionale nel 99% di esse. Cosa ci insegna questa vicenda? Il MIUR è riuscito a peggiorare il sistema esistente. Il vecchio sistema, basato unicamente sui test standardizzati, almeno poneva tutti i candidati allo stesso punto di partenza. L’idea di valorizzare il curriculum scolastico non è di per se illogica, ma si scontra con l’impossibilità di comparare voti espressi con scale di giudizio non uniformi e non uniformabili. Gli studenti dei licei classici e scientifici risultano i più penalizzati nell’accesso ai corsi di laurea a numero chiuso, nonostante i licei siano la principale “porta d’ingresso” per tali lauree (medicina, architettura, veterinaria, odontoiatria). Infatti, il 99% degli studenti degli istituti professionali usciti con 95/100 otterrà 7 punti di “bonus”, mentre solo il 70% dei diplomati classici e l’82% di quelli scientifici otterranno l’agognato bonus. Quale consiglio dare alla commissione ministeriale di “saggi” che in questi giorni sta elaborando proposte per rivedere la regolamentazione del bonus maturità? Una sola e molto semplice: abolirlo.

I saggi di cui si parla sarebbero poi coloro che elargiscono dati differenziali tra Nord e Sud e sono quelli che stabiliscono i quiz per l’ingresso a numero chiuso nelle facoltà universitarie.  

Eppure i detrattori sono sempre all’opera e sempre seguiti dagli italioti allo sbaraglio.

Di tutt’altro tenore è, invece, l’editoriale di Enzo Magistà, direttore della redazione giornalistica di Tele Norba, la più grande tv locale commerciale del sud Italia. Pubblicato in data 09/set/2013.

“Oggi si continua con i test per entrare nelle facoltà di medicina di tutt’Italia. E’ un pedaggio che i nostri figli devono pagare perché, purtroppo, tutti sognano di fare il medico e la professione è ormai al collasso. Serviva un freno, una selezione ed è stato messo. Ci sarebbe già da discutere su questo disumano criterio di spezzare i sogni dei ragazzi. Ma restiamo senza parole di fronte all’altra, ancor più grave ingiustizia, che è stata perpetrata ai danni dei ragazzi più bravi ed in particolare di quelli meridionali. Il ministro ha dettato regole nazionali e si è imposto di riequilibrare i meriti scolastici. E così, ritenendo che nel sud i ragazzi ottengano facilmente buoni voti, li ha penalizzati. Sono stati introdotti dei premi che ciascuna scuola distribuisce a discrezione. E così un ragazzo di Treviso diplomato con 80 su 100 può ottenere 6.7 punti di vantaggio nei test sul suo collega di Reggio Calabria diplomatosi con 100. Un furto, anzi, una rapina a mano armata è quella di coloro che in questi anni hanno fomentato la rivolta contro le scuole del sud, nelle quali, si è detto e scritto, che i professori sono di manica larga. Il sud subisce una nuova ingiustizia, perché le accuse sono totalmente false. I ragazzi meridionali sono semplicemente più bravi. In fondo, a pensarci, eè lo stesso ministro che lo riconosce, visto che è costretto a dare l’aiutino agli altri per farli partecipare alla partita. Solo che qui, in ballo, c’è il futuro e col futuro non si scherza, altrimenti resteremo, come succede da secoli, bravi, ma sfortunati".

È stato approvato nella tarda mattinata dello stesso  9 settembre 2013  il decreto sulla scuola del ministro Maria Chiara Carrozza. Nella conferenza stampa che si è tenuta subito dopo il Consiglio dei ministri che ha dato il via libera al testo, la Carrozza, il premier Enrico Letta e gli altri ministri interessati dal decreto hanno illustrato il contenuto del provvedimento. La parte più attesa e importante del decreto è l'abolizione del cosiddetto "bonus maturità", vale a dire il sistema di assegnazione di punti extra attribuiti agli studenti che si sono diplomati con un voto superiore agli 80/100 e non inferiore all'80esimo percentile della distribuzione dei voti della propria commissione d'esame nell'anno scolastico 2012/13. Questo significa che già dalla sessione di test di ingresso attualmente in corso non si deve più tenere conto del punteggio di diploma per valutare l'esito delle prove. Letta: ''Via subito bonus maturità''. "Abbiamo deciso di accelerare l'eliminazione del bonus maturità, perché così creava delle disparità che non potevano funzionare", annuncia il premier Enrico Letta in conferenza stampa, al termine del Consiglio dei ministri”.

IL BONUS DELLO SCONTENTO. Oramai è chiaro a tutti: tabelle dei percentili alla mano, il bonus maturità non premia i più bravi. O almeno non sistematicamente. L’eredità lasciata da Profumo al Ministro Carrozza non basandosi su criteri meritocratici non solo ha seminato il malcontento ma ha dato vita ad una situazione peggiore rispetto a quella temuta da chi credeva che questa novità avrebbe finito per avvantaggiare gli studenti del Sud rispetto a quelli del Nord. In realtà il caos generato è ben più profondo: la disparità non ha confini regionali e fotografa un’Italia unita sì, ma nel caos più totale. La colpa è tutta del fatto che il calcolo del voto in percentile prevede che per ottenere il massimo uno studente debba prendere un voto che sia stato superato solo dal 5% dei maturandi della sua scuola dell’anno precedente. In poche parole se in un istituto per ottenere tutti  e dieci i punti di bonus potrebbe addirittura non bastare prendere cento (perché i professori sono di maniche troppo larghe o perché l’anno prima si sono diplomati studenti molto validi, chi può dirlo…) in un altro con poco più di ottanta si ottiene lo stesso risultato senza problemi.  Insomma essere bravi in una scuola di bravi non paga, conviene essere discreti in una scuola di mediocri. Dati alla mano, però, ad alcuni studenti, in media, andrà peggio che ad altri. Stando ai calcoli elaborati da Repubblica.it, infatti,  il danno non colpirà tutti allo stesso modo. I più penalizzati saranno i ragazzi del classico a cui, sempre facendo riferimento alla media, servirà un bel 99 per ottenere 10 punti, mentre per quelli dello scientifico basterà un 97 e per i maturandi degli istituti tecnici sarà sufficiente un 91. Non solo, gli iscritti alle scuole paritarie avranno un bel vantaggio rispetto ai loro colleghi degli statali: i primi dovranno mirare all’89, i secondi al 94.

NON SI RIESCE A COMPRENDERE CHE NON E’ IL VOTO CHE CONTA, MA LE PRASSI PER IL SUPERAMENTO DI ESAMI DI STATO E CONCORSI PUBBLICI. PRASSI CHE LI TRUCCA.

MERITOCRAZIA. IN UN ALTRO MONDO, FORSE. UNIVERSITA’. COSI’ SI ACCEDE AL NUMERO CHIUSO. L’APOTEOSI DELL’INETTITUDINE E DELL’INCAPACITA’.

Università. Così si accede al numero chiuso.

Gli oltre 84mila aspiranti medici che il 9 settembre 2013 hanno affrontato il test d'ingresso sono entrati in aula quando la prova era caratterizzata dal «bonus maturità», e ne sono usciti quando le regole erano già cambiate, scrive Gianni Trovati su “Il Sole 24ore”. Basta questo a mostrare il forte rischio che la decisione del Governo di cancellare il «bonus» anche per le prove di quest'anno possa produrre un mare di carta bollata. Secondo il ministero, però, tenere fermo il punto e rimandare la riforma avrebbe potuto aprire varchi a un'ondata di ricorsi ancora maggiore: la chiamata al Tar, del resto, è compagna abituale delle prove di ammissione alle facoltà a numero chiuso, e la zoppicante vicenda del bonus maturità ha finito per moltiplicare gli annunci di ricorsi sia nel momento della sua introduzione, sia in quello della sua cancellazione. Di passaggio in passaggio, la vicenda si è appesantita di complicazioni crescenti, che ne hanno reso impossibile una gestione ordinata e inevitabile un esito problematico. La «valorizzazione della qualità dei risultati scolastici ai fini dell'accesso ai corsi universitari», nome burocratico del bonus maturità, nasce ufficialmente nel gennaio 2008, con il decreto-Fioroni (Dlgs 21/2008) che prevede di distribuire 10 punti in base ai voti ottenuti dagli studenti negli ultimi tre anni delle superiori e nell'esame di maturità. Il decreto raccoglie in questo modo una discussione in atto da anni, alleggerisce la valutazione rispetto a progetti iniziali che pensavano di attribuire al curriculum scolastico fino a 25 punti, ma non riesce a imboccare la strada dell'attuazione: a fermarlo sono le troppe variabili che entrano in gioco all'esame di maturità, quando da un istituto all'altro e da una città all'altra preparazioni simili sfociano in voti anche molto diversi fra loro. Presenza fissa nei decreti «milleproroghe» che ad ogni fine d'anno fanno slittare una serie di scadenze sparse qua e là nelle leggi rimaste lettera morta, il bonus maturità era stato rilanciato dal Governo Monti, ma il suo ritorno in campo ha spinto i test di quest'anno in un ginepraio di modifiche in corso d'opera. Per limitare gli effetti dei diversi gradi di "generosità" nelle valutazioni dei singoli istituti, il bonus "risorto" si basava sul meccanismo dei «percentili», attribuendo 10 punti solo al 5% di studenti "migliori" di ogni istituto, riservando 8 punti al 5% attestatosi appena più in basso e così via, fino a negare il bonus agli studenti esclusi dal 20% più "brillante". Anche così, il meccanismo è stato sommerso di critiche, e proprio nei giorni di chiusura delle iscrizioni ai test secondo il vecchio calendario, che prevedeva esami a luglio e classifica nazionale a settembre, l'allora neo-ministro Maria Chiara Carrozza ha deciso il primo stop dando il via alla ristrutturazione del premio. A giugno è stata preparata quindi la seconda versione del bonus, che ancorava la distribuzione dei punti ai voti distribuiti dalle singole commissioni della maturità, ma nemmeno questo sistema di ponderazione è stato giudicato in grado di reggere alla prova dei Tar. Si arriva così al terzo cambio in corsa, annunciato ieri mentre si svolgeva il test di medicina. Anche così, però, i giudici amministrativi non rischiano certo di restare inattivi, perché potranno essere chiamati in causa da due schiere di studenti: quelli che lamenteranno l'esclusione a causa dell'addio a una regola su cui avevano fatto "affidamento", ma anche quelli che sosterranno di non aver affrontato il test perché scoraggiati dalla presenza di un sistema di valutazione poi tramontato prima di nascere.

2013 E' stato un vero assalto. Sono arrivati in oltre 84mila a affrontare i test per l'ammissione alla facoltà di medicina e odontoiatria nelle università statali. Gli iscritti ammontano a 84.165 (ma i paganti a 74.312) per 10.771 posti disponibili. Circa uno su sette. Un numero decisamente in crescita rispetto all'anno 2012, quando i partecipanti furono 68.426 per 10.714 posti. Domande bizzarre al test di medicina. Chi ha scritto «El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha»? Panico tra gli studenti. Poi, l’illuminazione, almeno per qualcuno: è il titolo - originale, in spagnolo - del Don Chisciotte. E quindi la risposta è (quasi per tutti) immediata: Cervantes. Scene dal test di Medicina, che lunedì 9 settembre 2013 ha portato 75 mila ragazzi a cimentarsi con i famigerati quesiti a risposta chiusa nella speranza di accedere a quei circa 10 mila posti nelle università italiane, scrive “Il Corriere della Sera” . Telefono nelle mutande e bigliettini accuratamente nascosti tra i fazzolettini di carta, tra gli studenti alle prese con la prova c’era anche Daniele Grassucci, di Skuola.net, che ha pubblicato pure una foto on line di alcune domande, tanto per dimostrare come alcuni quesiti di logica fossero davvero così lunghi e intricati da sembrare fatti apposta per sviare l’attenzione dei candidati: «Coltivare piante non autoctone per abbellire i propri giardini è diventata una pratica piuttosto comune. Molte di queste specie sono costose, richiedono trattamenti speciali e sono spesso soggette a parassiti e malattie. Esistono molte piante selvatiche autoctone che sono perfettamente adatte alla crescita in vaso o nei giardini delle case, non richiedono trattamenti speciali e spesso sono altrettanto belle rispetto alle piante provenienti dall’estero. Si dovrebbe quindi cercare di coltivare un numero maggiore di piante autoctone selvatiche nei propri giardini. Se considerata vera, quale delle seguenti affermazioni rende più forte l’affermazione precedente?». Quasi più intricato del «problema della massaia» che deve scegliere quante confezioni di prosciutto comprare, solo dopo aver valutato attentamente quanti grammi ne mangiano i figli al giorno e dopo quanti giorni il prosciutto sarà scaduto. Dall’organizzazione al cui vertice Christine Lagarde ha sostituito Dominique Strauss Khan (il Fondo monetario internazionale) alla corrente filosofica del dato sensibile (l’empirismo), anche quest’anno gli ideatori dei quiz hanno mostrato fantasia sbizzarrita e un pizzico di ironia. Qual è il percorso più veloce per andare in ufficio, quello breve con molti semafori o quello lungo con pochi semafori? E se c’è da accoppiare una città con un museo, l’Ermitage si attribuisce a Parigi, come il test suggeriva ingannevolmente, o a S. Pietroburgo, com’è nella realtà? Se crescendo il benessere si è più infelici, allora il denaro rende felici oppure no? E, dopo la logica, spazio all’immunologia («il tetano resiste agli antibiotici?»), alla neurologia («Quali sono le funzionalità dei nodi di Ranvier»), alla chimica («Quali sono le componenti del glicogeno?») passando per la fisica, con la «forza di Lorentz», che non è quella di un ragazzo muscoloso, ma la forza che si sviluppa tra un campo elettromagnetico e un oggetto elettricamente carico. Tra l’applicazione di un teorema di Pitagora e le probabilità di vincere giocando a dadi, passando per una funzione da ricavare in delta, i candidati si sono trovati persino di fronte ad una domanda che sosteneva che, secondo uno studio americano, «le domande a scelta multipla non danno agli studenti la possibilità né di pensare in maniera logica indipendente né di presentare le loro argomentazioni coerentemente in maniera scritta». Forse un sottile, sadico tentativo – dopo aver provato invano con la meccanica orbitale, le ossidoriduzioni e il bilancio stechiometrico – di scoraggiare i meno motivati.

I RISULTATI, POI, SONO QUESTI.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana, scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”.

«...Punto! Due punti!! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Al di là del merito e della torpida sostanza giuridica, ho letto le motivazioni dell’ormai mitica sentenza Mediaset. E, grammaticalmente, la prim’immagine evocatami (ci perdoni il presidente della sezione feriale di Cassazione, ma essendo appassionato del teatro di Scarpetta, comprenderà) è stata quella della dettatura della lettera di Totò a Peppino, gli altrettanto mitici fratelli Capone. Dunque. M’immaginavo il presidente Antonio Esposito, il quale, accalorato, la toga stropicciata, il succoso accento napoletano, si alza e osservando verso l’alto il punto di un immaginario sestante, detta ai consiglieri De Marzo Giuseppe e Aprile Ercole mollemente assettati roba: «Veniamo noi con questa mia addirvi...». E questo è il prologo immaginato. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183, la parte più dadaista: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio? Possibile che in natura vi siano tante attrazioni del relativo da sembrare un trenino erotico?  La prosa della Cassazione è frullo, velocissimo, di anacoluti. E qui m’immagino i consiglieri De Marzo e Aprile che si fermano un attimo, riprendono il fiato; si girano appena ad osservare il presidente Esposito che sembra dire: «Hai aperto la parente? Chiudila...»;  e poi si rimettono, in apnea, testa bassa, a vergare: «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, da quel fango ribollente di parole, perle tautologiche tipo «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..»: roba che, letterariamente, in passato poteva   comportare anche una rottura degli schemi e dei generi, come insegnavano Italo Calvino, Céline o Ambrose Bierce (privilegiati qui rispetto ai pandettisti Calamandrei, Rocco, o a Pisapia padre...).  Per non dire, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, del vorticoso intreccio dei «siffatto contesto normativo», degli «allorquando», degli «in buona sostanza», che rendono -come dire?- un tantino accidentata la lettura. Prendete la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Uno dice: per forza non capisci un tubo, è linguaggio giuridico. Il problema è che io ho fatto giurisprudenza, specializzato nel diritto processuale. Alla serie di termini linguistici accostati in modo più o meno ordinato o anche in modo caotico e senza un percorso strutturale, dovrei esserci abituato. Ripeto: non entro nel merito della sentenza. Eppure qui, per vapore sintattico, mi tornano sempre in mente Totò e Peppino. Il fatto è che, quasi tutti i giudici non sanno  -o non vogliono scrivere - in una forma comprensibile. Montesquieu,  nel libro diciannovesimo dell’Esprit des lois,  ammoniva: «Le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; non sono espressione dell’arte della logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia». Le leggi dovrebbero essere capite anche dalla cuoca di Lenin, o dalla casalinga di Voghera. Eppure con la scusa del «gergo» si compiono le peggiori nefandezze grammaticali. Scrive il docente Stefano Spele nel suo saggio  Semplificazione del linguaggio amministrativo: «La scarsa attitudine a scrivere in modo chiaro è stata favorita, anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Oscurare il linguaggio serve ad oscurare le responsabilità». Vero. Spesso è la responsabilità dei magistrati. Non è questo il caso, naturalmente, caro dottor Esposito. Chiusa la parente.

Vede finalmente la luce un’opera monumentale che colma una lacuna nel mondo della linguistica. È un progetto che ha visto impegnato un team composto dai maggiori esperti del settore e grazie al quale potrà essere tradotto un documento rimasto fino a oggi non decifrato: la sentenza Berlusconi, scrive Giuseppe Pollicelli su “Libero Quotidiano”. La soddisfazione di uno degli studiosi: “È stata durissima ma ce l’abbiamo fatta, ora mi potrò rilassare dedicandomi all’etrusco e al rongorongo”. Di seguito, in esclusiva per i lettori di LiberoVeleno, alcuni dei lemmi resgistrati dal vocabolario Espositese-Italiano.

Ammariuca. Da pronunciarsi ponendo l’accento sulla lettera u, questo sostantivo dall’etimologia sconosciuta non trova riscontri al di fuori dell’espositese: indica infatti un’assoluta idiosincrasia nei confronti della lingua italiana e un’insormontabile difficoltà nel parlarla.

Chiavicazzone. Epiteto ingiurioso che in espositese si rivolge a chi commetta un’ingenuità o una leggerezza. Quando ha trovato sul Mattino le sue considerazioni sulla condanna al Cavaliere, Antonio Esposito ha esclamato a gran voce: “Songo ’nu chiavicazzone!”.

Ditalende. Sostantivo femminile che si usa solo al plurale. Le ditalende sono le preoccupazioni e i grattacapi che possono derivare a un individuo dalle condotte discutibili del parentado. Un figlio magistrato che organizzi cene a lume di candela con un’imputata assai nota alle cronache può essere cagione di ditalende.

Fracuzzella. Indica un particolare stato d’animo, simile alla rabbia e alla stizza, che coglie taluni ogni volta che s’imbattono nella persona o anche solo nel nome di Silvio Berlusconi. Se il giudice Antonio Esposito pronuncia la frase “Tengo ’na fracuzzella tanta”, vuol dire che è meglio girargli al largo.

Manzaccio. Aggettivo che si adopera a proposito di un individuo infido, sleale, subdolo. Quando nomina il cronista del Mattino con cui ha intrattenuto la famosa conversazione telefonica, Antonio Esposito non manca mai di dire che “Chillo là nun è solo malamente, è ’nu vero manzaccio!”

Scianfroglia. Con questo vocabolo ci si riferisce alla speciale capacità, sviluppata e affinata soprattutto dagli abitanti di Sarno e dei paesi limitrofi, di distinguere con sicurezza l’uno dall’altro tutti i numerosissimi membri della famiglia del giudice Esposito, compresi i cugini di quarto grado.

Tangolicchiare. Prodursi in piccoli e ripetuti sorrisini allorché si viene a conoscenza di una notizia che prelude all’esito fausto di una determinata vicenda. Si tangolicchia, per esempio, se si apprende che la Procura generale della Cassazione può impiegare fino a un anno per ascoltare una tua telefonata compromettente della durata di pochi minuti.

Voccallocca. Atteggiamento disinvolto, non di rado sconfinante nell’istrionismo e nella sfacciataggine, che si assume durante una festa o una cena tra amici e che induce a parlar male pubblicamente di Silvio Berlusconi auspicandone la condanna nei processi penali.

Non solo errori grammaticali. La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano.

Sono illeggibili, segno di ridotta attenzione nei confronti di chi è condannato. Invito ad usare il computer, scrive Bruno Ventavoli su “La Stampa”. Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici. La singolare sentenza (numero 49568/09) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa. Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani. Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.

LE TOGHE IGNORANTI.

Le toghe ignoranti, scritto da Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Pochi giorni fa, il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega come. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame (vedi servizio a pag. 35). Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile scorso. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DEI PROBLEMI DELLA SCUOLA, DELLA SCUOLA SENZA CONTROLLO E DELL’ASSEGNAZIONE DELLE CATTEDRE. GIUSTO PER DIRE: CHI INSEGNA A CHI?

Un ispettore ogni 13 scuole in Gran Bretagna, uno ogni 22 scuole in Francia, uno ogni 2.076 scuole nel Lazio, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Bastano tre numeri per capire quanto il nostro sistema scolastico sia fuori controllo e come l'autonomia sia stata vissuta come «tana libera tutti». Lo denuncia un dossier di Tuttoscuola . Che lancia sei idee per cambiare tutto. A partire dalla rottura del vecchio patto scellerato «ti pago poco, ti chiedo poco» per passare a un altro: «ti do di più, ti chiedo di più». Che l'autonomia sia una cosa seria non si discute. Anzi, gli esperti concordano nel ritenere che proprio un'ampia autonomia dovrebbe spingere le scuole a assumersi più responsabilità. Fino a essere costrette a migliorare la loro offerta agli studenti e alle famiglie per poter essere «competitive» in un mondo in cui il «pezzo di carta» di per sè è sempre meno importante. Il guaio è che la concessione di un'autonomia sempre più larga a partire da 2000 col riconoscimento anche della parità alle «non statali», denuncia Tuttoscuola, doveva essere parallela a un aumento dei controlli. È successo il contrario. «Prima» c'erano in organico 695 «ispettori», oggi 301. Solo sulla carta, però. In realtà, a causa di circa 200 vuoti, sono solo un centinaio: «In intere regioni, con centinaia di istituzioni scolastiche e migliaia di insegnanti, opera a volte un solo ispettore». Come nel Lazio, appunto, dove il poveretto, contando non solo gli istituti centrali ma anche le «dependance», dovrebbe vigilare su 4.603 scuole. E poi ci sono due ispettori a disposizione dell'ufficio scolastico regionale in Piemonte, uno in Liguria, uno nelle Marche, neppure uno in Toscana. Zero carbonella. C'è chi dirà che si possono sempre inviare per un'ispezione dei dirigenti scolastici investiti volta per volta del ruolo. Sarà...Restano i buchi, però. Aggravati dai tempi biblici con cui è stato avviato il rammendo: «Il concorso per reclutare nuovi dirigenti tecnici (con funzioni ispettive) è stato bandito quasi sei anni fa per coprire 144 posti vacanti, ma si è concluso solo nella primavera di quest'anno con circa 70 vincitori, che però non sono stati ancora nominati. Si parla della prossima primavera... E nel frattempo sono diventati vacanti per pensionamento altre decine di posti». Non bastasse, quel concorso ha avuto una grandinata di ricorsi per il sospetto che abbiano vinto «amici degli amici». Auguri. Una domanda emerge angosciante dalla lettura del dossier, che ricorda storture inaccettabili sui deficit di qualità e di equità («come spiegare che a Milano solo un maturando su 381 è valutato meritevole di lode, e a Crotone uno ogni 35?») e la necessità di una dura lotta all'abbandono scolastico. Quanto potremo resistere tra i Grandi con il 65% degli italiani tra i 16 e i 65 anni con livelli di «competenze funzionali effettive» valutate «fragili» o addirittura «debolissime»? Mentre sta rimettendosi a girare il pianeta scolastico, al quale Corriere.it dedicherà un «Canale Scuola» quotidiano, la rivista di Giovanni Vinciguerra lancia, accanto alle denunce, sei idee «un po' rivoluzionarie» per cambiare «una scuola dove si è sballottati da una sede a un'altra, dove è riservato lo stesso trattamento a chi lavora duro e con passione e a chi ha la testa altrove, dove si guadagna tutti una miseria» e «dove la carta igienica e quella per le fotocopie le portano i genitori».

Primo: basta con le scuole «chiuse agli studenti per molte ore al giorno durante i periodi di lezione e per mesi interi al di fuori». È uno «spreco enorme». Gli spazi scolastici potrebbero restare aperti al pomeriggio e anche fino a fine luglio per offrire agli studenti «servizi aggiuntivi» che oggi le famiglie pagano ai privati: dalle lezioni di musica ai «summer camp», dai corsi di lingue alla ginnastica artistica. Organizzandoli in proprio, grazie ai dipendenti che ne ricaverebbero più soldi in busta paga, o affidandoli a privati dietro precise garanzie. Certo, occorrono elasticità e fantasia, ma non solo le scuole potrebbero ricavarne fondi da reinvestire ma «si sbroglierebbe anche l'inaccettabile matassa dei precari».

Secondo: per recuperare risorse servono tagli «chirurgici». Esempio? Ci sono 10mila «microscuole» primarie con meno di 50 alunni, «che costano in termini di personale il doppio delle altre (fino a 8 mila euro per alunno, contro i 3.500 euro di una scuola standard con 100 alunni)». Guai a toccare quelle in montagna e nelle piccole isole: sono sacre, anche a costo di rimetterci. Ma tantissime «sono lì spesso per motivi di campanile». I risparmi sarebbero «reinvestiti in spesa "buona", a partire da edilizia, banda larga, laboratori, palestre».

Terzo: occorre «liberare e premiare le energie degli insegnanti. Sono loro che "fanno" la scuola. Certo, guadagnano poco. Il 10-15% in meno della media dei colleghi europei. Ma riallineare la retribuzione per tutti costerebbe oltre 3 miliardi di euro l'anno. Troppo per l'Italia di questi anni». Ma «allora concentriamo le risorse e gli sforzi per premiare chi vuole dare di più» rompendo con «la carriera dei docenti legata solo all'anzianità di servizio».

Quarto: guerra agli abbandoni con «corsi di recupero obbligatori e sistemi di incentivi e disincentivi d'intesa con le famiglie. Per esempio: se non hai concluso l'obbligo scolastico non puoi comprare/guidare il motorino o partecipare a programmi sportivi del Coni». Perché non possiamo più permetterci di avere «il 20% dei nostri 18-24enni in possesso al massimo della licenza media».

Quinto: più autonomia, ma anche più controlli, più trasparenza nei conti e «una rigorosa valutazione dei risultati» che premino le scuole virtuose e si spingano con quelle che non raggiungono determinati standard «fino alla chiusura», come accade in America.

Sesto: «digitalizzazione delle scuole (per tutti)». Non è accettabile che l'Italia abbia in totale solo 14 scuole statali «2.0», cioè digitalizzate, su oltre 9.000. Né che ci siano soltanto, citiamo il Rapporto «Review of the Italian Strategy for Digital Schools» voluto da Francesco Profumo, 6 Pc ogni 100 studenti contro i 16 europei e il 6% delle scuole altamente digitalizzate contro il 37% del resto d'Europa. Insomma, «la scuola digitale può offrire un grande contributo al cambiamento del Paese, ed è un treno che non può essere perso».

Per il concorso 2012 i precari della scuola hanno dovuto aspettare quasi 15 anni. Il consiglio dei ministri ha dato il via libera per la nomina di 11.268 nuovi docenti per l’anno scolastico 2013/2014. La normativa vigente prevede che le assunzioni vadano effettuate per metà dalle graduatorie del concorso, e per il restante 50% dalle graduatorie "permanenti", le cosiddette Graduatorie ad esaurimento (GaE), per cui le ultime stime parlano di oltre 200mila iscritti. Al Concorsone, dunque, spettano poco più di 5500 posti. Peccato, però, che i posti non sono stati assegnati. E la normativa parla chiaro: o le graduatorie vengono rese definitive entro il 31 agosto 2013, oppure potranno essere utilizzate solo negli anni scolastici successivi. Secondo la legge, per il 50% di posti destinati al concorso, in caso di indisponibilità delle graduatorie si deve risalire alle giacenze delle selezioni precedenti (quella del ’99, o addirittura del 1990); in ultima istanza, si passa alle graduatorie ad esaurimento. Ed è questo quanto accadrà.

Ergo, il concorsone diventa un calvario per i vincitori. Anzi, c’è chi ammette che il concorsone è inutile al fine di valutare la capacità ed il merito degli insegnati.

Caro ministro, io il Concorsone l’ho fatto. Era inutile, scrive Christian Raimo.

Gentile Ministro Carrozza,

nelle settimane passate mi è venuto in mente varie volte di scrivere questa lettera, e il motivo era simile al tono che avrei usato: una rabbia diritta ed emetica. Ma per una serie di ragioni, anche personali, ho pensato di provare a usare un tono pacato e dialettico e a mettere in discussione alcuni presupposti invece di trasformare subito il ragionamento in uno sfogo, seppure, per molti versi, sacrosanto.

Le voglio parlare del concorso. Il concorsone, quello che ha coinvolto centinaia di migliaia di docenti. Compreso me. Gliene parlo da una posizione disagevole. Siamo ai primi di settembre e, per quanto mi riguarda, non so come è andata: ossia non so se sono uno dei fortunati 11.000 e passa che avrebbero dovuto entrare di ruolo di quest’anno. O meglio, diciamola così, so per certo che non entrerò di ruolo quest’anno, ma potrei aver vinto il concorso. In quanto ho partecipato alle preselezioni dove ho totalizzato 44/50, ho passato lo scritto (con 38/40) e l’orale (con 40/40) e quindi forse potrebbe essere mio uno dei 26 posti della classe A037 – filosofia e storia – messi a bando dalla Regione Lazio, con cui ho concorso con all’incirca mille persone iniziali, anche forte del fatto che ho una laurea con 110 e lode e un’abilitazione ottenuta con la SSIS con votazione 97/100, ho qualche pubblicazione (che ancora non so se mi è stata valutata e come), e nonostante non abbia invece né dottorati né master né altre abilitazioni.

Ora, dunque, pur avendo fatto uno splendido concorso, e avendo accettato dunque tutte le regole del caso, io sono giunto a una conclusione praticamente identica al pregiudizio che avevo quando concorso è stato indetto dal suo predecessore, il ministro Profumo: questo concorso è inutile, è stato inutile, per certi versi è dannoso, per la sostanza e per il modo in cui si è svolto. Cosa me lo fa pensare? Io non sono un insegnante migliore di molti che hanno concorso con me, e non lo dico per modestia – falsa o vera che sia –, lo dico invece perché da una parte, facendo l’insegnante anche se solo da cinque anni, ho una certa capacità di autovalutazione, e dall’altra perché penso che i metodi di selezione siano stati totalmente sballati. Io sono stato un bravo concorrente, ho capito quello che di scaltro potevo fare per andare bene al concorso e l’ho fatto, prendendo voti alti – ma questo quasi non ha nulla a che fare con la mia capacità didattica né con la mia preparazione.

Partiamo dalla prova preselettiva: moltissimi miei colleghi si sono preparati per mesi sui test di logica e logica matematica, anche su quei libri da 45 euro che le case editrici di test avevano tirato fuori per l’occasione; io no. Persone con una capacità didattica innegabile, una professionalità indiscutibile non sono passate, io sì. Da bambino ero un nerd appassionato di Settimana Enigmistica che faceva i quiz del Mensa Test; molti miei colleghi no. Anche, parlo per quelli che conosco, persone che insegnano da vent’anni, che sono giustamente amatissime dai loro studenti, o che hanno un contratto all’Università per insegnare Storia della filosofia – insegnanti migliori di me, anche solo per l’esperienza accumulata. I quiz erano di una elementarità disarmante per certi versi, ma lo erano soprattutto per chi è abituato a ragionare in quel modo. Ho proposto quei quiz ai miei studenti, la percentuale di quelli che l’hanno passato è stata superiore alla percentuale (35%) dei docenti che hanno superato le preselezioni: cosa dovrei concludere che i miei adolescenti di uno scientifico sono dei potenziali insegnanti migliori di coloro che magari hanno vent’anni di pratica o che magari sono proprio i loro insegnanti?

Veniamo allo scritto. Per la mia classe si trattava di un compito di filosofia e uno di storia con quattro risposte aperte a materia, per rispondere alle quali si avevano venti righe a domanda e cinque ore in tutto. Forse la parte meno insensata della selezione – anche se con alcuni elementi di grande ambiguità. Non si capiva da nessuna parte come dovevamo effettivamente prepararci, ossia dovevamo farci un’ammazzata modello Trivial Pursuit su tutto lo scibile (comprese parti che mai abbiamo insegnato e non insegneremo mai, tipo storia romana e storia greca) oppure prepararci sulla didattica delle nostre materie? Dovevamo studiare solo le discipline oppure anche tutta la parte di amministrazione della scuola, storia della scuola, diritto complementare e che molti miei colleghi avevano schematizzato generosamente a partire dai comodi manuali comprati anche questi a 45 euro l’uno? Io non mi sono preparato, ho svolto bene la parte di filosofia – perché mi sono capitati argomenti che sapevo e che tratto in classe e su cui ho presente riferimenti bibliografici –, mentre ho scritto banalità o errori su domande di storia su non ho mai fatto né farò mai lezione (la Grecia del V secolo a.C. e l’Islam dell’VIII secolo). Ma soprattutto credo “di aver imbastito bene”, come si dice tra noi giovani docenti di 40 anni. Ossia ho utilizzato al massimo la mia capacità di articolare discorsi anche su argomenti che padroneggio magari non tanto. A differenza di molti miei colleghi che avevano passato mesi a studiare filosofi minori, a ripetersi date di storia, a citare articoli a memoria sulla formazione degli organi collegiali, sono stato premiato. Non c’è stata nessuna domanda sulla giurisdizione scolastica: i mesi che i miei colleghi avevano impegnati a studiarsela sono stati inutili.

L’orale è stata una replica in peggio dello scritto: non era chiaro per nulla su che cosa potevamo essere interrogati, né come. Nelle nostre competenze, come si dice, avremmo dovuto essere dei super-esperti di valutazione, ma al tempo stesso avevamo nostro malgrado un’idea confusissima di come saremmo stati valutati. L’esame si svolgeva in questo modo: il giorno x si andava a estrarre una traccia tematica su cui si sarebbe dovuta approntare in 24 ore un’unità didattica da esporre il giorno successivo appunto davanti alla commissione. Per la nostra classe di concorso, si potevano estrarre cose tipo Il contratto sociale di Rousseau o Il sistema feudale o La teoria del tre stadi di Comte… Ci si ritrovava dunque, padri e madri e divorziati e ingrigiti e stempiati (una media anagrafica di 40 anni) proiettati all’indietro di vent’anni come davanti a una sessione universitaria o a una maturità. Ci si chiedeva: come la valuteranno questa prova? Si può usare il computer? Si può usare la lavagna elettronica? Si deve usare il computer per mostrare le slide in powerpoint? Si deve usare la lavagna elettronica, e quale software? Si deve parlare dei ragazzi con disturbi dell’apprendimento? Ci valuteranno sui contenuti o per la didattica? Devo studiarmi un po’ di pedagogia? Devo leggermi e prepararmi su cinque classici della storia della filosofia a scelta come pare a un certo punto fosse prevista da un’indicazione del ministero: mi interrogheranno su questi? La parte di giurisdizione della scuola la chiedono ora, visto che allo scritto non l’hanno chiesta? E la prova in lingua in cosa consiste: devo prepararmi una parte dell’unità didattica in lingua? E la parte di competenze informatiche: devo studiarmi qualche tipo di dispense? Quanto dura questo colloquio? Cosa possono chiedere: tutto il programma di filosofia e storia comunque? E chi sono queste persone che mi valutano? Da chi è composta questa commissione che in aule scalcinate con dei proiettori che a mala pena riescono a illuminare i muri ci stanno esaminando? Saranno utili questi altri comodi manuali da 45 euro l’uno che le case editrici di test hanno sparso a valanga nelle librerie? E i corsi on-line, che mi vengono proposti ogni giorno e mi spammano la mail probabilmente solo perché sono andato su internet a cercare informazione che non mi erano chiare sul sito del ministero, sono utili?…

Non sono domande pleonastiche. Erano le domande che ci siamo fatti, ansiosi io e i miei colleghi candidati, nei giorni precedenti al nostro esame, cercando come matricole imbecilli di andare a carpire qualche dritta, come dire, da coloro che sfortuna loro facevano l’esame prima di noi. Senza essere liquidatori, sta di fatto che eravamo tutti preparati male, anche per il semplice motivo che non si è davvero capito cosa voleva dire essere preparati bene. E le chiacchiere di corridoio prima o post-esame erano umilianti per noi stessi che le pronunciavano: “Gli devi imbastire”, “Gli devi fare una supercazzola”, “Me so arrampicato sugli specchi”… Come a un esame preparato in fretta all’università per non partire militare. Regrediti, vergognosi, un po’ umiliati ma non umili. E la colpa non era nemmeno degli esaminatori, che a quanto pareva avevano accettato quest’incarico con ancora meno indicazioni di noi e con una necessità di svolgerlo addirittura minore (che tipo di preparazione ad hoc gli è stata richiesta? quanto sono stati retribuiti?). Sfatti dal caldo, arresi a quella forma di fatalismo che è l’unica filosofia di vita che abbiamo imparato davvero tutti tra i banchi di scuola, la selezione per la classe dei docenti futuri si svolgeva così, con molta indulgenza reciproca, con qualche imprescindibile arbitrio. Nella mia commissione d’esame io ho ritrovato una professoressa che era stata la mia tutor alla SSIS: a suo tempo c’avevo litigato per questioni didattiche, cinque anni dopo ho dovuto sperare che si fosse dimenticata o non facesse valere un’irritazione postuma (così è stato, per fortuna) – ma mi sono anche chiesto insieme a miei ex-colleghi di SSIS: perché devo essere riesaminato da una stessa persona? Fatto sta che ho preso il massimo, dopo un colloquio cordiale. Non so se ho fatto un esame migliore degli altri, sicuramente so parlare in pubblico, sono disinvolto, e sono stato abile nel riportare tutta l’esposizione dei contenuti al profilo didattico; la cosa che ha fatto la differenza è che insegno da cinque anni e che ho – per quanto limitata – l’esperienza dello stare in classe.

In definitiva, e lo dico di nuovo con totale sincerità, non penso di essere un professore bravo. Penso di essere un professore medio che potrebbe diventare bravo. Come molti. E in un semplice modo: se invece di prepararsi per sei mesi in maniera scomposta e abbarbicata a questo concorso, avesse negli stessi sei mesi frequentato un solido, qualificante, obbligatorio corso di aggiornamento, in cui avrei potuto formarmi in maniera seria da un punto di vista pedagogico per esempio, avrei potuto cominciare a avere una formazione psicologica (cosa che nella scuola non è contemplata nonostante tutti i giorni abbiamo a che fare con ragazzi che questo tipo di competenza ci richiedono), avrei veramente magari capito come utilizzare alcuni strumenti informatici in modo utile alla didattica, etc… Tutto questo non è accaduto. Si è scelto di indire un concorso, che quest’anno metterà in ruolo un quinto? un ottavo? un decimo? dei vincitori. Sicuramente non me, anche se, Dio volendo, avessi vinto questo concorso: sicuramente non me perché la regione Lazio di fronte alla possibilità di valutare le prove entro il 31 agosto, data limite per l’assegnazione delle cattedre, si è chiamato fuori: ha detto Noi non ce la facciamo sicuro.

Dovrei essere, lo capisce bene, signor ministro, arrabbiato. Ma non lo sono, cerco di non esserlo. Vorrei parlarle da cittadino adulto a cittadino adulto, vorrei togliermi quell’aria da esaminato ansioso e scaramantico che ho tenuto per tutti questi sei mesi e che mi ha fatto sentire come se regredissi a un livello adolescenziale del mio essere cittadino – uno che cerca di svoltare, in definitiva, di elevarsi dalla palude dei suoi coetanei precari, di lasciarsi dietro gli anni di purgatorio lucrando un’indulgenza plenaria.

E vorrei dirle semplicemente che così non va. Che tutta la retorica della meritocrazia, della selezione, con cui è stato approntato questo concorso si è dimostrata sostanzialmente appunto retorica. Per non citare la funzione di propaganda politica che ha avuto per il governo Monti. Ma non voglio parlare di mala fede, buona fede, indignazione, come hanno cominciato a fare i giornali già dagli ultimi giorni. Repubblica titolava Il concorso si trasforma in una beffa, e raccontava in calce all’articolo storie surreali come quella di un docente molisano che ha vinto il posto ma che probabilmente, per la velocità delle immissioni in ruolo dovrà aspettare un paio di decenni. Un mio conoscente su facebook mi scriveva quest’altra storia paradossale commentando il bailamme del concorso: “A proposito di meritocrazia, la mia esperienza è questa. Faccio le supplenze nei primi anni novanta, poi nel 1999/2000 il concorso ordinario (discipline giuridiche ed economiche). Arrivo secondo in Sardegna nella mia classe di concorso, su circa 2000 aspiranti. C’erano 4 cattedre, per l’ordinario (2 date ai riservisti), una la prendo io. Ora, dopo quasi vent’anni (con la ricostruzione di carriera), ho perso la titolarità, sono diventato soprannumerario e quindi d.o.p., e vengo utilizzato ogni anno in una diversa sede, a disposizione. Cioè sto in sala professori e tappo i buchi. Che abbia vinto il mio concorso col punteggio più alto (il primo mi precedeva solo per l’età) non conta nulla. La legge prevede che possa essere trasferito ad altra amministrazione e, ove questo non sia possibile, messo in mobilità per due anni e poi licenziato. Le mie pubblicazioni e anche un’eventuale altra laurea contano un tubo”. Le potrei citare le lamentele legittimissime di tutti coloro che l’anno scorso hanno fatto un esame e poi hanno pagato duemila euro per frequentare un TFA, si sono abilitati, e quest’anno si ritrovano con un totale deserto davanti; le graduatorie chiuse, e la totale incertezza sul loro destino, il loro destino professionale rispetto al concorso. E questa è la normalità.

Però non voglio arrabbiarmi, perché vede, signor Ministro, non è mai stata mia la retorica della meritocrazia, anzi l’ho combattuta, ho cercato di seguire chi in questi anni – come Girolamo De Michele, Giuseppe Caliceti, Federica Sgaggio, Michele Dantini… per fare degli esempi – ha mostrato che dietro questa retorica si celino forme di valutazione più arbitrarie; ma invece di ribellarmi come ha scelto legittimamente di fare qualche mio collega sono stato pedissequamente alle regole e mi sono sottoposto a questo concorso. Questo è il risultato. Dunque, non voglio dire che avevo ragione a sbeffeggiare le interviste del ministro Profumo quando un anno e mezzo fa rivendicava questo concorso come uno dei successi più importanti del suo governo. Sicuramente non avevo del tutto torto, ma non voglio prendermela con lui, né con tutti quei governi – compreso questo – che dicono di mettere la scuola al primo posto e poi di fatto ne fanno strame… Non m’interessa più lanciare accuse, vorrei che da oggi questa modalità di gestire il mondo della scuola e dell’università cambiasse, vorrei che agli ex-provveditorati non ci fossero quelle scene da western a settembre quando si assegnano le cattedre i primi di settembre, vorrei poter diventare un insegnante migliore, più preparato, più capace, senza dover inventarmi ogni giorno io il modo e forse stufandomi di farlo per pigrizia o forse sbagliando per una qualunque presunzione o ingenuità.

E basta con qualunque retorica, i tablet in classe, la scuola 2.0, le meritocrazie, le tre I: servono soldi. Servono insegnanti pagati bene. Servono ispettori che abbiano gli strumenti per valutare e garantire l’offerta formativa. Servono corsi e corsi e corsi di aggiornamento. Servono tanti investimenti di lungo e periodo. Serve un piano di rifondazione della scuola in nome del quale chiedere tasse giuste, anche ad hoc. Non credo, e vorrò concordare, che si tratte di scelte politiche, ma come dire di scelte “biologiche”: è l’istinto di sopravvivenza ancora prima che quello di evoluzione.

Cordialmente, Christian Raimo 

Del perché ho deciso di non rispondere alle domande della prova orale del concorso docenti, scrive invece Gualtiero Bertoldi.

Sono appena tornato dalla prova orale del famigerato concorso docenti voluto dall’ex ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca Francesco Profumo. La prova consisteva in questo: preparare e presentare oralmente per 25-30 minuti una lezione su di un argomento estratto a caso dal candidato stesso il giorno precedente (nel mio caso appunto ieri), e rispondere quindi ad alcune domande di carattere generale (che potevano riguardare la lezione stessa o l’intera disciplina) della commissione. Si è trattata di una prova di breve durata, dal momento che mi sono presentato, ho consegnato alla commissione un elaborato contenente la lezione da me preparata e ho dichiarato, affinché venissero verbalizzate, le testuali parole: “Iniziamo, ma penso finiremo subito, dal momento che, per protesta nei confronti del concorso, ho deciso di non presentare questa lezione e di non rispondere alle domande. Tutto qua.”

Mi sono laureato in lingue e letterature straniere nel 2004, con un punteggio di 110; dopo un paio d’anni passati svolgendo vari lavori ho iniziato a insegnare nel 2006, con una supplenza della durata di un mese presso l’Istituto Comprensivo Statale “U. Floriani” di Recoaro Terme (VI). Al contempo ho frequentato l’VIII ciclo SSIS, accedendovi dopo aver superato l’annesso concorso statale (e che concentrava in una sola giornata due delle prove che, nel presente concorso, sono state situate a circa due mesi di distanza – ovvero il quizzone e la prova scritta riguardante la propria disciplina di studio). Conclusa la scuola (che prevedeva circa una dozzina di corsi e relativi esami nel giro di un anno e mezzo, con l’aggiunta di un paio di brevi tirocini), e superato un ulteriore concorso statale per ottenere il titolo finale (in questo caso l’esame, oltre a un colloquio riguardante una tesina preparata in precedenza, concentrava in 3 ore selezione di un argomento a caso e strutturazione di una lezione inerente lo stesso – quello che fra ieri e oggi ho avuto 24 ore di tempo per fare), ho ottenuto l’abilitazione con il voto di 72/80 e l’inserimento nelle famigerate graduatorie ad esaurimento. Da allora in poi ho sempre insegnato, con alterna stabilità, nelle scuole superiori di Padova, scalando poco a poco la graduatoria e vedendo svanire nel nulla, di volta in volta, le solite promesse dei gestori dell’istruzione pubblica che si sono avvicendati al ministero negli ultimi anni (li definisco gestori perché più che tagliare e comprimere, seguendo le direttive di altri ministeri, non sono stati in grado di compiere). A dicembre del 2012 ho preso parte al concorso docenti, superando la prova pre-selettiva con 41,5/50 e, a febbraio 2013, la prova scritta con 36/40. Oggi, giovedì 11 luglio 2013, invece di affrontare anche l’ultima prova orale, ho deciso di gettare un sasso contro una vetrina.

Ricordo alcuni dialoghi avuti con colleghi e amici nel novembre dello scorso anno, riguardanti l’indizione del concorso: come questo fosse uno specchietto per le allodole per distogliere da tutta una serie di questioni più urgenti (le mancate assunzioni, i pensionamenti rinviati, lo sfacelo di buona parte delle strutture edilizie, il continuo rinvio di un organismo di valutazione del sistema), come dividesse la categoria e azzerasse la (già bassa) solidarietà presente fra colleghi, dispersi su di una raggiera che spazia dal menefreghismo più ottuso al sindacalismo più convoluto e contorto, come andasse a duplicare inutilmente e con ulteriore dispendio titoli e competenze già acquisiti e verificati, e quali, infine, potessero essere le forme di protesta da mettere in atto per cercare di contrastare questo ennesimo sberleffo ad ampia risonanza mediatica nei nostri confronti. A conclusione di ogni discussione buttavo là, un po’ come boutade, un po’ come desideratum, che l’ideale sarebbe stato quello di passare tutte le prove, arrivare all’orale e, invece di rispondere, fare scena muta per protesta. Situazione che, alla fine, è effettivamente venuta a realizzarsi e che, mentre la stavo mettendo in atto, ovvero nella mezz’ora buona in cui la, per altro gentilissima, commissione cercava di convincermi a sostenere comunque l’esame, mi ha portato a pensare alla metafora del sasso e della vetrina.

La vetrina sono io, e il sasso è un sasso che ho, particella dopo particella, aggregato in fondo allo spirito in questi anni di insegnamento precario.

So benissimo che si tratta di una singola vetrina, e che, a fronte di altre centinaia rimaste intatte, non farà se non un rumore limitato, nessun danno visibile (a meno che non metta in conto quello che mi sono ipoteticamente autoinferto) e non cambierà nulla – esattamente come tutte le decine di manifestazioni in piazza alle quali ho partecipato negli ultimi anni. Solo, ho la consapevolezza di non avere accettato di superare un limite oltre il quale mi sarei personalmente sentito una testa di paglia, e sono comunque convinto di aver agito meglio sottraendomi a questo percorso che non seguendolo fino in fondo. È poco, ma è quello che, al momento, ho. Quello, e tutta l’aria che sta finalmente entrando dalla vetrina in frantumi.

PARLIAMO DEL CONCORSO PUBBLICO PER DIVENTARE DOCENTI.

C'erano una volta, una quarantina di anni fa ormai, i concorsi pubblici per diventare docenti, scrive Giuseppe Verde. Infatti i concorsi per docenti sono stati aboliti. Nozionistici e spesso scorretti nelle procedure, in sostanza non potevano fornire dei docenti adeguati alle nuove sfide della società complessa, ma solo tecnici aventi diritto, incapaci di comprendere la persona che sta dentro ogni studente. Nacquero così le SSIS: numero programmato, preselezione, due anni di approfondimenti e di formazione (didattica, pedagogia e psicologia), tirocinio ed esamone finale con valore abilitante e concorsuale. Centinaia di migliaia di giovani superdocenti, pluriabilitati, vennero sfornati dalle università italiane per diffondere la luce della didattica del nuovo millennio. Purtroppo, però, nessuno si rese conto del fatto che, per i primi tre\quattro anni di vita, le SSIS non fecero altro che riabilitare sic et simpliciter gli ex concorsisti, né che si stavano formando nuove graduatorie, parallele, certo (GaE, di terza fascia), ma pur sempre concorrenti alle vecchie (di prima fascia). Né nessuno si rese conto che le SSIS non bocciavano, non chiudevano, non negavano mai a nessuna facoltà una cinquantina di nuove abilitazioni all'anno. Il risultato? Una guerra fra centauri sparsi nelle diverse graduatorie, una guerra di venti anni, combattuta su una terra che nel frattempo diventava povera e sterile di lavoro, in uno Stato che non assumeva più nessuno. Precariato per l'una e per l'altra fazione. Finalmente, negli anni Dieci del nuovo millennio, la fazione degli ex concorsisti andava estinguendosi e i pensionamenti sembravano potessero aprire un varco: qualche guerriero torna a casa e le GaE scompaiono. E invece cosa si scopre? Le SSIS sono un fallimento! Gli specializzandi si sono tramandati per generazioni gli elaborati, i professori delle università hanno riproposto cose già stantie e le stesse assunzioni tramite le GaE sono incostituzionali. Quindi TFA: un anno stretto stretto di ex SSIS e poi concorsone, il tutto con procedure preselettive, selettive e accertative iperdrastiche, ovviamente sulla carta. Risultato? Parte il concorsone per coprire i pensionamenti (che però sono meno del previsto, e in alcune regione è un'ecatombe di cervelli), e vi possono accedere tutti: i semplici laureati, gli ex concorsisti ancora precari, gli abilitati SSIS, ma non gli abilitati TFA. Durante le procedure, il caos, ci vorrebbe un articolo a parte per raccontare tutto! Per quello che riguarda il nostro discorso, poche decine di posti per migliaia di aspiranti, molti dei quali già aventi diritto, in un modo o in un altro. Gli altri? Futuri aventi diritto. Infatti il concorso non prevede graduatorie, si assume in base ai posti messi a bando, ma di fatto è abilitante, quindi se ne assumono 10 ma se ne possono abilitare altri 1000 (è questa l'opinione dei disinteressati sindacati che già parlano di graduatorie di merito triennali), senza che abbiano frequentato né SSIS né TFA, ma solamente avendo studiato da autodidatti. Intanto i TFA si concludono, e cosa chiedono allo Stato gli abilitati? Il secondo concorso che era stato loro promesso? No, quello di entrare nelle GaE, cioè fregare i sissini, acquisendone gli stessi diritti, ma con un anno in meno di sacrificio (economico e psico-fisico). Del resto molti TFA sono anche ex sissini, quindi? tutto torna, o quasi. Sì, perché in Italia ci sono anche le graduatorie di Istituto, quelle dei tappabuchi e degli incapaci ovvero quelli secondo cui il lavoro è un diritto a prescindere dal merito. Gente che oltre all'esame di laurea non ha mai superato nessuna preselezione né acquisito nessun titolo. Lavoratori onestissimi (quasi tutti), per carità, ma che evidentemente sono frutto della trascuratezza\corporativismo del sistema italiano, perché un sistema serio, con migliaia di abilitati a spasso, avrebbe dovuto sfruttare\valorizzare loro piuttosto che permettere a gente senza qualifica di svolgere un lavoro per il quale è richiesta un'abilitazione professionale. Ebbene costoro, in base a una normativa europea, che evidentemente non tiene conto delle anomalie italiane (perché impensabili in un normale paese civilizzato), hanno diritto ad essere automaticamente abilitati dopo tre anni di lavoro a scuola: nascono, quindi, i PAS. Ottantamila o forse più baldi\blandi intellettuali che, senza essersene mai fregati gran che di quello che accadeva nel mondo, accontentandosi di quello che cadeva dal cielo, senza superare nessuna preselezione, senza nessun presumibile sforzo intellettuale e a prescindere dalla loro preparazione, tra un anno avranno in tasca lo stesso pezzo di carta e quindi gli stessi diritti dei TFA, che nel frattempo, quasi sicuramente, avranno ottenuto gli stessi diritti delle SSIS, che a loro volta avevano ottenuto gli stessi diritti dei Concorsi pubblici che oggigiorno, indetti senza criteri stabiliti cioè a discrezione del MIUR, possono annullare in ogni momento ogni precedente e permanente graduatoria. Insomma, gran soddisfazione per tutto il popolo italiano! A Settembre, strutture murarie e Spread permettendo, tra esuberi DOP, concorsisti (vecchi e nuovi), sissini e abilitati in vario modo, avremo sicuramente il paese pieno di docenti qualificati. Discenti forse pochi, dato che non si fanno più figli. Ma a giugno tutte le strutture balneari sicuramente saranno già piene. Infatti, credo, molti cari colleghi di ruolo, figli del boom economico e della Guerra fredda, che di solito a causa di qualche dirigente troppo zelante o qualche collega invidioso hanno difficoltà ad evitare tutto il lavoro sporco (gli esami di Stato, i corsi di recupero e gli esami di agosto), quest'anno potranno godersi lunghe ferie con più serenità, cioè con un certificato medico più leggero e una lista precari più lunga.

E CHE DIRE DEL CONCORSO TRUCCATO PER DIRIGENTE SCOLASTICO?

Scuola, concorso per dirigente truccato: 25 avvisi di garanzia a Napoli, scrive Leandro Del Gaudio su “Il Mattino”. Concorso per presidi: blitz nell'ufficio regionale scolastico. La procura di Napoli indaga sull'ultimo concorso per preside in Campania. Associazione per delinquere, abuso d'ufficio e falso, la Procura punta a fare chiarezza sulla gestione del concorso per dirigenti scolastici, notificando in queste ore decreti di perquisizione, ordini di esibizione e alcuni avvisi di garanzia. Indagine delegata alla Guardia di finanza di Torre Annunziata, sono in corso accertamenti e acquisizioni di documenti, sotto i riflettori l'ufficio regionale scolastico. Sono venticinque gli indagati, otto dei quali sono docenti vincitori di concorso dopo l'ultima prova scritta (all'inizio di febbraio) per l'accesso a un posto di dirigente scolastico. Gli altri indagati sono commissari di esame, un ex dirigente dell'ufficio regionale scolastico e sindacalisti. La guardia di finanza di torre annunziata ha anche trovato compiti scritto già fatti in una sede del sindacato. Dalle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Alfonso D'Avino e dal sostituto Ida Frongillo, è emerso che gli indagati avevano creato un meccanismo per favorire alcuni candidati al concorso. In particolare, sarebbe stata pilotata la nomina di alcuni membri della commissione esaminatrice, grazie ai quali i candidati erano riusciti a conoscere con largo anticipo i quesiti della prova preselettiva. Inoltre - secondo l'accusa - si era riusciti a eludere l'anonimato delle prove scritte facendo pervenire ai componenti collusi della commissione giudicatrice gli incipit e le frasi finali dei candidati da favorire. Il materiale concorsuale di sei candidati è stato sequestrato.

Per anni hanno controllato gli studenti, e i loro sotterfugi per tentare di copiare i compiti in classe, ma a loro volta sono stati “beccati” a far man bassa su testi e “pizzini” al concorso per dirigenti scolastici: cinque docenti lucani e quattro componenti della commissione sono indagati nell’ambito di un’inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza, che ha inviato gli avvisi di conclusione delle indagini, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La notizia ha trovato conferme in ambienti giudiziari. Secondo quanto si è appreso, alcune risposte del concorso cominciato nel 2011 sarebbero state interamente copiate dai concorrenti dai libri di testo (in un caso si tratterebbe anche di argomenti che riguardano la responsabilità dei presidi). Uno dei componenti della commissione, durante il concorso, avrebbe anche scoperto degli appunti nel vocabolario di un concorrente: non vi sarebbe stata l'esclusione del docente dalla prova, ma solo il “sequestro” dei foglietti dattiloscritti. Secondo gli investigatori, infine, anche una delle griglie di valutazione delle prove sarebbe stata già pronta. Tre dei cinque docenti indagati (le accuse, a vario titolo, sono di falso, abuso in atti d’ufficio e concorso in falso ideologico) avrebbero vinto il concorso, con l'assegnazione a un istituto, due invece sono risultati idonei nella graduatoria di riferimento. Le indagini, svolte dai militari della sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri, sono cominciate alla fine del 2011, con la verifica delle prove e il controllo dei testi a cui si sarebbero “ispirati” i concorrenti: in alcuni casi i paragrafi riportati nelle prove sarebbero pressochè identici nelle risposte di alcuni degli indagati.

I CANDIDATI BOCCIATI PER IL CONCORSO DI DIRIGENTI SCOLASTICI CERCANO SANTI IN PARADISO.

I candidati al Concorso per dirigenti scolastici, bocciati inopinatamente ed a tutela delle loro ragioni non ricevendo giustizia dagli Organi Istituzionali terreni, chiedono aiuto a San Giuda Taddeo. Il Santo Patrono delle Cause Perse.

A questo siamo ridotti. Povera Italia. Sono milioni gli italiani vittime di un sistema concorsuale aberrante: selezione naturale, sì, col trucco. Le vittime aivoglia cercare aiuto presso le istituzioni. Lettera morta.

Ma andiamo con ordine. Dopo oltre un anno di attesa e mille anticipazioni, lo scorso 13 luglio 2011 è stato bandito il concorso per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca indiceva una procedura concorsuale per esami e titoli per il reclutamento di dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado e per gli istituti educativi, per 2386 posti complessivi, di cui 224 per la Campania. Il bando di concorso, per sfoltire il gruppo di oltre 42 mila candidati che hanno presentato istanza prevede una preselezione attraverso un questionario a risposta multipla, simile a quello per accedere alle facoltà a numero programmato. La prassi, in questi casi, è quella di rendere nota la batteria di test dalla quale saranno sorteggiate le domande per il concorso alcune settimane prima. Il Ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Non mancano errori. E la polizia postale avvia un'indagine. Tra fughe di notizie ed errori nei test il concorso per dirigente scolastico rischia di naufragare prima ancora di iniziare. Così, forum, blog e siti internet specializzati sono stati sommersi dai post dei candidati che segnalano errori, incongruenze, inesattezze nelle domande e che non nascondono la preoccupazione di trovarsi di fronte, dopo avere studiato per mesi, ad una selezione "addomesticata". La Polizia postale avvia un'indagine per individuare i responsabili della fuga di notizie. "C'è la violazione del segreto d'ufficio - ipotizzano gli inquirenti - e questo avrebbe arrecato un ingiusto vantaggio sugli altri concorrenti". A conoscere in anticipo i test ci sono senz'altro coloro che hanno partecipato materialmente alla stesura delle domande e delle risposte. Ma il loro numero è anche questo un mistero. Secondo fonti sindacali sarebbero almeno una sessantina gli esperti che si sarebbero dilettati nel confezionamento dei quiz. Secondo fonti interne allo stesso ministero dell'Istruzione sarebbero al massimo una quindicina le persone in possesso di una batteria di circa 400 test ciascuno. Circostanza che giustificherebbe in parte gli errori contenuti nei test. Ma a proposito delle tracce d’esame. Spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito. Quando a Bari era facile essere ammessi a Medicina. I test di ingresso alla Facoltà pugliese finirono al centro di una brutta vicenda: docenti e studenti avevano messo su un lucroso giro per superare i difficili quiz. I rinvii a giudizio furono 127. Nel 2007 a finire sotto la lente di ingrandimento della magistratura è il test di ammissione a Medicina. In quella tornata di test di ammissione anche altri atenei finiscono nella rete degli investigatori: Chieti, Foggia, Ancona. In tutto, sono stati rinviati a giudizio ben 127 persone per quella che il pm Francesca Romana Pirrelli non ha esitato a definire come vera e propria "organizzazione criminale". E poi Roma, Latina e Salerno: corruzione alle elementari. Quello dei dirigenti scolastici non è l'unico scandalo che ha riguardato i concorsi. Per ottenere il posto alle elementari si usavano gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi. Nel 2000 il concorso di scuola elementare è stato funestato da una serie di inchieste, con rinvii a giudizio e arresti a raffica. A Roma, Latina e Salerno i commissari d'esame del concorso bandito nel 1999 si sono fatti corrompere, in alcuni casi anche da una bottiglia di profumo. Due i filoni di inchiesta. In quella laziale due precarie non ammesse allo scritto fanno ricorso e scoprono che nella busta col loro nome e cognome ci sono altri compiti, pieni di errori, e denunciano il fatto. Dalle indagini si scopre che i compiti delle due insegnanti escluse, corretti e che avrebbero determinato il passaggio dell'esame, sono andati a finire nelle buste di altre due colleghe. Che interrogate, dapprima negano, e dopo un po' confessano la corruzione: gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi per ottenere il posto. I tre insegnanti dall'altra parte della barricata, reclutati come commissari d'esame, erano tutte e tre donne. Per i carabinieri trovare il corpo del reato è stato facile, perché a casa delle tre insegnanti sapevano cosa cercare. A Latina, per lo stesso concorso invece i commissari d'esame hanno chiesto fino a 10 milioni delle vecchie lire e gioielli che sono stati trovati nella cassaforte di uno degli inquisiti. A Salerno finisce sotto inchiesta, per scarsa trasparenza, anche il concorso per la scuola materna.

Torniamo al nostro concorso a dirigente scolastico. Procedure regolari, o no? A fine 2012 si concludono, con lo svolgimento delle prove orali e la definizione delle graduatorie di merito, i concorsi regionali per il reclutamento dei dirigenti scolastici. Ma, qua e là nel Paese, dopo le critiche alla prova preselettiva dello scorso ottobre (domande errate, librone da consultare, ritardo nell’inizio della prova, ecc.), continuano a manifestarsi dubbi sulla regolarità delle procedure seguite dalle Commissioni esaminatrici, soprattutto in merito alla correzione delle prove scritte.

39 mie amiche campane, candidate bocciate al famigerato concorso pubblico chiedono il mio aiuto per far conoscere la loro storia, non avendo trovato riscontro mediatico in quella zona da parte dei giornalisti locali. Motivi di doglianza sono quelli usuali di tutti i ricorsi al Tar per ogni concorso od esame pubblico: illegittimità della composizione delle commissioni (nello specifico, incompatibilità funzionale, in particolare e soprattutto perché in alcune commissioni figurerebbero esponenti di sigle sindacali, fortissime da un punto di vista rappresentativo nel comparto-scuola. Un conflitto di interessi neanche così velato. Stato di coniugio tra commissario e candidata ed addirittura dichiarazioni di presenza di commissari che al contempo si trovavano in altri posti. Novelli San Pio con il dono dell’Ubiquità); correzione degli elaborati, dichiarata come tale ma non avvenuta e riscontrata con mancanza di tempo per effettuarla; impedimento al diritto di difesa con la visione di elaborati di terzi per la comparazione e mancanza di conoscenza dei criteri di giudizio e valutazione degli elaborati. La gente deve sapere che attivarsi presso un organo giudiziario, in questo caso amministrativo, è un terno al lotto. Per il ricorso al Tar contro il giudizio negativo reso all’esame i motivi sollevati sono identici, le risultanze no! Incide molto l’essere rappresentati da onerosi principi del Foro, che molti non possono permettersi. Ergo: non vale la forza della legge e della ragione provata, ma vale la legge del più forte. Per gli effetti del ricorso N. 03864/2013 REG.PROV.COLL., N. 00441/2013 REG.RIC., il Tar di Napoli il 24/07/2013 respinge. Sia chiaro. Per i magistrati il ricorrente è un numero di fascicolo. Vincitore o soccombente ad un concorso pubblico  pari sono: uno vale l’altro. Fa niente se l’interesse pubblico preme affinchè dal concorso pubblico emerga il valore: il merito. In un altro mondo forse, in Italia no! Le tapine già hanno peccato a non presentarsi con un principe del Foro locale. Sia mai che vi sia amicizia che possa favorire l’esito della causa. E questo è un aspetto che può incidere sul suo esito. In questa sede esuliamo dal prospettare disquisizioni linguistiche o dottrinali di stampo giuridico. Come sempre dico: la prassi fotte la legge. E l’appellativo dato agli operatori del diritto è veritiero. Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste. Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3° dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati? Ed ogni riferimento ai fatti di causa è puramente casuale!!

Già, perché per motivi meno appariscenti del nostro ricorso in Molise, ad esempio, il concorso è stato sospeso a seguito di un ricorso presentato da candidati esclusi dalle prove orali (Ordinanza Tar Molise n. 77/2012). Il concorso del Lazio è stato oggetto di due interrogazioni parlamentari, relative soprattutto alla costituzione della commissione esaminatrice, i cui componenti sarebbero rappresentanti sindacali – motivo, questo, di esclusione dalle procedure di nomina. Anche per il concorso in Friuli Venezia Giulia è stata presentata una interrogazione parlamentare per verificare “che lo svolgimento dell'attività della commissione sia stato conforme ai principi di efficacia, trasparenza ed efficienza, nel pieno rispetto delle normative vigenti". In Calabria i ricorsi hanno riguardato la mancata correzione della seconda prova scritta nel caso in cui la prima fosse stata valutata negativamente dalla Commissione; in questo caso, però, il TAR ha respinto i ricorsi, ritenendo che non vi fosse l’obbligo di correggere entrambe le prove. Ultima, in ordine di emanazione, una ordinanza del TAR Lombardia, che prima di decidere definitivamente sul ricorso di alcuni candidati esclusi dalla prova orale, ha chiesto all’Ufficio scolastico regionale di “acquisire le buste contenenti le prove di concorso dei ricorrenti”. Pioggia di ricorsi al Tar per il concorso da dirigenti scolastici. Quaranta aspiranti presidi hanno fatto istanza al tribunale amministrativo di Bari contro l’esclusione dalla prova orale. Dopo gli esiti dell’esame, in tanti hanno fatto appello ai giudici per essere riammessi. Il concorso indetto dal ministero dell’Istruzione e dall’ufficio scolastico regionale, mira a reclutare 236 dirigenti scolastici in tutta la Puglia, in scuole primarie e secondarie. I ricorrenti hanno sostenuto a giugno 2012 un test scritto al quale non sono risultati idonei. Questo vuol dire che non potranno accedere alla prova orale. Le udienze sono state fissate infatti a fine settembre 2012. Concorso per preside tra accuse e sospetti. Un bel giallo tra i presunti brogli coinvolto un foggiano. Secondo la legge doveva essere fuori dal concorso, invece non solo l'ha superato ma si ritrova a un passo dalla nomina. Denunce, dimissioni e sospetti di brogli: c'è un piccolo giallo nella procedura per il concorso da presidi (236 posti in Puglia) sulla quale da qualche indaga la procura della Repubblica. Uno degli 867 candidati ammessi alla prova scritta del maxi concorso per dirigenti scolastici, un professore «comandato» presso gli uffici della direzione regionale di Foggia, sarebbe stato pizzicato durante il primo giorno di prova con alcuni foglietti in un vocabolario. Tale episodio sarebbe avvenuto nella scuola «Elena di Savoia» in via Caldarola, al rione Japigia, uno degli istituti di Bari in cui si sono tenute le prove scritte, il 14 e 15 dicembre scorso. E a conferma che qualcosa non sia andato per il verso giusto, ci sono anche le dimissioni - avvenute pochi giorni fa - dei segretari delle due sottocommissioni, arrivate proprio adesso a concorso ormai ultimato (sono attese le prove orali). A denunciare tutto il docente Gerardo Troiano. Almeno un milione di euro la spesa per i contribuenti a causa del “concorso-farsa”. Contabilità (per difetto) del presidente Anief, Marcello Pacifico, un’associazione sindacale in rappresentanza di docenti e personale scolastico. Tra l’incarico dato a Formez (centro-studi del dipartimento della Funzione Pubblica) per l’elaborazione dei test e la retribuzione per i centinaia di commissari e presidenti del concorso per dirigenti scolastici. Il Miur di recente ha comunicato le cifre dei compensi elargiti ai componenti delle commissioni. Compensi irrisori, avrebbero accusato alcuni. Eppure si parla di un “compenso base” da 251 euro per il presidente e 209,24 per ogni componente, più un integrativo di 50 centesimi per ciascun elaborato o candidato esaminato. In ogni caso – ha comunicato il Miur – “non possono eccedere i 2.051,70 euro”, con l’eccezione dei presidenti per i quali l’importo va incrementato del 20%. Considerando che le commissioni sono sparse in tutta Italia il conto per lo Stato supererebbe il milione di euro. Concorso per il quale ha chiesto lumi anche l’onorevole del Pd, Antonio Russo, con un’interrogazione parlamentare al ministro (che tuttavia non ha ancora risposto). Soprattutto perché in alcune commissioni figurerebbero esponenti di sigle sindacali, fortissime da un punto di vista rappresentativo nel comparto-scuola. Un conflitto di interessi neanche così velato. E che dire del concorso nell’insegnamento all’estero. Il concorsone pubblico per insegnanti all'estero si trasforma in una vicenda grottesca con tanto di polizia e sospensione della prova. Erano migliaia stamattina ad affollare lo spazio antistante l'hotel Ergife di Roma sulla via Aurelia, arrivati da tutta Italia per sostenere la prova di lingua del concorso per il reclutamento del personale docente e Ata destinato agli istituti scolastici stranieri. Al bando, gestito dall'agenzia Formez per il ministero degli Esteri, hanno partecipato oltre 36mila persone da tutta Italia. Ma qualcosa è andato storto: "Quando ci hanno presentato la prova -- ha raccontato la concorrente Loredana Tonni -- ci siamo accorti che era una presa in giro: ognuno di noi doveva rispondere ai 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto -- conclude -- nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre". Fatti i conti: rispondere a ogni quesito in poco più di un minuto. La protesta dei partecipanti si è fatta subito sentire. La commissione è stata subissata di lamentele. A quel punto sono state chiamate le forze dell'ordine. Il presidente della commissione di concorso ha deciso così di sospendere la prova, assicurando "che la prova stessa si ripeterà entro questa sera con gli stessi quesiti, come se nulla fosse successo". "Le modalità di questo concorso sono fuori da ogni legalità -- ha aggiunto Tonni -- chi è entrato a sostenere la prima prova conosce già tutti i quesiti delle successive e può preparare l'esame all'esterno consultando il volume che la commissione ha permesso di portare con sé". Intanto nelle caselle di posta dei giornali, arrivano decine di mail, molte con questo contenuto: "Il concorso è da annullare, siamo stati presi in giro, abbiamo studiato mesi per la selezione".

Tutto questo ambaradan, giusto per dire alle mie amiche di Napoli, ignorate dai media locali, di non disperare e provare a Roma. Al Consiglio di Stato. Giusto per rispondere a tutti coloro che gridano “le sentenze non si criticano: si rispettano e si applicano”. Questi signori, sicuramente ignoranti, almeno in Diritto, dovrebbero sapere che l’Ordinamento giuridico prevede l’istituto del gravame. Il termine gravame viene utilizzato come sinonimo di impugnazione o, con significato più specifico, per indicare un particolare tipo di impugnazione, che mira al completo riesame della controversia, in modo da giungere ad un nuovo giudizio in sostituzione di quello contenuto nella sentenza impugnata, ritenuto ingiusto. Presupposto del gravame è la soccombenza. Lo scopo è quello di provocare un nuovo giudizio. La parte fondamentale del gravame è la critica mossa alla sentenza ritenuta errata ed ingiusta. Oppure si provi la tutela penale e civile del diritto leso. Sia mai che a presentare un esposto penale, non ci sia un magistrato di buon cuore che stabilisca una volta per tutte che almeno colui che ha il dono dell’ubiquità, qualche reato lo ha commesso e deve risarcirne i danni. E fa niente che era obbligo dei componenti del Tar, quali pubblici ufficiali, presentare denuncia penale. Obbligo disatteso ed impunito. Nei tribunali non vince chi ha ragion, ma chi ha maggior forza dirompente. E lo so io che quei tribunali ben conosco e me la fanno pagare. Vale per loro, care amiche care quel famoso detto… “Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente.”. Se non avete Santi in Paradiso, né in terra (specialmente in Parlamento), chiedete di San Giuda Taddeo, sarà felice di annoverarvi tra le sue fila: Tutti coloro che son vittime di cause perse.

Questo anche perché colei che ha chiesto di dare voce a questa storia, mi ha implorato terrorizzata di omettere il suo nome e quello dei suoi avvocati. Bella Roba. Ecco perchè si ha gioco facile.

