Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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LA LIGURIA

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

GENOVA E LA LIGURIA

TUTTO SU GENOVA E LA LIGURIA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

I LIGURI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!?

 

Quello che i Liguri non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Liguri non avrebbero mai voluto leggere. 

di Antonio Giangrande

 

 

 SOMMARIO

 

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

PONTE MORANDI. TRAGEDIA ANNUNCIATA.

PARLIAMO DELLA LIGURIA.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

C'ERA UNA VOLTA CLAUDIO BURLANDO...

SINISTRA E MORALITA'. CARNEVALATE AI SEGGI.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

MAGISTRATI SENZA VERGOGNA.

GENOVA ALLUVIONATA.

FATEVI AMICO UN LIGURE.

FINANZA E GIUSTIZIA.

POVERA LA MIA GENOVA.

TARANTO E VADO LIGURE. C’E’ INQUINAMENTO ED INQUINAMENTO. E’ SALUBRE SE E’ DI SINISTRA.

LIGURIA MASSONE.

LIGURIA MAFIOSA.

SI PARLA DI MAFIA... MA IL PD NON C’ERA.

MAGISTROPOLI.

MAGISTRATO ARRESTATO.

ACCANIMENTO O SE LA CERCA?

IL VANDALO: E' UN GIUDICE.

POLITICA E MORALITA’.

AMBIENTE E GIUSTIZIA: CHI COPRE CHI?

SI SPECULA PURE SULLE DISGRAZIE.

PARLIAMO DI PEDOFILIA.

VIOLENZA AGLI ANZIANI.

PARLIAMO DI IMPERIA

IMPERIA MASSONE.

IMPERIA MAFIOSA.

MAGISTROPOLI.

VIOLENZA AGLI ANZIANI.

IL CASO CALTAGIRONE ED IL PORTO.

RETATA A SAN REMO.

PARLIAMO DI LA SPEZIA

ILARIA ALPI, NATALE DE GRAZIA E LE NAVI DEI VELENI.

LA SPEZIA MAFIOSA.

LA SPEZIA MASSONE.

MAGISTROPOLI.

PARLIAMO DI SAVONA

CONCORSI TRUCCATI.

MORIRE D'INQUINAMENTO...A VADO LIGURE.

DIVISE ZOZZE.

SAVONA MAFIOSA.

SAVONA MASSONE.

IL DIAVOLO A SAVONA. SCANDALI ECCLESIASTICI.

MAGISTROPOLI. ACCANIMENTO O SE LA CERCA?

 

  

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

PONTE MORANDI. TRAGEDIA ANNUNCIATA.

Ponte Morandi: la storia del viadotto crollato. Più volte ristrutturato, erano attualmente in corso lavori di manutenzione. Sempre trafficatissimo, collegava il capoluogo ligure con il Ponente, scrive Marta Buonadonna il 14 agosto 2018 su "Panorama". Il ponte autostradale crollato sulla A10 nella zona della Val Polcevera a Genova collegava il capoluogo ligure con i Ponente. I lavori di costruzione sono cominciati nel 1963 e il ponte è stato inaugurato il 4 settembre 1967. Intitolato al progettista, Riccardo Morandi, ingegnere nato a Roma nel 1902 e premiato in tutto il mondo per le sue opere e per i sette brevetti sulla precompressione che portano il suo nome. Il ponte era lungo 1182 metri, costruito in calcestruzzo armato precompresso, il materiale messo a punto proprio da Morandi, sorretto da tre piloni in cemento armato alti 90 metri. La sua campata più lunga misurava 210 metri. A renderlo famoso è la sua struttura particolare, che lo faceva somigliare vagamente al Ponte di Brooklyn. Il ponte attraversava il torrente Polcevera tra i quartieri di Cornigliano e Sampierdarena. Aveva 4 corsie (due per ogni direzione) ed essendo il ponte di accesso alla città per chi proveniva dal Ponente era spesso teatro di code. Proprio in questo periodo erano in corso lavori di manutenzione per la sostituzione dei vecchi tiranti. Infatti di notte l'uscita autostradale di Genova Ovest veniva chiusa per consentire lo svolgimento dei lavori. Ma il ponte aveva già subito importanti lavori di ristrutturazione per la sostituzione dei cavi di sospensione tra gli anni '80 e '90. L'ingengner Morandi era stato anche autore del progetto di un altro ponte, il General Rafael Urdaneta, realizzato sul lago di Maracaibo in Venezuela. Inaugurato nel 1962 subì un crollo parziale solo due anni più tardi per l'urto della petroliera Exxon Maracaibo contro due dei piloni di sostegno.

Saragat e i fasti dell'inaugurazione. Poi è iniziata la via crucis senza fine. Anni di interventi, sos mai ascoltati. E il terrore di attraversarlo, scrive Matteo Basile, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale". Per i genovesi quel ponte non era soltanto una struttura architettonica. Era simbolo di grandeur, il «Ponte di Brooklyn» sotto la Lanterna, un modello di mobilità all'avanguardia. L'immagine di una città una volta moderna e ora sepolta, non solo figurativamente, da polvere e macerie. Ma anche un'icona del cuore. Il ponte che rappresentava la partenza per le vacanze e il ritorno a casa, il ponte degli spostamenti quotidiani. «Potevo esserci io», poteva esserci chiunque. È quello che pensa ogni genovese. Perché quel ponte, quel tratto di autostrada è, anzi, era, l'unica alternativa alla viabilità ordinaria. L'unico modo possibile per andare dal centro all'aeroporto, alla riviera di Ponente verso la Francia. E l'unica via possibile per il porto di Genova e il centro cittadino, o eventualmente per proseguire verso Levante e verso Milano. Una sorta di tangenziale per recuperare un po' di tempo ed evitare il traffico cittadino, impensabile calcolare quante centinaia di volte ogni genovese abbia percorso quel viadotto, sospeso nel vuoto. E negli ultimi anni, ogni volta che si passava di lì, si tratteneva il fiato. Già perché il pericolo di quel ponte era sotto gli occhi di tutti. Pochissimi, quasi nessuno, ne avevano vaticinato il crollo e avevano previsto una tragedia di tale portata, ma il pensiero di tanti in città, transitando da lì, toccava l'idea che la sicurezza fosse un optional. E ora che si contano i morti, che si scava tra le macerie, che ci si rende conto di essere almeno un po' miracolati, quei tragici sospetti diventano orrendi presagi di ciò che è davvero successo. Anche se mai ci si sarebbe aspettati un tale epilogo. E pensare che, sembra paradossale di fronte a una tragedia del genere, poteva andare peggio. Molto. In una giornata di traffico, magari in autunno, le vittime sarebbero state centinaia. Un'ecatombe. Negli ultimi anni il ponte Morandi è stato oggetto di decine e decine di interventi di manutenzione, ordinari e straordinari. Soltanto nelle scorse settimane la società autostrade aveva deciso di chiudere il tratto e tramite un carroponte che era stato allestito, aveva lavorato per rinforzare la struttura. Chiusure notturne che avevano causato il blocco del traffico in città. Di notte, in agosto. Facile immaginare cosa capiterà nei prossimi mesi in una città stretta e difficilissima come Genova. Ma sono anni che chi vive sotto il viadotto, nella zona di confine tra i quartieri di Sampierdarena e Rivarolo, denuncia la pericolosità del ponte. Crepe, venature, cigolii, e anche caduta di piccoli calcinacci erano all'ordine del giorno e nonostante segnalazioni e proteste non sono stati, evidentemente, presi nella dovuta considerazione, al di là della manutenzione. Un ponte maledetto, inaugurato nel 1967 in pompa magna dall'allora capo dello Stato Giuseppe Saragat e annunciato come un'opera rivoluzionaria e invece poco sicuro sin da subito, con interventi di ogni tipo che si sono susseguiti negli anni. Fino al 2011, quando un report ne denunciò la pericolosità e il degrado per via dell'eccessivo traffico di auto e mezzi pesanti. O al 2016, quando un esperto lanciò l'allarme per un possibile crollo. Impensabile per molti. Eppure accaduto davvero. Con quel ponte è crollato anche il sogno di una città che lo aveva eletto a suo simbolo e icona. Una città, adesso, spezzata in due.

Genova, crolla il ponte sull’autostrada, persone sotto le macerie, scrive il 14 Agosto 2018 "Il Dubbio". Nel crollo del ponte Morandi a Genova ci sarebbero una ventina di auto coinvolte. Dalle prime immagini sembra che sia crollata la parte centrale. Un pezzo del viadotto Polcevera, noto come ponte Morandi, sulla A10 è crollato. Secondo le prime informazioni dei vigili del fuoco si sarebbe verificato un cedimento strutturale di una delle colonne del ponte all’altezza di via Fillak, nella zona di Sampierdarena, crollato per una lunghezza di 200 metri. I vigili del fuoco stanno lavorando per estrarre “diverse persone” da sotto le macerie. Dalle prime immagini arrivate sui social network alcune auto sono cadute al momento in cui la struttura ha ceduto. Sul posto già diverse ambulanze e auto delle forze dell’ordine. A Genova sta piovendo a dirotto da questa mattina. Naturalmente nessuna notizia o ipotesi sulle ragioni che potrebbero aver causato il cedimento. “Sono state attivate – twittano sull’account ufficiale – le squadre Usar e le unità cinofile”, specializzati nella ricerca di persone sotto le macerie. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è in contatto con il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli e con il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e viene costantemente aggiornato sull’evolversi della situazione che segue con la massima attenzione. Il viadotto Polcevera dell’autostrada A10, chiamato ponte Morandi poiché intitolato a Riccardo Morandi, ingegnere che l’ha progettato, attraversava il torrente Polcevera, a Genova, tra i quartieri di Sampierdarena e Cornigliano a ovest dal centro. Inaugurato il 4 settembre 1967, fu costruito dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua. È lungo 1.182 metri, ha un’altezza al piano stradale di 45 metri e 3 piloni in cemento armato che raggiungevano i 90 metri di altezza. Si tratta di un ponte a trave strallata, dove gli elementi verticali erano cavalletti costituiti da due V sovrapposte; una V aveva il compito di allargare la zona centrale ove appoggiava la trave strallata, mentre una V rovesciata sosteneva i tiranti superiori.

Le immagini immediatamente successive al crollo del ponte Morandi a Genova. I primi soccorsi ai feriti, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". "È caduto il ponte. Guardate. Non c'è più il ponte. È caduto giù". Sono le prime parole, quelle di Ale Cordova che ha realizzato un video immediatamente successivo al momento in cui il viadotto Morandi a Genova ha ceduto al peso del tempo e, forse, dell'incuria. Il video, pubblicato in esclusiva da Tpi, è stato registrato con un cellulare. Sono le primissime immagini del disastro che ha investito il capoluogo ligure. Il ragazzo che ha registrato il filmato si è anche adoperato per prestare i primi soccorsi. Una parte del video infatti appare del tutto oscurata, ma si sentono distintamente le voci dei primi interventi per i feriti.

"Tutte le macchine, tutto è caduto, guarda!", si sente dire il ragazzo rivolgendosi ad un passante. Poi il giovane si avvicina sempre più al punto in cui è crollata la campata centrale del viadotto. In tre si dirigono verso un cancello e lo scavalcano. "Oh mio Dio, oh mio Dio", si sente dire uno dei soccorritori. "Come faccio? Chiamate l'ambulanza, chiamate l'ambulanza". Quando i tre scorgono un ferito, cercano in tutti i modi di aiutarlo. "Ehi sei da solo?", gli chiedono. "Ci sono qua io", gli dicono per rassicurarlo.

La corsa, la disperazione, la richiesta d'aiuto: i ragazzi tra le macerie del ponte, subito dopo il crollo, scrive il 17 agosto 2018 "Repubblica Tv". Pochi istanti (o minuti, non è ancora chiaro) dopo le 11.36 - l'ultimo orario in cui compare sul video registrato dalla webcam di Autostrade per l'Italia - buona parte del ponte Morandi crolla. Un ragazzo in via Campi, a circa 200/250 metri dal viadotto, riprende i due tronconi rimasti in piedi sotto il diluvio che, il 14 agosto, scende sulla città di Genova. "Non c'è più il ponte", dice incredulo. E poi si dirige, in compagnia di almeno altri due ragazzi, verso un cancello che separa la strada da un campo che arriva fin sotto il ponte. Senza pensarci un attimo, i tre lo scavalcano e si dirigono verso le macerie del Morandi. Uno di loro, quello che riprende, mette lo smartphone in tasca senza interrompere la registrazione. I minuti che seguono, nel buio segnato da solo audio, costituiscono uno dei documenti più drammatici del disastro avvenuto nel capoluogo ligure. I ragazzi protagonisti di questo video sono tra i primi a prestare soccorso alle persone coinvolte nel crollo. Come testimonia il gestore di una pizzeria di via Campi, che affacciato alla finestra, pochi istanti dopo il crollo, sostiene di aver visto alcune persone - "Non forze dell'ordine" - entrare dallo stesso cancello, dirette verso le macerie. Il pizzaiolo spiega anche il perché della strada semideserta percorsa dai ragazzi, dopo un boato che avrebbe dovuto richiamare in strada molte persone: "Il palazzo che si vede nel video ha diversi appartamenti vuoti, e inoltre è occupato in gran parte da persone anziane" ci dice. "Molte persone dei due palazzi vicini, inoltre, erano in ferie o al lavoro" aggiunge. La zona è stata transennata dalle forze dell'ordine a circa un'ora dal crollo. La pioggia che ha preceduto il disastro e che ha caratterizzato gli attimi successivi, ha smesso di cadere circa 20 minuti dopo il cedimento del viadotto.

Il respiro di Natasha e Gianluca. Miracoli tra detriti e precipizio. La donna viva nell'auto dopo il volo, l'uomo che sta per diventare padre. Le autorità: "Ancora tra 10 e 20 dispersi", scrive Andrea Cuomo, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Ci sono i sommersi dalle macerie. E i salvati. Dal vezzo del fato, da un granello di sabbia finito nella macchina fin troppo efficiente di una tragedia già controfirmata, dal coraggio a busta paga degli uomini dei soccorsi che si sono trasformati in acrobati, in alpinisti, in scalatori di pietre e rottami per strappare qualche biglia al pallottoliere della morte. Dentro questa Spoon River di non morti, di increduli, di tumefatti, ci sono Natasha ed Eugenio, incarcerati per decine di ore nella loro automobile inghiottita come altre trenta dal nulla che prima era strada. Loro sono finiti in un cratere, al fondo della montagna di macerie di quella che era stata la campata centrale del ponte Morandi, appesi a testa in giù ma vegeti. I loro lamenti sono stati uditi da qualcuno dei soccorritori che hanno lavorato alla loro liberazione con frenesia ma anche cautela, per il timore di provocare, con le vibrazioni del martello demolitore e delle cesoie idrauliche, nuovi sfasci rovinosi. Un'ora c'è voluta per strappare i due alla valle della morte. La prima a essere portata via, in volo come un angelo in mutande, è stata lei. Poi Eugenio l'ha raggiunta. Secondo la moglie Giulia è stata invece la voglia di conoscere a tutti i costi il figlio che lei sta per regalargli a spingere Gianluca Arditi, 29 anni, a tenere duro nel suo furgone appeso a venti metri da terra tra le macerie, con il suo collega morto accanto. Come se ci fosse posto soltanto per un sorriso in quell'abitacolo in bilico sulla vertigine. Gianluca se l'è cavata con una frattura alla spalla e ha in poche ore ha riscritto probabilmente tutti i suoi standard emotivi. Sarà un padre differente, senza dubbio. Marina Guagliata è un'altra sopravvissuta. Lei non era sopra il ponte di Brooklyn che ha fatto la fine delle Torri Gemelle, ma era sotto, con la figlia Camilla di 24 anni, a fare acquisti nei pressi dell'Ikea, quando il cielo è caduto addosso e attorno a loro. Sono finite sotto tenendosi per mano, la mamma a togliere i sassi di bocca dalla figlia, sono entrambe fuori pericolo. La mamma ha una commozione cerebrale, lo sfregio dei capelli rasati sulla nuca sinistra che con le tumefazioni la fanno assomigliare a una stralunata punk. Ma lei è felice, ha appena saputo che Camilla - che ha il bacino rotto e un polmone perforato - potrà raccontare questa storia inaudita. Davide Capello è un vigile del fuoco con l'hobby del calcio, gioca portiere, era una promessa del Cagliari. Il volo più plastico lo ha fatto martedì quando è planato dentro la sua Tiguan, forse telecomandato da una cerniera stradale benedetta, su un muro di macerie. Il suo telefono ha continuato a funzionare e lui ha chiamato i soccorsi. Chi ha risposto pensava fosse un testimone, tanto era inverosimile quella telefonata dall'irrazionale. Davide ha 31 anni e nemmeno un graffio e dopo aver parato questa cosa nessun tiro del più forte dei bomber potrà fargli paura. Infine Luciano Goccial, camionista che era sotto il ponte quando è venuto giù. Lui ha pochi graffi, un braccio al collo, racconta di essere stato travolto appeno uscito dalla cabina del suo mezzo, che è là schiacciato come una scatola di sardine, mentre lui ringrazia l'onda d'urto che lo ha quasi smaterializzato, salvandogli la ghirba. Tra i sommersi e i salvati ci sono le «x», più vicine ai primi che ai secondi, ahinoi. I dispersi, quelli che sono da qualche parte e che tengono in bilico la ragioneria del lutto. Sono tra dieci e venti. Le speranze di trovarli vivi sono poche e diminuiscono di ora in ora, ma i salvati non smettono di aspettarli.