CORREZIONI IN POCHI MINUTI: OMBRE E DUBBI SUL CONCORSO PER DIRIGENTI SCOLASTICI

Per i presidi vincitori del concorso annullato dal Cga è arrivata la sanatoria. Scrive Salvo Intravaia su "La Repubblica". Una contromisura preparata in gran fretta dal Parlamento per fugare i timori dei duecento dirigenti scolastici siciliani reclutati con le prove selettive del 2006. Nel maggio 2009 il Consiglio di giustizia amministrativa si è pronunciato a favore di due aspiranti presidi (Maria Antonietta Cucciniello e Giuseppina Gugliotta) estromessi agli scritti. Motivo? Le due sottocommissioni avrebbero «proceduto alla correzione di moltissimi elaborati con una commissione incompleta, in quanto nell’una o nell’altra era assente il presidente». A correggere i compiti erano spesso due soli commissari, perché il presidente era in comune e poteva essere presente soltanto in una delle due sottocommissioni che procedevano in contemporanea. Ecco perché gli atti relativi alle prove scritte sono stati annullati dal Cga.

Per eseguire la sentenza il direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Guido Di Stefano, ha nominato una nuova commissione, che riesaminasse i compiti dei due esclusi. Circostanza che ha fatto correre un brivido sulla schiena dei presidi in sella ormai da tre anni. Prove censurate per numerose e singolari anomalie. Dalle due sentenze emerge che «il tempo medio di correzione di ogni singolo elaborato si aggirava sempre intorno ai due minuti e 30 secondi, insufficiente per la correzione di compiti composti da otto o dieci facciate». Ma non solo: «L’elaborato numero 1003 è stato valutato positivamente, nonostante fosse costellato di errori grammaticali e di sintassi» e altri tre «sono stati valutati positivamente, nonostante contenessero chiari segni di identificazione, per cui i candidati che li avevano redatti avrebbero dovuto essere esclusi dal concorso».

La complessa vicenda è chiusa da una leggina. Un emendamento proposto da 15 deputati, quasi tutti siciliani e del Pdl, che sembra nato per vanificare la sentenza del Cga. «L’annullamento di atti delle procedure concorsuali ordinarie e riservate a posti di dirigente scolastico (…) non incide - afferma l’emendamento  - sulle posizioni giuridiche acquisite dai candidati dei predetti concorsi che (…) sono stati assunti in servizio». Chi ha superato il concorso, in pratica, rimarrà al proprio posto. E gli aspiranti presidi che hanno vinto il ricorso? Saranno nominati sui posti vacanti «a decorrere dall’anno scolastico 2010-2011».

«È tutto spaventosamente incostituzionale», commenta Caterina Giunta, l’avvocato che assieme al collega Francesco Tinaglia ha patrocinato i due ricorsi. «La sentenza del Cga - sostiene il legale - ha annullato l’intero concorso». Invece il provvedimento ha avuto un’applicazione soft.

INSEGNANTI E DIRIGENTI SCOLASTICI (Presidi), concorso col trucco.

Così l’inchiesta di Salvo Intravaia su “La Repubblica”. Il Ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Non mancano errori. E la polizia postale avvia un'indagine. I quiz in anticipo su internet, "E sono anche pieni di errori". In palio ci sono 2.386 posti di responsabili di istituto. Le 5.750 domande sulle quali prepararsi sono state messe in linea dal candidato "Preoccupato" almeno 24 ore prima del tempo. Protesta e timori: "E se altri le hanno avute prima?". Tante risposte sbagliate. Il ministero minimizza e nega la fuga di notizie. Tra fughe di notizie ed errori nei test il concorso per dirigente scolastico rischia di naufragare prima ancora di iniziare. Lo scorso primo settembre 2011, il Ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Così, forum, blog e siti internet specializzati sono stati sommersi dai post dei candidati che segnalano errori, incongruenze, inesattezze nelle domande e che non nascondono la preoccupazione di trovarsi di fronte, dopo avere studiato per mesi, ad una selezione "addomesticata". Ma andiamo con ordine. Dopo oltre un anno di attesa e mille anticipazioni, lo scorso 13 luglio 2011 è stato bandito il concorso per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Il bando di concorso, per sfoltire il gruppo di oltre 42 mila candidati che hanno presentato istanza prevede una preselezione attraverso un questionario a risposta multipla, simile a quello per accedere alle facoltà a numero programmato. La prassi, in questi casi, è quella di rendere nota la batteria di test dalla quale saranno sorteggiate le domande per il concorso alcune settimane prima. Durante la conferenza stampa del 31 agosto a Palazzo Chigi, il ministro Gelmini ha annunciato che il giorno dopo sarebbero stati pubblicati i test. Ma non sapeva che mentre lei parlava con i giornalisti qualcuno inviava a un candidato il prezioso file. E che ci sarebbe un "giro di raccomandati" che si sta adoperando per superare il concorso in tutti i modi. La notte tra il 31 agosto e il primo settembre, nel forum aperto sul sito mininterno.net un docente dall'insolito nickname di "Preoccupato" confessa di avere ricevuto un file con le domande "ufficiali" ma di non potere essere sicuro della loro autenticità. Poco prima dell'una e mezza del primo settembre, alcuni candidati con problemi di insonnia si scambiano informazioni in attesa della pubblicazione dei test. E all'una e 46 compare sul web il contributo di "Preoccupato" che scrive: "C'è davvero di che essere preoccupati. Leggete i seguenti quesiti: si tratta dei primi 3 di ciascuna area. Appuntate la data e l'ora di questo post. Domattina capirete che ho scelto bene il mio nick!". "Scusa sono quelli ufficiali?", chiede l'incredula Carmenb. E "preoccupato" risponde: "Ebbene sì!!! (domattina verificherete). Li sto spulciando dalle ore 13.30, quando ne sono venuto in possesso. Li trovo belli tosti. Non posso dire altro, ma questa cosa pone inquietanti interrogativi. Uno tra tutti: se la cosa si ripetesse con i fatidici 100 'sorteggiati'?". In pochissimo tempo si scatena la caccia al file. "O sei un raccomandato o stai sognando nel bel pieno della notte!!", commenta Imma8 e lui risponde: "1) Non sono raccomandato. 2) Come ho già scritto, non c'è alcun link, in quanto li ho ricevuti per e-mail in modo assolutamente casuale: sono del tutto fuori da quel giro. 3) Preferirei stare sognando, poiché mi sentirei più garantito. Su questo punto rinviamo il giudizio a domattina, cioè fra poche ore insonni. Se non si riveleranno quelli giusti sarò molto più soddisfatto: mi saranno serviti da esercitazione. Se saranno quelli giusti sarò sempre più preoccupato". Dopo alcuni botta e risposta sempre più inquieti i partecipanti al forum decidono di inondare di e-mail il sito del ministero dell'Istruzione. A viale Trastevere, sede del ministero dell'Istruzione, non riescono a nascondere l'imbarazzo per un concorso che sembra nato sotto cattivi auspici. Ogni giorno che passa, i candidati scoprono e segnalano domande o risposte errate. L'ultima in ordine di tempo pervenuta la domanda 191 dell'area 5: "Ai sensi del decreto legislativo n. 150/2009, con quale preavviso ....", recita la domanda. "Chi ha preparato la seguente domanda e risposta, relativa al decreto legislativo 165/01, art. 19, comma 1-ter, evidentemente non sa che lo stesso comma è stato abrogato e sostituito dal decreto legge 78/10 art. 9, comma 32!", commenta un docente. Dal ministero minimizzano. "Gli errori sono fisiologici in un numero di domande così elevato", fanno sapere da viale Tratevere che nega la fuga di notizie del 31 notte. Dal primo settembre le 5.750 domande costituiscono il passatempo migliore per migliaia di candidati al concorso: i quiz sono corredati dalle risposte e occorre memorizzarne il più possibile per avere qualche chance di successo. Scorrendole sono saltati fuori già diversi errori che hanno indotto l'Associazione docenti italiani a scrivere al ministro Gelmini e al capo dipartimento, Giovanni Biondi. "Da un primo esame della batteria di quesiti pubblicata" il primo settembre "risultano diversi dati preoccupanti: un numero rilevante di errori nelle risposte indicate come esatte, domande prive di contestualizzazione alle quali è pertanto impossibile dare risposta, riferimenti a norme non più in vigore assunte come vigenti, domande incomprensibili o illogiche, inadeguatezza e incoerenza di numerosi quesiti rivolti a un concorso per l'area V della dirigenza". Ci sono anche alcune domande che lasciano perplessi. Quanto è importante per un preside sapere che la "tecnologia controllata dal tocco del dito o altro materiale conduttore di elettricità?" si definisce "touch screen capacitivo", anziché il "touch screen resistivo"? "Non vorremmo che gli errori fin qui commessi comportassero un pregiudizio per la regolarità del concorso - scrive la presidentessa Alessandra Cenerini - e una facile occasione per un contenzioso giudiziale". Molti candidati "studiano da anni per questo concorso, hanno svolto master e dottorati e ora sono sconcertati di fronte a tale situazione". Il concorso si svolge in ambito regionale - sono stati messi in palio un tot di posti per ogni regione - e coloro che supereranno la preselezione dovranno svolgere due scritti, un periodo di formazione e un esame orale. La speranza, come ha avuto modo di dichiarare il presidente della commissione Cultura della Camera, Valentina Aprea, "è che alla fine vengano reclutati dirigenti scolastici più giovani del precedente concorso: al di sotto dei 45 anni". Il concorso per presidi fa ancora discutere. Dopo la denuncia di RE LE INCHIESTE, la postale avvia un'indagine per individuare i responsabili della fuga di notizie. "C'è la violazione del segreto d'ufficio - ipotizzano gli inquirenti - e questo avrebbe arrecato un ingiusto vantaggio sugli altri concorrenti". La fuga di notizie sui quiz del concorso per preside produce una prima denuncia. Dopo avere verificato quanto scritto nell'inchiesta pubblicata da RE LE INCHIESTE, è l'Associazione nazionale dei funzionari di polizia ha fare la prima mossa: un esposto-denuncia ai colleghi della Polizia postale per quanto accaduto la notte tra il 31 agosto e il primo settembre. "Sulla regolarità dello svolgimento del concorso pubblico di dirigente scolastico - dichiara Enzo Letizia, segretario nazionale dell'associazione - non possono esserci dubbi. Quanto è apparso sul sito mininterno.net impone di verificare con scrupolo come sia potuto accadere che venissero pubblicati dei quiz prima della diffusione ufficiale da parte del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca". Secondo Letizia, "vanno, perciò, seguite a ritroso le tracce lasciate nella rete per risalire alla verità dei fatti e accertare responsabilità penali". Con l'esposto presentato giovedì 9 settembre, la questione comincia a farsi seria. Secondo i funzionari di polizia, gli eventuali responsabili della fuga di notizie sarebbero responsabili del reato di violazione del segreto d'ufficio e potrebbero andare incontro a guai seri, anche perché, ipotizzano, che "si sarebbe così offerto ad un numero indeterminato di persone un ingiusto vantaggio sugli altri concorrenti del concorso". Un vantaggio, quello di conoscere in anticipo la batteria di test dai quali verranno sorteggiati i 100 oggetto della prova di preselezione non da poco, che "sarebbe ancora più grave qualora, come ipotizzato dal sedicente 'Preoccupato', si trattasse di 'bozza', perché significa che sin dai primi lavori della commissione è iniziata la diffusione clandestina del materiale". La storia comincia il 13 luglio, quando il ministero pubblica il bando per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Le domande che vengono presentate sono 42 mila e per sfoltire il gruppo degli aspiranti presidi, il bando prevede un test di preselezione su 100 quiz a risposta multipla. Come ormai avviene in quasi tutte i concorsi pubblici che prevedono un test di ammissione, il bando prevede anche che venga pubblicata in anticipo la batteria di test dai quali verranno pescate le domande per il concorso. A questo punto, cominciano a circolare mille voci: i sindacati comunicano in un primo momento che la batteria di 5.750 test verranno pubblicate a metà agosto. Data che slitta al 26 agosto e successivamente al primo settembre. Ma nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre accade una cosa inquietante: un candidato, partecipando ad una discussione presso un forum on line, pubblica le prime tre domande, con relative risposte, di tutte e sei le aree previste dal concorso. E si scatena il putiferio. "Preoccupato", questo è il suo nickname, dice di non essere sicuro che quelle siano le domande ufficiali e di averle ricevute per caso. Salvo scoprire l'indomani che si trattava proprio delle domande che sarebbero state pubblicate il primo settembre alle 9. Come era possibile che qualcuno avesse ricevuto le domande in anticipo? Il ministero, sulla questione, nega che possano esserci state fughe di notizie. E tre giorni fa, invia alle agenzie un comunicato stampa, che però si occupa soltanto dell'altra questione che monta in queste ore: gli errori contenuti in parecchie domande e risposte. "In merito alle segnalazioni pervenute fino ad oggi al Miur riguardo a refusi presenti nei quesiti del concorso per dirigenti scolastici, il ministero precisa che tali imprecisioni riguardano pochissime domande e non avranno comunque alcuna conseguenza sulla prova d'esame". Ma poi spiega che "La pubblicazione, un mese prima dello svolgimento delle prove, delle 5.750 domande dalle quali saranno estratte le 100 oggetto della prova, garantisce che questa estrazione avvenga all'interno di un set di domande ampiamente verificate". E che, continua il comunicato, "l'estrazione delle 100 domande potrà avvenire il giorno stesso della prova d'esame, in tempo reale, assicurando in questo modo la massima trasparenza allo svolgimento del concorso. Fino a pochi istanti prima della prova non esisteranno infatti copie dei quesiti sorteggiati". Ma quanti candidati sono riusciti a mettere le mani in anticipo sui test e quanto tempo prima della pubblicazione? Quali sono le domande effettivamente circolate in anticipo: un paio di migliaia o tutto il blocco? Mentre lo scorso 4 settembre 2012, Gennaro Sorrentino, pubblica sulla Tecnica della scuola che "il dirigente scolastico di un istituto superiore di Napoli ha consegnato a tutti i suoi corsisti per la prova di preselezione al concorso a dirigente scolastico i file contenenti tutti i circa 7.500 quesiti, ben prima della pubblicazione del Miur". Un mitomane? "La fuga di notizia a Napoli - continua Sorrentino - è stata immediata. Io li ho avuti sulla mia posta elettronica prima del 1° settembre 2011. Posso provarlo in qualsiasi momento. Ma questo è niente rispetto alle schifezze che stanno succedendo su questo concorso. Dovrebbe intervenire la Magistratura per far luce su questa triste vicenda". Viale Trastevere invece comunica che "il Miur, per il concorso, ha adottato le stesse modalità e procedure già sperimentate negli ultimi anni in occasione dell'ultimo concorso alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, al Consiglio di Stato, alla Presidenza del Consiglio e all'ISTAT". A conoscere in anticipo i test ci sono senz'altro coloro che hanno partecipato materialmente alla stesura delle domande e delle risposte. Ma il loro numero è anche questo un mistero. Secondo fonti sindacali sarebbero almeno una sessantina gli esperti che si sarebbero dilettati nel confezionamento dei quiz. Secondo fonti interne allo stesso ministero dell'Istruzione sarebbero al massimo una quindicina le persone in possesso di una batteria di circa 400 test ciascuno. Circostanza che giustificherebbe in parte gli errori contenuti nei test. A proposito di test. Quando a Bari era facile essere ammessi a Medicina. I test di ingresso alla Facoltà pugliese finirono al centro di una brutta vicenda: docenti e studenti avevano messo su un lucroso giro per superare i difficili quiz. I rinvii a giudizio furono 127. Nel 2007 a finire sotto la lente di ingrandimento della magistratura è il test di ammissione a Medicina. A Bari si registra uno strano fenomeno: parecchi ragazzi riescono a risolvere "troppi" quesiti e riescono a totalizzare punteggi di gran lunga superiori agli studenti che nello stesso momento sostenevano gli esami negli altri atenei. Gli esclusi denunciano la cosa alla magistratura che comincia ad indagare e scopre che un docente, in collaborazione con altri colleghi, dipendenti dell'ateneo pugliese, genitori, studenti e perfino il figlio e la moglie avevano allestito una macchina quasi perfetta: da due diversi punti partivano e arrivavano sms con domande e risposte corrette, che venivano poi dirottati agli studenti. Così, superare il test di ammissione diventava un gioco da ragazzi. Ma, resosi conto che la situazione era degenerata, il rettore dell'ateneo decide di annullare il test. Dopo quattro anni, a Bari, 32 indagati per quella vicenda chiedono il patteggiamento della pena, mentre in 14 optano per il rito abbreviato. In quella tornata di test di ammissione anche altri atenei finiscono nella rete degli investigatori: Chieti, Foggia, Ancona. In tutto, sono stati rinviati a giudizio ben 127 persone per quella che il pm Francesca Romana Pirrelli non ha esitato a definire come vera e propria "organizzazione criminale". E poi Roma, Latina e Salerno: corruzione alle elementari. Quello dei dirigenti scolastici non è l'unico scandalo che ha riguardato i concorsi. Per ottenere il posto alle elementari si usavano gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi. Nel 2000 il concorso di scuola elementare è stato funestato da una serie di inchieste, con rinvii a giudizio e arresti a raffica. A Roma, Latina e Salerno i commissari d'esame del concorso bandito nel 1999 si sono fatti corrompere, in alcuni casi anche da una bottiglia di profumo. Due i filoni di inchiesta. In quella laziale due precarie non ammesse allo scritto fanno ricorso e scoprono che nella busta col loro nome e cognome ci sono altri compiti, pieni di errori, e denunciano il fatto. Dalle indagini si scopre che i compiti delle due insegnanti escluse, corretti e che avrebbero determinato il passaggio dell'esame, sono andati a finire nelle buste di altre due colleghe. Che interrogate, dapprima negano, e dopo un po' confessano la corruzione: gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi per ottenere il posto. I tre insegnanti dall'altra parte della barricata, reclutati come commissari d'esame, erano tutte e tre donne. Per i carabinieri trovare il corpo del reato è stato facile, perché a casa delle tre insegnanti sapevano cosa cercare. A Latina, per lo stesso concorso invece i commissari d'esame hanno chiesto fino a 10 milioni delle vecchie lire e gioielli che sono stati trovati nella cassaforte di uno degli inquisiti. A Salerno finisce sotto inchiesta, per scarsa trasparenza, anche il concorso per la scuola materna. Concorso a dirigente scolastico. Procedure regolari, o no? A fine 2012 si stanno concludendo, con lo svolgimento delle prove orali e la definizione delle graduatorie di merito, i concorsi regionali per il reclutamento dei dirigenti scolastici. Ma, qua e là nel Paese, dopo le critiche alla prova preselettiva dello scorso ottobre (domande errate, librone da consultare, ritardo nell’inizio della prova, ecc.), continuano a manifestarsi dubbi sulla regolarità delle procedure seguite dalle Commissioni esaminatrici, soprattutto in merito alla correzione delle prove scritte. In Molise, ad esempio, il concorso è stato sospeso a seguito di un ricorso presentato da candidati esclusi dalle prove orali (Ordinanza Tar Molise n. 77/2012). Il concorso del Lazio è stato oggetto di due interrogazioni parlamentari, relative soprattutto alla costituzione della commissione esaminatrice, i cui componenti sarebbero rappresentanti sindacali – motivo, questo, di esclusione dalle procedure di nomina. Anche per il concorso in Friuli Venezia Giulia è stata presentata una interrogazione parlamentare per verificare “che lo svolgimento dell'attività della commissione sia stato conforme ai principi di efficacia, trasparenza ed efficienza, nel pieno rispetto delle normative vigenti". In Calabria i ricorsi hanno riguardato la mancata correzione della seconda prova scritta nel caso in cui la prima fosse stata valutata negativamente dalla Commissione; in questo caso, però, il TAR ha respinto i ricorsi, ritenendo che non vi fosse l’obbligo di correggere entrambe le prove. Ultima, in ordine di emanazione, una ordinanza del TAR Lombardia, che prima di decidere definitivamente sul ricorso di alcuni candidati esclusi dalla prova orale, ha chiesto all’Ufficio scolastico regionale di “acquisire le buste contenenti le prove di concorso dei ricorrenti”. Pioggia di ricorsi al Tar per il concorso da dirigenti scolastici. Quaranta aspiranti presidi hanno fatto istanza al tribunale amministrativo di Bari contro l’esclusione dalla prova orale. Dopo gli esiti dell’esame, in tanti hanno fatto appello ai giudici per essere riammessi. Il concorso indetto dal ministero dell’Istruzione e dall’ufficio scolastico regionale, mira a reclutare 236 dirigenti scolastici in tutta la Puglia, in scuole primarie e secondarie. I ricorrenti hanno sostenuto a giugno scorso un test scritto al quale non sono risultati idonei. Questo vuol dire che non potranno accedere alla prova orale. Le udienze sono state fissate infatti a fine settembre. Concorso per preside tra accuse e sospetti. Un bel giallo tra i presunti brogli coinvolto un foggiano. Secondo la legge doveva essere fuori dal concorso, invece non solo l'ha superato ma si ritrova a un passo dalla nomina. Denunce, dimissioni e sospetti di brogli: c'è un piccolo giallo nella procedura per il concorso da presidi (236 posti in Puglia) sulla quale da qualche indaga la procura della Repubblica. Uno degli 867 candidati ammessi alla prova scritta del maxi concorso per dirigenti scolastici, un professore «comandato» presso gli uffici della direzione regionale di Foggia, sarebbe stato pizzicato durante il primo giorno di prova con alcuni foglietti in un vocabolario. Tale episodio sarebbe avvenuto nella scuola «Elena di Savoia» in via Caldarola, al rione Japigia, uno degli istituti di Bari in cui si sono tenute le prove scritte, il 14 e 15 dicembre scorso. E a conferma che qualcosa non sia andato per il verso giusto, ci sono anche le dimissioni - avvenute pochi giorni fa - dei segretari delle due sottocommissioni, arrivate proprio adesso a concorso ormai ultimato (sono attese le prove orali). A denunciare tutto il docente Gerardo Troiano. Almeno un milione di euro la spesa per i contribuenti a causa del “concorso-farsa”. Contabilità (per difetto) del presidente Anief, Marcello Pacifico, un’associazione sindacale in rappresentanza di docenti e personale scolastico. Tra l’incarico dato a Formez (centro-studi del dipartimento della Funzione Pubblica) per l’elaborazione dei test e la retribuzione per i centinaia di commissari e presidenti del concorso per dirigenti scolastici. Sarebbe questo il danno erariale (proprio Anief ha presentato un esposto alla Corte dei Conti e per il quale si esprimerà anche il Tar il prossimo 22 novembre 2012) di una procedura concorsuale ora a forte rischio di annullamento per presunte irregolarità durante i test pre-selettivi. Un “carrozzone” che il 12 ottobre scorso ha messo in movimento oltre 32 mila docenti che aspirano a diventare personale dirigenziale (ma le domande giunte al ministero dell’Istruzione sono state circa 40 mila) e che in alcune regioni ora è giunto alle prove orali, nonostante su di esso penda la spada di Damocle di migliaia di ricorrenti ai tribunali amministrativi (con il supporto di alcune sigle sindacali, come Cisl Scuola Lazio che ha provveduto ad individuare uno studio legale per supportare chi ha impugnato il concorso). Ricorrenti che hanno contestato l’irregolarità di circa 30 domande sui mille quiz elaborati da Formez per le prove pre-selettive a causa di risposte “equivocabili”. E ora – al netto delle decisioni che prenderanno Tar e Consiglio di Stato – resta la sensazione che il caos provocato da questo concorso, nato sotto l’egida del precedente ministro della Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini e la sua scelta di affidare l’incarico a Formez (e non ad Invalsi, come chiedevano diversi addetti ai lavori) – stia provocando un danno incalcolabile allo Stato, proprio in tempi in cui si fa un gran parlare di Spending Review. Il Miur di recente ha comunicato le cifre dei compensi elargiti ai componenti delle commissioni. Compensi irrisori, avrebbero accusato alcuni. Eppure si parla di un “compenso base” da 251 euro per il presidente e 209,24 per ogni componente, più un integrativo di 50 centesimi per ciascun elaborato o candidato esaminato. In ogni caso – ha comunicato il Miur – “non possono eccedere i 2.051,70 euro”, con l’eccezione dei presidenti per i quali l’importo va incrementato del 20%. Considerando che le commissioni sono sparse in tutta Italia il conto per lo Stato – in caso di annullamento di concorso – supererebbe il milione di euro. Concorso per il quale ha chiesto lumi anche l’onorevole del Pd, Antonio Russo, con un’interrogazione parlamentare all’attuale ministro Francesco Profumo (che tuttavia non ha ancora risposto). Soprattutto perché in alcune commissioni figurerebbero esponenti di sigle sindacali, fortissime da un punto di vista rappresentativo nel comparto-scuola. Un conflitto di interessi neanche così velato. E che dire del concorso nell’insegnamento all’estero. Il concorsone pubblico per insegnanti all'estero si trasforma in una vicenda grottesca con tanto di polizia e sospensione della prova. Erano migliaia stamattina ad affollare lo spazio antistante l'hotel Ergife di Roma sulla via Aurelia, arrivati da tutta Italia per sostenere la prova di lingua del concorso per il reclutamento del personale docente e Ata destinato agli istituti scolastici stranieri. Al bando, gestito dall'agenzia Formez per il ministero degli Esteri, hanno partecipato oltre 36mila persone da tutta Italia. Ma qualcosa è andato storto: "Quando ci hanno presentato la prova -- ha raccontato la concorrente Loredana Tonni -- ci siamo accorti che era una presa in giro: ognuno di noi doveva rispondere ai 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto -- conclude -- nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre". Fatti i conti: rispondere a ogni quesito in poco più di un minuto. La protesta dei partecipanti si è fatta subito sentire. La commissione è stata subissata di lamentele. A quel punto sono state chiamate le forze dell'ordine. Il presidente della commissione di concorso ha deciso così di sospendere la prova, assicurando "che la prova stessa si ripeterà entro questa sera con gli stessi quesiti, come se nulla fosse successo". "Le modalità di questo concorso sono fuori da ogni legalità -- ha aggiunto Tonni -- chi è entrato a sostenere la prima prova conosce già tutti i quesiti delle successive e può preparare l'esame all'esterno consultando il volume che la commissione ha permesso di portare con sé". Intanto nelle caselle di posta dei giornali, arrivano decine di mail, molte con questo contenuto: "Il concorso è da annullare, siamo stati presi in giro, abbiamo studiato mesi per la selezione". Intanto alle 19 di questa sera è previsto che ricomincino le prove, anche se numerose sono le proteste di chi chiede che venga tutto annullato, anche perché i partecipanti in nessun modo possono portare all'esterno testi siglati dal Formez che hanno a che fare con i quiz e più di qualcuno giura di aver visto persone sottrarre i libri, tanto che alcuni di questi sono stati ritrovati abbandonati all'esterno della sala d'esame. Il concorso prosegue con ritardi e lamentele. Si sono svolte nel tardo pomeriggio le prove di tedesco e di inglese, durante le quali una nuova commissione di esame ha annunciato ai partecipanti che le prove di francese e di spagnolo sono state spostate a martedì 6 dicembre. I protestanti hanno alzato nuovamente la voce ma non è stato proclamato alcun annullamento: "Membri della commissione -- racconta una partecipante -- mi hanno detto che il ragazzo che stamani ha dato vita alla contestazione è stato denunciato insieme ad altre persone".

Presidi, concorso col trucco. Il ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Non mancano errori e incongruenze. Da un’inchiesta de “La Repubblica”.

Tra fughe di notizie ed errori nei test il concorso per dirigente scolastico rischia di naufragare prima ancora di iniziare. Lo scorso primo settembre, il ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che fra un mese saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Così, forum, blog e siti internet specializzati sono stati sommersi dai post dei candidati che segnalano errori, incongruenze, inesattezze nelle domande e che non nascondono la preoccupazione di trovarsi di fronte, dopo avere studiato per mesi, ad una selezione "addomesticata".

Ma andiamo con ordine. Dopo oltre un anno di attesa e mille anticipazioni, il 13 luglio 2011 è stato bandito il concorso per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Il bando di concorso, per sfoltire il gruppo di oltre 42 mila candidati che hanno presentato istanza prevede una preselezione attraverso un questionario a risposta multipla, simile a quello per accedere alle facoltà a numero programmato. La prassi, in questi casi, è quella di rendere nota la batteria di test dalla quale saranno sorteggiate le domande per il concorso alcune settimane prima. Durante la conferenza stampa del 31 agosto a Palazzo Chigi, il ministro Gelmini ha annunciato che il giorno dopo sarebbero stati pubblicati i test. Ma non sapeva che mentre lei parlava con i giornalisti qualcuno inviava a un candidato il prezioso file. E che ci sarebbe un "giro di raccomandati" che si sta adoperando per superare il concorso in tutti i modi.

La notte tra il 31 agosto e il primo settembre, nel forum aperto sul sito mininterno.net un docente dall'insolito nickname di "Preoccupato" confessa di avere ricevuto un file con le domande "ufficiali" ma di non potere essere sicuro della loro autenticità. Poco prima dell'una e mezza del primo settembre, alcuni candidati con problemi di insonnia si scambiano informazioni in attesa della pubblicazione dei test. E all'una e 46 compare sul web il contributo di "Preoccupato" che scrive: "C'è davvero di che essere preoccupati. Leggete i seguenti quesiti: si tratta dei primi 3 di ciascuna area. Appuntate la data e l'ora di questo post. Domattina capirete che ho scelto bene il mio nick!". "Scusa sono quelli ufficiali?", chiede l'incredula Carmenb.

E "preoccupato" risponde: "Ebbene sì!!! (domattina verificherete). Li sto spulciando dalle ore 13.30, quando ne sono venuto in possesso. Li trovo belli tosti. Non posso dire altro, ma questa cosa pone inquietanti interrogativi. Uno tra tutti: se la cosa si ripetesse con i fatidici 100 'sorteggiati'?". In pochissimo tempo si scatena la caccia al file. "O sei un raccomandato o stai sognando nel bel pieno della notte!!", commenta Imma8 e lui risponde: "1) Non sono raccomandato. 2) Come ho già scritto, non c'è alcun link, in quanto li ho ricevuti per e-mail in modo assolutamente casuale: sono del tutto fuori da quel giro. 3) Preferirei stare sognando, poiché mi sentirei più garantito. Su questo punto rinviamo il giudizio a domattina, cioè fra poche ore insonni. Se non si riveleranno quelli giusti sarò molto più soddisfatto: mi saranno serviti da esercitazione. Se saranno quelli giusti sarò sempre più preoccupato".

Dopo alcuni botta e risposta sempre più inquieti i partecipanti al forum decidono di inondare di e-mail il sito del ministero dell'Istruzione. Ma da viale Trastevere finora nessun commento ufficiale. Dal primo settembre le 5.750 domande costituiscono il passatempo migliore per migliaia di candidati al concorso: i quiz sono corredati dalle risposte e occorre memorizzarne il più possibile per avere qualche chance di successo. Scorrendole sono saltati fuori già diversi errori che hanno indotto l'Associazione docenti italiani a scrivere al ministro Gelmini e al capo dipartimento, Giovanni Biondi.

"Da un primo esame della batteria di quesiti pubblicata" il primo settembre "risultano diversi dati preoccupanti: un numero rilevante di errori nelle risposte indicate come esatte, domande prive di contestualizzazione alle quali è pertanto impossibile dare risposta, riferimenti a norme non più in vigore assunte come vigenti, domande incomprensibili o illogiche, inadeguatezza e incoerenza di numerosi quesiti rivolti a un concorso per l'area V della dirigenza". Ci sono anche alcune domande che lasciano perplessi. Quanto è importante per un preside sapere che la "tecnologia controllata dal tocco del dito o altro materiale conduttore di elettricità?" si definisce "touch screen capacitivo", anziché il "touch screen resistivo"?

"Non vorremmo che gli errori fin qui commessi comportassero un pregiudizio per la regolarità del concorso - scrive la presidentessa Alessandra Cenerini - e una facile occasione per un contenzioso giudiziale". Molti candidati "studiano da anni per questo concorso, hanno svolto master e dottorati e ora sono sconcertati di fronte a tale situazione". Il concorso si svolge in ambito regionale - sono stati messi in palio un tot di posti per ogni regione - e coloro che supereranno la preselezione dovranno svolgere due scritti, un periodo di formazione e un esame orale. La speranza, come ha avuto modo di dichiarare il presidente della commissione Cultura della Camera, Valentina Aprea, "è che alla fine vengano reclutati dirigenti scolastici più giovani del precedente concorso: al di sotto dei 45 anni". "La fuga di notizie è grave e dal Ministero nessuna risposta".

"È inutile un concorso per presidi con i test se le regole non sono trasparenti". Gianni Carlini, coordinatore dei dirigenti scolastici della Flc Cgi, ha chiesto un chiarimento al ministero dell'Istruzione sulla presunta selezione "addomesticata". Ed esprime perplessità sugli errori presenti tra le domande.

"E' grave che alcuni siano venuti in possesso della batteria di test in anticipo e rispetto agli errori il ministero sta decidendo il da farsi". Gianni Carlini è il coordinatore dei dirigenti scolastici della Flc Cgil e sul concorso che sta per partire ha le idee piuttosto chiare.

I docenti sono molto preoccupati per la trasparenza del concorso, lei che ne pensa?

"Dopo le polemiche dello scorso concorso, con la preselezione per soli titoli, è un bene che ci sia una preselezione con i test. Ma questa va fatta bene".

In che senso?

"Abbiamo chiesto al ministero, per esempio, di escludere dal gruppo di coloro che hanno partecipato alla stesura dei test professori e dirigenti che stanno tenendo i corsi di preparazione al concorso".

Con quali risultati?

"Il ministero non ci ha dato risposte".

Cosa ne pensa della fuga di notizie sui test?

"E' grave che alcuni siano venuti in possesso della batteria di test in anticipo, perché questa circostanza fa sospettare che altri possano avere avuto i test ancora prima".

Cosa state facendo per assicurare la trasparenza della selezione?

"Stiamo intervenendo per ottenere il massimo delle garanzie possibili perché tra i candidati si sta diffondendo il disagio che il concorso non sia trasparente. Sappiamo che i 100 test cui saranno sottoposti i candidati saranno per tutti uguali. È indispensabile che il sorteggio avvenga in maniera tale che non ci siano fughe di notizie e che tutti i candidati vengano messi nelle stesse condizioni".

E sugli errori già segnalati?

"Anche noi abbiamo rilevato e segnalato diverse domande errate e ci dicono che il ministero sta valutando il da farsi".

Ma alcuni sostengono che alcune domande sarebbero sui generis, che ne pensate?

"In effetti, dalle domande emerge un profilo di competenze del nuovo dirigente scolastico piuttosto diverso da quelle di cui in effetti deve essere in possesso per svolgere il proprio lavoro".

A Palermo il corso-concorso al quale hanno partecipato oltre 600 dirigenti scolastici, è stato dichiarato nullo dal Consiglio di giustizia amministrativa siciliano lo scorso 10 novembre 2009. Per evitare un ulteriore passaggio parlamentare del decreto salva-precari la norma non era stata subito cancellata dal provvedimento. Ora il nuovo decreto legge elimina la norma, ma non le polemiche. Saranno molti gli strascichi legati ai diritti acquisiti da chi era entrato già in servizio, circa 426 presidi. Sembrerebbe che alle presidenze delle scuole occupate da presidi nominati in forza del concorso annullato dal Cga sia giunta una circolare che comunica che il 12 dicembre 2009 tali dirigenti rientreranno nei loro posti di insegnanti precedentemente occupati, mentre gli attuali titolari di quei posti saranno messi a disposizione del Csa. Erano state due concorrenti escluse dal concorso, la nissena Maria Cucciniello e l’agrigentina Giuseppina Gugliotta, a fare ricorso in appello chiedendo l’intervento della giustizia amministrativa, che aveva indotto l’ufficio scolastico regionale, diretto da Guido Di Stefano, a nominare una speciale commissione per rivalutare gli elaborati delle due ricorrenti. Il nuovo esito era stato ancora una volta sfavorevole alle due interessate, ma tanto era bastato perché il Cga intervenisse sull’intera procedura del corso-concorso individuando un motivo di difetto nel mantenimento di un solo presidente per due sottocommissioni a seguito della rinunzia di alcuni commissari. Decine di elaborati scritti a mano esaminati nel giro di poche ore, compiti dei vincitori infarciti di errori di ortografia: è bufera sulla selezione per dirigenti scolastici che si è svolta in Sicilia. Sicilia, concorso pubblico nazionale per dirigenti scolastici. Oltre 1500 docenti, dopo aver superato la selezione per titoli, partecipano alle prove scritte che consistono in un saggio e un progetto. I posti a disposizione sono solo duecento. Quando i risultati degli scritti sono pubblicati, numerosi docenti che non sono stati ammessi all’orale fanno richiesta del proprio elaborato e dei verbali di correzione della commissione. Quello che scoprono è all’origine della loro contestazione e della richiesta di annullare il concorso e rifare tutto. Una delegazione, guidata da Maria Antonietta Cucciniello, Alfredo Pappalardo e Matteo Croce, ha spiegato in trasmissione le anomalie verificate nella correzione dei compiti. Dai verbali, infatti, è stata riscontrata la velocità con la quale i commissari hanno corretto saggi e progetti: tre minuti per leggere elaborati scritti a mano, spesso con grafie incomprensibili, di almeno 6 pagine ciascuno. Ma non basta, come dimostrato dai docenti che contestano i risultati del concorso, questa rapida correzione ha visto premiati, in alcuni casi, scritti con grossolani errori di grammatica. Intervenuto in trasmissione il Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale per la Sicilia, Guido Di Stefano, ha affermato che solo pochi verbali mettono in evidenza anomalie nei tempi di correzioni ed ha difeso la regolarità delle procedure concorsuali.

Quando a Bari era facile essere ammessi a Medicina. I test di ingresso alla Facoltà pugliese finirono al centro di una brutta vicenda: docenti e studenti avevano messo su un lucroso giro per superare i difficili quiz. I rinvii a giudizio furono 127. Nel 2007 a finire sotto la lente di ingrandimento della magistratura è il test di ammissione a Medicina. A Bari si registra uno strano fenomeno: parecchi ragazzi riescono a risolvere "troppi" quesiti e riescono a totalizzare punteggi di gran lunga superiori agli studenti che nello stesso momento sostenevano gli esami negli altri atenei. Gli esclusi denunciano la cosa alla magistratura che comincia ad indagare e scopre che un docente, in collaborazione con altri colleghi, dipendenti dell'ateneo pugliese, genitori, studenti e perfino il figlio e la moglie avevano allestito una macchina quasi perfetta: da due diversi punti partivano e arrivavano sms con domande e risposte corrette, che venivano poi dirottati agli studenti. Così, superare il test di ammissione diventava un gioco da ragazzi. Ma, resosi conto che la situazione era degenerata, il rettore dell'ateneo decide di annullare il test. Dopo quattro anni, a Bari, 32 indagati per quella vicenda chiedono il patteggiamento della pena, mentre in 14 optano per il rito abbreviato. In quella tornata di test di ammissione anche altri atenei finiscono nella rete degli investigatori: Chieti, Foggia, Ancona. In tutto, sono stati rinviati a giudizio ben 127 persone per quella che il pm Francesca Romana Pirrelli non ha esitato a definire come vera e propria "organizzazione criminale".

Roma, Latina e Salerno corruzione alle elementari. Quello dei dirigenti scolastici non è l'unico scandalo che ha riguardato i concorsi. Per ottenere il posto alle elementari si usavano gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi. Nel 2000 il concorso di scuola elementare è stato funestato da una serie di inchieste, con rinvii a giudizio e arresti a raffica. A Roma, Latina e Salerno i commissari d'esame del concorso bandito nel 1999 si sono fatti corrompere, in alcuni casi anche da una bottiglia di profumo. Due i filoni di inchiesta. In quella laziale due precarie non ammesse allo scritto fanno ricorso e scoprono che nella busta col loro nome e cognome ci sono altri compiti, pieni di errori, e denunciano il fatto. Dalle indagini si scopre che i compiti delle due insegnanti escluse, corretti e che avrebbero determinato il passaggio dell'esame, sono andati a finire nelle buste di altre due colleghe. Che interrogate, dapprima negano, e dopo un po' confessano la corruzione: gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi per ottenere il posto. I tre insegnanti dall'altra parte della barricata, reclutati come commissari d'esame, erano tutte e tre donne. Per i carabinieri trovare il corpo del reato è stato facile, perché a casa delle tre insegnanti sapevano cosa cercare. A Latina, per lo stesso concorso invece i commissari d'esame hanno chiesto fino a 10 milioni delle vecchie lire e gioielli che sono stati trovati nella cassaforte di uno degli inquisiti. A Salerno finisce sotto inchiesta, per scarsa trasparenza, anche il concorso per la scuola materna.

PARLIAMO DI INSEGNANTI DI SOSTEGNO AI DISABILI.

Un'inchiesta sul Corriere della Sera di Gian Antonio Stella si intitola "La fabbrica delle cattedre al Sud con i «furbetti del sostegnino».

In quindici anni i docenti per i ragazzi con difficoltà sono triplicati.

«Vogliamo più disabili!». L’invocazione surreale che spinse un gruppo di precari ad assediare il Provveditorato di Caserta chiedendo un aumento degli insegnanti di sostegno appare esaudita: la crescita dei portatori di handicap è dieci volte superiore a quella degli studenti. Una notizia da brividi se non ci fosse un sospetto. Che l’impennata sia dovuta alla scoperta da parte di chi aspira alla cattedra di un’equazione: più handicappati, più assunzioni. Soprattutto nel Mezzogiorno.

La clamorosa denuncia è contenuta in un dossier di Tuttoscuola. «Nell'anno scolastico 2009-10 gli alunni disabili inseriti nelle scuole statali di ogni ordine e grado hanno superato le 181 mila unità (il 2,3% della popolazione studentesca), con un incremento di oltre 5 mila rispetto all'anno precedente», scrive la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra. Peggio: «Negli ultimi cinque anni sono aumentati del 12,3%, mentre nello stesso periodo la popolazione scolastica aumentava dell'1,2». Un decimo. Sgomberiamo subito il campo: quello dei portatori di handicap, come dimostra tra gli altri il libro di Matteo Schianchi, "La terza nazione del mondo — I disabili tra pregiudizio e realtà", è un tema serissimo. Che toglie il sonno ai genitori dei ragazzi affetti da qualche disabilità, costretti ad affrontare il percorso scolastico troppo spesso senza un'assistenza adeguata.

Proprio perché il problema esiste, però, suona offensivo il modo in cui alcuni ne approfittano. Come accadde tempo fa ad Agrigento, dove il Circolo della legalità mandò una lettera al ministero sottoscritta da 550 addetti e un esposto alla Finanza per denunciare l'abuso della legge 104. Legge che, a tutela dei dipendenti che abbiano invalidità superiori a un certo limite o debbano farsi carico di un parente disabile, dice che hanno la precedenza in graduatoria per avere un posto più vicino a casa. Norma giusta. Ma utilizzata, stando alla denuncia, da troppi furbi: «Praticamente il 100% dei posti nelle "materne" è stato assegnato negli ultimi tempi grazie alla legge 104. C'è una dilagante e prepotente disonestà che coinvolge non solo chi usufruisce dei benefici della Legge, ma anche chi consente queste pratiche fraudolente». Di più: «Il sistema sta dilagando». Dice oggi il dossier Tuttoscuola che «nel 1995-96, con una popolazione scolastica complessiva superiore a quella attuale, gli alunni con disabilità erano 108 mila. In quindici anni sono aumentati di quasi il 70%. I docenti di sostegno, che in quell'anno erano 35 mila, sono diventati ora più di 90 mila». Quasi il triplo: «Allora vi era un docente di sostegno ogni tre alunni disabili; oggi c'è un docente ogni due». Sia chiaro: è bene che i ragazzi più sfortunati vengano aiutati. E sotto questo profilo la legge italiana è migliore di tante altre al mondo. E lo riconosce anche la rivista di Vinciguerra: «È cresciuto molto negli ultimi 10-15 anni lo sforzo dello Stato verso un settore che sotto molti aspetti rappresenta un fiore all'occhiello» della nostra scuola.

Ormai «l'Italia investe circa 3 miliardi di euro l'anno solo per il personale di sostegno». E quell'esercito di 90 mila insegnanti specializzati è maggiore più di tutti gli psicologi (70 mila) e i pediatri (14 mila) messi insieme. Che ci sia qualcosa che non va lo dice la mappa, da cui emergono squilibri sorprendenti»: «Ci sono più studenti disabili al Centro e nel Nord Ovest, ma lo Stato destina gli insegnanti di sostegno (a tempo indeterminato o precari) soprattutto al Sud e nelle Isole. E tra questi offre posti stabili (immissioni in ruolo a tempo indeterminato) molto di più proprio al Sud e nelle Isole che nel resto del Paese: il 52% dei posti fissi sono assegnati infatti nel Meridione». Dove vive circa il 27% degli italiani e dove risultano (sulla carta) il 40% degli alunni bisognosi di un appoggio. Dice la legge che ogni 100 insegnanti di sostegno 70 devono essere stabili ma questa percentuale sale all'89% in Campania e in Sardegna e crolla al 56% in Lombardia e in Veneto, si impenna al 91% in Basilicata e precipita al 55% in Emilia Romagna. Perché differenze così abissali? Tuttoscuola risponde che dipende «probabilmente in buona misura dai diversi criteri utilizzati dalle Asl per la valutazione delle disabilità» e questo nonostante «la legge richieda l'utilizzo dei parametri internazionali dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità: e non a caso la manovra finanziaria di inizio estate ha introdotto la responsabilità per danno erariale da parte dei medici preposti». Quanto al «numero di docenti di sostegno e, tra questi, di quanti sono assunti stabilmente, si tratta di decisioni prese dal Ministero dell'istruzione».

Di più: la sproporzione negli ultimi anni «si è accentuata». La spiegazione è una sola: c'è qualcuno negli uffici assai disponibile a fare piacerini agli amici e agli amici degli amici. C'è chi dirà che anche qui si tratta di un «risarcimento» al Mezzogiorno, come lo chiamava Mastella. Ma che c'entra il riscatto del Sud coi «furbetti del sostegnino»? Spiega il dossier che il posto d'insegnante di sostegno è in realtà una scorciatoia, tanto più in questi tempi di magra e di riduzione del personale, per la conquista della cattedra a vita. Basti dire che «dei 10 mila posti di docente per le nuove immissioni in ruolo 2010-11, più della metà (5.022) sono per posti di sostegno». Posti che dopo 5 anni, una volta guadagnata l'assunzione, si possono abbandonare per «passare all'insegnamento tradizionale». Ma come si diventa insegnanti di sostegno? Penserete: chissà quanti studi! No: basta frequentare «un semestre aggiuntivo all'università, per 400 ore totali. E non sempre la preparazione è all'altezza: per gli alunni con disabilità visiva, ad esempio, non è raro imbattersi in docenti di sostegno che non conoscono l'uso del Braille, la scrittura per ciechi».

QUANDO I PROF VANNO IN TILT.

Ansia, insonnia, depressione, apparente svogliatezza e scatti d'ira improvvisi. E' la sindrome da "burn out": una malattia professionale che colpisce gli insegnanti. Un disagio grave di cui solo ora si inizia a parlare ma che le scuole non sono in grado di affrontare per la mancanza di formazione di risorse, scrive Mariangela Vaglio su “L’Espresso”. Spesso sono bollati a torto come "fannulloni": sono infatti insegnanti che ad un certo punto smettono, per così dire di essere efficienti come il sistema vorrebbe. Fanno fatica a fare lezione, a concentrarsi, hanno problemi a gestire le classi e i rapporti con colleghi e genitori. In una parola arrancano o si fermano del tutto. Ma non è questione di cattiva volontà o "svogliatezza". Sono insegnanti colpiti, molto spesso, dalla sindrome del burn out, una patologia che in Italia è quasi completamente sconosciuta eppure causa danni gravissimi: chi ne è affetto soffre di crisi di ansia, insonnia, depressione, scatti d'ira improvvisi e ingiustificati; ha l'impressione di non riuscire più a controllare le cose da fare e tenere dietro ai mille impegni, rispettare le scadenze, fra normative che cambiano in continuazione, classi sempre più numerose, genitori pronti alla contestazione continua dei metodi di insegnamento e dei voti, tagli al budget e precariato diffuso. La categoria professionale degli insegnanti è la più colpita da una serie di disturbi che solo oggi cominciano ad essere riconosciuti nelle letterature specialistiche come correlate strettamente al lavoro che svolgono, cioè malattie professionali, esattamente come sono correlati al lavoro alcune patologie fisiche di operai in reparti a rischio: il costante impegno con i ragazzi in una età problematica, i rapporti sempre più difficili con le famiglie, lo scarso riconoscimento sociale del proprio ruolo, il senso di essere costantemente giudicati da tutti e accusati di non essere all'altezza. Tutte queste ansie e le relative frustrazioni spesso causano negli insegnanti contraccolpi psicologici fortissimi, che li rendono alla fine inadatti a svolgere un lavoro per altro, molto spesso amatissimo: sono infatti, paradossalmente, gli insegnanti più coinvolti nella scuola, quelli che danno la vita per il loro mestiere, che rischiano di più il burn out. Un libro recente, "Pazzi per la scuola", di Vittorio Lodolo D'Oria, ha analizzato il problema del burn out: l'autore, che da anni si occupa di seguire docenti in crisi, sottolinea come non solo il problema sia tragicamente sottovalutato, ma come nella scuola italiana manchi molto spesso qualsiasi struttura per farvi fronte: non esistono convenzioni con psicologi che possano monitorare i docenti a rischio e spesso i Dirigenti Scolastici non sono neppure formati per affrontare il problema e lo scambiano con una generica "svogliatezza" o scarsa resa del docente, colpevolizzandolo ancora di più. Il risultato è che se un insegnante comincia a manifestare problemi di esaurimento, nessuno se ne occupa davvero finché non si manifestano episodi gravi, e anche allora non è ben chiaro come si possa aiutarlo o riconvertirlo. Gli insegnanti spesso non sanno a chi rivolgersi: alcune testimonianze sono state raccolte e diffuse dalla rete, per esempio sul sito di una docente, Isabella Milani, e sono strazianti: "Sono veramente delusa e amareggiata, mi sento un fallimento completo. Ero andata lì piena di belle speranze, felice di stare con i bambini... ed è veramente frustrante vedere che i bambini non mi ascoltano, non mi seguono, non hanno alcun rispetto di me. Torno a casa dopo quattro o sei ore in quella classe senza voce e più che mai avvilita, mi viene da piangere." Racconta Alessandra, maestra; Sonia rincara la dose: "Ho bisogno di aiuto, mi sento un disastro come insegnante, quando mi trovo a gestire una classe ognuno fa quello che vuole: impiego molto tempo per "prepararmi" per affrontare la lezione e mi riempio di ansia e stress tale, da soffrire di mal di testa e di spossatezza, e quando sono stanca non riesco neanche a parlare bene". Le storie raccolte sono decine, non si può parlare di un fenomeno isolato. Secondo Isabella Milani uno dei problemi fondamentali è la solitudine degli insegnanti: «Nella scuola, o hai la fortuna (rara) di imbatterti in un bravo dirigente, o sei solo. Nessuno ti ha aiutato prima e nessuno ti aiuta durante. Non mi risulta che ci siano programmi di formazione per spiegare come affrontare il problema. Ci sono insegnanti, giovani, ma anche meno giovani, per i quali entrare in classe è come entrare nella fossa dei leoni.» Secondo la Milani, e il problema emerge anche dagli studi di Lodolo D'Oria, i Dirigenti Scolastici non sono sempre in grado di gestire il problema: «Credo che spesso siano i dirigenti stessi quelli che non aiutano gli insegnanti. Quando non sono proprio loro a creare un clima intimidatorio nei confronti di chi si ribella a una gestione personalistica della scuola.» Ma spesso, come sottolinea un pdf messo in rete dall'Avis di Ragusa sul problema intervenire da parte dei Dirigenti non è nemmeno facile, perché se ai docenti viene suggerita una visita specifica con il medico del lavoro essi vivono la cosa come un episodio di mobbing. Come uscirne? Secondo la Milani ci vorrebbero investimenti seri: «Credo che gli investimenti dovrebbero servire a rendere più gestibili le classi. creando classi meno numerose e affiancando insegnanti di sostegno a quelle difficili. Servirebbe inoltre una formazione pratica per gli insegnanti che stanno per entrare nella scuola, fatta da docenti che insegnano da anni, che siano diventati formatori e che vengano esonerati dall'insegnamento per dedicarsi a preparare le future leve. La possibilità di avere a disposizione uno psicologo sarebbe molto utile. Ma ci vogliono soldi: finché la gente (e i politici che hanno mai messo piede in una scuola pubblica) non si rendono conto di quello che significa l'insegnamento nessuno investirà nulla.» Soldi, che non ci sono, e forse anche una cultura diffusa, che non si limiti a ritenere il malessere di un insegnante un fatto "privato" o una incapacità sua, da risolvere da solo, e ancora una volta, senza pesare sullo Stato.

QUANDO I MINISTRI VANNO IN TILT.

La Lobby degli editori non vuole gli e-book a scuola. Ed allora  “Stop ai libri digitali a scuola”. No, i libri digitali a scuola non saranno obbligatori neppure nel settembre 2014, l’ultima data fissata dal decreto Profumo (che lo scorso 26 marzo aveva spostato in avanti l’inizio della nuova era, in un primo momento previsto per il settembre 2013), scrive Corrado Zunino su “La Repubblica”. Il ministro dell’Istruzione in carica, Anna Maria Carrozza, a metà di questa settimana ha incontrato gli editori, arrabbiati per la rapida evoluzione digitale della scuola (che assorbe un quinto del totale dei libri venduti in Italia, un fatturato di 650 milioni di euro), e ha comunicato loro: «Fermiamo tutto, l’accelerazione impressa all’introduzione dei libri digitali è stata eccessiva, voglio prendere in mano la questione ed esaminarla a fondo. Deponete le armi». Già, gli editori, conservativi e conservatori, due mesi dopo avevano fatto un ricorso al Tar contro il decreto Profumo: temevano un crollo delle vendite dei libri cartacei e temevano il contenimento dei prezzi dei loro prodotti, sia cartacei che digitali. La Carrozza, che ha ispirato il suo inizio mandato a un prudente monitoraggio del sistema scolastico in attesa di riforme “a settore” di lunga durata, ha detto agli editori: il sentiero dei libri digitali è segnato e non vogliamo uscirne, i tempi, però, mi sembrano troppo rapidi e il ministero non vuole nuovi contenziosi. Presto, interverrà in maniera formale per rivedere le indicazioni del suo predecessore, che, va ricordato, impose il decreto agli editori dopo diversi scontri culminati in un’infuocata riunione lunga cinque ore in viale Trastevere. È fortemente probabile che l’obbligo di libri scolastici digitali (o misti) slitti alla stagione scolastica 2015-2016. Il Miur non ha ancora spiegato se alla frenata sui testi digitali corrisponderà lo sblocco del tetto sui costi imposti da Profumo alle aziende (con risparmi per le famiglie dal 20 al 30 per cento). Il ministro Carrozza ha scelto di congelare i libri digitali anche perché ha compreso il ritardo infrastrutturale tecnologico della scuola italiana: banda larga, wifi, cose per ora residuali nelle nostre aule. Gli editori, soddisfatti per i loro bilanci, commentano: «Avremmo dovuto macerare interi magazzini». E offrono queste spiegazioni alla loro posizione: «L’accelerazione sui libri digitali non poggiava su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale, così come non sono state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di apparecchiature tecnologiche». L’Associazione editori non ricorda, tuttavia, che alcuni editori hanno già lanciato versione 2.0 dei manuali scolastici e che soprattutto l’Ocse, l’organizzazione che raggruppa i paesi industrializzati, ha bocciato la lenta progressione della scuola digitale italiana ricordando che in Inghilterra l’80 per cento delle classi è attrezzata per il digitale. Sul piano dei libri digitali (non solo quelli scolastici), a fine giugno è stato certificato che il mercato è in rapida crescita: i titoli in formato digitale sono 60.598, ovvero l’8,3% dei titoli in commercio, e il 44,6% delle novità italiane sono pubblicate anche in ebook. Rispetto al 2012, i lettori in digitale sono il 45,5% in più.

Ma la scuola resta fuori. Mariangela Vaglio, insegnante, blogger e giornalista, frequento le aule scolastiche per mestiere e internet per passione scrive su “L’Espresso”. Il Ministro Carrozza, la didattica digitale e l’intramontabile fascino di lavagna e gessetto. «L’accelerazione sui libri digitali non poggiava su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale, così come non sono state valutate le possibili ricadute sulla salute di bambini e adolescenti esposti a un uso massiccio di apparecchiature tecnologiche». Con queste parole Anna Maria Carrozza, Ministro dell’Istruzione del Governo Letta ha in pratica messo una sorta di pietra tombale sull’obbligo, istituito dal suo predecessore Profumo, per le scuole di dotarsi dal prossimo anno di testi in ebook, e, da quanto si capisce, frenato molto la possibilità che nei prossimi anni partano a tappeto le cosiddette classi 2.0, cioè quelle classi in cui gli alunni avranno ciascuno il proprio tablet connesso in rete. La dichiarazione del Ministro è sicuramente un modo per rassicurare gli editori scolastici, sul piede di guerra perché con i nuovi limiti imposti da Profumo (tutti i libri dovevano essere anche digitali, e i costi tagliati del 20% sulle edizioni scolastiche) e che sarebbero entrati in vigore con il nuovo anno scolastico, essi rischiavano un disastro economico: magazzini di copie cartacee invendute e valanga di nuovi testi adottati in tutte le scuole, con precoce pensionamento dei vecchi. Forse è soprattutto un prendere atto senza dirlo della situazione della scuola italiana, in cui, salvo rare isole felici, la rivoluzione tecnologica non può nemmeno iniziare, perché la dotazione tecnologica più avanzata sono pc dei tempi di Annibale, e, complici i tagli degli anni passati, non ci sono nemmeno i fondi per dotarsi di una rete wifi. Sulla rete, già oggi, sono cominciati ad apparire post indignati assieme a simpatici sfottò che ridicolizzano la dichiarazione del Ministro. E immagino che da questo blog ve ne aspettereste un altro. Invece mi sa che vi deluderò. Perché, anche se formulata così è una dichiarazione goffa e che fa venire un po’ i brividi, non posso però fare a meno di constatare, da insegnante che ha una forte, fortissima simpatia ogni possibile cazzabubbolo digitale, che forse il Ministro tutti i torti non ha, e anzi solleva un problema che dovremmo tutti porci. Cioè, in breve: ma siamo sicuri che la scuola digitale insegni meglio e sia più efficiente di quella con lavagna e gessetto? In alcune mie classi da anni ho le LIM, le lavagne multimediali. Ho messo a punto sistemi per cui, tramite la posta elettronica, i miei alunni interagiscono con me, ci scambiamo gli appunti delle lezioni; abbiamo costruito blog e giornalini di classe on line, facciamo lezione dando link a voci della Treccani e di Wikipedia, usando filmati di Youtube e altre risorse in rete. E’ tutto molto bello, e per un docente molto stimolante. Il mio problema però sono le ricadute. Che, nella mia esperienza forse troppo limitata per trarne dei dati statisticamente rilevanti a livello scientifico ma abbastanza approfondita per trarne qualche considerazione personale, è, devo essere sincera, molto scarsa. Cioè, per essere chiari: alla fine di tutto, la mia esperienza come insegnante mi dice che i ragazzi bravi e interessati raggiungono lo stesso livello sia che in classe usino il tablet sia che abbiano un quaderno ed una lavagnetta di ardesia, pure scrostata. E che le classi dove ci sono e vengono usati i supporti digitali non hanno mediamente performance o risultati migliori di quelle dove si usano i vecchi metodi. Che anzi gli alunni che hanno a disposizione gli strumenti digitali hanno spesso una capacità di memorizzazione dei dati minore, perché lo so che è brutto dirlo e sembra poco moderno, ma essere costretti a ricopiare a mano, sul vecchio quaderno di carta uno schema dalla lavagna o sottolineare con la matita un passo su un libro old stile funziona meglio, per il nostro cervello, anche per quello dei piccoli nativi digitali. Che usare in classe tanta tecnologia aiuta i ragazzi ad essere molto più veloci e forse rende le lezioni più divertenti, o almeno meno barbose: ma non sempre le rende più efficaci. Perché i natici digitali sono già velocissimi di loro, e sono capaci anche di trovare centinaia di informazioni in pochi secondi: ma il problema è che la scuola deve servire loro per imparare a gerarchizzare e scegliere, ed incasellare quelle informazioni in schemi mentali efficaci, e quindi il traguardo con i ragazzi di oggi, paradossalmente, non è stimolarli ad essere veloci, ma rallentare i loro processi, insegnare loro a diventare sistematici ed organizzati. Cosa che viene molto più facile con gli strumenti vecchi e non digitali: il riassunto, lo schema fatto sul quaderno, la tabella che permette di mettere in ordine, con pazienza e su un vecchio foglio di carta, le informazioni raccolte e farne una sinossi. Per cui, anche se la forma con cui il concetto è stato enunciato mi fa un po’ orrore (la salute minacciata dagli strumenti tecnologici fa venire in mente quelli che credevano che lasciando il cellulare accesso ci si potessero cuocere sopra le uova), sulla sostanza io credo che invece bisognerebbe ragionare molto, e a mente fredda. Perché purtroppo anche l’ex Ministro Profumo aveva un po’ lasciato passare questa idea naif, che bastasse riempire le classi di pc, tablet e computer per crescere automaticamente una generazione di piccoli geni, veloci ed intuitivi. E invece non è così semplice, perché gli esseri umani sono complessi e i pc, i tablet e gli smartphone sono solo oggetti, e da soli non fanno miracoli: per impostare una nuova didattica digitale, portata avanti da docenti che sappiano usare perfettamente le nuove risorse, ci vogliono anni di studio e di sperimentazione. E come tutte le sperimentazioni c’è anche il rischio che alla fine ci accorgiamo che la vecchia didattica, quella con lavagna e gessetto funzionava meglio e rendeva di più. Ci abbiamo pensato? Attenzione! Il Ministro Maria Chiara Carrozza mi ha cortesemente risposto su Twitter: “Non ho mai detto le parole riportate nel virgolettato!”. Vorrei capire allora che cosa esattamente ha detto (io come tutti i cittadini ho la possibilità di leggere quello che riportano i giornali) ed esattamente cosa si prevede per la nuova scuola digitale. Ho chiesto, sempre su Twitter, al Ministro se ce lo può chiarire, appena arriva la risposta pubblicherò gli aggiornamenti ulteriori.

MATURI O ABILITATI?

Esame 2018, ecco perché si chiama Maturità. E se invece avessero ragione Pasolini o Moretti? Dal 1923 è definita così, ma Berlinguer la modificò in Esame di Stato, anche se per tutti resta la maturità, come se dopo ci fosse la decadenza. Ma Pasolini diceva che...scrive Paolo Fallai il 15 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Si è guadagnato questo nome da quasi un secolo, visto che di «esame di maturità» si parla dalla riforma Gentile del 1923. La stessa che avrebbe introdotto questa prova per permettere a chi la superava di iscriversi all’Università. Una definizione condivisa con decine di altri Paesi europei e non, occidentali e orientali, continentali e balcanici, uniti nel grande sospiro liberatorio di aver trovato un nome convincente ad un appuntamento per un’età dichiaratamente senza convinzioni.

Maturi o passati? Le caratteristiche comuni sono molte: vi si arriva quando l’adolescenza ha ormai scatenato il panico nei protagonisti e nei loro familiari, quando si hanno alle spalle 12 o 13 anni di studio, quando quella rivoluzione ormonale cominciata ormai da tempo assume i connotati della «tempesta perfetta». Apparentemente risolta per i più fortunati, perennemente in subbuglio per tutti gli altri. Ecco, è in questo preciso momento che l’istituzione scolastica si incarica di stabilire se siamo «maturi». Che già nel nome offre un chiaro sospetto: quello di definirci al massimo delle nostre possibilità di evoluzione, giunti a compimento, subito prima dell’inevitabile degrado verso la decadenza. Elemento che introduce nuove e preoccupanti suggestioni. Se la «maturità» è lo snodo che segna il passaggio alla vita adulta, tra la giovinezza e la vecchiaia con il «completo sviluppo dell’organismo», superarla significa oltrepassare il valico e cominciare una discesa inesorabile.

L’esame di Stato. Pier Paolo Pasolini sintetizza con estrema chiarezza ne «Le belle bandiere»: «I ragazzi e i giovani sono in generale degli esseri adorabili, pieni di quella sostanza vergine dell’uomo che è la speranza, la buona volontà: mentre gli adulti sono in generale degli imbecilli, resi vili e ipocriti (alienati) dalle istituzioni sociali, in cui crescendo, sono venuti a poco a poco incastrandosi». Con un sillogismo un po’ forzato quindi si può riassumere che la maturità rappresenta un passaggio decisivo verso l’imbecillità. In base forse anche a questa provocazione, o al solo sospetto, settantaquattro anni dopo la riforma Gentile, nel 1997 il ministro Luigi Berlinguer decide che una svolta è matura e cambia nome alla verifica finale del ciclo superiore: non più maturità ma «esame di Stato».

Il momento indimenticabile. Anzi per essere precisi «esame di Stato conclusivo del corso di studio di istruzione secondaria superiore». Ma una definizione così ampollosa poteva uccidere il semplice e vincente accostamento tra lo sviluppo dei nostri ragazzi e quello delle mele renette? Ovviamente no. Così una schiera di adulti creativi si è incaricata di difendere quel momento indimenticabile con canzoni orecchiabili e film straordinariamente adatti a chi quell’esame ormai mitologico poteva solo rimpiangerlo. Eccoli qua, con risate studiate per nascondere l’imbarazzo della commozione, schiere di «Notte prima degli esami», serie di «Immaturi», lampi tra «Ecce Bombo» e «Ovosodo», inevitabili «Ultimi della classe» e preoccupatissimi «Che ne sarà di noi».

La platea dei maturati. D’altronde è bene uscire da ogni equivoco: non c’è alcuna produzione artistica o letteraria rivolta a chi sta per sostenere questo esame. Un po’ perché i ragazzi hanno altro da fare, tipo ripassare come forsennati per paura che l’angoscia limiti il poco che pensano di sapere. Molto perché la platea dei maturati è molto più vasta, nostalgica e disponibile rispetto a quella piccola e nevrotica dei maturandi. Anche questo articolo è interamente destinato a lettori adulti. Chi l’ha scritto ha perso da anni la limpidezza delle speranze e si trova comodamente sistemato tra gli imbecilli.

C'era una volta il tema di Maturità: l'Italia raccontata dalle tracce d'esame. Prima prova per 500mila candidati: dalla Liberazione alla solitudine dei giovani, così negli anni la prova scritta è diventata specchio dei tempi, scrive Paolo di Paolo il 20 giugno 2017 su "La Repubblica". C'è chi ancora lo sogna di notte. E ricorda l'ansia del foglio bianco, quel precipitarsi a sfogliare il dizionario in cerca di ispirazione. C'è invece chi l'ha dimenticato. E quando gli chiedi se ricorda il tema d'italiano alla maturità, ti guarda come dovesse pescare ricordi di un'altra era geologica. Introdotta da Gentile nel '23, la prova di licenza liceale, come si chiamava alle origini, ha cambiato nome e volto: maturità, esame di Stato. Il punto fermo è comunque l'inizio, con la penna in mano e la testa in cerca di parole. Scorrere le tracce assegnate lungo i decenni funziona come un'insolita macchina del tempo. Che cosa ci si aspettava dai "giovani d'oggi" nell'Italia appena liberata? Traccia secca: raccontare "quali sentimenti ha destato sull'animo" il grande evento della liberazione di Roma. E da quelli del '95, mezzo secolo dopo? Che riflettessero sulla loro stessa solitudine - "la solitudine dei giovani". Così - anno dopo anno, tema dopo tema - l'immagine un po' mossa che si compone ha almeno due livelli di lettura: il primo riguarda attese (e pretese) degli adulti - la loro idea di "maturità"; l'altro, l'eterno confronto dei ragazzi con l'ombra allegra che proiettano sul mondo. Certo, l'idea del tema "emotivo" è recente - e trovare, per esempio, nei tardi anni quaranta e negli anni cinquanta una traccia che lasci campo libero all'interiorità non è facile. Gli echi risorgimentali sono ancora ingombranti; d'altra parte, sulle antologie scolastiche - come si vede benissimo in Che dice la pioggerellina di marzo (Manni) - sono cariche di inni "a Garibaldi, alla Spigolatrice, a Venezia, ai morti di Redipuglia, all'armata che se ne va". Non suona perciò curioso che la prova proposta nel 1948 - anno dell'entrata in vigore della Costituzione - chiedesse agli studenti di confrontarsi con un aulicissimo, solennissimo Carducci. I maturandi sono lasciati soli davanti a una evocazione della nazione "tornata in potestà di sé", "l'Italia viva e vera, la bella la splendida la gloriosa Italia". Non andò di lusso ai maturandi del 1950 - tra i quali il futuro semiologo scrittore Umberto Eco: se la videro, fra l'altro, con un ruvidissimo invito a delineare gli "orientamenti del pensiero politico italiano nella prima metà del secolo XIX". Pare che Eco abbia svolto in otto pagine l'arduo compito, raccattando un giudizio deludente: "Discreto". Gli anni sessanta si ammorbidiscono? Fino a un certo punto, e comunque non subito. La maturità del 1963 lascia da scegliere fra la tenerezza di ricordi nella Divina Commedia, una riflessione di Carlo Cattaneo sulla "vita delle lingue" e un ragionamento intorno a "cosa significhi oggi una coscienza europea". Questione che tornerà costantemente. Durata della prova, in ogni caso: sei ore. Oggi come allora. Chissà quante ne sarebbero servite davvero a chi, l'anno dopo, nel giugno 1964, ha dovuto tentare - da liceale classico - una versione dall'italiano in latino (avete letto bene). Il latino - come spiega Ivano Dionigi nel suo Il presente non basta (Mondadori) - cominciava a puzzare "di destra", i contestatori in allenamento, pronti al via, l'avrebbero presto additato come lingua non tanto morta quanto reazionaria. Ma per dare sfogo alle proprie intemperanze bisognerà attendere il 1969. Tutti, già nel 1968, confidavano in un tema di contestazione: arrivò l'anno dopo il destro per ragionare sui "giovani d'oggi" - ogni epoca ha i propri - e sulle loro speranze di cambiare il mondo. Ancora una volta, in più, un jolly buono per tante maturità: l'Europa unita e le sue possibilità. In un video in bianco e nero, un giornalista interroga un capannello di maturandi dal marcato accento romano. Qualcuno fuma, una ragazza ride schermata dagli occhiali da sole. "E tu, che tema hai scelto?" domanda il cronista. Una studentessa si lancia a motivare la scelta del tema sul cambiamento e su "noi ragazzi". Un'altra dice di non aver capito bene quello sulla "letteratura a sfondo sociale". È il 1969, clima di engagement, ragazza mia! Non a caso, si contestano anche le tracce dei temi - e perfino da fuori. Pier Paolo Pasolini, piuttosto inacidito, commenta la frase di Benedetto Croce selezionata per la traccia di maturità del 1973 scrivendo: "I padri di cui si parla nella frase di Croce sono padri che andavano bene per i figli della fine dell'Ottocento o di tutto il Novecento fino a una decina di anni fa: ora non più". Come sempre, il bello di Pasolini è che - proprio quando lo immagini alleato nella rivolta - te lo ritrovi nemico. L'eredità di violenza che lasciano i suoi anni Settanta viene smaltita a fatica, ed è fatta oggetto di un tema a metà anni Ottanta: gli studenti sono chiamati a riflettere sulle conseguenze di conflitti e lacerazioni nella società. Per i meno disinvolti rispetto all'attualità, si può ripiegare sulle eroine di età romantica o sui sempreverdi Metternich e Mazzini, tanto più se a proposito di "concezioni dell'Europa". Mi diverte imbattermi in un tema del 1988, sull'ansia di "smaltimento" del vecchio. I candidati difendano l'amore per il classico! Non fai in tempo a chiudere il tema, che di lì a un anno viene giù - con un muro - tutto il vecchio mondo. Ce n'è traccia, naturalmente, nel tema del 1990, quando ai ragazzi è richiesto di confrontarsi con "la minaccia permanente di guerra", che "nasce dalla mancanza di fiducia tra gli Stati e dal reciproco timore di subire un'aggressione, oltre che dal ricorrente insorgere di mire egemoniche". Era l'altroieri, sembra oggi pomeriggio. Nel '97, vent'anni fa esatti, il ministro Berlinguer manda in pensione il vecchio tema d'italiano. Ero all'inizio del liceo, vengo a saperlo, mi prende un colpo. I prof sarebbero impazziti fra "articoli di giornale" e "saggi brevi". Oggi nessuno ha più il coraggio di chiamarlo tema, ma c'è ancora chi segretamente rimpiange i tempi d'oro dei componimenti detti liberi, o di tracce del tipo metafisico e più struggente: "Come avete passato la domenica". Pare che l'imberbe Giovanni Spadolini ebbe comunque il coraggio di iniziare lo svolgimento così: "Noi dissentiamo da Benedetto Croce".

Maturità, quando è nato l'esame (e chi l'ha inventato), scrive il 22 maggio 2018 Manlio Grossi su "Skuola.net". La Maturità 2018 si avvicina, tra un mese esatto, ti sarai già buttato alle spalle le prime due prove scritte e le ‘uniche’ preoccupazioni saranno il quizzone e il colloquio orale. Al momento, però, l’ansia è ancora tanta! Nel delirio della preparazione, tra il ripasso della tua materia preferita e gli ultimi collegamenti della tesina, ti starai sicuramente chiedendo chi ha avuto l’idea di istituire l’esame di Maturità. Curioso di scoprire chi devi ringraziare? Scoprilo!

Il primo esame di Maturità. L'esame di maturità venne introdotto da Giovanni Gentile, Ministro dell’Istruzione del Regime Fascista, nel 1923: il primo esame di Maturità, incubo di intere generazioni, risale a quegli anni, quasi un secolo fa. Rispetto all’esame di adesso, era certamente più complesso e, possiamo dirlo, più difficile! Perché? Semplice, prevedeva ben quattro prove scritte, a differenza delle tre attuali. Non solo, la prova orale era davvero uno scoglio arduo da superare: si basava sull’intero programma dei cinque anni del liceo e non solo sugli argomenti svolti durante il quinto anno! La commissione era temibile, costituita da un professore universitario, tre fra professori e presidi di istituti d'istruzione media di secondo grado e un insegnante appartenente a scuola privata o persona estranea all'insegnamento. Insomma, se fossi stato un maturando degli anni Venti poteva andarti peggio, non credi? A dimostrazione della difficoltà, i risultati: sembra che il primo esame di maturità in assoluto avesse registrato solo il 25% dei promossi, mentre nel 1925 solo il 60% degli studenti ottenne la maturità classica, il 55% quella scientifica. Numeri certo lontani da quelli attuali, che si aggirano intorno al 99% tra gli ammessi agli esami! Un'altra differenza, era che gli esami non si svolgevano nella propria scuola, ma fuori sede.