Crollo di Genova, i vigili: "Lacrime per la bimba con l'orsacchiotto". Anche per i soccorritori la tragedia di Genova è un pugno al cuore: "Questo ponte ti colpisce. Guardando dal basso verso l'alto, ti rendi conto di quello che devono avere provato le persone che sono precipitate nel vuoto", scrive Serena Pizzi, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". La tragedia di Genova è una ferita che sanguina. I soccorritori e i vigili del fuoco scavano giorno e notte. Se serve usano anche le mani. Le immagini che si presentano davanti ai loro occhi sono drammatiche. In alcuni casi indescrivibili. Famiglie schiacciate dai calcinacci, macchine ridotte a modellini, tir disintegrati e un orsacchiotto. Un orsacchiotto di peluche. Il caporeparto degli Usar, gli specialisti nelle ricerche di persone in caso di catastrofi, quell'orsacchiotto non lo dimenticherà facilmente. Intercettato dal Corriere della Sera, Domenico Remonti parla di questa immagine che fa venire i brividi. "Qui è straziante - dice commentando la tragedia che ha piegato Genova -. Siamo abituati alle tragedie, quotidianamente interveniamo sugli incidenti stradali. Però questo ponte ti colpisce. Guardando dal basso verso l’alto, ti rendi conto di quello che devono avere provato le persone che sono precipitate nel vuoto". Poi arriva alla bambina con l'orsacchiotto e tutto si ferma. I sogni della piccola, dei suoi genitori, di quello che avrebbero potuto fare insieme. "La macchina era irriconoscibile, dentro c'erano mamma, papà, un bambino di 8 e una bambina di 3 anni - spiega al Corsera -. Quando ho visto l'orsacchiotto, ho pianto, lo ammetto. Chi sono? Non lo so, noi ci fermiamo al nostro lavoro". La famiglia non ce l'ha fatta. E l'osacchiotto resta lì. Incastrato fra le lamiere della macchina. Sporco di polvere e fango. Andarlo a toccare sembra andare a violare l'intimità di quella famiglia, di quella bimba. Ma il crollo del ponte Morandi ha diviso per sempre quella bimba di 3 anni dal suo orsacchiotto. Un orsacchiotto che fa piangere chiunque lo guardi.

Il diluvio, le auto che frenano: nel video di Autostrade gli istanti precedenti al crollo del ponte Morandi, scrive il 16 agosto 2018 "Repubblica Tv". Sono le 11.36 di martedì 14 agosto. La webcam di Autostrade per l'Italia riprende la circolazione sulla A10, in particolare sul ponte Morandi. Stando ad alcune testimonianze, è l'orario in cui buona parte del viadotto è venuta giù, trascinando nel vuoto almeno trenta auto e tre tir. Un video del disastro, probabilmente in grado di ricostruire la dinamica del crollo, esiste ed è stato sequestrato dalla procura di Genova. Sono immagini registrate dalle telecamere di Autostrade per l'Italia. Così come quelle contenute in questo video, che non documentano il momento esatto del cedimento ma restituiscono un quadro chiaro degli attimi che l'hanno preceduto. E' stato scaricato dal sito Genova Quotidiana prima che il filmato, e il link alla webcam sul ponte, sparissero dal sito di Autostrade. Sulla carreggiata di destra si vedono diverse auto che frenano formando una piccola coda, una inserisce le quattro frecce. Il senso di marcia opposto, nell'ultimo tratto del ponte in direzione Aeroporto, appare invece scorrevole. La pioggia e la foschia complicano la visuale, difficile se non impossibile determinare se, in questi pochi secondi, la sezione del ponte che si trovava poco più avanti e che sorvolava il greto del Polcevera inizia a cedere e poi crolla. Di certo, tutto è avvenuto entro i 10 minuti successivi. Anche prima se si considera i tempi di reazione al crollo e di un'eventuale verifica da parte di Autostrade per l'Italia che ha riportato sul suo sito la chiusura al traffico di quel tratto di strada - "per lesioni alle strutture" - alle 11.46.

Genova, ponte Morandi: il camion sull'orlo del baratro ha ancora motore e tergicristalli accesi, scrive il 16 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Ha fatto appena in tempo a frenare, è sceso e si è messo a correre all'impazzata verso la parte del ponte più lontana da quella crollata. Martedì alle 11.35, l'autista del camion della Basko (azienda di distribuzione di alimentari) non ha certo badato a spegnere il motore del mezzo quando, trenta metri più avanti, ha visto l'asfalto sparire nel nulla davanti a sè. E così, a 48 ore dalla tragedia di Genova, il mezzo, fermo sulla A10 ha ancora il motore acceso e il tergicristalli in funzione, perchè alle 11.35 dell'altroieri era in corso un nubifragio. Il camion ha un serbatoio molto grande e non è strano (se non era partito da molto) che il motore soia ancora acceso, tra l'altro ricaricando la batteria e quindi permettendo ai tergiscristalli di funzionare. E' assai probabile che nessuno possa andare più a recuperarlo e che il mezzo finisca nel vuoto quando il resto del poste verrà demolito.

Genova, crollo ponte Morandi: la rimozione del camion simbolo del disastro, scrive il 16 agosto 2018 "Repubblica Tv". Il camion simbolo del crollo del ponte Morandi di Genova, che molti chiamano "Basko" dalla catena di supermercati per cui operava, è stato rimosso dal ciglio del viadotto. Durante la non semplice e spettacolare manovra, il mezzo ha dovuto evitare altri camion e auto in attesa di uscita. Assieme al camion tutti gli altri mezzi sono stati portati via dal ponte Morandi.

Ponte Morandi, Valerio Staffelli testimone del crollo a Genova: "Ho visto due bagliori", scrive il 14 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Poco prima del tragico crollo del ponte Morandi a Genova era in zona anche l'inviato di Striscia la Notizia, Valerio Staffelli, che ha raccontato di aver visto un "fulmine colpire il ponte". Lo stesso fenomeno, per nulla collegato al crollo, era stato raccontato anche da altri testimoni all'Ansa. Su Twitter Staffelli ha poi scritto: "Scusate ho visto immagini crollo ponte a Genova, per caso avete notato due bagliori prima del crollo? Ero lontano dal monitor ma sembravano una coppia di bagliori..."

Ponte Morandi, i testimoni: "Il crollo causato da un fulmine". Tra i motivi che potrebbero avere causato il crollo del ponte Morandi, spunta l'ipotesi di un fulmine che avrebbe colpito un pilone del viadotto. A sostenerlo alcuni testimoni oculari. Intanto la società Autostrade nega ogni responsabilità, scrive Gianni Carotenuto, Martedì 14/08/2018 su "Il Giornale". Mentre proseguono le operazioni di soccorso nella zona di Genova dove alle 10.30 di martedì mattina è crollata una parte del ponte Morandi, con un bilancio ancora provvisorio di 11 morti e diversi feriti, tra i possibili motivi del cedimento del ponte spunta l'ipotesi di un fulmine. Lo sostengono alcuni testimoni oculari intervenuti durante le dirette tv delle emittenti locali Primocanale e Telenord. Una versione ancora da verificare che ha trovato altri riscontri, come scritto anche da Repubblica. Il ponte Morandi è crollato. Da anni i genovesi si interrogavano sulla stabilità del viadotto e sulla possibilità di un suo cedimento strutturale, dovuto a difetti di realizzazione oppure a una manutenzione insufficiente. All'inizio, nei minuti immediatamente successivi alla tragedia, il pensiero della città è andato subito ai diversi piccoli, grandi interventi realizzati a partire dagli anni Ottanta per consolidare la struttura, la più importante di tutta l'Autostrada A10 Genova-Ventimiglia. Successivamente, però, alcune persone che vivono nei pressi del viadotto Polcevera hanno segnalato come il crollo del viadotto sarebbe stato preceduto di pochi secondi da un fulmine di grande intensità che avrebbe colpito la base del pilone che poco dopo è venuto giù portandosi dietro 150 metri di strada e una ventina di veicoli che vi stavano transitando nel momento del crollo. "Abbiamo visto una scarica di luce colpire il ponte", poi il cedimento improvviso e il collasso di parte della struttura. Da capire se si tratti di una suggestione o di qualcosa di più. Intanto circolano su internet alcuni video che ritraggono la tragedia nella sua parte finale, con l'ultimo pezzo di viadotto venire giù. Ma ora è il momento del cordoglio e non delle polemiche. Polemiche che Autostrade per l'Italia ha respinto con forza. In una nota pubblicata sul suo sito, la società Autostrade ha spiegato che sul viadotto Polcevera "erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto e, come da progetto, era stato installato un carro-ponte per consentire lo svolgimento delle attività di manutenzione". Inoltre, "I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza da parte della Direzione di Tronco di Genova. Le cause del crollo saranno oggetto di approfondita analisi non appena sarà possibile accedere in sicurezza ai luoghi", mentre l'ad Giovanni Castellucci ha dichiarato che non gli risultava che "il ponte fosse pericoloso" nonostante le ripetute segnalazioni.

Ponte Morandi, parla la testimone: “Ho visto i tiranti spezzarsi, poi sono caduti sulla carreggiata. Tutto in 15 secondi”. Maria Marangolo è l'infermiera della Asl genovese che al momento del disastro si trovava sotto la pensilina della fermata dell'autobus, in cerca di riparo dalla pioggia: "Stavo guardando in alto, proprio verso il ponte, nel momento in cui è successa la tragedia", scrive Il Fatto Quotidiano" il 17 agosto 2018. “Ho visto i tiranti spezzarsi contemporaneamente, poi sono caduti sulla carreggiata, l’hanno fatta salire in alto e dopo si è spezzata la campata”. È il racconto di Maria Marangolo, che al momento del crollo del ponte Morandi si trovava ad una fermata dell’autobus in via Fillak. Era il 14 agosto e a Genova si è verificata la più inaspettata delle tragedie: 38 le persone morte. Marangolo, infermiera della Asl genovese, ricorda che erano precisamente le 11.36 quando è avvento il fatto: “Perché ho ancora il messaggio di richiesta di aiuto che ho inviato a un amico, ed era di un minuto più tardi”, spiega.  La testimonianza della donna arriva dopo giorni di polemiche sulla responsabilità della società Autostrade e su varie ipotesi formulate sulla causa del crollo. Al momento sono cinque le persone ancora disperse: a cercarli 340 i Vigili del fuoco che scavano tra le macerie. L’infermiera ha dichiarato di essere intenzionata a testimoniare, se ce ne sarà bisogno, anche di fronte ai magistrati. “Mi sono decisa a raccontare anche se ero shoccata – afferma – perché le vittime meritano che sia fatta luce su quanto successo, ho sentito tante versioni in queste ore ma alcune non corrispondono alla verità”, dice Marangolo. Che ha assistito al disastro mentre si trovava sotto la pensilina della fermata dell’autobus, in cerca di riparo dalla pioggia. “Stavo guardando in alto, proprio verso il ponte, nel momento in cui è successa la tragedia”. E in un attimo ecco il caos: “Tutto sarà durato al massimo 15 secondi”, ha raccontato Marangolo. Quindici secondi che sono ancora, a distanza di giorni, impressi nella sua mente.

La testimonianza: «Il tirante non ha retto e il ponte è venuto giù». Il racconto dei sopravvissuti. E intanto la procura sequestra l’area del crollo, scrive il 18 Agosto 2018 "Il Dubbio". La rottura di uno strallo «è un’ipotesi di lavoro seria». A cinque giorni dal crollo del ponte Morandi, l’ingegner Antonio Brencich, il docente che per primo aveva lanciato l’allarme sullo stato di “salute” del viadotto, torna a parlare. E dopo un sopralluogo nella zona del ponte crollato, l’ingegner Brencich ha spiegato: «La voce che gira è che il collasso sia stato attivato dalla rottura di uno strallo ci sono testimonianze e video che vanno in questo senso». L’ingegnere ha poi smentito che possa essere stato un eccesso di carico a provocare il crollo del ponte Morandi: «La pioggia, i tuoni, l’eccesso di carico sono ipotesi fantasiose – ha detto – che non vanno prese neanche in considerazione». E la versione del cedimento dei tiranti è stata confermata anche da una testimone sopravvissuta al disastro: «ricordo che ero sul ponte, e che ho visto a 300 metri crollare la “bretella” una sull’altra. Poi il ponte ha cominciato a muoversi come un terremoto», ha infatti raccontato Valentina Galbusera, medico dell’ospedale Villa Scassi di Genova. Intanto la procura di Genova ha disposto il sequestro della parte superiore del ponte, ovvero i due monconi rimasti dopo il crollo di circa 200 metri della campata centrale lo scorso 14 agosto. I consulenti della Procura incontreranno in queste ore i tecnici del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, già oggi a Genova. Per la loro relazione hanno chiesto al momento 60 giorni di tempo. Secondo quanto emerso dalla Procura, non ci sono ancora tempi certi sul termine delle operazioni dei vigili del fuoco sul posto. Non ci sono ancora iscrizioni, nemmeno formali, nel registro degli indagati: il fascicolo è ancora a carico di ignoti perchè l’obiettivo della magistratura è dapprima tentare di individuare le possibili cause del crollo. La procura lavorerà a contato anche con la commissione ispettiva istituita dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Ma il crollo del ponte Morandi ha generato psicosi e preoccupazione i tutta Italia. «E’ sempre più pressante l’ipotesi della demolizione del viadotto Morandi di Agrigento», racconta infatti il sindaco della città dei templi, Calogero Firetto dopo i tragici fatti di Genova. Ancora più zelante il sindaco di Benevento Clemente Mastella che ieri ha annunciato la chiusura del “suo” ponte Morandi. E le preoccupazioni sulla tenuta dei ponti costruiti negli anni ‘ 60 arriva anche d’Oltralpe. Scioccati dalla tragedia di Genova, anche i giornali francesi stanno portando avanti una campagna per la messa in sicurezza di centinaia di ponti considerati a rischio.

Ponte Morandi, il dettaglio terrificante nel video girato due settimane prima del crollo: guardate l'asfalto, scrive il 18 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Un dettaglio inquietante sul ponte Morandi di Genova, emerso dal web. Luca Lagomarsino ha pubblicato un video girato con lo smartphone sul viadotto lo scorso 31 luglio, due settimane prima del tragico crollo che ha provocato oltre 40 morti. Nel filmato, recuperato da Telenord.it, si vede una fessura sull'asfalto nella carreggiata lato mare.