La Maturità classica. Se sei uno studente del classico e la scelta del commissario esterno per la prova di greco proprio non ti va giù, pensa che i maturandi del primo esame di maturità non se la sono certo passata meglio. Per avere la tanto agognata maturità dovevano superare per quanto riguarda la sola parte scritta:

- Tema di italiano

- Versione di greco

- Versione dal latino all’italiano

- Versione dall’italiano al latino

Sei ancora convinto che ti sia andata male?

La Maturità scientifica. Non potevano certo ritenersi più fortunati gli iscritti al liceo scientifico. Anche qui ben quattro prove e non solo di natura scientifica. Gli studenti dovevano cimentarsi con uno scritto per ciascuna di queste discipline:

- Italiano

- Latino

- Matematica

- Lingua Straniera

Oltre all’ansia per la matematica, quindi, anche quella per una lingua straniera!

La Maturità nel tempo. Passarono alcuni anni prima che l’esame di Maturità venisse ritoccato. Nel 1937, con la riforma De Vecchi, il programma d’esame venne ridotto a quello dell’ultimo anno dopo le forti lamentale che contestavano l’alto tasso di bocciati. Dopo tre anni, nel 1940, ecco che la Maturità subisce un altro cambiamento ad opera dell’allora Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai. E’ grazie a lui che la commissione, a parte il presidente e il vicepresidente, diventa tutta interna. Nel 1952, la riforma voluta da Guido Gonnella torna alla commissione mista, con un solo membro interno, e interviene anche sul programma d'esame. Gli studenti dovevano prepararsi sugli argomenti di quinta, ma all’interno dell’esame potevano trovare, a discrezione della commissione, rimandi alle cose studiate durante il terzo e il quarto anno. Dal 1969, poi, ecco la "vecchia maturità" di Fiorentino Sullo, che durò ben 30 anni: commissione mista, due prove scritte, due materie all'orale e voto in sessantesimi. È datata 1997 la riforma dell'esame voluta da Luigi Berlinguer: si introduce la terza prova e il credito scolastico, all'orale si portano tutte le materie, la commissione è mista e il voto in centesimi. Da allora ad oggi, piccoli aggiustamenti (compresa una parentesi con la commissione d’esame interna), ma la sostanza rimane la stessa. Dal 2019, però, si cambia ancora.

Dalla Maturità all'Esame di Stato, scrive Alessandro Albanese su Treccani il 6 settembre 2013. Tra pochi giorni le aule delle scuole secondarie superiori torneranno a registrare le tensioni, le attese e anche il sollievo finale che caratterizzano ogni anno lo svolgimento dell’Esame di Stato. Un passaggio importante della vita giovanile, ma anche un rito che si ripropone annualmente in forme simili, con analoghe attese e altrettante mini-polemiche, sebbene la sua struttura organizzativa e il suo stesso significato siano andati mutando dalla sua introduzione a oggi. Mentre ferve la preparazione, alcuni si interrogano su quale sia stato il percorso di questa prova, dalla sua introduzione alla forma attuale: si domandano cioè chi lo abbia voluto, quando sia stato introdotto e come sia cambiato negli anni. L’esame a conclusione del ciclo di studi superiore viene introdotto nel sistema scolastico italiano con la riforma Gentile nel 1923: è l’esame di ‘maturità’. Alla base di questa significativa innovazione c'è certamente la necessità, molto sentita sul piano ideologico dal fascismo della prima ora, di mettere a punto uno strumento in grado di operare una selezione rigorosa e severa della classe dirigente e al contempo capace di limitare, specie alle classi meno abbienti, l'utilizzo della scuola come ascensore sociale. Va anche però ricordato, che l'esame di maturità viene fortemente auspicato da don Sturzo e dal Partito Popolare: reclamano infatti una piena parità tra le scuole statali, dove, prima della riforma gentiliana, non sono previsti esami alla conclusione delle secondarie, e le scuole private cattoliche, dove è invece obbligatorio un esame finale con commissari esterni. La storia racconta che in quasi novanta anni di vita la maturità ha cambiato pelle molte volte: sul piano dei promossi il trend ha registrato un vertiginoso aumento a partire da quel quasi irreale 25% di candidati che, nella prima sessione dell'esame, supera indenne la prova, fino alle percentuali, non troppo lontane dal 100% di successi, degli ultimi decenni. Un breve resoconto della sua evoluzione segue alcune tappe scandite da interventi legislativi e conseguenti cambiamenti della composizione della commissione esaminatrice e dei programmi oggetto d’esame. Nella sua prima versione, l'esame di maturità prevede una commissione formata da docenti esterni, prevalentemente professori universitari; gli esami si tengono fuori sede e sono durissimi: la percentuale di promossi non raggiunge mediamente il 60%. Successivamente il fascismo, che non vuole inimicarsi i ceti medi, riduce la severità della prova apportando vari correttivi e, in piena guerra, introduce la novità delle commissioni formate da docenti interni alla scuola, con esclusione del presidente e del suo vice. È nel dopoguerra (1947, ministro Guido Gonella) che si ritorna alle commissioni formate da docenti esterni integrate prima con due e poi con un solo insegnante della scuola: il cosiddetto “membro interno”. Le materie d’esame sono tutte quelle studiate nel triennio, anche se l’esame che inizialmente poteva riguardare tutti i contenuti degli ultimi tre anni, verrà ridotto nel tempo a quelli dell’ultimo anno con in aggiunta alcuni argomenti di riferimento ai programmi degli anni precedenti. Nel 1969, sulla spinta del movimento studentesco che dall’università ha coinvolto anche la scuola superiore e ha posto fortemente l’istanza di accesso all’istruzione come motore di mobilità sociale, passa – ministro Fiorentino Sullo – una riforma radicale dell'esame di maturità che coincide anche con la liberalizzazione degli accessi universitari. Avrebbe dovuto assumere un carattere sperimentale e durare al massimo un paio d'anni, e invece è rimasta in vigore per quasi trent'anni. La sua formula: due scritti e due materie all'orale, di cui una scelta dal candidato; il punteggio non è più dato materia per materia, ma complessivo, espresso in sessantesimi. Il suo tallone d'Achille è legato al fatto che una volta note le materie d’esame – e questo accade alcuni mesi prima di giugno – quelle che non ne fanno parte vengono automaticamente accantonate da insegnanti e studenti, per dedicare tutte le energie a quelle su cui verteranno le prove d'esame. La commissione è formata da commissari e presidente esterni, a parte il “membro interno” del consiglio di classe. La percentuale di promossi schizza da una media di poco più del 70 % dei primi anni sessanta a oltre il 90 % subito dopo la riforma, per toccare il 94 % agli inizi degli anni Ottanta. Un ritocco a questa struttura si ha nel 1995 a opera del ministro Francesco D'Onofrio che, per limitare le spese di trasferta, emana un provvedimento che pone dei vincoli non solo alla nomina di commissari da fuori regione, ma anche da fuori provincia: una decisione che non giova alla condivisione di parametri valutativi comuni nelle varie aree del Paese. L’attesa riforma dell’esame viene nel 1997, quando ministro è Luigi Berlinguer, di formazione accademica prima che politica. Cambia innanzitutto il nome e si adotta quello attuale: esame di stato. Viene intanto abolito lo scrutinio di ammissione, mentre l'esame si articola su tre prove scritte (delle quali una proposta dalla commissione) e l'orale che verte su tutte le materie dell'ultimo anno. Commissione formata per metà da docenti interni e per metà da esterni con il presidente esterno. Il punteggio è espresso in centesimi e tiene conto del cosiddetto credito scolastico. Gli effetti sulla percentuale di promossi sono evidenti: pur in assenza dello sbarramento costituito dagli scrutini di ammissione (che toccava generalmente il 6 -7 % degli studenti dell'ultimo anno), la percentuale sale ancora, attestandosi in pochi anni verso il 96 %. La successiva iniziativa ministeriale, a opera di Letizia Moratti è del 2001: si rinuncia alla presenza di commissari esterni, anche in questo caso prevalentemente per motivi economici, a parte l'unico presidente che coordina tutte le commissioni. Se l’intento era il recupero di serietà delle prove, l’iniziativa si rivela un flop: la percentuale degli studenti promossi, già alta dopo la riforma Berlinguer, sale ancora di più. Si passa al 97 % circa del 2004-05 con punte del 99 % nel liceo classico e del 98,6 % nel liceo scientifico. Oltretutto la presenza nelle scuole paritarie di commissioni formate solo da docenti interni favorisce il proliferare di scuole-diplomifici nelle quali è frequente il salto dell’ultimo anno, grazie all’aver riportato una media di voti superiore a otto decimi nell’anno precedente. Nel 2007, con Giuseppe Fioroni, si ritorna perciò alle commissioni miste con presidente esterno al quale vengono affidate, al massimo, due commissioni, mentre viene reintrodotto lo scrutinio di ammissione e l'obbligo, per gli studenti, di aver saldato i debiti formativi per accedere all'esame. Vengono cambiate anche le regole per la scelta della sede d’esame da parte dei privatisti: si può fare domanda solo nella regione di residenza. Infine, e siamo ai nostri giorni, è il ministro Mariastella Gelmini a introdurre nel 2010 il requisito della sufficienza in tutte le materie per poter ottenere l'ammissione (prima bastava la media del sei), mentre per i privatisti si prevede un pre-esame di ammissione prima del vero e proprio esame di stato. Va anche precisato che anche dopo la cura ricostituente alla maturità prescritta dai ministri Fioroni e Gelmini nella dichiarata intenzione di accrescere nella scuola il ‘rigore’ e il ‘merito', la prova conclusiva del secondo ciclo continua a non far paura ai maturandi: lo scorso anno l'hanno superata 98 candidati su 100.

Esame di maturità: com’è cambiato dal 1923 a oggi, scrive il 15.06.2017 Flora Casalinuovo su "Donna Moderna". Il 21 giugno iniziano gli Esami di Stato in tutta Italia: vi raccontiamo in tre tappe la storia del diploma e di com'è cambiato negli anni. La busta con le tracce, il vocabolario e tanta ansia. Il 21 giugno, con la prova di italiano, inizia la maturità. E se per i 454.590 protagonisti ci sarà l’emozione della prima volta, il “rito” si ripete (quasi) uguale dal 1923, quando venne introdotto l’esame. Ma come è cambiato in questi 94 anni?  

Dai programmi del triennio alla commissione mista. I primi maturandi devono prepararsi sui programmi degli ultimi 3 anni e sono giudicati da docenti esterni, con tanti voti quante sono le materie ed esami di riparazione per chi non passa. Una faticaccia, tanto che nel 1937 il ministro dell’Istruzione Cesare Maria De Vecchi concentra la prova sul programma dell’ultimo anno e nel 1940 Giuseppe Bottai introduce la commissione interna. Si cambia ancora nel 1951: 4 prove scritte, orale sugli argomenti di quarta e quinta superiore, commissione mista.

Dalle 2 materie al “quizzone”. Nel pieno delle manifestazioni studentesche del ’68, anche in aula si compie una rivoluzione, firmata da Fiorentino Sullo l’anno successivo: solo 2 scritti, orale su 2 materie, voto in sessantesimi. La formula resta invariata fino alla fine degli anni Novanta. «La scuola deve cambiare di pari passo con il mondo: dev’essere pluralista, aperta e legata al lavoro» annuncia il ministro Luigi Berlinguer. Che dà via libera a crediti scolastici, 3 scritti (italiano, prova specifica per indirizzo, “quizzone” multidisciplinare”) e un orale sulle materie dell’ultimo anno, commissione mista e voto in centesimi.

Dalla sufficienza obbligatoria ai test Invalsi. Nel nuovo millennio, ogni ministro dell’Istruzione ci mette lo zampino. Nel 2001 Letizia Moratti punta sulla commissione interna, nel 2006 Giuseppe Fioroni torna a quella mista, mentre per Mariastella Gelmini occorre la sufficienza in ogni materia per accedere all’esame. Le novità legate alla Buona scuola, infine, diventeranno realtà dal 2019. I ragazzi diranno addio all’odiato quiz: basteranno 2 scritti e un orale, giudicati da una commissione mista. Per essere ammessi, saranno obbligatori i test Invalsi, la media del 6 e l’alternanza scuola-lavoro. 

La maturità in numeri. 94 gli anni dell’esame di maturità, “nato” nel 1923 con la riforma dell’allora ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile. 4 le prove scritte della prima edizione, a cui si aggiunge l’orale. 25% i promossi nel 1923, anno del debutto. 60 il voto massimo dal 1969 al 1997. 1997 l’anno della svolta con la riforma del ministro Enrico Berlinguer: la maturità cambia nome e diventa “esame di Stato”. 99,5% i promossi nell’anno scolastico 2015/2016 (Fonte: Miur).

Gli esami di stato fanno storia. Oggi ha luogo un confronto con il Ministro sulle questioni più stringenti. Tra queste la questione dell’esame di Stato. Un’occasione per ripercorrere le tappe che ci hanno portato alla situazione attuale, ripercorrendo la storia di un’istituzione che per motivi opposti e su fronti opposti non ha mai mancato di creare occasioni di polemica, scrive il 2/08/2006 "Flcgil.it".  L’Esame di Stato nasce con la Riforma Gentile (1923). Era il cosiddetto esame di maturità perché la maturità complessiva del candidato, secondo una concezione un po’ astratta e neo-idealistica, appunto, era la cosa che si chiedeva di valutare. La commissione era formata da 5 commissari esterni (3 presidi o professori, un docente universitario e un docente di scuola privata o esterno). L’esame era volutamente selettivo, sia per ragioni sociali (da esso dipendeva l’accesso all’università) che ideologiche (rigore e autorità erano elementi cardine di un regime fascista ai suoi esordi): il programma era quello triennale e la prima volta solo il 25% dei candidati lo superò. Ma, dopo alcune resistenze, la selezione si attenuò un po’. Nel 1937 i programmi si ridussero a quelli dell’ultimo anno. Negli anni quaranta, in tempo di guerra, il Ministro Bottai addirittura anticipò la Moratti nella costituzione di commissioni tutte interne con solo presidente e vice-presidente esterni. La scelta di Bottai apparve poco seria e venne poi denunciata come sintomo di malcostume di un regime ormai in crisi. Dopo la Liberazione fu perciò abbandonata e nel 1947 si tornò ad una commissione esterna con due membri interni, che nel 1952 si ridussero a uno. E praticamente la composizione delle commissioni rimase così fino a Berlinguer (1998). Il cambiamento però lo si ebbe non sul piano delle commissioni ma su quello dei programmi (che nel frattempo erano stati riportati a quelli degli ultimi tre anni) e delle prove. E avvenne, non a caso, all’indomani del 1968. Il decreto legge 15 febbraio 1969 cambiò, in corso d’anno e con grande sollievo degli esaminandi di quell’annata, il programma (che fu riportato a quello dell’ultimo anno) e ridusse le prove a due scritte (di cui una era sempre italiano) e a una orale centrata su due discipline, da scegliersi in una rosa di quattro definita dal ministero, una a scelta del candidato e una a scelta della commissione (anche se presto si istaurò la prassi di far scegliere entrambi al candidato). Per la prova di italiano inoltre il candidato poteva scegliere in una rosa di quattro temi. Il provvedimento, accusato spesso di aver creato un esame troppo facile e dequalificante, doveva essere sperimentale e provvisorio ma rimase in vigore per ben 29 anni. Fu cambiato dal Ministro Berlinguer con la legge 425 del dicembre 1997. La legge stabiliva che i commissari (da 4 a 8) fossero per metà interni e per metà esterni e che ci fosse un presidente esterno, che le prove scritte salissero a tre, di cui una riguardante la totalità delle discipline, mentre la prova orale era un colloquio su tutto l’insieme delle discipline. Inoltre veniva tolta la possibilità della non ammissione all’esame e veniva invece introdotto un credito sul voto complessivo relativo all’andamento scolastico nei tre anni precedenti. Nel 2001 per ragioni di natura contabile (per non pagare le trasferte e i maggiori oneri dei commissari esterni) i ministri dell’istruzione Moratti e del tesoro Tremonti decisero che la commissione divenisse tutta interna all’infuori del presidente, che però fu ridotto a uno solo per ogni scuola. Balzò a quel punto agli occhi di tutti da un lato l’inutilità dell’esame e dall’altro si gridò alla eccessiva facilità dello stesso, tanto più che nel frattempo la legge sulla parità delle scuole private aveva dato anche a queste la possibilità di esami con esaminatori totalmente interni. La necessità di un cambiamento è dunque oggi inevitabile per fare fronte a questi problemi e d’altra parte già la stessa legge 53/2003 (legge Moratti) e il decreto applicativo 226/2006 (sul secondo ciclo) ritoccavano la norma, ma in punti non sostanziali, come la possibilità di non ammettere l’alunno all’esame, o con misure molto leggere, come la limitazione del numero di candidati esterni nelle scuole paritarie anziché il rinvio di tutti costoro alle sole scuole statali, come sarebbe logico per un esame che si definisce “di Stato”. E’ assai più diffusa l’opinione che considera necessario tornare ad un sistema con una presenza di commissari esterni almeno al 50%, sia per giustificare un esame che richiede una certa serietà e che altrimenti sarebbe inevitabilmente una ripetizione delle interrogazioni e delle prove svolte durante l’anno, sia per non dare adito a tentativi di abolizione del valore legale del titolo di studio. Oggi il Ministro presenterà le sue proposte, che, illustreremo al termine dell’incontro insieme alle nostre valutazioni in merito, dal momento che le notizie che finora sono filtrate attraverso la stampa risultano contraddittorie. Comunque dal punto di vista del trend relativo a promozioni e bocciature, la maggiore o minore selezione è solo in parte riconducibile al meccanismo di esame e alla composizione delle commissioni: lasciando da parte il primigenio 25% di promossi del 1924, nel dopoguerra, secondo i dati prodotti dall’Invalsi, le promozioni si assestano intorno al 71-72% per tutti gli anni cinquanta e sessanta, per salire di botto al 90,6% nel 1970-71, dopo la riforma del ’69, poi la crescita continua più lentamente fino al 94,1% del 1980-81. Alla vigilia della riforma Berlinguer (1997) le promozioni sono al 94,6%, l’anno successivo con la prima attuazione sono al 94,9%. Il dato sale al 96,8% nel 2000-01, l’ultimo esame con le commissioni semi-esterne. L’anno dopo con le commissioni tutte interne il dato è 96,7% e lo scorso anno è arrivato al 97,1%. Insomma da questi dati si possono dedurre due conseguenze. La prima riguarda il fatto che, a parte la riforma del 1969, che ha inciso sicuramente sugli esiti dei candidati, ma che era accompagnata anche da altri fattori di crescita impetuosa della società italiana, i mutamenti nella selezione sono stati lenti e non segnati in maniera significativa dai cambiamenti organizzativi introdotti (anche se, per amore di verità, va detto che le ultime riforme prevedendo l’ammissione generalizzata all’esame hanno modificato la base di calcolo). La seconda riguarda il fatto che gli indici di selezione di per sé non sono più da tempo una buona misura per valutare la validità di un esame e, tanto meno, per valutarne la sua utilità.

MA CHE MATURITA' E’ QUESTA?

Altro che tracce di maturità! Datemi pure dell'ignorante ma avrei preso un quattro. Claudio Magris? Elias Canetti? Remo Bodei? Chi sono questi sconosciuti? Altro che esame di maturità, la prova d'italiano è un percorso a ostacoli, scrive Andrea Indini  su “Il Giornale”. Il toto tema è un must della maturità. Il giorno prima della prova d'italiano ci si ritrova a casa di un compagno di classe, di solito il più sgamato del gruppo, e si scorrazza sui siti australiani per entrare in possesso delle tracce che gli studenti hanno postato sui social network dall'altra parte del mondo, sperando in quella che è una bufala che ancora incanta: immancabilmente, non si trova alcunché. All'indomani, però, sui banchi arrivano temi che grossomodo sono stati preparati nel corso dell'anno o, perlomeno, nel triennio. Anni fa mi capitò di analizzare la poesia di Giuseppe Ungaretti, I fiumi. Non l'avevo letta prima, ma avevo studiato sodo l'autore e il periodo storico in cui aveva composto i versi. Avevo preso un voto più che buono. Oggi non sarebbe stato lo stesso. Perché, una volta lette le tracce proposte dal ministero dell'Istruzione, mi sono sentito di primo acchito profondamente ignorante. Subito dopo, però, mi è stato chiaro che gli esimi sconosciuti su cui i maturandi sono stati chiamati a esprimersi non vengono studiati a scuola. Prendetemi pure per un ignorante. Non mi importa. Ma certi temi non vanno dati all'esame di maturità. La prova d'italiano non è un esercizio di scrittura. Non si scrive per allietare il lettore. Un po' come nel giornalismo, si mettono insieme i fatti dimostrando un'ottima padronanza della grammatica e della sintassi italiana e un'approfondita conoscenza della materia. Proprio per questo le tracce dovrebbero spaziare dagli autori affrontati in letteratura italiana alle problematiche studiate in filosofia, dai fatti imparati sui libri di Storia alle problematiche legate all'attualità. Così, nel 150° anniversario dalla nascita di Gabriele d'Annunzio, ecco spuntare un brano di Claudio Magris, tratto da L'infinito viaggiare. Claudio Magris? Il collaboratore del Corriere della Sera? Cosa ne può sapere uno studente di diciannove anni dell'accademico, specializzato in germanistica? Meno di zero. Vabbè, passiamo al saggio breve. Nell'ambito artistico-letterario il titolo scelto è Individuo e società di massa con testi di Pier Paolo Pasolini, Elias Canetti, Remo Bodei ed Eugenio Montale. Elias Canetti? Zero assoluto. Lande desertiche nella mente. Mi aiuta Wikipedia (che i maturandi non possono certo consultare durante l'esame): "È stato uno scrittore, saggista e aforista bulgaro naturalizzato britannico di lingua tedesca, insignito del Nobel per la letteratura nel 1981. È considerato l'ultima grande figura della cultura mitteleuropea". Mah. Chiedo venia, non sapevo. E Remo Bodei? In redazione mi dicono essere piuttosto famoso. Dal canto mio non l'ho studiato né al liceo né all'università. Passiamo oltre. Per l'ambito socio-economico il titolo è Stato, mercato e democrazia con testi di Raghuram G. Rajan, Paul Krugman, Luigi Zingales e Mario Pirani; per l'ambito storico-politico, invece, il titolo è Omicidi politici; per l'ambito tecnico-scientifico, infine, il titolo è La ricerca scommette sul cervello. Su questi ultimi tre temi nulla da obiettare. Fattibili e, per di più, interessanti. Veniamo al tema di argomento storico. Mi sarebbe capitato un approfondimento sui Brics, ovvero i Paesi emergenti. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Molto bene, molto interessante. Peccato che in Storia si arriva appena alla fine della Seconda Guerra Mondiale con profonde lacune sulla seconda metà del Novecento e, soprattutto, sull'attualità. L'egemonia della Dc nella Prima Repubblica, Tangentopoli e la discesa in campo di Silvio Berlusconi? Appena sorvolata? La Guerra Fredda, JFK e la guerra a distanza sulle conquiste nello spazio? Una spolverata appena. E tutto il resto? Niente di niente. Della Russia si approfondisce l'avvento della sanguinosa dittatura comunista e il braccio di ferro con gli Stati Uniti. Il tutto perché l'egocentrica Europa vi era in mezzo. Un conflitto nucleare fa sempre paura. E, poi, c'era il Muro di Berlino di cui io, al liceo, ho studiato l'edificazione ma non la distruzione liberatrice. Lo avevo appreso sui quotidiani e grazie all'epico concerto dei Pink Floyd. Per questo, comporre un'analisi economica sui Paesi emergenti necessita di basi che, probabilmente, anche un neo laureato in economia farebbe fatica a maneggiare. Infine, il tema di ordine generale. Si parla di Fritjof Capra, autore di La rete della vita. "Tutti gli organismi macroscopici, compresi noi stessi, sono prove viventi del fatto che le pratiche distruttive a lungo andare falliscono - scrive il fisico austriaco - alla fine gli aggressori distruggono sempre se stessi, lasciando il posto ad altri individui che sanno come cooperare e progredire. La vita non è quindi solo una lotta di competizione, ma anche un trionfo di cooperazione e creatività". Di fatto, dalla creazione delle prime cellule nucleate, l'evoluzione ha proceduto attraverso accordi di cooperazione e di coevoluzione sempre più intricati. Fatto mio l'insegnamento di Capra, quindi, avrei dato di gomito col mio compagno di banco e, attraverso a una sana cooperazione, avrei probabilmente scelto o Stato, mercato e democrazia o Omicidi politici. In un modo o nell'altra ce l'avrei fatta. Ma che fatica.

Ma che maturità è questa? Torniamo a scommettere sui ragazzi, scrive Giovanni Fighera su “Tempi”. Una volta ancora le previsioni si sono avverate. Intendiamoci. Non le previsioni riguardanti il Tototema. Quelle, come ormai tutti sanno tranne i maturandi (che sperano nella cabala), non si avverano mai. Si è avverata, invece, una volta ancora la delusione sul volto dei ragazzi che agli Esami di Stato si sono dovuti cimentare con tracce che non hanno provocato il loro cuore, che non li hanno sollecitati. Come tutti gli anni, salvo poche eccezioni di cui poi parlerò, le tracce sono concepite non per diciottenni e diciannovenni che frequentino Licei o Istituti tecnici o professionali, ma per esperti di un determinato settore. Evidentemente, la nostra società, che è diventata una società di esperti, vuole proporre questo ideale anche ai ragazzi. Chi ha scelto le tracce vuole vedere come se la possa cavare un maturando con questioni specialistiche, precise, di cui magari ha soltanto sentito parlare. Chi ha scritto le tracce ha dei figli, li conosce, li ha guardati davvero? Oppure insegna e si confronta sul serio con i suoi studenti? Lungi dal voler qui offendere qualcuno, è doveroso far riflettere il Ministero sulla realtà scolastica, sulla realtà dei giovani, sulla distanza tra la vita reale (intendo qui anche e soprattutto la dimensione esistenziale, il vissuto, l’esperienza) e le proposte della tracce. Perché i ragazzi non possono una volta tanto riflettere davvero sulla vita, sull’esperienza, sull’uomo? Ecco alcuni esempi. Per quanto riguarda la tipologia B (saggio o articolo di giornale) nell’ambito socio-economico i documenti forniti riguardavano «Stato, mercato e democrazia». Riteniamo davvero che un ragazzo possa dire la sua, possa mostrare un’idea propria, personale, che non sia frutto di preconcetti o di quanto sta sentendo tutti i giorni in televisione su questa questione? Oppure, concordate con me che si debba essere esperti del settore, avere una cultura economica e un’età diversa per non scrivere fesserie o i soliti luoghi comuni che poi i commissari sottolineeranno dicendo che il ragazzo è caduto nello scontato o nel retorico? Nell’ambito storico-politico (sempre tipologia B) l’argomento era «Gli omicidi politici», con documenti sull’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, di Matteotti, di Kennedy fino ad arrivare ad Aldo Moro (quest’anno sono trentacinque anni che è morto). Ecco i misteri di Italia e internazionali in parte ancora irrisolti, sottoposti ai ragazzi: forse ci aspettiamo che essi assumano il ruolo di giovani Sherlock Holmes? Qualcuno mi dovrebbe spiegare quali siano le aspettative su un ragazzo che sostiene l’Esame di Stato? Ma, forse, chi ha proposto queste tracce non si aspetta che lo studente si faccia portavoce di una voce sua, come fa il giornalista, ma semplicemente che rielabori i documenti. Nell’ambito tecnico-scientifico l’argomento era «La ricerca scommette sul cervello» con documenti relativi alla mappatura del cervello e agli investimenti del Presidente Obama su questo progetto. Anche in questo caso un argomento ultraspecialistico. Ebbene, il sondaggio effettuato su un campione di scuole rivela che la prova più scelta è stata proprio «La ricerca scommette sul cervello» (21,8% degli studenti) e al terzo posto la traccia di ambito socio-economico «Stato, mercato e democrazia» (scelta dal 16,3%). Veniamo ora ad un’altra prova davvero improponibile se si tiene conto dei programmi effettivamente svolti nelle scuole: la tipologia C, ovvero il tema di Storia. La traccia recitava: «In economia internazionale l’acronimo BRICS indica oggi i seguenti Paesi considerati in una fase di significativo sviluppo economico: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. Premesse le profonde differenze intercorrenti fra le storie di ciascuno di tali Paesi, il candidato illustri gli aspetti più rilevanti della vicenda politica di due di essi nel corso del ventesimo secolo». La difficoltà della traccia in questo caso è sottolineata dall’esiguo numero di candidati che l’hanno scelta: solo  l’1,3%. Veniamo ora alle tracce più adatte ai maturandi. Ritengo bella, anche se non facile, la tipologia B di argomento Artistico- letterario su «Individuo e società di massa» con riflessioni di Pasolini (Scritti corsari), Montale, Canetti e Bodei. I ragazzi dovevano scrivere un articolo o un saggio sulla perdita della coscienza e della tradizione a causa della «dittatura della civiltà dei consumi». Il 20,3% dei candidati ha scelto questa traccia, a conferma forse del fatto che la questione proposta è sentita. Personalmente non so quale consapevolezza riescano ad avere oggi i ragazzi, se non sono guidati ed educati, del fatto che il loro desiderio inestirpabile di infinito (connaturato all’uomo) è trasformato dal potere in un coacervo di bisogni economici. La tipologia più semplice (so di essere in controtendenza con questa affermazione) era l’analisi di testo. Ma in questo caso, che delusione per quei ragazzi che magari per tutti i cinque anni hanno apprezzato opere poetiche e narrative sapere che dovevano cimentarsi su una prefazione di un saggio, tra l’altro di un autore ai più di loro sconosciuto, Claudio Magris. Come può emergere la sensibilità letteraria e artistica di uno studente sulla prefazione di un libro? In secondo luogo, come può brillare la cultura di uno studente con una prova su un autore non appartenente al canone e alla tradizione letterarie? Senz’altro sarà apprezzata la capacità di uno studente ad essere originale e non ripetitivo in una prova in cui le domande ripetono reiteratamente gli stessi concetti. Sentite a cosa dovevano rispondere i ragazzi: 1) Riassumi il testo; 2) soffermati sugli aspetti formali; 3) soffermati sull’idea di frontiera; 4) soffermati sull’idea di viaggio; 5) Esponi le tue considerazioni personali; 6) Proponi una tua interpretazione complessiva facendo riferimento ad altri testi di Magris e/o di altri autori del Novecento. Puoi fare  riferimento anche a tue esperienze personali. A nessuno sfuggirà la ripetitività delle domande. Con un po’ di capacità e conoscenza dei principali autori del Novecento si poteva comunque svolgere una buona prova. Infine, parliamo della Tipologia D, il tema di attualità, una traccia che proponeva una questione molto interessante, ma la formulazione attraverso una citazione di ambito scientifico che richiede naturalmente una capacità di argomentazione anche di carattere biologico, poteva allontanare il ragazzo o rendere complesso lo svolgimento dell’elaborato. Ecco la traccia: «Fritjof Capra (La rete della vita, Rizzoli, Milano 1997) afferma: “Tutti gli organismi macroscopici, compresi noi stessi,  sono prove viventi del fatto che le pratiche distruttive a lungo andare falliscono. Alla fine gli aggressori distruggono sempre se stessi, lasciando il posto ad altri individui che sanno come cooperare e progredire. La vita non è quindi solo una lotta di competizione, ma anche un trionfo di cooperazione e creatività. Di fatto, dalla creazione delle prime cellule nucleate, l’evoluzione ha proceduto attraverso accordi di cooperazione e di coevoluzione sempre più intricati”. Il candidato interpreti questa affermazione alla luce dei suoi studi e delle sue esperienze di vita». Questa traccia è quella che preferisco insieme a quella su individuo e società di massa. Ma mi chiedo una volta ancora: «Perché non dare ai candidati un’effettiva possibilità di scelta tra più prove, proponendo argomenti che effettivamente un ragazzo dovrebbe aver studiato, rielaborato, su cui dovrebbe aver riflettuto in modo da possedere un’idea sua?». Forse è questa la scuola delle competenze, in cui non importa che uno studente abbia studiato tutti i principali autori del Novecento con uno sforzo non indifferente perché tanto poi gli viene proposto un testo del 2005? Forse è  questo l’esame «di orientamento», come l’ha chiamato il Ministro della pubblica istruzione Carrozza, dove non si valuta il percorso fatto, ma si introduce lo studente a ciò che si farà in futuro?  Ma qualcuno ha mai visto in qualsiasi ambito o disciplina un Esame che non valuti il passato, ma introduca al futuro? Potrebbero farmi sostenere un Esame di Karatè prima di averlo seriamente affrontato? Con l’analisi di testo della Prima prova sempre più importante è che un ragazzo sappia capire qualsiasi brano, mentre è sempre meno significativo che uno studente abbia studiato, abbia una memoria e una sensibilità letterarie, si ricordi? Tanto il Ministero fornisce i testi, i documenti. Mi risponda il Ministero: è questa la scuola che vuole, la scuola della scarsa cultura, dell’abolizione della poesia, dell’estirpazione della bellezza e dell’acquisizione della competenza linguistica (quale poi?)? Se è questo che volete, state sbagliando tutto e io, francamente, non ci sto. E chiedo a tutti coloro che la pensano come me di fare sentire la loro voce. Se gli studenti non sanno scrivere o non sanno cosa scrivere, non si risolve la questione offrendo loro i documenti fingendo di farli diventare giornalisti. Avete mai visto un giornalista a cui viene offerta la documentazione e gli si dice di rielaborarla? Che senso avrebbe? Se vogliamo che i nostri studenti imparino a scrivere, facciamo scrivere loro due volte a settimana un diario o Zibaldone personale. In un anno inizieremo a vedere i risultati. Ritorniamo al tema che è espressione di una cultura, di una capacità di giudizio e di rielaborazione. Torniamo a scommettere sulle capacità dei ragazzi. Certo questo comporterà un lavoro più oneroso per noi docenti. Ma ne varrà la pena.

L’ITALIA DEI COPIONI.

Prove invalsi: meglio gli studenti del Nord che quelli del Sud, scrive “La Stampa”. I risultati migliori a Trento, in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Marche e Piemonte. Divario tra Nord e Sud del Paese nei risultati delle prove Invalsi per l’anno scolastico 2012/2013. È quanto emerge dal Rapporto Nazionale dell’Istituto, che ogni anno fornisce un quadro generale sulla qualità del sistema italiano d’istruzione e formazione, presentati a Roma alla presenza del ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca Maria Chiara Carrozza, del Commissario straordinario Invalsi, Paolo Sestino, del responsabile area prove Invalsi, Roberto Ricci. Migliorano, si legge ancora nel rapporto Invalsi, alcune Regioni al sud come Abruzzo, Molise, Puglie e Basilicata, ma i risultati migliori si ottengono nella Provincia Autonoma di Trento, nel Friuli Venezia Giulia, Veneto, Marche e Piemonte. Per quanto riguarda l’italiano, maggiore la dimestichezza con i testi narrativi, minore quella con la grammatica. In matematica, il rapporto Invalsi rileva maggiori difficoltà negli ambiti “Spazio figure” e “relazioni e funzioni” rispetto agli ambiti “numeri” e “dati e previsioni”. Il Rapporto Nazionale sulle prove Invalsi, che «ha l’obiettivo -si legge nel testo- di stimolare quei processi di autovalutazione per migliorare la performance delle scuole, si basa su un campione di statisticamente rappresentativo: 9.047 classi e 189.493 studenti». Complessivamente quest’anno in tutta Italia, nelle prove di matematica e dio italiano, sono state coinvolte 13.232 scuole, 141.784 classi e 2.862.759 studenti. Il Rapporto 2013 è in linea con quanto già emerso nelle precedenti rilevazioni: le regioni del Mezzogiorno «ottengono in generale -si legge- risultati peggiori. Il ritardo del mezzogiorno, già presente ai gradi iniziali, tende in generale ad ampliarsi lungo il ciclo degli studi. Anche le regioni del centro mostrano un peggioramento della propria posizione relativa con il procedere del percorso di studi. Per quanto riguarda le prove di italiano, dal rapporto emerge una maggiore dimestichezza degli studenti con i testi narrativi, rispetto ai quesiti basati sui testi espositivi e a quelli di tipo non continuo o misto, in cui viene richiesto anche di interpretare dati e grafici funzionali all’esposizione dei contenuti del testo. Minori competenze vengono anche evidenziate nei quesiti di natura grammaticale rispetto alla comprensione della lettura. nelle prove di matematica le difficoltà maggiori si concentrano soprattutto nell’ambito “Spazio e figure” e in “Relazioni e funzioni”, rispetto agli altri ambiti “numeri” e “dati e previsioni”. Le domande in cui si richiede di “interpretare” e in parte anche quelle dove si richiede di “formulare” ipotesi, sono risultate più complesse per gli studenti, almeno fino al livello di prima secondaria di primo grado, dalla terza secondaria di primo grado in poi risultano più difficili per gli studenti le domande che sono relative al macro-processo “utilizzare”.  

Tre studenti su quattro raccontano di aver copiato ai test Invalsi. Ma Twitter ascolta!, scrive Voices from the Blogs su “Il Corriere della Sera”. L’11 luglio scorso è stato presentato a Roma il Rapporto Invalsi 2013: come ormai tradizione, l’istituto ha reso noti i risultati dei test che annualmente vengono proposti agli studenti italiani dei diversi cicli scolastici, allo scopo di valutare – con un metro unico sulla intera scala nazionale – i livelli di apprendimento raggiunti. La novità di quest’anno è che Invalsi ha deciso di indagare attraverso i social network quali opinioni, timori e speranze hanno nutrito gli studenti, e le loro famiglie, verso l’introduzione dei test di valutazione dell’apprendimento. E di Invalsi in rete si è in effetti parlato, e non poco: quasi 38 mila post tra Twitter e profili pubblici di Facebook, con un picco il giorno della somministrazione dei test, ovvero il 17 giugno. Ma quali sono stati i principali risultati? Innanzitutto i test sono reputati  difficili dalla stragrande maggioranza dei tweet. Ma, mentre al Nord e al Centro la paura passa subito dopo l’esame, nelle regioni meridionali persiste anche nei “discorsi” dei giorni successivi all’esame. D’altra parte, dalle Alpi alla Sicilia ai test Invalsi si copia, e in alcuni casi grazie agli “aiutini” degli insegnanti. Anche perché gli studenti si sentono impreparati ai test, sia prima che (soprattutto) dopo averli fatti. Una ansia che passa dai figli ai genitori e che contagia tutta Italia. Tanto è vero che l’indice iHappy di Twitter-felicità ha toccato uno dei minimi degli ultimi mesi proprio il giorno dell’esame (17 giugno 2013). La prima evidenza è che, nelle conversazioni in rete, i test Invalsi sono raccontati come “difficili”. E la difficoltà percepita è addirittura superiore alle attese: se circa il 50% sostiene che i test siano difficili o molto difficili nella settimana precedente all’esame, il giorno della prova e nella settimana seguente la percentuale supera il 75%. La differenza di percezione tra le macroaree, tuttavia, è assai rilevante: al Nord la difficoltà del test smette di essere un tema di discussione una volta trascorso il giorno dell’esame; al Centro il tema non è mai all’ordine del giorno: i test Invalsi sono percepiti come “facili” dalla maggioranza assoluta dei commenti a partire dal giorno della prova; al Sud, al contrario, la dichiarazione di difficoltà riguarda la maggioranza dei post e rimane il principale tema di conversazione anche nella settimana successiva. A livello interpretativo, il dato va accostato alla preoccupazione – più viva al Sud – che la prova Invalsi comporti un peggioramento della valutazione complessiva dell’esame di terza media: in sostanza, se i timori per la difficoltà del test sono trasversali, l’insistenza sul tema che si registra nelle regioni meridionali non sembra motivata da una percezione di minore preparazione, anch’essa piuttosto trasversale al territorio, ma piuttosto dall’attesa di un maggiore effetto depressivo sulla votazione finale. La sensazione di non essere adeguatamente preparati per questo tipo di prova accompagna i commenti e non cambia in modo sostanziale nelle diverse fasi della rilevazione: gli “impreparati” passano dal 74.1% della settimana precedente al 60% circa il giorno dell’esame e nella settimana seguente. I valori più alti di quanti si scoprono adeguatamente preparati alla prova il giorno dell’esame si registrano al Nord, ma riguardano poco più di un quarto dei testi analizzati. Va comunque sottolineato che la dichiarazione di impreparazione è – almeno in parte – preventiva o scaramantica: solo il 7.1% dei post dichiara un’adeguata preparazione al tipo di esame prima della prova, ma questa percentuale più che triplica il giorno dell’esame e nei giorni successivi. I test sono giudicati, a larghissima maggioranza, lontani – per metodo e contenuti – da quanto normalmente osservato in classe. E in questo caso il superamento dell’evento-esame addirittura accresce questa percezione: il complesso di quanti dichiarano i contenuti dei test lontani dall’insegnamento quotidiano crescono progressivamente dal 72.6% della settimana precedente all’86.4% della settimana successive all’esame. Va chiarito che in questo tipo di giudizio gioca una parte non banale il divertente sarcasmo, probabilmente di maniera, con cui gli studenti descrivono – al termine della prova – i testi, le domande e i problemi che sono stati loro sottoposti. Va altresì rilevato che, in questo caso, si registra nelle regioni meridionali una quota maggiore della media nazionale di quanti dichiarano una sufficiente familiarità con i contenuti dei test. Un giudizio positivo sulla prova Invalsi è espresso da una percentuale dei commenti che cresce da un quarto (prima della prova) a un terzo (dopo la prova) dei commenti, e su questo tema – accanto ai post degli studenti – si sono registrati anche pronunciamenti di insegnanti e adulti. In particolare, due terzi di questi commenti positivi sostengono che il test sia una modalità moderna di verificare o incentivare l’apprendimento; un terzo argomenta a favore dei test perché consentirebbero di verificare l’apprendimento effettivo, premiando così il merito. Tra i detrattori della prova, la maggioranza la reputa troppo nozionistica o inutile all’interno del nostro sistema scolastico. Circa il 15% dei post stigmatizzano la prova come ingiusta ai fini della corretta valutazione dell’apprendimento (ma rientrano qui anche i confronti che gli studenti compiono circa la difficoltà relativa delle prove in anni diversi). Poco meno di un decimo dei post vorrebbe evitare il ripetersi dell’esperienza. La percentuale è lievemente maggiore al Centro-Sud. Ma alla prova Invalsi si riesce a suggerire, a farsi aiutare, a copiare? Oppure lo svolgimento e la natura della prova sono tali per cui l’andamento dell’esame è radicalmente differente da quello degli esami tradizionali? Le dichiarazioni degli studenti dicono che all’esame non è impossibile comunicare: l’impressione preventiva è molto elevata e non del tutto confermata successivamente alla prova, ma rimane confortata da oltre i tre quarti dei commenti. La percezione che alla prova Invalsi sia possibile “cooperare” sembra lievemente più diffusa al Centro-Sud, ma non in modo particolarmente significativo. Qualche commento, invece, allude alla possibilità che siano gli insegnanti a fornire un qualche aiuto durante la prova, persino più del previsto. E in questo caso la percentuale dei post è più elevata nelle regioni settentrionali (oltre il 12%). Una quota limitata segnala episodi di collaborazione, ma li attribuisce ad altre classi o ad altre scuole. Il giudizio complessivo sulla prova Invalsi è piuttosto variegato. Si va da quanti considerano la prova una circostanza che mette in crisi la consapevolezza nelle proprie capacità a quanti – ma sono solo il 17.5%, e in qualche misura più presenti al Centro-Nord – la considerano un’occasione stimolante per un ulteriore apprendimento, o quantomeno un’opportunità per dimostrare le conoscenze apprese e le abilità sviluppate. In mezzo, circa il 30% dei post vedono il test come un danno per lo studente: la prova contribuisce a determinare il voto finale dell’esame e – nella misura in cui appare estranea al metodo e ai contenuti tradizionali – rischia di abbassare le valutazioni anche degli studenti più brillanti. Questo timore sembra avere maggiore ospitalità al Sud. Altri, e rappresentano circa un quarto del totale, la considerano una fatica addizionale in fase d’esame, non particolarmente utile ai fini dell’apprendimento.

Invalsi, simili ai contenuti affrontati in classe? Studenti del Sud ritengono di sì, scrive “Orizzonte Scuola”. Altra sorpresa dai cinguetii di Twitter relativamente alle prove Invalsi. Si ribalta un altro luogo comune, dopo quello sulle aree del paese in cui sono più diffusi i "fenomeni impropri". Quest'anno, il monitoraggio sulle prove Invalsi è avvenuto anche con uno strumento innovativo, tramite social network, con l'analisi di 38mila posto tra Twitter e FaceBook nei giorni a ridosso e successive le prove. Uno dei parametri di analisi è stato il giudizio sulla prova. In particolare sono stati presi in considerazione quei post che ritenevano che i contenuti:

non avessero a che fare con gli insegnamenti in classe;

fossero piuttosto diversi;

fossero abbastanza simili;

Nel complesso i test sono stati giudicati lontani, per metodo e contenuti, da quanto normalmente affrontato in classe. Un giudizio che viene addirittura accentuato subito dopo il test, a riprova che effettivamente c'è una discrepanza tra la didattica e i test Invalsi. Con la percentuale che cresce progressivamente dal 72.6% della settimana precedente all’86.4% della settimana successive al test. Ma ciò che sorprende è che sono gli studenti del Sud a mostrare dai commenti una maggiore familiarità, rispetto alla media, con i contenuti delle prove Invalsi, con un 12,1% prima del test e un 9,5 dopo il test. Mentre al Nord la familiarità con i test si ribalta dal 6,9 prima e 8,2% dopo il test. Sono i ragazzi del centro che mostrano maggiore discrepanza con la didattica in classe, con un 7,9% dopo il test. Il Nord ha, invece, il primato nella percentuale di studenti che ritiene che gli insegnamenti in classe non abbiano nulla a che fare con le prove, con un 75% dopo il test, mentre prima del test la percentuale era del 52,7. In netto aumento, dunque, dopo aver avuto l'esperienza diretta col test.

Invalsi. Copioni al Sud. Twitter e Facebook non concordano, differenze poco significative. Al Nord i prof aiutano di più, scrive ancora “Orizzonte scuola”. Una delle novità che ha caratterizzato le somministrazione delle prove Invalsi dell'anno scolastico appena trascorso, è stato l'aver adottato delle misure anti-copioni. Misure che consistevano in una sistemazione random dei quesiti e delle risposte, in modo da non consentire la "scopiazzatura" dal vicino di banco. Durante la presentazione del "Rapporto nazionale", l'Invalsi ha elogiato le misure, avanzando una riuscita che ha inciso sui fenomeni di "cheating". In realtà, leggendo il rapporto, tali risultati sono ancora posti al condizionale e, riferendosi alle misure adottate, si legge che "dovrebbero aver esercitato una azione preventiva e dissuasiva di possibili comportamenti scorretti." E come "sulla base dei risultati delle classi campione - che sono quelli fino a ora analizzati - tale azione dissuasiva sembrerebbe essere stata efficace". In particolare le regioni nelle quali negli anni passati il fenomeno era diffuso Calabria, Sicilia, Campania e Puglia si è riscontrato un calo. Si è, invece, rilevato un aggravarsi dei "fenomeni impropri" in alcune aree del Lazio. Ma restano le regioni del Sud (Sicilia, Calabria e Campania, con l'aggiunta del Lazio) le regioni con il maggior numero di "fenomeni impropri". Questo, almeno, nel rapporto diffuso dall'Invalsi. Altro dicono invece le indagini avviate dal monitoraggio tramite social network nei giorni a ridosso le prove. Si è trattato di una indagine che ha analizzato 38mila post tra Twitter e FaceBook. Uno dei dati analizzati ha riguardato i "fenomeni impropri" e con risultati che sorprendono rispetto ai soliti luoghi comuni. Infatti, dai dati raccolti risulta che la percezione rilevata dai commenti relativamente alle possibilità di copiatura o aiutino da parte di compagni e/o prof, sia lievemente più diffusa al Centro-Sud, ma con uno scarto rispetto al Nord di poco conto. Anzi, al centro la percentuale risulta maggiore rispetto al Sud e se ci si riferisce agli aiutini da parte dei prof, i post riferiti al Nord in tal senso superano quelli del Centro e del Sud. Nel complesso i tre quarti dei commenti mostrano, dopo l'esame, il conforto della possibilità di copiare con il 76,6% al Nord, il 78,4 al Centro e il 78,1 al Sud. Nello specifico, i docenti che aiutano di più sono al Nord con il 12,7%, al Centro scendono all'11,8 e al Sud all'8,6%. Chiaramente c'è qualcosa che non va. A quali dati dare retta? Non solo prova INVALSI ma anche Esami di maturità ed Esami di Stato.

Copiare è reato, non per tutti: la legge all’italiana, aggirata da chi la esercita.

L’Italia è nel destino che ha colpito la Concordia… ‘Chi giudica chi?’. Chi lo fa, ha padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? La preparazione culturale e professionale di ognuno, permetterebbe in teoria di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego; frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui la meritocrazia consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. La Corte dei Conti non smette di ricordare che siamo corruttori nati. I politici alimentano il sistema fondato sul privilegio. Panem et circenses… “pane e giochi del circo”, è la locuzione latina a tutti nota. Era usata nella Roma antica. Perché la legge dovrebbe valere per tutti… Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per superare un prova. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio con la vecchia ‘cartucciera’ caricata con formule trigonometriche, biografie di Manzoni e Leopardi, storia della filosofia, traduzioni di Cicerone. Poi fu: il vocabolario farcito d’ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di Bignami, scarpe con suola manoscritta. Oggi c’è la tecnologia: il telefonino, l’iPhone collegato a Wikipedia. Rete e cartolibrerie vendono la salvezza: ecco le ultime…

1. la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: il raggio da discoteca.

2. C’è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo un foglietto avvolto zeppo di formule, appunti, eccetera.

3. Il celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d’ogni tipo. Tre idee difficili… meglio puntare su copia-copiella.

Ma copiare ad esami e concorsi, può valere la galera. E’ quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla Corte di Cassazione sentenza n. 32368/10. La legge all’art.1 stabilisce:“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. La Corte di Cassazione ha confermato con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”. In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.” Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato. Dichiarando ‘legale’ copiare a scuola, si dichiara legale copiare pure nella vita. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall’alunna e la norma che regola l’espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere “dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità”: le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un’attenuante…”uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute” della studentessa stessa sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 il Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar-Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Vero. Ma erano valutazioni che spettavano agli insegnanti. La sentenza del Consiglio di Stato stabilisce, invece, un principio. Il principio che copiare vale. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui si forgiano le generazioni future, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Perchè se ci viene insegnato che ad aggirare le regole non si rischia nulla, come ci porremo di fronte alle regole della società? La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. E’ il luogo dove va insegnata la civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco, quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, insegniamo la “furbizia”, come stupirci se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse? Ma il punto più importante non è tanto nella vicenda della ragazza sorpresa a copiare alla maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, corruzione, indulgenza, vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale. E ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato per chi imbroglia agli esami. Nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Per cui la norma inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). Nel caso di contrasto si dichiara l’invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario. Finché non vi è accertamento si può applicare la “fonte invalida”. Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell’Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, sono aggiunte, le sentenze della Corte di Giustizia Europea “dichiarative” del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi: ministeriali e di altri enti pubblici. All’ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Ovviamente consuetudini secundum legem e praeter legem, non quelle contra legem. E’ però evidente che in Italia, molte consuetudini, siano contra legem e pervengono proprio da coloro che ne dovrebbero dettare i giusti principi.

Il caso/Compiti copiati dal web nella sessione di Lecce bocciati oltre 100 aspiranti avvocati.

Oltre cento compiti copiati da internet. In qualche caso compilati sotto dettatura di un amico all’altro capo del telefonino, attingendo agli articoli pubblicati su riviste specializzate in diritto civile, amministrativo o penale, scrive Paola Ancora su “Il Quotidiano di Puglia”. Finisce sul tavolo della Procura della Repubblica la prova scritta di più di cento aspiranti avvocato delle province di Lecce, Brindisi e Taranto che lo scorso dicembre hanno scelto la “scorciatoia”. E stavolta non è stato necessario ricorrere a foglietti o Bignami di sorta. Son bastati uno smartphone sfuggito ai controlli dei commissari e degli agenti di Polizia incaricati della sorveglianza e la copertura di rete delle aule nell'Università del Salento, che nemmeno in quei giorni è stato possibile schermare. Peccato che la correzione dei compiti, da qualche anno per legge affidata a commissari fuori regione, sia stata puntigliosa e accorta al punto da scoprire tanto i copioni che le fonti utilizzate per svolgere i compiti. Così la prima commissione di Catania, presieduta dall’avvocato Antonio Vitale e alla quale erano stati inviati gli elaborati dei candidati della Corte d'Appello di Lecce, ha rispedito i faldoni ai colleghi salentini indicando gli elaborati non originali e chiedendo che siano trasmessi alla Procura. Saranno poi i magistrati a dire se si debba o meno aprire un procedimento penale a carico di quei cento. Il reato che potrebbe profilarsi a loro carico è il plagio. Ieri, al quarto piano degli uffici della Corte d'Appello penale, davanti ad una platea di centinaia di aspiranti avvocato, il presidente della prima commissione leccese, l'avvocato Francesco Flascassovitti, ha aperto i plichi ricevuti da Catania uno ad uno, comunicando l'esito dell'esame scritto ai candidati. “Annullato”, l’inevitabile verdetto per gli oltre cento cui è mancata la preparazione o la fiducia in loro stessi per riuscire a rispondere ai quesiti della prova senza aiuto. Una prova articolata e sicuramente difficile: a superarla, ottenendo così l’accesso agli orali fissati per il prossimo luglio, soltanto 440 candidati sui 1258 che l’hanno sostenuta.

Due i temi di diritto civile fra i quali scegliere: il primo sull'anatocismo (cioè la capitalizzazione o moltiplicazione degli interessi su una somma di denaro); il secondo in materia di successioni. Ed è su quest'ultimo punto che molti esaminandi hanno copiato da testi specializzati in materia. Due i temi anche in fatto di diritto penale: il primo relativo ad un notaio che si era appropriato indebitamente delle imposte di registro affidategli dai clienti; l'altro su uno scambio via chat di materiale pedo-pornografico. Tre gli argomenti a disposizione per l'atto giudiziario: l'opposizione ad un decreto ingiuntivo da parte di un cittadino che dichiarava di aver invece pagato i suoi debiti al presunto creditore (diritto privato); i reati eventualmente addebitabili al componente di una banda di rapinatori e assassini che aveva fatto il palo (diritto penale) e la gara per l'affidamento ad un'impresa, da parte di una pubblica amministrazione, di un'opera in project financing (diritto amministrativo). Fin qui le tracce. Una volta comunicate in aula – l'11, 12 e 13 dicembre scorsi - il tam tam dei cellulari le ha trasmesse all'esterno e, poche decine di minuti più tardi, i temi erano già on line, svolti senza alcun errore.

«È la prima volta che accade una cosa simile», commenta a caldo Flascassovitti, dicendosi «sinceramente stupito di quanto è accaduto». Nella prima commissione - che sovrintende il lavoro delle altre tre nominate dal ministero della Giustizia per il distretto di Lecce, Brindisi e Taranto - insieme a lui il pm Giovanna Cannalire, l’avvocato Aurelio Arnese, il giudice Saverio Sodo, tutti di Taranto; gli avvocati Giuseppe Positano, Dario Doria e Salvatore De Vitis della provincia di Lecce; l’avvocato Cosimo Leporale e i pm Valeria Farina Valaori e Luca Bucchieri di Brindisi. A luglio il pre-appello per gli orali, che cominceranno con l’esame dei candidati i cui cognomi cominciano per “q”. Da Roma, sarà la commissione centrale composta dai 27 presidenti di Corte d’Appello italiani a dire quali criteri dovranno seguire i commissari durante il colloquio. Per i cento “furbetti”, invece, le prossime settimane e il lavoro della Procura potrebbero finire per trasformare il gran debutto alla professione forense in una macchia indelebile sulla reputazione.

A PROPOSITO DEI COPIONI ALL’ESAME DI AVVOCATO A LECCE.

Esami di stato per avvocati: gli studenti hanno barato? Problemi a Lecce: oltre la metà degli studenti avrebbero copiato la prova di abilitazione. "Una cosa mai vista", dicono i commissari. Esami di stato per la professione di avvocato: a Lecce ci sono problemi abbastanza seri, se è vero che secondo LecceNews24 sono moltissimi i compiti da annullare, depennare completamente e anzi, sarebbero più i compiti invalidi che quelli validi. In breve, gli studenti avrebbero copiato alla grande, e anche in maniera grossolana l'intera prova d'esame di abilitazione. Sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Difficile da credere che un numero così cospicuo di candidati della Corte d’Appello di Lecce abbia riportato sotto dettatura telefonica o copiato e incollato da internet la prova d’esame più importante della loro vita. Ma è questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti, dunque, finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica. Lo definisce “un caso mai visto” Francesco Flascassovitti, Presidente del Primo gruppo giudicante dell’esame di Stato per avvocati nel distretto di Lecce, Brindisi e Taranto. Già da qualche anno la correzione delle prove era stata affidata a commissioni esterne, per consegnare nelle mani dell’imparzialità i risultati dell’esame. E’ stato, infatti, il lavoro capillare dei membri del collegio catanese a portare a galla il verdetto finale. Spetterà ora ai magistrati procedere penalmente nei confronti dei cento candidati con l’eventuale accusa di plagio. Non si sbilancia sull’accaduto l’Avvocato Flascassovitti “I risultati ufficiali dei compiti considerati validi saranno pubblicati lunedì – spiega – Ora attendiamo la decisione dei pubblici ministeri”.

Aspiranti avvocato copioni: il caso finisce al ministero della Giustizia che, già oggi, sarà informato dell’accaduto dall’avvocato Paolo Berruti, presidente della commissione nazionale che detta i criteri per lo svolgimento delle prove e controlla la legittimità dell’operato delle commissioni locali, scrive Paola Ancora sul “Quotidiano di Puglia”. Sabato, intanto, l’elenco dei promossi alla prova scritta dell’esame di Stato è stato depositato in segreteria e pubblicato sul sito della Corte d’Appello di Lecce. Pochi “bravissimi”, con voti compresi fra il 100 e il 127, e una platea di aspiranti avvocato con la media del 90. È questa la fotografia dei 465 candidati che hanno superato gli scritti e accederanno agli orali a partire dal prossimo 24 luglio, alle 15.30. Domani, invece, la commissione d’esame presieduta dall’avvocato Francesco Flascassovitti provvederà, salvo imprevisti, a trasmettere alla Procura compiti e verbali di correzione relativi agli elaborati dei copioni. A loro carico - oltre 100 sul totale di 1258 concorrenti provenienti dalle province di Lecce, Brindisi e Taranto - i magistrati inquirenti potrebbero decidere di aprire un’inchiesta per plagio. Si dovrà verificare, innanzitutto, che le prove siano state copiate integralmente (o quasi) da internet e da riviste specializzate, come sospettano i commissari di Catania incaricati di correggere i compiti del distretto di Lecce. Da Roma, intanto, il presidente Berruti parla di un dato «eclatante» e sospende qualsiasi giudizio. Certo è che nessuna segnalazione simile è arrivata nella capitale da parte di altri distretti. «Né, fino ad oggi, ho avuto notizia di quanto accaduto a Lecce - dice Berruti - nonostante proprio a fine aprile si sia tenuta una riunione con le commissioni locali. Evidentemente il fenomeno non era ancora emerso». Berruti spiega poi che, proprio per l’esame di Stato dello scorso dicembre, «sono stati introdotti criteri di correzione dei compiti molto selettivi, stabilendo che gli elaborati dei candidati contenenti massime o testi prelevati dai codici commentati e non virgolettati, andavano ritenuti copiati e annullati d’ufficio. Si tratta di un criterio innovativo che i commissari avevano il compito di leggere nelle aule dove si è svolta la prova». Il presidente Berruti assicura che oggi si attiverà «presso il ministero di via Arenula perché appuri cosa è accaduto e chiarisca questo aspetto dei criteri». Nei prossimi giorni, peraltro, è proprio alla porta della sua commissione che potrebbero bussare i presunti copioni decisi a fare ricorso al Tar contro l’annullamento della prova. Perché «la nostra commissione - conclude Berruti - esercita anche il controllo di legittimità sul lavoro delle sottocommissioni». Lavoro che nessuno, finora, ha messo in dubbio. Anzi. Il presidente leccese Francesco Flascassovitti plaude «all’impegno encomiabile degli uffici, a partire da quello del segretario Giovanni Pati e del suo staff» e a quello altrettanto puntuale dei commissari d’esame. Poi l’avvocato torna sul nodo della mancata schermatura di internet nelle aule dove si sono svolte le prove. «Non c’è giustificazione alcuna per chi ha scelto la scorciatoia, ma ci auguriamo che il prossimo anno la disattivazione della rete Gsm ci sia. Quest’anno, purtroppo, non c'erano fondi per cercare aule diverse da quelle dell'Università».

Esami d'avvocato: la rabbia degli "onesti", scrive “Lecce News 24”. Lecce. Prosegue nelle aule di Giustizia la vicenda degli esami per aspiranti avvocato. Nella bufera sono finiti oltre 100 compiti, ma c’è chi chiede “non facciamo di tutta l’erba un fascio”. I compiti incriminati, i “copia e incolla” , sono finiti in Procura nelle mani del Procuratore Capo di Lecce, Cataldo Motta. La vicenda ha fatto discutere molto e tanti sono stati i commenti giunti alla redazione di Leccenews24 che ha seguito puntualmente tutti i risvolti. Vogliamo di seguito pubblicare una email inviataci da uno dei tanti aspiranti avvocato, uno degli “onesti”, ovvero di coloro i quali non hanno cercato scappatoie per tentare di passare l’esame. Certo, alla luce di quanto accaduto, che di sicuro non dà lustro al territorio e a coloro che aspirano a svolgere la professione forense, potremmo anche accogliere l’appello dell’avv. Gianluigi Pellegrino che, a commento dei fatti di cronaca, ha lanciato l’ipotesi di cambiare l’esame di abilitazione, un esame definito “anacronistico”, spina nel fianco per chi, dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova ad affrontare un ostacolo di non poco conto, che costringe i più a rigettarsi sui libri. E, intanto, i numeri si ripetono e ogni anno la delusione pervade chi, magari con più preparazione e più motivazione di altri, si ritrova con il compito che non raggiunge la sufficienza e colleghi “più fortunati” che, invece, si trovano ammessi agli orali.

“Gent.mo Direttore, ho partecipato all'esame di stato per raggiungere un mio grande sogno: diventare avvocato! Non sono tra i fortunati ammessi all'orale nè tra gli "sfortunati" che forse verranno indagati per plagio. Non voglio inserirmi in una determinata fascia o schiera. Ho semplicemente cercato di fare il mio dovere ricevendo quale risultato il seguente: 82 su un minimo di 90. Le dirò, non sono l'unico! Di quei circa 1250 candidati, ci sono stati colleghi più bravi (se possiamo considerarci tali) che hanno ottenuto 83, 84, 85, 86 e che, come me, si sono ritrovati il 21 giugno - giorno dell'inizio dell'estate - con un pugno di mosche (o per meglio dire con un pugno di zanzare). Non posso "etichettare" i miei compiti, nè tanto meno posso considerare essi utili per ricevere un voto ottimo. So solo che io - come tanti - ho cercato di utilizzare due strumenti per affrontare tre giorni estenuanti: 1. la penna nera, 2. i codici. Non avevo telefoni, pc, iphone o altra tecnologia. Sa cosa mi fa rabbia in questi giorni? Il fatto di leggere quotidianamente sui giornali: "Avvocati copioni!" o essere "etichettati" (e questa volta è realtà) come dei semplici robot che devono solo copiare le informazioni che ricevono da internet o da altri. E' pur vero che il caso è delimitato a solo 100 candidati, ma le notizie che appaiono riportano tutti sullo stesso piano. Le dico solo che l'esame di stato così strutturato - che non assegna alcun posto di lavoro nè tanto meno una retribuzione fissa mensile - risulta più difficile e complesso da superare (ironia della sorte), rispetto ad un possibile impiego. Non mi permetto di giudicare e soprattutto non mi permetto di commentare quanto paventato. Dico solo che i candidati al titolo sono tanti e di questi vi sono persone che cercano di mettere nero su bianco quanto imparato in questi anni e quanto insegnato dai dominus di pertinenza. Non ci sono strategie o utilizzi impropri di tecnologia varia. C'è solo la volontà di chiudere il proprio percorso di studi. Io continuerò sulla mia strada, auspicando che i miei colleghi possano essere consapevoli delle loro qualità e forze, come cerco di farlo io. Ho solo un pò di amarezza, per i seguenti motivi: 1. questa estate avrei preferito consumare la sedia della mia stanza per affrontare l'orale; 2. chi fa di tutta l'erba un fascio fa intendere di non essere un ottimo "giardiniere". Riflettiamo!

AVVOCATI, MA ANCHE NOTAI E MAGISTRATI….COSI’ FAN TUTTI. COPIARE.

Una precisazione dotta da chi annualmente dal 1998 è bocciato per ritorsione agli esami di avvocato, affinchè a Lecce, Taranto e Brindisi non ci sputtanino in tutta Italia. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Da quando esiste questo tipo di esame voluto dai nostri legulei, sempre si è copiato. Prima era la dettatura diretta dei commissari d’esame, che erano anche consiglieri dell’Ordine degli Avvocati. Per poi discernere tra i compiti uguali, quali fossero quelli degli amici da abilitare. A Catanzaro i candidati avvocati passarono tutti. In Magistratura la sessione del 1992 è stata annullata, ma chi passò l’esame fasullo sono lì a giudicare. Raccomandazioni e favoritismi, per questo sono stati cacciati i consiglieri dell’Ordine e i compiti sono diventati più che itineranti: turistici. Turistici perché prima della riforma gli esiti sugli elaborati di dicembre si conoscevano a marzo. Dopo la riforma gli esiti si conoscono a giugno, luglio o, addirittura, settembre. Oggi il candidato copione si è evoluto: ci sono i cellulari, palmari, ecc.. Ma non è certo peggiore di chi, copiando e raccomandandosi, si è abilitato ed oggi è lì a fare la ramanzina da commissario d’esame. Il ragionamento è in generale ed ogni riferimento a persone specifiche è puramente casuale. Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze. La Corte suprema di cassazione è il giudice di legittimità delle sentenze emesse dalla magistratura in Italia. Essa è unica sul territorio nazionale e ciò costituisce un'ulteriore garanzia per la sua  funzione nomofilattica, la quale consiste nell'assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione delle norme di diritto. In tal senso le sue sentenze costituiscono un criterio orientatore della giurisprudenza nazionale, la quale nell'assumere le proprie decisioni può, e in alcuni casi deve, tenere conto delle sentenze emesse della Corte. Infatti presso la Cassazione è incardinato un ufficio noto come Ufficio del Massimario, la cui funzione è quella di enucleare i princìpi di diritto espressi dalla Corte nelle sue pronunce. La massima giurisprudenziale, di appena un periodo lessicale, è la sintesi che il giudice estrapola dal suo enunciato tra l’esatta individuazione del fatto, la corretta individuazione/interpretazione della norma che lo regola e la corretta sussunzione (incapsulamento) di quel fatto in quella disposizione. La Massima è importante e fondamentale per l’operatore del diritto perché è l’enunciazione della regula juris in quella fattispecie, ma anche il precedente giurisprudenziale destinato ad orientare in casi analoghi tutta la galassia dei legulei. Momento delicatissimo quello della massimazione delle sentenze; più delicato del decidere la causa, perché la sentenza si rivolge solo alle parti, tra le quali regola la contesa, mentre la massima è (o sarebbe) destinata a costituire ed enunciare la regula juris generale dell’ordinamento in quella fattispecie, destinata a valere erga omnes. Non è raro, però, barcamenarsi tra Massime contrastanti tra di loro. Per questo interviene la Corte di Cassazione a Sezioni Unite: per mettere pace e definitività tra fazioni opposte sezionali. Ai candidati agli esami il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”. In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva.

Quindi solo fumo negli occhi per nascondere ai profani il vero intento: limitare l’accesso ai nuovi avvocati che toglierebbero il pane ai vecchi volponi. 

Ciò è quello che avevo da dire. E magari, tra chi mi legge, si chiedesse anche il perché, questi volponi di tutte le parti d’Italia, non mi abilitano all’avvocatura dal 1998. Perché li conosco bene!! Peccato, però che i giornalisti credano a loro e non a me, che da anni denuncio il concorso truccato di avvocato e lo sfruttamento dei praticanti.

D'altronde le tracce sono conosciute giorni prima la sessione per poter farsi redigere da altri l’elaborato e poi copiarlo e consegnarlo all’esame, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

Concorso per avvocati? Si passa con il cellulare. I telefonini sono proibiti, ma non per i furbi. Il sito internet con tutte le soluzioni dei quiz era cliccatissimo. Ma a esami scritti ancora in corso...scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Roma. «Una domanda x tutti, ci sarà qualche anima pia che svolgerà le tracce per poi farle girare?», chiede alle 11,19 Axel 74, uno che se il nickname non mente ha 37 anni suonati. «Qualcuno può riportare gentilmente le tracce?», si angoscia poco dopo un altro. Accontentati alle 11,43 da uno che si autoaccredita nel nickname Pinco pallino attendibile: «Traccia 1 (aggiornamento): L’agenzia immobiliare Beta... Traccia 2 (aggiornamento): Caio, che abita in un condominio...». Ok, la traccia è giusta. Il sito è mininterno.net, ma il Viminale non c’entra nulla, anche se si gioca chiaramente sull’equivoco. Si tratta del «portale di riferimento per la preparazione personale a tutti i concorsi pubblici e ad altri esami basati su quiz a risposta multipla», come si autocelebra sulla home page. Un sito ieri supercliccato. Si celebrava infatti il primo dei tre giorni dell’esame di Stato per avvocati, la prova di parere motivato in materia regolata dal codice civile. Così il forum «Toto tracce esame avvocato 2011/2012» per tutto il giorno ha ospitato il tam tam delle aspiranti toghe, all’opera nelle decine di sedi nazionali, e di chi da fuori, davanti a un computer, cercava evidentemente di aiutarli. Intendiamoci: l’uso di telefonini e altri strumenti elettronici è rigorosamente vietato nelle sedi di esame. Ma viene il dubbio che in qualche città le regole non siano state fatte rispettare con tanto zelo. Altrimenti Biscottina, alle 11,38, non scriverebbe accorata: «Ragazzi, ma qui pubblicate anche qlc info circa la risoluzione delle tracce???». E l’aiuto arriva: sono le 12,21 quando qualcuno posta una lunga soluzione della prima traccia, con tanto di analisi della questione, norme da considerare nella redazione del parere, giurisprudenza in materia e conclusioni. Basta cambiare due o tre parole, aggiungere un’imperfezione civetta et voilà, mezzo esame è fatto. Alle 13,01 arriva anche la soluzione alla seconda traccia: chi ha un iPad o un blackberry sfuggito ai controlli è a posto. Ecco, i controlli. Molti dei «post» sul forum informano sulla possibilità di fare entrare nelle varie sedi di esame strumentazioni elettroniche. «A Catanzaro pare ci siano i Jumper per i cellulari» (i jumper sono strumenti che schermano gli impianti elettronici) scrive uno alle 9,08. «A Salerno hanno messo i metal detector!» è il grido di angoscia di Paco1789 alle 9,52. Ma Indignados alle 10,02 lo smentisce: «A Salerno non ci sono metal detector... Non dite str...ate». Altre note di cronaca da Napoli: «Tutto come altri anni... c’è chi si è portato la stampante ;)», dice uno. «I cell funzionano e non ci sn metal detector!!!!», aggiunge un altro. L’esame della Mostra d’Oltremare nel capoluogo campano, con ben 6274 candidati, a giudicare dalle citazioni è il più caotico (Pronto soccorso esame scrive: «Un appello a chi ha amici e colleghi a fare l’esame a Napoli. Appena escono le tracce pubblichiamole perché tanto a loro detteranno tardissimo e possiamo aiutarli tranquillamente!»), ma anche Salerno, Lecce, Messina, Catanzaro, Reggio Calabria, Bari sono i luoghi di questa geografia tutta meridionale dell’aiutino, del «c’ho un amico», del mezzuccio. Che irrita anche alcuni frequentatori del forum: «Certo che sto esame è scandaloso come il Paese che abitiamo...», scrive uno alle 15,05. Sottoscriviamo.

Milano. Cronaca di una farsa annunciata: martedì 13 dicembre va in scena la prima prova dell’esame da avvocato 2011, scrive Fabio De Strefano su “Libero Quotidiano”. Il parere civile. Due testi e migliaia di tirocinanti disseminati tra le fiere e le scuole del Belpaese. Un caos. Ciascuna sede inizia a un orario diverso, telefonini (sono proibiti i dispositivi digitali), soprattutto i  Blackberry, che entrano come nulla fosse,  tracce copia incollate in rete mentre i provetti legali devono ancora accomodarsi e bagni usati a mo’ di copisterie. Nessuno scoop è una routine che si ripete da anni, ma a leggere minuto per minuto il forum della redazione di mininterno.net  (portale sui concorsi pubblici) viene da chiedersi a cosa serva. Il primo messaggio è datato 7 e 36 del mattino. Tale “Mik” che chiede: «Si sanno le tracce?». Che fretta, i nostri devono ancora entrare. E infatti gli arrivano risposte interlocutorie, «di già possibile?» replica “anaflagio”. Passano pochi minuti e quello che era un appello isolato si trasforma in un coro. Otto e 23, 8 e 27, 8 e 47, poi le 9: «Raga ste tracce...». Monta la tensione. “Pronto soccorso esame”: «A Napoli sono in alto mare!!! Sono entrati in pochissimi…». Oppure: «Ho sentito che a Salerno addirittura ci sono i metal detector...». Quindi «legale»: «Ragazzi massima collaborazione come negli anni passati!!!». E poi una voce unica: «A Padova?», «A Napoli?», «A Catanzaro?», «A Milano». Notizie?. Allarme rosso: «A Salerno stanno sequestrando i cellulari… c’erano dei carabinieri in borghese tra i candidati…». Non è vero. I minuti passano. Ore 9 e 53 “Vale” dà la prima traccia. A spizzichi e bocconi: «L’agenzie immobiliare beta, aveva ricevuto… un mandato per la vendita di un immobile… Media (in realtà è Mevia) concludeva successivamente la vendita del suo bene, a mezzo dell’intervento di un’altra agenzia immobiliare…. Il candidato assunta la veste di difensore dell’agenzia beta…». Ci sono lacune, è evidente, ma il dado è tratto. No, non è così, sarebbe la traccia dell’anno prima. Serve di più. Occhio posta pure un tale, “Polizia postale”: «Gli utenti di questo forum che diffonderanno notizie dall’interno delle sedi d’esame saranno rintracciati e immediatamente espulsi dalle rispettive sedi». Gelo in chat. Si studiano strade alternative. «Facciamo un gruppo su Facebook», suggerisce “Stella”. «No restiamo qui è uno scherzo». E intanto “Polizia Postale” insiste. Occhio, arrivano conferme. Ore 10 e 59, Capparola: «Raga: “ag immobiliare e condominio». C’è anche la seconda. «Così non significa nulla! Chi sa, postasse le tracce per intero». E certo. Ore 11 e 43, le tracce arrivano per intero, fonte “pinco pallino”. La prima, quella sull’agenzia immobiliare viene integrata, la seconda è sul condominio: «Caio, che abita in un condominio, viene richiesto, dalla ditta Gamma che fornisce il combustibile utilizzato nell’impianto di riscaldamento condominiale centralizzato, del pagamento dell’intera fornitura di gasolio. Il candidato, assunta la veste di legale di Caio, rediga parere, illustrando gli istituti sottesi alla fattispecie ecc ecc.». Arrivano i suggerimenti, la giurisprudenza in materia. Nuovi dettagli sulle tracce. Si discute, ci si confronta. Ore 12 e 21: la prima soluzione è già in rete. Ore 12 e 21: «A Napoli hanno appena iniziato a dettare». Ore 13: è in rete anche il secondo parere, quello sul condominio. Ne arrivano altri e altri ancora. «Raga coordiniamoci. Qual è quello buono». E chi può dirlo. Fermi tutti. Parla “già dato” (uno che l’esame deve averlo superato qualche anno fa): «Capisco la voglia di aiutare colleghi, amici e parenti... capisco che questo esame è assurdo da ogni punto di vista... mi sembra però che voi una cosa non l’abbiate capita: “passare lo scritto è solo questione di culo. Non importa se hai svolto l’esame da Dio, bisogna vedere chi ti corregge, se quel giorno è nervoso o sereno, se ha già corretto altri compiti e quanti ne sono già passati... e basta». Ore 14 e 50, l’amministratore del Forum: «A causa della continua violazione delle regole del forum e delle leggi vigenti in Italia siamo costretti a chiudere la discussione». Ore 14 e 52, la risposta: «Ma taci e smettila di dire idiozie...». Anche per quest’anno la farsa è servita.