Ponte Morandi, il dettaglio sconcertante: il giorno del crollo non funzionavano le telecamere, scrive il 18 Agosto 2018 Marco Bardesono su "Libero Quotidiano". Sul ponte Morandi non funzionavano neppure le telecamere di sicurezza. «I video che abbiamo acquisito - ha dichiarato ieri il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi - non ci offrono elementi utili per le indagini. Ci sono interruzioni delle riprese». Prima, durante e dopo il crollo. «Interferenze e buchi neri - ha aggiunto il magistrato - dovuti, credo, al forte maltempo che ha provocato il malfunzionamento del sistema video». Da qui l'appello della procura a chiunque avesse filmato, sia pur in modo amatoriale, il crollo del viadotto, perché consegni i filmati agli inquirenti. Cozzi non prende neppure in esame la possibilità che il sistema di ripresa possa essere stato manomesso, in quanto gli hard disk sono stati acquisiti da Polstrada subito dopo la tragedia. Ciò che emerge è l'inaffidabilità dell'intero sistema di controllo video su quel tratto di autostrada. «Un sistema - confermano fonti vicine agli investigatori - comunque obsoleto e, verosimilmente, non controllato chissà da quanto tempo». Intanto ieri è stata decisa la composizione della commissione ispettiva costituita dal ministero delle Infrastrutture che dovrà valutare le cause del disastro. Sono stati nominati sei tecnici, tra questi anche l'architetto Roberto Ferrazza, provveditore alle opere pubbliche per Piemonte, Liguria e Val d' Aosta. Ed è stato lo stesso Ferrazza a fare il punto su quelli che saranno i lavori del pool: «In questo momento - ha detto - la priorità è quella di valutare i lavori che ci sono da fare nell' immediato per mettere in sicurezza il ponte. È urgente anche la riapertura della viabilità nell' intera area. La società concessionaria sottoporrà un piano di intervento alla procura relativo alla parte del viadotto che sta ancora in piedi. Durante il sopralluogo di oggi (ieri ndr.) i temi affrontati sono stati quelli dello smaltimento macerie e della stabilità del ponte. Non siamo ancora in grado di stabilire le cause del crollo. Il calcestruzzo è già stato messo da parte per essere analizzato. Stiamo acquisendo il progetto originario è da quello verifichiamo tutta la sua storia fino ad oggi. Altra priorità è rendere agibili i capannoni e tutto ciò che si trova nei pressi del ponte». Dalle prime indiscrezioni che sono trapelate, la causa del crollo sarebbe da ricercare nella rottura di uno strallo (tirante) del viadotto: «Ci sono testimonianze e video che vanno in questo senso», ha chiarito Antonio Brencich, docente dell'università di Genova e membro della commissione ispettiva. Il professore ha smentito che la causa vada ricondotta ad un eccesso di carico: «Pioggia, tuoni, eccesso di carico - ha concluso - sono ipotesi fantasiose». Ieri la commissione ha inviato una comunicazione ad Autostrade chiedendo di far pervenire entro 15 giorni una dettagliata relazione nella quale «sia fornita chiara evidenza di tutti gli adempimenti posti in essere per assicurare la funzionalità dell'infrastruttura in questione, e prevenire ogni evento accidentale».

La morte vista da vicino e le voci dall'inferno: "Boato come un terremoto, è stato un incubo". Due persone precipitate ma incredibilmente illese e i residenti che hanno visto il crollo Sul ponte anche il calciatore del Genoa Criscito: «Sono passato da lì 10 minuti prima», scrivono Francesco Nittolo e Valentina Carosini, Mercoledì 15/08/2018 su "Il Giornale".  Genova - «Oddio, oddio oddio...». Poche esclamazioni e un'imprecazione, tra sgomento e incredulità. Inizia così il breve video (appena 28 secondi), uno dei più esplicativi di quanto accaduto a Genova nella giornata di ieri, raccolto da un passante che non ha potuto fare a meno di estrarre il proprio smartphone per immortalare la più grande tragedia che abbia mai colpito il capoluogo ligure in tempi recenti. Silvia Rivetti, 30 anni, è tra le decine di automobilisti rimasti bloccati appena pochi metri prima del viadotto crollato: «Siamo rimasti fermi in galleria un'ora abbondante, con i soccorritori che passavano auto per auto. Poi ci hanno fatto fare inversione uno per uno e fatto passare dall'altra carreggiata per poter tornare verso Ponente e uscire dall'autostrada. Alcuni degli automobilisti che sono corsi dentro la galleria hanno raccontato di aver visto cedere uno dei tiranti che reggono la struttura, dopodiché il ponte ha ceduto». «Percorro Ponte Morandi tutti i giorni - racconta Maurizio - la struttura mi ha sempre dato l'impressione di oscillare, a causa delle code frequenti o dei tir che lo percorrono, ma questa mattina la sensazione è che questo movimento fosse nettamente più sensibile. Ho ripercorso nuovamente il ponte per tornare a casa e non potevo sapere che sarebbe crollato solo un quarto d'ora più tardi». Chi si trovava nelle immediate vicinanze non ha parole per descrivere l'accaduto. Antonio Fontanino, 59 anni, è il titolare da 35anni del distributore di benzina di via Fillak: «Ho sentito un boato pazzesco ho pensato fosse caduto un aereo». Michele lavora in una ditta che opera in ambito navale e gli uffici dell'azienda sono situati a 500 metri dalla zona del crollo. «Il nostro palazzo ha vibrato fortemente e abbiamo pensato ad un tuono. La nostra segretaria, però, ci ha detto cosa era accaduto realmente. Ho alzato la testa verso la finestra e ho visto che la parte centrale del ponte non c'era più. È stato incredibile, non ho mai visto nulla di simile in vita mia. È stato choccante». Graziella Cosa, 62 anni, racconta: «Siamo stati sfollati dal civico 12 di via Porro. Qui tutti gli abitanti dai civici 7, 9 e 11 oltre i palazzi al di là del ponte sono sgomberati, devono fare verifiche di stabilità. Io vivo qui da quando sono nata. Il ponte l'ho visto nascere. Adesso devono pensare alle persone là sotto». A sentirsi un autentico miracolato è, invece, Davide Capello, ex portiere del Cagliari, ora trentenne e che di professione fa il vigile del fuoco a Savona, uscito pressoché illeso da un volo di 30 metri, a seguito del crollo del ponte. «Mi sono salvato per miracolo - è il suo esordio - prima ho sentito un rumore, poi all'improvviso è crollato tutto. Ho fatto almeno trenta metri di volo e poi l'auto si è incastrata tra le colonne e le macerie. È incredibile, ma non ho un graffio». Ancora frastornato è anche il camionista che con il suo tir è precipitato giù dal ponte: «Ho sentito un boato e poi l'onda d'urto mi ha fatto volare giù per una decina di metri. Ho riportato solo una slogatura e un colpo all'anca; il mio furgone, invece, è rimasto sepolto. Penso si tratti di un miracolo». Un giovane di 28 anni, di professione addetto alle consegne, invece, è rimasto intrappolato nel veicolo sospeso nel vuoto, sorretto da alcuni cavi. A trarlo in salvo la tempestività dei soccorritori che lo hanno recuperato mentre il suo mezzo stava ancora oscillando nel vuoto. Tragedia scampata anche per il difensore del Genoa Mimmo Criscito, che tramite i social fa sapere: «Sono passato sul ponte 10 minuti prima del crollo, sono vicino a tutte le famiglie delle vittime. Non è possibile che un ponte possa crollare in questo modo».

Quando un pezzo di strada divide la sorte di due uomini. Un camion fermo a un niente dal vuoto e un altro che scompare all'improvviso. E la vita decisa da un attimo, scrive Luca Doninelli, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale".  O Dio! O Dio santo! Le sole immagini in diretta del crollo sono accompagnate da questa parola: Dio. Non conosciamo l'uomo che l'ha gridata, ripetendola tre, quattro volte, ma è probabile che tutti noi avremmo detto lo stesso. Nello spavento, nel tremore, nell'orrore di fronte a ciò che, almeno per un'ora, per mezz'ora, non ha spiegazione, prima che i discorsi si riannodino, prima che la sintassi si arrotoli intorno alle cause, alle responsabilità, alle colpe, la parola è soltanto una. Dio. Perché Dio compare così, nella parentesi tra un evento e la sua tentata digestione. Tutti abbiamo un enorme, sacrosanto bisogno di riappropriarci delle cause e degli effetti, come potremmo vivere senza? Ma quando il cielo si apre all'improvviso, senza nemmeno sapere perché, una sola è la parola, ed è un grido, un'invocazione, una bestemmia, una preghiera: Dio! Anche se non sappiamo cosa vuol dire, perché Dio non è un sapere, non è un fatto culturale, è soltanto Dio, è soltanto l'evidenza che nessuna spiegazione ci sarà mai utile. A chi non viene voglia di parlare di questa Italia che crolla, di questa incuria vecchia decenni, di questo continuo rimandare che sembra il nostro dna, di un malaffare che riesce a giungere fin dentro i piloni dei ponti, di questo nostro paziente, dolorante ricadere periodicamente in ginocchio davanti a un rosario di stragi evitabili? A chi non viene voglia di spegnere nell'indignazione quella parola urlata, quella preghiera? Ma c'è un'immagine più potente delle altre, che ci obbliga a una nuova sosta, a un nuovo sgomento. Quel camion sul ciglio del precipizio, il primo a non essere caduto. In una ripresa da dietro, distinguiamo le scritte sul cassone verde, il nome di una catena di supermercati, poi vediamo un pezzo di ponte che crolla e, di là, sotto un cartello autostradale, si distingue, in lontananza, il frontale bianco di un altro furgone. Sta dall'altra parte del crollo, ma nelle immagini seguenti non lo vedremo più. A pochi metri, a pochi centimetri dalla morte. Il primo dei salvati. Ci doveva essere un primo, il primo dei non morti. Restano i suoi pensieri, le cose che gli passavano per la testa in quel momento, cose normali, di tutti i giorni, i soliti fastidi, l'immagine di qualcuno che si ama, la rabbia per un torto subito, la tabella di marcia difficile da rispettare alla vigilia di Ferragosto. Oppure chissà che cosa. Le stesse cose che dovevano occupare la mente di tutti quelli che non potranno più dirci a cosa stavano pensando. Il rumore delle cose che non ci sono più. Ed eccolo lì, quel camion, nel suo silenzio. Non spiegabile, non inseribile in nessun discorso, in nessuna sintassi. In un punto del mondo in cui le interpretazioni si dissipano, l'intelligenza si confonde come le lingue di Babele. Ascoltiamo quel silenzio: una sola parola, tra le migliaia del nostro vocabolario, potrà affiancarlo. Sempre la stessa. Dio. La morte, si direbbe, non giunge uguale per tutti. Ma non è così. La morte arriva sempre comunque troppo presto, resta sempre qualcosa da fare, un articolo di giornale, una consegna per il tuo supermercato, una nuotata in mare, un anniversario da non dimenticare, una cena tra amici, in campagna. Un algoritmo potrà inviare gli auguri di Natale con la nostra firma anche dopo che saremo morti, ma non potrà dare un bacio a nostro figlio. Anche per l'autista di quel camion, come per tutti noi, la morte arriverà comunque troppo presto. Questa volta non è arrivata. Un tizio del mio paese si trovava a Brescia, in Piazza della Loggia, in quel 28 maggio 1974, quando una bomba nascosta in un cestino esplose uccidendo otto persone. Una scheggia gli portò via l'orologio, lasciandolo illeso. Anche lui in bilico, come quel camionista, sopra la tragedia - ma anche dentro la tragedia. Mia zia, donna molto devota, commentò: «Si vede che non era arrivata la sua ora». Ma chi, morendo, è capace di dire: «Ecco, è arrivata la mia ora»? Chi sa comporre discorsi (funebri) in quel momento? L'ora della morte non è la nostra ora, non è l'ora di nessuno, la bestia arriva quando vuole, distrugge, semina lacrime e desolazione. Guardando da fuori il destino di un uomo, o di una moltitudine, viene la tentazione di trovarci un senso, di scorgere un disegno, una necessità, una fatalità. Hegel. Marx. Ma visto da dentro, mentre precipitiamo da un ponte, mentre anneghiamo in mare, non c'è nessun senso, nessuna causa, e il meccanismo che regge il mondo si rivela stupido, vuoto e cattivo, e non merita parole. Tranne, forse, una. Sempre la stessa. Dio. Qualunque cosa abbiamo (o non abbiamo) in testa quando pronunciamo quella parola, perché conta poco quello che abbiamo in testa. In quel grido c'è di più. Più di noi, più di quello che possiamo comprendere ma anche più di quel baratro dove tanti innocenti sono caduti, anche per noi. A pochi centimetri dalla morte, quel camion fermo sul bordo dell'abisso rimane come quella parola, che non precipita. Dio! Dio santo!

Il bimbo, l'anziana e l'autista Le vite sepolte dalle macerie. C'è chi lavorava, chi stava andando in vacanza e chi era in casa: la normalità travolta del crollo, scrive Federico Malerba, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale". Se è possibile ridurre una tragedia in numeri - morti, feriti, dispersi - un bilancio finale potrà essere fatto soltanto oggi, nella migliore delle ipotesi. I soccorritori hanno continuato a scavare per tutta la notte sotto la luce delle torri-faro seguendo i lamenti disperati di chi è rimasto sepolto dalle macerie, tonnellate di cemento armato che hanno soffocato vite, spezzato famiglie, aperto ferite difficili da rimarginare sui corpi e nelle anime. Estrarre vittime e sopravvissuti significa anche estrarre pezzi di storie, quelle che da ieri mattina, lentamente, tornano a galla da quel pozzo di morte profondo novanta metri. Tragiche, commoventi, fortunate nella sfortuna, oppure sfortunate e basta. Un segmento di Italia minuscolo eppure rappresentativo. C'era la famiglia che stava andando in vacanza, padre, madre e figlio di 9 anni: sono morti tutti. Nella loro auto precipitata dal ponte i soccorritori hanno trovato valigie e ombrelloni. Il piccolo dovrebbe essere (si spera) l'unico minore coinvolto, al momento non ne risultano altri nemmeno tra i feriti. Le loro salme, come quelle delle altre vittime sono state portate in un padiglione dell'ospedale San Martino per le procedure di identificazione. C'erano anche quelle di due operai dell'Amiu, la ditta che si occupa della raccolta dei rifiuti in città, che si trovavano nel deposito di Rialzo e che sono stati investiti da uno dei piloni collassati. In tutto i morti accertati sono una ventina, ma considerando che sul ponte Morandi c'erano circa trenta veicoli e tre tir si stima che potrebbero arrivare almeno fino a 35. Poi ci sono i feriti, più o meno gravi, che sono stati trasportati al San Martino ma anche al Galliera, a Villa Scassi, a Sestri: a ieri sera erano 16 di cui 9 in codice rosso. C'è la signora di 75 anni che se ne stava tranquilla in casa sua ed è rimasta gravemente intossicata dal fumo dopo che il crollo aveva fatto scoppiare un incendio. Ci sono giovani e meno giovani con traumi da schiacciamento e fratture, alcuni in codice verde o giallo - come un ceco di 46 anni -, altri in prognosi riservata. E infine ci sono i sopravvissuti. Una quindicina quelli estratti vivi dai detriti, ma c'è anche chi è riuscito a rimettersi in piedi con le sue gambe. Due autisti, un croato e un bulgaro, sono usciti miracolosamente illesi dai loro tir e anziché allontanarsi hanno iniziato a dare una mano ai soccorritori: c'erano anche gli angeli, in mezzo all'inferno. Loro come le centinaia di Vigili del fuoco, poliziotti, carabinieri, operatori del 118 e volontari accorsi anche dalle regioni vicine. Due sono anche rimasti feriti mentre lavoravano tra le macerie. Nel vuoto sono precipitate decine di persone, altri sono scampati per un millimetro. L'autista del camion dei supermercati Basko, quello che si è fermato a un metro dal baratro, è un italiano di 37 anni sposato e con figli che stava rientrando da un giro di consegne. È in stato di choc, come la famiglia (padre, madre e figlioletto) che ha visto andare giù il ponte di fronte ai propri occhi. Come altri testimoni oculari dell'apocalisse che sono stati colti da vere e proprie crisi di panico: per loro in diversi ospedali sono state allestite task-force di psichiatri e psicologi. Illesi ma comunque segnati, come i 440 sfollati che hanno dovuto lasciare le loro case. Tutte persone il cui unico torto è stato quello di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Giovani, vecchi, uomini, donne, lavoratori e vacanzieri, italiani e stranieri. Poteva capitare a chiunque, ad ognuno di noi. Per questo, come e più di altri, questo è il dramma di un'intera nazione. (Ha collaborato Valentina Carosini)

Giacomo Amadori per la Verità il 12 settembre 2018. Per un mese in Italia si è parlato solo di stralli, calcestruzzo, tronchi autostradali, concessioni. Dopo il crollo del ponte Morandi gli italiani sono diventati esperti di ingegneria civile e di bilanci societari. Come sempre ci si è divisi in Guelfi e Ghibellini, pro e contro la famiglia Benetton. Ma in questa vicenda c' è stata la clamorosa rimozione delle vittime, oscurate persino ai loro funerali dalle rendicontazioni su fischi e ovazioni. Per fortuna le prime carte depositate dai magistrati della Procura di Genova rimediano a questa clamorosa amnesia collettiva e, come un pugno nello stomaco, ci ricordano perché ci sarà un processo: ci sono stati 43 morti e 16 feriti a cui restituire un po' di giustizia. L' 8 settembre il sostituto procuratore, Massimo Terrile, ha compilato il terribile elenco delle 59 vittime, accostando ad esse i nomi dei «prossimi congiunti», madri, padri, coniugi, figli, nonni, ma in qualche caso anche zii, nipoti, cugini e cognati. La documentazione depositata dai magistrati ci rispedisce come a bordo di una macchina del tempo ai minuti immediatamente successivi al crollo. Un sovrintendente di polizia, Marco C., descrive le «prime fasi emergenziali» di quel giorno e la telefonata ricevuta da una collega, Roberta C., alla quale un cittadino disperato «riferiva che il ponte Morandi era crollato e che molti veicoli e molte persone erano precipitate nel letto del fiume Polcevera sottostante». Vista la gravità dell'allarme e non conoscendo le cause del crollo la polizia decide di inviare alcune volanti ai caselli autostradali cittadini per filtrare l'afflusso dei veicoli. Alla centrale iniziano a giungere altre notizie e si apprende che ci sono «numerosi veicoli coinvolti nel greto del fiume, molti dei quali con all' interno feriti». La zona della tragedia è colpita da una pioggia battente e da raffiche di vento, intorno si avverte un forte odore di gas. Alcuni mezzi sono volati sui binari della ferrovia e per questo viene allertata la centrale operativa della Polfer per fare immediatamente sospendere il traffico ferroviario. Nelle teste dei soccorritori inizia a delinearsi uno scenario da The day after. La scena iniziale sembra quella di un film di genere catastrofico: una grandissima porzione di autostrada è infilzata nel terreno e ha l'aspetto pericolante. I primi soccorritori non si fidano ad avvicinarsi agli automezzi che si trovano lì sotto: da un furgone bianco si scorgono solo due mani appoggiate a un volante. Per la concitazione e la paura «di un eventuale altro crollo» inizialmente non vengono recuperati i documenti dei feriti, né annotate le targhe dei veicoli coinvolti. L'autista di un tir rosso esce dall' abitacolo con le proprie gambe, sembra un fantasma. Un equipaggio di poliziotti abbandona la volante e accorre verso il fiume. Gli agenti si trovano di fronte auto distrutte e capovolte e un tir bianco con «la cabina schiacciata al suolo». Si guardano intorno per riuscire a scendere nel torrente e trovano una scaletta in corda posizionata probabilmente da «due sudamericani con gli ombrelli che cercavano di rendersi disponibili ai soccorsi». Gli uomini vagano tra le macchine dove vedono solo cadaveri sino a quando odono grida di dolore e cercano di individuarne la provenienza. Ma non è facile a causa della pioggia e del vento. «Durante queste fasi giunge una richiesta di soccorso in lingua straniera». Arriva dal tir bianco capovolto. L'autista è cosciente, ma «ovviamente sconvolto e stordito dall' impatto, con il volto coperto completamente di sangue e le gambe tumefatte dallo sterzo». L' uomo dice di chiamarsi Martin e di essere originario della Repubblica Ceca. I poliziotti decidono di «intervenire in suo soccorso "sorreggendolo" per non farlo stare a testa in giù per troppo tempo ()». I dolori di Martin Kucera, 46 anni, sembrano alleviarsi grazie a quella manovra e allora gli operatori decidono di sganciare la cintura di sicurezza. Quindi iniziano a parlargli per non farlo assopire, «dato che con il trascorrere degli interminabili minuti lo stesso chiudeva gli occhi e in qualche frangente sembrava che stesse per perdere conoscenza». Anche il commissario capo Filippo C. racconta quello che ha visto. Per esempio verso mezzogiorno del 14 agosto si trova di fronte Lucian Gotthesan, quarantaseienne rumeno, che vaga semi incosciente vicino a un capannone pericolante da cui fuoriesce un pungente odore di gas. A causa della forte pioggia, nel greto del Polcevera scorre «un forte flusso d' acqua». Da un'Alfa Romeo viene estratto il cadavere di una donna cilena, Leyla Nora Rivera Castillo. Viaggiava con due uomini che non vengono subito identificati. Da un'Audi A3 viene tirato fuori un uomo sulla quarantina. In una borsa c' è una tessera di Fincantieri, l'azienda che dovrebbe ricostruire il ponte, con il nome della vittima: Francesco Bello. Nataliya Yelina, ucraina di 43 anni, è «incastrata sotto una porzione del ponte a un'altezza considerevole». È trasportata via con l'elicottero mentre il greto si riempie di «salme preventivamente avvolte in lenzuoli bianchi, all' interno di sacchi», in modo da rimanere «nascoste alla vista dei numerosi presenti». Un telefonino nero squilla accanto a un cadavere, mentre un altro, grigio, appartiene a Rita Giancristofaro, che piange, ma è viva. Grazie alla rubrica del suo smartphone i soccorritori trovano il numero della madre e dopo nove ore di ansia avvertono la signora Anna «delle buone condizioni della figlia e del rinvenimento del suo cellulare». Nella carcassa di un'autovettura ci sono due giovani di età compresa tra i 20 e i 25 anni. Questo il racconto di uno dei soccorritori: «Giunto in prossimità dell'automobile, potevo notare che il ragazzo non dava segni di vita, mentre la ragazza al suo fianco urlava per le vistosissime ferite agli arti inferiori. La donna era incastrata tra i rottami con la caviglia sinistra girata in modo innaturale sotto la pedaliera, con le ossa a vista e fuoriuscite dalle carni». I suoi salvatori cercano di tenerla cosciente rivolgendole più volte la parola, mentre cercano di liberarla. Claudia Possetti, quarantasettenne di Pinerolo, è morta dentro a una Golf, insieme con i suoi due ragazzi, Manuele di 16 anni e Camilla di 12. Nell' auto c'era anche il loro cagnolino. È spirato con i suoi padroncini. La mamma aveva con sé un borsellino fucsia con 200 euro in contanti per quella loro giornata di vacanza. I suoi ragazzi avevano due portafogli della stessa griffe alla moda. In quello di Camilla c'era un ricordo della sua breve esistenza, una banconota da 1 dollaro. Delle loro vite non resta altro, se non piccole schegge inanimate: alcuni mazzi di chiavi, un telecomando del cancello, due cellulari uguali, uno nero e uno color oro, forse di Camilla. Nel greto sono sparsi altre piccole testimonianze di questa Spoon river genovese: una borsa frigo arancione, un telo da mare dello stesso colore, un romanzo di Herman Hesse, un pettine azzurro, un blocchetto per gli appunti nero. Ci sono anche 520 euro in banconote, tutte impregnate di gasolio. Poco più in là, c' è un piccolo marsupio marrone con 136,24 euro in monetine. Chi li raccoglie si chiede chi li abbia messi da parte e perché. Il ponte ha inghiottito la risposta insieme a 43 vite umane.

Ponte Morandi, lo schiaffo delle famiglie delle vittime: "Non vogliamo la farsa dei funerali di Stato", scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Le bare allineate in ordine nell'obitorio di Genova sono solo 14, nonostante le oltre 38 vittime finora falciate dal crollo del ponte Morandi il 14 agosto scorso. I feretri aspettano la benedizione e i funerali di Stato previsti per sabato, solo per loro. I familiari delle altre 17 vittime hanno deciso invece di celebrare funerali privati, 7 devono ancora decidere. La collera di chi oggi deve piangere i propri familiari uccisi dal disastro in autostrada è fortissima. Quella dei quattro ragazzi di Torre del Greco che stavano andando in vacanza sfocia nella rabbia: "È lo Stato che ha causato questo - si è sfogata Nunzia, la madre di Gerardo Esposito, come riporta La Stampa - non si devono permettere di farsi vedere: la passerelle dei politici è stata vergognosa. Mio figlio non diventerà un numero nell'elenco dei morti causati dalle inadempienze italiane, farò in modo che ci sia giustizia per lui e per gli altri: non dobbiamo dimenticare. Non vogliamo un funerale farsa, ma una cerimonia a casa, nella nostra chiesa a Torre del Greco. È un dolore privato, non servono le passerelle. Da oggi inizia la nostra guerra per la giustizia, per la verità: non deve accadere più".

La rivolta delle famiglie: "È un omicidio di Stato. No ai funerali pubblici". Oggi le esequie solenni, ma in venti scelgono il rito privato. Le autorità: "I dispersi sono 5", scrive Valentina Carosini, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale". Saranno oltre 60 le autorità presenti a Genova per i funerali di Stato di 18 delle 38 vittime del crollo di Ponte Morandi a Genova, che si svolgeranno oggi alle 11.30 presso il padiglione Blu della Fiera. Una giornata di lutto nazionale, massime cariche dello Stato presenti, ma in queste ore i familiari di oltre metà delle vittime ha preferito un contesto privato per rivolgere l'ultimo saluto ai propri cari. «La maggior parte delle famiglie ha fatto la scelta di tornare al paese d'origine per le esequie, per avvicinarsi ai parenti che altrimenti erano lontani. Alcuni invece non sono cattolici», ha spiegato Matteo Campora, assessore comunale genovese con delega ai servizi cimiteriali. In un clima generale di dolore e sgomento c'è chi ha affidato ad un post le sue ragioni. «É un omicidio di Stato, non vogliamo un funerale farsa ma una cerimonia a casa. È un dolore privato, non servono le passerelle. Da oggi inizia la nostra guerra per la giustizia, per la verità: non deve accadere più», come ha scritto il padre di Roberto Battiloro, uno dei quattro giovani di Torre del Greco che ha perso la vita nel disastro. I primi funerali in forma privata si sono svolti ieri: tra questi quello di Francesco Bello, 41enne genovese. I familiari hanno scelto il paese d'origine, Serra Riccò nell'entroterra di Genova per l'ultimo saluto. Domani ad officiare i funerali di Stato sarà l'Arcivescovo di Genova e presidente dei vescovi europei, cardinale Angelo Bagnasco. Tra i presenti il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, i vertici di Camera e Senato Roberto Fico ed Elisabetta Casellati. Ci saranno tutti i ministri del governo italiano ed un rappresentante del governo francese: tra le vittime del crollo del viadotto ci sono anche 4 giovani di Montpellier che viaggiavano verso Genova. Tra i feretri che ieri erano già stati trasferiti dall'obitorio dell'ospedale San Martino di Genova ai padiglioni della fiera, anche quello bianco del piccolo Samuele, di 8 anni, la vittima più giovane del disastro. Sopra ogni bara c'è un foglio con le generalità della salma. In ricordo dei 4 giovani di Torre del Greco ci sarà una fotografia: i loro funerali si sono svolti ieri, nella città d'origine. Ingente lo schieramento di forze dell'ordine previsto: all'interno del padiglione B della Fiera sono stati predisposti 1.500 posti a sedere mentre la capienza dell'area è di 3mila persone. All'esterno i posti sono 5mila ma in città intanto sono stati allestiti anche maxischermi, dai quali si potrà vedere la funzione, uno dei quali in piazza De Ferrari nel cuore di Genova. Sul fronte delle ricerche continua da 4 giorni il lavoro senza sosta dei soccorritori. Sono cinque i dispersi. Dall'elenco di 10 persone sono stati depennati infatti nelle ultime ore i nominativi di chi ha fatto avere notizie ai familiari. Le operazioni di soccorso delle ultime ore si sono concentrate sull'argine sinistro del Polcevera e nell'area tra i piloni e la ferrovia dove si spera di poter trovare ancora sopravvissuti. I soccorritori al lavoro con le gru stanno cercando di rimuovere le parti più grandi dei detriti mentre i tecnici Usar stanno verificando l'eventuale presenza di persone. É sceso invece il numero degli sfollati da ieri: 60 persone hanno potuto fare rientro nelle loro case in via Porro dopo le verifiche. La prossima settimana inizierà la consegna dei primi 45 alloggi resi disponibili da subito da Comune e Regione per accogliere le 580 persone rimaste senza un'abitazione.

Ponte Morandi, ai funerali di Stato le famiglie di sole 18 vittime su 38. Gli altri: “Farsa, no passerelle. Vogliamo giustizia”. Oggi le cerimonie per 5 vittime, le cui famiglie hanno deciso di non partecipare alle esequie con le istituzioni. Di Maio: "Non le biasimo". Il papà di Giovanni Battiloro: “Mio figlio non sarà un numero nell’elenco dei morti causati dalle inadempienze italiane". Cardinale Sepe: "Violenza consumata dalla mano dell'uomo", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 17 agosto 2018. Non ci sarà la bara di Giovanni Battiloro. E nemmeno quella dei suoi tre amici di Torre del Greco. Non ci sarà quella di Denise Vittone. E nemmeno quelle della famiglia Possetti di Pinerolo. Saranno 18 i feretri ai funerali di Stato indetti dopo il crollo di ponte Morandi che, al momento, ha causato 38 vittime. Diciassette bare sono già esposte. I familiari delle altre vittime hanno preferito i funerali privati. Nelle ore successive alla tragedia, oltre al dolore si mescola la rabbia. Il primo a parlare è stato Roberto, il papà di Giovanni Battiloro, il ragazzo di Torre del Greco morto mentre era in viaggio con altri tre amici: “Mio figlio è stato ammazzato – ha detto l’uomo – lo Stato non ha tutelato i suoi cittadini. Da domani quella legata alla morte di mio figlio sarà una battaglia per trovare i colpevoli della morte di Giovanni, dei suoi amici e di tutti i morti che non possono essere solo un numero”. I funerali di Giovanni e di Antonio Stanzione, Gerardo Esposito e Matteo Bertonati sono stati celebrati nel pomeriggio nella Basilica di Santa Croce, nel paese in provincia di Napoli, dall’arcivescovo Crescenzio Sepe. “Mio figlio non diventerà un numero nell’elenco dei morti causati dalle inadempienze italiane”, aveva scritto in giornata Roberto Battiloro su Facebook. “Non vogliamo un funerale farsa, ma una cerimonia a casa, nella nostra chiesa a Torre del Greco. È un dolore privato, non servono le passerelle”. A lui si è unita Nunzia, mamma di Giovanni Esposito, che insieme a Roberto voleva arrivare in Francia: “È lo Stato che ha causato questo, non si devono permettere di farsi vedere: la passerella di politici è stata vergognosa”. Durissimo anche il commento del cardinale Sepe: “Non si può, non si deve morire per negligenza, per incuria, per irresponsabilità, per superficialità, per burocratismo, per inedia, perché questa è la vera violenza, è la violenza contro la persona, contro l’umanità”, ha detto l’arcivescovo durante l’omelia dei funerali. Quello che è accaduto a Genova, ha detto ancora il cardinale, è stato determinato da una “violenza consumata non dal destino ma dalla mano dell’uomo che si sostituisce alla mano di Dio per i propri interessi personali e che diventa una mano che porta morte”. Così i funerali di Stato, che saranno officiati a Genova dall’arcivescovo Angelo Bagnasco alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, rischiano di essere una cerimonia dimezzata dal dolore e dal risentimento per quanto accaduto. Il presidente della Cei invita alla riflessione: “E’ una scelta dei familiari ai quali va tutto il rispetto, e che certamente farà pensare chi di dovere”. Luigi Di Maio si schiera con le famiglie: “Domani saremo ai funerali solenni delle vittime del ponte Morandi – scrive il vicepremier in una lettera inviata ai parlamentari M5s – Abbiamo voluto i funerali solenni, decisi nel consiglio dei ministri, perché pensiamo che sia il minimo atto di vicinanza alle vittime, ma non posso biasimare le famiglie che hanno scelto di celebrare i funerali nel proprio comune di appartenenza, anche in dissenso con uno Stato che invece di proteggere i loro figli, ha preferito per anni favorire i poteri forti”. Hanno detto di no alle esequie con le istituzioni anche i parenti della famiglia Possetti di Pinerolo: Andrea Vittone è morto assieme alla moglie Claudia Possetti: si erano sposati il 23 luglio scorso ed erano in viaggio con i due figli di lei, Camilla (12 anni) e Manuele (16 anni): i loro funerali saranno in forma privata a Pinerolo. E di Stella Boccia che sarà portata a Foiano della Chiana (Arezzo) dove oggi alle 15 si svolgeranno le esequie con rito evangelico. Lo stesso hanno deciso anche i familiari di Elisa Bozzo, la trentaquattrenne di Busalla (Genova): “Quelle cose pubbliche non mi piacciono”, ha spiegato la madre al quotidiano piemontese. Anche per Francesco Bello, originario di Serrà Riccò (Genova), e i coniugi Alessandro Robotti e Giovanna Bottaro di Arquata Scrivia (Alessandria) i parenti hanno scelto le esequie private. Funerali separati invece per il fidanzato di Stella, il peruviano Carlos Jesus Erazo Trujillo, 27 anni: la sua sarà una delle bare schierate davanti al presidente della Repubblica. Si sono svolti questa mattina a Pisa invece i funerali di Alberto Fanfani e Marta Danisi. Le esequie si sono svolte nella parrocchia dove la giovane infermiera cantava nel coro e dove a maggio dell’anno prossimo avrebbe sposato l’anestesista conosciuto durante i suoi anni di lavoro all’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (Aoup) prima di trasferirsi ad Alessandria. In ogni caso, domani alle 11 l’Italia si fermerà per onorare le vittime della tragedia del ponte Morandi a Genova. Una giornata di lutto nazionale nella quale l’arcivescovo del capoluogo ligure celebrerà i funerali nel padiglione Jean Nouvel della Fiera. C’è attesa per l’omelia del porporato che ha parlato di una necessità di “onestà morale” perché “ognuno di noi deve rispondere delle proprie azioni”. Lo Stato sarà presente con le sue massime cariche ovvero il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e i presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati. Al loro fianco anche i vertici del governo Lega-M5s. “Noi ci saremo, non lasciamo sola Genova”, ha assicurato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Quel che è Stato, scrive Sabato 18 agosto 2018 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". Con chi ce l’hanno i parenti delle vittime di Genova che sottraggono le bare dei propri cari ai funerali di Stato? In qualche famiglia prevarrà il desiderio comprensibile di preservare l’aspetto privato del dolore anche in una tragedia collettiva. Ma gli altri hanno rifiutato il rito pubblico per incompatibilità ambientale con un Potere che disprezzano e di cui diffidano. Vogliono giustizia e la vogliono subito, perché altrimenti temono di non averla mai. Eppure sarebbe vago e scorretto scrivere che protestano contro lo Stato. Lo Stato sono i vigili del fuoco che hanno scavato tra le macerie con efficienza asburgica e cuore mediterraneo. Sono gli infermieri e i medici della sanità pubblica rientrati spontaneamente dalle vacanze di Ferragosto per dare una mano. Lo Stato è quell’agente della Stradale che con modi gentili ma risoluti (da papà, diremmo, se non lo dicesse già sempre Salvini) ha convinto gli automobilisti a lasciare le macchine sul Ponte per mettersi in salvo. Lo Stato è il suo Capo, la cui sagoma dolente si staglierà stamattina in prima fila, e a cui nessuna di quelle persone straziate ha qualcosa da imputare. Il bersaglio della rabbia non è dunque lo Stato, ma la politica che si fa dare ordini dalla finanza, ne subisce il fascino e ha perso contatto con la realtà quotidiana dei suoi elettori. La scommessa del governo voluto dagli arrabbiati è tutta qui: salvare la coesione nazionale, impedendo che il Paese si spezzi come quel ponte.