Una denuncia per calunnia, abuso d'ufficio e diffamazione contro la Commissione di Esame di Avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Buffoni, Buffoni” all’esame per magistrati o le intemperanze gli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.  

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Prego i direttori di dare rilevanza a questa iniziativa. In caso contrario cesserà ogni invio di note stampa ed ogni nostra collaborazione con chi non tutela l’onore del territorio a favore degli interessi corporativi della casta giudiziaria.

«Esami di avvocato: ma li leggono davvero gli scritti?» Chiede un candidata all’esame di avvocato a Beppe Sevegnini del “Corriere della Sera”.

«Salve Severgnini, sono una praticante arrabbiata e amareggiata, che per la terza volta non riesce a superare l’esame per diventare avvocato. In un paese normale il motivo dell’insuccesso sarebbe da attribuire a me stessa, scarso impegno, scarsa attitudine, incapacità, ma purtroppo questo non rientra nel mio caso, tutt’altro! Dico purtroppo, perchè altrimenti saprei cosa fare: impegnarmi e studiare, la cosa tra l’altro che mi riesce meglio, la mia lode alla laurea lo conferma. Ma l’esame scritto è una pagliacciata, una presa in giro, una lotteria. Un esame che non seleziona i migliori, ma i fortunati e i raccomandati. L’esame diventa la fiera dello scopiazzare, arrivano soluzioni dall’esterno tramite cellulari, alcuni con auricolari si fanno dettare tutto lo scritto. Ma poi gli scritti fatti bene non dovrebbero passare? Invece capita spesso, chi ha sostenuto l’esame le potrà fornire numerose testimonianze, che scritti uguali hanno valutazioni enormemente discordanti, alcuni passano con votazioni alte e gli altri vengono respinti! Ma li correggono sul serio questi scritti? Inoltre c’è gente che sostiene l’esame di avvocato dopo aver fatto una pratica fittizia, solo per prendersi il titolo, e chi come me ogni giorno pratica la professione, perché vuole fare questo mestiere e si sente portata per farlo, deve giocare alla lotteria con gente che vuole solo il vessillo da apporre sui biglietti da visita. Mi sento vittima di un sistema che non premia i migliori, un sistema che mi sta umiliando e demoralizzando. Io che non posso crearmi un futuro, aprirmi un mio studio, seguire le mie pratiche senza l’appoggio di un avvocato. Vorrei un sistema che premiasse i migliori, vorrei poter dire che è colpa mia se non ho superato l’esame. A dicembre parteciperò ad un’altra lotteria, sperando di vincere quello che in un paese normale otterrei solo con il mio impegno e bravura. Saluti.»

Esame da avvocato, persino il Ministro è stato bocciato, racconta Valeria Roscioni su “Studenti”. Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino.

Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

Lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia.

Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Lo verifica la Guardia di finanza, dopo la soffiata di alcuni esclusi, su mandato della Procura della Repubblica di Catanzaro. Si apre un’indagine resa pubblica nell’estate 2000 da Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», in cui si denunciano compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». Giuseppe Iannello, presidente dell’ordine forense di Catanzaro, smentisce tutto. Iannello non è uno qualunque ma un notabile dell’ente di categoria. È una vita che siede nel consiglio forense di Catanzaro, del quale per decenni rimane incontrastato presidente (lo sarà fino al 2012), spesso partecipando direttamente alle commissioni d’esame. Molto conosciuto in tribunale, consulente della Regione Calabria e storico socio del Lions club di Catanzaro, Iannello, che ha uno studio anche a Roma, leva la voce a difesa della procedura di accesso alla professione. Ma la candidata continua: «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio». L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Il clima è pesante e il consiglio dell’ordine calabrese protesta contro la «ferocia demolitrice della stampa» e la volontà di «aggredire tutta la città di Catanzaro». Lo scandalo dei 2295 compiti-fotocopia alza il velo su una prassi che molti conoscono. La sede d’esame della città calabrese è nota per l’altissimo numero di partecipanti e promossi: oltre il 90 per cento. Una marea che sbilancia l’intero numero di accessi nazionali. Non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile 2010. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un'agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere.

A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall' ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino.

ESAME DI AVVOCATO A LECCE: ACCUSA DI PLAGIO PER OLTRE 100 CANDIDATI

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA

presenta da Antonio Giangrande in data 1 luglio 2013

al Ministro della Giustizia ed ai Parlamentari

Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che:

alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.

Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità –

Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza.

Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza;

Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;

Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici;

Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad  una o all’altra funzione;

Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione.

Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico,  persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.

Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;

Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.

Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.

Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).

Al Ministro si chiede se si intenda valutare l'opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi,  solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.

Se vogliamo dirla tutta, nè i Parlamentari si sono interessati, nè tutti coloro che, candidati o commissari che avrebbero dovuto sentirsi offesi per motu propriu o perchè considerati conniventi, hanno ritenuto di reagire in alcun chè.

Ed a proposito del plagio, proprio a Lecce intervenuto il TAR. Esame avvocato: plagio escluso se riguarda principi giurisprudenziali consolidati. TAR Puglia-Lecce, sez. I, sentenza 24.10.2011 n° 1837. La nota di Alfredo Matranga su “Altalex” spiega bene. Esame avvocato: è illegittimo l’annullamento della prova scritta per plagio se le parti incriminate concernono principi giurisprudenziali consolidati o previsioni normative fondamentali. E’ questo il principio con cui il TAR Lecce, con la sentenza in commento ha accolto il ricorso proposto da un candidato le cui prove erano state prima valutate tutte e tre 30/50, per un totale di 90, e poi annullate a causa di una presunta identità con quelle di altro candidato. Per il TAR adito, infatti, le parti dell’elaborato che hanno portato all’annullamento della prova d’esame, più che alla fattispecie del plagio, sembrano riportabili all’esposizione di principi giurisprudenziali consolidati o dello stesso contenuto di previsioni normative fondamentali, come l’art. 56 c.p..In siffatte ipotesi, ha proseguito il TAR salentino deve pertanto trovare applicazione il principio già affermato dalla Sezione (T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, sentenza 21 ottobre 2010, n. 2147), relativo all’impossibilità di considerare come espressione di univoca corrispondenza con altri elaborati l’utilizzazione di formulazioni presenti in giurisprudenza (sempre possibile, in considerazione dell’utilizzazione di codici commentati) o la mera “copiatura” della formulazione delle norme; è, infatti, possibile presumere, come spesso avviene in procedure d’esame o concorsuali, che i passi “incriminati” possano trovare giustificazione nel ricorso a fonti (leggi, giurisprudenza) comuni o nelle <<ordinarie capacità mnemoniche>> dei candidati, che indubbiamente utilizzano testi di studio diffusi e comuni. Ha infine concluso il TAR, ritenendo che l’elaborato del ricorrente e quello contrassegnato con il numero n. 404, al di là del necessario e inevitabile riferimento all’istituto del tentativo, sono caratterizzati dall’utilizzo di tentativi ricostruttivi talmente divergenti (nel caso del ricorrente, il riferimento alla possibile mancanza dell’elemento soggettivo e, nel caso dell’elaborato contrassegnato con il numero 404, all’accordo non punibile ex art. 115 c.p.) da portare a ritenere non credibile l’ipotesi del plagio che, si esaurirebbe, in buona sostanza, nella semplice parafrasi della formulazione e dell’elaborazione giurisprudenziale dell’art, 56 c.p. Annullamento degli elaborati per plagio: vanno individuati i passi copiati, così dice il TAR. La giurisprudenza relativa all’annullamento degli elaborati dell’esame di avvocato che risultino copiati non può, in alcun modo, prescindere dall’individuazione delle parti dell’elaborato che possano giustificare l’applicazione delle sanzioni previste per l’ipotesi del plagio, ma deve invece tendere al riscontro dell'effettiva conformità degli elaborati, tale da far presumere che sia il risultato dell'iniziativa o dell'accordo di più candidati. TAR Puglia-Lecce, sez. II, sentenza 21.10.2010 n° 2147 come spiega bene Alfredo Matranga su “AltaLex”. L’annullamento degli elaborati dell’esame di avvocato che risultino copiati non può, in alcun modo, prescindere dall’individuazione delle parti dell’elaborato che possano giustificare l’applicazione delle sanzioni previste per l’ipotesi del plagio. E’ questo il principio con cui il TAR Lecce, I sez., ha accolto, con sentenza 20.10.2010, n. 2147 il ricorso proposto dal ricorrente avverso la mancata ammissione agli esami orali di avvocato a causa della presunta copiatura da altro candidato. In particolare, ha osservato il TAR salentino come, ai sensi dell’art. 23, ult. comma del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che, l’applicazione della previsione (che sanziona la violazione degli obblighi dei partecipanti all’esame di non comunicare tra di loro e di portare nella sede degli esami libri, scritti ed appunti di qualsiasi genere, previsti dagli artt. 20 e 21 del r.d. 37 del 1934) non possa, in alcun modo, prescindere dall’individuazione delle parti dell’elaborato che possano giustificare l’applicazione delle sanzioni previste per l’ipotesi del plagio: <<il limite che la commissione incontra nell'esercizio del potere di annullamento deve essere, invece, individuato nella riscontrata effettiva conformità degli elaborati, che faccia ragionevolmente presumere che essa sia il risultato della iniziativa o dell'accordo di più candidati>> (Consiglio di stato, sez. IV, sentenza 17 febbraio 2004, n. 616 che si pone nel solco di una giurisprudenza assolutamente consolidata). Nella vicenda in esame, infatti, il primo elaborato relativo alla prova di diritto civile non recava assolutamente l’individuazione delle parti o dei passi dell’elaborato che possano aver indotto la Commissione a concludere per la necessità di procedere all’annullamento dell’intera prova, a seguito della presunta conformità dell’elaborato 611 con l’<<elaborato contenuto nella busta n. 782>>, rendendo così praticamente impossibile qualsiasi controllo in ordine alla correttezza sostanziale della valutazione operata dalla Commissione, con consequenziale violazione di pacifici criteri di motivazione degli atti amministrativi desumibili dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241.

Dopo l’invito a denunciare e l’interrogazione parlamentare da presentare al Ministro della Giustizia inviata al Parlamento, né i cosiddetti rappresentanti del popolo, ne i minchioni dei candidati accusati di plagio hanno fatto qualcosa. La cosa che più dovrebbe far imbarazzare i benpensanti e gli ipocriti è che, per un motivo o per un altro, una coltre di omertà è calata sulla vicenda dei 100 presunti copioni. Se i scribacchini e pennivendoli per parlar male dell’avversario politico o del povero cristo, lo sbattono come mostro in prima pagina, per codesti signori nessuna attenzione è stata data, né la notizia è stata divulgata. Censura ed omertà assoluta: “minchiaaaa……nudda sacciu”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato. «A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

PARLIAMO DI DISPARITA’ DI TRATTAMENTO DEGLI STUDENTI.

Quello che molti di noi sospettavano è provato. Scuola, ricerca shock dell'Ocse sui voti: "I prof favoriscono ragazze e ceti alti". Uno studio europeo che si basa sui test Pisa destinato a aggiungere argomenti a uno di principali punti di contrasto tra famiglie e professori. E in Italia la differenza sembra tra le più marcate, scrive Salvo Intravaia su “La Repubblica”. "Gli insegnanti favoriscono le ragazze e gli studenti benestanti o provenienti da ambiti socio-culturali più favorevoli". A parità di performance, in buona sostanza, studenti maschi e alunni provenienti da ambienti deprivati vengono penalizzati dai propri insegnanti al momento di assegnare le valutazioni finali e i voti nel corso dell'anno scolastico. La "denuncia" non arriva da una associazione studentesca e neppure da un gruppo di genitori intenti a difendere i propri figli, ma addirittura dall'Ocse: l'Organizzazione (internazionale) per la cooperazione e lo sviluppo economico. Il ventiseiesimo approfondimento condotto dall'Ocse sui test Pisa - in Lettura, Matematica e Scienze - del 2009 danno ragioni in più a una lamentela classica di genitori e alunni. Il focus pubblicato qualche giorno fa mette sul banco degli imputati i docenti e la loro imparzialità nell'attribuire i voti agli alunni. Da sempre, le valutazioni attribuite dai professori agli studenti rappresentano uno dei punti fermi della scuola, ma anche uno dei più controversi. Tanto che la maggior parte dei ricorsi dei genitori a fine anno riguardano appunto le valutazioni finali degli insegnanti. E, tra le nazioni europee in cui è stata condotto l'approfondimento di ricerca, l'Italia sembra essere uno dei paesi dove c'è più sperequazione tra voti attribuiti dagli insegnanti e saperi reali. Il titolo della ricerca è tutto un programma: "le aspettative legate ai voti", in inglese, "le grandi speranze: come i voti e le politiche educative influiscono sulle aspirazioni degli alunni", in francese. Sta di fatto che i voti, e lo sanno bene i prof, rappresentano nella scuola uno dei motivi del contendere più sentiti per studenti e genitori. "Gli insegnanti - si legge nella ricerca - tendono ad attribuire alle ragazze ed agli studenti provenienti da ambiti socio-economici più favorevoli migliori voti a scuola, anche se non hanno una migliore performance, rispetto ai ragazzi e agli studenti provenienti da ambiti socio-economici svantaggiati". Gli esperti dell'Ocse non esitano a definire questo trend "preoccupante" perché può penalizzare gli studenti anche nelle scelte future. Le ricadute negative possono essere di due tipi con conseguenze a lungo termine per i meno fortunati. Ecco quali. "Da una parte, gli studenti - spiegano dall'Ocse - fondano sovente le loro aspirazioni, in termini di studi e di carriera, sui voti che ottengono a scuola; da un'altra parte, i sistemi educativi utilizzano i voti nella selezione degli studenti per l'accesso ad un indirizzo di studi e, successivamente, per l'accesso all'università". Per valutare l'attendibilità dei voti espressi dagli insegnanti in Lettura, l'Ocse ha consegnato ai quindicenni una scheda in cui dovevano segnare il voto in Italiano - o nella lingua del paese in cui si svolgeva il test - loro attribuito dai professori. E, successivamente, ha determinato la correlazione tra il voto attribuito ai quindicenni dai propri prof con la performance in Lettura nel test Ocse-Pisa. Scoprendo che a parità di risultati nel test Pisa le ragazze e gli studenti più abbienti riescono a strappare ai propri insegnanti voti più alti. "Lo scopo principale dei voti - spiegano da Parigi - è quello di promuovere l'apprendimento degli studenti, informandoli dei loro progressi, attirando l'attenzione degli insegnanti sui bisogni educativi dei loro studenti e, infine, attestando il livello di competenza valutata dagli insegnanti e dalle scuole". Ma i docenti sembrano "anche basare le loro valutazioni su altri criteri". Il test Pisa "ha dimostrato che le istituzioni educative e gli insegnanti ricompensano costantemente caratteristiche degli studenti che non hanno relazione con l'apprendimento".

La differenza non è solo tra femmine e studenti altolocati, ma anche tra scuole. Penalizzati da insegnanti severi, tirati nei voti, scrive Federica Cavadini su “Il Corriere della Sera”.  Gli studenti lombardi portano a casa pagelle meno brillanti, escono dalla maturità con punteggi più bassi e devono fare salti mortali per conquistare la lode. Anche se risultano più preparati. C'è uno spread della valutazione che poi pesa quando presentano il curriculum, quando vanno ai concorsi, quando cercano lavoro, il teorema non è nuovo, la novità sono i dati. I ragazzi di Milano e dintorni brillano ai test Invalsi e nelle rilevazioni Ocse Pisa, prove standard, uguali per tutti, ma quando le valutazioni sono soggettive, scrutini ed esami di maturità, la partita la stravincono i colleghi del Sud a partire dai calabresi, che però restano indietro nei test nazionali. Il dibattito sulla valutazione è ripartito da Milano, alla presentazione del «Rapporto sulla qualità della scuola in Lombardia» confezionato da Tuttoscuola , con il direttore dell'Ufficio scolastico regionale che si è impegnato a intervenire. «Non posso chiedere agli insegnanti di essere meno severi, sono giustamente seri. Ma i nostri ragazzi risultano penalizzati. Il problema della valutazione c'è - ha detto il provveditore Francesco De Sanctis -. Anche le università non si fidano dei voti degli altri e utilizzano i loro test». Uno dei dati che scalda gli animi: i cento e lode alla maturità, traguardo raggiunto dallo 0,45% dei lombardi, e dall'1,4 dei calabresi. Reazioni. «I conti non tornano. Invalsi alla maturità subito», ha rilanciato secca l'assessore regionale Valentina Aprea. «La Lombardia avrebbe tutto da guadagnare con la trasformazione della terza prova in prova nazionale, la valutazione sarebbe più omogenea», ha sostenuto anche Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola . «Poi nei concorsi per titoli lo svantaggio si paga. Qualcuno può far più fatica di altri a trovare lavoro». Lo storico mensile del settore, che ha già consegnato due rapporti nazionali - 2007 e 2011 - in questa indagine sulla Lombardia per la prima volta ha valutato le scuole comune per comune (per le paritarie non tutti i dati erano disponibili). Le migliori? Sono a Cassano Magnago, città natale del leghista Umberto Bossi, provincia di Varese. Le peggiori a Como. Che cosa è stato pesato? Molto. Per esempio: patrimonio delle scuole, spese per l'istruzione degli enti locali, dotazione di pc e laboratori, tempo pieno, numero di alunni per classe, servizi mensa e trasporto, numero dei precari, profilo degli insegnanti, dispersione scolastica, livelli di apprendimento e risultati di scrutini e diplomi. Un centinaio gli indicatori, 35 mila i dati incrociati, pescati negli archivi di Miur, Istat, Ragioneria dello Stato. Per arrivare a una valutazione su: strutture e risorse, organizzazione e servizi, personale, risultati. E per concludere: la Lombardia è sempre sopra la media nazionale, era al secondo e terzo posto e resta ancora in alto. L'indagine è stata pensata per rispondere alla domanda «dove la scuola funziona meglio». Adesso la mappa c'è. E ci sono spunti da salvare. In ordine sparso: gli istituti migliori sono nei comuni più piccoli; le scuole più ricche sono i tecnici e i professionali; gli insegnanti sono più giovani che altrove ma si considera «moderatamente giovane» chi è sotto i 45 anni (!) e in cattedra ci sono meno uomini; diminuiscono i trasferimenti, aumenta l'assenteismo. Poi le «classi pollaio», dolente nota. «Alle superiori anche in 33, troppi. Ma c'è stato un problema di distribuzione delle risorse, Milano è stata penalizzata», ha detto De Sanctis, in carica da due mesi. E poi c'è il tema della valutazione. «Sacrosanta la serietà nei giudizi. Ma agli studenti lombardi si chiede di più».

L’ITALIA DELL’ANARCHIA. MALEDUCAZIONE ED INEDUCAZIONE. I PROFESSORI SOTTO L’ASSEDIO DEI GENITORI SINDACALISTI DEI FIGLI.

I figli della classe operaia votano a destra. Cade un luogo comune. I dati dell'Istituto Toniolo: i ragazzi di sinistra appartengono al ceto medio-alto, scrive Maria Sorbi  su “Il Giornale”. Milano «Sono di sinistra». I giovani prendono posizione, mettono le preferenze sulle schede elettorali. Ma non sanno dire con precisione perché votano una coalizione anziché un'altra. Questione di eredità di famiglia, forse. Già, perché la madre, che ora mangia solo bio e veste esclusivamente cashmere, ha ancora l'eskimo nell'armadio. E il padre, manager incravattato, in garage conserva ancora quella foto assieme a Mario Capanna. Quindi, meglio dire alla colf di non stirare la t-shirt: stropicciata «fa più sinistra» e nei cortei studenteschi piace di più. Ecco cosa c'è alla base di parecchi voti. Un anti berlusconismo basato su etichette e preconcetti che si tramandano di generazione in generazione. E chi vota centrodestra? I figli della classe operaia, quelli che si spaccano la schiena per mettere assieme uno stipendio e contribuiscono alle spese di casa da quando hanno 18 anni. In sintesi pare che il 30% dei giovani voti a sinistra, il 17% nel centrodestra e il 14,5% al centro. È la fotografia scattata dall'Istituto Toniolo sull'orientamento politico dei giovani dai 18 ai 29 anni. La ricerca, curata da un gruppo di docenti dell'università Cattolica e realizzata da Ipsos con il sostegno della fondazione Cariplo, raccoglie informazioni su desideri e valori dei giovani. Su tutti, c'è un partito che prevale: quello di chi rifiuta la logica destra vs sinistra (il 38,5%). Dall'indagine emerge che si collocano nel centrosinistra soprattutto le femmine e i ragazzi del centro Italia che vivono in famiglie con uno status sociale medio alto. Viceversa, a posizionarsi nel centrodestra sono i maschi del Nord Italia e con origini sociali basse. Ciò che dispiace maggiormente è che il 21% dei giovani dichiara fin da adesso di non votare alle prossime elezioni o di votare scheda bianca. Gli indecisi sono il 24%. La formazione delle idee politiche avviene per «tradizione di famiglia» nel 30-38% dei casi, soprattutto tra i ragazzi più giovani. Quelli in età da università si informano da sé ma restano ancorati alle figure politiche del passato. Ma le critiche sono feroci e la classe politica di oggi sembra deludere quasi tutti. Uno su quattro, fra i 1.200 intervistati, di dice «disgustato» dai partiti. Gli impegnati sono il 5%. Minoritaria è la quota di chi non segue né è interessato alla politica. Il 23% dei giovani è critico rispetto all'offerta politica attuale ma vorrebbe dare un contributo positivo per migliorare le cose. Tra le richieste ci sono la crescita del Paese, la riduzione delle diseguaglianze e la protezione delle fasce più deboli. Tra social network, assemblee e chiacchierate tra amici, i giovani ammettono di parlare spesso di politica e solo il 13% dice di non parlarne mai. Un barlume di speranza, in mezzo a tanto scetticismo, sembra esserci: i ragazzi parlano di politica, chiedono momenti di informazione-formazione e il 71% di loro vede il voto come un potenziale strumento di cambiamento. «Nonostante le delusione - spiega Alessandro Rosina, tra i coordinatori della ricerca - la voglia di partecipare e agire è ancora viva». Il 30% dei giovani si dichiara di sinistra, il 17% di centrodestra e il 14,5% si colloca al centro. Ma prevale la quota di coloro che non vogliono collocarsi né da una parte né dall'altra e che rifiutano le vecchie distinzioni destra-sinistra: pari al 38,5%. Secondo lo studio dell'Istituto Toniolo di Milano, nella formazione dell'orientamento politico dei giovani italiani conta prima di tutto la famiglia, poi vengono i leader del passato. Scarsissimo il peso dato alle figure politiche attuali. Il 21% degli intervistati ha dichiarato che non intende votare alle prossime elezioni oppure che intende votare scheda bianca. Gli indecisi sono il 24%. Un giovane su quattro si dice disgustato dai partiti, gli impegnati in politica sono solo il 5%.

Intanto nelle scuole c'è una guerra. La professoressa lo sgrida in classe, lui le spara con arma ad aria compressa. E' successo in un istituito superiore in provincia di Ravenna. Il ragazzo, imolese, indagato per lesioni volontarie aggravate, scrive “La Repubblica”. La professoressa lo aveva sgridato in classe e lui, il giorno dopo, è tornato con una pistola ad aria compressa e durante l'intervallo ha sparato all'insegnante una decina di pallini da distanza ravvicinata. Protagonista di quanto accaduto in un istituto superiore di Riolo Terme, nel Ravennate, è un ventenne di Imola (Bologna), che è stato indagato per lesioni volontarie aggravate e sospeso da scuola per 15 giorni. L'insegnante ha riportato lesioni lievi. L'insegnante è stata colpita da pochi metri quando il 20enne, vedendola passare in corridoio, le si è all'improvviso avvicinato, ha tirato fuori la pistola e azionato il grilletto. Nessuno dei pallini ha centrato gli altri ragazzi, mentre la professoressa ha riportato una prognosi di sette giorni. E' stato allertato il 112; è arrivata una pattuglia dei carabinieri della Compagnia di Faenza, alla quale è stata consegnata la pistola ad aria compressa.

La scuola è una guerra (tra poveri), scrive Stefano Bianchi sul suo Blog. Oggi la scuola avrebbe bisogno di dignità, rispetto, una selezione del personale poggiata su criteri diversi dagli attuali. Ma, banalmente, anche di soldi e tranquillità. "La scuola è una guerra", diceva il vecchio docente di francese in un film di qualche anno fa (per chi non l’avesse visto: La scuola, D. Luchetti, 1995, tratto da due romanzi di Starnone). È vero: il personaggio rappresentava il cliché del professore rincoglionito, per nulla elastico e poco adatto al lavoro che qualcuno gli diede diversi anni prima. Di docenti inadatti alla loro missione ce ne sono tanti. Ce ne sono tra i docenti del sud e tra i docenti del nord, tra quelli giovani e tra quelli più vecchi. Ce ne sono tra i docenti di ruolo e tra i precari, tra quelli che si sono spostati dalle loro case, spesso facendo grandi sacrifici, e tra quelli che insegnano a due passi dalla casa in cui sono cresciuti. Come in ogni professione ci sono persone che riescono meglio e persone che dovrebbero fare altro nella vita. La battuta citata si riferiva alla guerra condotta per arrivare alla bocciatura di uno studente, bocciatura intesa come unica possibile affermazione della propria triste esistenza professionale. Ma il problema oggi è che nella scuola è in corso un'altra guerra, stavolta una guerra tra poveri, che si combatte su diversi fronti. Ci sono divisioni tra docenti di ruolo e docenti precari. Spesso la gelosia e l’invidia di questi ultimi si scontra con la supponenza di chi, magari dopo decenni di precariato, una cattedra ce l’ha di diritto e per questo si crede migliore, per assunto. Contrapposizioni e attriti nascono anche in base all’ordine e la tipo di scuola: Licei contro Ipsia, superiori contro medie. Sono delle situazioni abbastanza ridicole e al limite del grottesco. È facile per un non più giovane precario sognare a occhi aperti di vedere precipitare dalla tromba delle scale la vecchia carampana che ha deciso di rimandare di un altro anno il suo pensionamento, anche se non sa più nemmeno capire la lingua usata dai suoi studenti. Ma due sono i fronti aperti che causano le ferite più profonde. Il primo vede i precari combattersi in una lotta fratricida combattuta a colpi di decreti, ricorsi al TAR, pareri della Corte Costituzionale. L'oggetto del contendere è la possibilità o meno di cambiare provincia in cui si è in graduatoria. Non entro nello specifico: non voglio annoiare chi non lavora nella scuola e generare nausea a chi, suo malgrado, con questa diatriba convive da tempo. Ma in palio c'è, per molti, la possibilità o meno di lavorare l'anno prossimo e i successivi. Il secondo fronte contrappone due gruppi. I tanti docenti impegnati nel dare un senso al proprio lavoro cercando di fare in modo che i ragazzi si portino via qualcosa dalle ore passate sui banchi, nuove conoscenze sì, ma non solo: anche senso di responsabilità e fiducia nelle proprie capacità. Questi si scontrano con l'esercito degli insegnanti che cercano la strada della comodità, che hanno ceduto di fronte alle sempre più frequenti minacce di ricorsi e denunce da parte di genitori, oppure che si chinano davanti allo spauracchio della difficoltà nel raccogliere un numero sufficiente di studenti per formare nuove classi se si diffondesse la voce che scuola in cui si lavora pretende troppo. Per scelta non voglio parlare della considerazione sociale di cui gode la classe docente, intrisa di pregiudizi e luoghi comuni, in costante calo. L’insegnante ormai è ridotto a baby-sitter, quando va bene, a disarmato secondino, quando va male. Per questo motivo la tranquillità per chi lavora nella scuola è una chimera. Le ossessioni più diffuse riguardano, nel quotidiano, la compilazione del registro e dell’inutile mare di burocrazia che viene generata dai sistemi di certificazione di qualità, la responsabilità penale nell’abbandonare la classe, magari per prendere il gesso (sì perché in Italia la maggior parte delle lavagne prevede ancora l’uso del gesso).

Inoltre, per ciò che resta di progettabile del proprio percorso di vita la tranquillità sembra ancora più lontana e le ansie sono per lo più generate da domande riguardanti la sicurezza del proprio posto di lavoro: questa maternità mi consentirà di raggiungere i dodici punti? L’anno prossimo qualcuno mi supererà in graduatoria? Se sono “perdente posto” dove finirò? Riuscirò ad andare in pensione prima finire in manicomio? Senza tranquillità non si lavora bene. In nessun settore. E nemmeno senza soldi. La scuola ha bisogno di soldi. Di più soldi. Di tanti soldi. E non soltanto perché gli stipendi degli insegnanti Italiani sono ridicoli rispetto al resto d’Europa.

Quello forse è l’aspetto meno grave (anche se il riconoscimento economico è senza dubbio motivante). Il problema è che si è tagliato su tutto. Classi sempre più numerose, sempre meno ore, sempre meno insegnanti di sostegno, sempre meno fotocopie, meno laboratori, meno uscite, meno tutto. Se ne sono accorti anche gli studenti. Guerre tra poveri, in cui le vittime più numerose e dimenticate, come al solito, sono gli studenti. A loro si addebitano i danni collaterali. Per ora. Perché i danni collaterali di questo sistema li pagheremo tutti insieme nei prossimi anni. L'esito di una scuola in cui si dà sempre di meno in termini di formazione ed educazione è il tracollo di una intera nazione, visto che una nazione democratica si basa anche, e non poco per la verità, sul sapere distribuito tra i suoi abitanti. Così anziché tentare di dare dignità alla scuola pubblica, anziché omaggiare con un po’ di rispetto l’abituale vittima della mannaia mossa a difesa dei conti dello Stato, anziché proporre come criterio per l’assunzione degli insegnanti la loro reputazione (sì, è stato annunciato anche questo) dalla sala conferenze di un albergo arriva la notizia di fronte alla quale ogni docente resta senza parole: libertà vuol dire non essere costretti a mandare i propri figli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori. Ormai il Presidente del Consiglio ha chiarito che secondo lui “Scuola di Stato” è un modo per declinare il concetto di scuola in senso dispregiativo.

Intanto succede questo. Così piccoli e già bocciati, alla loro prima prova scolastica. I cinque bambini di sei anni che hanno frequentato fino a qualche giorno fa la prima elementare in due classi dell'istituto 'Giulio Tifoni' di Pontremoli sono già un caso. Anche politico, visto che la loro bocciatura ha suscitato reazioni bipartisan in Parlamento, con il Pd che chiede al ministro di disporre un'ispezione nella scuola della Lunigiana e il Pdl che definisce il caso di Pontremoli come qualcosa che "esula dalla prassi e probabilmente dal buonsenso". Ma i più agitati e indignati sono i genitori dei bambini che annunciano ricorsi ed ipotizzano anche una class action con tanto di richiesta di indennizzo per questo complicato inizio della carriera scolastica dei loro figli. A vedersi costretti a ripetere la prima, la classe in cui si imparano i primi rudimenti per leggere, scrivere e far di conto, sono due bambini italiani, uno dei quali disabile, e tre stranieri. Erano allievi due classi di 29-30 bambini: "classi-pollaio" dicono i genitori che già erano stati protagonisti di un ricorso, poi vinto, al Tar della Toscana contro le aule troppo affollate e nelle quali diventa difficile seguire i piccoli.

Certa, invece, che la costituzione di classi numerose non c'entri è il sindaco Lucia Baracchini, che è dirigente scolastico in un altro comune: "La bocciatura è un modo di garantire requisiti essenziali allo svolgimento di un percorso scolastico corretto, senza dimenticare che la priorità della scuola è il bambino e la sua istruzione". Dello stesso parere il dirigente scolastico Angelo Ferdani: "Per il loro bene e seguendo una normativa ministeriale che lo prevede, le insegnanti hanno scelto all'unanimità di far ripetere loro l'anno, può succedere che per immaturità gli alunni abbiano bisogno di più tempo per apprendere. Siamo stati molto combattuti e ci dispiace - ha aggiunto il dirigente scolastico - ma io stesso ho fatto visita alla classe e seguito i bambini in alcune prove.

Non sono capaci di scrivere una frase minima sotto dettatura". E per quanto riguarda il piccolo disabile? "La decisione - spiega - è stata presa da un gruppo di esperti". E gli stranieri? "Non è stata la poco conoscenza della lingua italiana ad essere di intralcio all'apprendimento. In alcuni casi si tratta di bambini iscritti alle elementari un anno prima degli altri". Ma i genitori restano comunque sul piede di guerra e sostengono che "quasi il 10% è stato bocciato visto che le due classi in questione sono di 29 e 30 alunni. La sentenza del Tar dello scorso 30 maggio aveva dimostrato che i genitori avevano diritto ad un classe in più".

Metà giugno: finisce la scuola. E’ il tempo di esami e di affissione degli scrutini, scrive Sara Evangelisti. E’ sopra riportata la notizia sul Rai News 24 della bocciatura di cinque studenti di prima elementare, in una scuola della Lunigiana. Ma non sono stati i soli: altri casi simili sono stati riportati dai quotidiani, nel pavese e nel bergamasco. Queste situazioni sono state oggetto persino di ispezioni ministeriali e interrogazioni parlamentari, giustamente, visto che attualmente nel nostro Paese non abbiamo nulla a cui pensare. In tutti i casi, infatti, cosa hanno fatto i genitori dei bambini che non hanno avuto accesso alla seconda elementare? Semplice: si sono rivolti agli avvocati e hanno fatto ricorso. Molto meglio una promozione per decreto, piuttosto di una formazione seria e reale. Non si sono seduti a tavolino con gli insegnanti per capire il perché e il per come della bocciatura. Immagino, non conoscendo a fondo le diverse vicende, che le maestre abbiano avuto modo di informare i genitori, nel corso dei duecento giorni di scuola, che c’erano dei problemi. Non sono un’insegnante e del mondo della scuola ho esperienza solo da ex alunna. Se un bambino di sei anni, così come un ragazzo di sedici, non raggiunge gli obiettivi prefissati alla fine dell’anno scolastico, penso che sia giusto che venga bocciato.

Se il bambino in questione è stato bocciato evidentemente è perchè non ha conseguito determinati risultati alla fine della prima elementare. Risultati non da poco, ne convengo: leggere, scrivere e far di conto. Ma sono conoscenze fondamentali e propedeutiche a tutto quello che verrà. Elementare, direi. Piuttosto che promuovere quel bambino non è forse meglio che ripeta l’anno e colmi le sue lacune? Altrimenti, prima o poi, verrà comunque bocciato, ma sarà troppo tardi. C’è forse fretta? Vergogna di dire a parenti e amici che il bimbo è stato bocciato? Ennesima proiezione delle proprie ambizioni (e frustrazioni) sui risultati ottenuti dai figli? Mia figlia ha meno di venti mesi, è ancora piccolina, ma mi pongo già il problema di come mi comporterò io, quando sarò mamma di un’alunna. Da bambina mi era stato insegnato che esistono due fonti di autorità e autorevolezza: genitori e insegnanti (declinate queste due categorie ampliandole anche a nonni, insegnanti di ginnastica e così via). E che vanno entrambe rispettate. Senza esagerare, la mia maestra Elsa per me dettava legge tanto quanto la mia mamma e il mio babbo, proprio perché loro avevano riposto piena fiducia in lei e nei suoi giudizi. Se una delle due fonti dell’autorità scredita l’altra, il bambino non può che confondersi. E imparerà che c’è sempre una soluzione di comodo, più rapida e meno faticosa. Che i genitori hanno ragione e gli insegnanti torto. Scommetto che quelle bocciature verranno revocate, anche a causa del polverone mediatico che è stato sollevato attorno ad esse. Ma non è facendo la guerra agli insegnanti che si aiutano i figli a crescere, anzi. Perché la scuola è palestra di vita. Spesso tra genitori ed insegnanti dei figli si instaura un ottimo clima di fiducia e stima che si riflette in modo positivo sull’educazione e sulla crescita personale e culturale dei nostri ragazzi. Purtroppo, però, accade anche il contrario.

Spesso genitori ed insegnanti si pongono su fronti opposti e chi ne paga le spese sono proprio i ragazzi. Pensiamo a problemi frequenti e molto comuni, come – ad esempio - ai troppi (a detta dei genitori) compiti assegnati ai bambini nel corso delle vacanze estive, o a particolari situazioni familiari o personali di alcuni bambini, che richiederebbero una particolare attenzione e cura da parte degli insegnanti ma non la ricevono. Che i vostri figli siano alle scuole elementari, alle medie o al liceo, la situazione non cambia di molto. Abbiamo raccolto tante opinioni diverse e quel che è emerso è per un verso che, spesso, l’insegnante non è più considerato – come accadeva un tempo - una figura di riferimento nell’ambiente familiare ma è visto solo come una “tappa” nella crescita dei figli. Una figura insomma, che per diverse ragioni è un po’ sminuita. Per un altro verso, spesso, i papà e le mamme, mediamente molto più colti di alcuni anni fa, assumono un istintivo atteggiamento di protezione nei confronti dei loro figli e leggono ogni segnalazione da parte degli insegnanti come una critica all’intelligenza dei loro bambini o peggio, come una critica a loro stessi impedendo ogni dialogo. C’è da dire anche che purtroppo, ogni tanto, gli insegnanti hanno poco tempo a disposizione per dialogare con i genitori e non sono sempre abili comunicatori. Alcune volte, esprimere le cose con maggior tatto potrebbe essere già un punto di partenza. Il risultato finale comunque, e quel che si lamenta da più parti, è che di fatto si è un po’ perso l’obiettivo di fondo che dovrebbe essere comune a genitori e ad insegnanti: l’educazione e la formazione dei ragazzi. Abbiamo parlato di questo delicato argomento con alcune insegnanti che sono anche mamme di figli che frequentano la scuola. Queste mamme-insegnanti ci hanno dato un suggerimento prezioso: un invito alla comunicazione ed all’ascolto reciproco.

Sembra poca cosa, e forse banale, ma non lo è. Insegnanti e genitori dovrebbero assomigliare ad una squadra che collabora per la formazione ed il benessere dei bambini e dei ragazzi, più che a due diverse squadre concorrenti…Voi come la vedete ? Cosa ne pensate?

Parini, troppi insulti dai genitori. E cinque professori se ne vanno. La mediazione del preside Pedretti non ha azzerato la conflittualità all'interno dello storico liceo milanese. I docenti: "Non accettano le nostre critiche ai loro figli, è davvero un incubo", scrive Franco Vanni su “La Repubblica”. Non vogliono più avere a che fare con le mamme degli studenti del Parini e per questo hanno chiesto il trasferimento in altre scuole. Alla fine, dopo una lunga lotta, i professori hanno gettato la spugna. Due professori hanno già presentato la domanda per insegnare altrove da settembre, altri tre valutano se farlo ora, pur fuori tempo massimo. «Questa scuola è un incubo — dice una delle prof transfughe — ci sono madri, non tutte per fortuna, che passano le loro giornate a insegnarci come si fa il nostro mestiere. E se i figli prendono voti bassi ci insultano».

Per difendersi dalle pressioni dei genitori, in una decina di classi i docenti hanno deciso di fare le riunioni dei consigli di classe in “formula chiusa”: non sono ammessi tutti i papà e le mamme, ma solo due loro rappresentanti. Questa mossa, conforme alla legge, ha scaldato ulteriormente gli animi dei genitori più agguerriti nel volere seguire la vita scolastica dei figli. Ed è fallito il tentativo di mediazione del preside Carlo Pedretti, che due mesi fa ha pubblicato sul sito web della scuola questa circolare: «I genitori che per qualsiasi ragione (personale) abbiano motivi di critica nei confronti di un docente — si legge — non devono avere atteggiamenti aggressivi od offensivi». Ma l’invito è caduto nel vuoto. Il Parini, intanto, perde iscritti. Le sezioni dove in almeno una classe si è deciso di chiudere ai genitori le riunioni del consiglio sono la E, la B e la A, dove insegnano alcuni dei professori che ora hanno capitolato. Nella lettera di dimissioni un’insegnante parla di «insulti, accuse e parole pesanti» che le sarebbero state rivolte da alcuni genitori «anche via email». Un altro docente riferisce di «insulti personali e pesantissimi» che gli sarebbero stati fatti dai genitori di uno studente che andava male a scuola. Gli insegnanti lamentano anche il fatto che il preside in realtà non li abbia difesi, anzi. «Mi ha detto che con le famiglie contro non potevo insegnare, mi ha consigliato di chiedere il trasferimento e intanto mettermi in malattia, già che avevo qualche problema di salute», racconta un’insegnante. Un’accusa pesante, che la docente si dice pronta a ripetere «in ogni sede». Identico racconto fa un altro docente: «Mi ha detto di mettermi in malattia». Ai docenti nel mirino arrivano gli attestati di stima di molti genitori e studenti. In particolare di quelli dell’ultimo anno, che temono di trovarsi con nuovi insegnanti alla maturità. Ma i rappresentanti dei genitori sono fermi nel condannare l’atteggiamento dei docenti. Raffaella Castellani, presidente del consiglio d’istituto, dice: «La scelta di non accettare i genitori ai consigli di classe ha messo le famiglie in una condizione di forte disagio. È vero che c’è una minoranza di madri e padri che difende i figli a oltranza, ma questo non può essere un motivo sufficiente a escludere le famiglie dalle riunioni in cui si decide la vita scolastica dei loro figli».

Il conflitto tra professori e genitori. Al Parini Arrivano gli ispettori, scrivono Benedetta Argentieri e Federica Cavadini su “La Repubblica”. Nell'ufficio del preside, al primo piano dello storico liceo di via Goito, ieri è entrato anche un ispettore. Dopo giornate di porte chiuse, colloqui, telefonate, musi lunghi, adesso sul caso della prof «costretta a lasciare da genitori urlanti» è il momento della verità. L'ispettore al Parini lo hanno mandato per questo, per capire «le dimensione del conflitto, le ragioni che lo hanno prodotto e le misure da attuare per ricomporlo». Il linguaggio è quello ufficiale dell'Ufficio scolastico regionale. La missione è impegnativa perché questo pasticcio del Parini pare assai più complicato del precedente. Sette anni fa il liceo finì sui giornali quando una notte di ottobre cinque studenti allagarono la scuola per evitare la prova di greco. Oggi ci ritorna per la denuncia di un'insegnante che scrive a colleghi e studenti: «chiedo il trasferimento mio malgrado, per il disagio, l'ansia e il dolore che questa situazione mi sta creando».

Parla di «genitori che strepitano contro insegnanti ritenuti indegni» la prof sconfitta, che delegittimano gli insegnanti, parla del patto educativo disintegrato. Il preside, Carlo Arrigo Pedretti, in questi giorni ha raccontato ai giornali che lui ci ha provato a mediare, «ma quando manca il buon senso...». A chi? A tutti. Certamente ai genitori dei pariniani, che non più tardi di un mese fa erano stati da lui ammoniti in una circolare. Il preside li aveva invitati a «evitare di insultare e offendere i professori». Ma anche i prof però, ha raccontato, «non devono dileggiare lo studente che sbaglia o che fa una performance mediocre. Non si insultano i ragazzi, bisogna essere cortesi e rispettosi». Il clima doveva essere incandescente allora, e da un pezzo. E le armi del preside spuntate. La sua morale? «Tutti dovrebbero abbassare i toni». Ma i toni restano alti.

Risultato: una prof con trent'anni di carriera fa la valigia perché non ne può più e sostiene che altri colleghi siano pronti a farlo. Restano lo scontro e la riflessione. Restano le ragioni di tutti. Le lettere, private e pubbliche, il dibattito sui forum online. Gli ex studenti che scrivono, gli insegnanti e i genitori che si schierano, con e contro. C'è l'analisi schietta di una prof del Parini: «Ritorsioni da parte dei genitori? Con quali armi? L'unica arma di un genitore è far cambiare scuola al proprio figlio. Se c'è mobbing, non è dei genitori. Ed è più facile che sia sugli alunni». C'è quella di un ex studente, Giacomo Cardaci, autore del libro «Alligatori al Parini» sul mitico allagamento, questa volta è osservatore esterno, ha qualche anno in più, è all'università, si confronta con un papà insegnante alle superiori e conclude: «La democrazia nella scuola non funziona, questa presenza dei genitori all'interno del liceo ha creato distorsioni pazzesche. E quelli del Parini sono genitori particolari, industriali, professionisti, attori». C'è la sintesi di Milly Moratti, ex mamma del liceo e presidente dell'Associazione culturale genitori del Parini: «È un gruppo compatto, che può costituire una fonte di pressione più forte di altre, nessuno lo nega. Ma di professori severi e duri ne sono passati in quel liceo. Senza fare vittime, anzi, hanno sfornato studenti eccellenti». Ci sono immagini del Parini di ieri e di oggi. Una ex studentessa, oggi professoressa universitaria, racconta su Corriere.it di un'insegnante che restituiva i compiti in classe in ordine di voto decrescente, «ogni consegna era accompagnata da un commento sulle nostre capacità o meglio incapacità. Risultato: molti mal di pancia la mattina nella sezione, pianti disperati, sezione dimezzata da un anno all'altro ma tutto quello che conosciamo di latino e greco e anche la nostra "forza" la dobbiamo al triennio con lei». «Non contestavamo i prof nemmeno ai tempi dei punk e del Leonka» scrive un ex pariniano diplomato nell'89 «in classe mia eravamo promossi a giugno solo in tre. Era una scuola dura, ma mai ci saremmo sognati di mandare via un insegnante. Contestavamo, ma fuori dall'aula. I genitori dovrebbero smetterla di interferire». E c'è la voce di chi oggi sarà in classe in via Goito: «È una scuola ottima, checché ne dicano i denti avvelenati». Mentre l'ispettore cercherà la verità e la soluzione del caso.

Lo studente, che si nasconde dietro il nome del pilota Fernando Alonso, chiede aiuto su Internet: «Un prof mi ha ritirato il cellulare e se l'è tenuto, posso denunciarlo?». Risposta pronta di Woody: «Sì. È Furto!!! Potresti registrare una conversazione, lo porti a dire che te lo ridarà quando vuole lui!!! Fallo, avrai il coltello dalla parte del manico!!! Odiosi prof!!!». Benvenuti nel campo di battaglia della scuola italiana. Studenti in guerra contro insegnanti. Come sempre, scrive Riccardo Bruno su “Il Corriere della Sera”. Ma, ed è questa la novità, sempre di più spalleggiati dai genitori. Liceo di Roma: alla professoressa gli studenti fanno sparire gli occhiali, lei perquisisce gli zaini. Quando a casa i ragazzi raccontano tutto, qualche papà invece di sgridare il figlio va dai carabinieri e denuncia l'insegnante per abuso dei mezzi di correzione. Noale, Venezia, scuola media: un ragazzino viene scoperto a imbrattare le aule. La dirigente scolastica lo convoca, la madre non la prende bene. Le si presenta davanti, l'afferra per il collo e la spinge contro il muro. La donna torna a casa, la preside va al pronto soccorso. Imperia, scuola elementare. La bimba, sei anni, graffia e punta la matita contro i compagni. La maestra la fa sedere vicino alla cattedra. I genitori minacciano un esposto alla Procura: così la danneggiano psicologicamente. «Li ho chiamati, ragionando è stata trovata una soluzione. Abbiamo fatto dei gruppi, che a turno girano nella classe». In questo modo Franca Rambaldi, a capo dell'ufficio scolastico provinciale, è riuscita a calmare le acque. «Le famiglie sono troppo ansiose, vanno subito in crisi, si irritano facilmente, alla minima difficoltà partono all'attacco». I genitori non si fidano più degli insegnanti, credono che tocchi a loro sopperire all'educazione inadeguata, alle carenze della scuola. Insomma, si sentono «sindacalisti dei propri figli». «Se non si restituisce dignità alla professione degli insegnanti, se non si rinnova la partecipazione dei genitori e degli studenti, allora la microconflittualità è destinata a crescere», ipotizza amaramente Gianna Fracassi, segretaria della Flc-Cgil. I docenti si sentono sotto assedio. «Non metta per favore il mio nome, non voglio avere problemi...». Chi parla insegna in un liceo psicopedagogico della provincia di Milano. È una prof all'antica. «Lo ammetto, sono un po' rigida. Ma le regole vanno rispettate». Ogni giorno è una trincea. Capitolo primo: «Vedo una studentessa durante la lezione che armeggia con il cellulare. Le chiedo di consegnarmelo. Lei si rifiuta, glielo ritiro. Il papà va dalla preside, dice che gliel'ho strappato, che non era mio diritto...». Capitolo secondo: i compiti in classe. «Vogliono le fotocopie, controllano le correzioni. Cercano di incastrarti, di sindacare il tuo lavoro...». A una collega di Treviso, istituto professionale, è andata peggio. Anche lei preferisce restare anonima. «C'è un ragazzo che insulta i compagni. Io lo rimprovero, ma, mi creda, in modo tranquillo. Il padre si arrabbia, inizia a mandare lettere: mi accusa di essere un cattivo docente, di manipolare gli studenti. Scrive al preside, al provveditore...». Va a finire che viene chiamata a Roma, audizione alla sezione disciplinare del ministero. «Prima di me ascoltavano un pedofilo... Per fortuna i ragazzi hanno testimoniato in mio favore...». Dice che di storie così ce ne sono tante. Racconta che, sempre a Treviso, hanno scoperto degli studenti che per gioco facevano la pipì a terra. Il preside ha ordinato loro di pulire. I genitori hanno minacciato denuncia: violazione delle norme igieniche. I sindacati raccolgono ogni giorno casi e lamentele. «In classe si vive con molto disagio - osserva Massimo Di Menna, della Uil scuola -. Il docente conquista a fatica il riconoscimento della sua funzione. E molti sono spinti a pensare: ma chi me lo fa fare...».

Giacomo Siracusa, insegna a Palermo, scuola primaria. «Una mia collega ha impedito a un bambino di dare fastidio ai compagni. I genitori hanno invece detto che l'aveva picchiato, l'hanno portato al pronto soccorso. Si sono fatti fare il referto. Tutto inventato. Siamo scoraggiati, amareggiati». Il segno di quanto sia serio il conflitto lo danno i dati del 114, il numero dell'Emergenza infanzia gestito dal Telefono azzurro. Tu ti aspetti che chiamino per violenze o episodi gravi. E invece uno su cento telefona per denunciare «difficoltà relazionali con gli insegnanti». Episodi come questo. Una madre di un bambino di 9 anni si sfoga con l'operatrice: «Mio figlio ha problemi di adattamento, ma gli insegnanti invece di aiutarlo lo puniscono ingiustamente...». Il 114 raccoglie la testimonianza, contatta la scuola. La dirigente spiega che «la madre è una persona poco collaborativa, che urla e insulta...». Viene organizzato un incontro, c'è anche il servizio sociale. La situazione migliora: la madre diventa più disponibile, il bambino finalmente si integra. La soluzione in fondo era semplice: bastava guardarsi negli occhi e dialogare.

LA CORPORAZIONE DEGLI OCCUPANTI DELLE SCUOLE.

Stessi slogan di 40 anni fa. Una lettera ad un figlio che occupa, scritta da Antonio Pascale su “Il Corriere della Sera”.

"Mio figlio, IV ginnasio, ha occupato la sua scuola. In quei giorni, il tema delle conversazioni con gli amici era: e i tuoi figli hanno occupato? Certo che sì! Bene, giusto, sono esperienze significative.

A un certo punto, nell'attesa, ho anche pensato di scrivere una lettera aperta a mio figlio e agli altri occupanti: cari ragazzi vi scrivo, del resto, il suddetto genere va di moda. L'antefatto: martedì 20 novembre e per circa una settimana, il liceo classico Manara è stato occupato. Mio figlio, IV ginnasio, ha occupato. Mica da solo. In quei giorni, il tema delle conversazioni con gli amici era: e i tuoi figli hanno occupato? Certo che sì! Bene, ottimo, giusto, e poi sono esperienze significative. Così commentavamo. Ora, buona parte dei miei amici fa il mio stesso lavoro: giornalista, scrittore, sceneggiatore, intellettuale in senso lato. E fin qui tutto bene. Allora, accade che alcuni miei amici vengono chiamati dal collettivo, cioè dai figli. Brivido. Processi alla classe intellettuale? No, in quanto scrittori, sceneggiatori, intellettuali ecc, gli si chiede un intervento, tipo lezioni alternative. Ah, bello, queste sì che sono esperienze significative per uno scrittore ecc. Bene, ho pensato, magari chiamano anche me. E appunto, nell'attesa, mi è venuta l'idea di scrivere la suddetta lettera. Avevo pensato un breve prologo, nel quale segnalavo somiglianze e differenze con le occupazioni degli anni passati. Per esempio, alcune parole d'ordine. Durante un'occupazione nei primi anni 80, al liceo scientifico Diaz di Caserta, per protestare contro il pietoso stato in cui versava la mia scuola, scrissi sui muri: è più criminale fondare una banca che rapinarla. Negli anni successivi, ci fu la Pantera, ossia il movimento studentesco che si opponeva sia alla riforma Ruberti sia protestava contro il solito pietoso stato in cui versava l'istituzione scolastica, e bene, durante un corteo, l'ala dura del movimento mise su, tra gli applausi, uno striscione con su scritto: è più criminale fondare un banca ecc. Durante l'ultima protesta, quella contro la legge Gelmini mi trovai a parlare con degli studenti i quali oltre a farmi notare il chiaro stato pietoso in cui versava la loro scuola, espressero pareri molto chiari contro le multinazionali e poteri forti. L'ala dura del movimento poi mi segnalò un libro che dovevo leggere: «Impero» di Toni Negri e Michael Hardt. Qui, tra parentesi, ebbi un deja vu, perché, appunto, ai miei tempi, al liceo scientifico Diaz, durante l'occupazione, venne in visita un professore, guarda caso, molto amico di Toni Negri che ci parlò del Sim. Non la sim, carta telefonica, ma il Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali. Il deja vu mi confuse allora, e la confusione aumentò quando seppi che Francesco Cossiga aveva partecipato, entusiasta, alla presentazione del libro «Impero», al piccolo Eliseo di Roma. Fin qui le somiglianze. Una differenza c'era però. Quando occupavo mi trovavo a discutere con mio padre che all'epoca detestava Toni Negri e quelli che occupavano. Certe litigate. Non vi dico le querelle con i presidi, che invocavano l'intervento della Digos, della forza pubblica, i servizi segreti. Ora, non solo mio padre non detesta più gli occupanti ecc, ma io non discuto con mio figlio, tutt'altro, gli dico: sono esperienze formative. Anche gli altri padri: e si fanno corsi autogestiti di filosofia, teatro. Cose utili, no? Esperienze formative.

Lo dicono pure i presidi. E qui il dubbio: ma mica stiamo diventando tutti corporativisti. Sic: Stato imperialista delle corporazioni.

Qualunque corporazione si regge anche grazie a slogan forti, così ci si riconosce nel club. E quindi la funzione critica all'interno ha pochi gradi di libertà. Che faccio? Vado a scuola e dico due parole: multinazionali e poteri forti e mi prendo l'applauso della corporazione, oppure cerco di esprimere qualche dubbio? Rischiando i fischi, si sa, a quell'età i ragazzi so' rigidi, e poi davvero lo stato della scuola è pietoso, e allora, se poi mi fischiano, rischio di deludere mio figlio? E davanti agli occupanti. Non è che per quieto vivere, e solo per questa volta, si intende, mi conviene appoggiare la corporazione? Boh? E per fortuna che non mi hanno chiamato, così ci penso un po' su, tanto la prossima occupazione è vicina, e poi, soprattutto, nel frattempo, in questo Paese gli slogan non cambiano.

LA SCUOLA SIAMO NOI.

La scuola siamo noi, dice Corrado Zunino su un articolo pubblicato su “La Repubblica” dal titolo “La mala Università”. Ci sono i baroni, e ci sono i malfattori. Basta uno sguardo di superficie alle cronache locali italiane, alla provincia densa che costituisce il midollo di questo paese, e ci si accorge che gli atenei italiani e i dipartimenti allegati nutrono storie di quotidiana corruzione, di smaccata raccomandazione. A volte interviene la magistratura, altre la censura dei superiori. E' uno dei motivi - le ruberie seriali, il clientelismo spinto - per cui l'università italiana ha perso la sua partita con la controriforma Gelmini, uno dei motivi per cui l'università galleggia spompata nell'età che ne è seguita, quella del risparmio spinto e del ministro Profumo.

L'ultima storia. Concorso a Medicina, Università di Pavia. Papà Daniele Scevola, docente di Medicina, membro del Consiglio di amministrazione dell'ateneo, e la moglie Angela Faga, lei docente di chirurgia plastica, intervengono in contemporanea per far vincere il concorso per un posto da ricercatore di chirurgia plastica alla figlia Angela. Quel lavoro l'avrebbe pagato per i cinque anni a seguire la Humana Forma, onlus appena fondata da mamma Angela. A presiedere il concorso pubblico, infatti, si è precipitata proprio lei, genitrice intraprendente. Due soli i candidati nell'occasione e, quando si accorge del parentame in presidenza, il secondo concorrente non si presenta. Alla fine ha vinto il concorso, per estinzione di avversari, la piccola Angela. A dicembre 2011 l'università ha bloccato tutto: il concorso, ecco, non aveva rispettato il codice etico dell'ateneo. La commissione di garanzia, analizzata la vicenda su indicazione del rettore, la definisce "sorprendente per l'intreccio familiare fra i protagonisti". L'aspetto ritenuto grave è che i docenti Faga e Scevola non avrebbero messo in evidenza nulla durante le sedute degli organi accademici che hanno via via approvato gli atti del concorso. Ecco, se mamma presiedeva l'organizzazione medico ricostruttiva Humana Forma, la figlia era nel direttivo. Per padre e madre un biasimo ufficiale dell'università, un biasimino per un collaboratore complice. Papà Scevola è pronto a bruciarsi una mano sulla sua innocenza: "È un accanimento dell'università contro di me". Ha iniziato a indagare anche la Procura di Pavia. Sempre roba fresca, Facoltà di Architettura della Sapienza: le Iene hanno appena rivelato (e dimostrato con videocamera nascosta) come un docente abbia promesso ad alcuni studenti il superamento di esami fondamentali in cambio di 2.000 euro a testa. Riceveva a studio, spiegava ai peggiori come si calcola un baricentro, indicava le domande che sarebbero state poste in sede di esame e offriva le tariffe: "Mi raccomando, solo contanti". Dicono gli studenti della Link: "La mercificazione degli esami è lo specchio della dequalificazione complessiva della formazione universitaria". Da sottoscrivere. Poi c'è la maxi inchiesta (vecchia di dieci anni) dei concorsi di cardiologia pilotati da una cupola di primari in mezza Italia. È partito tutto da Bari, dal professor Paolo Rizzon. In sede di processo (e questo è recente) c'è stato lo spacchettamento territoriale. Altre quattro città hanno avuto in premio concorsi truccati: quattro a Pisa, cinque a Brescia, uno a Firenze, tre a Palermo. Per la Procura di Bari l'organizzazione nazionale era capeggiata da quattro primari: Paolo Rizzon, il pisano Mario Mariani, il milanese Maurizio Guazzi, il parmense Livio Dei Cas. Agli indagati sono stati contestati, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, corruzione, concussione tentata e compiuta, falso, truffa, tentativo di estorsione e interruzione di pubblico servizio. Sempre a Pisa, si è recentemente dimesso dai suoi incarichi universitari il professor Andrea Genazzani, 70 anni, direttore del dipartimento di Medicina della procreazione e dell'età evolutiva. Le dimissioni del ginecologo, studioso di fama internazionale, hanno seguito il rinvio a giudizio nell'ambito di un'inchiesta sulla gestione del dipartimento e preceduto un provvedimento di licenziamento da parte dell'università. Due indagini - guardia di finanza e Corte dei Conti - si sono occupate della gestione di straordinari e borse di studio, dei consigli del dipartimento e dell'attività privata di alcuni medici, in particolare del direttore Genazzani. I fatti contestati al luminare sono del 2008. Le ipotesi di reato sono: peculato, truffa, evasione fiscale, abuso d'ufficio. Dieci giorni fa, dal Mattino di Padova: "Concorso addomesticato, bufera all'Università di Padova". Quindi: "La guardia di finanza ha sequestrato i documenti della prova di ammissione al concorso di chirurgia plastica". Di nuovo chirurgia plastica, regno dell'abuso. Che è successo? Uno stimato professore di Udine è stato indagato insieme a chi ha ottenuto il posto previsto dal concorso e la finanza di Firenze ha fatto ingresso negli uffici amministrativi dell'ateneo padovano (Palazzo Storione, sì) per sequestrare gli atti prodotti dalla commissione esaminatrice. Qui si parla del professor Pier Camillo Parodi, direttore della scuola di specializzazione di chirurgia plastica di Udine (e membro della commissione esaminatrice). Si parla di Daria Almesberger, 28 anni, da Trieste, neolaureata in Medicina e - secondo l'accusa - alla ricerca di favori di un direttore (uno qualsiasi tra quelli segnalati tra le sedi di Pavia, Milano e Udine) disponibile a garantirle l'ingresso nella propria struttura. "Una persona compiacente", raccontano le cronache, "capace di assicurarle che il posto aggiuntivo, che lei stessa si sarebbe impegnata a creare attraverso il reperimento dei fondi necessari a finanziarlo, sarebbe stato assegnato proprio a lei".

Per finanziare il suo posto di lavoro la ragazza ha chiesto aiuto a papà, che ha prestato per la bisogna la società "Sercotec srl", di cui è amministratore. L'indagine era arrivata da Firenze perché i finanzieri avevano già fermato (sempre per un concorso addomesticato) un altro chirurgo plastico, Mario Dini, direttore dell'azienda ospedaliera di Careggi. Il "prof" Parodi, dopo aver suggerito alla Almesberger la tecnica dell'assunzione con autofinanziamento, l'11 giugno 2011 le ha consegnato in un bar di Udine (c'è un filmato) le diciannove tracce che quattro giorni dopo sarebbero state materia d'esame. La candidata Almesberger avrebbe girato le tracce a un altro candidato e si sarebbe piazzata settima. Da Catania Giambattista Scirè ha segnalato, infine, un concorso per ricercatori di storia contemporanea, a tempo determinato. La commissione esaminatrice l'ha fatto vincere a una candidata senza il titolo - necessario per regolamento - di dottore di ricerca. Scirè, secondo classificato, è andato al Tar. E il Tribunale amministrativo gli ha dato ragione. La commissione, costretta a riconvocarsi, ha confermato il suo giudizio. Come se nulla fosse. Non resta che il Consiglio di Stato. Un'interrogazione alla Camera ha denunciato l'abuso. Il presidente della commissione, Simone Neri Serneri, giovane rampante figlio del professor Neri Serneri, già sovrano di medicina a Siena, conosceva la candidata. Ne ha ospitato i lavori nei libri che lui ha curato.

E l’elenco non finisce qui, anzi è solo il prologo.

“SCUOLA IN CHIARO”: alla ricerca del luogo comune. Inchiesta di Salvo Intravaia su “La Repubblica”.

Scuola pubblica, ma pagano anche le famiglie: fino all'80% delle spese a carico dei genitori.

Gite, corsi, cancelleria e detersivi: ecco per cosa chiedono contributi i licei. Sul sito del ministero dell'Istruzione i dati relativi a tutti gli istituti. Al Sud il contributo privato è minore. Corsi pomeridiani e attività sportive, giornalini d'istituto e recite teatrali, gite e viaggi d'istruzione, corsi di lingua straniera e per conseguire la patente informatica, rivolti a prof e studenti, corsi per ottenere il patentino per i ciclomotori, assicurazione: nei licei classici e scientifici italiani, quasi sempre, pagano mamma e papà. E non solo. L'obolo offerto dalle famiglie alle scuole contribuisce a pagare anche carta igienica, materiale di cancelleria, toner e carta per le fotocopie e perfino i detersivi per mantenere puliti gli ambienti scolastici. Senza quei soldi i licei italiani entrerebbero in crisi. E' una delle prime informazioni che emergono dal link "scuola in chiaro": il portale che renderà più trasparente la scuola italiana, consentendo ai genitori in procinto di iscrivere (entro il prossimo 20 febbraio) i figli all'anno scolastico 2012/2013 una scelta più consapevole. Una iniziativa lanciata lo scorso 12 gennaio 2012 dal ministro dell'Istruzione, Francesco Profumo. Nella maggior parte dei licei classici e scientifici del Belpaese il contributo complessivo, spesso "volontario", versato ad inizio anno dalle famiglie supera abbondantemente quanto le stesse scuole ricevono dallo Stato e dagli enti pubblici e locali. Arrivando, in alcuni casi, a superare anche l'80 per cento dell'intero budget necessario per ampliare l'offerta formativa. Un panorama che non varia molto se si estende l'analisi a tutti gli altri licei: artistici, delle scienze umane, linguistici e musicali/coreutici. Ma che fino ad alcuni anni fa era impensabile.

L'inchiesta condotta da Repubblica abbraccia tutti i licei di 10 grandi città italiane (Torino, Milano, Genova, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari): in tutto, i 223 licei che hanno messo in linea i dati sull'origine dei loro finanziamenti, esclusi gli stipendi di insegnanti e Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari) che vengono pagati direttamente dallo Stato. Alcuni esempi serviranno a chiarire i termini della questione. In cima alla classifica dei 223 licei presi in considerazione troviamo lo scientifico Cannizzaro di Roma che riceve l'82,3 per cento delle proprie entrate "da privati": per la quasi totalità i genitori stessi. Seguono il liceo capitolino i classici Beccaria e Manzoni di Milano, che devono ringraziare la generosità dei genitori, rispettivamente, per l'80,3 e l'80,1 per cento delle proprie risorse. A Torino il liceo pubblico più sostenuto dalle famiglie è lo scientifico Volta, in cui tre quarti del budget annuale proviene "da privati". Scendendo per lo Stivale, la quota di finanziamenti pubblici aumenta e cala il sostegno delle famiglie. A Cagliari i finanziamenti non pubblici che entrano nelle casse dei licei raggiunge mediamente il 26 per cento, con record (69,4 per cento) al classico Dettori. A Napoli, le famiglie finanziano i licei per il 28 per cento del totale. In coda alla classifica c'è Palermo, col 18 per cento di finanziamenti privati nelle casse dei licei pubblici, e Bari: 19 per cento. La città più costosa è Milano, dove 60 euro su cento presenti nelle casse dei licei provengono direttamente dalle tasche delle famiglie. La classifica per indirizzi vede stabilmente in testa i classici. A generare questa singolare situazione, probabilmente, è stato anche il taglio ai finanziamenti destinati all'autonomia scolastica, particolarmente pesante nell'era Gelmini. Nel 2001, per finanziare la legge 440/97 furono stanziati 269 milioni di euro, che dieci anni dopo (nel 2011) si sono assottigliati a 79: meno 71 per cento. Le scuole, per ovviare alla scure gelminiana, si sono rivolte alle famiglie chiedendo loro "contributi" da poche decine a 200 euro.

Docenti, più trasferimenti al Sud smontato luogo comune leghista.

I dati forniti dal ministero smentiscono la tesi dei meridionali "furbetti" che vanno al Nord e poi si fanno rimandare nelle regioni d'origine, uno dei cavalli di battaglia del Carroccio. Lombardia e Veneto sono al di sotto della media nazionale. Insegnanti più stabili al Nord e "ballerini" al Sud. I dati messi a disposizione dal sito del ministero "Scuola in chiaro" - il link lanciato dal ministro dell'Istruzione, Francesco Profumo, per consentire alle famiglie di scegliere con maggiore consapevolezza la scuola dove iscrivere i propri figli - smontano un luogo comune sui docenti meridionali in "missione" al Nord e consegnano agli italiani un'altra verità: della più volte lamentata "toccata e fuga" dei "terroni" nelle scuole dei "po'lentoni" settentrionali non c'è traccia. Eppure, la presunta "furberia" dei meridionali, che si sposterebbero nelle regioni del Nord per "rubare" i posti ai colleghi del luogo e dopo pochi anni rifarebbero le valigie in direzione opposta, lasciando le cattedre vacanti, è stata uno dei leit motiv della politica leghista degli ultimi anni. E se questa migrazione si è in qualche caso verificata, in base ai numeri pubblicati qualche giorno fa da viale Trastevere, è stata del tutto marginale. I dati lo confermano. Scorrendo la tabella costruita da Repubblica.it, con il tasso di mobilità regionale di maestri e professori, si scopre che il corpo docente più stabile è proprio al Nord: meno trasferimenti e, di conseguenza, più continuità didattica. Vale la pena citare qualche dato. In Lombardia e Veneto, roccaforti leghiste, i trasferimenti degli insegnanti di scuola elementare ammontano rispettivamente al 4,2 e 3,1 per cento: sotto la media nazionale che si attesta al 4,3 per cento. I dati in questione si riferiscono a "tutti" i trasferimenti: quelli all'interno del comune e della provincia e la piccola percentuale di trasferimenti interprovinciali, che scattano solo all'ultimo nel complesso sistema della mobilità dei docenti. Una "percentuale della percentuale" che riduce ancora il fenomeno dei docenti che ottengono il via libera per tornare al Sud. Ma, allora, forse il fenomeno esplode nelle medie? Niente affatto. Anche qui nelle due regioni simbolo dell'impegno leghista contro "l'invasione" dello "straniero" meridionale i conti non tornano: 7,2 per cento di trasferimenti in Lombardia e 8,5 in Veneto. Contro una media nazionale che tocca quota 9,0 per cento. In tutte le regioni settentrionali il tasso di mobilità dei docenti per "trasferimento a domanda" è del 5,5 per cento, contro una media nazionale del 6,2 per cento. E', paradossalmente, al Sud che la classe docente è più dinamica: 6,8 per cento. E la presunta fuga degli insegnanti meridionali verso le regioni d'origine? I dati ministeriali sono confermati da uno studio della Fondazione Agnelli, che nell'ottobre 2009 censì il numero dei docenti che ottennero il lasciapassare dal Nord verso una scuola meridionale: 691 in tutto su oltre 69 mila richieste soddisfatte. E per dare l'idea dell'impatto che questo fenomeno può avere sulle scuole settentrionali basta fare due conti. Nelle sei regioni del Nord - escluse Valle d'Aosta e Trentino Alto-Adige - sono presenti 3 mila e 500 istituzioni scolastiche e quasi 16 mila plessi. Le 691 fughe verso le scuole del Mezzogiorno toccherebbero quindi un plesso ogni 23.

PARLIAMO DI LIBRI: I FURBETTI DEI TESTI SCOLASTICI.

Abbiamo confrontato, con l'aiuto di un libraio, volumi di diverse materie: differenze minime ma lo studente deve acquistarli nuovi. L'usato perde spazio. E la spesa sale. L'indagine di Altroconsumo. Sale il costo dei libri. Ormai siamo oltre i 300 euro per una classe delle superiori. E, ogni anno, bisogna comprarne dei nuovi. Ma, provando a fare il confronto, si scopre che le ultime edizioni presentano differenze impercettibili rispetto alle precedenti. Le responsabilità di ministero, scuole e docenti. Da un’inchiesta di “La Repubblica”.

Cambia il titolo, una foto, il prezzo, ma il libro da comprare è lo stesso. Sfogliare le diverse edizioni dei testi scolastici può portare a spiacevoli sorprese: modifiche impercettibili, argomenti uguali, con le medesime parole, spostati di pagina. Ma lo studente è costretto all'acquisto perché il "codice" è diverso. Il budget sale, le leggi vengono aggirate e il mercato dell'usato perde spazio. Le nuove possibilità su internet.

"E quindi uscimmo a riveder le stelle"; che Dante si riferisse ai prezzi "astronomici" dei testi scolastici? L'interpretazione potrebbe spingere qualche editore a pubblicare una nuova edizione dell'opera. Anche quest'anno si conferma l'aumento della spesa per l'acquisto dei libri scuola, l'usato scarseggia e gli studenti si organizzano tra banchetti e compravendite online. La Divina Commedia è sempre più cara e così anche tutti gli altri testi, sia per la scuola secondaria che per la primaria. A settembre si ritorna sui banchi con gli zaini ancora più pesanti e i portafogli più leggeri. Gli aumenti, valutati dalle associazioni dei consumatori, variano tra il tre percento di Adusbef e Federconsumatori e l'otto percento di Codacons. La spesa che una famiglia dovrà affrontare a settembre cambia a seconda dell'indirizzo scelto. Per una prima liceo del classico si spendono 330 euro, per una prima scientifico 315, la cifra per un istituto tecnico è invece di 300. Non va bene ai liceali del primo anno costretti a spendere anche 300 euro per i dizionari. Ma a subire gli aumenti più significativi saranno gli studenti degli istituti tecnici del settore tecnologico (più 9,1 percento) e di quello economico (più 5,7 percento). Il passaggio al secondo anno comporta un incremento di spesa netto: si arriva al 37,5 percento per il settore tecnologico e al 20,6 percento per quello economico.