Giornata di lutto nazionale Genova, il giorno dei funerali di Stato per 19 vittime: i morti salgono a 42, scrive Rai News il 18 agosto 2018. Non tutti i parenti delle vittime hanno accettato il funerale di Stato e molti hanno deciso di salutare i loro cari in forma privata Tweet Crollo ponte, Mattarella: "Disgrazia spaventosa e assurda, esame serio di cause e responsabilità" Il video del crollo del ponte Morandi a Genova "Ponte Morandi, capolavoro? Ha dato problemi fin da subito": la valutazione di un ingegnere Genova, crolla ponte Morandi: decine di morti Di Maio: Autostrade responsabile del crollo. Toninelli: revoca della concessione Genova, centinaia di sfollati. Rixi: "Le case saranno ricostruite in un'altra zona" Crollo ponte, Salvini: non è il momento di parlare di revoca concessione ad Autostrade Il ponte Morandi prima e dopo il crollo nelle immagini del satellite Genova, 18 bare delle vittime del crollo del ponte Morandi nel padiglione nella Fiera Genova, recuperata l'auto su cui viaggiava una famiglia e un'altra vittima: i morti salgono a 42 18 agosto 2018 Sale il bilancio delle vittime. L'auto su cui viaggiava la famiglia Cecala, il pap Cristian, la mamma Dawna e la piccola Kristal di 9 anni, è stata recuperata dai Vigili del fuoco sotto le macerie del ponte Morandi a Genova. L'auto è stata individuata nella notte, completamente schiacciata, sotto un grosso blocco di cemento che faceva parte del pilone della struttura crollato nei pressi dell'argine sinistro del Polcevera. Recuperato anche il corpo di un'altra delle vittime disperse. Il bilancio delle morti, non ufficiale in quanto i corpi devono ancora essere identificati, sale dunque a 42. Vivo il cittadino tedesco inserito nell'elenco dei dispersi Albert, il cittadino tedesco che era inserito nell'elenco dei dispersi, è vivo e sta bene. Questa mattina ha telefonato in prefettura attraverso il numero dedicato rassicurando gli addetti dell'unità di crisi. Ora l'unico disperso è Mirko Vicini, il genovese operaio di Amiu, la municipalizzata dei rifiuti, che era nel capannone dell'azienda investito dal crollo di ponte Morandi.  Funerali di Stato In uno dei padiglioni della Fiera di Genova è stata allestita la camera ardente con i feretri delle 19 vittime i cui famigliari hanno accettato la cerimonia dei funerali di Stato in programma oggi, giornata di lutto nazionale, alle 11 presso un padiglione della Fiera di Genova. Alle esequie, celebrate dall'arcivescovo della città, il cardinale Angelo Bagnasco, parteciperanno il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in mattinata è stato sul luoo del disastro e il governo. La visita di Mattarella Mattarella, durante la visita, si è intrattenuto con i soccorritori presenti nell'area del disastro e ha reso loro omaggio per la preziosissima attività svolta in questi giorni. Il presidente è parso notevolmente emozionato e colpito dallo scenario visibile laddove c'era il ponte crollato. Poi al termine della visita, è ripartito per fare visita ai feriti e ai loro familiari prima di partecipare ai funerali di stato alla Fiera.  Il saluto e il cordoglio dei soccorritori Le squadre dei vigili del fuoco e dell'Usar, che hanno salutato i feretri allestiti alla Fiera del Mare per i funerali di Stato, sono state applaudite dai parenti delle vittime e dal pubblico.  L'applauso ai vigili del fuoco è durato circa un minuto e mezzo. I vigili del fuoco, i cinofili e gli Usar hanno salutato una per una le bare facendosi il segno della croce.   Genoa e Sampdoria ai funerali. I giocatori di Genoa e Sampdoria sono arrivati insieme ai funerali delle vittime del crollo del ponte Morandi. Sono entrati nel padiglione della Fiera di Genova, dove il cardinale Bagnasco officerà la cerimonia, camminando vicini. Ci sono i presidenti Ferrero e Preziosi e gli allenatori Ballardini e Giampaolo. Le partite Sampdoria-Fiorentina e Milan-Genoa sono state rinviate per lutto. L'arrivo delle squadre è stato accolto da un lungo applauso. Funerali in forma privata per parte delle vittime Non tutti i parenti delle vittime hanno accettato il funerale di Stato e molti hanno deciso di salutare i loro cari in forma privata. "Sono pochi quelli che aderiscono ai funerali di Stato. Tanti non vogliono fare la passerella, e li capisco. Se invece di spendere i soldi per venire qui li avessero dati a questa povera gente, sarebbe stato meglio". Lo ha detto padre Mauro Brezzo, cappellano dell'ospedale San Martino di Genova, che sta dando conforto alle persone ferite e ai familiari delle vittime. Quanto ai sentimenti "in generale prevale la rabbia" tra le persone, "invece i parenti delle vittime sono in lacrime e in silenzio, vivono solo il dramma".

Crollo ponte Genova, trovato un altro corpo. I morti accertati sono 42. Trovato vivo, lontano da Genova, un cittadino tedesco dato per disperso. Due i feriti gravi, scrive Laura Lezza su Huffington Post il 18 agosto 2018. Trovato un altro corpo. Non ci dovrebbero essere più dispersi sotto il ponte Morandi. I morti accertati sono quindi 42. Il bilancio ufficiale del crollo del Ponte Morandi quindi sale a 42 morti. Tra i feriti, due sono ancora in gravi condizioni: si tratta di una donna di 74 anni, sassarese di nascita ma residente a Genova e di un uomo di origini romene, attualmente in coma farmacologico. E' stata rintracciata dal Ccs, il Centro di Coordinamento dei soccorsi, una persona che corrisponderebbe ad uno dei dispersi del crollo di ponte Morandi. Si tratterebbe di un cittadino tedesco che non era a Genova. Sono in corso accertamenti da parte delle autorità preposte. La conferma arriva dalla Protezione civile. Albert, il cittadino tedesco che era inserito nell'elenco dei dispersi, è vivo e sta bene. Questa mattina ha telefonato in prefettura attraverso il numero dedicato rassicurando gli addetti dell'unità di crisi. Ora l'unico dispero è Mirko Vicini, il genovese operaio di Amiu, la municipalizzata dei rifiuti, che era nel capannone dell'azienda investito dal crollo di ponte Morandi. All'appello, dunque, manca una sola persona. Ma, spiegano dalla Protezione civile, l'elenco dei dispersi è "aleatorio", perché sotto le macerie potrebbero trovarsi persone la cui scomparsa non è stata denunciata, come dei senza tetto. Attentato colposo alla sicurezza dei trasporti, disastro colposo e omicidio colposo plurimo le ipotesi di reato su cui sta indagando la Procura di Genova. Il fascicolo, in mano ai pm Walter Cotugno e Massimo Terrile, rimane a carico di ignoti. Prima di iscrivere nomi nel registro degli indagati, gli inquirenti lavorano per accertare le cause del crollo, e gli scenari sono molti e ampi.

Altri 4 recuperati sotto le macerie: ora le vittime di Genova salgono a 42. Nella notte recuperata la famiglia Cecala: papà, mamma e la figlia di nove anni. L'auto schiacciata da un blocco di cemento. Rintracciato anche il tedesco disperso, scrive Sergio Rame, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale". Il bilancio della strage si è aggravato ulteriormente. A poche ore dai funerali di Stato è, infatti, salito a quarantadue il numero delle vittime del drammatico crollo di Ponte Morandi a Genova. Scavando tra le macerie del viadotto, la scorsa notte, intorno alle 3, i soccorritori hanno rinvenuto un'automobile, una Hyundai, all'interno della quale sono stati trovati i resti di un'intera famiglia. Padre, madre e figlia si trovavano sotto un blocco di cemento che faceva che faceva parte del pilone della struttura crollata sull'argine sinistro del Polcevera. Oggi, invece, è stato ritrovato il tedesco disperso. "Mio figlio - ha scritto sui social Roberto, il padre di Giovanni Battiloro, uno dei quattro ragazzi morti di Torre del Greco. - non diventerà un numero nell'elenco dei morti causati dalle inadempienze italiane". Mentre a Genova si continua a scavare tra le macerie, crescono la rabbia e il dolore tra i parenti delle vittime. Venti famiglie hanno deciso d per le esequie in forma privata. "Li capisco benissimo se sono arrabbiati e delusi, hanno tutta la mia comprensione - ha commentato Matteo Salvini in una intervista all'Huffington Post - lo sarei anch'io. E fanno bene ad avercela con lo Stato". Nelle scorse ore il ministro dell'Interno ha incontrato una signora che è rimasta vedova. La donna gli ha raccontato la sofferenza dei figli adottivi: "La prima famiglia li ha abbandonati e ora hanno perso una parte della seconda". Il leader leghista le ha garantito impegno e attenzione: "Ma è giusto che ci sia rabbia. Lo trovo normale". Da qui la promessa: "Non succederà quello che è successo ad esempio per la strage di Viareggio. Che ciò che diciamo vedrà delle azioni conseguenti. Faremo di tutto perché chi ha colpe paghi non solo economicamente ma anche penalmente". "La ricerca della giustizia è assolutamente doverosa, anche se purtroppo non potrà restituire nulla e non potrà cambiare i fatti", ha detto il padre di Luigi Matti Altadonna, il genovese di 35 anni morto tra le macerie di Ponte Morandi. "Però - ha continuato durante il rosario recitato dall'arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco - potrà sicuramente assicurare per il futuro che episodi di questo tipo non accadano mai più, da nessuna parte". Oggi, a Genova, si terranno i funerali di Stato. Ci saranno diciotto feretri (Roberto e Emanuele Robbiano, Ersilia Piccinino, Marius Djerri, Admir Bokrina, Bruno Casagrande, Leyla Nora Rivera Castillo, Juan Carlos Pastena, Nathan Gusman, William Pouzadouux, Christiane Melissa Bastit, Alessandro Campora, Vincenzo Licata, Luigi Matti Altadonna, Andrea Cerulli, Anatoli, Angela Zerilli e Diaz Enzo Henry). Il numero delle vittime, però, continua ad aumentare nella notte i vigili del fuoco hanno individuato sotto un grosso blocco in cemento la vettura su cui viaggiava la famiglia Cecala: Cristian, la moglie Dawna e la figlia Kristal, di appena nove anni. "Le condizioni di auto e corpi - raccontano i soccorritori - sono tali da rendere al momento difficoltoso stabilirne con certezza il numero". L'auto è stata, infatti, schiacciata da un blocco enorme di cemento che era parte del pilone che ha ceduto. I corpi non sono stati ancora identificati, ma gli inquirenti procedono per deduzione, sulla base del ritrovamento della vettura da cui sono risaliti al proprietario. "Ora - spiegano dalla protezione civile - elenco dei dispersi è aleatorio perché sotto le macerie potrebbero trovarsi persone la cui scomparsa non è stata denunciata, come dei senza tetto".

Chi sono le vittime del ponte Morandi crollato a Genova: lista nomi e le storie drammatiche. Famiglia Robbiano sterminata sul viadotto: 39 morti, sabato i Funerali di Stato, scrive il 16 agosto 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario".  Ogni storia è diversa dall'altra, ogni vita spezzata sul ponte Morandi di Genova reclama giustizia: un sentimento che animerà fino alla fine dei propri giorni chi è rimasto, gli darà un motivo (forse l'unico) per continuare a combattere per chi se n'è andato nello spazio di pochi secondi, magari senza neanche rendersi conto di quel che stava accadendo. E tra queste storie di vita spezzata c'è anche quella di Elena Bozzo, la ragazza di 33 anni che stava tornando a casa da lavoro, e che è morta per il fatto di essersi trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato. Come riportato dall'Huffington Post, a piangerla ci sono mamma Anna e i parenti, che hanno deciso di celebrare dei funerali privati a Sarissola, rifiutando quelli di Stato: "Domani saremo ancora qui, non siamo interessati ai funerali di Stato. Staremo con la nostra famiglia e poi ci saranno tanti amici di Elisa". Ed è proprio un'amica della famiglia di Elena, a spiegare il sentimento comune a tanti in queste ore: "Lo Stato vuole presenziare ai funerali, ma loro dovevano esserci prima". (agg. di Dario D'Angelo)

UNA FAMIGLIA DI NOVARA MANCA ALL'APPELLO. All’appello purtroppo manca una famiglia originaria di Novara: se fosse confermata la loro presenza sul ponte Morandi nel momento del crollo, sarebbe il terzo nucleo familiare a perdere tragicamente la vita nella tragedia del viadotto sul Polcevera. Dopo i Robbiano (originari di Campomorone, Genova) e dopo i Vittore-Possetti-Bellasio (originari di Pinerolo, Torino), sono Cristian Cecala, la moglie Dawna e il figlio Kristal a mancare all’appello nel disastro genovese. Sono originari di Oleggio, nel Novarese, e secondo il fratello di Cristian «Erano su quella strada, diretti all’isola d’Elba ma non sono mai arrivati a destinazione. Dovevano imbarcarsi a Livorno alle 17». Le autorità sono state allertate ma della famiglia ancora non vi è traccia: di persona il fratello del padre di famiglia si è recato in tutti gli ospedali di Genova senza avere novità in merito, quello che è certo è che non rientrano fra i feriti registrati. Il che aumenta l’ansia e il terrore su cosa possa, molto probabilmente, essere successo. 

LA TRAGEDIA DEI 4 RAGAZZI FRANCESI. Nella tragedia del Morandi si iscrive anche la tragica sorte dei 4 ragazzi francesi, in viaggio da Montpellier verso la Sardegna per un importante concerto di musica techno: stavano quasi per raggiungere il porto di Genova per l’imbarco dei traghetti quando invece il ponte Morandi è crollato sotto di loro inghiottendoli, assieme agli altri 34 accertati per ora, mentre la Procura parla ancora di almeno «10-20 dispersi». Si chiamavano Nathan Gusman, 20anni, Melissa Artus, 21, William Pouza Doux, 22, Axelle Nèmati Alizee Plaze, 21 anni. Per poterli identificare sono stati fondamentali i tanti piercing e dilatatori che i ragazzi nelle foto su Facebook mostravano addosso: il che, tra l’altro, ci fa capire il livello di gravità delle condizioni in cui versano i corpi travolti dalle macerie del viadotto, oltre che i notevoli ritardi nel riuscire ad accertare tutti i nomi e le identità delle vittime. I due giovani albanesi invece che lavoravano in una ditta per pulizie stavano tornando dopo il turno di lavoro al Vte di Voltri da Rapallo, anche loro travolti dal tragico destino del Morandi: si chiamavano Marjus Djerri, 28 anni e Edy Bokrina e stavano tornando a casa, verso Rapallo. Sotto il ponte, ieri, per ore sono rimasti i parenti di Marjus: la speranza che il miracolo si avverasse è durata parecchio, poi la triste notizia...

TRA LE VITTIME IL BIKER MENTORE DI BRUMOTTI. Purtroppo si aggiungono “nuovi” nomi alla lunga lista di vittime del ponte Morandi: tra questi spicca il nome di Giorgio Donaggio, 57 anni e imprenditore nautico ma soprattutto un campione italiano di trial che è stato da giovane il mentore del biker più famoso d’Italia, Vittorio Brumotti (genovese anche lui, nonché inviato di Striscia La Notizia). Oltre a Donaggio, la Prefettura ha confermato anche altri nomi: Alessandro Robotti, 50 anni, imprenditore con la passione per l’astronomia e la sua fidanzata Giovanni Botteri, di 45, entrambi di Serravalle Scrivia nel basso Piemonte. Abbiamo invece già parlato della seconda famiglia trucidata dal crollo del viadotto, proveniente da Pinerolo nel Torinese: con loro anche una giovane coppia, Stella Boccia, di 23 anni residente a Viciomaggio e il fidanzato Carlos Jesus Eraso Trujillo, 24, anni, residente a Capolona (Arezzo). Tutte vittime che sabato nei funerali di Stato verranno ricordati non solo da Genova, ma dall’Italia intera.

FUNZIONARIA REGIONE LOMBARDIA TRA I MORTI. Tra le vittime del disastro di Genova purtroppo si aggiungono altri nomi, altre storie, altre tragedie: Angela Zerilli è tra le 39 vittime (ma il bilancio è ancora purtroppo provvisorio, tanti ancora pare sotto le macerie) del ponte Morandi. Lei aveva 58 anni ed era una funzionaria delle Regione Lombardia, residente a Corsico alle porte di Milano. Da quanto riportano le cronache del Secolo XIX, la donna era in vacanza ad Uscio in una struttura termale vicina al capoluogo ligure: era data per dispersa dal giorno del crollo e purtroppo ieri sera è stato diffuso anche il suo tra i nomi accertati delle vittime del viadotto. Sabato intanto sono stati fissati e decisi i funerali di Stato in Fiera a Genova, dove verrà reso onore e preghiera a tutte le vittime di questa terribile e immane strage: saranno officiati dal Cardinale Angelo Bagnasco, alla presenza molto probabile del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. 

LA LISTA DEI NOMI. La Prefettura ha fornito un primo elenco ufficiale - purtroppo ancora parziale, dato che mancano ancora molti dispersi, secondo fonti dell’Ansa di questo pomeriggio - delle vittime causate dal crollo del viadotto sull’Autostrada A10. Alcuni nomi li avevamo già inseriti questa mattina, altri sono stati confermati solo poco fa: ecco la lista completa, «Andrea Vittone 49 anni di Venaria Reale (Torino), Manuele e Camilla Bellasio 12 e 16 anni, di Pinerolo, Claudia Possetti 47 di Pinerolo (nucleo familiare), Andrea Cerulli 48 di Genova, Stella Maria Boccia 24, nata a Napoli e residente ad Arezzo; Samuele e Roberto Robbiano 8 e 44 anni e Ersilia Piccinino 41 (Fersale, Catanzaro), residenti a Campomorone (nucleo familiare), Marta Danisi 29, di Sant'Agata di Militello (Messina) e Alberto Fanfani 42, di Firenze (fidanzati); Juan Ruben Figeroa Carrasco, cileno di 68 anni, Elisa Bozzo 33, di Genova, Francesco Bello, 41, di Serra Ricco' (Genova), Luigi Matti Altadonna 34 di Genova, Gennaro Sarnataro 43 di Volla (Napoli), Bruno Casagrande 57, di Antoninina (Reggio Calabria), Antonio Stanzone 29 e Gerardo Esposito 26 di Torre del Greco, Vincenzo Licata 57 di Grotte (Agrigento), Alessandro Campora 55 di Genova». In particolare, straziante è la storia di una seconda famiglia sterminata dopo i Robbiano su quella strada maledetta. Si tratta di Andrea Vittone e della moglie Clauda Possetti, che viaggiavano in auto con i figli adolescenti della donna, Camilla e Manuele Bellasio, di 12 e 16 anni: erano partiti da Pinerolo (Torino), per andare in vacanza. Non è invece chiaro se i due ragazzini siano quelli identificati questa mattina dai primi soccorsi.

DIVERSI OPERAI TRAVOLTI DALLE MACERIE. Restano 39 le vittime provvisorie del terribile crollo del ponte Morandi a Genova e in queste ore sono emersi i nomi ufficiali dei numerosi morti di questa tragedia nazionale. Tra famiglie distrutte e tanti giovani ci sono anche svariati operai che proprio nella giornata di ieri stavano svolgendo il proprio lavoro prima di finire seppelliti tra le macerie, dalle quali sono stati purtroppo estratti senza vita. Come riporta Il Fatto Quotidiano, Bruno Casagrande e Mirko Vicini erano due operai dell’Amiu, l’azienda comunale dell’ambiente, i quali al momento del crollo stavano lavorando a bordo di un furgoncino nell’isola ecologica sotto il viadotto. I due non hanno avuto neppure il tempo di accorgersi di ciò che stava accadendo, restando sepolti sotto i grandi massi di asfalto, cemento armato e piloni. Anche il 46enne Alessandro Campora e il 43enne Gennaro Sarnataro, stavano lavorando al momento del crollo. Il primo era un operaio di una ditta privata, la Aster, mentre il secondo era un autotrasportatore napoletano, di rientro dalla Francia dopo aver trasportato il suo carico di ortofrutta. Tra i morti anche due uomini albanesi, il 22enne Marius Djerri e Edy Bokrina entrambi sul furgone della EuroPulizia: si stavano dirigendo verso Rapallo per alcuni lavori ed erano in ritardo di alcuni minuti. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

STELLA DI SOMMA, GENITORI "NOSTRO CUORE SOTTO MACERIE". Tra le vittime del ponte crollato a Genova c'è anche la giovane Stella Bocca, di appena 23 anni, estratta senza vita da sotto le macerie insieme al fidanzato 27enne Carlos Jesus Trujillo di origine dominicana. Stella era originaria di Somma Vesuviana e da qualche tempo si era trasferita in provincia di Arezzo. Come riporta Repubblica.it, era nipote vicecomandante della polizia municipale Gennaro Vitagliano. Ad esprimere tutto il suo cordoglio per la morte della ragazza e del suo giovane compagno è stato il sindaco di Somma, Salvatore Di Sarno, che su Facebook ha scritto: "La nostra città piange una delle vittime del crollo del ponte Morandi di Genova [...] Tutta la nostra comunità abbraccia la famiglia e inoltre si stringe alla città di Torre Del Greco, al sindaco Palomba, che su quel maledetto ponte hanno perso altre 4 giovani vite: Antonio, Giovanni, Matteo e Gerardo". Il sindaco ha poi aggiunto: "Il Signore avrà certo accolto tra le sue braccia questi angeli bellissimi e possa dare conforto ai loro cari". Ad intervenire sui social, anche i genitori di Stella, tramite la pagina Facebook del loro ristorante con un messaggio toccante e comprensibile: "Un pezzo del nostro cuore è rimasto sotto le macerie del ponte di Genova". (Aggiornamento di Emanuela Longo)

MORTI 4 GIOVANI DI NAPOLI. Sono stati resi noti altri 4 nomi delle vittime rimaste sotto le macerie del ponte: da ieri sera a Torre del Greco (Napoli) si è sparso l’allarme, alimentato anche dal sindaco in prima persona, sulla sparizione di 4 ragazzi giovani che avrebbero dovuto trovarsi a Genova durante l’orario della tragedia. Purtroppo poco fa l’amarissima scoperta: si stavano dirigendo a Ventimiglia e poi a Nizza, da lì poi sarebbero andati a Barcellona per le vacanze. Ma purtroppo Matteo Bertonati, Giovanni Battiloro, Gerardo Esposito e Antonio Stanzione - tutti tra i 19 e i 30 anni - sono morti schiacciati dalla fragorosa caduta del viadotto sul Polcevera. A bordo della loro Gold stavano attraversando la Liguria per raggiungere la sorella di uno di loro, poi invece in Catalogna li attendeva la ragazza di un altro del gruppetto: alle undici di ieri l'ultima telefonata ai familiari, tutti parenti fra loro. Solo 50 minuti prima della tragedia: «Stiamo entrando a Genova», poi il vuoto, il silenzio. E purtroppo la morte incombente...

STERMINATA FAMIGLIA ROBBIANO. Sono al momento 37 le vittime accertate dalla Prefettura di Genova, ma di questi 5 non sono ancora stati identificati, mentre solo alcuni sono stati anche stati diffusi con nome e generalità a mezzo stampa. La tragedia del ponte Morandi crollato a Genova non sembra “fermarsi” con i soccorritori che ancora scavano sotto le macerie per trovare ancora alcuni dispersi che si trovavano nelle 30 autovetture presenti sul viadotto Polcevera durante i secondi tragici del crollo. Su tutte, fa impressione la storia di una famiglia che stava andando a pranzo dal nonno a Genova Voltri: un tragitto brevissimo dalla loro abitazione, lo facevano chissà quante volte ogni giorno, ma ieri è stato fatale. In un primo momento ieri pomeriggio il giornalista di Sky Sport Alessandro Alciato ha diffuso sui social un appello che ricercava appunto questi tre nomi: Roberto e Samuele Robbiano, ed Ersilia Piccinino, «pensiamo possano essere stati coinvolti nel crollo del ponte». Dopo qualche ora l’amarissima e triste scoperta: erano proprio loro quella famiglia che andava verso il nonno a Voltri e che invece ha trovato la morte nel crollo del Ponte Morandi. Il piccolo figlio di 8 anni, Samuele, era con Papà Roberto e Mamma Ersilia: non si sarebbe mai immaginato nulla di tutto ciò. Come riporta Repubblica, un amico di famiglia visto che non rispondevano al telefono si è recato sul luogo del disastro: «si è fatto largo tra i soccorritori e ha riconosciuto l'auto. Marca, modello, colore e quel pallone di Spiderman con cui aveva visto giocare Samuele durante i viaggi con mamma e papà». 

LE ALTRE VITTIME IDENTIFICATE. All’ospedale San Martino poi la grafica conferma con i parenti accolti dai medici per annunciare la morte terribile di quella bella famiglia che ora non c’è più. Come loro, anche tanti altri nomi, storie, esistenze spezzate come quel pilone genovese che ieri ha “deciso” di venire giù. Tra le altre vittime causate dal crollo di ponte Morandi ci sono, confermati dalla Prefettura di Genova: Vincenzo Licata, 58 anni, nato ad Agrigento; Andrea Cerulli, 48 anni, portuale della Compagnia unica del Porto di Genova; Gianluca Arpini, 29 anni, di Genova; Alberto Fanfani, 32 anni, nato a Firenze e anestesista all’ospedale Cisanello di Pisa; Elisa Bozzo, 34 anni di Busalla (Genova); Bruno Casagrande, 35 anni, di Genova. Mirko Vicini, 31enne dipendente Amiu. Oltre a due ragazzi albanesi dipendenti di una ditta di pulizie morti mentre andavano al lavoro, ci sono poi anche tre vittime cilene: Juan Figueroa, 60 anni, residente a Genova da oltre quarant'anni e con lui anche Nora Aravena e Juan Pastenes, un’altra coppia che vive in Italia da molti anni. Il bilancio, purtroppo, è ancora terribilmente parziale e si teme che possa alzarsi “sensibilmente” il conto finale di quelle vittime rimaste schiacciate dalle macerie del ponte.

Genova, ponte Morandi. Ecco chi sono le vittime del crollo: famiglie in vacanza, fidanzati, un motociclista e il calciatore. Samuele, otto anni, era in viaggio con i genitori: stavano andando in Sardegna, nell'auto i soccorritori hanno trovato l'ombrellone e il secchiello. Ci sono poi i quattro amici di Torre del Greco, che stavano andando in vacanza in Spagna: dovevano partire in aereo ma poi avevano cambiato idea, optando per la macchina, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 16 agosto 2018. C’era chi stava andando in vacanza, chi rientrava dal mare e chi invece era al volante per lavoro quando alle 11.30 di martedì 14 agosto una parte del ponte Morandi è crollato, trascinando giù per quasi cento metri auto e tir. Un tratto di A10 lungo duecento metri, all’altezza di Genova Voltri, che si è letteralmente sbriciolato per cause ancora da accertare. Fin dal primo istante che lì sotto ci sarebbero state decine di vittime: 38 i morti accertati, alcuni dei quali ancora da identificare. Negli ospedali di Genova, all’obitorio, nei punti di soccorso, continuano ad arrivare decine e decine di parenti di persone che non si trovavano più, di gente che voleva sapere, sperare. C’erano gli psicologi ad accogliere tutti, a trovare le parole per dire che non c’erano più speranze o che quel marito, quella sorella, quel figlio, era nell’elenco dei dispersi. Tra le vittime, c’è un’intera famiglia originaria di Campomorone, in provincia Genova: Ersilia e Roberto e il figlio Samuele, di 8 anni. Erano partiti per le ferie e li aspettava un traghetto per la Sardegna: tra le lamiere sono stati ritrovati il loro ombrellone e il pallone del bimbo. Il bimbo è stato fra i primi a essere ritrovato. Ma in quel viadotto è stata distrutta anche un’altra famiglia, originaria di Pinerolo: Andrea Vittone, 49 anni, la compagna Claudia Possetti, 48 anni, Manuele e Camilla Bellasio, di 16 e 12 anni, figli della donna. Anche loro stavano andando in vacanza per Ferragosto. Una seconda famiglia piemontese, residente ad Arquata Scrivia, nell’Alessandrino, stava tornando a casa dopo un periodo di riposo al mare, a Varigotti, nel Savonese. Lui si chiamava Alessandro Robotti, 50 anni (nella foto), lei Giovanna Bottaro, 43 anni. Per ora lei è ancora ufficialmente dispersa, ma le speranze di ritrovarla in vita sono ormai vane. Robotti era stato tra i fondatori del Gast, un gruppo di appassionati di astronomia che ha partecipato ad importanti ricerche. Ci sono poi i quattro amici di Torre del Greco, che stavano andando in vacanza in Spagna: dovevano partire in aereo ma poi avevano cambiato idea, optando per la macchina. Volevano trascorrere un po’ di giorni insieme, tra Nizza e Barcellona, ma non ci sono arrivati. Su Facebook i tanti messaggi in ricordo di Matteo Bentornati, Giovanni Battiloro, Gerardo Esposito e Antonio Stanzione. L’auto che doveva condurli verso la vacanza è precipitata nel vuoto, e per loro non c’è stato scampo. Poco più che ventenni, l’ultima telefonata alle famiglie alle 11 di martedì: “Stiamo entrando a Genova”. Bruno Casagrande e Mirko Vicini erano invece due operai dell’Amiu, l’azienda comunale dell’ambiente, e stavano lavorando a bordo di un furgoncino nell’isola ecologica proprio sotto il viadotto. Non hanno nemmeno fatto in tempo a capire che cosa stesse succedendo. Sono rimasti sepolti da massi enormi di asfalto, cemento armato, piloni. Stavano lavorando anche Alessandro Campora, 46 anni, operaio di una azienda privata, la Aster, e Gennaro Sarnataro, 43 anni, padre di due figli, autotrasportatore napoletano. Stava rientrando in Italia dalla Francia, dopo aver trasportato il suo carico di ortofrutta. Ci sono poi anche due uomini di origini albanesi: Marius Djerri, appena 22 anni, il più giovane giocatore della rosa del Campi Corniglianese, che con il collega Edy Bokrina (anche lui di origine albanese) era sul furgone della EuroPulizia: dovevano effettuare alcuni lavori in una ditta di Rapallo. Erano in ritardo: minuti che gli sono stati fatali.