Altroconsumo punta il dito contro il ministero dell'istruzione, che ha alzato i tetti massimi di spesa a cui le classi devono attenersi per il libri di testo. Tetti che non vengono rispettati almeno nella metà dei casi: lo dice Adiconsum secondo cui lo sforamento raggiunge il 30-40 percento del massimo previsto. E spesso vengono utilizzati stratagemmi per restare all'interno del budget: "Quattro ragazzi sono tornati indietro per acquistare altri libri - racconta Alessandro D'Alessandro di Voltapagina - che dalla lista risultavano come "consigliati" ma in realtà hanno scoperto essere necessari per il programma di quest'anno". E' il caso di una quinta liceo di un artistico genovese; sommando i prezzi dei libri segnalati in lista come "da acquistare" con quelli "consigliati" si supera di gran lunga il tetto spesa, ma calcolando la cifra dei soli "da acquistare" si rimane nei termini previsti dalla legge. Anzi, si resta al di sotto: di 49,10 euro, per la precisione. Ma, poi, bisogna andare a verificare se e come i libri "consigliati" diventano praticamente "obbligatori" perché, alla prova dei fatti, l'insegnante, magari, li richiede.

Ma non è l'unica sorpresa dietro l'angolo per le famiglie. Il mercato dell'usato è sempre più strizzato perché si susseguono nuove edizioni. La circolare del Ministero, in materia di adozioni per l'anno scolastico 2011 - 2012, parla chiaro. Per la scuola media e superiore si richiamano i vincoli stabiliti il 4 marzo scorso dal comma 23: edizioni bloccate rispettivamente per cinque e sei anni. Ma accade che cambi l'editore e con un testo identico ci si ritrovi un codice a barre diverso. "Immagini della biologia" di Campbell, già seconda edizione, volume C, edito da Zanichelli nel 2010, diventa "Il nuovo Immagini della biologia", Il corpo umano, sempre di Campbell ma Libro misto (cioè con contenuti multimediali come previsto dalla riforma Gelmini) ed edito da Linx. Stesso prezzo, ma cambio di edizione. Stando ai contenuti pare che la scienza non abbia fatto scoperte sconcertanti in materia di gechi; l'edizione Zanichelli, a pagina 338 dice: "Un anatomista prenderebbe in esame la struttura dei muscoli e delle ossa delle zampe di un geco, o la forma e il numero delle setole delle dita". L'edizione Linx, a pagina 340: "Un anatomista, per esempio, si interesserà della disposizione dei muscoli e delle ossa nelle zampe di un geco oppure della forma e del numero delle setole cutanee che gli permettono di arrampicarsi sui muri".

Ancora un esempio: la materia, italiano in questo caso, ma nuovo titolo. Nell'edizione unica del 2005 ancora in catalogo era "L'esperienza del testo" di Beatrice Panebianco e Antonella Varani volume "La narrazione", per Zanichelli al costo di 20,70. Dal 2009 è "Metodi e fantasia", La Narrativa di Beatrice Panebianco e Antonella Varani, sempre per Zanichelli ma libro misto, costa meno (19,70 euro) ma se è una nuova adozione sono altri venti euro da aggiungere per un testo che aperto a caso e a confronto con quello precedente (che quindi si potrebbe acquistare a metà prezzo usato) non salta all'occhio certo per le novità. Anzi. Si prenda l'analisi del racconto. Prima era, (pagina 47): "Caratterizzazione del personaggio. Tipi e individui. A seconda della complessità psicologica distinguiamo fra tipi e individui. Il personaggio tipo o piatto è statico, cioè non si evolve nel corso della storia, ha tratti psicologici costanti e una fisionomia rigida che ne mettono in risalto un difetto (avarizia, viltà) o una qualità (generosità, mitezza) e ne fanno il simbolo di una condizione umana". Pochi anni dopo (pagina 68) le modifiche sono impercettibili: "L'identità. Tipi e individui. A seconda della complessità psicologica distinguiamo fra tipi e individui. Il personaggio tipo (o piatto) è statico, cioè non si evolve nel corso della storia, ha tratti psicologici costanti e una fisionomia rigida che ne mettono in risalto un difetto (avarizia, viltà)... o una qualità (generosità, mitezza...) e ne fanno il simbolo di una condizione umana". Cambia la scelta dei testi e l'ordine in cui vengono presentati gli argomenti ma la forma dei contenuti rimane la stessa. A volte non cambia neanche la copertina. "L'esperienza del testo" di Panebianco e Varani, edito da Zanichelli, volume poesia e teatro, prezzo 17,20 dal 2005 in corso la copertina presenta una foto a riquadro. In "L'esperienza del testo poesia e teatro" di Panebianco e Varani, edito Zanichelli con percorso, 2011, prezzo 17,20. Stessa copertina ma la foto è estesa e ben in evidenza il logo del "Libro Misto". La vita di Umberto Saba? Quella è. Ma in quanti modi si potrebbe raccontare? Per Zanichelli uno e uno soltanto. Prima e dopo: "La vita. La famiglia. Umberto Saba (pseudonimo di Umberto Poli) nacque a Trieste nel 1833 da madre di origine ebraica (si chiamava Felicita Rachele Coen). Con scheda a fine pagina (115 per l'edizione 2005, 185 per quella mista) intitolata Il "complesso di Edipo".

Il libro, dunque, è lo stesso ma c'è "l'aggiuntina" del nuovo codice. E allora per risparmiare si va in rete. Il primo settembre scorso l'arrivo di Amazon nel mercato dell'usato ha messo tutti in competizione. Sul web è boom di siti che permettono di comprare e vendere i testi usati. Si risparmia così dal 50 al 70 percento della spesa prevista. Il vantaggio è che questi marketplace non trattengono percentuali e la consegna avviene in due giorni lavorativi. Il rischio è che con il corriere arrivino dei testi non proprio intonsi e allora il risparmio è bello che andato. Ebay e Amazon costano un po' di più e consentono la verifica del venditore, Comprovendolibro rilascia i contatti del venditore il quale decide le modalità di consegna.

In alternativa c'è Studenti.it dove è possibile scoprire il mercatino dell'usato più vicino a casa e risparmiare il cinquanta per cento o ancora la catena della grande distribuzione, dove per legge (Levi) lo sconto sul nuovo non dovrebbe superare il 15 percento, ma dove è anche possibile prenotate online la lista e ritirarla nel punto vendita. Da Leclerc ad esempio lo sconto arriva fino al 30 percento: il 15 è sul prezzo di copertina e il resto in buoni spesa, ma a Confcommercio non va giù. La politica degli sconti ha una logica perversa - dice il sindacato unito dei librai - perché il grande distributore fa lo sconto al cliente richiedendo grossi sconti all'editore che per difendersi alza il prezzo di copertina: evitare lo sconto selvaggio comporterebbe un calo dei costi a vantaggio di tutti".

Parla l'amministratore delegato della Sei che produce da anni il capolavoro dantesco: "Per legge non possiamo fare una nuova opera per 5 anni. Il colore è importante per i giovani d'oggi". E si punta sull'integrazione multimediale. "Non è vero che cambia soltanto un avverbio, la nuova edizione è a quattro colori", spiega Ulisse Iacomuzzi, amministratore delegato di Sei (Società editrice internazionale). "Per legge non possiamo fare una nuova opera per cinque anni e questa normativa lascia aperti dei problemi soprattutto per le materie scientifiche". L'attività di editori scolastici di Sei è tradizione in Italia. Generazioni dopo generazioni hanno studiato sulla Divina Commedia della casa torinese. "Dal 2010 offriamo in alternativa al testo integrale, un'antologia con allegato un dvd dove c'è tutta la Commedia". Quanto alla scelta della nuova edizione policromatica: "I ragazzi fanno sempre più fatica a muoversi sui testi; è molto difficile proporre un mondo in bianco e nero quando loro vivono a colori". Le nuove edizioni, stando alla casa editrice, sono sempre motivate dall'offerta didattica: "Siamo stati i primi a offrire la parafrasi della Commedia e anche l'ultima versione non è stata un'operazione decorativa uscire con i quattro colori e lo dimostra la soddisfazione dei docenti".

La riforma Gelmini ha avuto ripercussione economiche anche sugli editori: "Forniamo sempre e comunque libri misti o su rete tramite un dvd con conseguenze economiche rilevanti per noi; le novità comportano sempre una spesa". Il testo ormai va pensato con l'integrazione multimediale, entro il prossimo anno tutti i libri dovranno essere misti: "Siamo ancora nella terra di nessuno; su carta il testo rimarrà ancora per molto tempo certo è che i contenuti andranno tarati. Circa l'apprendimento il libro è un mondo chiuso che continua a dialogare, su Internet il ragazzo è sparato nell'universo e distratto da mille applicazioni". La linea di Sei è chiara: "La nostra posizione è questa, il libro è autosufficiente; vuoi di più? Ti diamo delle integrazioni". Quanto alle spese: "Spalmare la spesa in otto mesi farebbe meno impressione ma non dimentichiamoci che la cultura è un investimento".

Tetti di spesa per frenare i prezzi. Una scuola su due non li rispetta. Il ministero dell'Istruzione nel 2008 stabilì un limite massimo per i testi scolastici. Secondo Altroconsumo, però, c'è stato un aumento, che va da un minimo dell'1,4% di una prima classe di scuole medie, a un picco massimo del +37% di un secondo anno di un qualsiasi istituto tecnico con indirizzo tecnologico. Trecento euro per una prima classe di un istituto tecnico, 305 per la quinta di un liceo scientifico, 376 euro per comprare tutti i libri di una terza classe di liceo classico. La cultura costa e il mercato dei libri scolastici non conosce crisi, ma la crisi la conoscono bene quelle famiglie che hanno uno o più figli in età scolastica a cui devono garantire un'istruzione e arrivare a spendere per ogni figlio fino a 500 euro e oltre tra libri di testo, cancelleria e dizionari vari, può diventare una vera difficoltà. Eppure una soluzione, tempo fa, si era cercato di trovarla: nel 2008 è stato finalmente fissato un nuovo tetto di spesa per i libri di testo, che riguardava anche le scuole superiori. Una sorta di calmiere dei prezzi, che tutte le scuole italiane avrebbero dovuto rispettare. Gli insegnanti, nel preparare la lista dei libri da adottare durante l'anno scolastico, non possono superare una certa cifra stabilita in base a uno studio condotto da tecnici ed esperti del Ministero dell'Istruzione del governo Prodi, i quali, analizzando tutti i testi in commercio, per ogni singola materia di studio, fissarono appunto un limite massimo di spesa per l'intero anno scolastico. Nonostante ciò, ogni anno, la spesa non ha smesso di crescere. Secondo un'indagine di Altroconsumo, curata dalla ricercatrice Lucia Canzi, tra lo scorso anno scolastico e quello che sta per iniziare, in tutti gli indirizzi di studio di ogni ordine e grado, c'è stato un aumento, che va da un minimo dell'1,4% di una prima classe di scuole medie, a un picco massimo del +37% di un secondo anno di un qualsiasi istituto tecnico con indirizzo tecnologico, dove, per riempire lo zaino di uno studente, nel 2010 bastavano 160 euro, mentre oggi ne servono 220.

I motivi di questi rincari sono più di uno e sono imputabili a soggetti diversi: lo scorso 10 maggio, in linea con le direttive della riforma scolastica che ha introdotto nuovi indirizzi di studio e ne ha modificati altri, il ministero dell'Istruzione, con il decreto n° 43 ha alzato l'asticella del cosiddetto tetto massimo di spesa consentendo, appunto, al corpo docenti di sforare il limite in vigore dal 2008. Il ministro dell'istruzione Mariastella Gelmini mette le mani avanti e tuona: "Avvieremo subito un monitoraggio e siamo pronti a mandare gli ispettori in quelle scuole che superino pesantemente i tetti di spesa. È concesso uno sforamento massimo del 10%, ma solo per ragioni motivate. Siamo pronti a togliere i fondi del ministero a quegli istituti che supereranno tale limite". Infatti le colpe sono anche imputabili al corpo docente, che, nel comporre l'indice dei testi di studio, molto spesso e con troppa disinvoltura, supera i tetti massimi di spesa, ben oltre quel 10% consentito. Secondo Altroconsumo (indagine a campione su tutto il territorio nazionale nell'anno scolastico 2010/11), il 50% delle scuole interrogate non ha rispettato i tetti di spesa. A questo c'è da aggiungere che, mediamente, i docenti appaiono impreparati sul fronte della tecnologia digitale. Si continua a non utilizzare i testi elettronici e, come sottolinea Lucia Canzi "questa è una grande opportunità di risparmio mancata, perché, solo per citare i testi di narrativa, tutte le opere dei grandi autori del passato che non sono più coperte da copyright, sono oggi disponibili online, con un risparmio elevatissimo sulla spesa complessiva".

Altro punto dolente sono le cosiddette "nuove edizioni" stampate incessantemente dalle case editrici che costringono gli studenti a cambiare testi comprandoli nuovi, non potendo così rivolgersi al mercato dell'usato. Molto spesso quelle che vengono spacciate come nuove edizioni, sono in realtà gli stessi testi dell'anno prima, rivisitati graficamente e magari aggiornati in appendice da integrazioni minime. Anche qui, come ci conferma la dottoressa Canzi, "l'editoria digitale potrebbe cancellare le spese inutili dovute agli aggiornamenti dei testi. Questi sarebbero scaricabili online con una spesa minima e andrebbero così ad integrare i testi già in possesso, senza il bisogno di acquistarli nuovamente per intero. Il consiglio che noi di Altroconsumo diamo alle famiglie è di rivolgersi il più possibile al mercato dell'usato e di utilizzare i nuovi canali di vendita della grande distribuzione, come gli ipermercati che ormai da qualche hanno si sono dotati di veri e propri reparti scolastica, che adottano sconti anche oltre il 15%". C'è quindi chi aspetta con un filo di speranza e un bel po' di dubbi il 2012, anno in cui sarà possibile, da parte dei docenti, sostituire in tutto o in parte i libri di testo cartacei con gli equivalenti elettronici, come stabilito dalla legge 133 del 2008 per la transizione al libro digitale. Si stima che i costi si ridurranno anche più del 30% e insieme ad essi anche il peso sulle spalle dei giovani studenti. Le premesse sono buone, ma saremo veramente preparati al salto digitale?

Parla una docente delle medie di Cogoleto (Genova) e sottolinea le contraddizioni di un sistema che lascia tanta libertà agli editori ma impedisce di sostituire un libro che non va bene": "I programmi per la lavagna multimediale? Sono dei vecchi testi risistemati. Il problema alle medie sono gli eserciziari: se i compiti sono già fatti ci vogliono i libri nuovi per non far copiare i ragazzi". Alberta Besio, 58 anni, professoressa alle medie di Cogoleto (comune a ponente di Genova) vede una serie di ostacoli nell'attuale politica dei testi scolastici: "Cerchiamo di accorpare gli insegnamenti; proponiamo lo stesso libro per la stessa materia in tutte le classi". Il rovescio della riforma scolastica? Quando sarebbe davvero necessario cambiare edizione non si può: "Il libro di geografia deve rimanere per tre anni ed è un testo difficilissimo; non è raro trovare testi complicati e inutili, ma quelli non si possono cambiare". Siamo già troppo avanti sulle innovazioni tecnologiche ma troppo indietro per quanto riguarda la formazione dei docenti e la presenza di laboratori: "C'è stata una grande spinta verso l'adozione di libri con supporti per la lavagna multimediale ma in tutta la scuola se ne trova una soltanto e con le materie umanistiche funziona davvero poco". Da quando sono previste le prove di fine anno tra i libri da comprare c'è anche l'eserciziario per l'esame Invalsi: "Siamo anche condizionati dai test, l'autonomia per noi e per i ragazzi rimane poca; non si adottano libri adeguati per formare una biblioteca e non avere dei testi uguali per tutti. Il risultato? Non siamo più liberi nell'insegnamento". Anche gli studenti non sanno neppure quali sono i loro diritti: "Abbiamo scoperto quasi per caso che per gli esami di giugno i ragazzi dislessici potevano avere un quarto d'ora in più per la lettura tramite mp3". Cambiano i supporti e le edizioni ma la passione resta quella autentica: "Commentarono il mio tema di ammissione all'insegnamento scrivendo che era un inno alla scuola. Oggi non la riconosco più ma mi diverto nonostante i libri di testo perché l'importante per me sono i ragazzi".

La critica dell'insegnante delle primarie di Arenzano (Genova) riguarda il merito dei testi: complicati nel linguaggio, male illustrati: «Non aiutano il docente... Come molte decisioni del ministero...». La maestra Beatrice De Bernardi insegna nella scuola Primaria, all'istituto comprensivo di Arenzano (comune costiero a ponente di Genova) e nell'ultimo decennio ha assistito ai cambiamenti più radicali: «La riduzione drastica del tempo scuola a 24 ore settimanali, l'istituzione del docente unico, l'aumento del numero degli alunni per classe, la delegittimazione dell'integrazione scolastica». Allo stato attuale il docente sopravvive, e nel quotidiano fa anche i conti con i libri di testo: «L'editoria scolastica sembra essersi allineata per tempo con il ministero della pubblica istruzione, sfornando ogni anno le novità introdotte dalla solerzia legislativa», dice De Bernardi. Ma lo strumento per eccellenza del docente non sembra più giovare al percorso formativo: «I libri di testo per la scuola primaria difettano per qualità e quantità. Se da una parte offrono i saperi mascherati dalla dicitura dei linguaggi, di fatto appaiono frammentari nei contenuti». Così finisce che l'apprendimento risulta ostacolato dalla complessità della forma: «Per cui l'alunno dovrebbe apprendere la lingua madre parlata e scritta attraverso una decriptazione del linguaggio usato nel testo». I libri per la scuola primaria non brillano neanche per l'efficacia delle immagini: «Offrono al piccolo lettore illustrazioni scadenti, testi linguisticamente insignificanti, proposte operative superficiali e percorsi di apprendimento preconfezionati nel modo, nella forma e nel contenuto». Il risultato è l'impossibilità da parte del docente di programmare percorsi educativi e didattici e, per quanto riguarda gli studenti, di recepire, interiorizzare e applicare i contenuti. Anche sulla quantità gli insegnanti hanno qualcosa da dire: «Sono troppi, anche 7 testi a partire dalla scuola primaria, a cui vanno aggiunti i testi di religione, lingua straniera e prove Invalsi... E lo zaino pesante dove lo mettiamo?».

Parla il titolare di "Books&C". I docenti cercano testi complessi: contenuti extra, percorsi... Spesso le traduzioni fanno gonfiare i prezzi. “Abbiamo rilevato un aumento del 2 percento ma il tetto di spesa non è stato toccato. Le liste arrivano per tempo, come prevede la norma a fine giugno. Il vero problema è l'utilizzo; si vendono tante pagine ma quante se ne usano davvero?” A parlare è Tullio Saracco di Books & C Srl, azienda che in Liguria si occupa della distribuzione dei libri scolastici dal 1950. Esperienza e termometro della situazione: “L'insegnante di oggi dentro il libro vuole trovare tutto, di libri snelli ce ne sono ben pochi; si premia la quantità: contenuti extra, schede, percorsi...”. Di libri da Books in un anno, per lo più concentrati tra giugno e ottobre, ne vedono passare quasi 700mila: “Tra le case editrici c'è chi si comporta molto bene, non cambiando codici da oltre vent'anni, e chi invece obbliga a cambiare edizione”. Il libro online? “Per adesso a Genova ci sono soltanto due istituti tecnici che usano esclusivamente contenuti digitali e hanno mandato in pensione il libro di testo; sono anche attrezzati con postazioni multimediali ma per il resto la linea guida è ancora da stabilire”. E spulciando tra gli scaffali, divisi per case editrici, saltano all'occhio dei libri più cari con uno stile all'insegna dell'internalizzazione che fa gonfiare il prezzo: traduzioni da autori americani, ad esempio, che costringono a cambiar codice.

Rappresentante di una scuola superiore di Foggia, la mamma di Sara lancia una semplice proposta: la scuola compra i libri e li dà in prestito agli alunni. L'anno successivo passano alla nuova classe. Così per un intero ciclo. All'estero (Stati Uniti) funziona da decenni. "Organizzare una biblioteca interna. La scuola dovrebbe acquistare i libri da un'agenzia e metterli a disposizione degli studenti per la durata del corso di studi. Cinque anni, nessuna nuova adozione, come da legge". E' la proposta di una rappresentante di classe di un istituto di Foggia e mamma di Sara, che frequenta un liceo classico. Proposta più volte formulata e mai attuata nella scuola italiana, che funziona da decenni, per esempio, negli Stati Uniti e in altri Paesi: lo studente riceve il testo e deve tenerlo bene il che è anche educativo. L'anno dopo, lo stesso volume verrà utilizzato da uno studente della classe successiva. Con un solo "giro" di libri si completa un ciclo di cinque classi. Qualche tomo più rovinato viene sostituito, ma la percentuale è bassa e la spesa contenuta. Sua figlia entra in quarta e, nonostante l'anno scorso con l'avvio del triennio siano cambiati tutti i libri, quest'anno ne ha dovuto comprare 18. Metà li ha trovati usati ma per il resto a prezzo di copertina. Quaranta euro il libro di greco, quarantadue quello di fisica e altrettanti per biologia. L'idea della banca scolastica? "Non piace a tutti però: da noi il classico è ancora inteso come una scuola di casta, al di sopra di tutto. E' vero offre un'ottima formazione ma non sono tutti figli di papà in classe. E per chi ha difficoltà economiche superare la vergogna di prendere un libro in prestito non è facile. Diventa un problema sociale. Ci sono professori che vietano il libro usato, figuriamoci quello in comune". La lista di Sara presenta un preventivo di 305 euro per una spesa effettiva di 295. "Comprando metà dei testi usati al sessanta per cento e l'altra metà nuovi abbiamo sborsato 280 euro - continua "madre coraggio" - un tentativo dai banchetti degli studenti lo abbiamo fatto, ma le condizioni del libro spesso non erano buone". L'indirizzo scelto da Sara è quello multimediale ma l'unico libro che funziona sulla lavagna elettronica, per ora, è quello di storia dell'arte. Eppure in questo liceo c'è anche un efficiente laboratorio informatico fornito di 24 postazioni. I libri consigliati? "Alla fine sei costretto a comprarli; perché andarli a cercare a metà anno è un ulteriore disagio. La libreria non ce l'ha più, bisogna fare l'ordine e aspettarlo. Così, ad esempio, anche se in casa ne abbiamo tre, abbiamo comprato un Purgatorio nuovo per un costo di 21 euro. La nostra spesa non comprende invece la nuova adozione prevista per religione e il libro di educazione fisica, perché quelli dell'anno scorso sono ancora sullo scrittoio incartati". La scelta del preside non si discute: "I professori di mia figlia sono bravissimi non mi sento di andare contro le loro scelte didattiche, quanto al dirigente scolastico se dice una cosa quella è; fatto sta che chi ha comprato tutti i libri della lista quest'anno ha speso 360 euro di botto. Di sicuro alla prossima riunione proporrò la biblioteca interna". 

PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.

Scrittopoli e premiopoli.

Inchiesta di Stefania Parmeggiani su "La Repubblica".

Ogni anno in Italia si celebrano circa milleottocento concorsi letterari. Li alimentano circa quattro milioni di aspiranti romanzieri, poeti, saggisti. Ma dietro gli Strega, i Campiello, I Bagutta, e dietro il centinaio di piccoli premi promossi da enti locali e associazioni culturali, prospera una selva di gare improbabili e costose per i concorrenti. Cinque premi al giorno

per un affare da 10 milioni di euro. Spuntano come funghi da Nord a Sud. Ogni anno nascono 90 concorsi letterari, tanto che oggi se ne contano almeno 1800. Ecco le cifre dei concorsi in grado di di spostare milioni di euro.

I PREMI

1800 premi letterari ogni anno

5 al giorno

90 nuovi ogni anno

500 quelli dedicati alla poesia

100 quelli giudicati interessati da una indagine dell'Istituto per il libro.

IL BUSINNESS

1 milione di euro, il giro di affari delle spese di segreteria e delle tasse d'iscrizione tra 5 e 50 euro la quota richiesta a ogni partecipante

10 milioni di euro, i contributi pubblici

DATI EDITORIA E LETTORI

3,4 miliardi di euro, il fatturato complessivo delle oltre settemila case editrici italiane

25 milioni, i lettori di almeno un libro in un anno in Italia

60 mila i titoli che ogni anno vengono pubblicati in Italia.

L'Italia è il Paese che ha più premi letterari. Una stima affidabile parla di milleottocento concorsi. Ma se quelli celebri si contano sulle dita delle mani, e se quelli "piccoli ma dignitosi" sono un centinaio, gli altri prosperano sull'esercito di aspiranti scrittori disposti a finanziarli con spese di segreteria, tasse di lettura, autopubblicazioni.

Ecco come. Oggi è una giornata importante per l’editoria italiana: si assegnano cinque premi letterari. Uno per la poesia e un altro per i racconti brevi. Poi c’è quello per i romanzi inediti, quello per i saggi, e il prestigioso Viareggio, ottantadue anni sulle spalle e un futuro minato dalle polemiche. Anche domani è una giornata importante: in cartellone ci sono altri cinque premi, tra cui il Capalbio. E così dopodomani e dopodomani ancora. Perché ogni anno in Italia si svolgono ben 1800 concorsi letterari, un numero arrotondato per difetto che sembrerebbe rendere giustizia a un popolo di poeti, scrittori e romanzieri. Eppure, ascoltando chi ha passato anni a inviare opere a misteriose giurie, si scopre una realtà diversa, tutt’altro che limpida. Lontano dai riflettori dei premi che contano, dallo Strega al Campiello, dal Bagutta al Calvino, lontano dai concorsi poco qualificati, ma tutto sommato innocui, emerge una girandola di gare improbabili, sfornate in serie da professionisti e minuscole case editrici, un mondo dove i sogni di carta si pagano a caro prezzo e dove, tra tasse d’iscrizione, spese di segreteria e contributi pubblici, il giro d’affari supera i dieci milioni di euro.

Chi sono i protagonisti di questa premiopoli tutta italiana? Qual è il vantaggio per gli scrittori e quale quello per gli organizzatori? Perché gli esordienti, riuniti in gruppi di guerriglia editoriale, puntano il dito contro il mercato? E perché a volte, a dispetto della logica, si collezionano riconoscimenti che sono carta straccia?

L’industria dei premi letterari. L’Italia è il paese al mondo con più premi letterari. Lo era già nel ‘99 quando Giuliano Vigini, esperto del mercato del libro, decise di farli censire. "Ne catalogammo 1200, scoprendo che crescevano al ritmo di una novantina l’anno. Anche tenendo conto di quelli che muoiono nel giro di poche edizioni oggi saranno 1800, forse duemila". Nella lista troviamo concorsi illustri come lo Strega, vinto 24 volte dalla Mondadori, 12 dalla Rizzoli e 11 dall’Einaudi. Prestigiosi come il Campiello, il Bancarella, il Bagutta e il Viareggio, che dopo avere attraversato il Novecento con alterne fortune e avere incassato il rifiuto di Moravia nel ’50 e quello di Calvino nel ’68 ("Non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato"), rischia lo sdoppiamento per una lite tra gli storici organizzatori e il Comune. Fino a qualche anno fa c’era anche il Grinzane, oggi rinato grazie alla fondazione Bottari Lattes, ma al tempo trascinato nella polvere dal suo fondatore, il professore universitario Giuliano Soria. Sotto processo, è accusato di avere trasferito denaro dalle casse del premio alle sue personali, distraendo fondi per oltre un milione e mezzo di euro e di avere trasformato uno degli appuntamenti letterari più attesi dell’anno in una mangiatoia a beneficio di molti, lui in testa. "Poi ci sono concorsi nati per emulazione — continua Vigini — e i premi organizzati per animare la vita culturale di una provincia, per ricordare un autore del posto o per invitare alla lettura". Ognuno ha una propria dignità e una ragione di esistere, ma anche sommandoli tutti non arriviamo a quota 1800. L’Istituto per il libro, in una indagine promossa qualche anno fa, ne selezionava un centinaio come prestigiosi e interessanti. E gli altri 1700? L'industria letteraria fattura quasi tre miliardi e mezzo di euro l'anno, le case editrici sono più di settemila. Aspiranti scrittori e poeti bussano a queste porte inutilmente, poi cercano la scorciatoia dei premi a pagamento.

Mimetizzato nel sottobosco dei micro premi si nasconde il mondo dello "scrivi, paga e vinci" in cui si aggirano ogni anno gli aspiranti scrittori, i protagonisti di quella che Umberto Eco quarant’anni fa chiamava "la quarta dimensione". Professionisti in cerca di un riscatto, giovani con ambizioni letterarie, insospettabili vicini di casa disposti a pagare pur di pubblicare libri destinati all’invisibilità. Sono un esercito sommerso che fa a pugni con i dati sulla lettura: solo il 46,8% della popolazione sopra i sei anni nel 2010 ha letto un libro. Nonostante la percentuale sia in leggera crescita, appena il 15,1% si può definire un lettore abituale con un romanzo al mese sul comodino. Non sembra molto diffuso l’amore per la letteratura, eppure chi scrive non conosce crisi. In prima linea i poeti (circa 500 i concorsi a loro dedicati), subito dopo gli autori per ragazzi, poi i romanzieri e i saggisti. Si aggirano nervosi ai margini di una industria che fattura quasi tre miliardi e mezzo di euro l’anno. Bussano alle porte delle oltre settemila case editrici con un unico chiodo fisso: come mostrare al mondo di avere talento. Da qui ai concorsi letterari il passo è breve e alla portata di tutti, bastano pochi euro. Paola Campanile, poetessa il cui talento è stato riconosciuto dopo lunghi anni di gavetta da un intellettuale come Antonio Porta e da un editore come Marsilio, ha vissuto nel sottobosco dei premi letterari per circa un decennio. Scriveva, pagava le spese di segreteria o la tassa di lettura, vinceva. E ricominciava da capo: "Ho accumulato un baule di pergamene, targhe, medaglie, statuine. Che piacere è stato buttare tutto, liberarmi di quell’inutile testimonianza". Inutile ed esasperante visto che dopo le sue prime partecipazioni, ha iniziato a essere contattata per concorsi di cui ignorava l’esistenza. "Ho avuto l’impressione che esistesse una specie di indirizzario, che alcuni organizzatori si scambiassero i nomi dei partecipanti".

La tassa di iscrizione. Se i nominativi degli esordienti valgono tanto da essere schedati in un computer, qual è il guadagno? Miriam Bendìa, autrice di un libro che qualche anno fa fece clamore — "Editori a perdere" (Stampa Alternativa) — individua due livelli: "Il primo è quello rappresentato dalle tasse di lettura o dalle spese di segreteria. Le cifre richieste non sono altissime, variano da 5 a 50 euro e l’incasso dipende dal numero di concorrenti". Spulciando i siti specializzati nella promozione dei concorsi si nota come più del 70% dei micro premi preveda un contributo economico. Calcolando una media di 10 euro e ipotizzando 100 partecipanti a concorso (ma non mancano le eccezioni con migliaia di iscritti) si può stimare un volume di affari superiore al milione di euro. Cifra ragguardevole, ma insufficiente a descrivere il vero businness. "Che è legato all’editoria a pagamento. Chi partecipa a un concorso - continua Bendìa - spesso riceve una lettera, in cui gli si comunica che la sua opera, pur non essendo stata premiata, merita di essere pubblicata, ovviamente a pagamento". Tra le testimonianze raccolte nel forum di “Libri Puliti”, campagna lanciata da Stampa Alternativa dopo la pubblicazione di "Editori a perdere", diverse segnalazioni hanno acceso i riflettori sul premio “L’autore”, indetto da Firenze libri. Alcuni dei contratti proposti ai partecipanti prevedevano un contributo per gli autori fino a cinquemila euro. Qualcosa di simile succede con il principale editore a pagamento d’Italia, Albatros-Il filo, anche se in questo caso non si parla di concorso, ma di selezione. Tutto legale, ovviamente. E, infatti, sul loro sito Internet scrivono: "I contratti da noi proposti possono prevedere sia un anticipo sui diritti a vantaggio dell’autore, sia l’obbligo di acquisto di un quantitativo minimo di copie da parte dell’autore". Gli aspiranti scrittori riuniti nel sito "Writer’s Dream" hanno fatto la prova del nove: un fritto misto di cento pagine, un copia e incolla volutamente sconclusionato di Wikipedia, blog, articoli di giornale... Risultato? Una lettera in cui li si elogiava per l’interessante opera e si proponeva loro la pubblicazione, a pagamento ovviamente. I sognatori si sono presi una rivincita: nel 2010 al salone del libro di Torino hanno sventolato contratto e manoscritto sotto il naso della direttrice editoriale. Immancabilmente il tutto è finito su You Tube. E non era neanche la prima volta, visto che un esperimento simile era stato già raccontato dalla giornalista Silvia Ognibene nel suo "Esordienti da spennare" (Terre di Mezzo), libro-inchiesta sull’editoria corsara.

Vanity press e vanity prize. Il motore di questo mercato sommerso è l'ambizione degli autori di veder pubblicato il proprio nome su una rivista o sulla copertina di un libro. I più avvertiti si sono organizzati e frequentano siti di auto-difesa come "Il rifugio degli esordienti". Moltissimi i concorsi patrocinati da comuni, province e regioni, organizzati dalle pro loco come il premio della montagna Valle Spluga in Lombardia, o da istituti religiosi come nel caso del premio Madonna dell’Arco organizzato da una parrocchia di Castellamare di Stabia. Ci sono poi i derby poetici, le competizioni in estemporanea e decine di altre fantasiose varianti come quelle organizzate dall’Accademia Francesco Petrarca di Capranica (Vt). («I 10 euro di iscrizione sono devoluti alla Croce Rossa Italiana e che non vi è alcuna speculazione da parte mia e dell’Accademia». In questo caso la dr.ssa Pasqualina Genovese D’Orazio, direttore e fondatore dell’Accademia Francesco Petrarca, lo tiene a precisare al dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CULTUROPOLI" e "IGNORANTOPOLI".  Libri facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare). Un mondo in continua moltiplicazione che spesso si avvale di sostegni pubblici: si va da poche centinaia di euro alle centinaia di migliaia. Ad esempio prima che scoppiasse il caso Grinzane, il premio incassava dalla Regione Piemonte, dalle fondazioni bancarie e da altri enti, quasi 5 milioni di euro. Se calcoliamo una media di 5.500 euro di contributi a premio e li moltiplichiamo per il numero di concorsi sfioriamo i dieci milioni di euro di soldi pubblici. Ma sono veramente gli aspiranti poeti o scrittori a beneficiare di un simile flusso di denaro? Leggendo “Il rifugio degli esordienti”, un sito che da quattordici anni raccoglie le testimonianze degli autori, la risposta è un secco no. Aperto da un ingegnere con la passione per la scrittura, Maurizio J. Bruno, autore del thriller "Ralf" e del romanzo di fantascienza "Eden", è diventato un punto di riferimento per i 17mila aspiranti scrittori che ogni mese lo frequentano. "Visto che sempre più spesso incontravamo autori finiti nelle reti dell’editoria a pagamento, con un passato infarcito di premi e un garage pieno di libri invenduti, io e gli altri autori del rifugio abbiamo dato vita a "Danae", un’associazione che si occupa di promozione, distribuzione e vendita di opere realizzate da altri". Peccato che la metà dei libri candidati a questa forma di autopromozione non superi la selezione del comitato di lettura, "sia per colpa dell’editore, sia per demerito dell’autore". Infatti, tra gli aspiranti poeti e narratori non manca chi animato dalla passione per la scrittura, dimentica quella per la lettura. Gli americani la chiamano vanity press, la vanità dell’autore che si ritiene appagato nel vedere il suo nome stampato su una rivista o sulla copertina di un libro. In Italia si accompagna alla vanity prize e l’effetto combinato delle due debolezze umane rappresenta un mercato inesauribile. Accade così che sempre più spesso facciano la loro comparsa associazioni culturali e accademie attivissime nel sottobosco dei micro premi. C’è la salernitana “Gli occhi di Argo” che organizza diversi concorsi, tra cui “L’almanacco dei cicli celesti” (50 euro per la pubblicazione) e un calendario delle pin-up da comporre grazie a inedite poesie sul nudo femminile (chi viene selezionato s’impegna all’acquisto di 10 copie versando 80 euro per il collettivo o 150 per il monografico). Decisamente prolifica la "Hermes Academy" di Taranto. Il direttore creativo e fondatore dell’accademia chiede ai partecipanti di pagare 10 euro di spese di segreteria per svariati premi: “Anima di Latta”, “Funambolo del cielo”, “Rette parallele”, “La freccia di Cupido”, “la vigilia della vita”, “(In) fine il mondo” e “La mensa dei sogni”. Altre associazioni legano la poesia al turismo: è il caso degli "Amici dell’Umbria" che ne organizzano una dozzina "nell’intento — si legge sul sito — di riproporre il messaggio d’amore e di pace degli uomini più illustri della nostra terra". E non serve neanche vincere, basta cercare uno dei tanti concorsi in cui l’importante è partecipare. Ad esempio in Ciociaria il bando della quinta edizione del premio di poesia “Giorgio Belli” riserva premi in denaro ai primi classificati, ma pubblica in una antologia tutte le liriche inviate. A parziale copertura delle spese gli organizzatori chiedono un contributo di dieci euro. Stesso discorso in Toscana con il premio il “Forte 2011” dedicato a poesie e racconti. Il bando de “La nuova rosa editrice” spiega: "Di tutti i lavori partecipanti ad ogni sezione, verrà scelta una poesia-sintesi di ogni autore che sarà pubblicata su un’antologia". Il contributo spese è di 25 euro, ma nel caso si voglia acquistare l’opera servono altri quindici euro.

Mercato in cortocircuito. Il desiderio di scrivere, di ottenere successo letterario è tale da autoalimentare il business. E' così che trova spazio il gioco sporco di premiopoli. Va ricordata la battuta di Montale quando vinse il Nobel: "Nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anche io?" "L’editoria a pagamento non è editoria, così come i premi che garantiscono la pubblicazione a spese dell’autore non sono veri premi letterari". E’ lapidario Marco Polillo, presidente dell’Associazione italiana editori. E le sue parole la dicono lunga sul peso che le case editrici assegnano ai curricula infarciti di riconoscimenti degli esordienti: solo carta straccia. L’opinione è condivisa anche da piccoli editori che cercano di fare il loro lavoro seriamente, anche se stretti in un imbuto: da una parte i giganti dell’editoria che si dividono il 93% del fatturato, dall’altra chi si è ricavato un mercato sulla pelle (e sulle aspirazioni) degli esordienti. Aldo Moscatelli della casa editrice “I sognatori” ha dedicato al meccanismo dei concorsi un capitolo del pamphlet “Le invio un manoscritto, attendo contratto”, pubblicato su Internet e in un anno scaricato già 1800 volte. "I premi lasciano quasi sempre l’amaro in bocca. Quelli più prestigiosi non sono accessibili ai piccoli editori, gli altri, nel migliore dei casi, tendono a premiare gli autori già famosi per via del ritorno d’immagine. Spesso, l’inappellabile giudizio della giuria, risulta del tutto incomprensibile". Il desiderio di scrivere è tale da autoalimentare il mercato. E così si crea un corto circuito tra domanda e offerta. Ed è questo il rischio vero che corre chi ha sogni di carta, il gioco sporco di premiopoli. "Gli esordienti devono interrompere la catena, rifiutarsi di partecipare a questo tipo di concorsi, evitare di pubblicare a pagamento", dice Mirian Bendìa. "Non devono preoccuparsi di vincere un premio o di trovare un editore, ma cercare una persona che li sappia indirizzare, correggere e stimolare", conclude la poetessa Paola Campanile. O forse, per non dare eccessiva importanza ai riconoscimenti letterari ed evitare le trappole di premiopoli, basterebbe ricordare come Montale reagì quando per telefono gli comunicarono che aveva vinto il Nobel. Lo scrisse Giulio Nascimbeni, che insieme a Gaspare Barbiellini Amidei, quel giorno era presente. "Dovrei dire cose solenni immagino. Mi viene invece un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anche io?".

Strega, Campiello & Co. gli storici e gli emergenti. Il più antico è il premio Bagutta, nato nel 1926. I nuovi e i 'micro' ne contano almeno cinque. Tra tasse di partecipazione, coppe e diplomi, ecco come funzionano:

GLI STORICI

Bagutta. E' il più antico premio italiano, nato a Milano nella trattoria della famiglia Pepori l'11 novembre 1926. Sono ammessi i libri, senza distinzione di generi, segnalati da almeno due membri di una giuria composta da sedici persone. Premio: 12.500 euro.

Bancarella. Promosso dall'Unione librai pontremolesi fin dal '52 per libri di narrativa e saggistica. Giuria: 200 librai. Premio: distribuzione gratuita dei volumi, opera di divulgazione e la statuetta del "San Giovanni di Dio".

Calvino. Nato a Torino poco dopo la morte di Italo Calvino, è il più importante concorso per esordienti. Ai partecipanti è richiesta una tassa d'iscrizione di 60 euro. Premio: 1500 euro per l'opera vincitrice. Spesso i finalisti trovano un editore.

Campiello. Istituito nel '62 dagli industriali del Veneto, è assegnato a opere di narrativa italiana segnalate da una giuria di letterati. Le cinque opere finaliste ricevono un premio di 10mila euro. Una giuria di trecento lettori assegna il premio finale di 10mila euro.

Strega. Nato nel '47, è organizzato dalla Fondazione Bellonci. I 400 "Amici della domenica" scelgono i finalisti del Premio, scegliendo fra i libri di narrativa ammessi (ognuno deve avere l'appoggio di 2 giurati) e successivamente il vincitore. Premio: 5mila euro.

I NUOVI

Bottari Lattes Grinzane. E' nato nel 2010 dalle ceneri del Grinzane Cavour. Coinvolge sette giurie scolastiche che scelgono i vincitori, italiani o stranieri, nella rosa selezionata da un comitato tecnico. Premi da 2.500 a 10mila euro.

Città di Tropea. Nato nel 2007 per promuovere la lettura in Calabria, è organizzato dall'Accademia degli Affaticati di Tropea. Ha una giuria di 450 persone tra cui i 409 sindaci della regione. Premio: 5mila euro ai tre finalisti, più 5mila euro al vincitore.

Mario Luzi. Nato a Roma nel 2005 in memoria del poeta e senatore toscano, è dedicato alla poesia edita ed inedita. Si è dotato del manifesto "premio etico" per garantire la trasparenza. Sei sezioni, per iscriversi tassa da 16 euro. Montepremi: 25mila euro.

Pieve. L'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Santo Stefano, in provincia di Arezzo, organizza dal 1985 un concorso riservato ai diari dei nonni, alle lettere d'emigrazione, ai taccuini dalle trincee di guerra. Premio:1000 euro e pubblicazione.

Racconti dal carcere. Nato nel 2010 è un premio dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza, patrocinato dalla Siae e dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. I racconti finalisti vengono pubblicati insieme alle interviste ai loro autori. Rivolto a tutti i detenuti.

I MICROPREMI

Almanacco dei cicli celesti. Organizzato dall'associazione "Gli Occhi di Argo" ad Agropoli, nel Cilento. Dedicato a poesie, novelle, festività, curiosità, ricette, notizie mediche, astrologia... Premio: otto copie dell'almanacco che il vincitore deve acquistare al prezzo di 50 euro.

Biancospino Organizzato dall'associazione Amici dell'Umbria a Gualdo Tadino. Per l'iscrizione tassa di 15 euro per una poesia, 25 per due, 30 per tre componimenti, per libro edito, racconto, saggio e silloge. Premi: coppe, medaglie e prodotti tipici.

Estemporanea in Viterbo. Organizzato dall'Accademia Francesco Petrarca di Capranica è dedicato alla declamazione a voce alta delle poesie. Per iscriversi tassa di 10 euro. E' previsto un pranzo sociale al prezzo di 15 euro per i concorrenti, 20 per gli accompagnatori.

Funambolo del cielo. Organizzato a Taranto dall'Hermes Academy, riservato a poesie, racconti e drammaturgie, brani musicali, fotografie e cortometraggi. Soggetto, il funambolismo. Per iscriversi tassa di10 euro. Premi: targhe e diplomi.

Il Forte. Organizzato dalla Nuova Rosa Editrice a Forte dei Marmi, si rivolge a poeti e autori di racconti. Per iscriversi tassa di 25 euro. Un'opera per ogni autore viene pubblicata in un'antologia, che può essere prenotata al momento dell'iscrizione pagando altri 15 euro. 

PARLIAMO DELL’ITALIA DELL’ISTRUZIONE TRUCCATA.

Esemplare è “5 in condotta” il libro nero della scuola italiana, scritto da Mario Giordano, edito da Mondadori nel 2009.

Benvenuti nella scuola italiana, dove gli studenti sono convinti che il Tiepolo sia il fratello di Mammolo, che tra i personaggi de "I Promessi sposi" ci siano “tre preti: don Abbondio, don Cristoforo, don Rodrigo”. L'ultimo libro della Bibbia? La pocalisse. Vasco de Gama? Circoncise l'Africa. E l'Infinito di Leopardi? Leopardare.

Benvenuti nella scuola che è ultima nei rapporti Ocse per la preparazione degli studenti, che in dieci anni nelle superiori ha promosso nove milioni di alunni (tanti quanti la popolazione della Svezia) con lacune gravissime, che porta in quinta elementare un bambino su due con problemi di lettura e manda all'università giovani convinti che il Perú sia un biscotto al cioccolato, magari confinante con il Togo, che Pinochet sia un vino italiano e il prodromo una pista dove si corre la Formula Uno.

Benvenuti nella scuola dei mille consulenti e dei mille corsi, quella dove si studiano il benessere, il tiro con l'arco, la pesca alla trota e perfino la ricetta del pollo al curry, ma poi ci si dimentica di insegnare l'aritmetica e l'ortografia; la scuola che non ha soldi per pagare i supplenti, ma poi assume ogni anno 36.000 consulenti (quasi il doppio degli abitanti di Sondrio); la scuola dove solo il 17 per cento di chi insegna matematica è laureato in matematica e il 25 per cento di quelli che insegnano scienze non sa che i polmoni trasferiscono ossigeno nel sangue; la scuola della maestra che lega alle sedie gli alunni troppo vivaci e della prof che si fa palpeggiare dagli studenti.

Benvenuti in questa scuola che cade a pezzi (20.000 edifici a rischio su 42.000, 240 alunni feriti ogni giorno), che si fa soffocare a volte dall'ideologia ("I gulag? Un errore di valutazione"), a volte dalla pignoleria ("Le lezioni iniziano alle 8.37 e 30 secondi...") e quasi sempre dalla burocrazia (2 circolari da leggere in media per ogni giorno di lezione); la scuola che ha il record di insegnanti: li paga poco ma non li licenzia mai, nemmeno se si danno malati per andare a lavorare altrove o se vanno in aula per molestare le allieve. Benvenuti nella scuola degli sperperi e degli sprechi, dove per trovare un supplente ci vogliono 574 telefonate...

Mario Giordano ci accompagna in un viaggio, dai risvolti sorprendenti e inediti, dentro un disastro che non possiamo più sopportare, ma anche dentro quel "miracolo che si ripete ogni giorno", grazie al quale la scuola "resta in piedi, nonostante tutto, contro tutto": insegnanti che, con passione e tenacia, resistono in trincea e non hanno alcuna intenzione di arrendersi; istituti d'eccellenza e studenti brillanti, che trionfano alle olimpiadi di matematica e ai certamen di latino. Con la speranza che, di qui, possa iniziare un futuro diverso. Perché un'Italia migliore può nascere solo da una scuola migliore.

“Tutto quello che non so, l’ho imparato a scuola” sentenziava Longanesi.

PARLIAMO DI UNIVERSITA'.

Cioè dell’Università dei concorsi bloccati, della parentopoli, degli scandali dei baroni.

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”. Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni,“che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente.

Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”.

Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.

Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.

Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.

Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Libri universitari. Self–publishing.“Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.

Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.

Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.

I baroni regnano sull'università. Raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricorsi. Il consiglio di stato ha accolto le proteste di un bocciato e potrebbe annullare l’intera tornata di nomine. Ecco come naufragano gli atenei italiani, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Ah porci!”, esclamò Perpetua. “Ah baroni!”, esclamò don Abbondio». I lanzichenecchi che distrussero la Lombardia nel 1630 Alessandro Manzoni li chiama proprio così, «baroni». Dal latino “baro - baronis”, termine che, dice la Treccani, indicava “il briccone, il farabutto, il furfante”. I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare l’università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi. Per i baroni la strada maestra per mantenere il potere e gestire il reclutamento è, ovviamente, quella di controllare i concorsi. Come dimostra l’inchiesta “Do ut des” della procura di Bari, che sta indagando per associazione a delinquere decine di professori di diritto costituzionale: «Carissimo, consegno un’umile richiesta al pizzino telematico. Ti chiederei il voto per me a Roma... sono poi interessato a due concorsi di fascia due, d’intesa con Giorgio che ha altri interessi. Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi. A buon rendere. Grazie», si legge in una mail che il bocconiano Giuseppe Franco Ferrari ha mandato qualche anno fa a un collega, missiva ora al vaglio della Guardia di Finanza. La riforma Gelmini varata nel 2010 doveva mettere fine agli scandali e modernizzare finalmente gli italici atenei, da tempo in coda a ogni classifica delle eccellenze europee. Ahinoi, non sembra essere andata come si sperava. La nuova abilitazione scientifica nazionale (che ha da poco chiuso la tornata del 2012: i promossi a professori di prima e seconda fascia sono quasi 24 mila, i bocciati circa 35 mila) è stata un flop colossale. Nonostante un costo stimato superiore ai 120 milioni di euro, il concorso ha generato proteste a catena, incredibili favoritismi, migliaia di ricorsi al Tar e - come risulta a “l’Espresso” - anche i primi esposti mandati alle procure. La lista di presunti abusi basta leggere le accuse che arrivano da ricercatori esclusi, docenti e persino premi Nobel - è impressionante: se in qualche caso sono stati promossi candidati che vantano solo dieci citazioni (in articoli e pubblicazioni varie) a discapito di altri che ne hanno oltre seicento, tre commissari di Storia medioevale avrebbero truccato i propri curriculum attribuendosi monografie mai scritte pur di far parte della “giuria”. A Storia economica, invece, sono stati esclusi specialisti apprezzati in tutto il mondo, ma privi evidentemente dei giusti agganci: un gruppo di dodici studiosi stranieri, tra cui un Nobel, hanno così spedito al ministro Stefania Giannini una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall’esito delle selezioni. I casi sono decine: da archeologia a biochimica, da architettura a chirurgia, passando per storia economica e latino, quasi in ogni settore sono stati denunciati giudizi incoerenti e comportamenti al limite dell’etica. Che spesso nascondono, sussurrano i ricercatori frustrati, la volontà dei baroni di cooptare, al di là delle reali capacità dei singoli, i predestinati e gli “insider”, cioè i candidati già strutturati nelle facoltà. Andiamo con ordine, partendo dal concorso di Diritto privato. L’abilitazione è finita sulle pagine di cronaca perché il commissario straniero (il membro Ocse è una delle novità più rilevanti della riforma) parlava solo spagnolo. Come abbia fatto Josè Miguel Embid a leggere e valutare i complessi tomi di diritto prodotti dai candidati è un mistero. “La conoscenza della lingua italiana”, ha spiegato in una nota il ministero dell’Istruzione, “non è prevista dalla legge”. I giudici del Consiglio di Stato si sono però fatti beffe delle giustificazione, hanno accolto un ricorso sul merito e sospeso tutto. Le stranezze non si contano. Se il commissario Maria Rosaria Rossi, ordinaria a Perugia, prima di essere sorteggiata componente della commissione aveva annunciato di voler sabotare la riforma Gelmini («a chi lavora nell’università spetta ora il compito di operare interstizialmente tra le pieghe della legge e oltre la legge stessa e sperimentare pratiche quotidiane di sabotaggio dell’ideologia che la sostiene», ha ragionato carbonara sul “Manifesto”), il ricercatore napoletano Andrea Lepore è stato promosso anche se il giudizio scritto, inizialmente, sembrava ipotizzare ben altro epilogo: «La qualità della produzione è limitata sotto il profilo dell’originalità e dell’innovatività, nonché per il rigore metodologico... Si rinvengono, tra l’altro, ampie frasi riprodotte alla lettera da lavori di altri autori precedentemente pubblicati». Andrea Lepore, in pratica, è accusato di essere un copione. Da promuovere, però, «all’unanimità». Francesco Gazzoni, professore della Sapienza e maestro indiscusso della materia (è suo il manuale di Diritto privato più venduto d’Italia), all’abilitazione nazionale ha dedicato un saggio, intitolato “Cooptazioni: ieri e oggi”: «Il potere accademico è una vera e propria piovra mafiosa», si leggeva sulla rivista online “Judicium” prima che l’articolo fosse repentinamente rimosso. «Cooptare, in sé, non è un male, lo diventa quando la scelta avviene, come sempre avviene, in base a criteri che prescindono dal merito... I professori di università sono novelli Caligola, con in più il fatto di promuovere, all’occorrenza, anche asini patentati in difetto di cavalli». Il luminare fa nomi e cognomi, e se la prende con l’intera commissione di Diritto privato «inidonea a giudicare, essendo priva di autoritas sul piano scientifico». I più bravi, in sintesi, sarebbero stati bocciati perché «non avevano un’adeguata protezione accademica e perché non tutti i commissari erano in grado di leggere e capire i loro titoli». Forse il professore esagera, ma di certo qualche candidato di Diritto privato è stato più fortunato di altri. Come l’avvocato Claudia Irti, che ha scoperto che il presidente della commissione, Salvatore Patti, era stato suo tutor alla tesi di dottorato. Un conflitto di interesse non da poco per il docente, tanto più che è la Irti in persona a rispondere al telefono della sede milanese dello studio Patti: «Sì, sono stata promossa, ma ci tengo a dirle che io non lavoro per il professore. Perché rispondo al telefono del suo studio? È una situazione particolare, a Milano presidio la sede, ma faccio solo da rappresentanza. Il professore si sarebbe dovuto astenere dal giudicarmi? Significa che tutte le persone che collaborano con i membri della commissione non avrebbero dovuto presentare domanda al concorso. Le assicuro che sono tante». È il sistema, dunque, a permettere che possa accadere di tutto: se Patti, oltre alla Irti, ha potuto valutare i titoli di tre magistrati di Cassazione che potenzialmente possono essere giudici delle sue cause (tutti abilitati), il collega Francesco Prosperi dell’Università di Macerata ha promosso a ordinario il giovane Tommaso Febbrajo, un tempo suo allievo, e figlio dell’ex rettore dell’ateneo dove lo stesso Prosperi insegna. Non è un caso che il concorso di diritto privato conti già un centinaio di ricorsi al Tar. Un professore associato dell’università di Tor Vergata, Giovanni Bruno, ha già avuto soddisfazione dal Consiglio di Stato. I magistrati hanno accolto alcune censure decisive, tanto che qualcuno ipotizza che l’intero svolgimento dell’abilitazione nazionale sia a rischio: il regolamento ministeriale pubblicato nel 2011 sarebbe illegittimo, perché avrebbe dato alle commissioni un eccesso di discrezionalità nella valutazione dei candidati. Bruno ha pure mandato un esposto alla procura di Roma, accusando Prosperi di non aver partecipato a una delle riunioni in cui si definivano i giudizi: a leggere un programma accademico dell’Università di Macerata, risulta che il 29 novembre 2013 il sociologo abbia partecipato (almeno fino alle 13) a un convegno nelle Marche. Anche un altro candidato trombato, l’avvocato Giuseppe Palazzolo, ha mandato una denuncia ai pm (stavolta a Napoli) in cui chiede il sequestro della piattaforma elettronica usata dai membri della commissione. Già, alcuni candidati avrebbero voluto controllare se i loro giudici hanno davvero letto i loro titoli (mandati in formato elettronico) o abbiano promosso e bocciato alla cieca, senza nemmeno effettuare il download. Il ministero ha rigettato, però, tutte le richieste d’accesso ai tabulati. Nel 1898, in una cronaca del “Corriere della Sera”, si raccontava che il ministro della Pubblica istruzione del governo Pelloux, Guido Baccelli, “impaurito e seccato dagli scandali occorsi nelle commissioni chiamate a giudicare pe’ i concorrenti alle cattedre vacanti d’università, abbia in animo di abbandonare il sistema adottato quest’anno per l’elezione delle commissioni”. Cos’era successo? “Qualche concorrente” spiegava il cronista “non aveva trovato miglior mezzo per riuscire, di domandare la mano di sposa alla figliola di un commissario: il matrimonio si combinava per il dopo concorso; il fidanzato, manco a dirlo, riusciva primo, e festeggiava in un giorno medesimo la cattedra e la moglie”. Dopo centosedici anni e una quindicina di riforme, dopo gli scandali dell’ultimo ventennio (citiamo quelli che travolsero il concorso nazionale del 1993, le inchieste che hanno svelato le appartenenze militari alle cosiddette “scuole” e le tristi vicende dei concorsi locali, dove spesso e volentieri il candidato indigeno vince a mani basse), il legislatore sembra aver toppato anche stavolta. La legge 240, quella della riforma Gelmini, ha sì previsto dei parametri oggettivi che gli aspiranti avrebbero dovuto superare per passare l’esame (le cosiddette “mediane”), ma molti professori hanno deciso come sempre: di testa loro. In effetti gli studiosi della “Voce.info” hanno scoperto che per i concorrenti con un profilo scientifico più debole “la conoscenza di un membro della commissione ha migliorato significativamente le chance di successo”. A parità di curriculum, per esempio, in Politica economica “gli insider hanno avuto il 14 per cento di probabilità in più” di passare rispetto a coloro che non frequentano gli atenei, una percentuale che sale al 23 per cento in Scienza delle finanze. Polemiche a go-go anche nella macroarea di Archeologia, dove un gruppo di accademici (tra cui Salvatore Settis, Fausto Zevi ed Ermanno Arslan) hanno scritto una lettera in cui prima attaccano «lo strumento mostruoso delle mediane, ridicolo artifizio blibliometrico che rinuncia alla qualità e fa discendere i giudizi delle quantità», poi se la prendono con i colleghi della commissione, che avrebbero aiutato le scuole più forti «privilegiando alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri, con scelte valutative a dir poco opinabili». «I talenti sono stati bocciati, i “peggiori” sono stati sistematicamente promossi, anche a Latino» ha attaccato l’ordinario perugino Loriano Zurli. Un meccanismo che non solo è amorale ma anche anti-economico, dal momento che il rilancio dell’università e della ricerca sono fondamentali - secondo tutti gli esperti - per la crescita della ricchezza nazionale. Se il professore di Biochimica Andrea Bellelli definisce «una farsa» il concorso del suo settore e ricorda che «uno dei cinque commissari sorteggiati pare non avesse le mediane», un gruppo di prof e ricercatori dell’associazione Roars (presieduta da Francesco Sylos Labini) ha sottolineato alcune scellerate scelte dell’Anvur che ha considerato “scientifiche” ben 12.865 riviste tra cui spiccano “Alta Padovana” del Comune di Vigonza, “Delitti di carta” specializzata nella giallistica, “L’annuario del liceo di Rovereto”, il mensile della parrocchia di San Domenico, “Cineforum” e “Stalle da latte”. Ma è capitato di peggio. A Progettazione architettonica i commissari hanno fatto letteralmente a pezzi alcuni candidati pubblicando online giudizi (leggibili da tutti) in bilico tra ironia e insulto. Il professor Giuseppe Ciorra, ordinario all’università di Camerino, bocciando una ricercatrice a Torino scrive, letteralmente, che «la candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità in tutte le direzioni... Incoraggiabile ma non recuperabile, temo». Il collega Benedetto Todaro ha definito una collega associata di Napoli, Emma Buondonno, una «candidata sconcertante, che si impegna volenterosamente in lavori completamente privi del necessario acume critico». Ciorra (che arriva a liquidare un esaminando con un definitivo «sparisca, per favore»), sembra assai più gentile quando si tratta di valutare candidati che conosce di persona. Quando è costretto a bocciare la sua ex dottoranda Rita Giovanna Elmo spiega che lo fa «con dolore umano», mentre non si fa specie nel promuovere (il suo sarà l’unico “sì”) Anna Rita Emili, ricercatore in forza alla sua stessa università poi bocciata da tutti gli altri colleghi. La Emili si può consolare, è in ottima compagnia: la commissione ha fatto fuori i migliori progettisti italiani. Anche stavolta qualcuno si è lagnato con la Giannini: l’Associazione italiana di Architettura e critica «manifesta un totale dissenso contro qualsiasi atteggiamento sessista e maschilista della commissione d’esame volto a schernire le ricercatrici. Suggeriamo ai membri della commissione di mostrare anche più rispetto, in futuro, per la grammatica italiana». Il barone che sbaglia le congiunzioni, in effetti, è davvero troppo.

Ma quant'è bella la vita dei docenti universitari. In un pamphlet in libreria in questi giorni, Stefano Pivato traccia un ritratto tagliente e autocritico della tribù degli ordinari, associati e ricercatori, immutabile e soprattutto insondabile, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”. È alto il tasso di mortalità studentesca negli atenei italiani. La colpa viene di norma attribuita agli studenti stessi; e delle responsabilità didattiche dei docenti universitari nessuno dice niente. “Al limite della docenza” di Stefano Pivato, “piccola antropologia del professore universitario” (Donzelli Editore), ricalibra questo assunto. Ed è un ritratto-pamphlet divertente, tagliente e autocritico della tribù degli “ordinari, associati e ricercatori”, immutabile e soprattutto insondabile. L’autore, certi aspetti, atteggiamenti, tic identitari e collettivi, li conosce bene, dall’interno: insegna lui stesso, da quarant’anni, Storia contemporanea all’università. Ha ricoperto anche il ruolo di rettore. Entrò in ruolo subito dopo la “liberazione del ’68”. Misteriosa creatura stanziale, a differenza di quanto accade in America o nel resto d’Europa: addio clerici vagantes, “il docente, nella generalità dei casi, si laurea, cresce e progredisce in carriera nella stessa università”. Ma i nostri radar letterari non l’hanno mai intercettato: De Amicis narrava di un maestro elementare e Don Milani di insegnanti delle scuole medie. Idem al cinema: tranne “Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone, non viene in mente altro. La stessa cronaca si ricorda dell’“homo academicus” nostrano solo quando c’è da rovistare dentro casi di parentopoli, concorsi truccati e “sex for 30” sul libretto. Eppure la prima Università occidentale è tricolore, quella di Bologna risale, infatti, al 1088; e subito dopo la Chiesa, l’Accademia è la più antica tra le istituzioni, “nel tempo ha perfezionato i propri meccanismi, chiusi e non contaminati col mondo esterno, fino a renderli perfetti. Anche nelle loro storture” scrive Pivato. Fuori dal tempo, statico ma adattivo, il barone o baronetto nazionale è il più anziano del Vecchio continente: anche adesso che la sua età pensionabile è stata anticipata a 70 anni, tra i lamenti dei 75enni e le invidie dei non ancora quarantenni che restano una frangia simbolica, il 12 per cento del totale. In “Al limite della docenza”, Stefano Pivato apre passando in rassegna i fondamentali “tipi da cattedra”. Come il prof. “Come sto io?”. “Solitamente, quando due persone si incontrano, si chiedono vicendevolmente Come stai? Una certa tipologia di docente, se ti incontra, senza chiederti nulla, ti dice “Come sto io?”. Segue elencazione dei saggi che ha scritto, dei convegni a cui ha partecipato, delle lodi che ha ricevuto. “L’Accademia è fatta così. Ancor prima che di riconoscimenti scientifici, si nutre di solleticamenti a uno smisurato ego”. L’egolatria, e la vanità, sarebbero le due pietre angolari della mentalità del docente. Insieme a un’eterna conflittualità tra simili: “Litigo, dunque sono”. “Litigare è una forma assoluta per certificare la propria presenza; e magari, giustificare la propria assenza”. Così i professori più attaccabrighe sono spesso i più assenteisti. E in pochi ambienti come quello accademico l’insinuazione maliziosa, la diceria, la diffamazione giocano un ruolo tanto importante. Proliferano, come cellule impazzite che si penserebbero radicate in ben altri strati della società, le lettere anonime; vedersi dare dello iettatore può pregiudicare una carriera già avviata. I docenti universitari si sentono tutti autori di bestseller, anche se “hanno pubblicato presso un anonimo stampatore” e si ingegnano in mille modi per costringere i propri studenti a comprarne qualche copia. Uno dei loro mantra più comuni, al ritorno da una lezione, è questo: “Era piena zeppa di studenti” . In verità, a volte, non c’era quasi nessuno. Il “tribalismo universitario” si è formato e consolidato nel corso dei secoli. Ecco allora il “Chiarissimo” (professore ordinario), il “Magnifico” (rettore), l’“Amplissimo” (preside di facoltà). Anche l’apparato iconografico non scherza, e non muta. La liturgia del potere non conosce strappi. Potere talvolta lungo una vita: ci sono stati rettori che hanno governato per decenni. Non appena possibile, gli Insegnanti Massimi sfoggiano toghe, ermellini e altri paramenti. E se c’è un qualcosa che li manda in visibilio, è la parola (sempre più in disuso) “concorso”. “Perché il concorso gratifica il vincitore ma, in misura non minore, anche chi lo fa vincere”. Il docente-tipo necessita di uno spazio sempre più agevole: anche se ha pochi studenti, vuole un’aula più grande e uno studio personale sconfinato. È singolare la sua concezione del tempo. Il semestre universitario dura circa tre mesi e mezzo, e l’ora quarantacinque minuti. E “talvolta, secondo un’antica consuetudine, se ha impegni di varia natura e deve chiudere in fretta”, reintroduce d’imperio la lectio brevis. Sui generis anche la sua settimana lavorativa, che copre la prima o la seconda parte, in corrispondenza delle ore di lezione:  “per chi svolge la lezione durante la prima parte, la settimana inizia il lunedì pomeriggio e termina il mercoledì mattina; per quanti svolgono lezione nella seconda parte, la settimana inizia il mercoledì pomeriggio e termina il venerdì mattina”. Bella la vita del professore universitario nella penisola, impiegato pubblico a se stante, “non esistono cartellini da timbrare e gli impegni di lavoro sono interpretati in maniera alquanto lasca”. Il suo obbligo è di 350 ore annue, cifra che comprende le lezioni, le attività collegiali e le commissioni d’esame e di laurea. Il carico di lezioni può oscillare invece tra le 60 e le 120 ore, soglia molto più bassa di quella di un qualsiasi suo omologo europeo: 192 ore in Francia, 240 in Gran Bretagna, da 248 a 279 in Germania, da 252 a 360 in Spagna. E le stravaganze non cessano qui: “alcuni docenti mettono in calendario la prima lezione settimanale alle 18 e la seconda alle 8 del mattino successivo, esaurendo così, in breve tempo, la loro permanenza settimanale in Facoltà”. Tanto i codici etici introdotti dalle singole università sono, più che altro, petizioni di principi: le sanzioni restano sulla carta, e i docenti peggiori e improduttivi al loro posto. Anche se questo significa un cospicuo danno d’immagine e un minore trasferimento di risorse all’ateneo interessato. Stefano Pivato racconta poi che ai professori universitari come lui non viene richiesto di essere abili nell’insegnamento. Come se conoscere equivalesse automaticamente a saper insegnare. L’esame di abilitazione nazionale se ne disinteressa; i metodi sono cristallizzati ad almeno un secolo fa. In tempi in cui tutto scorre vorticosamente, sarebbero consigliabili nuove strade, ma invece si ricorre ancora alla lezione ex cathedra, “che è rimasta la stessa, di fronte a un pubblico di studenti aumentato a dismisura dal punto di vista quantitativo e qualitativo”. Mille anni dopo la fondazione dell’Università bolognese, a quindici anni di distanza dalla “riforma-spezzatino Berlinguer”, e a un tiro di binocolo dalla babelica “riforma Gelmini”, per l’opinione pubblica esterna “il docente è misurato dalla validità dei suoi studi, dall’attenzione che ricevono i suoi libri e dal prestigio delle case editrici che li fanno uscire”. Per la tribù universitaria, invece un docente vale esclusivamente per la funzione che occupa all’interno dell’Accademia. Anche se ha pubblicato un solo libro in decenni di “ricerca e insegnamento”. Anche se è di destra. O di sinistra. “Per la sua strenua difesa del territorio, dell’identità e dello jus loci è assimilabile al tipo antropologico leghista”. O lepenista. Uscire dal guado e aprirsi al mondo, anche fisicamente. Più doveri e meno diritti acquisiti. Perché “prima di qualsiasi riforma, bisogna riformare se stessi”. E perché spetta a loro il compito di formare le classi dirigenti del futuro. È questa la proposta, docente, di Stefano Pivato. 

Università, paradossale guerra ai fuori corso. "Gli atenei finiranno per regalare gli esami". Il ministero, nell'erogare i fondi, adesso penalizza i centri con troppi studenti in ritardo con le materie. E a subire le peggiori decurtazioni sono le grandi università. Che, per correre ai ripari, hanno solo due strade: aumentare le tasse o promuovere con più facilità, scrive Roberta Carlini su “L’Espresso”. Caccia grossa al fuoricorso. L’eterna lamentela sul numero eccessivo di studenti italiani che non si laureano “in tempo” è diventata un problema contabile serio. Da quando dalle stanze ministeriali è uscita la tabella che assegna i fondi pubblici agli atenei, mettendo in pratica la grande novità del “costo standard per studente in corso”. Che di fatto cancella dall’università italiana almeno 700.000 persone, perché fuori corso. Risultato: gli atenei con maggior numero di studenti che non si laureano nei tempi dovuti hanno un danno economico consistente, e crescente. E crescono i timori per due conseguenze perverse del nuovo meccanismo: da un lato, l’aumento a tappeto delle tasse per i fuori corso; dall’altro, la tentazione di abbassare l’asticella delle prove d’esame, in modo da accelerare il percorso verso la laurea. “Nella nostra università ci sono circa 20mila studenti fuori corso: è pensabile che non pesino per niente? A loro non dobbiamo dare servizi, offerte, insegnamenti?”. Il rettore di Pisa Massimo Mario Augello è stato uno dei primi a protestare contro le nuove regole. L’ateneo che lui guida è uno dei più penalizzati: “non è questione di virtuosi o no”, afferma, ricordando classifiche internazionali sulle università che vedono Pisa tra le prime italiane. Il problema è un altro: “il numero dei fuori corso è più alto nei grandi atenei, quelli con un bacino di utenza più ampio”. Se in percentuale, nella classifica delle università, abbiamo quote di fuori corso superiori al 40 per cento in molte piccole università soprattutto del Sud, sopra la media ci sono anche alcune grandi, dalla Sapienza di Roma all’università di Pisa, da Napoli a Palermo.

I dati per singolo ateneo si possono vedere nel grafico: il numero degli studenti in corso è quello risultante dalla tabella di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario 2014, mentre il numero complessivo degli iscritti è da Anagrafe degli studenti. Tutti i dati si riferiscono all’anno accademico 2012/2013.

Atenei dai numeri imponenti, nei quali gli studenti messi fuori con il nuovo calcolo dei fondi sono migliaia e migliaia: alla Sapienza si “perdono”, ai fini delle entrate di bilancio, 42 mila iscritti, a Palermo 20 mila, alla Federico II di Napoli oltre 30 mila, alla Statale di Milano 18.000. In soldi, la differenza è dolorosa: per fare un esempio, la prima università d’Italia e d’Europa, la Sapienza, ha perso una decina di milioni di euro di fondi con il nuovo meccanismo. E siamo solo all’inizio: infatti se per quest’anno solo il 20 per cento del finanziamento è attribuito sulla base di questo calcolo, entro cinque anni si salirà al 100 per cento. Cioè, i fuori corso saranno solo un “peso morto” per gli atenei, un costo che c’è ma non conta nulla ai fini del finanziamento pubblico. “Il problema si può risolvere alla radice, con decreto del rettore: regaliamo ogni anno un esame a ogni studente, così molti di più si laureano in tempo”, ha detto provocatoriamente il rettore di Pisa. Ma non è solo una battuta. Anche il Cun – il Consiglio universitario nazionale – ha denunciato il rischio di “comportamenti non virtuosi per ridurre il numero degli studenti fuori corso”. Che vuol dire? Un occhio più benevolo nella valutazione degli esami? “Qui a Milano abbiamo circa 18 mila fuori corso: cerchiamo di ridurli, investendo su orientamento, diritto allo studio, tutoraggio, servizi – dice Giuseppe De Luca, prorettore alla didattica della Statale di Milano - Ma molti piccoli atenei non hanno un soldo per fare queste cose, potrebbero reagire semplicemente abbassando l’asticella degli esami”. Perché spesso un alto numero di fuori corso deriva dalla serietà e selettività delle lauree. O anche dal fatto che si tratta di studenti lavoratori. O addirittura “che hanno impiegato più tempo perché sono andati a fare degli Erasmus”, denuncia Alberto Campailla della rete Link degli studenti. “Tutti questi diventano fantasmi, non esistono. E però pagano sempre di più”, aggiunge Campailla. E’ questa l’altra possibile conseguenza “non virtuosa” del nuovo meccanismo. Infatti, dai tempi del governo Monti le università hanno meno vincoli nell’aumento delle tasse: se in generale i contributi chiesti agli studenti non possono salire oltre una certa quota del Ffo, per i fuori corso il tetto è saltato. Risultato: i soldi persi per “eccesso” di fuori corso si possono recuperare tassando il loro ritardo. Già in alcuni atenei questi pagano di più degli altri: alla Sapienza, dopo il terzo anno fuori corso si paga il 50 per cento in più; anche Palermo ha introdotto un aggravio per chi non si laurea in tempo, che era allo studio anche a Pisa ma è stato bloccato in extremis. “Lo abbiamo rifiutato, è un modo per fare cassa che non riteniamo giusto – dice il rettore Augello – Ma questo è uno degli effetti distorsivi delle nuove regole: tutte le università stanno guardando al serbatoio dei fuori corso per cercare risorse”. Chi è stato alle ultime riunioni dei rettori, dopo la stangata del “costo standard”, racconta che l’idea di aggravare la tassazione sui fuori corso è generalizzata. Giustificata da urgenze di cassa, e dal fatto che è una delle poche leve che gli atenei hanno; e dal vecchio stigma su quelli che l’allora sottosegretario Michel Martone (governo Monti) definì “gli sfigati”. Mentre cresce il numero di quanti lavorano e studiano, o restano indietro per altri motivi, spesso riconducibili proprio alla disorganizzazione delle università. “Il concetto di fuori corso è cambiato – dice Guido Fiegna, già direttore generale del Politecnico di Torino ed esperto dei numeri dell’università italiana – già si farebbe molta pulizia se si utilizzassero di più le iscrizioni a part time, per gli studenti lavoratori, per le quali però le università fanno resistenza, proprio per non perdere iscritti e fondi”. Non solo: “non si capisce perché nel costo standard si calcolano solo gli studenti iscritti ai corsi, e non chi sta facendo il dottorato di ricerca, come se questi non studiassero”.

L’Università delle lauree vendute e dei testi falsificati.