Stella Boccia, 24 anni, di Monte San Savino, in provincia di Arezzo, stava invece tornando da una vacanza assieme al fidanzato di origine domenicana, Carlos Jesus Truillo, 23 anni, cameriere: sono morti entrambi. Come loro, anche un’altra giovane coppia ha perso la vita: Marta Danisi, 29 anni, infermiera originaria di Sant’Agata di Militello, e il fidanzato toscano Alberto Fanfani, di 32 anni, originario di Firenze, che lavorava come anestesista all’ospedale Cisanello di Pisa. Erano in auto insieme, quando il viadotto è crollato. Si sarebbero dovuti sposare il prossimo anno. Juan Carlos Pastenes, 64 anni, stava viaggiando invece con la moglie: originario del Cile, da molti anni viveva in Italia ed era sposato con Nora Rivera. Ma le vittime di origine cilena sono tre: morto anche Juan Figueroa, 60 anni, da quaranta residente in Italia.

C’è poi il savonese Giorgio Donaggio: il suo corpo è stato ritrovato questa mattina all’interno dell’abitacolo della Volvo su cui stava viaggiando in direzione di Santa Margherita Ligure. 57 anni, residente a Toirano (Savona), era un “maestro d’ascia” (costruiva barche in legno) e il titolare della Donaggio Boat Service, attiva nel porto di Andora. Donaggio lascia la moglie Enrica e tre figli, Cristian, Matteo e Luca. Era anche un ex campione italiano di moto trial, come ricorda il suo amico Vittorio Brumotti, inviato di Striscia La Notizia: “È stato il mio mito fin da piccolo”. Elisa Bozzo, 34 anni, di Busalla, viaggiava invece sulla sua Opel nera. Sono stati gli amici a lanciare l’appello in Rete, di lei si erano perse le tracce. Poi, la tragica notizia.

Andrea Cerulli, 48 anni, era un calciatore amatoriale del Genoa Club Portuali Voltri e padre di un bambino. Sul sito del club il messaggio per lui, morto mentre andava al lavoro: “Il Genoa Club Portuali Voltri si stringe attorno alla famiglia di Andrea, nostro associato, nostro amico, nostro collega, vittima della tragedia di Ponte Morandi. Ciao Andre…”. E tra le vittime accertate anche il 35enne Luigi Matti Altadonna, dapprima indicato fra i dispersi, il suo corpo è stato poi trovato sotto le macerie del ponte crollato. A darne la notizia il sindaco di Borghetto Santo Spirito, cittadina di cui era originario Luigi, e in cui lo zio Luigi lavora alla Protezione Civile. Luigi, originario di Curinga, in provincia di Catanzaro, era sposato a padre di quattro figli. Stava andando al lavoro, a bordo di un furgone, insieme al collega Gianluca Ardini, 29 anni, che tra poco diventerà padre. Gianluca invece si è salvato.

Angela Zerilli, 58 anni, era una funzionaria della Regione Lombardia e abitava a Corsico, in provincia di Milano. Era in vacanza a Uscio, sopra Camogli, in un centro termale. Aveva perso da poco entrambi i genitori ed era separata dal marito. C’è poi un agrigentino tra le vittime: Vincenzo Licata, 58 anni, nato nella Città dei Templi, imprenditore dei trasporti. Tra i morti anche Henry Diaz, di origini colombiane, 30 anni. Il ricordo sul sito Inter Club Colombia e sul sito FC Inter 1908 dove si legge: “Nel partecipare al dolore per la tragedia che ha colpito ieri la città di Genova, FC Internazionale Milano e tutti i suoi tifosi si stringono attorno alla famiglia di Henry Diaz, membro del direttivo dell’Inter Club Recco – Golfo Paradiso. Henry, grande tifoso nerazzurro di soli 30 anni, non era un semplice Consigliere del Club ma un vero e proprio punto di riferimento per tutti gli interisti del Levante. Sempre presente allo stadio con lo striscione del Club e attivissimo nel sociale, con una attenzione particolare dedicata alla ‘sua’ Colombia attraverso raccolte fondi a Inter Campus e all’associazione di Ivan Ramiro Cordoba ‘Colombia te quiere ver'”.

Francesco Bello, 41 anni, di Serra Riccò (Genova), è stato trovato all’interno di un’Audi A3 nel greto del Torrente Polcevera. Anche lui si era messo in viaggio per una vacanza. Sono quattro poi, i cittadini francesi rimasti uccisi: le prime tre vittime identificate, riferiscono i media d’oltralpe, erano tre ragazzi partiti da Montpelier per imbarcarsi a Genova e trascorrere le vacanze in Sardegna: si tratta di Nathan Gusman, 20 anni, Melissa Artus, 22, et Nemati Alizè Plaze, 20.

Tra i dispersi ci sarebbe anche un’altra famiglia, originaria di Oleggio (Novara): si tratta di Cristian Cecala con la moglie Dawna e la figlia Kristal, 9 anni. “Erano su quella strada, diretti all’isola d’Elba ma non sono mai arrivati a destinazione. Dovevano imbarcarsi a Livorno alle 17”. Il fratello di Cristian ha allertato le autorità, non riuscendo più a contattare la famiglia: si è recato a Genova per cercarli negli ospedali, ma finora non risultano nell’elenco dei feriti.

La rabbia degli sfollati: doveva durare cent'anni...Più di 300 nuclei familiari hanno lasciato le loro case costruite sotto il ponte per essere risistemati, scrive Valentina Carosini, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". «Siamo usciti così com'eravamo vestiti, senza il tempo di prendere niente, appena abbiamo sentito quel boato che non mi dimenticherò più. E non abbiamo potuto più rientrare a casa. Ci siamo arrangiati per il resto, ospiti di nostra figlia, abbiamo comprato qualche vestito, quello che ci serviva. Il ponte io l'ho visto costruire. Viviamo lì da sempre, noi siamo in affitto e ora non sappiamo come fare». Gianni lo racconta e mentre lo fa la voce gli trema ancora: 72 anni, lui insieme alla moglie è uno dei 611 residenti sfollati dalle abitazioni di via Porro e via Fillak a Genova dopo il disastro di Ponte Morandi che cedendo ha lasciato ammutolita una città; 39 vittime tra cui una ancora non identificata, tra chi è caduto nel vuoto insieme a 200 metri di viadotto e chi si trovava sotto il ponte, in Val Polcevera, per strada al lavoro o nella sua abitazione. E guardando le case, letteralmente all'ombra del ponte, si può pensare che per chi vive lì poteva andare peggio. Tra i 15 feriti c'è anche una residente: i detriti del Morandi hanno colpito la sua casa di striscio, finendo nell'appartamento, danneggiando con ogni probabilità un impianto dal quale si è scatenato un incendio. La donna è rimasta intossicata ed è ricoverata al pronto soccorso dell'ospedale San Martino di Genova. Sono 311 in tutto i nuclei familiari sfollati dai palazzi, in via Porro il provvedimento ha riguardato i civici 6, 6a, 8 e poi il 10, 12, 14, 16, 5, 7 e 9. In via del Campasso sono invece stati allontanati gli abitanti dei civici 39 e 41. Il comune per accoglierli ha messo a disposizione il centro civico Buranello di Sampierdarena, che ha fatto anche da punto di raccordo per informazioni pratiche, e poi ha messo in campo una collaborazione con gli alberghi genovesi che hanno dato la disponibilità ad ospitare le persone costrette a lasciare la propria abitazione. Martedì il quartiere è rimasto in silenzio per ore: a decine i residenti si sono raccolti dal pomeriggio a notte fonda sulle sponde del torrente Polcevera, nelle aree accessibili, per assistere alle prime operazioni di soccorso, con gli occhi all'insù verso il vuoto muto lasciato da quel ponte. Poi è arrivato il momento della rabbia: «Ci avevano detto che il ponte poteva durare 100 anni. Se lo ricostruiranno chi ci salirà più?». A 72 ore dalla tragedia il quartiere è tagliato in due: le principali direttrici della viabilità cittadina che lungo l'argine attraversavano da sotto le sue volte sono impercorribili, da nord a sud, le strade tra cui via Argine Polcevera sono bloccate, presidiate dalle forze dell'ordine nel timore dell'eventuale cedimento di quanto resta del ponte. «Ci tengo a dire sul tema degli sfollati che in questo momento tutti sono in qualche modo sistemati - ha garantito il presidente di Regione Liguria Giovanni Toti ieri pomeriggio in una conferenza stampa per fare il punto della situazione -. Nessuno dorme nel centro di prima accoglienza, usato però per informazioni e pasti a chi in questo momento di difficoltà è ospite negli alberghi. Entro fine ottobre avremo a disposizione alloggi per tutti coloro che oggi hanno perso la casa». E proprio sulle case è stata creata una task force da Regione Liguria, Comune di Genova e Arte, l'azienda territoriale regionale per l'edilizia, per predisporre un piano di emergenza. Quarantacinque alloggi, messi a disposizione da Comune e la stessa Arte, verranno messi a disposizione da subito per altrettanti nuclei familiari sfollati. Saranno i vigili del fuoco invece a dare l'autorizzazione alle famiglie per il ritiro del mobilio dagli appartamenti inagibili.

Ponte Morandi. Diamo a Cesare quel che è di Cesare…

Si dica: i morti per Genova e non i morti di Genova.

L’ipocrisia italica tende a mistificare una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Una mistificazione che non può giustificare quel logorroico fiume di parole demagogiche spese in un periodo agostano privo di notizie.

Cosa nasconde tutta quest’enfasi del dolore?

Che voglia la brigata d’arlecchini, servi di un nuovo padrone, usare la disgrazia a fini speculativi per ripicca e per rivalsa con strumenti demagogici?

Che si voglia, con il faro mediatico acceso, riavere tutto e subito, a discapito di altri disgraziati?

Il parere del dr Antonio Giangrande, che su Genova ha scritto un libro. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, videomaker, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS.

Con le tragedie si perdono cose o persone. Quanto valgono le une di più rispetto alle altre?

L’omelia di Bagnasco: “Giustizia e orgoglio. Genova non si arrende”. "Il crollo del ponte Morandi sul torrente Polcevera ha provocato uno squarcio nel cuore di Genova. La ferita è profonda" ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, sabato 18 agosto 2018 nell'omelia dei funerali delle vittime. Bagnasco ha poi riferito della telefonata fatta da Papa Francesco: "Ieri sera, con una telefonata affettuosa" il pontefice "ha voluto manifestarci la sua prossimità". "Sappiamo che qualunque parola umana, seppure sincera, è poca cosa di fronte alla tragedia, così come ogni doverosa giustizia nulla può cancellare e restituire". "Alziamo lo sguardo", ha poi esortato Bagnasco rivolto alla folla. "La Madonna Assunta al cielo ci invita anche in questo momento guardare in alto, verso Dio, fonte della speranza e della fiducia. Guardando a Lui - ha concluso l'arcivescovo di Genova - eviteremo la disperazione e potremo tornare a guardare con coraggio il mondo, la vita, la nostra amata Città. Potremo costruire ponti nuovi e camminare insieme".

Non solo Milan-Genoa e Sampdoria-Fiorentina, a fermarsi sono anche Lega Pro e Serie D. In segno di rispetto e vicinanza verso tutti coloro che sono stati colpiti dalla tragedia il presidente della Lega Pro Gabriele Gravina, ha disposto il rinvio, a data da destinarsi, delle gare di Coppa Italia che erano in programma domenica 19 agosto. "La Lega Pro ed i suoi club - si legge nel comunicato - rinnovano la vicinanza alle famiglie delle vittime e a tutti gli abitanti di Genova".

Si arriva addirittura a dire…

Una città in lutto fatica a elaborare dolore e sgomento. Un gruppo di psicologi e counselor specializzati nelle emergenze si offre di dar loro una mano, scrive Marta Buonadonna il 19 agosto 2018 su "Panorama". Siamo ancora sotto choc, e chissà per quanto durerà questa senso di vuoto che proviamo noi genovesi, che sul ponte Morandi passavamo tutti i giorni. Anche se non abbiamo perso una persona cara il 14 agosto, anche se non ci siamo salvati per miracolo, come è capitato a tanti sopravvissuti di cui abbiamo letto i racconti in questi giorni, la sensazione che proviamo è che anche un pezzo di noi sia rimasto sotto quelle macerie. Qualcuno si propone di aiutare i genovesi a elaborare la tragedia.

Ora è il momento di stabilire una verità. Se nessuno la dice, la dico io.

Parliamo di cose perse. Genova ha avuto per oltre 50 anni un ponte, che, forse, molti non l’hanno mai avuto. Oggi Genova lo ha perso in modo tragico e ne sono addolorato. Ma sicuramente chi, genovese, ha perso il ponte e la propria abitazioni, riavrà il tutto senza compromessi.

Ora parliamo di persone perse e che mai nessuno ce li ridarà.

Su 43 morti solo 7 sono di Genova. E di Genova, forse, nulla gli interessava.

Solo 7 erano di Genova: Roberto Robbiano (44), Ersilia Piccinino (41 anni) ed il piccolo Samuele (9). Bruno Casagrande (57) anni, Sandro Campora (53). Andrea Cerulli, (47).  Funerale pubblico. Mirko Vicini (31). Funerale privato.

1 era di Busalla (Ge). Elisa Bozzo (33). Funerale privato.

1 era di Serra Riccò (Ge): Francesco Bello, (42). Funerale privato.

2 erano della provincia di Savona. Di Toirano Giorgio Donaggio (57). Funerale privato. Di Borghetto Santo Spirito Luigi Matti Altadonna (35) funerale pubblico.

9 erano Piemontesi: Cristian Cecala (42), Dawne Munroe e la piccola Crystal (9). La famiglia era di Oleggio in provincia di Novara. Andrea Vittone, 49 anni, sua moglie Claudia Possetti, 48 anni, e i figli della donna Manuele e Camilla Bellasio, di 16 e 12 anni. Erano di Pinerolo (No). Alessandro Robotti, 50 anni, e la moglie Giovanna Bottaro, 43 anni. Erano di Arquata Scrivia (Al). Tutti con funerali privati.

1 era lombarda. Angela Zerilli (58) di Corsico (Mi).

4 erano toscani: Jesus Erazo Trujillo (26) e Stella Boccia (24), la coppia di fidanzatini di Capolona (Ar). Funerali privati. Alberto Fanfani (32) e Marta Danisi (29) di Pisa

5 erano campani. Matteo Bertonati (26), Giovanni Battiloro (29), Gerardo Esposito (26) e Antonio Stanzione (29) di Torre del Greco (Na). Gennaro Sarnataro (43) di Casalnuovo di Napoli. Funerali privati.

1 era siciliano: Vincenzo Licata (58) Funerale privato.

7 erano francesi. Anatoli Malai (44), Marian Rosca (36). Origine moldava e rumena vivevano a Parigi. Diaz Enzo Henry (30). Nathan Gusman (20), Melissa Artus (21) William Pouza Doux (22), Axelle Nèmati Alizèe Plaze (21). Funerale di Stato.

3 cileni: Leyla Nora Rivera Castillo (48), Juan Carlos Pastena (64), Ruben Figuerosa Carrasco (68). Funerale di Stato.

2 albanesi e mussulmani: Marius Djerri, (28) e l’amico Edy Bokrina (22). Funerale pubblico.

Alla fine del conto pare chiaro che Genova abbia perso molto meno in termini di vite umane rispetto alle altre città, mai citate.

I ponti si rifanno, le persone no! Ed il rispetto per il dolore di una comunità deve essere pari per tutte.

E mai come questa volta, per il ponte Morandi di Genova, il dolore deve essere delocalizzato.