L’Università truccata, come rivela in un bel libro della Einaudi, il professor Roberto Perotti, docente della Bocconi: l’Università che nelle classifiche internazionali finisce dietro quella delle Hawaii, che spende più di tutto il resto del mondo (16mila dollari per ogni studente contro i 7mila degli Usa) ma non dà risultati scientifici né una formazione adeguata. L’Università che, grazie alle sue inefficienze, premia le élite e, contrariamente a quello che si crede, punisce i ceti meno abbienti: solo l’8 per cento degli universitari italiani proviene dalle fasce più basse contro il 13 per cento degli Stati Uniti. Ma non erano i costosi Atenei americani il simbolo dell’anti-democrazia educativa?

Oggi l’ultima scoperta: all’Università di Como ci sono 24 docenti per 17 studenti. Un bel record, non vi pare? In sei anni le Università hanno moltiplicato i corsi di laurea: da 2444 a 5400. E non tutti utilissimi, si direbbe a prima vista. In effetti oggi si può diventare dottori, tanto per dire, in scienza dell’aiuola, in mediazione dei conflitti, in tecnologia del fitness, in scienza del fiore e in benessere animale. Manca solo il corso di laurea in raffreddore dei suini e quello in filosofia delle oche e poi il quadro sarebbe completo.

Ma poi che sbocchi danno queste facoltà? E chi le frequenta? Tenetevi forte: trentasette corsi di laurea in Italia (dicasi: 37) hanno un solo studente, a questi vanno poi aggiunti altri 66 corsi che hanno meno di sei studenti. Ma vi pare possibile? Tenere in piedi un corso di laurea e relative spese per un unico studente? O per due o tre?

A Siena hanno collezionato un buco di 145 milioni, non pagano le tasse dal 2004. Poi vai a vedere i bilanci e scopri che, per esempio, l’oculato ateneo spendeva 150mila euro l’anno per affittare alcune stanze di lusso con affaccio su piazza del Campo: inutile tutto l’anno, certo, ma nei giorni del Palio, sai che goduria...

L’Università di Siena utilizza il 104 per cento del suo bilancio per pagare stipendi. 104, avete capito bene: e per tutto il resto? Niente. Nell’ateneo toscano i tecnici sono più numerosi dei professori. E non è un caso unico: a Palermo, per esempio, ci sono 2.103 professori e 2.530 amministrativi, a Messina 1.403 professori e 1.742 amministrativi. La Federico II di Napoli, che nelle classifiche si piazza fra le dieci peggiori università d’Italia, spende il 101 per cento dei suoi soldi per il personale. L’impressione è che anche le facoltà, come la scuola, negli ultimi anni siano stati concepiti più come ammortizzatori sociali che come luoghi di formazione: non si sa se chi esce troverà un posto di lavoro. L’importante è che trovi un posto di lavoro chi resta dentro.

PARLIAMO DI SCUOLA.

Secondo i dati Istat, oltre il 20% delle scuole italiane sono private e dei 9 milioni di studenti italiani almeno uno su dieci frequenta un istituto privato. In Campania le scuole non statali riconosciute sono oltre 2 mila: la maggioranza sono istituti per l'infanzia o elementari, ma nel corso degli ultimi anni si sono moltiplicati i licei e gli istituti tecnici. Con la legge del 2000 le scuole paritarie sono state equiparate in tutto e per tutto alle scuole pubbliche e ricevono sussidi e finanziamenti dallo Stato (la legge di bilancio 2008 ha stanziato oltre 530 milioni di euro a favore delle scuole private per l'anno 2008/2009). Ma, a differenza degli istituti pubblici, le scuole paritarie non assumono gli insegnanti prendendo in considerazione le graduatorie nazionali e provinciali, ma contrattando con il docente compenso e condizioni lavorative. L'unico obbligo che le scuole paritarie hanno è quello di assumere insegnanti che hanno superato il concorso di abilitazione all'insegnamento. Per tanti giovani alle prime armi che vivono nell'Italia meridionale è davvero difficile ottenere una supplenza in una scuola pubblica a causa del gran numero di insegnanti presenti nelle graduatorie provinciali: proprio per questo si rivolgono alle scuole paritarie. Tanti istituti paritari propongono ai docenti il medesimo accordo: punteggio annuale in cambio di lavoro gratis o sottopagato.

L’ultimo scandalo della scuola si chiama Supplentopoli. Ogni anno 150 insegnanti accettano l’incarico e poi dicono di essere in maternità. E così la supplente dovrà essere sostituita da un’altra, sperando che anche quest’ultima non si giochi la carta della dolce attesa. Un meccanismo perverso in vigore solo in Italia, che comporta allo Stato un insostenibile spreco di denaro. Questo a sentire le testimonianze dell’Andis, l’Associazione dei dirigenti scolastici. I dati in possesso dell’organizzazione che raggruppa i presidi sono emblematici: ogni anno oltre mille tra supplenti, precari e fuori ruolo fanno ricorso ad aspettative di maternità e congedi parentali. La legge lo permette. E chi ne fa ricorso è pienamente in regola.

Un altro esempio? Per un posto vengono pagati cinque docenti mentre per sostituire un insegnante si arriva a fare 574 telefonate.

Tra telefonate e telegrammi di convocazione (obbligatori per legge), la scuola italiana spende 50-60 milioni di euro l’anno (Roma guida la classifica con 2 milioni l’anno), secondo uno studio della rivista Tuttoscuola la spesa complessiva sarebbe però addirittura di 110 milioni. Una mostruosità normativa di cui beneficiano, con modalità diverse, tutte le figure professionali impegnate nel mondo della scuola la cui gestione è regolamentata attraverso le graduatorie. Parliamo dell’esercito più numeroso nell’ambito del pubblico impiego: nel reparto istruzione lavorano infatti un milione e 300mila persone che negli ultimi 10 anni hanno determinato l’aumento del 30% dei costi, portando la spesa complessiva da 33 a 43 miliardi di euro.

Fin qui il malcostume. Poi ci sono i reati da codice penale. Come lo scandalo della graduatorie truccate a Napoli con 60 professori denunciati. Punteggi ritoccati da pirati del web in cambio di tariffe tra i 100 e i 300 euro. Un tariffario a misura dei furbetti delle supplenze che presuppone la presenza di una talpa all’interno del Provveditorato agli studi di Napoli.

PARLIAMO DELL’ITALIA DELLA DISCRIMINAZIONE SCOLASTICA.

Secondo uno studio di Bankitalia è allarme per l'abbandono scolastico. "Al Sud uno studente su 4 si ritira dopo la terza media". L'Italia è sopra la media UE (15%) per l'abbandono scolastico: 20% con punte del 25% nel mezzogiorno e nelle isole. A pesare sono l'ambiente familiare e l'offerta formativa (strutture e sistema scolastico). I dati emergono dallo studio "L'economia delle regioni italiane".

Secondo i dati della rilevazione sulle forze di lavoro, spiega Bankitalia, in Italia già a quindici anni quasi il 13% dei giovani è fuori dal sistema scolastico, o ha accumulato un ritardo. Il 3,7% dei quindicenni abbandona il sistema scolastico dopo aver conseguito l'obbligo, lo 0,8% senza aver completato la media inferiore: percentuali che crescono nel Sud Italia rispettivamente all'1,1% e al 5,1% e diminuiscono sensibilmente nelle regioni del Centro a 0,4% e 0,9%.

A pesare sull'irregolarità della frequenza scolastica degli alunni italiani sono: l'ambiente familiare e le caratteristiche dell'offerta formativa locale. Avere i genitori laureati piuttosto che con la sola licenza media - spiega Bankitalia - allontanerebbe di circa 10 volte la probabilità di essere in ritardo o di abbandonare gli studi: purtroppo, proprio nel Mezzogiorno la quota della popolazione tra 35 e 55 anni, verosimilmente i genitori dei quindicenni attuali, che ha la sola licenza di terza media, è pari al 57%, oltre tredici punti percentuali in più rispetto al Centro Nord.

Inoltre, la presenza del tempo prolungato nella media inferiore e migliori infrastrutture ridurrebbero la dispersione scolastica e, anche in questo caso, secondo i dati dell'anagrafe sull'edilizia scolastica nelle regioni meridionali le percentuali di edifici impropriamente adattati a uso scolastico e di scuole con infrastrutture e impianti igienico-sanitari scadenti sono superiori a quelle del Centro Nord.

Eclatante è quanto emerge da un altro studio, sempre della Banca d’Italia: “in Italia, più si è ricchi, più si è bravi”. Questo dice lo studio dalla Banca d'Italia sui divari territoriali e familiari: i ragazzi di provenienza socio-economica svantaggiata sono meno bravi. Le differenze si attenuerebbero alla media superiore, ma i più abbienti sono portati a scegliere gli istituti migliori. Insomma svantaggiati dalla nascita. Un divario che incide su quello, più generale, tra Nord e Sud, e che si attenua solo alle scuole medie superiori. Lì a contare è soprattutto la scelta dell'istituto: sono più bravi gli studenti dei licei, meno quelli degli istituti tecnici (frequentati peraltro dal 70% degli studenti italiani). Ma anche in questo la provenienza socio-economica dello studente incide pesantemente, perché sono soprattutto i ragazzi che vengono da famiglie agiate a essere spinti dalla famiglia verso i licei. Queste conclusioni derivano da uno studio pubblicato dalla Banca d'Italia, condotto da Pasqualino Montanaro, che mette a confronto le principali indagini internazionali sulla scuola, da quella dell'Ocse (Pisa) alla Timss e Invalsi.

Dall'analisi incrociata delle rilevazioni, spiega Montanaro, del Nucleo per la ricerca economica della sede di Ancona della Banca d'Italia, emerge che "il livello di proficiency nel Mezzogiorno è significativamente più basso rispetto agli standard internazionali e a quelli delle regioni settentrionali, in tutti gli ambiti di valutazione considerati (comprensione del testo, matematica, scienze, problem solving), "il grado di dispersione dei punteggi è più elevato al Sud" (cioè al Sud sono molto significative le differenze), "i divari territoriali tendono a crescere durante il percorso scolastico".

Un quadro desolante, nel quale incide pesantemente la situazione economica delle famiglie. "E' ampiamente riconosciuto - si legge nello studio - che le differenti condizioni sociali e culturali, già a partire dall'età prescolare, influiscono in maniera decisiva sulle abilità cognitive, sulla capacità di esprimere se stessa, di percepire i colori, di comprendere spazi e forme, di rappresentare fenomeni di natura quantitativa".

Gli svantaggi nell'apprendimento dei meno abbienti sono evidenti soprattutto nei primi anni di scuola. Per quanto riguarda la matematica, per esempio, "in media il punteggio ottenuto da uno studente con lo status sociale più elevato supera del 25% circa quello ottenuto da uno studente con lo status sociale più basso". Peraltro in generale gli studenti meridionali sono meno bravi anche quando possono beneficiare delle più favorevoli condizioni sociali, ma "il divario Nord-Sud è più ampio nelle classi sociali più basse e ridotto in quelle più elevate".

Andando però più avanti negli studi, pesa invece soprattutto la scelta del tipo di scuola. Tutte le indagini dimostrano che sono più elevati i rendimenti degli studenti dei licei, anche se "non è chiaro se essere iscritti a un liceo o frequentare comunque una buona scuola effettivamente determini, in maniera diretta, una migliore performance scolastica, o se al contrario questa sia una semplice correlazione spuria, dovuta al fatto che gli studenti migliori tendono, per varie ragioni, a frequentare le scuole migliori, soprattutto se si tratta di licei".

Ma per gli studenti adolescenti la provenienza familiare pesa a quel punto nella scelta della scuola: "In base ai dati “Ocse (Pisa)”, la probabilità di uno studente appartenente alla classe sociale più elevata di essere iscritto a un liceo è sette volte più alta di quella di uno studente con le più sfavorevoli condizioni familiari. Tali evidenze sono ricorrenti in tutte le aree geografiche".

In altre parole, quando uno studente proveniente da una famiglia povera potrebbe finalmente lasciarsi alle spalle lo svantaggio che gli deriva dalle condizioni sociali, scegliendo un liceo, invece viene spinto a scegliere una scuola professionale, perpetuando così il suo deficit di apprendimento.

Una causa della discriminazione è il “caro libri”. Una forma di “comparaggio” scolastico impunito, collusione tra editori e professori, che porta a svenare i genitori meno abbienti.

L’ultima «trovata» è quella legata al peso che rovina la spina dorsale. La Divina commedia è troppo pesante? Facciamo tre volumi al posto di uno. Il testo di storia pure? Si divide in due. I libri si moltiplicano, il contenuto rimane identico ma il prezzo complessivo lievita. Per il benessere degli studenti e il malessere dei genitori che si adeguano a denti stretti.

Le furbate degli editori sono talmente disparate che non basterebbe un libro - per restare in tema - a contenerle. Una cosa da far indignare i docenti più seri. «In effetti cambiano le briciole oppure l’ordine degli esercizi o dei capitoli – spiega Giovanni Petrone, insegnante di matematica di vecchio stampo –. Ma io dico ai ragazzi di non lasciarsi incantare. Voglio che prendano i libri usati, magari quelli del fratello maggiore, tanto la matematica non cambia. Non devono lasciarsi ingannare dalla copertina nuova. Molto però dipende da noi. È solo una questione di buona volontà. Purtroppo molti colleghi preferiscono le ultime edizioni per fare meno fatica ad assegnare gli esercizi».

Petrone non sarà certamente l’unico ad essere morigerato. Ma moltissimi professori stanno al gioco. E accettano volentieri la consultazione dei testi nuovi da questa o quella casa editrice. Così, verso la fine dell’anno, a dicembre – gennaio, ogni professore che intende cambiare il testo adottato viene subissato di testi patinati. Sei, sette per ogni materia, quando va bene. Trenta o quaranta se il docente insegna italiano e storia. Già perché accanto a un libro di grammatica, c’è quello di antologia, c’è il vocabolario, la narrativa e chi ne ha più ne metta.

Non è tutto. I libri che vengono spediti in visione, spesso e volentieri rimangono nel cassetto del professore o finiscono nel calderone della segreteria scolastica, che poi non sa che farsene di tutti i testi piovuti dalle case editrici. Roba da farsi una biblioteca da offrire in comodato agli studenti meno abbienti. E che dire degli incentivi extra? Cosa da poco, certo. Ma qualche dirigente ammette che l’enciclopedia in regalo non si nega a nessuno. Non si può parlare di una vera e propria «Libropoli» ma lo sperpero di testi regalati o dati in visione e mai ritirati ricade sulle spese complessive di ogni azienda che poi si rivale sui prezzi di copertina. E sulle famiglie.

Serve oculatezza nella scelta dei testi, dunque. Lo sa bene Marco Bevilacqua, preside dell’Its Ambrosoli di Roma. «L’anno scorso si è presentata la Guardia di finanza nella nostra scuola per controllare se cambiavamo i testi annualmente e ci hanno consigliato di indirizzare i nostri professori a non sostituire i libri come fossero noccioline». Un suggerimento inappropriato per docenti che dovrebbero maneggiare il sapere meglio di chiunque altro. Eppure, molti di loro si fanno abbagliare dall’apparenza.

Altra fonte di discriminazione è il “caro affitti” per gli alloggi degli studenti universitari fuori sede.

La scelta, spesso obbligata, porta a preferire indirizzi di studio ed Atenei con sedi in altre regioni.

Le borse di studio e gli alloggi studenteschi, mal si conciliano con l’iter accademico previsto per la loro fruizione. Un lavoro per il sostentamento dei più poveri impedisce la celerità del profitto e per gli effetti si perde il beneficio. Risultato: o si abbandonano gli studi o si pagano affitti impossibili e a nero per singoli posti letto.

Ogni anno sono messe a disposizione degli studenti residenze da parte delle università, delle aziende regionali e degli istituti religiosi, variabili a seconda della disponibilità. Stando ai dati del Ministero dell’Istruzione, le regioni con il più alto numero di fuorisede sono Lombardia (circa 94 mila su 200 mila totali), Lazio (circa 75 mila su 185 mila), Emilia-Romagna (circa 80 mila su 121 mila) e Veneto (circa 59 mila su 92 mila). In tutti questi casi il numero di posti letto totali messi a disposizione è nettamente inferiore a quello di chi studia fuori dalla propria regione d’origine: sono circa 10 mila per la Lombardia, circa 6.000 per l’Emilia-Romagna, 4.200 circa per il Lazio e 5.030 per il Veneto. Ci sono, poi, regioni come Valle d’Aosta e Molise, in cui non c’è alcun posto letto messo a disposizione. In nessuna delle altre regioni, inoltre, i posti letto sono sufficienti a soddisfare la domanda dei fuori sede. La conseguenza inevitabile è che si ricorre sempre più alle offerte di alloggi privati. E a riproporsi è il vecchio problema di affitti in nero e sempre più alti.

Qual è la situazione nelle regioni italiane a riguardo? In base a una ricognizione sui siti dedicati agli studenti, al vertice della classifica delle città più care c’è Roma, seguita da Milano e Firenze. Se nella Capitale il costo medio di una stanza singola è di 500 euro, variabile a seconda della zona e della metratura, a Milano e Firenze la media è di 400 euro. A seguire Bologna, che, con un costo medio (sempre in riferimento alla singola) di 350 euro, in aumento rispetto allo scorso anno, è la città universitaria più cara dell’Emilia-Romagna: città come Parma e Modena si attestano sui 300 euro. Partendo dal Nord si riscontra questa cifra anche ad Aosta, Torino, Genova (meno cara è Savona, con una media di 250 euro a singola), e, verso est, Verona e Venezia, mentre leggermente più economiche per chi vuole studiare sono Padova (costo medio singola 250 euro) e, in Friuli, Udine e Trieste, dove per avere una stanza singola si pagano mediamente 200-220 euro.

Se Firenze è la città universitaria più cara dopo Roma e Milano, le altre città toscane non si rivelano comunque convenienti: a Pisa e Siena il prezzo medio di una singola è di 300 euro. Più economiche sono Umbria, Marche, Abruzzo e Molise: per studiare negli atenei di Perugia, Ancona, Camerino, l’Aquila, Chieti e Campobasso occorrono mediamente 200 euro per una stanza singola. Più abbordabili si rivelano, infine, le città meridionali:se affitti un pò più alti si riscontrano a Napoli, dove il prezzo medio di una singola è di 300 euro, per le altre città si oscilla tra i 200 euro di Bari, Potenza, Cosenza, Catanzaro, Reggio Calabria e delle città universitarie delle isole (Messina, Catania, Palermo, Enna, Cagliari) e i 150 euro di Foggia e Lecce.

PARLIAMO DELL'ITALIA DEI LAUREATI CHE NON SANNO SCRIVERE.

Dirimere un'ambiguità lessicale è un problema per un laureato su cinque.

A dir la verità, anche solo comprendere la frase che avete appena letto è un problema per un laureato su cinque. Termini come dirimere, duttile, faceto, proroga si trovano comunemente sui giornali, ma per molti italiani con pergamena appesa al muro sono parole opache.

Analfabeti con la laurea. Non è un paradosso. E nessuno s'offenda: ci sono riscontri scientifici. Il report del ramo italiano dell'indagine internazionale All-Ocse (Adult Literacy and Life Skill) non lascia spazio a dubbi: 21 laureati su cento non riescono ad andare oltre il livello elementare di decifrazione di una pagina scritta (il bugiardino di un medicinale, le istruzioni di un elettrodomestico).

E non sanno produrre un testo minimamente complesso (una relazione, un referto medico, ma anche una banale lettera al capo condominio), che sia comprensibile e corretto. Una minoranza? Sì: un laureato italiano su due, per fortuna, raggiunge il quinto e massimo livello. Ma è una minoranza terribilmente cospicua, anche se si maschera bene.

Analfabetismo: anche questa parola sembrava scomparsa dal lessico, ma per esaurimento di funzione. Falsa impressione, perché di italiani che non sanno leggere né scrivere se ne contavano ancora, al censimento 2001, quasi ottocentomila. Se aggiungiamo gli italiani senza neanche un pezzo di carta, neppure la licenza elementare, arriviamo a sei milioni, con allarmanti quote di uno su dieci nelle regioni meridionali. Nobilmente contrastato ai livelli più bassi della scala del sapere, però, ecco che l'analfabetismo riappare dove meno te l'aspetti: ai vertici.

Gli studiosi, è vero, preferiscono chiamarlo illetteratismo: non si tratta infatti dell'incapacità brutale di compitare l'abicì, di decifrare una singola parola; ma della forte difficoltà a comunicare efficacemente e comprensibilmente con gli altri attraverso la scrittura. Ma non è proprio questo l'analfabetismo più minaccioso del terzo millennio?

Quanti del nostro già magro 8,8% di laureati (la media dei paesi Ocse è del 15%) leggono ogni giorno qualcosa di più delle réclame e delle didascalie della tivù? Quanti invece sono prigionieri più o meno consapevoli di quella che Italo Calvino chiamò l'antilingua? Non saper scrivere nasconde il non saper leggere. Sette laureati su cento non leggono mai (e sono quelli che hanno il coraggio di dichiararlo all'Istat: mancano quelli che se ne vergognano). Altri sette leggono solo l'indispensabile per il lavoro: e siamo già vicini al fatidico uno su cinque. Ma andiamo avanti: uno su tre possiede meno di cento libri, praticamente solo i suoi vecchi testi scolastici. Uno su cinque non ha in casa un'enciclopedia. Quasi nessuno (73 %) va in biblioteca, e quando ci va, raramente prende libri in prestito. "Manca il tempo", "sono troppo stanco", le scuse più comuni. Ma ci sono anche quelli che non accampano giustificazioni imbarazzate, anzi rivendicano il loro illetteratismo come atteggiamento moderno e aggiornato: "leggere oggi non serve", "è un medium lento", "preferisco altre forme di comunicazione sociale".

Protestano, e poi si sfracellano contro il muro dell'esame. Sugli esiti dell'idiosincrasia per la lettura, agenzie private di tutoraggio hanno costruito imperi aziendali, come il Cepu, diecimila studenti l'anno. "Ci chiedono di aiutarli a passare un esame", racconta il responsabile marketing, "ma scopriamo quasi sempre che alla radice c'è la difficoltà o la paura di affrontare testi scritti. Escono da scuole superiori abituati a libri di testo ancora simili a quelli delle elementari, con testi spezzettati, già schematizzati, con tante figure e specchietti: di fronte al terribile "libro bianco", fatto solo di pagine di scrittura continua, restano terrorizzati".

Ma se avessero ragione loro? Perché alla fine si scopre che il laureato analfabeta non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi quattro colleghi più letterati. le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base. E non perché non si accorgano delle deficienze dei loro nuovi assunti.

"Non c'è alcuna sanzione sociale verso l'analfabetismo con laurea", commenta con sconforto Tullio De Mauro, il padre degli studi linguistici italiani. Forse perché non si riconoscono immediatamente, si mascherano bene da alfabetizzati. "Fino a cinquant'anni fa l'incompetenza linguistica era palese: otto italiani su dieci usavano ancora il dialetto. Oggi il 95 per cento degli italiani parla italiano. Ma che italiano è? Solo in apparenza parliamo tutti la stessa lingua. Quando si prende in mano una penna, però, carta canta, e le stonature si sentono". Non è una questione di stile: l'analfabetismo laureato può fare danni concreti. Il paziente che legge sulla sua prescrizione medica "una pillola per tre giorni", alla fine del terzo giorno avrà preso tre pillole o una sola?

PARLIAMO DEI PROFESSORI CHE SANNO MENO DEGLI ALLIEVI.

Usate le domande che l'Ocse aveva rivolto agli studenti. Solo il 36% ha saputo spiegare perché lievita la pasta. L'indagine Pisa - Ocse che ha visto i nostri quindicenni piazzarsi agli ultimi posti nella graduatoria internazionale relativa alla cultura scientifica, non risparmia neppure i professori. Gli stessi test sono stati infatti proposti dal settimanale “Panorama” a un campione di 100 docenti di Scienze delle medie e superiori con risultati non molto diversi. Se la maggior parte dei nostri quindicenni non ha saputo rispondere alla domanda: perché si alternano giorno e notte, non pochi insegnanti di Scienze si sono trovati in difficoltà di fronte alla domanda: «Perché la fermentazione fa lievitare la pasta?». Pisa - Ocse, la vendetta: ovvero i professori di Scienze non sempre sanno rispondere alle domande destinate ai propri allievi quindicenni. Il settimanale ha selezionato cinque test dal questionario Pisa - Ocse, che ha coinvolto un campione di oltre 400 mila studenti quindicenni di 57 Paesi e li ha proposti ai professori, che avrebbero dovuto mettere i ragazzi in condizione di rispondere ai quesiti. I risultati sono stati sorprendenti. Per esempio, alla domanda «Perché la fermentazione fa lievitare la pasta? », appunto, ha risposto correttamente, scegliendo l'unica opzione giusta sulle quattro proposte, solo il 36 per cento degli intervistati: «La pasta lievita perché si produce un gas, il biossido di carbonio ». Per tre domande le percentuali di risposte esatte sono state inferiori al 40 per cento. Inoltre, in due casi su cinque le percentuali di risposte esatte dei docenti delle medie inferiori sono state più alte di quelle dei loro colleghi delle superiori.

PARLIAMO DELLE TRACCE E DEI TEST MINISTERIALI SBAGLIATI PER GLI ESAMI DI STATO.

"C'è un errore nel test di medicina". E il ministero ammette tutto.

Sul web è diventato il caso della domanda 54. I siti dedicati agli studenti ne parlano da giorni. Un quesito presente all'interno del test d'ingresso a medicina la cui soluzione fornita dal ministero suscita critiche e osservazioni. E il ministero, in tarda serata, ammette l'errore, pubblicando le risposte giuste. C'è stato anche un problema per la prova di architettura.

Al centro delle proteste degli studenti, le domande 54 e 72 del test d'ingresso a medicina svoltosi il 3 settembre 2009. Nella 54 agli aspiranti medici era stato richiesto di completare la definizione di anemia falciforme. Sui risultati del test, pubblicati dal MIUR il 7 settembre, la risposta che viene indicata come corretta è la seguente: "malattia genetica causata da una mutazione puntiforme autosomica che determina la sostituzione della valina con l'acido glutammico in una catena beta dell'emoglobina". Falso. La risposta corretta è un'altra, indicata come errata dal ministero. E cioè: "malattia genetica causata da una mutazione puntiforme autosomica che determina la sostituzione dell'acido glutammico con la valina". Un'inversione di termini che potrebbe causare la fine di un sogno per molti aspiranti medici. L'errore del test viene subito notato da studenti e genitori che affidano al web e alla lettere ai giornali le loro osservazioni. Invitano il ministero ad annullare la domanda. Molti, preoccupati, raccontano di di aver chiamato il Cineca - il Consorzio Interuniversitario a cui il ministero affida l'elaborazione dati - che ha confermato di aver ricevuto parecchie segnalazioni: il ministero si è riunito per deliberare una decisione. Ma è improbabile che, ammesso che sia accertato lo sbaglio, la prova debba essere ripetuta. Già in passato c'erano stati casi di errori all'interno dei test d'ammissione, che non comportarono l'invalidazione dei test ma solo l'esclusione delle domande errate dal computo dei risultati.

La domanda annullata nel 2007. Questa la prima domanda resa nulla nel 2007: "Un aereo viaggia a 800 km/ora, in assenza di vento, in direzione Est per 400 km poi ritorna indietro. Il tempo impiegato per realizzare l’intero percorso è quindi un’ora. Quando lungo il tragitto soffia un vento diretto verso Ovest (o verso Est) pari a 100 km/ora costante per tutto il percorso, il tempo di percorrenza (andata e ritorno) sarà: a) un’ora b) più di un’ora c) meno di un’ora d) più di un’ora se il vento spira da Ovest e) più di un’ora se il vento spira da Est. "Il quesito è annullato in quanto sono possibili più risposte esatte tra le opzioni indicate", spiegarono dal ministero. Il secondo quesito invalidato, la domanda 79, invece riguardava una complessa equazione: la domanda chiedeva qual era "l’insieme di tutte le sue soluzioni reali". L’annullamento è stato reso necessario perché "è omessa - spiegò il ministero - l’indicazione della risposta esatta in quanto da un’ulteriore verifica operata dalla commissione istituita per la predisposizione dei quesiti, è risultato che nessuna delle opzioni indicate può essere considerata corretta: il quesito pertanto è annullato".

Stessa impreparazione da parte degli esaminatori è per le tracce agli esami di maturità. A un certo punto è sembrata la commedia degli equivoci. Autore primo della commedia è stato certamente il Ministero, con l’incredibile errore che ormai tutti sanno: la poesia di Montale “Ripenso il tuo sorriso” non era dedicata a una donna, ed erano quindi fuori luogo, se non proprio ridicole, le domande su un’inesistente, almeno in quel caso, “figura femminile”.

Ma bisogna stare attenti anche a correggere. Un bell’articolo su “Corriere.it” sbeffeggiava i “sapienti” del Ministero, perché la poesia di Montale è dedicata a… Angelo Barile. Angelo Barile? Certo, proprio lui, l’amico cui Montale mandò in prima lettura il manoscritto dei suoi “Rottami”, prima versione degli “Ossi di seppia”.

E la dedica “a K” in cima alla poesia che ci sta a fare, allora? La soluzione ormai la sappiamo tutti: la poesia non era dedicata né a una donna, né a Barile, bensì al ballerino russo Boris Kniaseff.

Al Ministero ci sono sicuramente degli ignoranti: ma un bel bagno di umiltà non fa mai male a nessuno.

Dopo la 'gaffe' su Montale altri due errori nelle prove per la Maturità, in quella di greco ed in quella di inglese. A segnalarle il sito "Parmaok.it", che sottolinea nel testo per la versione di greco la mancanza di una parola, essenziale per la traduzione, ed in quello per la prova di inglese un errore nella reggenza del verbo 'to help'.

Non è la prima volta che i testi forniti dal Ministero dell'Istruzione per gli esami di maturità contengono degli "sbagli", a volte "errori tecnici", a volte "problemi di interpretazione", ma anche vere e proprie disattenzioni. 

Poco dopo la fine delle prove arriva la notizia del primo pasticcio della Maturità 2009. Colpisce il liceo musicale. "La prova di analisi di un brano musicale fornita ai maturandi dal Ministero è incompleta, mancano le ultime tre pagine, che corrispondono alla 'ripresa' (definizione della forma sonata) e, nella traccia, viene attribuita come sonata a F.J. Haydn anzichè a L.v.Beethoven. Si tratta infatti dell'opera 14 n.2 Sol maggiore di L.v. Beethoven, come correttamente riportato nel frontespizio del testo, ma non nella traccia predisposta dal Ministero", dichiara Mimmo Pantaleo, segratario generale della Flc-Cgil. Il ministero incolpa un consulente esterno, Bruno Carioti del Conservatorio dell'Aquila.

Se nel 2008 è il caso del commento alla poesia di Montale "Ripenso al tuo sorriso", già nell'edizione 2007 della maturità ci fu la segnalazione di un problema nella traccia dello scritto di italiano che riguardava Dante. In particolare, il presidente della Società Dantesca Italiana, Guglielmo Gorni spiegò che l'errore consisteva nell'aver attribuito al domenicano San Tommaso anche l'elogio di San Domenico di Guzman, quando invece ciò avviene nel canto successivo (il XII) per opera del vescovo francescano Bonaventura di Bagnoregio.

Altro errore nel 2005, quando fu segnalato un errore in geografia nella seconda prova scritta dell'esame di maturità, quella riservata ai tecnici della grafica pubblicitaria, dove Urbino diventa una città dell'Umbria anziché delle Marche. La prova scritta consisteva nel realizzare un manifesto pubblicitario e un depliant per un Festival internazionale del teatro di strada da tenere a Urbino. Nella traccia del Ministero si indicano fra gli enti patrocinatori del festival l'Assessorato alla Cultura del Comune di Urbino e la Regione Umbria.

Nel 2004 una lettera sbagliata della prova di greco rischiò di innescare un ricorso nazionale.

Nel 2002 doppietta di nuovo in italiano: una poesia di Saba ha un testo traballante preso a caso da un'antologia, mentre a una lirica di Sbarbaro viene affibbiato un titolo inesistente. È solo colpa del nostro tempo frettoloso?

E nel 1997 un tema proposto agli istituti d'arte attribuiva «L'allegoria del buono e del cattivo governo » a Simone Martini, quando era naturalmente di Ambrogio Lorenzetti.

Un altro errore risale al 1993, per la prova dedicata agli studenti in lingua slovena: temi furono tradotti in un linguaggio incomprensibile ed errato. Alcuni esempi: "diritti inviolabili" diventarono "diritti violati"; "paventarsi" fu cambiato in "spaventarsi". 

PARLIAMO DEGLI ESAMI UNIVERSITARI.

Esami e tesi di laurea pagati in natura o con mazzette. Per il 30 e lode alcune studentesse pronte a tutto. Il 30 e lode ottenuto grazie al libro del professore tenuto sotto braccio. E’ anche questa l’Italia universitaria.

Arrivarci però a quelli esami, se per la Facoltà c’è il numero chiuso.

Niente paura, c’è il trucco!!

Questa volta nel registro degli indagati sono stati iscritti i nomi di 24 studenti che - secondo l'accusa - hanno ottenuto dall'esterno sui propri telefonini cellulari le risposte ai quesiti. A questi nomi si aggiungeranno presto quelli di altri 19 studenti, che hanno frequentato i corsi tenuti dal principale indagato, che in cambio di soldi, avrebbe assicurato ai ragazzi il superamento dei test. Il Rettore dell'Università di Bari, ha annullato il test di ingresso per l'accesso alle Facoltà di Medicina e Odontoiatria dell'Università di Bari. Intanto "fatti gravi che denotano un certo malcostume" sarebbero stati accertati dalla Procura di Bari nell'Università di Ancona nell'ambito delle indagini su presunte irregolarità compiute dalle matricole e da loro complici per superare i test di ammissione alle Facoltà a numero chiuso di Medicina e Odontoiatria nella città marchigiana. Anche il test di ingresso per l'accesso all’Università di Catanzaro è oggetto di indagine. Dalla documentazione raccolta dai militari della Guardia di Finanza di Bari emergerebbero nuovi spunti investigativi che farebbero pensare ad altre irregolarità compiute per accedere anche a altri corsi di laurea, come fisioterapia, sia nella città marchigiana sia in altre facoltà italiane.

PARLIAMO DEL PLAGIO ACCADEMICO.

I fili italiani sono sottili e tenaci: trovarli è possibile, tagliarli troppo faticoso. Cominciano dalle università. A differenza di quelle inglesi o francesi, sono sprovviste di software di rilevamento del plagio. Secondo la società Six Degrés, che ha condotto una ricerca su 2.000 atenei e istituti, il 50% delle tesi contengono più del 5% di similitudini da Internet. Traduzione: metà degli studenti copia. Alle superiori, l'84% delle tesine dell'ultimo anno sono del tutto o in parte copiate. Voi direte: segreto di Pulcinella. D'accordo: ma il plagio è vietato, talvolta è reato. In molti Paesi, Usa in testa, l'azione è giudicata grave e disonorevole. Uno studente sorpreso a copiare è punito severamente, talvolta espulso. Al liceo si copiava, ma si trattava di una soffiata o una sbirciata. Oggi si copia su scala industriale. Perché fare una ricerca se si può fare copia-incolla da Wikipedia?

All'università le colpe sono più gravi, e non nuove. Anche prima del Web le facoltà erano consapevoli della compravendita delle tesi: il ragazzotto ricco e pigro acquistava dal bravo studente, desideroso di guadagnare. Gli studi professionali d'Italia sono pieni di questi campioni (hanno appena alzato gli occhi dal giornale/ schermo, sperando che nessuno li abbia visti arrossire).

Tranquilli: niente prediche, in Italia sono fiato sprecato. Dico solo che esiste una regola (acquistare la tesi è vietato), da tutti ignorata.

PARLIAMO DEI CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI.

Riforma Gelmini, inefficace contro i concorsi accademici truccati, ma almeno utile contro parentopoli? Macchè!! Da “Il Messaggero” e dal “Il Corriere della Sera” un ampio resoconto.

Per qualcuno potrebbe essere l’ultimo colpo di coda di parentopoli. Per altri la continuazione di una saga inarrestabile che si tramanda di padre in figlio passando per i nipoti (rare volte spingendosi fino ai trisavoli). E’ successo, dunque a poche ore dalla verosimile approvazione da parte del Senato della legge Gelmini che prevede la proibizione di chiamate universitarie per parenti di dirigenti accademici fino al IV grado.

Università Roma 2, Ateneo di Tor Vergata, quello della spianata, che ospitò la Giornata mondiale della gioventù nel Giubileo 2000. La grande croce è sempre lì. Il rettore no, è cambiato. Da quasi due anni c’è Renato Lauro, 71 anni, preside della Facoltà di Medicina eletto con 727 preferenze. La stessa università che ha chiamato come professore associato alla cattedra di Malattie dell’apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani. Chi è? E’ la nuora del rettore. Il posto che arriva in zona Cesarini delimita un’epoca. A ridosso del Natale, sotto l’albero, riunisce suocera, figlia e nuora, in pratica mezza famiglia. Nella stessa facoltà e nello stesso dipartimento infatti c’è anche il marito della signora, nonché figlio del rettore, Davide Lauro, 41 anni, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre. E ci sarebbe anche il “nipote”, il dottor Alfonso Bellia, ricercatore di medicina interna. Ma il Magnifico nega quest’ultimo ramo di parentela. «Con il professor Bellia - chiarisce una volta per tutte - non c’è nessun legame neanche leggero di parentela, mi viene attribuito solo perché è siciliano come me». Già. In fatto di parentopoli non esiste una geografia. I legami travalicano qualsiasi confine, le nostre regioni, così diverse tra loro, nel malcostume etico si somigliano più o meno tutte. Renato Lauro, preside della facoltà di Medicina dal 1996 al 2008, oltre a essere rettore e anche direttore del dipartimento clinico di Medicina, quello nel quale lavorano i suoi congiunti, del Policlinico Tor Vergata. La nuora chiamata in cattedra in extremis. Come lo spiega? «Lei scherza? Sono concorsi regolarmente banditi nel 2008, quando io non ero ancora rettore. Inoltre, faccio notare che la legge Gelmini, non ancora approvata, non abolisce i professori, stabilisce solo che i ricercatori sono una qualifica ad esaurimento». «Per gli stessi bandi - continua il rettore - sono stati chiamati già una ventina di vincitori di concorso. Ma vincere non vuol dire prendere servizio visto che ci sono, come è noto, problemi di budget».

In altri punti la legge Gelmini potrebbe prestarsi ad interpretazioni. Su questo punto è chiara: prevede che nelle assunzioni per ordinario e associato siano esclusi i consanguinei dei professori appartenenti al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata. Di docenti ma anche di rettori, direttori generali e consiglieri di amministrazione. E fissa anche un limite per i rettori: potranno rimanere in carica un solo mandato, per un massimo di 6 anni. Nel caso di Tor Vergata, se approvata la legge, Renato Lauro potrebbe avere una proroga di 2 anni dell’incarico rettoriale e restare in carica dunque fino alla quasi venerabile età di 74 anni. Di lui si parlò come «lo zio» cui faceva riferimento nelle intercettazioni l’ex direttore dei Lavori pubblici Angelo Balducci finito in carcere per gli appalti del G8 alla Maddalena. Finito in pasto ai taccuini in quei giorni “caldi”, Lauro rispose: «E allora? Sì, sono io “lo zio” di cui si parla nelle intercettazioni, ma io sono un medico, non sono Provenzano». Durante un incontro con il corpo accademico dell’Ateneo romano, il rettore era stato duramente contestato. E già in passato era finito nell’elenco dei parentopolati per la chiamata del figlio Davide, vincitore, circa 4 anni fa, di un concorso di professore ordinario, non di Medicina interna, ma di tecnologie biomediche, poi passato in endocrinologia. Lauro commenta: «Mio figlio se n’era andato negli Usa a studiare e lì stava benissimo. Basta guardare il suo curriculum per mettere tutti a tacere. Stesso dicasi per gli altri professori associati che hanno vinto i concorsi del 2008: controllate, sono tutti figli di nessuno».

Vigilia dell'approvazione della riforma Gelmini, ultimi colpi di coda dei Baroni. Infatti ecco che spuntano nuove assunzioni e promozioni di parenti negli atenei La Sapienza e Tor Vergata. I protagonisti: i familiari dei rettori: Luigi Frati e Renato Lauro. A poche ore dall'approvazione del ddl università, che impone lo stop alle parentopoli (purtroppo solo attraverso un emendamento dell'ultim'ora) che vieta a padri, figli e parenti di stare negli stessi dipartimenti, sembrerebbe che nei due atenei capitolini si pensi di più a sistemare le famiglie che ai problemi dell'università.

SAPIENZA - Alla Sapienza, Giacomo, 36 anni appena, figlio del rettore Luigi Frati, sta passando da professore associato a quello di ordinario. Le procedure formali sono andate in porto il 19 novembre 2010. Appena in tempo per schivare l'approvazione del ddl. Giacomo Frati, dunque, sarà ordinario a Medicina, la stessa facoltà dove fino a poco tempo fa insegnava la madre e dove insegna anche la sorella Paola, ordinario, laureata in Giurisprudenza. Stessa facoltà di cui il padre è stato preside per anni. Stessa facoltà dove fino a poco tempo fa, prima di andare in pensione, insegnava Storia della medicina la madre di Giacomo e Paola. Cioè Luciana Rita Angeletti, professoressa ordinaria moglie del Magnifico Frati. Proprio lei che prima di approdare nell'università del marito per occuparsi di Storia della medicina, insegnava Lettere al liceo. Quindi ci fu un momento in cui Luigi, Rita, Giacomo e Paola lavoravano allo stesso indirizzo. Anzi festeggiavano il matrimonio di quest'ultima nell'aula Grande di Patologia Generale. Oggi tutta la famiglia Frati può fregiarsi dello straordinario titolo di ordinario.

TOR VERGATA - A Tor Vergata sarebbe stata assunta come professore associato alla cattedra di malattie dell'apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani, nuora del rettore Renato Lauro, 71 anni, ex preside di Medicina e Chirurgia (stesso percorso di Frati), che respinge le accuse spiegando che i concorsi sono stati banditi «nel 2008», molto prima delle norme anti-parentopoli della Gelmini. Il rettore ha anche il figlio Davide, 41 anni, ordinario di Endocrinologia. Come il padre prima di lui.

I PRECEDENTI - Prima di Lauro era stato Magnifico per 12 lunghi anni Alessandro Finazzi Agrò che si ritrovava nella solita facoltà di Medicina e Chirurgia del suo ateneo non solo il figlio Enrico (professore associato) ma anche i nipoti di primo grado Calogero Foti e Gaetano Gigante (entrambi professori di Medicina riabilitativa con tanto di cattedra e primariato al Policlinico Tor Vergata). Mentre l’altro figlio, Ettore, è ordinario alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, tanto per dare il quadretto familiare al completo. Il binomio padri-figli non è però un'innovazione introdotta dagli ultimi rettori. Alla Sapienza Frati ha illustri predecessori: Renato Guarini prima (con le figlie Maria Rosaria e Paola Paola, e il genero Luigi Stedile nei ruoli tecnici) e prima ancora Giuseppe D’Ascenzo (con il figlio Fabrizio) tenevano famiglia in università. Insomma una tradizione che si tramanda da generazioni rettoriali.

Su "Repubblica", su "L'Espresso", su "Panorama" e su altri organi di stampa non si fa che approfondire il fenomeno del nepotismo accademico. Di seguito il riporto delle varie inchieste. Il 13 Settembre 2010 a Palermo, un ragazzo, un cervello italiano, è volato dall'ultimo piano della facoltà di Filosofia. Si è suicidato. Aveva 27 anni, si chiamava Norman Zarcone, era un dottorando in Filosofia del linguaggio e, racconta il padre, da qualche tempo era particolarmente deluso, depresso: gli avevano fatto capire, senza mezzi termini, che per lui non c'era spazio nell'università italiana. Qualche mese prima un altro ragazzo, cinque anni più giovane, Gianmarco Daniele, aveva presentato a Bari, capitale del nepotismo accademico italiano, una tesi di laurea: "L'università pubblica italiana: qualità e omonimia tra i docenti", una ricerca nata per raccontare come le università italiane siano in mano a un gruppo di famiglie. E per documentare come esista un nesso scientifico tra nepotismo e il basso livello della didattica e della ricerca. Daniele ora è all'estero, con una borsa di studio europea. Ma davvero nell'università italiana non c'è spazio per questi talenti, solo per i parenti? Quali sono le grandi dinastie di casa nostra? E a due anni dalla "svolta anti-baroni" annunciata dal ministro Maria Stella Gelmini - che ora torna a invocarla per giustificare nuovi tagli - i baronati stanno davvero segnando il passo? O sono ancora loro a comandare?

LA TOP TEN

A Bari, nella facoltà di Economia, la stessa dove si è laureato Daniele, è cambiato poco. L'economista Roberto Perotti, italiano formatosi al Mit di Boston, in un saggio del 2008 "L'università truccata" (Einaudi) aveva indicato quello come il caso limite, "tanto incredibile da raccontare in tutto il mondo". A Economia 42 docenti su 176 hanno tra loro legami di parentele, il 25 per cento, record assoluto in Italia. I leader indiscussi a Bari e in Italia nella classifica delle famiglie restano così i Massari. Commercialisti affermati, con un passato nel Partito socialista di Craxi, in cattedra hanno almeno otto esponenti, tutti economisti. Uno di loro doveva essere anche in commissione durante la laurea di Daniele, peccato che quel giorno avesse un impegno. "Abbiamo vinto tutti concorsi regolarissimi", rispondono loro, quando vengono tirati in ballo. I capostipiti della dinastia sono i tre fratelli, Lanfranco, Gilberto e Giansiro, che hanno in mano il dipartimento di Studi aziendali e giusprivatistici e, seppur nell'ombra, l'intera facoltà. Le nuove leve sono invece Antonella (ordinaria a Lecce), Stefania, Fabrizio (tutti e tre figli di Lanfranco), Francesco Saverio e Manuela. A fare concorrenza ai Massari, in facoltà, c'è la famiglia Dell'Atti (6) e quella dell'ex rettore Girone, con cinque parenti in cattedra: ci sono Giovanni e la moglie Giulia Sallustio, ormai in pensione, il figlio Gianluca, la figlia Raffaella e il genero Francesco Campobasso. A Foggia conta ancora molto la dinastia dell'ex rettore, Antonio Muscio, secondo con 7 parenti nella top ten nazionale con la new entry Alessandro, assunto nell'ultimo giorno di rettorato del papà e nella sua stessa facoltà, Agraria. Nell'ateneo lavoravano anche mamma Aurelia Eroli (dirigente amministrativa, ora in pensione), la figlia Rossana, la nipote Eliana Eroli, il genero Ivan Cincione e la sorella Pamela. A Roma le grandi casate sono due: i Dolci e i Frati. Un figlio di Giovanni Dolci, uomo chiave dell'odontoiatria italiana, è Alessandro, ricercatore a Tor Vergata. La moglie, Alessandra Marino, è ricercatrice alla Sapienza. Dove lavora anche il genero di Dolci, Davide Sarzi Amedè, marito di Chiara, a sua volta odontoiatra al Bambin Gesù. Un altro figlio di Dolci, Federico, lavora a Tor Vergata, mentre Marco è ordinario a Chieti. Accanto a papà Frati invece c'è sua moglie Luciana Angeletti e sua figlia Paola (insegnano a medicina, ma non sono medici) e il figliolo Giacomo. Sempre molto forti le famiglie a Palermo, come aveva avuto modo di accorgersi Norman Zarcone. Il record è dei Gianguzza, cinque tra Scienze e Medicina. Ma le dinastie palermitane sono cento, sparse in tutte le facoltà, per un totale di 230 docenti "imparentati". Economia è il regno dei Fazio (Vincenzo, Gioacchino, Giorgio), a Giurisprudenza ci sono i Galasso (Alfredo, il figlio Gianfranco, la nuora Giuseppina Palmieri), a Lettere i Carapezza (i fratelli Attilio e Marco, ora associato, il cugino Paolo Emilio, suo figlio Francesco), a Ingegneria (18 famiglie, 38 parenti) i Sorbello o gli Inzerillo, a Matematica i Vetro (Pasquale, la moglie Cristina, il figlio Calogero), Agraria è nelle mani di 11 nuclei familiari. Coincidenze statistiche? Davvero è così nel resto d'Italia e in tutta Europa?

LA RICERCA

Secondo i dati raccolti nella tesi di Daniele, no. Lo studente ha infatti sviluppato un indice medio che misura la percentuale di omonimia in ogni facoltà di ogni ateneo e la percentuale media di omonimia in campioni della popolazione italiana in numero uguale ai docenti presenti nella facoltà osservata. Il risultato è incontrovertibile: in quasi tutti gli atenei l'indice di omonimia è più elevato rispetto alla media nazionale. Dieci volte di più a Catania, poco meno a Messina. Molto superiori alla media sono anche la Federico II di Napoli, Palermo, Bari, Caserta, Sassari e Cagliari. Le più virtuose sono invece Trento, Padova, il Politecnico di Torino, Verona, Milano Bicocca. Certo: non sempre avere lo stesso cognome significa essere parenti. Ma considerando anche che spesso molti familiari di professori hanno cognomi diversi, il dato è un'attendibile quantificazione statistica, per approssimazione, della diffusione del nepotismo. Anche perché gli atenei segnati con la penna rossa da Daniele sono proprio quelli al centro delle inchieste giornalistiche e della magistratura. "Il dato italiano - spiega Daniele - è in controtendenza con il resto d'Europa: quasi ovunque il tasso di omonimia nelle università è minore della media nazionale. Gli atenei tendono ad attrarre docenti da fuori, con cognomi diversi da quelli locali". Lo studio confronta poi i dati sulle omonimie con le valutazioni del Censis sulla qualità delle università. E in media gli atenei con più omonimi sono quelli che producono meno e viceversa. Ma davanti a questi numeri, la politica e il mondo accademico come si comportano? Sono nemici o complici delle grandi famiglie che hanno in mano l'università italiana?

LA RESISTENZA

"Ci prendono in giro", ha tuonato il presidente della conferenza dei Rettori, Enrico Decleva, la cui moglie Fernanda Caizzi è stata condannata in appello, e poi prescritta, per aver pilotato un concorso a Siena nel 2001. "Il qualunquismo sulle parentopoli è una giustificazione per uccidere l'università pubblica". La legge Gelmini approvata al Senato a luglio prevede un codice etico obbligatorio per tutti. Ma a Bari (il primo ateneo ad approvarlo, quattro anni fa) gli escamotage fanno scuola. Virginia Milone è stata assunta quando il padre si è impegnato a trasferirsi nella sede decentrata di Taranto. "Capirai: la nostra facoltà è diventata la valvola di sfogo dei parenti", dice il rappresentante degli studenti Francesco D'Eri. La docente Maria Luisa Fiorella, otorino come il padre, era stata respinta dalla facoltà (a scrutinio segreto). Ora, con un colpo di coda, i baroni vogliono tornare a votare: con l'alzata di mano. Il codice è servito solo a Farmacia: Giulia Camerino ha rinunciato al concorso da ricercatrice bandito nel dipartimento della madre. "Ho studiato tutta una vita, non volevo vivere con un bollino che non meritavo". "Se parliamo di baronati è tutto come prima - dice Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc della Cgil - E se le università non bandiscono concorsi, a pagare sono solo i ricercatori figli di nessuno". Il ministro Gelmini promette di trasformarne, con il nuovo piano di programmazione, diecimila in associato. Vuol cambiare la progressione di carriera con un contratto triennale, una successiva valutazione, e quindi un ulteriore contratto triennale per diventare associato. Ma per ora quelli che salgono di grado hanno sempre cognomi pesanti: a Cagliari è appena stato promosso ordinario Francesco Seatzu, figlio d'arte sardo. A valutarlo, in commissione, c'era Isabella Castangia, con la quale Seatzu ha lavorato gomito a gomito negli ultimi anni. "Tutto è come prima, più di prima", attacca Tommaso Gastaldi, professore di Statistica alla Sapienza, instancabile fustigatore del malcostume universitario. L'ultimo esempio, racconta, è la nomina di due docenti: lui aveva previsto i loro nomi già nel 2008. I soliti noti, nonostante i proclami del Governo, continuano a comandare. E non vogliono lasciare il campo ai giovani. Che si ribellano: l'Air, l'associazione italiana dei ricercatori, ha indetto una petizione per bloccare "l'eccessiva "discrezionalità" nei criteri di valutazione dei concorsi universitari".

GLI OVER 70

Molti docenti con più di 70 anni ricorrono ai tribunali amministrativi per posticipare il loro pensionamento, accelerato da una norma voluta dall'ex ministro Fabio Mussi. Vuole rimanere in servizio Emilio Trabucchi, ordinario di Chirurgia e presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Nipote dell'omonimo luminare della Biomedicina e deputato Dc morto nel 1984, Trabucchi ha due nipoti nell'università, Emilio Clementi, straordinario nel dipartimento di Scienze precliniche "Lita Vialba", e Francesco Clementi, ordinario di Farmacologia. "Abbiamo specializzazioni diverse. E in tutti i casi parlano le pubblicazioni", precisa Trabucchi. Ha scelto di ritirarsi, invece, Vittorio La Grutta, nobiltà accademica palermitana: medico il nonno, professore il padre, rettore il fratello (dell'ultima leva è rimasta la figlia, Sabina, psicologa). "Quando siamo saliti in cattedra, eravamo orfani. Ma ce l'abbiamo fatta lo stesso, senza favori". Diverso il destino dei Cannizzaro, altra famiglia storica siciliana. "Stanislao, il grande chimico, era un mio avo - racconta Gaspare, che ora è in pensione ma ha due figli docenti - ma io non sono figlio d'arte. In famiglia c'è sempre stato interesse per la scienza: è una tradizione". A Sassari resistono al pensionamento Mariotto Segni (il cui padre, Giovanni, oltre che presidente della Repubblica è stato rettore) e Giulio Cesare Canalis, il papà della showgirl Elisabetta, direttore della Clinica radiologica. Ma soprattutto l'ex rettore Alessandro Maida, tuttora potentissimo - spinge per bandire 52 concorsi - e ancora per un po' collega dei figli Carmelo e Ivana, piazzati nella sua facoltà, Medicina, del cognato, Giorgio Spanu, della moglie Maria Alessandra Sotgiu, e di altri nipoti e cugini. A Udine, dopo la fusione tra ospedale e università, sono stati nominati i nuovi direttori di dipartimenti. Nessuna sorpresa: i manager, ben pagati, sono tutti baroni di lungo corso come l'ultrasettantenne Fabrizio Bresadola, che ha piazzato il figlio Vittorio, la nuora Maria Grazia Marcellino e un altro figlio, Marco. Laureato in Filosofia ma non per questo escluso: insegna storia della Medicina.

Quattro pronostici azzeccati sui primi cinque concorsi per ricercatore universitario presi in esame da Andrea, il curatore del sito pronosticailricercatore.blogspot.com. Giovane studioso di matematica espatriato per carenza di cattedre (o forse di sponsor adeguati), Andrea ha lanciato il totoconcorsi delle selezioni accademiche svolte con il nuovo sistema. Naturalmente può trattarsi di una coincidenza, o forse i vincitori sono davvero i candidati più qualificati, pertanto non era difficile indovinarne i nomi. Sta di fatto che, esattamente come accadeva con il vecchio sistema, le selezioni accademiche non riservano sorprese.

Per sgombrare il campo da sospetti di combine e favoritismi, la riforma Gelmini del reclutamento universitario (la legge è la numero 1 del 2009) aveva introdotto il principio di casualità nella composizione delle commissioni universitarie. Ovvero, i quattro commissari esterni (due per i ricercatori) non vengono scelti più tramite elezione, ma con un sorteggio tra i primi dodici più votati (i primi sei tra i ricercatori).

Eppure anche in questo caso bisogna registrare un'anomalia. Nelle 1786 commissioni formate per sorteggio per i concorsi da ordinario e associato, si sono dimessi 342 commissari. In sostanza, uno ogni cinque commissioni, ed è stato perciò necessario procedere alla sostituzione. In passato le rinunce erano nell'ordine delle decine. Come mai si è arrivati a un tasso di morbilità che sfiora il 20%? Naturalmente perché prima le nomine venivano «concordate», e in qualche caso pilotate. Oggi, invece, è possibile ritrovarsi commissario anche contro la propria volontà. Ma c'è anche chi avanza un altro sospetto: «Una scuola forte, in cui ci sono gruppi di potere consolidati – spiega Giovanni Grasso, docente e animatore del blog Il Senso della misura - può anche condizionare le dimissioni, magari per favorire commissari più malleabili.

Esemplare è un articolo de “La Repubblica” su Messina. «Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell' Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato.

Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino.

Sono tanti con lo stesso nome. Troppi. E anche quando non si chiamano nello stesso modo, spesso sono parenti. Mogli, nipoti, cugini, cognati. Sono loro i padroni dell´Università.

Solo Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Palermo è davanti a Catania e a Messina, a La Sapienza di Roma, a Torino, a Milano e a Bari. E il luogo di provenienza dei docenti, come spiega il professore della Bocconi Roberto Perotti nel suo libro «L´università truccata» (Einaudi), è il principale metodo «per quantificare più sistematicamente, anche se indirettamente, il ruolo del nepotismo e delle connessioni nell´università italiana».

L´altro metodo consiste nello studiare la frequenza dell´omonimia.

Se in vita vostra avete solo collaborato a un lavoro «scientifico» di una pagina (una!) scritto con altre cinque persone e presentato a un convegno, ma mai pubblicato su una rivista internazionale, non disperate: potete sempre vincere un concorso universitario - dice Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera" - basta esser nati sotto la giusta congiunzione astrale. Come successe al «professor» Giovanni Lanteri. Che vinse appunto un posto da «associato» all'Università di Messina presentando 2 pubblicazioni. La prima («Studio preliminare sull'espressione immunoistochimica dell'Eritropoietina...») fu subito scartata dagli stessi commissari: «Non venga presa in considerazione ai fini della presente valutazione». La seconda («A new outbreak of photobacteriosis in Sicily») è finita nel fascicolo dell'inchiesta giudiziaria col giudizio del Ministero dell'Università consultato dai magistrati: «Priva di rigore metodologico. Non è possibile individuare il singolo apporto di ciascuno dei sei autori».

L'episodio, sconcertante, è uno dei tantissimi raccolti da Nino Luca, un giornalista del «Corriere.it», in un libro edito da Marsilio: «Parentopoli». Quando l'università è affare di famiglia. Un reportage durissimo e spassoso su uno degli aspetti più controversi dell'università, quello dei concorsi sospetti. Che troppo spesso finiscono col consegnare la cattedra a mogli, figli, cognati, amici e amici degli amici. Immaginiamo già l'obiezione: non ci son solo i baroni e le clientele e le apocalittiche classifiche internazionali! Giusto. È vero che la situazione «cambia drasticamente se si concentra l'analisi sulle singole aree disciplinari» (come ricorda Domenico Marinucci, direttore del Dipartimento di Matematica di Tor Vergata, 19° in Europa tra le eccellenze del settore e meno afflitto dalla cronica povertà di docenti stranieri), vero che nelle «hit parade» avulse la «Normale» è stabilmente nelle prime venti al mondo, vero che tanti ragazzi usciti dai nostri atenei vanno alla conquista del mondo.

Il reportage di Nino Luca, però, proprio per l'abbondanza di episodi così incredibili da risultare irresistibilmente comici, mette spavento. A partire dalla disinvolta e allegra spudoratezza con cui tanti rettori irridono alle perplessità di chi non riesce a capacitarsi di come, ad esempio, possano essere circondati da tanti parenti. Come Gennaro Ferrara, da 22 anni alla guida della Parthenope di Napoli: «Ma lei vuole fare un articolo serio o un articolo scherzoso? No, perché se lei vuole fare un articolo scherzoso, io ci sto». Come mai ha portato con sé all'università la seconda moglie, il di lei fratello, la figlia e i mariti delle due figlie? La risposta: «Se trattiamo “parentopoli” in termini scandalistici non va bene». Poveri figli, poi...«Devono dimostrare ogni giorno di valere...». Alcuni casi raccontati sono noti, come quello d'una torinese bocciata a un concorso che mesi fa si sfogò con «La Stampa» d'esser stata trombata, scusate il bisticcio, perché non aveva «più voluto compiacere sessualmente» il direttore della scuola di specializzazione. O quello della famiglia Massari che «porta l'Università di Bari nel Guinness dei primati» grazie al piazzamento nei dintorni della facoltà di economia di otto-Massari-otto: Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio, Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela e Stefania. O quello del preside di Medicina e rettore della «Sapienza» Luigi Frati («Parentopoli? Voi giornalisti sapete fare solo folclore!», ha urlato a Luca), un uomo tutto casa e ufficio dato che nella sua facoltà lavorano la moglie Luciana Angeletti, il figlio Giacomo e la figlia Paola, che nell'aula magna di Patologia ha fatto la festa di nozze. Altri casi sono meno conosciuti. Come quello di un recentissimo concorso per due posti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia della Bicocca di Milano con cinque soli concorrenti tra i quali tre figli (due vittoriosi, ovvio) di docenti della stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia. O quello della condanna a un anno di reclusione per abuso d'ufficio (pena sospesa) e a uno d'interdizione dai pubblici uffici (per aver danneggiato la professoressa Antonina Alberti durante un concorso) di Fernanda Caizzi Decleva, moglie del presidente in carica della Crui, la conferenza dei rettori.

La cosa più interessante del reportage, però, al di là della sottolineatura di certe bizzarrie (come quella che riguarda l'ex rettore di Bologna Fabio Roversi Monaco, che ha incassato 11 lauree honoris causa da vari atenei mondiali distribuendone in parallelo 160 a gente varia, da Madre Teresa di Calcutta a Valentino Rossi), sono le chiacchierate tra l'autore e alcuni dei protagonisti del mondo accademico italiano. Come quella con Augusto Preti, che diventò rettore a Brescia nel lontanissimo 1983, quando erano ancora vivi Garrincha e David Niven, e scherza: «Io sono il potere assoluto». O Pasquale Mistretta, il rettore di Cagliari, secondo il quale «molti figli illustri, proprio a causa dei complessi d'inferiorità verso i padri, a volte si sono smarriti: alcuni sono finiti anche nel tunnel della droga», quindi forse «quando un padre va in pensione, come un tempo succedeva in banca o all'Enel, è logico che ci sia un occhio di riguardo» per i figli. Il meglio, però, lo dà il professore Giuseppe Nicotina spiegando come il suo Ludovico avesse vinto in solitaria un concorso per ricercatore: «I figli dei docenti sono più bravi perché hanno tutta una "forma mentis" che si crea nell'ambito familiare tipico di noi professori». Insomma: è una questione quasi genetica. Se poi una spintarella aiuta la forma mentis...

Delle “Baronie universitarie” ne parlano tutti i giornali. Ne parla “La Repubblica”. Attilio Bolzoni, da Palermo a Bari, per parlare di palesità taciute dalla stampa pugliese. La stanza numero 24 è quella del professore Giovanni Tatarano, ordinario di Diritto privato. Suo figlio Marco insegna lì accanto, nella stanza numero 4. Sua figlia Maria Chiara riceve gli studenti proprio di fronte a papà, nella stanza numero 12. Tutta la famiglia in un corridoio. E non come quegli altri, che si sono sparpagliati invece su quattro piani e sopra cinque cattedre. Quegli altri che si chiamano Dell'Atti, tutti parenti, tutti docenti. Ma mai tanti e mai tanto esimi come i Massari, nove tra fratelli e nipoti e cugini, probabilmente la tribù accademica più numerosa d'Italia.

Benvenuti all'Università di Bari, benvenuti nella città dove in pochi intimi si spartiscono il sapere e il potere.

Buongiorno, dov'è la stanza del professore Girone? "Girone chi?", risponde spazientito il vecchio custode di Economia e Commercio. Girone Giovanni o Girone Raffaella che è sua figlia?, Girone Gianluca che è suo figlio o Girone Sallustio Giulia che è sua moglie? In ordine, stanza numero 3, stanza numero 26, stanza numero 58, stanza numero 13. E aggiunge, sempre più infastidito il custode: "Poi se vuole parlare con un altro parente stretto dei Girone, ci sarebbe pure il dottore Francesco Campobasso, associato di statistica, che è il marito della professoressa Raffaella, quinto piano, stanza numero 19".

Sono tutte qui le grandi famiglie accademiche, tutte super rappresentate a cominciare da Girone fino agli illustrissimi Massari, tre fratelli - Giansiro, Lamberto e Lanfranco - e poi un nugolo di figli ricercatori. Concorsi a regola d'arte, carte naturalmente sempre a posto come vuole la legge. Tanto a vincere sono soprattutto i parenti. Il Preside della facoltà allarga sconsolato le braccia: "A me i professori me li regalano le commissioni aggiudicatrici dei concorsi: cosa posso fare io? Io non sono mai stato nelle commissioni di esami".

Senza vergogna e senza pudore una dozzina di clan accademici, anno dopo anno, si sono impadroniti dell'Ateneo. "E' come se ci fosse stata una competizione tra alcuni professori a chi riusciva a collocare più membri del proprio gruppo familiare", commenta Nicola Colaianni, ex magistrato di Cassazione, il docente di Diritto Pubblico nominato dal Senato Accademico a presiedere una commissione d'inchiesta sui buchi neri dell'ateneo.

Ci sono i clan ad Economia e Commercio e ci sono quelli al Policlinico, altro girone infernale della cultura universitaria pugliese. Clan e ancora clan, lo scambio di promesse per un posto di ricercatore o di associato, i figli e i nipoti tutti specializzandi, sempre gli stessi nomi che occupano le stesse cattedre: i Ponzio a Lingue, i Foti al Politecnico e via via tutti gli altri. Fino alle grandi famiglie dei "professori" del Policlinico. Quasi tutti hanno trovato un dottorato di ricerca o un incarico nella stessa clinica del padre o dello zio o del cugino. A Psichiatria. A Ortopedia. A Neurochirurgia. A Endocrinologia. A Chirurgia Generale. Un elenco infinito. Con il 40 per cento circa dei figli dei primari nella stessa facoltà dei padri e, molto spesso, nella stessa struttura operativa. Con l'età dei "fortunati" parenti a volte molto sospetta, mediamente dieci anni più bassa di quella dei loro colleghi senza blasone.

Rettore, ma cos'è questa sua Università, una sola grande famiglia? Prima Giovanni Girone travolge con la sua mole un gruppo di giornalisti e si fa sfuggire un magnifico "vaff...", poi si scusa, minaccia la solita querela a chiunque parli o scriva dei suoi e degli altri parenti cattedratici, finalmente si placa e ci fa entrare nella sua stanza. Alle sue spalle due grandi foto, una di Padre Pio e l'altra di Aldo Moro. E alla fine Girone sospira: "I nomi non c'entrano, i concorsi o sono corretti o non sono corretti. E nel caso di mia moglie e dei miei figli è stato tutto regolarissimo: quel che conta è soltanto la produzione scientifica". Così parla il Magnifico Rettore dell'Università di Bari, l'Ateneo delle grandi tribù.

Lo stesso Attilio Bolzoni e sempre su “La Repubblica” denuncia una identica “parentopoli” a Palermo.

Una Cupola dotta si spartisce il sapere di Palermo. Sono cento le famiglie che hanno l'Università nelle loro mani, cento clan accademici fatti di figli che salgono in cattedra per diritto ereditario, fratelli e sorelle che succedono inevitabilmente ai loro padri e ai loro zii, nipoti e cugini immancabilmente primi al pubblico concorso. Regnano in ogni facoltà. Si riproducono nell'omertà.

Docenti parenti. Cinquantotto a Medicina. Ventuno a Giurisprudenza. Ventitré su appena centoventinove professori ad Agraria, la roccaforte dei patti di sangue.

Se l'Ateneo di Bari è diventato famoso in Italia per la compravendita di esami e per i test superati in cambio di sesso, quello di Palermo ha un primato assoluto che spiega come i "soliti noti" spadroneggino in ogni disciplina. Ordinari, associati, ricercatori: tutti legati uno all'altro da un intreccio parentale. In totale sono almeno 230. Cento famiglie.

Un altro record solo apparentemente innocuo di questa Università è per esempio il luogo di nascita dei suoi docenti: il 54,7 per cento sono palermitani. Più della metà sono di qui e due su tre vengono dalla provincia. Soltanto Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Ma il numero che svela fino in fondo la Palermo cattedratica è quell'altro sui legami familiari. Sono piccoli grandi eserciti dislocati dipartimento dopo dipartimento, materia per materia.

Somiglia tanto a un'occupazione militare, chi non fa parte di un clan resta quasi sempre fuori. E tutto nel rispetto della legge e delle procedure. La regola per conquistare un posto in università è solo una: non parlare. Qualcuno - è chiaro - si ritrova suo malgrado in questo elenco nonostante meriti e titoli. Per molti però quello che conta è solo il nome che portano.

Ci sono delle vere e proprie dinasty anche a Scienze, ad Architettura, a Economia. In ogni facoltà ci sono ceppi familiari dominanti, aule e laboratori di ricerca popolati solo da rampolli. Uno scandalo dopo l'altro soffocati nel silenzio.

A Medicina le famiglie che comandano sono 24. Si ramificano dappertutto. Una è la famiglia Cannizzaro. Il padre Giuseppe è ordinario di Scienze farmacologiche, nel suo dipartimento c'è anche il figlio Emanuele (ricercatore), la cognata Luisa Dusonchet (associata) e la figlia Carla che insegna a Farmacia. Ordinario di Scienze stomatologiche è Domenico Caradonna, i figli Carola e Luigi fanno i ricercatori nello stesso dipartimento. Ordinario di Scienze biochimiche è Giovanni Tesoriere, la moglie Renza Vento è a Biologia, la figlia Zeila è entrata in Architettura dove c'è anche suo marito Renzo Lecardane. Zeila è stata nominata a soli 37 anni come associata "per chiamata diretta", il marito - che da un anno era impiegato al Comune di Palermo dopo un'esperienza all'estero - ha conquistato un posto grazie alle norme sul "rientro dei cervelli". Altri nomi eccellenti di Medicina con parenti al seguito: i Salerno (Biopatologia), i Canziani (Neuropsichiatria infantile), i Ferrara (Otorinolaringoiatria), i Piccoli (Neuroscienze cliniche). Dopo i parenti ci sono naturalmente schiere di compari. Li piazzano per grazia ricevuta. A un favore fatto ne corrisponde sempre un altro. E' una catena interminabile, un giro chiuso. Le carte sono sempre a posto, i concorsi a prova di codice penale, un altro discorso è la decenza.

Come a Economia, il reame dei Fazio. Il capostipite è Vincenzo, ordinario di Scienze economiche, aziendali e finanziarie. Nello stesso suo dipartimento ci sono altri due Fazio: i suoi figli, Gioacchino associato e Giorgio ricercatore. Insegnano la stessa materia di papà. Il preside di Economia si chiama Carlo Dominici, suo figlio Gandolfo è anche lui in facoltà per istruire gli studenti in Scienze economiche. Poi ci sono i due Bavetta, Sebastiano ordinario e Carlo associato, figli di Giuseppe che lì a Economia c'era fino a qualche tempo fa. Ora è in pensione. Un ultimo caso di padre e figli di quella facoltà: il docente di economia aziendale Carlo Sorci e sua figlia Elisabetta - ricercatrice - che insegna Diritto commerciale.

A Giurisprudenza i docenti sono 137 e i nuclei familiari che dettano legge 10. Alfredo Galasso è ordinario di Diritto privato, suo figlio Gianfranco insegna la stessa materia, nello stesso dipartimento c'è anche Giuseppina Palmeri che è la moglie del fratello di Gianfranco. Anche Savino Mazzamuto (Diritto privato, ora trasferito a Roma 3) ha lasciato un posto in eredità a suo figlio Pierluigi. La figlia di Aurelio Anselmo, Alice, ha trovato sistemazione all'Università di Trapani: ricercatrice di Diritto pubblico. Salvatore Raimondi, nome pesante, amministrativista di grido ingaggiato per i suoi "pareri" anche dalla Regione siciliana, ha nel suo dipartimento di Diritto pubblico il figlio Luigi. E Rosalba Alessi, ordinario di Diritto privato - e soprattutto potente commissario degli enti economici siciliani, una carica che vale come tre assessorati importanti - ha nello stesso suo dipartimento il nipote Enrico Camilleri.

Ad Architettura c'è una grande famiglia, quella dei Milone. Il preside Angelo è in compagnia del fratello Mario (che è anche vicesindaco di Palermo e - attenzione - assessore ai rapporti con l'Università) e due figli che sono ricercatori: Daniele e Manuela. A Lettere, i Carapezza sono 4. I fratelli Attilio e Marco, il primo che insegna Scienze delle Antichità e il secondo Filosofia e teoria dei linguaggi. Il loro cugino Paolo Emilio è ordinario di Musicologia, suo figlio Francesco è ricercatore nello stesso dipartimento di Attilio. Poi ci sono i Buttita. Nino, il vecchio, antropologo, è stato preside di Lettere. Il figlio Ignazio insegna all'Università di Sassari ma ha supplenze a Palermo. La moglie Elsa Guggino è ordinaria nella stessa facoltà.

L'elenco dei padri e dei figli continua a Ingegneria, 18 famiglie e 38 parenti. Filippo Sorbello e il figlio Rosario, Michele Inzerillo e la figlia Laura, Stefano Riva Sanseverino (cognato di Luca Orlando) e la figlia Eleonora. A Scienze Matematiche Fisiche e Naturali si contendono il numero dei parenti i Gianguzza e i Vetro. Mario Gianguzza, ordinario di Biopatologia a Medicina, a Scienze ha come colleghi i fratelli Antonio (Chimica inorganica) e Fabrizio (Biologia cellulare) e la figlia Paola (Ecologia). Uno dei loro nipoti, Salvatore Costa, è anche lui in Biologia cellulare. L'altra famiglia, i Vetro, è tutta appassionata di matematica. Pasquale Vetro, matematico. La moglie Cristina Di Bari, matematica. Il loro figlio Calogero, matematico.

La facoltà più piena di mogli e mariti e figli è però quella di Agraria. Su 129 docenti 23 sono parenti. Un quinto. Divisi in 11 nuclei familiari. Il preside Salvatore Tudisca ha lì dentro come associata sua moglie Anna Maria Di Trapani. L'ordinario Antonino Bacarella ha la figlia Simona e il nipote Luca Altamore. L'ordinario Giuseppe Chironi ha la figlia Stefania, l'ordinario in pensione Giuseppe Asciuto ha suo figlio Antonio, l'ordinario in pensione Carmelo Schifani ha il figlio Giorgio, l'ordinario Salvatore Ragusa ha il figlio Ernesto, l'ordinario Luigi Di Marco ha la moglie Antonietta Germanà, l'ordinario Vito Ferro ha la moglie Costanza Di Stefano, l'ordinario Antonio Motisi ha la moglie Maria Gabriella Barbagallo, l'ordinario Riccardo Sarno ha il figlio Mauro, l'ordinario Claudio Leto ha la moglie Teresa Tuttolomondo. Cento famiglie. Di queste ce ne sono sessanta con "residenza" fissa in uno stesso dipartimento. E' praticamente casa loro.

«Che faccia i nomi!», protestarono i Rettori quando il Ministro della Salute Girolamo Sirchia osò osservare come in Italia a Medicina e Chirurgia imperassero baronia e nepotismo: «in cattedra vanno tuttora i figli e i cognati». Eppure perché contestare una verità palese. Provare non era difficile, bastava guardarsi un po’ attorno.

Alla Sapienza insegna Tommaso Gastaldi, ricercatore di Statistica. Mesi fa previde: “una rivoluzione sta per scuotere l'università italiana. Si sta creando un incredibile fronte compatto di persone di buona volontà che va da Napoli a Siena... Possiamo veramente creare un'onda sismica...”, scrisse nel suo blog, “Concorsopoli". I casi di Modena e Roma mostrano che il terremoto è già in atto: è la rivolta contro il sistema di cooptazione dei professori universitari, spesso assimilato all'affiliazione mafiosa. Dopo i primi scandali di Roma, Bari, Bologna, Firenze, Siena, Macerata, Messina e le inchieste che sono seguite, la parola d'ordine è attaccare la "razza barona", la casta che manda in cattedra figli, nipoti, cugini e amanti - ma anche amici e compagni di partito, frammassoni, colleghi di cordata.

Nel suo sito “Universitopoli”, Marco Lanzetta, primo chirurgo italiano ad aver effettuato un trapianto di mano, ha pubblicato invece la sentenza del consiglio di Stato che lo proclama finalmente vincitore contro l'università di Varese. "I giudici riportano la legalità nei concorsi universitari", scrive. Ma alla fine nemmeno la sentenza basta a ristabilire la legalità. E così il Tar di Palermo ha restituito a Maria Rita Gismondo, microbiologa della clinica Sacco di Milano, il posto da ordinario che le era stato soffiato da docenti che, è risultato poi, avevano spacciato per pubblicazioni scientifiche dei semplici atti congressuali. Lo stesso è successo a Bari, dove alcuni docenti di Diritto si sono presentati a un concorso, vincendolo, con fotocopie "edite" da un'anonima stamperia di Benevento. Sempre a Bari è stato necessario l'intervento del Tar perché un professore di biochimica ottenesse il laboratorio che gli spettava, negatogli dall'endocrinologo Francesco Giorgino, peraltro indagato dalla procura, insieme al padre, per il suo concorso da ordinario, grazie al quale ha ereditato la direzione del reparto.

Siti come quello di Gastaldi, che ha creato un osservatorio per segnalare in anticipo i concorsi sospetti, si moltiplicano. Si chiamano “Ateneo Pulito”, “Malauniversitas”, “Università degli orrori”, “Ateneo Palermitano”, lo stesso “Universitopoli”. Diari dell'indignazione accademica curati da chi non regge più lo strapotere degli ermellini.  Molti docenti "arrabbiati", ora, cercano di organizzarsi in un network. Fanno il tifo per i magistrati e trovano alleati anche oltre gli atenei. Come Paolo Padoin, Prefetto di Padova, che alle nefandezze universitarie dedica una sezione del suo sito “Rinnovare le Istituzioni”, scrivendo: "Manteniamo fiducia nell'azione della magistratura che, anche se in tempi biblici, dovrebbe arrivare alla definizione delle tante azioni penali pendenti in diverse sedi universitarie. Soprattutto la vicenda di Trieste, nella quale sono coinvolti quasi tutti i big di agraria, denunciati dal professor Quirino Paris... ".

Paris, docente della University of California: è emigrato lì dopo un feroce scontro con i suoi colleghi italiani proprio sulle procedure di selezione. Ha inventato un modello matematico delle parentopoli italiane e lo ha fatto pubblicare su una rivista on line americana.

Il dato matematico-statistico dimostrerebbe come il pilotaggio sia preordinato in modo evidente ai fini dell’abuso e per avvantaggiare nel percorso accademico persone di famiglia ed associati privilegiati e prestabiliti al fine di ottenere ingiusti vantaggi.

Ovunque si grida alla prova truccata. I professori scrivono ai magistrati, avvertono carabinieri e finanzieri: la vita accademica procede per via giudiziaria. Chiami un docente e ti risponde: "Non posso parlare, sono in Procura".

PARLIAMO DEGLI ALTRI CONCORSI SCOLASTICI TRUCCATI.

L'Italia è il Paese della ''pubblica distruzione'', dove ci sono più bidelli nelle scuole che carabinieri per le strade a garantire la sicurezza dei cittadini. ''Uno scandalo'' denunciato dal quotidiano ''Libero'', che il 23 settembre 2008 ha pubblicato un'inchiesta sul personale non docente e docente delle scuole italiane, riferendo gli ultimi dati Ocse che sottolineano come ''in Italia c'è un insegnante ogni undici alunni. In Gran Bretagna ne hanno uno ogni venti. La media europea è uno ogni sedici''.

''Sono 167mila i non docenti degli istituti italiani, mentre gli agenti dell'Arma non arrivano a 118 mila. Sono 15,6 bidelli per scuola materna o elementare, praticamente 2,2 per classe''.

Citando i dati di ''Tuttoscuola'', del Ministero dell'Istruzione e i dati di  ''Education at a Glance'', Ocse 2008, il quotidiano sottolinea che in Italia, nelle scuole, sono impiegati 167.000 bidelli per 7.751.356 alunni, mentre i Carabinieri in servizio nel nostro Paese, inclusi quelli impegnati nelle missioni all'estero, sono solo 118.000, ben 49.000 in meno dei bidelli.

''Il costo complessivo di questi 'collaboratori scolastici' (la qualifica politicamente corretta) è - scrive il quotidiano di Feltri - di 4 miliardi di euro l'anno. Il 60% sono di 'ruolo', quanto dire super garantiti. E questo dopo una riduzione senza la quale nei prossimi cinque anni la spesa sarebbe salita a 20 miliardi''.

E tra gli sprechi citati da Libero anche ''i 60 milioni di euro che ogni anno si spendono per telefonate e telegrammi per convocare supplenti che, residenti su tutto il territorio nazionale spesso rifiutano''.

Non è tutto. Dopo quelle di Torino, anche a Napoli si scoprono graduatorie scolastiche truccate e manomesse per vie informatiche e - di conseguenza - supplenze, nomine e immissioni in ruolo del tutto arbitrarie. Qualcuno, dotato della password necessaria, è entrato nel sistema del Provveditorato e ha modificato il file relativo. Trecento, forse quattrocento tra insegnanti e bidelli, potrebbero non essere in regola.

La traccia del fenomeno è in una lettera-denuncia del segretario regionale della Cisl scuola, Vincenzo Brancaccio, al suo leader nazionale Francesco Scrima, «Caro segretario - dice la missiva del 12 maggio 2008  - sono costretto a chiederti un intervento urgente presso la Signora Ministro della Pubblica Istruzione per ripristinare legalità e certezza del diritto nella scuola campana. Sarai stato certamente informato sulle graduatorie falsate dei collaboratori scolastici (bidelli - ndr) dell'ufficio scolastico di Torino, secondo gli articoli apparsi su "La Stampa"  del 7 maggio 2008 - ricorda Brancaccio - Bene: in Campania la situazione è drasticamente più grave».

Nella provincia di Napoli, per esempio - secondo l’ipotesi su cui sta lavorando la magistratura allertata dall’Ufficio scolastico regionale - le graduatorie truccate sarebbero tre. O, almeno, tre sarebbero quelle su cui sono state rilevate delle manomissioni ma, forse, il fenomeno potrebbe essere ben più esteso e riguardare anche altre province. Occorre ricordare che, per sanare una volta per tutte il fenomeno del precariato e iniziare un nuovo sistema di reclutamento del personale, le graduatorie della scuola sono «ad esaurimento», e quindi bloccate da sette anni. Eventuali novità nei nomi o modifiche dei dati, quindi, sono facilmente rilevabili, anche se comportano l’oneroso lavoro di monitorare circa 90 mila nomi. Tuttavia le magagne sono venute a galla.

La prima, nella provincia di Napoli, ha riguardato i docenti inseriti negli elenchi delle «abilitazioni speciali». Spieghiamo: l’abilitazione all’insegnamento, oggi, si può ottenere in due modi: o frequentando le Siss (le scuole biennali di specializzazione) oppure dimostrando di aver insegnato per almeno 360 giorni nella scuola statale. Questo secondo canale consente l'immissione nella graduatoria definita, per l’appunto, delle «abilitazioni speciali».

Alcune denunce hanno consentito di rilevare che, all’interno di questa graduatoria, che costituisce un trampolino di lancio nell’insegnamento di ruolo, sono stati inseriti dei nomi di persone che non ne avrebbero avuto titolo e che avrebbero fornito «false certificazioni». Si parla di «decine» di nomi, ma il materiale ancora da esaminare è sterminato. Per intanto la Guardia di Finanza ha sequestrato gli atti.

Secondo filone. Nelle graduatorie della scuola d’infanzia ed elementare è stato appurato che «almeno» 42 docenti avrebbero visto il proprio punteggio lievitare repentinamente, da un minimo di otto a un massimo di 64 punti, come dire che a qualche docente sono stati attribuiti cinque anni di lavoro in più. L’esame della graduatoria non è ancora concluso e altri nomi potrebbero emergere.

E poi c’è la madre di tutte le truffe: la «bidellopoli» che, dopo quella torinese, ora è in salsa napoletana. Centinaia (il numero è in continuo aumento e non ancora definitivo) sarebbero gli aspiranti bidelli catapultati in graduatoria «non avendone neppure i titoli», cioè mancando perfino della licenza media. Anche qui ci sarebbero false certificazioni prodotte da diplomifici privati o da sedicenti scuole paritarie.

PARLIAMO DELLE LAUREE FACILI.

Università e scorciatoie come le lauree facili concesse anche ai giornalisti. L’inchiesta di Rizzo e Stella sul Corriere della Sera del 15 dicembre 2008 denuncia il riconoscimento dei crediti all’«esperienza» praticata dagli atenei italiani.

Certo, la scorciatoia passata con lo slogan «Laureare l'esperienza» e varata prima da una legge del '99 (centrosinistra) ritoccata da un decreto del 2004 (centrodestra) per riconoscere la dote di preparazione e competenze accumulata da questa o quella figura professionale permettendo a gente già inserita nel lavoro di conquistare l'agognato alloro, non riguarda solo i giornalisti. Anzi. Decine di Università, come è noto, si precipitarono ad approfittare delle nuove norme per accumulare studenti. «Avevamo la fila alla porta di gente che voleva laurearsi e ci proponeva mille o duemila iscritti a botta», ha raccontato ad esempio Francesco Paravati, responsabile del marketing della «Uninettuno»: «Il delegato di un gruppo di agenti di custodia arrivò a dirci: la laurea ci serve solo per passare di grado. Non daremo fastidio a nessuno, non faremo danni usandola. Le altre ci riconoscono cento, centodieci crediti... Perché voi no?». E infatti così era l'andazzo, all'inizio. Al punto che per accaparrarsi nuove matricole qualche ateneo arrivò a proporre a ragionieri o guardie forestali, vigili del fuoco o poliziotti (prima che Mussi imponesse un tetto di 60 su 180: tetto peraltro aggirato da alcune università con la scusa dei diritti acquisiti) una quantità di «crediti» folle. Un esempio? La convenzione di Siena coi carabinieri. Convenzione che permetteva ai marescialli che avevano seguito un certo corso interno di vedersi riconoscere fino a 124 «crediti formativi». Solo 24 meno dei 148 necessari ad avere la laurea triennale in Scienza dell'amministrazione: tre tesine e il maresciallo era dottore.

Fatto sta che, all'apparire della scorciatoia, anche l'Ordine dei Giornalisti si diede da fare.

Funzionava così: 10 crediti ai direttori responsabili, 8 a capiredattori, capiservizio e responsabili degli uffici stampa, 6 ai divulgatori scientifici, 4 ai redattori, agli editorialisti e agli opinionisti. Uno schemino ridicolo. Che assegnava ai capiservizi dei giornalini di quartiere, paradossalmente, più punti che a fuoriclasse come Bocca o Pansa. Di più: i crediti si potevano moltiplicare per il numero di anni di servizio, fino a un massimo di 80 per i professionisti e 60 per i pubblicisti. Di più ancora: nei «casi di eccellenza delle conoscenze e delle abilità professionali certificate» (da chi? boh...) potevano essere aumentati del 20% ancora. Arrivando a un totale di 96 per i professionisti e 72 per i pubblicisti.

Comunque, oggi, più o meno, siamo punto e accapo. Rileggiamo un'Ansa del 22 settembre 2004. «I giornalisti professionisti e pubblicisti in possesso del titolo di scuola media superiore potranno accedere fino al terzo anno di laurea in alcune facoltà italiane». Quali? Inizialmente, la già citata Università di Chieti, quella di Cassino e Sora, la barese «Lum Jean Monnet» di Casamassima (unico esempio mondiale, forse, di ateneo nato dentro un ipermercato, «Baricentro»), la Lumsa di Roma.

E che dire delle lauree vendute. Per i falsi esami, 39 sono stati gli interdetti alla professione forense.

I cosiddetti tutori della legge. Dopo i provvedimenti del Consiglio dell'Ordine degli avvocati, arriva quello dell'autorità giudiziaria. Il giudice per le indagini preliminari ha emesso un'ordinanza applicativa di misura cautelare interdittiva del divieto temporaneo di esercitare le attività delle professioni forensi nei confronti di trentanove tra avvocati e procuratori coinvolti nell'inchiesta sui falsi esami alla facoltà di Giurisprudenza dell'Ateneo "Magna Græcia" di Catanzaro. Nel dettaglio, le persone colpite dal provvedimento interdittivo sono tutti accusati di avere approfittato di false attestazioni, che avrebbero fatto risultare come superati esami mai effettivamente sostenuti.

L'inchiesta sulla presunta falsificazione di esami alla facoltà di Giurisprudenza è scattata nel 2007, quando un docente ha invitato i vertici dell'Ateneo a presentare denuncia dopo essersi accorto della presenza ad una sessione di laurea di una studentessa che non aveva sostenuto l'esame della sua materia. Dopo le prime verifiche, è finito in manette il funzionario addetto alla segreteria didattica di Giurisprudenza. Sarebbe lui, che per alcune fattispecie di reato ha già patteggiato la condanna, la figura-cardine del presunto imbroglio. Nel corso degli accertamenti sarebbero stati individuati almeno 400 casi sospetti di corruzione.

Sulla vicenda aveva visto bene l'Ordine distrettuale degli avvocati, che da alcuni mesi aveva già deliberato la sospensione dei propri iscritti finiti sul registro degli indagati; un indirizzo ora confermato dal provvedimento del gip.

«Tutti gli indagati – si legge nell'ordinanza – hanno conseguito, apparentemente, un titolo (la laurea in giurisprudenza) che li abilita alle professioni forensi, le quali comportano l'esercizio, talvolta, di poteri certificativi di valenza pubblica. La laurea falsamente conseguita, inoltre, attribuisce agli indagati l'apparenza di un titolo per partecipare a concorsi pubblici e, comunque, per interloquire, da laureati, con la pubblica amministrazione, con conseguente, inevitabile, induzione in errore di tutti i pubblici funzionari che diano per scontata l'esistenza e la genuinità del titolo medesimo».

Lo stesso esercizio dell'attività forense, in quanto tale, deve «considerarsi – prosegue il Gip Antonio Rizzuti – abusivo. La partecipazione degli indagati, quali esercenti tale professione, ai procedimenti civili e penali, poi, comporta la falsità, per induzione in errore del pubblico ufficiale verbalizzante o redattore, dei verbali o degli atti da cui risulti la loro qualifica di avvocati o, comunque, di esercenti la professione forense».

«In definitiva – conclude – il possesso e l'utilizzo di una laurea fasulla alterano i rapporti giuridico-professionali degli indagati e condizionano una serie di attività, anche e soprattutto di interesse pubblico, dando luogo ad una costante induzione in errore degli ignari interlocutori degli indagati, tra i quali, principalmente, i pubblici uffici».

PARLIAMO DEI DIPLOMI FACILI.

Promozioni garantite. Diplomi facili. Anche senza mettere piede in aula. Purché si paghi. Ecco le truffe delle scuole non statali. Spesso finanziate dallo Stato. Tutto come dimostrato dall’inchieste del “L’Espresso”.

Tutto avviene a San Cipirello: un comune di 5 mila abitanti a mezz'ora da Palermo e un minuto da San Giuseppe Jato. Qui c'è l'Istituto tecnico per programmatori Beccadelli, scuola privata con aule minuscole e direzione nel seminterrato. L'amministratore unico, chiude la porta e si siede alla scrivania. Così può parlare con riservatezza. La questione è delicata: davanti ha un professionista milanese che si è trasferito in Sicilia e ha un problema da risolvere. Il figlio vive in Lombardia con l'ex moglie e non vuole studiare. Ha frequentato il primo anno di liceo scientifico rimediando una bocciatura. Poi è arrivato in seconda ed è stato bocciato ancora. Adesso è in terza con voti disastrosi. "A questo punto", dice il padre, "vorrei un percorso accelerato". Insomma: recuperare anni, a tutti i costi. "Considerando che il ragazzo abita a più di mille chilometri da qui".

Un'impresa in apparenza disperata: ma solo in apparenza. "Possiamo fare così", spiega, "il ragazzo si ritira, si presenta il prossimo settembre da noi e gli facciamo prendere i primi quattro anni". "Passa sicuramente?", chiede sfacciato il padre. "Passa, passa...", sorride, "non c'è problema". Non serve neppure che il ragazzo si faccia vedere: può starsene tranquillo a Milano. "Gli diamo noi i programmi, tanto è scolarizzato", dice. Quanto all'anno successivo, quello della maturità, la strada è in discesa: "Suo figlio prende la residenza a Palermo, lo iscriviamo da interno e ce ne usciamo!". Anche in questo caso, assicura, si va sul sicuro. È sufficiente che il giovane frequenti la scuola "una volta la settimana", al resto ci pensa l'istituto tecnico Beccadelli. Costo dell'operazione: "1.500 euro per l'idoneità al quinto anno e 2 mila per il diploma". Senza un depliant, senza un foglio con le caratteristiche della scuola. "A noi ci conoscono per passaparola", ammicca l'amministratore.

Bisogna accontentarsi del suo biglietto da visita.

"Agghiacciante", commenta Elio Formosa, coordinatore nazionale di Cisl scuola. "Siamo al mercato delle vacche, allo svilimento dell'istruzione". E non è la prima volta, per le scuole non statali. Nel 2004 la procura di Verona ha indagato 23 gestori, presidi e insegnanti di istituti privati in 11 regioni, con l'accusa di associazione a delinquere mirata "al conseguimento di maturità con falsi in atto pubblico". Due anni dopo, a Palermo, altri arresti per diplomi falsi in scuole private. E ancora, nel 2007, la procura di Modica (Ragusa) ha spedito 93 avvisi di garanzia per diplomi facili in istituti paritari. Fino alle 'Iene' di Italia 1 che, in piena bagarre per i tagli alla scuola statale, hanno mostrato come comprare un diploma in una privata di Caserta.

"Mele marce", dice Luigi Sepiacci, presidente nazionale dell'Aninsei (Associazione nazionale istituti non statali di educazione e istruzione): "Noi per primi cacciamo i mascalzoni, ma c'è chi gode a denigrare le nostre strutture". La verità, a suo avviso, è che "le scuole non statali offrono uno straordinario servizio". Di più: "Hanno sviluppato metodologie che non tutti gli istituti pubblici hanno". Per questo, aggiunge, è paradossale che la Finanziaria prevedesse un taglio ai fondi per le private di 133 milioni 393 mila euro (su un totale di 540 milioni 461 mila).

Un fatto è certo: presa in blocco, l'espressione 'non statale' significa poco. Bisogna aggiungere che in Italia le scuole si dividono in due macro categorie: statali (41.603) e non statali (15.946). E che le non statali si dividono, a loro volta, in strutture gestite da enti pubblici (3.414) o da soggetti privati (12.532). In entrambi i casi, è essenziale un'ultima suddivisione: quella in scuole paritarie (laiche o religiose) e non paritarie. "Le prime", ricorda Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd alla commissione Cultura della Camera, "sono codificate dalla legge 62 del 2000, ed equivalgono sotto ogni profilo alle scuole statali". Nel senso che rilasciano titoli di studio validi rispettando precisi obblighi: come l'offerta di corsi dal primo all'ultimo anno, l'assunzione di docenti abilitati e il rispetto dei contratti di lavoro. Diverso il discorso per le non paritarie, che possono avere corsi di studio incompleti, non applicare i contratti nazionali e assumere personale non abilitato. Un mondo scivoloso, ma seducente per chi voglia recuperare due, tre, anche quattro anni in un colpo. "Il problema", dice Mimmo Pantaleo, segretario nazionale Flc (Federazione lavoratori della conoscenza) Cgil, "è che per legge queste strutture mandano gli allievi a fare le idoneità nelle paritarie. Così il cerchio si chiude, creando un sistema scolastico dove agli onesti professionisti si affiancano elementi spregiudicati".

Quanto sia vero, lo si capisce dall'incredibile testimonianza di P. V., amministratore di un istituto non paritario romano specializzato in "preparazione degli esami universitari, scuola superiore con recupero anni scolastici, corsi di lingua, corsi per esame di Stato e preparazione ai concorsi pubblici". Tutto, in pratica. "Quando presentiamo alle paritarie i candidati per l'abilitazione alla quinta superiore", dice, "non vengono mai bocciati. Garantito". Il meccanismo è semplice: "La nostra scuola è frequentata da gente che vuole diplomarsi alla svelta: ci sono ragazzi ultraripetenti e lavoratori con la terza media che per ragioni di carriera inseguono il diploma. Li portiamo al le paritarie per gli esami di idoneità, e nel 90 per cento dei casi li lasciamo impreparati. Completamente. Non gli facciamo fare niente. Gli diciamo: 'Leggiti Ugo Foscolo, o qualcosa del genere, e vai a fare l'esame'".

Eppure il rischio bocciatura è inesistente, spiega P. V. I ragazzi pagano 3 mila 500 euro, e lui ne versa una parte alle paritarie: "Dagli 800 ai mille euro. Soldi che "le scuole ci restituiscono se, dopo l'idoneità, gli studenti si iscrivono da interni". Un catena di illegalità "schifosa", la definisce P. V. Tanto che ultimamente ha avviato un'altra procedura, comunque anomala: "Ho individuato una specie di agenzia; un gestore di scuole private, nel napoletano, a cui passiamo gli studenti. Lui segue gli allievi agli esami e noi prendiamo la provvigione".

Scandalizzarsi è lecito. Ma non bocciare, per questa storia, tutte le strutture private. Non sempre funziona così, nelle non statali italiane. Non sempre vince il malaffare. La risposta all'illegalità, ai traffici occulti, ai docenti improvvisati di certe strutture non statali, esiste e non è un'eccezione. Si trova, per esempio, al Collegio San Carlo a Milano, nella sede storica di corso Magenta, dove dal 1990 rettore è don Aldo Geranzani: un ex prete di periferia che non si perde in diplomazie. "Premetto", dice, "che sbaglia chi chiede con il piattino in mano l'elemosina al governo". E aggiungo: "Non facciamo la retorica delle scuole paritarie. Alcune sono fantastiche, altre per niente. Dipende: se lo fai per affari, l'obiettivo è il profitto; se lo fai per missione, pensi alla qualità". Nel suo caso, spiega, "l'impegno è costruire solide identità sociali, figure mentalmente libere nel solco della tradizione cattolica". Al San Carlo, aggiunge, tra i 1.400 studenti ci sono ragazzi di religione indù, ebraica e musulmana. A parte questo, tutti i ragazzi sono bilingui, svezzati all'inglese da insegnanti madrelingua. E tutti vengono supportati con tecnologie all'avanguardia. "Guardi", dice don Aldo entrando in una classe. Un ragazzino sta scrivendo con il dito sulla smart board, una lavagna intelligente che si collega a Internet, scarica testi e foto, e invia il tutto alla mail di casa.

Bello. Bellissimo. Costoso (6 mila 500 euro di retta annua) ma affascinante. Più discutibile, invece, è per alcuni l'altra faccia della medaglia: l'impostazione troppo ideologica di certe paritarie cattoliche. Il punto è: in che misura un insegnante laico può esprimersi liberamente in una scuola religiosa? "Tra i requisiti dell'assunzione", risponde padre Francesco Ciccimarra, presidente dell'Agidae (Associazione gestori istituti dipendenti dall'autorità ecclesiastica), "c'è l'accettazione dei valori cattolici. Ma esiste pure la libertà personale". Ovvero? Cosa succede se un docente, in classe, dice che contro l'Aids bisogna usare il preservativo? "Si crea un conflitto tra la carta dei valori scolastici e l'opzione ideologica del singolo", dice Ciccimarra. In altre parole: "Se l'insegnante non si adegua, deve andarsene. È una questione di armonia".

Anche per questo, la sinistra radicale combatte il finanziamento pubblico agli istituti confessionali. "Poi c'è l'articolo 33 della Costituzione", sottolinea Piero Castello dei Cobas, "dove c'è scritto che gli enti privati hanno diritto a istituire scuole, ma senza oneri per lo Stato. Perché, dunque, si taglia sull'istruzione pubblica e si difende quella non statale?".

Domanda che scatena polemiche. Come l'altra, proposta dallo scrittore e docente (in passato anche nelle private) Marco Lodoli: "Perché le congregazioni religiose, invece di pensare agli ultimi, educano a caro prezzo i primi?".

Valentina Aprea (Pdl), presidente della commissione Cultura alla Camera, non ha dubbi: "Le scuole paritarie sono spesso attaccate", dice, "ma ottengono ottimi risultati". Di più: "Sono un patrimonio fondamentale per tutti".

"La verità", media da destra Marcello Veneziani, "è che nelle strutture private si trova il meglio e il peggio in circolazione. Per questo preferisco la fascia media della scuola statale. E auspico, in generale, controlli sulla qualità dell'istruzione".

Appunto: i controlli. A detta di tutti, il punto è questo. Capire in che misura, nella galassia delle non statali, si riesca a vigilare sui legami illegittimi tra paritarie e non paritarie, sul gioco dei diplomi facili e le responsabilità dei gestori. Situazioni più volte denunciate da Augusto Pozzoli, titolare del sito ScuolaOggi.org. "Un fatto è certo", dice Massimo Mari della Flc Cgil: "Il decreto 83 del 10 ottobre 2008, firmato dal ministro Mariastella Gelmini, spiega che "il mantenimento della parità dipende dalla 'permanenza dei requisiti prescritti'. Ma non indica scadenze per le verifiche: le definisce 'periodiche'".

D'altro canto, girando per scuole non statali, capitano situazioni curiose. Basta entrare, un pomeriggio di dicembre, nell'istituto tecnico Labor di Milano, ed esporre al gestore Domenico Nappo le ansie di un genitore con il figlio in crisi: bocciato in prima ragioneria e ora di nuovo a rischio. Da parte sua, Nappo garantisce che la sua scuola è serissima. Ha anche predisposto un sistema on line per consentire alle famiglie di sorvegliare l'andamento dei figli. Quanto alle sedi esterne di esame, indica tra le altre "l'istituto paritario Freud di via Gustavo Modena, sempre a Milano, dove il ragazzo potrebbe fare l'idoneità se passasse alla scuola informatica". Quando il padre chiede se c'è un legame, tra Labor e Freud, la risposta è netta: "Non abbiamo niente in comune: sarebbe conflitto d'interessi!". Salvo scoprire, poi, che il direttore amministrativo dell'istituto Freud si chiama Daniele Nappo. E non solo è figlio del signor Domenico, ma ha anche la stessa residenza.

Niente che stupisca l'ispettore Franco De Anna, dell'ufficio scolastico regionale Marche. "Il problema", dice, "è il modo in cui la parità è stata concessa dopo la legge del 2000. I controlli approfonditi dovevano esserci allora. Ora è un lavoro improbo, gestito da volenterosi che spesso devono fermarsi alle verifiche di base: sugli edifici scolastici, sull'abilitazione dei docenti e sul piano di offerta formativa. Ideale, invece, sarebbe seguire le lezioni, vedere quanto le valutazioni sono veritiere e sondare gli intrecci societari". Propositi frenati da una realtà sfuggente. Lo si verifica a Bergamo, dove operano la Centro studi superiori srl, proprietaria dell'istituto paritario Leonardo Da Vinci (vari corsi, tra i quali scientifico e linguistico) e il non paritario Centro scolastico Bergamo srl, che al Leonardo invia i suoi studenti per gli esami di fine anno. Le due strutture, mostrano le carte, hanno palesi punti di contatto. Gianfranco Bresciani, consigliere e socio in usufrutto della Centro studi superiori srl (bilancio 2007), amministra con Cristina Capelli (responsabile amministrativa del Centro scolastico Bergamo) una terza società: la B&C srl. Mentre lo stesso Bresciani e Giovanna Capitanio (amministratore della Centro scolastico Bergamo srl) si trovano nell'elenco soci della Consulenze e progetti srl: il primo con il 99 per cento in usufrutto, la seconda con l'1 per cento di proprietà.

Una ragnatela accettabile? La legge 27 del febbraio 2006 dice che "le paritarie non possono svolgere esami di idoneità per alunni che hanno frequentato non paritarie che dipendano dallo stesso gestore, o da altro con cui il gestore abbia comunanza d'interessi". Addirittura, i titolari e i responsabili didattici degli istituti paritari, devono dichiarare alla presentazione di ogni candidato che non esiste questa 'comunanza' ("la mancanza o falsità delle dichiarazioni porta alla nullità degli esami sostenuti e dei titoli rilasciati"). Ma nell'Italia delle non statali, capita che le regole diventino optional. Anche sul fronte della didattica. Molti insegnanti, anonimi per paura, denunciano che "nelle paritarie capita di pagare invece di essere pagati, pur di incassare i 12 punti per la graduatoria statale". E altrettanto pesante, sotto il profilo professionale, è la testimonianza di un tutor della Cepu-Grandi scuole, celeberrima struttura per la preparazione di esami universitari (Cepu) e recupero anni alle superiori (Grandi scuole). "Il guaio", spiega, "è che la pressione commerciale danneggia gli studenti. È capitato, l'anno scorso, di preparare una ragazza bocciata in seconda liceo classico per l'idoneità alla terza. Arrivata agli esami, l'allieva ha visto che il programma svolto a Grandi Scuole era incompleto". Per un motivo pazzesco: "Abbiamo ricevuto all'ultimo il programma dal liceo statale e siamo stati zitti per non perdere la cliente".

Morale: "La ragazza è stata ribocciata".

Vero? Falso? Impossibile verificarlo. Alla sede centrale di Cepu-Grandi Scuole, chiamata più volte, dirottano sulla dottoressa Roberta Burini. Che non richiama e non è raggiungibile. Come pure Mario Dutto, il direttore generale per gli ordinamenti scolastici al ministero dell'Istruzione, non disponibile a un faccia a faccia sulle non statali: "Domande concordate e scritte", insiste l'ufficio stampa. Peccato. Era l'occasione per approfondire una vicenda che lo riguarda, e che risale a quando era direttore generale all'ufficio scuola Lombardia. L'8 maggio 2008, infatti, il pm Fabio De Pasquale ha chiesto il suo rinvio a giudizio per avere concesso nel 2002 "riconoscimenti di parità scolastica" a una serie di scuole "nonostante l'istruttoria avesse evidenziato situazioni ostative".

L'udienza era fissata per il 26 giugno scorso, ma a chiudere il discorso è arrivata la prescrizione. Continua, invece, un'altra storia spiacevole: quella delle paritarie che non accettano disabili. "Un fatto censurabile per due ragioni", dice Adriano Enea Belardini, responsabile Uil delle scuole non statali: "Le paritarie hanno gli stessi obblighi delle statali, quindi devono accogliere i disabili. Inoltre, nel documento 2007/2008 sui criteri per l'assegnazione dei contributi, è indicato che per ogni disabile le paritarie ricevono un contributo statale. Dunque non ci sono scuse".

Questo sulla carta. Nei fatti, una verifica su paritarie a caso dà risultati amari. L'Istituto scuole pie napoletane, per esempio, risponde al padre che vorrebbe iscrivere il figlio disabile che "deve parlarne il consiglio di amministrazione, perché non è mai capitato". Al San Leone Magno di Roma, il preside delle medie inferiori sospira: "Vorremmo ma non possiamo... Non ci concedono le sovvenzioni di Stato, le classi sono numerose e non abbiamo un insegnante specializzato: lo chiediamo sempre ma non ci sono i fondi". Più secca l'elementare torinese Principessa Clotilde di Savoia: "Non abbiamo alunni disabili". Infine c'è Bologna, dove il padre del disabile telefona alla media inferiore Cerreta, che sarebbe disponibile se non fosse femminile: "Si rivolga alle Figlie del sacro cuore di Gesù", consigliano. Inutilmente. L'ultimo no è accompagnato da questa spiegazione: "Non abbiamo tutte le attrezzature". Parole poco paritarie.

PARLIAMO DELLA VALUTAZIONE NAZIONALE TRUCCATA.

Test Invalsi: i più bravi al Sud. "Ma hanno copiato", dice l’istituto, e vince il Nord.

La decisione dei valutatori dopo il riscontro di "anomalie", che dimostrerebbero

"comportamenti opportunistici". Così la graduatoria è stata invertita.

Dubbi sui risultati li solleva l’esito principale, ma anche l’inversione adottata.

Gli studenti meridionali sono i più bravi d'Italia. Anzi, no: sono i più scarsi perché, nel compilare il test nazionale, hanno copiato o i prof li hanno aiutati. E' questa la prima lettura del report appena pubblicato dall'Invasi (l'Istituto nazionale di valutazione del sistema scolastico nazionale) sul test a carattere nazionale, che gli studenti di terza media hanno compilato durante l'esame finale di giugno. Il punteggio "grezzo" per area geografica non lascia spazio a dubbi: in Italiano sono in testa i ragazzini del Centro seguiti da quelli meridionali, ultimi si piazzano gli alunni delle regioni del Nord. In Matematica per gli studenti meridionali le cose vanno ancora meglio: sono in testa, seguiti da quelli e del Centro e dai compagni settentrionali.

Ma, secondo l'Invalsi, le prove compilate dai ragazzini delle regioni al di sotto della Capitale sono "anomali". "Ad un primo sguardo - si legge nel rapporto - i risultati complessivi sia della prova d'italiano che di quella di matematica non sembrano mettere in luce differenze molto rilevanti all'interno del Paese. In entrambe le sezioni della Prova nazionale il Nord, inteso nel suo complesso, sembra conseguire risultati leggermente inferiori al resto del Paese, mentre le restanti aree non paiono differire in modo significativo". Possibile? Ed ecco che i dati si invertono.

"Ancor prima di analizzare i dati presentati nelle tavole - continua il dossier - è importante verificare se ed in quale misura i risultati rilevati diano qualche indicazione di comportamenti opportunistici". In poche parole: di prof che aiutano gli allievi nelle risposte o di studenti che si aiutano copiando ed insegnanti che stanno a guardare. Ma non si era detto che al Nord ci sono tantissimi (troppi) professori meridionali? Al Nord i prof meridionali non aiutano gli studenti e al Sud gli stessi "terroni", per usare un vocabolo che sta a cuore agli esponenti del Carroccio, danno una mano ai propri alunni? O è anche possibile ipotizzare che gli alunni del Sud sono più furbi di quelli del resto d'Italia?

Ma, se la matematica non è un'opinione, i dati vanno sgrossati dalle furberie. "Il suddetto controllo - spiegano dall'Invalsi - è stato effettuato adottando una metodologia statistica articolata e analitica volta all'individuazione dei dati anomali e della loro conseguente correzione (hard clustering)". Ma anche applicando la complessa metodologia statistica i conti non tornano. "Tuttavia - proseguono gli esperti - , questo metodo non supera totalmente il problema della presenza dei dati anomali e non è in grado di tenere conto di nuance diverse con le quali le anomalie si possono presentare".

Ed ecco la soluzione al dilemma. "Per questa ragione è stata adottato un 'approccio sfuocato' (fuzzy logic) in grado di fornire ad ogni studente un coefficiente di correzione attenuando così in maniera considerevole l'incidenza di comportamenti opportunistici". Solo dopo la complicata elaborazione dei dati si giunge alla tabella dei "punteggi medi corretti". Che, finalmente, ristabilisce i "reali valori" in campo: primi i ragazzini nel Nord, secondi i compagni del Centro e buoni ultimi quelli del Sud.

E se l'anomalia venisse spiegata diversamente? E cioè al Nord sono effettivamente meno meritevoli? Nelle elaborazioni Invalsi i risultati vengono anche disaggregati in base all'origine degli alunni: italiani (autoctoni) o non italiani. I punteggi degli alunni stranieri, anche per via del test di lingua italiana, sono di gran lunga inferiori a quelli dei coetanei nostrani. E siccome nelle regioni settentrionali la percentuale di alunni stranieri è sei volte superiore a quella delle regioni meridionali, perché i migliori risultati del Sud devono essere attribuiti a comportamenti anomali e non alla minore presenza di alunni stranieri?

PARLIAMO DI SICUREZZA NELLE SCUOLE.

Sicurezza strutturale, prevenzione e lotta ai comportamenti violenti e al bullismo, prevenzione dall'uso di droghe e fumo, contrasto alla baby prostituzione, corretto utilizzo delle nuove tecnologie, precariato e assenteismo dei docenti.

Sicurezza strutturale. Un terzo delle scuole pugliesi è stato costruito in zone inquinate. Ben 937 sedi scolastiche, su un totale di 2.627, sono nate all’interno o nelle vicinanze delle aree industriali (131), sotto le antenne di radio e televisioni (632), a confine con le discariche (42) o gli aeroporti (29), sopra gli elettrodotti (103). L’inquinamento elettromagnetico mette ogni giorno in pericolo la salute di migliaia di studenti e insegnanti. I mali della scuola non vanno perciò ricercati esclusivamente negli edifici che cadono a pezzi, nelle richieste di manutenzione ordinaria e straordinaria indispensabili a garantire la funzionalità degli edifici, nei banchi e nelle sedie rotte, nelle palestre spesso chiuse perché inagibili. Sicurezza è anche vivere in un ambiente sano, al riparo da smog, radiazioni prodotte da cavi elettrici e reti per i telefoni cellulari, inquinamento acustico.

È ancora il rapporto «La scuola in controluce» - la ricerca a due mani che porta la firma dell’Ufficio scolastico regionale e dell’assessorato regionale al Diritto allo studio - a far emergere la contraddizione: i templi del sapere, i luoghi di formazione delle giovani generazioni sono fonti di pericolo. Il crollo al liceo Darwin di Rivoli ha messo in evidenza la mancanza di controlli sulla sicurezza delle scuole. La legge (D. Lgs. 626/94 e succ. modifiche), in questo settore, è carente: i controlli obbligatori sono pochi, solo per le nuove costruzioni si parla di valutazione dei progetti, e troppo di rado di controlli "a sorpresa" sulle strutture una volta completate e in funzione. Più grave la situazione delle scuole più vecchie, dove la manutenzione è spesso carente e i lavori non sempre eseguiti a regola d'arte. È il caso di Rivoli, dove il controsoffitto era stato fatto in traversino e non in cartongesso. E quando viene fatta qualunque modifica a strutture esistenti, bisognerebbe prevedere controlli ad hoc, perché gli interventi potrebbero avere ripercussioni negative sulla sicurezza.

I controlli agli istituti scolastici dovrebbero poi servire per verificare che non ci siano altre situazioni di pericolo. Così come in tutte le strutture e gli edifici aperti al pubblico: troppe volte nelle nostre inchieste abbiamo visto porte di sicurezza con maniglioni antipanico bloccate o lucchettate, ostacoli che impedivano la fuga, tende o pannelli che nascondevano le vie per uscire.

Questi i requisiti che non devono mancare per assicurare una rapida evacuazione:

vie di fuga segnalate e separate; illuminazione di sicurezza; assenza di ostacoli; porte con maniglioni antipanico; sistemi automatici di rilevazione incendi (rivelatori di fumo); sistemi di estinzione incendi (estintori, idranti); piani di emergenza.

Anche l'area che circonda la scuola deve essere organizzata in modo tale da garantire la massima sicurezza, perché chi scappa non deve rischiare di farsi male o essere investito non appena esce dal portone. Così come l'arrivo dei soccorsi deve essere il più possibile agevolato.

Invece le statistiche fornite dall’INAIL ci dicono che in un anno 90.000 ragazzi e 13.000 adulti (insegnanti e bidelli) si sono feriti nelle scuole. Dati impressionanti.

Il Presidente della Repubblica solleva inquietanti interrogativi sulle garanzie a presidio della sicurezza negli istituti scolastici. Per il ministro dell’Istruzione, “il problema della sicurezza nelle scuole italiane è una emergenza nazionale”.

Intanto a Torino Cinzia Scafidi, la madre del ragazzo morto con il crollo di Rivoli, chiede a gran voce giustizia: “Qualcuno pagherà per quello che è successo. Se hanno risarcito i parenti delle vittime della ThyssenKrupp anch’io ho il diritto di chiedere i danni. Anche quello di mio figlio era un lavoro, la scuola era il suo lavoro e lì dentro è morto a soli 17 anni. Qualcuno quindi dovrà rispondere di questo”.

Secondo un rapporto di Legambiente, il 42% degli edifici scolastici non sarebbe agibile o, per lo meno, mancherebbe del certificato di agibilità.

In realtà, in Italia 9 mila scuole non sono costruite con criteri antisismici delle 22 mila che si trovano in zone sismiche. Le scuole italiane sono tutte molto vecchie e, quindi, ad alto rischio. Nel nostro paese i terremoti non sono infrequenti e anche gli edifici a norma di legge, spesso, non assicurano l’incolumità a chi vi abita. Figuriamoci un vecchio edificio scolastico già fatiscente.

E’ stato presentato il Rapporto di Cittadinanzattiva sulla situazione delle scuole, da cui emerge una condizione diffusa di insicurezza: crolli di intonaco, certificazioni mancanti o non disponibili, scarsa manutenzione. Mancano controlli adeguati sul rispetto delle norme edilizie, sui lavori effettuati e sul rispetto dei tempi. Il certificato di agibilità statica è presente solo nel 34% delle scuole, quello di agibilità igienico-sanitaria è disponibile nel 39% dei casi, quello di prevenzione incendi nel 37%. Anche la segnaletica è spesso carente: una scuola su quattro non ha la piantina con i percorsi di evacuazione e le uscite di emergenza non sono segnalate nel 17% dei casi. Negli istituti che hanno laboratori scientifici, solo il 63% ha cartelli informativi sulle precauzioni da seguire e l'84% possiede armadi chiusi per riporre sostanze e attrezzature pericolose. Assai scarsa è la formazione del personale: nel dettaglio, una scuola su quattro non attua corsi sulla sicurezza del lavoro, il 17% non fa le prove di evacuazione, ben il 42% non fa corsi di primo soccorso né di prevenzione incendi e addirittura l'83% non ha svolto alcun corso sulla sicurezza elettrica.

Inoltre gran parte degli edifici scolastici italiani sono stati costruiti prima degli anni ’70 quindi, oltre ad essere vecchi risentono dell’uso di materiali e criteri edili inadeguati che provocano la preoccupante diffusione dello sfondellamento dei solai e del crollo di parti di esso; 14.700 edifici scolastici (quasi uno su tre) insistono in zone a rischio sismico; la manutenzione ordinaria da parte di Comuni e Province degli istituti scolastici risulta essere sempre più inadeguata e approssimativa sia per la scarsità dei fondi a disposizione, sia per la grave sottopercezione che si ha circa l’importanza di investire sulle strutture scolastiche.

Mense scolastiche. Cibo scadente, norme igieniche non rispettate, locali e apparecchiature non a norma. Circa un terzo delle mense scolastiche ispezionate in tutta Italia dai carabinieri del Nas è risultato irregolare. "C'e' un'equa distribuzione dei sequestri sul territorio nazionale - spiega il vicecomandante dei carabinieri per la tutela della salute -. Possiamo dire che le irregolarità sono a macchia di leopardo. In buona parte riguardano episodi di frodi, in particolare casi di cibo non adeguato o nocivo, oppure carenze strutturali nelle apparecchiature utilizzate. Spesso la somministrazione di cibo non idoneo non e' un fatto voluto, ma causato da ignoranza, disinteresse o cattiva formazione. Somministrare carne avariata, nella maggior parte dei casi, è attribuibile a episodi di imprudenza".

Bullismo. "Il bullismo e la violenza dei ragazzi sono diventati un problema di sicurezza e di ordine pubblico. Non possiamo preoccuparci della violenza che viene dall’immigrazione e fare finta di non vedere la violenza che nasce nei nostri giovani italiani; sono due facce dello stesso problema e la risposta dello Stato deve essere unica, forte e severa". A dirlo è il Presidente del Senato intervenendo al convegno di Palazzo Giustiniani 'Dal bullismo al crimine commesso: quando occorre tutelare i minori dai loro pari. Riflessioni e proposte sulla punibilità del minore'.

La seconda carica dello Stato ha ricordato che i nostri giovani "sono stati capaci di azioni inimmaginabili: dare fuoco ad un indiano che ancora, dopo un mese, lotta tra la vita e la morte, e farlo per gioco, è una azione che turba le nostre coscienze perchè quei ragazzi, fino a quando non avevano commesso quella terribile azione, erano considerati normali". Il Presidente del Senato ha anche sottolineato che "circa 35 mila alunni hanno avuto in pagella 5 in condotta. Educatori, insegnanti, psicologi, concordano nell’interpretare questo voto anche come conseguenza di episodi di bullismo. Alla base di questo fenomeno ci sono interpretazioni sbagliate e fuorvianti dei valori della ribellione e scarsa, se non nessuna, considerazione del valore dell’uomo, della inviolabilità della persona. È la non percezione del senso della umanità". Nel corso del convegno, inoltre, sono stati diffusi alcuni dati sul bullismo in Italia: sono 40mila i minori denunciati ogni anno in Italia. Secondo la ricerca effettuata dall'associazione 'La caramella buona', il 65% dei reati compiuti dai minori sono contro il patrimonio, 14% quelli contro la persona mentre il 10% sono contro la fede pubblica. Le denunce dei minori provengono per la maggior parte (circa 45%) dal nordovest.

Uno studente su due dichiara di essere stato, almeno una volta, vittima di bullismo. Questo il risultato dell’inchiesta sul fenomeno lanciata dal mensile Studenti Magazine, attraverso ‘Studenti.it’, alla luce dei più recenti fatti di cronaca, alla quale hanno partecipato 3.200 alunni delle scuole superiori. Oltre al 50%, che ha detto di aver subito atti di bullismo, c’è anche un 16 per cento che afferma di non averne subiti, ma di esserne stato spettatore. Aggregando i due dati si scopre che il 66%, circa due terzi, degli intervistati sono stati, anche solo una volta, testimoni attivi e passivi di atti di bullismo. Solo il 34% dei partecipanti al sondaggio è dunque “scampato” a episodi del genere. "Un dato quantitativo - commentano da Studenti Magazine - che ci indica quanto il problema sia reale e concreto". Sempre secondo i dati forniti dalla rivista, all’Università, invece, la violenza diminuisce nettamente. Infatti dalla stessa ricerca condotta sul sito risulta che "il 54% dei partecipanti, 1200 universitari, non è mai stato vittima di episodi di violenza all’interno dell’Ateneo, contro il 23% che, al contrario, ne ha subiti e il restante 23% che dichiara di non esserne stato vittima, ma di avere assistito a scene di violenza all’interno degli atenei".

Sms offensivi, minacce via cellulare, video e foto molesti che finiscono su internet: uno studente su tre subisce atti di bullismo online, nel 70% dei casi a scuola e soprattutto durante l’anno dell’esame di maturità. A lanciare l’allarme una ricerca condotta su 700 studenti delle scuole medie superiori di Chieti dalla cattedra di Psichiatria dell’Università di Chieti, in collaborazione con la Cooperativa Lilium di accoglienza e recupero di minori provenienti da tutta Italia.

Droga. Uso e abuso di droga: un fenomeno pericolosamente radicato fra i più giovani, che hanno creato un vero e proprio mercato interno agli istituti scolastici superiori. Le sostanze più richieste sono anfetamine, hashish, eroina; poca cocaina, troppo costosa. Lo spaccio si consuma durante l'intervallo e le richieste vengono effettuate direttamente dagli studenti tramite frasi in codice su Messanger e via sms. Segnalo per l'interesse del tema e la visibilità che è giusto dare a questo problema, una video-inchiesta realizzata da Repubblica TV, nelle scuole italiane e tra i ragazzi di alcuni istituti romani. Di questa inchiesta si parla sul Quotidiano Repubblica e attraverso di essa vengono fuori elementi sconvolgenti. Non solo infatti la percentuale di ragazzi che farebbero uso di stupefacenti è in continuo e graduale aumento, ma ormai il fenomeno dello spaccio avverrebbe tranquillamente all'interno della scuola e addirittura nelle aule durante le lezioni. In uno di questi video viene addirittura filmato un gruppo i ragazzini che si fumano tranquillamente alcuni spinelli, a pochi metri da una volante della polizia, probabilmente di fronte alla scuola per i controlli antidroga. Viene anche intervistato un baby spacciatore il quale dice: "Spaccio le canne, le spaccio a scuola e spaccio perchè è più facile pagarsi i jeans e le feste con gli amici. Anche se è un po' rischioso è più facile procurarsi i soli così." Altrettanto drammatica la testimonianza del ragazzo intervistato circa l'atteggiamento dei genitori (praticamente all'oscuro di tutto) e, specialmente, degli insegnanti. "Qualche professore a volte ha visto qualche mio amico, ma per la maggior parte non gli interessa". La droga verrebbe consumata e spacciata all'interno della scuola, anche se non nelle classi. I professori sarebbero a conoscenza di questi fatti ma farebbero anche "finta di niente", almeno così emerge da alcune interviste realizzate da Repubblica.

Prostituzione. Attraverso un sms si danno appuntamento nelle zone più nascoste della scuola per avere un rapporto sessuale e se non ricevono il permesso di uscire dall'aula si fanno cacciare fuori. Il sistema è uguale in tutti gli Istituti di Milano. Il cliente, al massimo un diciassettenne e la baby prostituta, a volte anche di tredici anni, entrambi studenti, abbassano la suoneria del telefonino e si mandano un sms per confermare gli accordi presi il giorno prima. Non sempre a incontrarsi sono soltanto un lui e una lei. Il sesso, rapido, può essere anche di gruppo. Dipende dai desideri e da cosa offre il momento. È quanto emerge da una inchiesta del Comune di Milano pubblicata dal quotidiano "La Stampa". «Non è neppure indispensabile conoscersi: i ragazzini possono contare su una “lista elettronica”, fatta circolare sui telefonini e sui blog via internet - si legge - che descrive la disponibilità della studentessa. Oltre al nome, cognome e numero di telefono, anche il prezzo e il tipo di prestazioni fornite: rapporti orali, sessuali completi, anali, con singoli o coppie, durante le lezioni, soltanto nell'intervallo, in cambio di vestiti firmati, ricariche per i cellulari e compiti. Liste note da tempo tra gli adolescenti, e di cui solo oggi, invece, gli adulti conoscono l'esistenza».

A parlarne per la prima volta un gruppo di teenager milanesi, seguiti da Luca Bernardo, il medico ha messo in piedi un ambulatorio sul disagio giovanile. «Gli elenchi non restano in mano agli studenti dello stesso istituto. Si scambiano con quelli delle altre scuole, creando un vero e proprio mercato della prostituzione minorile». «Ragazzi che stilano elenchi di mini escort e che, per vincere la timidezza - si legge ancora - usano droghe nei bagni di scuola. Addirittura più piccoli, attorno ai dieci anni, quelli trovati da una maestra intenti a scambiarsi immagini di rapporti sessuali con animali. Un'emergenza sociale che l'assessore alla Salute di Milano, ha intenzione di arginare, non senza difficoltà: «Non è semplice trattare certi temi perchè un certo bigottismo, politico e civile, tende a imporre la regola che di alcune questioni sia meglio non parlare».

Il precariato della scuola. Attualmente, in Italia, sono 304 mila i supplenti iscritti nelle graduatorie provinciali permanenti. Una consistente fetta (il 42 per cento circa) ogni anno riesce a conquistare una delle 130 mila supplenze per l'intero anno scolastico. Coloro che si trovano in fondo alle graduatorie vivacchiano con le supplenze brevi e temporanee saltellando da una scuola all'altra cercando di mettere assieme più punti possibili per scalare le fatidiche graduatorie. Ma se qualcuno pensa che si tratta sempre di ragazzini alle prime armi sbaglia. Spesso si presentano a scuola ultraquarantenni che hanno iniziato la carriera in ritardo, o hanno tentato altre strade prima di 'convertirsi' alla scuola, che non hanno nessuna voglia di vedersi cambiare le regole del gioco a partita iniziata.

Il docente supplente si distingue dal docente assunto a tempo indeterminato entrato in ruolo grazie ai corsi abilitanti degli anni ’70-80 e dell'ultimo concorso del 1999. Nell'attuale ordinamento italiano tutti i docenti di scuole statali o paritarie devono essere forniti di abilitazione. L'abilitazione all'insegnamento nelle scuole materne ed elementari si consegue nei corsi di laurea in Scienze della formazione primaria. Per le scuole medie e superiori sono esistiti dal 1999 al 2008 appositi corsi biennali di formazione post-laurea, a numero programmato, presso le Università (SSIS)), che prevedevano esami teorici di materia, di pedagogia, di didattica e un periodo di tirocinio nelle scuole statali, sotto la guida di un tutor.

Il supplente è un docente che lavora temporaneamente in sostituzione di un docente assente. La denominazione di supplente si estende anche a coloro che non sostituiscono alcun insegnante, ma semplicemente sono assunti per un determinato periodo (in genere un anno) per coprire necessità contingenti della scuola. Il supplente è nominato, nel caso di scuole statali, dall'USP (ex provveditorato agli) o dal dirigente scolastico (ex preside); nel caso di scuole private le modalità di assunzione sono gestite dalla scuola stessa. Le nomine vengono effettuate in base a delle graduatorie che determinano il diritto alla precedenza della chiamata: agli aspiranti supplenti è assegnato un punteggio determinato in base ai titoli (lauree, dottorati, esami, concorsi...) e al servizio prestato fino a quel momento (supplenze precedenti), un punteggio più alto permette all'aspirante supplente di ottenere una proposta di contratto prima dei docenti con un punteggio più basso. Le normative che regolano la costituzione delle graduatorie, le modalità delle assegnazioni delle supplenze e le tempistiche, sono regolate di anno in anno da appositi decreti ministeriali, regionali o comunali, e gestiti dagli uffici competenti. Esistono diverse tipi di graduatorie, attraverso le quali si accede a diversi tipi di supplenze: ad esempio supplenze annuali o supplenze brevi. Inoltre i docenti sono, ovviamente, suddivisi in graduatorie diverse per ciascun ordine di scuola e per ciascun tipo di insegnamento.

Il precariato è un problema, anzi è un dramma, una tragedia, dunque occorre evitare che si formi il precariato. Se l’insegnante di ruolo non facesse finta di ammalarsi specie negli ultimi anni della propria carriera (e non solo), eviterebbe di contribuire alla nascita del precariato e dei precari, i quali si devono ammalare di meno. Se non si ammalasse costantemente e puntualmente il 15 giugno di ogni anno in occasione degli esami di Stato (lo si fa da decenni impunemente), il “ruolino” non contribuirebbe all’arrivo nelle aule di supplenti chiamati a salvare il sedere a una scuola lasciata in braghe di tela dai “ruolini” tanto pregni di ideali e di “attaccamento alla funzione docente”. Ci sarebbero meno precari e meno precariato se i docenti di ruolo non perpetrassero i famigerati passaggi di cattedra; se non affollassero, pur essendo di ruolo, quelle graduatorie permanenti tanto disprezzate; se non prendessero in ostaggio per anni e per decenni cattedre lasciate alle supplenze perché si preferisce, per anni e per decenni, fare il sindacalista, il sindaco, l’assessore, il parlamentare, il ministro, il viceministro o il sottosegretario; se non si rendessero complici di quello straordinario strumento devastante per la qualità degli apprendimenti rappresentato dai  corsi di riconversione in materie di cui si è incompetenti; se non si abbandonasse la cattedra di sostegno di ruolo per passare su quella di disciplina. Ci sono insegnanti precari che sono andati in pensione senza essere riusciti a passare di ruolo.

Censimento del ministero sulla sicurezza delle scuole: Milano è in ritardo. Un edificio su tre non ha il certificato di agibilità, uno su quattro non dà garanzie sulla resistenza ai terremoti. E il 38 per cento non possiede un piano di emergenza in caso di incendio, scrive Tiziana De Giorgio su “La Repubblica” Una scuola su tre non ha il certificato di agibilità. Una su quattro non è provvista del collaudo statico che dia garanzie sulla resistenza delle aule ai terremoti. E ancora: il 38 per cento degli edifici milanesi dove fanno lezione ogni giorno migliaia di bambini e ragazzi, insieme ai loro professori, non ha un piano di emergenza in caso di incendio. Sono i dati preoccupanti che arrivano dall’anagrafe dell’edilizia scolastica del ministero dell’Istruzione. Una radiografia che mostra per la prima volta, in maniera capillare, lo stato di salute del patrimonio scolastico di tutto il territorio. I primi risultati del censimento (arrivato con venti anni di ritardo) sono stati resi noti i primi di agosto, raggruppati a livello nazionale e subito dopo regionale. Mancavano però, nel dettaglio, le voci più rilevanti: quelle sulla sicurezza delle strutture. Una patata bollente per le amministrazioni locali, sulla cui divulgazione si è temporeggiato per un mese. Il quadro che emerge è «tutt’altro che roseo» secondo gli esperti di costruzioni del Politecnico, nonostante ci siano province dove la situazione è ben più grave di quella del capoluogo lombardo. Nella classifica regionale, le scuole di Milano e provincia sono spesso all’ultimo, o al penultimo posto sul fronte delle certificazioni sulla sicurezza. Sulla presenza o meno del collaudo statico delle scuole, e quindi sulla tenuta delle strutture in caso di sisma, è messa peggio solo Cremona, dove in una scuola su due i controlli non sono mai stati fatti. Non tutti gli edifici, nel momento della loro costruzione, erano tenuti per legge a questo tipo di verifiche: il ministero è molto attento a segnalare come solo gli edifici costruiti dopo il 1971 abbiano avuto tale obbligo (lo stesso discorso vale anche per l’agibilità). Le scuole milanesi senza certificazione che rientrano in questa voce sono il 18 per cento. È invece il 14 per cento degli edifici — fra asili, elementari, medie e superiori — a non essere in possesso del via libera, nonostante l’obbligo fin dal momento della loro nascita. Resta il fatto che per il 32 per cento degli istituti non ci sono garanzie messe nero su bianco sul fatto che le strutture tengano a un terremoto: il certificato di collaudo statico ce l’ha il 66 per cento delle strutture e c’è un 10 per cento di scuole da cui non sono state inviate informazioni a riguardo. Ci sono invece province dove le certificazioni arrivano a coprire quasi l’80 per cento delle strutture scolastiche. La giustificazione a tale mancanza non può essere legata solo alle origini del patrimonio scolastico milanese, particolarmente datato: il 69 per cento delle scuole milanesi ha più di 40 anni, è vero. Ma ci sono province come Como e Lodi dove la percentuale di scuole vecchie è ben più alta. Un’altra voce diffusa dall’anagrafe riguarda la presenza o meno del "'documento di valutazione del rischio" che indica le condizioni di sicurezza di un ambiente di lavoro ed eventuali rischi. Sarebbe obbligatorio, ma quasi il 40 per cento delle scuole di città e provincia non ce l’ha. Nella provincia di Lodi il numero degli istituti che ne è provvisto sfiora il 100 per cento. Sul fronte dell’efficienza energetica, invece, sono il 60 per cento le scuole milanesi che hanno accorgimenti per migliorare il risparmio energetico, dai doppi vetri fino ai pannelli solari.

Le scuole tremano: 31mila a rischio crollo. I geologi avvertono: "Nulla è stato fatto dopo le tragedie degli anni passati". Ma incuria e abusivismo edilizio continuano, scrive Luca Fazzo, Lunedì 07/09/2015 su “Il Giornale”. Stragi come quelle della scuola di San Giuliano di Puglia, (in Molise) dove il 31 ottobre 2002 il terremoto uccise ventisette bambini e una maestra. E altre stragi evitate solo perché il sisma distrusse le scuole in piena notte, come nel 2009 in Abruzzo e nel 2012 in Emilia. La cronaca recente d'Italia è piena di storie di edifici scolastici che si sgretolano sotto scosse di terremoti prevedibili e a volte previsti. Ma nulla è cambiato, e oggi un numero impressionante di scuole continua ad essere esposta allo stesso rischio. Ventiquattromila istituti che sorgono in territori dove le probabilità di terremoti è elevata. È un allarme di quelli che di soliti vengono riesumati all'indomani delle tragedie: e che fanno parlare i giornali di «tragedia annunciata». Ieri i geologi italiani hanno provato a giocare d'anticipo e a richiamare l'attenzione sui punti critici della prevenzione sismica, ma anche del rischio idrogeologico: ma i numeri contenuti nel rapporto sono talmente elevati da autorizzare il pessimismo, perché arrivati a questo punto solo una titanica impresa di ristrutturazione e la dislocazione di intere popolazioni potrebbero rimediare ai danni dell'incuria e dell'abusivismo. Basti pensare alle centinaia di migliaia di esseri umani che vivono nell'area a ridosso del Vesuvio, un gigante dormiente da secoli ma pronto a risvegliarsi in qualunque momento con effetti catastrofici. Nei dati diffusi ieri dal Consiglio nazionale dei Geologi, in una serie di iniziative in diverse piazze italiane dove sono state esposte le carte geologiche del paese e spiegate le tecniche in grado di prevedere gli eventi più devastanti, il dato sulle scuole a rischio è quello più angosciante, anche perché ai ventiquattromila edifici a rischio sismico vanno aggiunti i 7.100 esposti a disastri idrogeologici, ovvero frane e allagamenti. «Nel 2014 - spiega Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio nazionale dei Geologi - abbiamo avuto ancora vittime e danni alle infrastrutture molto importanti». «La stima della popolazione a rischio alluvioni in Italia - spiega Graziano - è pari a 8 milioni e 600mila abitanti nello scenario di pericolosità idraulica media». Sono numeri talmente impressionanti da domandarsi come il problema possa essere concretamente affrontato. E la risposta di Michele Orifici, coordinatore della commissione Protezione civile del Cng, è: «Un piano di lungo periodo per la messa in sicurezza di settori sempre più ampi di territorio è doveroso. Ma il fronte più immediato su cui intervenire, in grado di dare grandi risultati, è l'educazione al rischio. Nessuno sa come comportarsi davanti a un terremoto, eppure ci sono comportamenti in grado di limitare i pericoli. E questo è ancora più vero in caso di alluvioni: basti guardare cosa è accaduto in Liguria, dove un uomo si è fermato in motorino a guardare il fiume in piena, ed è stato travolto; o in Sardegna dove alcune persone sono morte negli scantinati dove si erano rifugiate. Spiegare che quando inizia a piovere in un certo modo bisogna portarsi nei piani alti sembra una banalità, ma salverebbe vite umane». Per questo, spiegano i geologi, sarebbe essenziale che i piani comunali per la Protezione civile addestrassero, soprattutto nelle zone a maggiore rischio, la popolazione, con esercitazioni e simulazioni, a come reagire alle emergenze: «Ma in buona parte dei Comuni - spiega Orifici - i piani non esistono nemmeno». E pensare che sarebbero obbligatori per legge.

Pubblica insicurezza. In ospedale e a scuola rischiamo la vita, Ma non esiste un'anagrafe degli immobili. E i pochi dati esistenti sono protetti più delle carte su Ustica, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Entri in un albergo, negli uffici di un'azienda, in una fabbrica, e prima ancora del centralinista trovi ad accoglierti la planimetria con i punti di fuga in caso di incendio, affiancata da un estintore con la targhetta su cui sono segnate le manutenzioni. In Italia le norme sulla sicurezza sono rigorose e i controlli ferrei, ed è sacrosanto vista la frequenza con cui si verificano incidenti talvolta tragici. Siamo un Paese a rischio terremoti, con un territorio fragile, dove in generale regna l'arte di arrangiarsi. Mettere in sicurezza i luoghi di lavoro è un dovere di coscienza prima che un obbligo di legge. Varchi invece la soglia di un edificio pubblico e piombi in una selva oscura. Scuole, ospedali, caserme, palazzi di rappresentanza, uffici giudiziari, cimiteri, mercati, case popolari, fabbricati rurali, edifici di culto, infrastrutture. Sono o non sono in regola? Chi garantisce che non si rischia la pelle a metterci piede? Dove sono gli attestati antisismici, le protezioni antincendio, gli impianti elettrici a norma? Una mamma può essere sicura che a suo figlio non cadrà in testa il soffitto della scuola, com'è successo lo scorso 13 aprile a Ostuni? E dove sono i cerberi che non danno tregua ai privati? Forse che, essendo pagati da un ente pubblico, chiudono un occhio con i colleghi? La sicurezza negli edifici pubblici è uno dei peggiori scandali nazionali. Non esiste un'anagrafe degli immobili, o quantomeno un registro o un semplice database. Non è mai stato fatto un censimento relativo alla sicurezza. Non si sa che cosa sia a norma e che cosa no. Gli enti che dovrebbero intervenire sono una miriade e non è stata prevista un'autorità unica incaricata delle verifiche. Sulla carta le leggi sono severe, soprattutto in materia antisismica; esse dispongono verifiche e ordinano adeguamenti, ma se nessuno provvede non sono previste sanzioni. Gli interventi sono sporadici e troppo graduali, come dimostra la lentezza del piano per mettere in sicurezza le scuole. Soprattutto, non ci sono soldi. E ristrutturare costa maledettamente. Palazzo Marino, sede del municipio di Milano, è a norma? Ci vuole qualche giorno perché l'ufficio stampa si orienti nella congerie di dipartimenti: «Capirà, siamo sotto Expo». Ma siccome Expo dura sei mesi la domanda è ancora senza risposta. E il Campidoglio? A Roma sono dipartimenti, municipi di zona e sovrintendenze a occuparsi dei quasi 60mila edifici di proprietà comunale e del relativo monitoraggio. Ma la sede principale? Non si sa, forse se ne occupa il gabinetto del sindaco, forse no. Al comune di Palermo ci sono voluti 15 giorni per comunicare il nome del funzionario competente. Il Giornale si è rivolto - al telefono o via mail - ai ministeri delle Infrastrutture e dell'Istruzione, all'Agenzia del demanio e alla Protezione civile, e ai comuni di Roma, Milano e di alcune grandi città classificate nelle zone sismiche a rischio maggiore: Palermo, Genova, Napoli e Potenza, unico capoluogo di provincia in zona 1, quella a sismicità più elevata. Le pochissime risposte ci rimbalzano da un ufficio all'altro. Lavori pubblici, patrimonio, urbanistica, demanio, opere pubbliche, inventario, edilizia scolastica. Ogni amministrazione ha un ufficio diverso competente (si fa per dire) per la sicurezza. E quando se ne occupano in troppi significa che in realtà non se ne occupa nessuno. La pubblica insicurezza è la fotografia del caos che regna ovunque, al centro e nelle periferie, dove si comanda e dove si esegue. Ma forse è un disordine voluto, perché nella confusione le responsabilità si perdono. Un segreto di Stato, custodito quasi si trattasse dei fascicoli su Ustica o sui servizi deviati. «Volete scoperchiare il vaso di Pandora», dice l'ingegner Andrea Barocci, specialista in ingegneria delle strutture. «I dati che chiedete sono tra quelli in assoluto più riservati», confermano al Centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri, che possiede rilevazioni sulle abitazioni private ma non sugli edifici pubblici. Le leggi si sovrappongono, gli obblighi si sommano, ma i responsabili del patrimonio immobiliare pubblico riescono quasi sempre a eludere gli obblighi normativi. Gli inventari magari ci sono, ma nessuno si preoccupa di schedare gli immobili a seconda del grado di sicurezza. Non ci sono piani di intervento, né programmi con scadenze precise per la messa in sicurezza. Si va dalla bonifica dell'amianto alle caratteristiche degli impianti elettrici, dalle procedure antincendio fino al rischio sismico e idrogeologico. Il patrimonio è sterminato: secondo la Ragioneria dello Stato, nel 2012 il valore dei beni pubblici raggiungeva i 281 miliardi di euro, ma molte amministrazioni (tra cui Palazzo Chigi) non avevano segnalato le rispettive proprietà. A Roma gli immobili comunali sono 59.466 di cui 27.766 alloggi popolari mentre il comune di Milano possiede 22.409 tra terreni e fabbricati. La gran parte di questi beni è vecchia, benché non tutti abbiano un valore storico: soltanto il 44% delle scuole e il 30% degli ospedali italiani sono stati costruiti dopo il 1974, quando fu varata la prima normativa antisismica. Proprio le direttive per la riduzione del rischio terremoti mostrano la fragilità del sistema (oltre che delle costruzioni). Nel 2002 in Molise l'unico stabile interamente demolito dalle scosse fu un edificio pubblico: la scuola elementare di San Giuliano di Puglia, dove morirono 27 bambini e un'insegnante. L'anno successivo fu imposto agli enti proprietari l'obbligo di verificare le condizioni di tutti gli edifici pubblici italiani «con funzione rilevante o strategica» (scuole, caserme, prefetture, municipi, ecc. ) posti nelle zone sismiche 1 e 2. I controlli dovevano essere compiuti entro cinque anni ma sono slittati al 2013. Dieci anni per controllare il patrimonio immobiliare pubblico. A San Francisco, metropoli dotata - a differenza delle nostre - di un efficiente servizio ispettivo, hanno adottato un sistema più spiccio: nel 2013 il sindaco ha introdotto rigidi requisiti di sicurezza e un anno per adeguarsi. Lo scorso ottobre un funzionario ha fatto affiggere cartelli di pericolo in tre lingue sui portoni delle strutture inadempienti: «Questo edificio non rispetta le caratteristiche del San Francisco Building Code in tema di sicurezza sismica». Pubblica insicurezza, pubblica gogna. Da noi non sono bastati dieci anni perché la norma italiana non prevede né sanzioni né pene per gli amministratori inosservanti. Il peggio però è che eseguire le verifiche non comporta l'obbligo di mettere in sicurezza lo stabile a rischio: è così che nel 2009 la prefettura dell'Aquila è crollata dopo che una verifica ne aveva evidenziato la vulnerabilità. Nulla dispone la legge sugli edifici non «rilevanti o strategici» o nelle zone sismiche 3 e 4. Ma non c'è nemmeno alcun obbligo di rendere noti i risultati delle verifiche, fermo restando il diritto degli interessati a chiederne visione. Se i proprietari degli edifici decidono di intervenire rischiano di provocare la rivolta di studenti e impiegati, come successe a Bojano (Campobasso): dovette intervenire la Commissione grandi rischi per tranquillizzare le mamme degli alunni di una scuola fatiscente. Più spesso gli amministratori pubblici decidono di chiudere tutto in un cassetto, evitando di mettere in piazza le responsabilità. È il caso di molti dirigenti scolastici. Secondo il XII Rapporto sicurezza di Cittadinanzattiva, soltanto il 33 per cento degli istituti ha una certificazione di agibilità statica, il 35 una certificazione di agibilità igienico-sanitaria e appena il 23 per cento una certificazione di prevenzione incendi. Tre istituti su quattro presentano problemi strutturali. Sovente mancano scale di sicurezza, uscite di emergenza, porte antipanico, vetrate conformi, estintori. Si sceglie di lasciare tutto com'è, magari nascondendosi dietro la mancanza di fondi. Spesso, in verità, questa non è soltanto una scusa. L'Associazione nazionale costruttori stima che per il semplice rafforzamento locale (interventi che non richiedono valutazione della sicurezza e collaudo statico) servano in media 300 euro per ogni metro quadrato di superficie, somma che sale a 450 euro per interventi di miglioramento sismico (opere su singoli elementi strutturali) e a 600 in caso di demolizione e ricostruzione. La sicurezza costa cara, anche se la vita non ha prezzo. Una spesa che molti non vogliono sostenere. Per un amministratore pubblico la sicurezza è parametrata al rapporto costi-benefici e alla probabilità che si verifichi l'evento infausto. I governi negli anni hanno distribuito fondi a casaccio, da quelli per la bonifica dall'amianto al programma «6.000 campanili» in cui i cento milioni di euro stanziati per la sicurezza del territorio devono servire anche per nuove infrastrutture, opere pubbliche e reti wi-fi. L'esecutivo Renzi si è segnalato per il progetto Scuole sicure in cui le promesse non hanno ancora avuto seguito. Lo stanziamento complessivo per l'edilizia scolastica è di 3,9 miliardi di euro ma, a detta del sottosegretario Davide Faraone, ne servirebbero tre volte tanto. Una tranche di 940 milioni, già stanziata dal governo Letta, è ancora ferma. Bloccati anche i 40 milioni indirizzati alla «verifica strutturale dei solai», questione tornata di drammatica urgenza dopo il crollo di Ostuni. Lo scorso 22 aprile doveva essere presentata anche l'anagrafe scolastica, primo censimento sulla sicurezza di edifici pubblici. Ma molte regioni non hanno comunicato i dati. E l'anagrafe è slittata alle calende greche.

Insicurezza nelle scuole, di Polibio su “Scuola Oggi”. Se il 50% delle scuole italiane non ha il certificato di agibilità, se il 65% non ha quello di prevenzione incendi e se il 36% degli edifici necessità di urgenti interventi di manutenzione, allora l'insicurezza è diffusa e la preoccupazione è certamente assai notevole. Si tratta, a parte la carente manutenzione ordinaria, soprattutto nelle regioni meridionali, a incrementare le condizioni di insicurezza degli edifici scolastici, di dati forniti da Legambiente, presenti in un articolo di orizzontescuola.it dal titolo "Liceo Darwin. Morte di Vito Scafidi, condannati anche tre docenti. Si dimettano tutti i responsabili della sicurezza delle scuole italiane". Dati che pongono "l'Italia al fondo della classifica europea, seguita solo dalla Polonia". Piuttosto che ipotizzare le dimissioni dei responsabili della sicurezza delle scuole italiane e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, sono necessarie puntuali e costanti attenzioni e conseguenti ispezioni, più volte ripetute durante l'anno scolastico, da parte di coloro che hanno la funzione di responsabile dei servizi di prevenzione e protezione (RSPP) (nominato e incaricato non per chiamata diretta del d.s., retribuito con fondi pubblici), di addetto ai servizi di prevenzione e protezione (ASPP), di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) (anch'esso retribuito, sebbene con cifre niente affatto compatibili col peso delle responsabilità assunte). Le attenzioni e le ispezioni debbono essere immediatamente seguite da circostanziate relazioni sulle evidenti, o comunque da far presupporre, condizioni di pericolosità; relazioni inviate al dirigente scolastico, affinché a sua volta formalmente comunichi, immediatamente, allegando la relazione, al sindaco e all'assessore per i lavori pubblici del comune o al presidente della provincia e all'assessore  per i lavori pubblici della provincia, territorialmente competenti in ordine alla tipologia dell'istituto scolastico, quanto è stato evidenziato dal responsabile dei servizi di prevenzione e di protezione, dagli addetti agli stessi servizi e dai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, chiedendo il tempestivo intervento per eliminare i pericoli segnalati. Se l'intervento da parte dell'amministrazione (comunale o provinciale) non è immediato, il dirigente scolastico deve procedere con la diffida nei confronti delle autorità comunali o provinciali, affinché intervengano immediatamente, avvertendo che in caso contrario, e quindi di mancato immediato intervento, oltre a declinare la propria responsabilità, si rivolgerà, con circostanziato esposto, alla magistratura, all'ufficio per la protezione civile, al direttore generale dell'ufficio scolastico regionale e al dirigente dell'ufficio scolastico provinciale, al Miur, al presidente della Regione e ai competenti assessori regionali per l'istruzione e per le opere pubbliche. Se, nonostante la sua diffida, l'intervento dell'autorità comunale o dell'autorità provinciale competente non avviene tempestivamente, il dirigente scolastico, poiché potrebbe configurarsi l'esistenza di un reato penalmente perseguibile (e lo sarebbe anche nei suoi confronti se, avendo omesso di presentare la denuncia, si verificasse un incidente – per esempio, il crollo di un soffitto – con danni soprattutto alle persone: alunni, docenti, ata, genitori di alunni o altre persone a qualsiasi titolo presenti nell'edificio), ha l'obbligo di presentare circostanziata denuncia all'autorità competente, ovvero alla Procura della repubblica. Se le condizioni di pericolosità sono particolarmente evidenti e alquanto gravi, valuterà l'opportunità e la necessità di chiudere l'accesso all'edificio scolastico. Per quanto concerne le responsabilità, tra le "disattenzioni", le "omissioni" e soprattutto tra le "sordità" degli amministratori comunali, provinciali e regionali (anche per quanto concerne le "verifiche" dei direttori generali e dei dirigenti degli uffici scolastici), sono recentemente emerse – evidenziate da Lucio Ficara nel suo articolo "Ds sotto inchiesta per violazione delle norme sulla sicurezza" (con la precisazione che "l'inchiesta portata avanti dal PM Raffaele Guariniello è soltanto la punta di un iceberg, in quanto la situazione riscontrata nelle scuole su citate rappresenta in buona parte le scuole italiane e non l'eccezione") – quelle che derivano da condizioni di irregolarità degli istituti scolastici "Vittorini" di Grugliasco e "Pascal" di Giaveno, in Piemonte, nel torinese, che hanno visto sotto inchiesta i rispettivi dirigenti "per violazione del Testo unico della sicurezza sul lavoro". Per quanto concerne la "Vittorini", la contestazione del PM Guariniello ha riguardato "la presenza di lana di vetro, materiale cancerogeno nei controsoffitti". Per quanto concerne la "Pascal", la contestazione ha riguardato le accertate "carenze strutturali in relazione al rischio sismico della zona, in quanto le parti prefabbricate potrebbero sganciarsi e crollare, procurando notevole danno agli studenti e al personale della scuola". La sentenza del processo d'appello per il crollo del controsoffitto nel liceo "Darwin" di Rivoli, in provincia di Torino – in conseguenza del quale il 22 novembre 2008, alle ore 11.05, al termine dell'intervallo, morì lo studente di diciassette anni Vito Scafidi a causa della caduta del controsoffitto, con tutto il pesantissimo materiale che vi stava sopra, nell'aula nella quale si stava svolgendo la lezione –, pone tra i condannati anche i tre insegnanti che avevano la funzione di responsabili per la sicurezza della scuola (Diego Sicot: 2 anni e 2 mesi; Paolo Pieri: 2 anni e 6 mesi; Fulvio Trucano: 2 anni e 9 mesi), mentre è stata confermata la condanna a 4 anni per Michele Delmastro e agli altri due funzionari della Provincia di Torino, Sergio Moro ed Enrico Marzilli, sono state inflitte, rispettivamente, pene di 3 anni e 4 mesi e di 3 anni. Su Regolarità e Trasparenza nella Scuola (R.T.S.) era stato pubblicato, postato da Aldo Ficara il 3 novembre 2013, alle ore 14:50, l'articolo "La tragedia del Darwin di Rivoli deve essere un monito per la sicurezza delle scuole", che descrive quanto era accaduto il 22 novembre del 2008 "quando alle 11.05, al termine dell'intervallo, forse per un'improvvisa folata di vento la porta della 4G si chiuse violentemente. In pochi secondi i pendini che sostenevano il controsoffitto si ruppero e sugli studenti finirono anche i circa 200 kg di materiale che era stato abbandonato sopra i pannelli, tra cui alcuni tubi in ghisa del peso anche di 20- 25 kg l'uno. E proprio un pezzo di tubo di ghisa, secondo la consulenza del dottor Roberto Testi in primo grado, avrebbe colpito Vito alla testa provocandone la morte. Secondo l'appello presentato dall'avocato Cancan 'quanto accaduto non è sola responsabilità del Delmastro (ex funzionario della Provincia, il solo a essere condannato in primo grado). In 25 anni nessuno si è posto il problema della sicurezza della controsoffittatura: c'era una botola che consentiva l'ingresso nel vano tecnico e che imponeva i controlli di sicurezza che non ci sono stati. E' un comportamento doveroso omesso per 25 anni'". In un altro articolo, dal titolo "Liceo Darwin di Rivoli: le possibili ragioni della condanna", dello stesso 3 novembre 2012, pubblicato anche su latecnicadellascuola.it, Aldo Domenico Ficara – dopo aver premesso che le "reazioni della mamma e del papà di Vito" (che piangono per la morte del figlio e addirittura la mamma di Vito dice che "più che giustizia questa sentenza è un punto di partenza per la sicurezza in tutte le scuole italiane" e che pertanto continueranno "a lottare per questo obiettivo", come hanno "fatto nel corso di questo processo) stridono "con le ipotesi di invito alle dimissioni di massa dei RSPP, considerati non colpevoli da alcuni settori del mondo della scuola che non comprendono quali possano essere le colpe da addossare, nel caso specifico, ai docenti addetti alla sicurezza" – ha invitato a cercare "di capire il dato tecnico". E così si è espresso: "Sono due i dati incontrovertibili sullo stato strutturale delle nostre scuole: la mancanza di finanziamenti da parte dello Stato e le continue proroghe di adeguamento di messa a norma degli stessi edifici scolastici. In particolare sulla messa in opera dei controsoffitti possiamo dire che un carico su un profilo causerà sempre una deflessione. La deflessione è proporzionale al carico e dipende strettamente dallo spazio tra i supporti, in altre parole se il carico raddoppia, allo stesso tempo raddoppierà la deflessione, e se la distanza tra i supporti raddoppia, la deflessione diventa anch'essa maggiore". Per una buona messa in opera di un controsoffitto, raccomandazioni vanno applicate "al carico in movimento (incassi delle luci, segnali, ecc.) in aggiunta al peso del controsoffitto sospeso e alla distanza tra i supporti". "I pannelli del controsoffitto devono essere ben posizionati nella griglia". "Il carico massimo disponibile per ogni sistema di controsoffittatura" deve essere calcolato "con un margine di sicurezza multiplo, contro qualsiasi tipo di problema". Secondo Aldo Domenico Ficara, "il giudice o la CTU avranno sicuramente analizzato il progetto di messa in opera, ma soprattutto il collaudo della struttura, perché proprio in sede di collaudo poteva essere notato il carico eccessivo sulla stessa struttura. In una seconda fase, se il carico era eccessivo, così come lo è stato, si sarebbe dovuto notare, da apposite e ravvicinate visite di controllo interne alla scuola, la deflessione della struttura e quindi la scuola, viste le verbalizzazioni delle visite di controllo, doveva decretare la chiusura dell'aula per pubblica e privata incolumità". Su orizzontescuola.it sono apparsi diversi articoli. In uno di essi ("Crollo Liceo Darwin, docenti condannati. Chi avrà ancora il coraggio di assumersi tale responsabilità? I dirigenti protestano"), è scritto che "l'evento ha scatenato la reazione di varie associazioni, tra esse l'ASASI, l'Associazione delle Scuole Autonome della Sicilia, che considera la condanna 'paradossale'. La legge impone agli enti locali Comuni e Province di consegnare gli edifici scolastici ai dirigenti in perfetto stato e in condizioni di massima sicurezza. Non conosciamo le motivazioni della sentenza, ma è certo che i Docenti responsabili della sicurezza non possono essere in grado di valutare gli aspetti relativi alla staticità degli edifici tranne che in presenza di macroscopici segni evidenti anche per chi non sia un tecnico". In un altro articolo ("Liceo Darwin. Morte di Vito Scafidi, condannati tre docenti. Si dimettano tutti i responsabili della sicurezza delle scuole italiane"), viene posta la domanda se "vale la pena prendersi tanta responsabilità soprattutto nelle condizioni in cui versano molte scuole italiane e in cambio di 'trenta denari'". Sull'espressione dell'ASASI "la condanna dei tre Docenti del liceo Darwin di Rivoli (Torino), responsabili a vario titolo della sicurezza, ha del paradossale", Polibio – che condivide profondamente l'indignazione come cittadino italiano manifestata in un suo articolo da Lucio Ficara "al pensiero che nel mio PAESE esista una tale classe dirigente priva del minimo senso del pudore e totalmente priva del senso civico", un'associazione professionale "che, ignorando la tragedia della perdita umana di un giovane ragazzo" di diciassette anni, Vito Scafidi, avvenuta per colpa grave di chi aveva l'obbligo della prevenzione e della protezione in una scuola pubblica statale, si dimostra sconcertata per la condanna dei tre docenti al punto tale da affermare che "la condanna ha del paradossale" – ritornerà nella parte conclusiva di questo suo intervento. Da parte dell'ANP (Associazione Nazionale Presidi, presidente nazionale Giorgio Rembado), un comunicato stampa (2 novembre 2013) della Struttura regionale del Piemonte, col quale, tra l'altro, oltre a "manifestare ancora una volta la propria vicinanza alle famiglie delle vittime, e al contempo interpretando il profondo turbamento della scuola piemontese", viene messo pubblicamente in rilievo che "è bene ricordare le diverse competenze, suddivise tra gli Enti locali proprietari degli edifici e delle strutture e responsabili della loro manutenzione, e i Dirigenti Scolastici datori di lavoro in ordine allo svolgimento delle attività all'interno delle strutture stesse: un difficile equilibrio che vede tutti accomunati nella difficoltà di fare i conti con strutture a volte degradate, arretrate e inadeguate al compito di ospitare l'attività didattica, uniti dalla volontà e dallo sforzo di garantire un servizio qualificato, spesso ostacolati dalla scarsità delle risorse, dalle restrizioni e dalla burocrazia che talvolta non consente di spendere neppure i finanziamenti disponibili". Più avanti, l'ANP Piemonte, "nel chiedere a tutti i Dirigenti Scolastici e a tutti i responsabili, gli addetti, i professionisti impegnati in questo gravoso compito di continuare strenuamente ad operare con lo spirito di servizio e abnegazione tipica della loro professionalità, ricorda che è schierata in prima persona nella tutela degli operatori scolastici con concrete azioni di patrocinio legale, di supporto sindacale e di intervento in ambito normativo, nella logica non della difesa aprioristica e d'ufficio, bensì nella consapevolezza della mole e della gravità del compito che spetta a chi opera nel settore. Da ultimo, i dirigenti scolastici manifestano la preoccupazione delle scuole in ordine agli effetti che le condanne di alcune figure addette alla sicurezza del liceo Darwin rischiano concretamente di produrre relativamente all'assunzione di incarichi che comportino gravi responsabilità addirittura su interventi edilizi pregressi e per di più assai difficilmente individuabili a carico di tutti i soggetti preposti". Pertanto, l'ANP Piemonte si faceva ancora di più promotrice "di iniziative volte a dare la maggiore certezza possibile nell'applicazione della normativa vigente al fine di garantire a tutti la riduzione massima del rischio ipotizzabile, al di fuori di ogni tentazione punitiva", tenendo "sempre presente il necessario rapporto tra fini da perseguire e strumenti disponibili" e "privilegiando sempre la prevenzione in una costante collaborazione con tutti gli enti preposti che richiede necessariamente un clima più sereno e disteso per affrontare e risolvere i problemi evitando le minacce che sono peggio che inutili soltanto dannose". Sulla sentenza per il caso del liceo Darwin, in un articolo pubblicato l'1 novembre 2013 nel sito web dell'Associazione nazionale presidi (presidente nazionale Giorgio Rembado), c'è la premessa che è "abitudine" dell'ANP "rispettare tutte le sentenze, ma questo non ci esime nel caso specifico dal sollevare alcuni interrogativi" e a chiedere, dato che erano stati condannati sia tre funzionari della Amministrazione provinciale sia tre docenti, "per quale motivo una condanna di gravità praticamente identica" – per la precisione, i funzionari della Provincia di Torino sono stati condannati a pene maggiori: 3 anni, 3 anni e 4 mesi, 4 anni (vd. sopra) – "è stata inflitta a personale della scuola che non ha i poteri di intervento né le risorse per farlo". Aggiungendo ad essa un di più: "Nel Liceo Darwin le cause del crollo erano nascoste dietro una controsoffittatura installata tempo prima proprio dall'Ente Locale. Cosa avrebbero dovuto fare i docenti condannati: procedere loro, sostituendosi ai servizi tecnici della Provincia, ad indagini diagnostiche o ad ispezioni invasive della struttura? Con quali fondi e con quale competenza giuridica ad operare su beni altrui?". E ancora: "C'è da chiedersi con quale serenità possano da ora in avanti dedicarsi al proprio lavoro dirigenti ed addetti i servizi di protezione delle scuole, stretti fra l'impossibilità pratica di intervenire sui fattori reali di rischio e l'obbligo giuridico di rispondere comunque per fatti che sfuggono alla loro disponibilità", concludendo in modo chiaro: "La 'sicurezza di carta' uccide: lo abbiamo denunciato mille volte. Ed uccide due volte: non rendendo sicure le nostre scuole e sacrificando, prima e dopo gli incidenti, le persone sbagliate". Si potrebbe subito rispondere (così da parte di Polibio) che il compito dei docenti "a vario titolo addetti alle attività di prevenzione infortuni" è quello di ispezionare, ripetutamente durante scolastico, e soprattutto durante i mesi dell'attività didattica e quindi della massima presenza a scuola degli studenti, degli insegnanti, degli assistenti amministrativi e dei collaboratori scolastici, e anche del dirigente scolastico, tutti gli ambienti, compresi i controsoffitti, con riferimento anche al contenuto e al peso che li sovrasta. E di riferire formalmente al d.s. ciò che è del tutto evidente (per esempio: una ringhiera delle scale che oscilla, una presa elettrica uscita fuori dal suo abitacolo, vetri lineari che potrebbero rompersi presto, scale con gradini fratturati, controsoffitti non allineati e addirittura sovrastati da materiali per centinaia di chili ...) e ciò che è presumibile in termini di pericolosità: prevenzione e protezione. Non debbono sostituirsi a nessun servizio tecnico, non debbono svolgere indagini diagnostiche, né svolgere "indagini invasive della struttura". Non sono loro che debbono praticare interventi. Debbono periodicamente ispezionare tutti gli ambienti e relazionare al dirigente scolastico e al responsabile dei servizi di prevenzione e di protezione (RSPP). Nel blog "Regolarità e Trasparenza nella Scuola (R.T.S.), di Aldo Domenico Ficara, il 2 novembre 2013 viene postato un articolo dal titolo "L'ANP probabilmente non conosce il pericolo dei controsoffitti", nel quale, dopo la sintesi dell'articolo dal titolo "Sicurezza di carta, giustizia di ferro", comparso il giorno prima nel sito web dell'ANP, di legge: "Da quanto si legge è ovvia la mancata competenza di chi scrive (l'ANP, nota di Polibio) sulle operazioni di controllo (anche visivo) di una controsoffittatura. Infatti, un controsoffitto non collassa istantaneamente, ma in tempi lunghi dove l'azione del peso sovrastante riesce a superare il vincolo di reazione per effetto di infiltrazioni d'acqua o variazioni termiche, che ne determinano particolari incurvature rispetto all'asse orizzontale. Se le ispezioni in locali dove esistono controsoffitti non sono periodiche e ravvicinate nel tempo, le responsabilità di chi ha programmato tali ispezioni visive sono palesi". Segue l'invito, per avere maggiori approfondimenti, a leggere un suo articolo (di Aldo Domenico Ficara) pubblicato sulla "rivista cartacea de La Tecnica della Scuola dell'anno scolastico 2012-2013, "riguardante proprio le controsoffittature". L'ASASI, pur in attesa delle motivazioni della sentenza, "nella speranza che il giudizio della Cassazione riformi la sentenza di secondo grado", si è così espressa: "Non possiamo che esprimere solidarietà ai decenti condannati e nel contempo raccomandare a tutti i Docenti che all'interno delle scuole si assumono pesanti responsabilità (ci auguriamo che abbiano ancora il coraggio di farlo!), di agire con prudenza segnalando per iscritto eventuali rischi alle autorità competenti anche in presenza di un solo sospetto". Quel punto esclamativo dopo l'augurarsi che i docenti "abbiano ancora il coraggio di farlo", ovvero di assumere le responsabilità in ordine alla rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza, purtroppo fa il paio con l'espressione "la condanna ha del paradossale". Il dott. Raffaele Guariniello, procuratore generale e coordinatore del pool di magistrati dell'accusa, dopo la conclusione del procedimento ha detto: "Questo processo è importante anche per il futuro perché ci sono scuole con grossi problemi di sicurezza non solo a Torino. Spero che il nuovo governo sappia trarre insegnamento da questa tragedia e investire sulla sicurezza nei luoghi dove mandiamo i nostri figli e nipoti. C'erano tutti gli elementi per rendersi conto che la situazione era tragica. Questo dramma poteva essere evitato". "Quindi" – così nell'articolo "La tragedia del Darwin di Rivoli deve essere un monito per la sicurezza delle scuole" postato da Aldo Ficara alle ore 14:50 del 3 novembre 2013 sul blog "Regolarità e Trasparenza nella Scuola (R.T.S.), a commento della dichiarazione del dott. Guariniello – "sono mancate le necessarie ispezioni, nessuno degli addetti alla sicurezza ha usato la botola che consentiva l'ingresso nel vano tecnico". Riferendosi "nello specifico ad alcune dichiarazioni dell'ASASI e dell'ANP", rinvenibili in questo articolo, "comparse sul sito Orizzontescuola", Lucio Ficara, focalizzando il comportamento di sconcerto dell'Asasi per la condanna dei tre docenti al punto tale da affermare che "la condanna ha del paradossale", ma anche le dichiarazioni dell'ANP, ha manifestato su Regolarità e Trasparenza nella Scuola (R.T.S.) e su Gilda Venezia la sua profonda indignazione come cittadino italiano (che Polibio, come ha già detto, condivide). Ha scritto che "bisognerebbe rifondare la classe dirigente del nostro Paese, iniettando forti dosi di civismo e anche di spirito cristiano". Alle domande che l'Associazione Nazionale Presidi si è posta su "cosa avrebbero dovuto fare i docenti condannati" (vd. il testo predente e, tra l'altro, il "si potrebbe subito rispondere" espresso da Polibio), Lucio Ficara risponde: "Ma se a morire sotto il peso di quel maledetto contro soffitto ci fossero stati i figli di chi grida allo scandalo contro questa sentenza, piuttosto che il povero Vito, siamo sicuri che tali associazioni avrebbero rilasciato queste dichiarazioni? Oppure avrebbero, come giustamente hanno fatto i genitori di Vito, accolto la sentenza come monito perché non succedano mai più tali tragedie?". E subito dopo aggiunge, rivolgendosi al prof. Roberto Tripodi (dell'ASASI) e al prof. Giorgio Rembado (dell'ANP): "La morte di Vito, cari Tripodi e Rembado, è stata causata dall'inettitudine, di gente che dovrebbe avere l'onere di essere classe dirigente seria ed onesta, ed invece ha solo l'onore e l'orpello di essere elevata ad una statura che non merita, a causa di una modesta etica morale e per la completa assenza di senso civico. Probabilmente per tali associazioni è più importante difendere l'indifendibile, piuttosto che trovare dova stanno realmente le responsabilità di chi ha impedito ad un giovane ragazzo di realizzare i sogni della sua esistenza. Noi pensiamo che una classe dirigente che abbia senso civico e carità cristiana dovrebbe imparare a fare silenzio e a rispettare la vita". Un ultimo aspetto viene messo in evidenza da Polibio. Si trova nell'articolo pubblicato sul sito web dell'Associazione Nazionale Presidi il giorno 1 novembre 2013: "Come principale associazione dei dirigenti delle scuole, abbiamo deciso di dare un contributo fattivo alla questione sicurezza, avviando a livello nazionale un consistente piano di formazione autofinanziato, dedicato a tutti i nostri iscritti e finalizzato ad incrementare le competenze in materia. Nei limiti, non superabili, nei quali ci troviamo ad operare, questo vuol essere un contributo reale alla sicurezza delle scuole che ci sono affidate". Era il 22 novembre 2008 quando il crollo del controsoffitto del liceo Darwin di Rivoli in provincia di Torino, catapultando sugli studenti anche i circa 200 kg di materiale che era stato abbandonato sopra i pannelli, tra cui tubi in ghisa anche di 20- 25 kg l'uno, causò la morte di Vito Scafidi. Da quel giorno sono trascorsi 5 anni, e finalmente l'ANP si è resa conto – ma c'è voluta la condanna di tre docenti, con una sentenza in sede di appello indicata come "incredibile" e da considerarsi "paradossale" da parte di esponenti di associazioni professionali e sindacali di dirigenti scolastici – "di dare un contributo fattivo alla questione sicurezza, avviando a livello nazionale un consistente piano di formazione autofinanziato, dedicato a tutti i nostri iscritti e finalizzato ad incrementare le competenze in materia". Ebbene (così suggerisce Polibio), forse è il caso, e avrebbe dovuto essere intrapreso da tempo, da parecchio tempo, che l'ANP e qualsiasi altra associazione professionale o organizzazione sindacale si facciano punto di riferimento sulle questioni concernenti la prevenzione e la protezione, denunciando alle competenti procure della repubblica le condizioni di insicurezza e di pericolo, con probabili e possibili conseguenze letali per gli studenti, per il personale docente e non docente, per i genitori degli studenti, per le persone che verrebbero a trovarsi all'interno della scuola e anche per il dirigente scolastico, a causa delle inadempienze e delle negligenze di chiunque (istituzioni pubbliche, enti locali, responsabili dei servizi di prevenzione e di protezione, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, dirigenti scolastici) è obbligato per disposizioni di legge a svolgere ispezioni e controlli e a intervenire tempestivamente per eliminare le anomalie strutturali e le situazione di pericolo.

Idiozia mammona: i genitori temono più il bullismo che le scuole che crollano, scrive Giuliano Lebelli su “Il Primato Nazionale” il 5 settembre 2015. Anni di rieducazione e di allarmismi inventati sono alla fine riusciti nell’intento: i genitori italiani temono più il “bullismo” che l’insicurezza dei locali scolastici. Un dato che stupisce, in un Paese in cui, secondo Legambiente, “il 32,5% delle scuole necessita di interventi di manutenzione urgente e il 41,2% si trova in aree a rischio sismico e hanno bisogno di interventi di riqualificazione e messa in sicurezza, ma solo il 22,2% degli edifici scolastici ha effettuato la verifica di vulnerabilità”. Ma in fondo cosa volete che sia un tetto che cade sulla testa degli alunni, meglio preoccuparsi di prese in giro fra ragazzi che avvengono dalla notte dei tempi. Secondo l’indagine condotta da Coldiretti/Ixè, il 48% di genitori e dei nonni sono in allarme e ritengono che non si combattano abbastanza gli atti di prepotenza tra gli studenti. È comunque pur sempre il 45% degli intervistati a temere per la stabilità delle aule dove dovranno trascorrere intere giornate figli o nipoti. I primi a tornare sui banchi, comunque, lunedì 7 settembre saranno gli studenti dell’Alto Adige poi, quelli della regione Molise che inizieranno il 9 mentre gli studenti del Trentino entreranno in classe il 10 settembre. Quelli della Campania, del Friuli, i lucani, i calabresi, i liguri, i lombardi, gli allievi della regione Piemonte, delle Marche e quelli delle isole della Sicilia e della Sardegna varcheranno il portone dei propri plessi il 14 settembre mentre il 15 settembre sarà la volta degli allievi del Lazio, dell’Emilia e della Toscana. Ultimi, il 16 settembre, gli studenti pugliesi e quelli del Veneto.

AMIANTO: LA MORTE DEI PROFESSORI.

Amianto, ora muoiono anche i professori. Dal 1993 almeno 60 docenti sono deceduti per tumori correlati all'esposizione. Con un picco negli ultimi anni. Eppure, malgrado gli annunci, per le bonifiche nelle scuole è stato fatto poco. Mentre gli istituti a rischio riapriranno come nulla fosse, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso” il 2 settembre 2015. I morti di Casale Monferrato non sono soli. Non per la solidarietà che hanno riscosso i loro parenti in cerca di giustizia. Non sono soli nel senso letterale del termine. Fra i 21 mila tumori provocati da esposizione all’amianto e rilevati a partire dal 1993, c’è infatti anche chi ha trascorso tutta la propria vita professionale fra i banchi di scuola, dietro una cattedra. E respirando polveri di asbesto è deceduto come chi ha lavorato negli stabilimenti della Eternit. Secondo il Registro nazionale mesoteliomi istituito presso l’Inail, che censisce le neoplasie dovute all’amianto (pleura, peritoneo, pericardio e tunica vaginale del testicolo) nel 2012 - ultimo anno analizzato - erano stati registrati 63 casi nel comparto istruzione: 41 uomini e 22 donne. A scorrere le categorie professionali, c’è da restare di sasso: 25 insegnanti, 6 bidelli, 5 tecnici di laboratorio e via di questo passo. Non è data sapere la loro sorte, ma considerando quanto sia fulminante la malattia dopo la diagnosi, è legittimo supporre che siano tutti deceduti. Tutti accomunati dall’aver trascorso anni e anni in aule e costruzioni “imbottite” di eternit: spruzzato per coibentare le tubazioni o usato in pannelli da isolante termico e antincendio, come è avvenuto a lungo in tutti gli edifici pubblici. Nelle scuole era facile trovare cartoni e tessuti d’amianto nei laboratori tecnici e artigianali e prima che venisse commercializzato sotto forma di panetto premiscelato e pronto all’uso perfino il Das in polvere conteneva un’alta percentuale di crisotilo (il cosiddetto “amianto bianco”). È questo il contesto in cui tutti si sono ammalati, hanno scoperto di essere affetti da mesotelioma (più o meno dopo 37 anni di latenza) e nel giro di mesi sono deceduti. In media a 64 anni. Esattamente quanti anni ne aveva Andrea Brero, ricercatore di Scienze politiche a Torino, morto per tumore alla pleura nel 2012. E docente a Palazzo Nuovo proprio come Gianni Mombello, ordinario di Storia della lingua francese, scomparso qualche anno prima con la stessa diagnosi: i loro casi hanno spinto il pm Raffaele Guariniello ad aprire un’inchiesta e sequestrare Palazzo Nuovo, proprio per i rischi connessi alla salute. In realtà le vittime sono molte più di 63. Non solo perché i dati dell’ultimo rapporto del Renam - che sarà pubblicato nelle prossime settimane e che l’Espresso ha visionato in anteprima - si fermano al 2012. Ma anche perché il picco si è verificato proprio negli ultimi anni: fra il 2009 e il 2012 sono stati 19 i casi registrati, cinque in più del triennio precedente. Ed è solo quest’anno, secondo lo studio, che dovrebbe iniziare a stabilizzarsi l’incidenza. Anche ipotizzando che il numero sia rimasto inalterato, la letteratura medica internazionale concorda sul fatto che per ogni tumore alla pleura c’è statisticamente almeno un tumore ai polmoni. Di conseguenza le vittime di amianto potrebbero essere oltre 150. Le istituzioni non sembrano però muoversi granché, tanto che lo Stato italiano non sa neppure esattamente quante sono le scuole da bonificare. Una stima l’ha fatto stima l’Osservatorio nazionale amianto: oltre 2mila. «Le uniche somme a fondo perduto sono i 150 milioni stanziati da Letta, il governo Renzi nonostante le promesse non ha messo in campo alcun intervento significativo» rileva il presidente della onlus Ezio Bonanni. Senza contare che, essendo i tempi per avere i fondi erano stretti, solo un terzo sarebbero stati effettivamente utilizzati. Insomma, quando le scuole riapriranno fra una decina di giorni, non si preannunciano grandi novità. Ma proprio sulla scorta dei dati del Renam, qualche professore inizia ad avere paura. Come accade all’istituto tecnico “Leonardo da Vinci” di Firenze, l’istituto con quasi 2mila studenti divenuto famoso per il vademecum imposto agli alunni del biennio a causa della massiccia presenza di amianto: non forare, graffiare, né urtare le pareti, non correre all’interno dell’edificio, non chiudere “in modo violento” porte e finestre. Luciano Macrì a 63 anni lì dentro ci ha passato oltre metà della sua vita: 32 da professore di Scienze più altri sei da studente: «Il mese scorso con alcuni colleghi abbiamo chiesto all’Asl di essere messi sotto sorveglianza sanitaria per essere sottoposti a monitoraggi costanti. Non ci hanno ancora risposto. I controlli sull’aria hanno sempre dato risultati negativi ma la preoccupazione resta: qui ci sono casi di colleghi scomparsi prematuramente». Un timore comprensibile: la Toscana, con 17 tumori da amianto registrati fra i prof., è la regione più colpita. In compenso a Palazzo Vecchio, dove fino a un anno e mezzo fa era inquilino Matteo Renzi, qualcosa inizia a muoversi: il comune ha stanziato 12 milioni per demolire la “Dino Compagni”, altro edificio fatiscente e imbottito di amianto. Come il “Leonardo” riaprirà regolarmente anche la “Giovanni Falcone” di Roma, che da quasi cinque anni attende la rimozione dell’amianto bianco contenuto nei pannelli attorno ai vani delle caldaie: un’intercapedine di decine di metri lungo il perimetro esterno degli edifici che ospitano elementari e medie. E a pochi passi dal giardino in cui giocano i bambini. Le prime segnalazioni risalgono al 2010-2011 e un sopralluogo effettuato a fine 2014 ha anche rilevato la presenza di fibre di amianto. Ma la bonifica non è mai partita. Il motivo? Trattandosi di una spesa per investimenti, non sono mai stati trovati i fondi necessari. Un capolavoro di burocrazia con tanto di estenuante carteggio - e annesso rimpallo di responsabilità - fra gli uffici del Campidoglio e del municipio. Adesso Roma Capitale ha stanziato 100 mila euro, che però dopo otto mesi non sono ancora arrivati: «Ci hanno detto che sono ancora fermi alla Ragioneria del Comune, che poi li deve trasferire al Municipio» afferma Raffaele Delle Cave, padre di un bambina che quest’anno andrà in seconda e coordinatore del comitato Amianto della scuola: «Se avessero accelerato i tempi, avrebbero potuto approfittare della chiusura estiva. Invece passerà un altro anno ancora senza lavori». Non riaprirà invece i battenti l’elementare “Antonio Gramsci” di Alpignano, vicino Torino, che resterà chiusa perché “realizzata con materiali e logiche di costruzione superati con presenza di pannelli in cemento/amianto”. Una vicenda accompagnata da polemiche e timori che adesso è finita in Procura a seguito di un esposto. Una storia emblematica, a suo modo. Fino a qualche mese fa, infatti, l’edificio (costruito nel 1971) rientrava negli standard di sicurezza. Poi a giugno la decisione improvvisa di chiuderla per sempre: “razionalizzazione e riorganizzazione funzionale dei plessi”, spiega la delibera di giunta. Insomma, un problema economico. Ma basta questo per chiudere una scuola? Perfino la preside, nel corso di una riunione tecnica, arriva ad affermare esplicitamente che non si capiscono le reali motivazioni. Così inizia a farsi strada il timore che in realtà ci siano rischi connessi alla presenza di amianto. Un passaparola che trova conferma ufficialmente a metà luglio, nell’ordinanza con cui l’ufficio tecnico fa retromarcia e limita la chiusura a quest’anno scolastico. E da una richiesta di accesso agli atti salta fuori anche un monitoraggio del 2013 in cui - pur riconoscendo “danni limitati” alle fibre di amianto, “difficilmente liberabili” - una società di ingegneria suggeriva “un intervento di rimozione quanto prima”. Rimozione che adesso dovrebbe arrivare con gli intervenuti di manutenzione. «I timori in ogni caso restano» osserva il presidente del comitato genitori, Giovanni Quaranta: «Se adesso è necessario addirittura chiudere la scuola, possibile che fino a ieri andasse tutto bene?».

Bonifiche di amianto e scarti chimici, siamo in ritardo di venti anni. Centinaia di riunioni, migliaia di documenti. Ma i veleni restano. A Nord come a Sud. Mentre accanto all'amianto e agli scarti chimici la popolazione continua ad ammalarsi e morire. Un rapporto del ministero dell'Ambiente fotografa la débacle, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Sopralluogo all'ex miniera amiantifera di Balangero, la più grande cava di amianto in Europa. A Balangero, in provincia di Torino, l'amianto è di casa. Per ottant'anni i tremila abitanti del paese hanno convissuto con la più grande cava di pietra verde d'Europa, prima di scoprire che oltre al lavoro quei sassi portavano tumori ai polmoni e morte. Fermata l'attività della miniera nel 1990, nel 1993 arrivò il primo piano per la bonifica di quei materiali un tempo utilizzati diventati ormai rifiuti pericolosi. E oggi, a ventun anni di distanza, di quei 314 ettari di polveri velenose solo 3,3 sono stati puliti: l'un per cento. È uno dei tanti, macroscopici ritardi fotografati in un rapporto del ministero dell'Ambiente sullo stato delle bonifiche nei luoghi più inquinati del paese, aggiornato al 31 dicembre del 2013. Un dossier di 58 pagine che fotografa dall'alto il dormire indisturbato dei veleni. Mentre nelle case accanto ad ex industrie chimiche, raffinerie, acciaierie e discariche, la gente continua ad ammalarsi e morire. Il rapporto, ora nelle mani del neo-ministro dell'Ambiente, il commercialista del'Udc Gian Luca Galletti, non mostra null'altro che numeri. Sufficienti, da soli, a raccontare una burocrazia micidiale, dall'attività incessante quanto scarsa nei risultati. Dal 2000 ad oggi, ovvero nei 14 anni in cui 57 pezzi d'Italia, da Taranto a Sesto San Giovanni, sono stati considerati dei "siti di interesse nazionale", amministratori locali e commissari si sono riuniti 1531 volte, 821 per capire cosa fare dei veleni sotto terra o sott'acqua, 721 per prendere delle decisioni. Questo continuo riunirsi ha prodotto 23.833 documenti inviati al ministero per avere consigli o approvazione. Fra i fogli ci sono i piani di caratterizzazione, ovvero quell'attività preventiva che serve a capire quanto è esteso l'inquinamento e da cosa è composto, ci sono i progetti per iniziare la "messa in sicurezza", ovvero gli interventi che le aziende stesse - se ci sono ancora - o i comuni possono mettere in atto per evitare che i virus si estendano ulteriormente, e infine ci sono i concreti propositi per la bonifica, che dovrebbe permettere a quelle terre una nuova vita. Il problema è che a questo ultimo gradino, il primo che consiste veramente nel sbarazzarsi delle scorie, trovando discariche adatte o processi capaci di ripulire i rifiuti sul posto, sono arrivati in pochi. Anzi, in pochissimi. A Brindisi la zona avvelenata sarebbe estesa 5851 ettari: la luce verde è arrivata solo per 547. A Piombino su 931 ettari solo 68 sono pronti per essere puliti. A Taranto 4383 ettari, fra mare e città, sono a rischio. Solo su 633 ci sono controlli fatti. E anche i successi possono nascondere altri segreti. Sulle macerie dell'Acna, l'impresa di coloranti che ha lasciato a Cengio, sul confine fra Piemonte e Valle d'Aosta, una pesante eredità di diossine, metalli e rifiuti tossici, la bonifica sarebbe completa: la prima in Italia, con tanto di festa e di comunicati orgogliosi da parte dell'allora ministro per l'Ambiente Stefania Prestigiacomo. Ma secondo il Wwf non è possibile parlare di vittoria. Perché benché assicurati dentro bare resistenti i veleni sono ancora tutti lì. Tanto che la possibile vendita dell'area a delle imprese interessate è in sospeso, in attesa che dal ministero indichino chiaramente cosa è rimasto da fare: sotto il tappeto sono nascoste altre scorie. Altre vittorie potrebbero non rivelarsi tali. Per i 250 ettari dell'Ex Falck di Sesto San Giovanni, a Milano, il piano di bonifica è pronto. Tanto che nel rapporto ministeriale l'ex acciaieria è tutta verde (il colore dell'ultimo step, quello del successo): i soldi ci sono, il piano pure, e la gara per ripulire il passato industriale di Sesto è stata affidata. A chi? A una società controllata dalla famiglia di Giuseppe Grossi, mancato nel 2011, lo stesso Grossi indagato per i costi gonfiati della maxi-pulizia del quartiere milanese di Santa Giulia. A Napoli la presunta bonifica di 226 dei 945 ettari inquinati di Bagnoli ha portato la procura a indagare 21 persone, tra dirigenti, imprenditori e responsabili istituzionali, perché la rimozione delle scorie avrebbe creato piuttosto un ulteriore danno ambientale. Ma nel dossier tutta quella zona, pure, è segnata dal verde del successo. L'elenco è lungo: riguarda 160mila ettari di terra e 130mila di mare, riempiti di veleni mortali. E quello del ministero non è nemmeno un elenco completo, perché con un decreto del gennaio 2013 il governo di Roma si è sbarazzato di 18 mega-mostri ecologici su 57: dalle mani di Stato sono passati al controllo delle Regioni, che si dovranno arrangiare da sole a ripulire la melma tossica di Cerro al Lambro, a Sud di Milano ad esempio o i detriti della Maddalena, in Sardegna, sulla cui gestione - organizzata dall'allora capo della protezione civile Guido Bertolaso - sta indagando la magistratura.

PARLIAMO DELLE RIFORME CHE NESSUNO VUOLE.

Nonostante nulla funzioni e tutto sia fondato sul trucco, in Italia nessuno vuole le riforme.

A proposito di riforme, in tema di insegnamento vi è un interessante approfondimento di Sergio Lorusso sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Coniata nel 1909 da due intellettuali del calibro del pugliese Gaetano Salvemini (1873-1957) e Giuseppe Prezzolini (1882-1982), la locuzione «barone universitario» ricorre ciclicamente nelle cronache italiane, a dispetto di riforme e controriforme del mondo accademico susseguitesi negli ultimi decenni. Un secolo fa, dalle colonne della prestigiosa rivista letteraria «La Voce» (una loro creatura), i due già si interrogano sulle radici e sulle ragioni dei potentati accademici, forti delle loro esperienze in Italia e all’estero: tra gli obiettivi della rivista, afferma in un editoriale Prezzolini, vi è quello di occuparsi «della crisi morale delle università italiane», e desta clamore, in uno dei fascicoli iniziali, un articolo di Salvemini dal titolo «Cocò all’Università di Napoli, o la scuola della mala vita», che rappresenta il primo atto della campagna contro i baronati e il dogmatismo delle università dello Stivale.

Lo storico molfettese, dopo aver conseguito a soli ventotto anni la cattedra di Storia moderna nell’Università di Messina ed essere passato agli Atenei di Pisa e Firenze, emigrerà negli Stati Uniti dove dal 1933 insegna Storia della civiltà italiana nell’Università di Harvard, per poi rientrare in Italia nel 1949 – all’indomani della caduta del fascismo – e riprendere l’insegnamento a Firenze, città dei suoi studi superiori.

Anche Prezzolini, giornalista e scrittore, può godere di un punto di vista privilegiato, avendo vissuto tra Italia, Francia e Stati Uniti, paese quest’ultimo in cui si trasferisce nel 1929 per insegnare nella Columbia University di New York. «Essere baroni è una categoria dello spirito e loro hanno sempre trovato il modo di far pesare il proprio ruolo su valvassori e valvassini», ha scritto qualche giorno fa sul «Corriere della Sera» Lorenzo Salvia, additando le facoltà di Medicina e Giurisprudenza come quelle più a rischio baronie e citando il caso dell’Ateneo barese – finito sotto le lenti della magistratura – come emblema dell’Esamopoli e della Parentopoli accademica.

Il fenomeno, tuttavia, non è esclusivamente pugliese o meridionale, anche se è soprattutto al Sud che ha assunto una dimensione giudiziaria più eclatante. In Lombardia, ad esempio, dove sono concentrati alcuni tra i più prestigiosi atenei italiani, non è mai scoppiata una vera e propria Parentopoli, ma i casi di nepotismo certo non mancano, come documentano con dovizia di particolari Davide Carlucci e Antonio Castaldo nel loro volume Un paese di baroni (Chiare lettere ed., 2009), elencando le dinastie padane. E suona come una nota decisamente stonata l’asserzione del capostipite di una di esse, Walter Montorsi, che introduce un improbabile distinguo tra il nepotismo del Sud, dove «c’è la mafia», e la «naturale trasmissione del sapere del Centronord», per poi affermare, con un certo orgoglio, che «i baroni ci sono sempre stati e continueranno ad esserci», ma che «a Milano non è come giù», perché si lavora da mattina a sera. Siamo di fronte a qualcosa che andrebbe studiato piuttosto dal punto di vista antropologico, evidenziando quelle leggi non scritte che reggono il mondo universitario e le carriere accademiche nel nostro Paese, quelle regole non codificate che stanno alla base di un sistema spesso chiuso e autoreferenziale, distante anni luce dalla concezione anglosassone dell’accademia. Regole che, proprio perché consolidate, sono più difficili da sradicare e per il cui superamento non è sufficiente una riforma legislativa, anche se animata da buone intenzioni o annunciata come «epocale». Lo ha fatto Raffaele Simone, leccese, tra i più autorevoli studiosi europei di linguistica e di filosofia del linguaggio, in un illuminante saggio del 1993 ripubblicato in versione aggiornata nel 2000 dal titolo L’Università dei tre tradimenti (Laterza ed.), che bolla il pianeta università come arretrato, tribale, inefficiente e orientato all’autoriproduzione. È la cultura della formazione d’eccellenza e del sapere, allora, che andrebbe rifondata ab imis, restituendo dignità, autorevolezza, trasparenza e competitività ad un sistema universitario in affanno. Se il compito è estremamente arduo, e molto più facile da enunciare che da realizzare in concreto, ciò non significa che si debba rinunciare in partenza. «Ci sono uomini colti persino tra i professori», affermava con non poca ironia Prezzolini, che dipingeva l’Italia come una terra di grandi ingiustizie, nella quale «non si può ottenere nulla per le vie legali, nemmeno le cose legali», raggiungibili soltanto «per via illecita: favore, raccomandazione, pressione».

L’Università come specchio del nostro Paese, allora? Forse sì, ma solo in parte. Salvemini, il «professore sovversivo» di Molfetta costretto all’esilio durante il regime fascista, che in una lettera al rettore dell’Ateneo fiorentino aveva chiarito le ragioni della sua rinuncia alla cattedra per essere venute meno le condizioni di un insegnamento veramente libero, il censore dell’Italia dei potenti, delle inefficienze, delle lentezze e degli scandali refrattario ai compromessi, visse sempre all’insegna del motto «fa’ quello che devi, avvenga quello che può». Salvemini tornò alle redini della «sua» cattedra fiorentina quasi vent’anni dopo – grazie all’ostinazione di Piero Calamandrei e di Ernesto Rossi – alla veneranda età di settantasei anni, per continuare a svolgere la sua battaglia contro il nozionismo e l’incapacità di formare delle vere coscienze critiche, piaga del nostro sistema formativo. Non sempre, in definitiva, «docente» fa rima con «incompetente» o con «potente».

La memoria ci porta ad ogni tentativo di riforma. Cortei ed occupazioni di scuole ed università.

Studenti e professori nullafacenti di sinistra manifestano contro il Governo del cambiamento: ma non gli crede più nessuno, scrive Andrea Pasini il 13 ottobre 2018 su "Il Giornale". Che vergogna vedere degli studenti medi e universitari protestare in piazza a Roma ed in molte altre città Italiane contro la prospettiva non reale di possibili nuovi tagli alla scuola e di pseudo promesse tradite dal governo del cambiamento ma anche contro il decreto sulla sicurezza e le politiche anti migranti. Ha spiegato il coordinatore nazionale della Rete degli Studenti Medi, che non possono più accettare che questo governo si riempia la bocca di parole come “cambiamento”, per poi offrire solo regresso. Secondo questo signore ad esempio: le Telecamere nelle scuole e leva militare sono provvedimenti dannosi e inutili. Oggi è troppo facile scendere in piazza e urlare contro questo neo Governo: “non vi vogliamo più” dopo solo qualche mese che è in carica e che dati alla mano ha fatto più questo esecutivo in pochi mesi che quello precedente di sinistra in 5 anni. Gli organizzatori di questa manifestazione che senza ombra di dubbio sono di sinistra forse si sono dimenticati che è da decenni che i soli responsabili dello sfascio della scuola sono proprio loro, i governi e gli insegnanti di sinistra. È un sacrosanto diritto esprimere le priorità idee e poter manifestare in proprio dissenso su ciò che non si condivide ma ci vuole anche buon senso e sopratutto coerenza. Ed in questo caso questa protestata fa acqua da tutte le parti perché raffazzonata, superficiale e senza una logica. Questa protesta ha perso di credibilità agli occhi dell’opinione pubblica nel momento in cui ne sono protagonisti ed organizzatori quei personaggi che hanno sempre portato acqua politica ai soliti noti, fregandosene della validità delle proposte altrui, e quei docenti che hanno l’obiettivo di smantellare tutto ciò che non appartenga alle solite logiche di sinistra che fino ad oggi hanno contribuito a gestire la scuola in Italia e che di fatto la hanno completante distrutta. Questa gentaglia di sinistra che ha cercato a tutti i costi di distruggere le nostre tradizioni insegnando ai giovani solo ciò che faceva comodo a loro. Insegnando la storia che più dava credito e valore al valore malsano del comunismo. Uno dei tanti esempi: le Foibe che non hanno mai voluto insegnare e spiegare. Neppure la legge ha convinto moltissimi docenti sinistroidi a commemorare nella scuola il Giorno del Ricordo, gli italiani massacrati dai partigiana comunisti di Tito. Oppure I prof “rossi” in tutt’Italia che hanno trasformato le lezioni contro l’omofobia in uno strumento di propaganda a favore delle unioni e delle adozioni omosessuali. In una scuola elementare in provincia di Vicenza ricordo bene, sempre a causa di quei corsi che dovrebbero abituare alla diversità, un bambino è tornato a casa dicendo: «Papà, lo sai che posso diventare femmina?». Da qui la protesta dei genitori. Ma è solo uno dei tanti casi che per settimane hanno riempito le cronache dei giornali. Oppure la continua proposta di eliminare i simboli religiosi con la scusa di non turbare chi non è cattolico, in molte scuole si è giunti a togliere il Crocifisso dalle aule, a non festeggiare il Natale o a trasformarlo in una festa laica, a non consentire la benedizione pasquale e addirittura ad allontanare il prete, «si accomodi fuori». L’ora di religione viene presentata come propaganda faziosa, nessuno dice che approfondire il Cristianesimo è cultura, non uno spot. In molte scuole elementari, sono state ignorate le feste della mamma e del papà. Ricordo quando scesero tutti in piazza, i professori accompagnati dagli studenti di sinistra non appena si parlò della riforma Gelmini quando era in carica il Governo Berlusconi. Non c’era nemmeno il testo e già prepararono la rivolta. Il “maestro unico” alle elementari diventò una specie di mostro capace di distruggere la scuola. Inventarono la balla della cancellazione quasi totale del tempo pieno. Dissero che la riforma avrebbe favorito le scuole private “uccidendo” la scuola pubblica. Coinvolsero ignari genitori che portarono in piazza gli scolaretti. Non che io sia mai stato un fan della Gelmini ma non accadde nulla di quanto sostenevano i brutti sinistroidi che organizzarono la protesta, il loro obiettivo era solo andare contro il governo di centrodestra. Ecco perché oggi la protesta degli studenti e degli insegnanti rossi non è affatto credibile. Al posto che protestare sul nulla, dovrebbe protestare invece perché i nostri ragazzi sono sempre più disorientati, bombardati da una quantità di nozioni pletoriche, disorganiche, superficiali e indigeste, defraudati di quella koiné culturale che contrassegna l’identità di un popolo, e, al di là di ogni considerazione di carattere pedagogico, politico o ideologico, semplicemente incapaci di parlare e scrivere correttamente. Sarebbe stupido oltre che semplicistico addossare la responsabilità di questo sfacelo a questo o a quel Governo. Renzi ad esempio ci ha messo indubbiamente del suo con la fallimentare riforma sulla scuola che aveva varato nel precedente governo ma il male viene da lontano. Sono venuti al pettine i nodi di anni di disinteresse, demagogia, iconoclastia da quattro soldi, il peggio del clericalismo intrecciato col peggio del comunismo, la confusione mentale della sinistra e l’ottusità bottegaia di certi strati della società civile. Sta il fatto che l’Italia ha perso il contatto con se stessa, con la sua storia, la sua tradizione, la sua cultura. Già ora non ha più una borghesia colta e illuminata, i ceti più istruiti sono risucchiati nella povertà assoluta o relativa, l’ignoranza delle classi sociali più umili si salda con quella dei detentori di ricchezza che impongono mode, gusti, stili di vita, obiettivi rozzi, pacchiani, cialtroni. Sicuramente il genio italico trova e troverà il modo di esprimersi in individui eccezionali, in comparti di nicchia, lontano dal centro e dai riflettori. Ma non sarà il Paese. Questo è avviato ad omogeneizzarsi non dico nella mediocrità, che non è poi una brutta cosa, ma nell’opacità di fruitori passivi di cose, giovani perennemente con le cuffie alle orecchie e con lo sguardo fisso sullo smartphone, soddisfatti e realizzati con le scarpette alla moda e la felpa griffata, non importa se contraffatta. Il problema è che chi ha formato questi ragazzi è stato a sua volta formato da insegnanti persuasi di dover svecchiare metodi e contenuti per inseguire una presunta trasformazione della società, come se la scuola dovesse stare al passo dei tempi e non fosse invece garanzia di continuità, custode della tradizione, antidoto alle mode, al provvisorio e al relativo. La scuola che rincorre l’attualità rimarrà sempre indietro mentre quella che si basa sulla tradizione, che conserva il culto e la memoria dei classici vive in un eterno presente e prepara la spinta verso l’avvenire, non è mai “superata”. La sinistra, che si nutre di slogan, di preconcetti, di frasi fatte, da almeno sessanta anni agita la bandiera della riforma della scuola al solo scopo di scardinarla, perché il suo sistema di potere si regge sull’indifferenza, sul ripiegamento nel privato, sull’omologazione, sulla rinuncia alla conoscenza, sulla morte dell’ideale. La sinistra di oggi è riuscita dove il socialismo reale ha fallito: impedire alla gente di pensare alto, di indignarsi, di ribellarsi e c’è riuscita minando i principi e i valori che danno senso alla formazione. Un regime liberticida finisce per esaltare il valore della libertà, fortificare gli spiriti, favorire l’aggregazione degli oppositori; i feticci del potere e la sua propaganda si presentano con contorni netti in primo luogo proprio all’interno delle aule scolastiche: accettarli o respingerli è comunque un atto libero e intelligente; di qua o di là, la scelta è sempre possibile, anche se l’alternativa al conformismo comporta un costo elevato. Non è così con questo regime, il regime molliccio della sinistra, che non consente scelte semplicemente perché non si fa riconoscere. La sua violenza e il suo controllo sono subdoli e sottili. La sua arma migliore è l’essere apparentemente disarmato, la sua ragion d’essere sta nella sua mancanza di una ragion d’essere, la sua ideologia nell’assenza di ideologia, il suo nulla è la sua forza. La sinistra è il trionfo del nihilismo, è la morte del pensiero, della creatività, è la perdita di senso. Non dico la trasmissione di valori assoluti ma lo stesso rigore degli studi è incompatibile con questo nulla: dove ci fosse competenza, selezione, merito allignerebbe anche quello spirito libero del quale la sinistra ha terrore. Bisogna allora che i classici vengano zittiti, che l’immagine della nazione venga immiserita, che l’Italia diventi nell’immaginario collettivo una provincia dell’Impero, l’italiano una parlata locale e che tutta la nostra storia venga risucchiata in un buco nero. La sinistra ha eretto a valore non lo Stato ma la Costituzione e non per quello che contiene o rappresenta ma come eredità e testimonianza del potere comunista; ha eretto a valore la resistenza non si sa a che cosa e ha creato il mito di una lotta popolare di liberazione che non c’è mai stata; ha sostituito questi valori di cartapesta ai valori assoluti della Patria, della Nazione, della nostra tradizione millenaria di cultura e di civiltà. In conclusine questo genere di manifestazioni non servono a nulla. La maggior parte degli studenti che hanno partecipato alle manifestazioni lo hanno fatto non perché credevano che fossero sbagliati i provvedimenti in materia di scuola e non solo proposti dal Governo del cambiamento ma semplicemente perché ad un giorno di scuola hanno preferito divertirsi con gli amici in giro per le città bruciando fantocci raffiguranti i due vice premier. Che amarezza! Questo purtroppo è il livello culturale ed identitario in cui versano le nuove generazioni di italiani e la colpa è solo nostra. 

Italia maleducata e caciarona, scrive su "Il Giornale Mercoledì, 10 ottobre 2018 – San Cassio martire – da Casa Nino Spirlì, in Calabria. Ignoranti, cialtroni e maleducati. Il popolo dal passato più artistico e culturale del mondo è caduto! Gli italiani di oggi, Dio perdoni!, sono un’offesa ai Padri Antichi. Della grazia, della cortesia, della gentilezza, del garbo che hanno fatto della nostra gente un modello amato da tutto il mondo, non rimane che un flebile ricordo. Pochi anziani usano ancora il “Grazie”, lo “Scusi”, il “Per favore”… Qualche adulto fa ancora precedere la domanda da un nobile “Posso…”. Rari, i ragazzini che sono da esempio di educazione per i propri coetanei. Il resto, una ciurma di masnadieri. Spietati e cafoni, arroganti e caciaroni, stiamo sparendo dal panorama delle cose belle di questo nostro Paese, per cedere lo spazio alle macchiette volgari da bordello televisivo, da troiaio di piazza, da follower’s club…Cos’è successo agli Italiani eleganti e sobri? Dove abbiamo perso il filo? Chi ci ha cancellato dal galateo? Del piacere dell’ascolto, della finezza della conversazione, del millenario savoir faire italico, non restano che le ceneri impastate col fango dell’impudicizia odierna. Nessun ritegno, oggi. Purtroppo.

1) Maledetti cellulari antropoisolanti, direi, se mi si passa il neologismo. L’onanistico uso del più popolare mezzo di comunicazione, lo priva della primaria funzione: la comunicazione. Usiamo il cellulare per fare tutto da soli, tranne che per contattare gli altri. Con-tattare: avvicinare, accostare, interpellare, rivolgersi, incontrare. E quando mai? Ormai, contattare è un verbo da cancellare. Oggi, l’altro lo tagghiamo, a prescindere se ci risponderà o meno; lo messaggiamo, per non incontrarlo; lo chattiamo, evitando di guardarlo negli occhi. Litighiamo e ci amiamo tramite tastiera e schermo. Non conosciamo, degli altri, l’odore, i colori, i piccoli gesti. E, quando ci incontriamo, ci avviciniamo, talmente abituati a non accoglierci più vicendevolmente, ci scanniamo come draghi.

2) Orrida televisione maleducativa, aggiungerei. La massima parte delle proposte televisive, ormai, è infarcita di urlacci, baracconate, volgarità. Conduttori semianalfabeti, giornalisti semianalfabeti, ospiti semianalfabeti. Lontani dalla sobrietà di un passato neanche troppo remoto, hanno invaso gli studi televisivi, passando da divani, sottoscrivanie, garçonniere… Un circo grottesco e offensivo del buongusto e della morale.

3) Scuola incolta e incompetente. Sforna cataste di ragazzini che sciamano verso un baratro morale e sociale, senza poter sperare in un’ombra di salvamento. Zucconi e senza freni inibitori, sudano violenza come fosse acqua d’ascella. Violenti e strafottenti, non sanno di storia e geografia, ma si muovono bene fra le foglie della canapa e i germogli di mariuana. Intossicati di centri sociali, non troveranno futuro fra le birre bevute per strada e le vomitate consegnate ai pneumatici delle macchine parcheggiate.

4) Luoghi di lavoro…

5) Le case…

6) La strada…

Eppure…… vado ad acquistare i tappi per i vasetti della marmellata di cotogne e il figlio decenne di Simona, la titolare del negozio di casalinghi, mi investe col suo innocente amore per il sapere. Proprietà di linguaggio e alta conoscenza che mi sotterrano di felicità. Deo gratias!

Studenti, leggete questo libro. Meglio di "Bella ciao", scrive Nicola Porro, Domenica 14/10/2018, su "Il Giornale". Agli studenti che per l'ennesima volta scendono in piazza contro il governo e si mettono a sbrucicchiare pupazzi di politici, consigliamo vivamente una lettura. Smettano di cantare Bella ciao, e si leggano: Lettera ai politici sulla libertà di scuola di Dario Antiseri e suor Anna Monia Alfieri. Questo sì un vero testo rivoluzionario. Controintuitivo. Sono poco più di 100 pagine, il tempo di costruire un manichino di Salvini da incendiare. La tesi di partenza è che la competizione serva anche alla scuola, all'istruzione. Competizione non è una brutta parola, è stimolo a far meglio. «Cum-petere - scrivono i Nostri - vale a dire cercare insieme, in modo agonistico ben regolato, la soluzione migliore. È così che avanza la ricerca scientifica attraverso una severa lotta tra teorie alternative in vista della soluzione dei problemi; è così che funziona la vita di una democrazia con partiti in competizione...». I due autori spiegano: «Il danno recato dal monopolio statale dell'istruzione non è dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio (...). Il monopolio statale nella gestione dell'istruzione è negazione di libertà; è in contrasto con la giustizia sociale; devasta l'efficienza della scuola». La libertà di scelta viene meno, è evidente, ma è anche ingiusto socialmente perché «le famiglie che iscrivono il proprio figlio alla scuola non statale pagano due volte; la prima volta con le imposte - per un servizio di cui non usufruiscono - e una seconda volta con la retta». Ci sono però dei vincoli da rispettare, in un quadro di scuola libera e competitiva, e Antiseri cita Milton Friedman: «È impossibile una società stabile e democratica senza un certo grado di alfabetismo e di conoscenza da parte della maggioranza dei cittadini... Di conseguenza, il guadagno che un bambino ricava dall'educazione non ridonda solo a vantaggio del bambino stesso o dei suoi genitori, ma anche a vantaggio degli altri membri della società. L'istruzione di mio figlio contribuisce anche al vostro benessere... Ci troviamo (...) di fronte a un importante caso di effetto indotto». Ed ecco come per Friedman è possibile articolare su base competitiva il sistema formativo: «I governi potrebbero imporre un livello minimo di scolarità e assicurarne il funzionamento, concedendo ai genitori dei titoli di credito rimborsabili per una determinata somma massima annua per ciascun figlio qualora fosse spesa per servizi scolastici approvati. I genitori in tal caso sarebbero liberi di spendere questa somma, e ogni altra somma addizionale di tasca propria, per l'acquisto di servizi scolastici...». Insomma la proposta di un buono scuola, da spendere dove i genitori si ritengano soddisfatti. In Italia invece, e questa è una caparbia battaglia di suor Anna, la scuola libera è libera solo di morire. Al netto dei dati demografici, stanno drasticamente diminuendo gli studenti delle paritarie, in pochi anni sono scomparse 800 scuole. Il libro di Antiseri e Alfieri è consigliabile ai ragazzi che vanno in piazza in buona fede. È l'unico strumento che hanno per capire che con Bella ciao non si va da nessuna parte.

Proteste in tutta Italia il 12 ottobre 2012 scrive “Il Secolo XIX”. Gli studenti italiani oggi sono in piazza in 90 città italiane per «difendere il loro futuro»: questa giornata di mobilitazione, si legge in un comunicato della Rete della Conoscenza, «è stata lanciata dall’Unione degli Studenti quest’estate, per manifestare contro la svendita della scuola pubblica e la distruzione dell’Università, ha avuto una grande diffusione e preannuncia l’apertura di un autunno di mobilitazione intenso». A Milano, per esempio, in centinaia hanno risposto all’appuntamento lanciato dai collettivi studenteschi Laps (per le Superiori) e Link (per gli universitari) a difesa di un’iscrizione pubblica. Partiti come di consueto da largo Cairoli tra cori, musica e fumogeni, i ragazzi sfilano per le vie del centro: l’obiettivo è raggiungere piazza Duca d’Aosta, a fianco della stazione Centrale. Poco prima delle 13, una ventina di ragazzi ha scavalcato il cancello del Pirellone, sede del consiglio Regionale della Lombardia, che affaccia proprio su piazza Duca d’Aosta: una volta dentro, i ragazzi hanno alzato le mani di fronte a un drappello di agenti in tenuta antisommossa che controllava l’ingresso all’edificio. L’iniziativa, avvenuta quando la manifestazione sembrava ormai finita e molti partecipanti avevano lasciato il presidio con cui era terminato il corteo, è stata accompagnata dai cori «dimissioni, dimissioni» e «mafiosi, mafiosi». A Bologna, invece, un nastro giallo e nero è stato usato per circondare la fontana di piazza Nettuno e “sigillarla” simbolicamente: “Ci scusiamo per il disagio, stiamo scioperando per voi”, vi si legge accanto. Anche nel capoluogo emiliano gli studenti (circa 800, in maggioranza delle Superiori) si sono riuniti per un presidio: “Più rappresentanza meno privati ladri ladroni”, è lo slogan su uno striscione esposto davanti a un palchetto allestito dalla Flc-Cgil, dove si alternano interventi a sostegno della scuola pubblica. È presente anche un gazebo dei Comunisti Italiani. A Roma, intorno alle 10.30 centinaia di studenti sono partiti da piazza della Repubblica per raggiungere piazza Apostoli, davanti alla Prefettura, preceduti da uno striscione su cui si legge “La scuola non è in vendita. Risorse - Stop Aprea - Diritto allo studio”. Probabilmente, il corteo incrocerà i manifestanti della Cgil partiti da piazza dell’Esquilino, che confluiranno nella loro manifestazione. Anche in Sardegna, a Cagliari e Oristano, è iniziato questo «autunno caldo» della scuola: centinaia di studenti sono scesi in piazza a fianco di insegnanti di ruolo e precari, personale amministrativo e tecnico. E anche gli operai dell’Alcoa di Portovesme si sono uniti con un loro striscione. Nel capoluogo, i manifestanti hanno raggiunto piazza Repubblica, sede del concentramento e da qui un serpentone umano ha percorso le vie del centro città verso viale Trieste, sede dell’assessorato regionale della Pubblica istruzione. 

Il 24 novembre 2010, intanto, prosegue la mobilitazione contro il decreto Gelmini. E' stata una giornata molto calda sotto l'aspetto politico ed istituzionale. I cortei studenteschi contro la riforma Gelmini hanno avuto il picco massimo con gli scontri avvenuti a Palazzo Madama, dove un gruppo di estremisti di sinistra ha sfondato la barriera di protezione ed è giunto fino all'entrata del Senato dove sono avvenuti violenti tafferugli con la Polizia che ha respinto i contestatori. Il bilancio di questi scontri è di alcuni contusi fra le forze di Polizia e uno studente arrestato. Contro il decreto incriminato si sono scatenati anche i ricercatori che all'Università la Sapienza di Roma sono saliti sui tetti degli edifici insieme al segretario del Pd Pierluigi Bersani per sottolineare la gravità della condizione in cui versano molti precari di questo settore. Ma la giornata è stata contrassegnata da numerose manifestazioni in tutta Italia da Palermo a Firenze dove è stato occupato il rettorato. In concomitanza con queste lotte universitarie che riecheggiano nella forma quelle del '68 e degli anni settanta, ci sentiamo di dire che senza dubbio l'apparato universitario italiano dev'essere a tutti i costi riformato e rinnovato per renderlo competitivo a livello europeo. Ma è anche vero che la problematica principale delle Università del nostro paese è l'assoluta gerarchia baronale dei docenti ultra settantenni, che da decenni spadroneggiano negli atenei unitamente a una gestione affaristica e nepotista di corsi di laurea e enti accademici. Non ci sfugge che molti di questi gruppi di studenti sono nelle mani di questi boss, che possono pilotarli come vogliono per far sì che tutto rimanga come è adesso. Cari giovani voi state pagando proprio gli atteggiamenti prevaricatori di questi signori che hanno impedito con il loro potere il cambio generazionale alla guida del paese. Se è giusto ribellarsi a questo stato di cose vergognoso, bisogna però colpire i veri responsabili di tutto questo che sono i partiti e i boss delle Università, che vi hanno condannato ad essere precari e senza un domani. Le altre lotte che non hanno questo fine non sono proficue e al contrario sarebbero  faziose e inutili.

“Licei e università, proteste da Milano a Palermo contro la GELMINI.

Dal 1 ottobre 2008 il dissenso nei confronti del decreto Gelmini si è sviluppato finora in circa 300 manifestazioni in tutta Italia, con 150 scuole e 20 facoltà universitarie occupate.

I consiglieri del Pdl del Friuli Venezia Giulia, Paolo Ciani e Piero Tononi hanno intenzione di denunciare alcuni insegnanti di scuola superiore, compreso il liceo classico Dante Alighieri di Trieste, che ieri mattina, durante le proteste in corso contro la riforma Gelmini sfociate nell'occupazione di alcuni istituti, avrebbero minacciato di bocciatura e penalizzazioni gli studenti che chiedevano il regolare svolgimento della lezione.“

“Licei e università, ancora proteste da Milano a Napoli contro la MORATTI

A Milano da venerdì scorso gli studenti dell'Università statale continuano ad occupare la sede dell'Ateneo per protestare contro il ministro Moratti. “

“Licei e università, ancora proteste da Milano a Napoli contro FIORONI

130 cortei Sventolano le bandiere rosse dell'Unione degli studenti e dell'Unione universitari. Gridano "No alla riforma della scuola" e dicono "no al numero chiuso nelle università". E ancora: "Fioroni rimandato a settembre". Così i 130 cortei di studenti di superiori e università che sono scesi in piazza oggi sono andati diritti al cuore della loro protesta: il decreto del ministro dell'Istruzione che ha reintrodotto gli esami di riparazione.”

“Licei e università, ancora proteste da Milano a Napoli contro BERLINGUER

Ottantaquattro istituti occupati, 192 autogestiti. Altre 182 scuole che svolgono un' attività didattica inferiore al 50 per cento. In tutto 549 scuole mobilitate.

PARLIAMO DELL'OSTRACISMO DEI MEDIOCRI CONTRO I GENI.

Uno dei tanti libri che parla dell’ostracismo degli scienziati mediocri rispetto ai geni è “Geni incompresi. Eccentrici, perseguitati, plagiati, sfortunati, derisi, vilipesi...” di Ermanno Gallo.

Il medico Gaspare Tagliacozzo fu il geniale precursore della chirurgia ricostruttiva. Nel 1597 realizzò il primo impianto di pelle su un paziente dal naso sfregiato, utilizzando una striscia di epidermide dall’avambraccio. La Chiesa, però, gridò all’eresia, e solo tre secoli dopo la "tecnica maledetta" venne riscoperta. Si racconta che nel Seicento Cartesio abbia costruito uno dei primi androidi, una figlia artificiale in grado di pronunciare poche parole. Ma l’invenzione "puzzava di zolfo", e fu distrutta. E l’indispensabile penna a sfera? Venne brevettata dall’ungherese Laszlo Biro nel 1943, ma fu il barone francese Bich a produrla con il proprio nome divenendo ricchissimo. Biro, invece, morì in miseria. La storia delle invenzioni è un testo misterioso in cui figurano personaggi eccentrici e brevetti rubati, studiosi sfortunati e scienziati perseguitati. Non tutti hanno lasciato nella storia l’impronta di un gigante, ma come ignorare la preveggenza di Joseph Gavetey, che, nel 1857, perfezionò il rotolo di carta igienica? La gente comune, però, ritenne uno spreco utilizzare la preziosa carta per funzioni innominabili, e il suo genio anticipatore non venne compreso. Chissà se si consolò pensando a Galileo, che per aver capito come andava il mondo aveva rischiato addirittura il rogo.

Quella di Giampaolo Giuliani, il tecnico che, avendo previsto il terremoto in Abruzzo del 6 aprile 2009, non è stato creduto, è la solita storia dell'incapacità della scienza ufficiale di dare credito a progetti o intuizioni, che non provengono esclusivamente dalle ricerche effettuate nel baronale mondo accademico. Lo strumento da lui creato aveva rilevato la presenza massiccia di precursori dei terremoti nella zona, attraverso i livelli di radon liberati dalla terra.

La storia del mondo è stata segnata da innumerevoli Geni Incompresi, le cui scoperte non sempre sono state accettate dalla comunità scientifica. Personaggi ritenuti "eretici" molto spesso hanno dato contributi significativi al progresso dell'umanità.

Keplero ad esempio era ritenuto dalla maggior parte degli scienziati del suo tempo un mistico pazzo, eppure con le sue tre leggi, permise a Newton di descrivere la legge di gravitazione universale.

Sulla tipologia di tali personaggi vi è anche il famoso libro di Federico Di Trocchio intitolato "IL GENIO INCOMPRESO" dove viene svelato con estremo rigore come "la scienza ufficiale, spesso ottusamente conformista, non riesca a pensare in maniera diversa, disapprovando e condannando chi lo fa e, non di rado, sbagliando nei suoi giudizi". Nel libro si mette inoltre in chiara evidenza che "molte scoperte richiedono soprattutto spregiudicatezza, creatività e apertura mentale, qualità che non appartengono solo agli scienziati più originali e anticonformisti, ma anche ai dilettanti e agli outsider "semicompetenti", che hanno il coraggio di andare contro corrente e pensare quello che altri ritengono impossibile".

Un altro genio incompreso è Raffaele Bendandi. Nato nel 1893 a Faenza e ivi morto nel 1979, sismologo autodidatta, nel 1920 fu accolto fra le fila della “Società sismologica italiana”. Probabilmente una voce fuori dal coro dell’Accademia, Bendandi iniziò a propugnare teorie molto originali sui terremoti e a formulare previsioni. Di questa storia è facile leggere il punto di vista dei sostenitori di Bendandi: i più influenti sismologi lo tacciarono di dilettantismo e iniziarono ad attaccarlo duramente. Convinto che i terremoti fossero causati dalle azioni di marea degli altri corpi celesti sulla Terra, ipotizzò negli anni ‘30 la presenza di 4 pianeti trans-nettuniani. In base a calcoli laboriosi (il cui schema non fu mai svelato) Bendandi calcolava gli influssi gravitazionali di tutti i corpi del sistema solare sulla Terra e calcolava le date dei terremoti a venire. Si racconta di terremoti previsti, di previsioni ignorate, di come all’estero Bendandi fosse apprezzato e di come invece fosse misconosciuto in patria. Non del tutto, visto che la stampa riporta la notizia che nel 1976, dopo il tragico terremoto del Friuli, l’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga lo contattò perché rendesse note con anticipo le sue previsioni – richiesta alla quale Bendandi non ottemperò. L’effetto mareale fu anche invocato per spiegare il ciclo di 11 anni dell’attività solare.

Ma perchè in Italia tutti si sono dimenticati di lui e del suo lavoro?

Nel 1927 il regime fascista vietò a Bendandi di divulgare le sue previsioni, come si può leggere ad esempio sul quotidiano "LA NAZIONE" del 30 maggio di quell'anno, probabilmente sotto la pressione di molti accademici del tempo, desiderosi di togliere di mezzo lo scomodo personaggio, che li metteva nella grande difficoltà di spiegare perchè loro non riuscivano a prevedere i terremoti. Bendandi non si diede per vinto e scrisse un primo libro che pubblicò completamente a sue spese nel luglio 1931. Tale libro intitolato "UN PRINCIPIO FONDAMENTALE DELL'UNIVERSO" era dedicato all'attività solare e conteneva il primo caposaldo, su cui egli basava le sue ricerche. Il ciclo undecennale venne interpretato come un battimento delle sollecitazioni mareali prodotte dai pianeti che ruotavano attorno al Sole. La variabilità delle altre stelle venne spiegata attraverso lo stesso principio e descritta in un secondo volume ancora inedito. Essendo anche il fenomeno sismico inquadrabile sotto lo stesso ragionamento, nella situazione di non poter divulgare le previsioni dei terremoti, Raffaele Bendandi volle probabilmente fissare un primo principio, che, se apprezzato, gli avrebbe permesso di far riconsiderare le sue previsioni.

Bendandi, il 22 novembre 1923, davanti al notaio Savini di Faenza dichiarò che il 2 gennaio successivo si sarebbe verificato un fenomeno sismico nelle Marche. Fu così che il 4 gennaio in terza pagina del Corriere della Sera uscì l'articolo: «L' uomo che prevede i terremoti». Tal Agamennone capo dell'osservatorio sismico di Roma aveva già ammesso il nostro nella società sismologica italiana. Ma dopo quell' articolo la scienza accademica non poté che detestarlo, ferita nella vanità da un autodidatta.  Nemmeno i preti gliela rimediarono. Il cardinal Maffi dell'osservatorio di Pisa non lo ricevette. «Ma domani sarete voi a chiamarmi» ... puntuale arrivò una scossa di terremoto, il giorno dopo nel Pisano. Più pratici gli americani e il libero mercato: nel 1925 Thomas Morgan della United Press stipulò regolare contratto in cambio della sua collaborazione. E Bendandi poté smettere il mestiere d'artigiano, con cui aveva campato fino ad allora. Nel 1927 Mussolini lo fece nominare cavaliere dell' Ordine della Corona d' Italia, ma era innervosito dalle previsioni e gli intimò di non darne notizia. Con Gronchi arrivò pure il titolo di Cavaliere della Repubblica e lettere grate di governanti da quasi ogni nazione della terra. Il suo sindaco comunista, giudicatolo scienziato proletario, gli fece intestare un milione e mezzo di lire per le ricerche.