Ponte Morandi: così si aiutano i genovesi a superare il trauma. Una città in lutto fatica a elaborare dolore e sgomento. Un gruppo di psicologi e counselor specializzati nelle emergenze si offre di dar loro una mano, scrive Marta Buonadonna il 19 agosto 2018 su "Panorama". Siamo ancora sotto choc, e chissà per quanto durerà questa senso di vuoto che proviamo noi genovesi, che sul ponte Morandi passavamo tutti i giorni. Anche se non abbiamo perso una persona cara il 14 agosto, anche se non ci siamo salvati per miracolo, come è capitato a tanti sopravvissuti di cui abbiamo letto i racconti in questi giorni, la sensazione che proviamo è che anche un pezzo di noi sia rimasto sotto quelle macerie. Qualcuno si propone di aiutare i genovesi a elaborare la tragedia. Aspic Emergenza, organizza oggi pomeriggio a Genova, dalle 14:30 alle 19:00 in via Cairoli 8/7, un incontro aperto "a tutti coloro che sentono il bisogno di esprimere il loro dolore e di condividere l'impatto di questa drammatica esperienza sulla loro vita e sul loro stato d'animo, in un gruppo protetto tra pari e nella piena accoglienza e nell'ascolto professionale offerto dagli operatori Aspic" come si legge sul pagina Facebook di Aspic Piemonte-Liguria. Psicologi, counselor e psicoterapeuti si offrono di dare una mano ai genovesi e elaborare quello che è davvero un lutto di tutta la città.

Una ferita collettiva. "Da una decina d'anni", spiega Marco Andreoli, counselor di Apsic Piemonte-Liguria, che sarà presente all'incontro di oggi, “è nato il settore del counseling e della psicologia delle emergenze, per dare una mano a chi subisce un trauma, soprattutto in un momento successivo al primissimo impatto". Si tratta di una forma di sostegno fuori dai canoni classici. "Prima di tutto perché non è la persona che va dal professionista, ma è il professionista che va sul luogo di una tragedia, magari nella tendopoli costruita dopo un terremoto, e ascolta chi ha perso la casa, in mezzo agli altri sfollati". Cosa si fa esattamente? "Si ascolta", spiega Andreoli. "Si accolgono lo spavento, il dolore e anche la rabbia che le persone provano in questi momenti, quando si chiedono come è potuto succedere". Tutta Genova è traumatizzata, ma ha senso per un cittadino qualunque, che non è stato coinvolto in prima persona, provare dolore e sgomento? "In un'emergenza ci sono varie categorie di vittime", spiega Florinda Barbuto, psicoterapeuta e counselor referente del nucleo Aspic Emergenza. "C'è chi era sul ponte, i familiari delle vittime, i soccorritori, che sono anche loro vittime, perché fanno esperienza di un evento tragico, e poi ci sono tutte le altre vittime, in questo caso la popolazione di un'intera città. Se io sono parte di una comunità è come se fosse stato ferito un familiare. Le persone si immedesimano, pensano "ci sono passato tutti i giorni, poteva succedere a me". Sui social le esternazioni di questo tipo da parte dei genovesi non si contano. Ma c'è anche chi le critica, sostenendo che l'unico vero lutto è quello di chi su quel ponte ha perso una persona cara, e che volerne fare un dramma personale è una forma di egocentrismo. "Io sono genovese", racconta Andreoli, "non ero su quel ponte fisicamente, ma metaforicamente sì. Il ponte Morandi era ed è un simbolo piuttosto importante di Genova, è difficile spiegarlo ai non genovesi. Ero piccolo, ci passavo con mio padre che ne tesseva le lodi, dicendomi che si trattava di un'opera avveniristica, che Genova aveva qualcosa che non aveva nessun altro in Italia. Ci passavo quindi con stupore e ammirazione, poi negli anni con un po’ più di consapevolezza, quando vedevo transenne e lavori in corso. Comunque il ponte era un simbolo che univa due pezzi di città".

A chi spetta il dolore? Niente da dire quindi sull'impatto che il suo crollo ha avuto e avrà su Genova. Ma c'è egoismo in chi sente la tragedia come propria? "Certo che c'è egoismo", commenta Andreoli, "ma è inevitabile, ogni essere umano misura il mondo partendo da se stesso. Tutto viene riportato a quello che è successo a me. L'empatia si nutre di questo, in ogni situazione posso essere empatico perché mentre mi racconti il tuo dolore io penso alla cosa più simile che ho provato io, altrimenti non potrei connettermi con la tua emozione. Non abbiamo altro modo che partire da noi". Se poi i social siano il posto migliore dove esternare questo dolore, è tutta un’altra questione. "La sensazione che hanno molti genovesi che la tragedia sia anche personale e li riguardi è assolutamente autentica", spiega Barbuto. "I social purtroppo mettono sulla pubblica piazza contesti che potrebbero restare privati. Se sono una vittima di quarto grado, quindi sono un cittadino che quel ponte lo ha percorso molte volte nella sua vita, ma non ci sono rimasto sotto né mi è morto nessuno, ho il diritto di vivere il mio dolore, ma dovrei parlarne con un professionista oppure con un gruppo dedicato, come quello che abbiamo organizzato per oggi pomeriggio. Sui social si rischia una sovrapposizione di livelli". Insomma nello stesso newsfeed si vedono le immagini del crollo, quelle dei funerali di Stato e il post dell'amico che dice "Lì sotto poteva esserci mio figlio, che ci era passato tre giorni prima". Si crea un cortocircuito. "Non è Facebook il posto in cui condividere queste emozioni", concorda Barbuto. Non a caso si creano gruppi ad hoc per chi ha vissuto l'esperienza da punti di vista differenti, non si metterebbero mai nello stesso gruppo familiari delle vittime e cittadini arrabbiati. Un altro modo per definire ciò che provano i genovesi in questo momento è "sindrome del sopravvissuto". "Il fatto che attraversare quel ponte fosse un momento della nostra quotidianità ci spinge a pensare di averla scampata", spiega Andreoli. "Ci sentiamo un po' come quelli che sono passati di lì 5 minuti prima, o come chi ha visto il ponte crollare alle proprie spalle dallo specchietto retrovisore".

Superare il trauma. L'immagine di quel ponte spezzato è agghiacciante. Ricorda un po' gli scheletri delle torri gemelle di New York dopo il crollo. Mentre per il resto d'Italia però rimane un'immagine televisiva, noi genovesi siamo destinati a vederla dal vivo ancora a lungo. A passarci di fianco mentre andiamo al mare o a lavorare. Questo rende molto più difficile elaborare, dimenticare. "E' un elemento in più che porterà pezzi di questa tragedia nella nostra quotidianità", concorda Andreoli. "Quando sono andato in Abruzzo ad aprile 2009 e poi sono tornato un mese e mezzo dopo, a Genova quasi non si parlava più del terremoto, lì invece la gente viveva in tenda con a fianco la propria casa a rischio crollo e scosse di assestamento continue. Viveva la quotidianità del terremoto e delle sue conseguenze. Il ponte Morandi sarà per Genova un po' quello che la carcassa della Costa Concordia è stata per il Giglio finché non è stata rimossa: una piccola traccia nel nostro cervello che rinnova l'emozione negativa". Ma allora come si aiutano le persone a superare il trauma? In che consistono la psicologia e il counseling dell'emergenza? "Noi di Aspic abbiamo la possibilità di essere presenti perché abbiamo una rete a livello nazionale", spiega Barbuto. “Abbiamo cominciato a occuparci di psicologia dell'emergenza all'Aquila nel 2009. All'epoca era inimmaginabile che gli psicologi potessero intervenire insieme ai soccorsi di tipo medico. Ora la figura dello psicologo che interviene in emergenza finalmente è stata istituzionalizzata". "Lavoriamo con un'equipe integrata, formata da counselor, psicologi e psicoterapeuti", spiega Barbuto. "Il contesto cambia in base alle fasi dell'emergenza, le prime ore, i giorni successivi e poi a distanza di mesi. Cambia anche in base al tipo di reazione che hanno le persone. Nella primissima fase forniamo un vero pronto soccorso emotivo. Si tratta di ripulire e medicare le ferite emotive. La paura che si prova, il dolore, la rabbia, il senso di precarietà. Il simbolo del camion sull'orlo dell'abisso, che ha già fatto storia, metaforicamente rappresenta proprio questo senso di forte precarietà e impotenza. E rabbia, perché non è una catastrofe naturale, ma una tragedia causata dall'inerzia dell'uomo". Il primo intervento consiste nel dare alle persone la possibilità di elaborare l'esperienza vissuta e condividere subito le emozioni, i pensieri e anche i sintomi fisici che prova. "Lo scopo", spiega Barbuto, "è quello di prevenzione. Se queste esperienze vengono elaborate subito si può prevenire il disturbo post traumatico da stress, con reazioni molto più gravi e un inasprimento dei sintomi sia fisici sia emotivi. E' come curare subito una ferita che altrimenti va in cancrena. Si fa un lavoro di normalizzazione: occorre capire che le emozioni e le reazioni che si hanno in un'emergenza sono emozioni e reazioni normali in situazioni che normali non sono. Molti dicono 'non è da me reagire così', ma la verità è che di fronte a situazioni eccezionali possiamo reagire in modi differenti e inaspettati". “Quando ci troviamo di fronte a un evento traumatico", conclude Barbuto, "abbiamo anche una sovversione dell'ordine delle idee. Un bambino non dovrebbe morire mentre va a pranzo dal nonno. Quattro ragazzi di vent'anni che attraversano un ponte autostradale per andare in vacanza non dovrebbero restare sepolti dal calcestruzzo. E' difficile elaborare l'esperienza dal punto di vista cognitivo, dare un senso a cose che un senso non ce l'hanno. E' proprio quello che noi cerchiamo di aiutare le persone a fare".

L’omelia di Bagnasco: “Giustizia e orgoglio. Genova non si arrende”. L’omelia dell’arcivescovo di Genova in una fiera stracolma di persone arrivate per l’ultimo saluto alle vittime del ponte Morandi, scrive il 18 Agosto 2018 "Il Dubbio". “Genova non si arrende, continuerà a lottare, come altre volte”. Le parole del cardinale Angelo Bagnasco risuonano nel silenzio assoluto della Fiera di Genova, stracolma di persone arrivate per dare l’ultimo saluto alle vittime del crollo del ponte Morandi. Poi Bagnasco ha chiesto “doverosa giustizia” per dare risposta “allo smarrimento generale, il tumulto dei sentimenti, i perché incalzanti” suscitati dalla tragedia. “Siamo qui – ha spiegato il porporato – per affidarci alla misericordia e alla consolazione che solo Dio può dare. Sappiamo che qualunque parola umana, seppure sincera, è poca cosa di fronte alla tragedia, cosi come ogni doverosa giustizia nulla può cancellare e restituire”. “L’iniziale incredulità e poi la dimensione crescente della catastrofe, ci hanno fatto toccare ancora una volta e in maniera brutale l’inesorabile fragilità della condizione umana”, ha continuato il cardinale per il quale anche in questo difficilissimo momento “Gesù mostra che di Dio ci possiamo fidare anche se non sempre ci sono chiare le vicende umane”. “La fede – ha spiegato – non dissipa tutte le nostre tenebre, ma illumina il cammino passo dopo passo, giorno dopo giorno. La sua risposta ai nostri tormenti è innanzitutto una presenza che ci accompagna: Gesù crocifisso, e la Madonna sotto la croce del Figlio, sono l’immagine e il segno più evidenti che il Signore non ci abbandona, ma ci precede”. Poi il saluto del pontefice “Papa Francesco anche ieri sera, con una telefonata affettuosa, ha voluto manifestarci la sua prossimità”, ha rivelato il Cardinale Bagnasco, arcivescovo di Genova, nella sua omelia. “In questi giorni – ha aggiunto rivelando indirettamente le parole di Bergoglio – ovunque si innalza a Dio un’onda di preghiera. Genova è nello sguardo del mondo, in un grande abbraccio di commozione, di affetto e di attesa”. “La ferita è profonda, e fatta innanzitutto dallo sconfinato dolore per coloro che hanno perso la vita e per i dispersi, per i loro familiari, i feriti, i molti sfollati”, ha poi aggiunto Bagnasco. “Il crollo del ponte Morandi sul torrente Polcevera ha provocato – ha scandito il cardinale – uno squarcio nel cuore di Genova. Innumerevoli sono i segni di sgomento e di vicinanza giunti non solo dall’Italia, ma anche da molte parti del mondo”. Ai funerali erano presenti le massime autorità dello Stato, a cominciare dal capo dello Stato, accolto da un applauso molto lungo. In prima fila anche il premier Giuseppe Conte e i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

Genova maledetta, amata Genova. Genova non era solo fabbriche, porto e conflitto sociale. Era sapore di sale, le alluvioni e morti, ma anche Tenco, Paoli, e de André, scrive Paolo Delgado il 19 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Non poteva succedere che a Genova, perché alzi la mano chi in quel tragico ponte spezzato non ha visto una metafora che allude all’intero Paese e la Superba, città maestosa e flagellata, è da decenni lo specchio impietoso che riflette lo stato di salute, o più spesso di avanzato morbo, del Paese intero: indica e disvela. Quegli agghiaccianti spezzoni a picco sul vuoto, resti non di un ponte come tanti ma del simbolo orgoglioso dell’Italia miracolosa e miracolata, sono l’ultima palata di terra sul Paese del boom, della mobilità fisica e sociale, del miraggio di una vita migliore per tutti e dei conflitti durissimi per ottenerla davvero. Quel Paese è defunto da tempo, ma come le stelle morte ha continuato a emanare una luce sempre più fievole fino al ferragosto 2018, quando l’ultimo raggio, il Ponte del grande ingegnere Riccardo Morandi, grande nonostante tutto, grande nonostante il probabile e nefasto errore, si è spezzato dimostrando così a tutti che l’Italia intera ha oggi un cuore marcio. A Genova, terzo vertice del triangolo industriale sin dall’ 800, fecero il loro fragoroso debutto i protagonisti del decennio a venire, nell’estate del 1960. Protestavano contro il congresso del partito neofascista, il Msi, per la prima e ultima volta in una maggioranza parlamentare, organizzato nella città medaglia d’oro della Resistenza. Fianco a fianco con i camalli del porto sfidarono la temuta celere per giorni, sospesero d’autorità il congresso, affossarono il governo Tambroni. Erano antifascismo, e il genovese Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, diede fuoco di persona alla miccia, il 28 giugno, con parole tanto chiare quanto incendiarie: «Dirò chi sono i nostri sobillatori: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravatta, sono i torturati della Casa dello Studente». Ma dietro l’antifascismo c’era altro, c’era di più. C’era una generazione di giovani operai e di studenti che voleva tutto e lo voleva subito. Indossavano per divisa le magliette a strisce orizzontali bianche e blu o bianche e rosse che con i loro colori squillanti erano già un simbolo del boom. Primo Moroni, uno dei più lucidi protagonisti di quegli anni, che da Milano era accorso a Genova in quei giorni, descriveva così, decenni più tardi, quei giovani ribelli: «Eravamo tutti giovani, generosi e intransigenti, portavamo i jeans, avevamo il mito dell’America e siccome i soldi in tasca erano pochi ci vestimmo con delle magliette comprate per 300 lire nei grandi magazzini. Non ci interessava una vita passata solo lavorando, preferivamo guadagnare di meno ma avere più tempo libero, però quando ci fu da protestare non ci tirammo certo indietro». Tra le città del triangolo, Genova fu forse quella meno interessata dal miracolo e dalla fluviale immigrazione interna che affluiva lì meno che a Milano e Torino, ma che comunque ridisegnò la geografia sociale soprattutto dei quartieri intorno al porto. In compenso, in quegli stessi anni, fiorì lì la migliore scuola moderna della canzone italiana, quella di Paoli, Tenco, Lauzi, De Andrè, Fossati. Genova non era solo fabbriche e porto e conflitto sociale: era anche il sogno degli anni ‘ 60, era le magliette a strisce e Sapore di sale, la città italiana più attenta al situazionismo francese, capace di intrecciare comunicazione e militanza, cultura pop e impegno rivoluzionario più di qualsiasi altra piazza nel belpaese. La lunga estate musicale morì a Sanremo all’inizio del ‘ 67 col suicidio di Luigi Tenco. Il decennio invece, annegò nel fango il 7 ottobre 1970. Non fu una bomba d’acqua ma un bombardamento a tappeto. In meno di 24 ore, tra il 7 e l’8 ottobre si rovesciarono sulla città 948 mm di pioggia: più di quanto sia mai successo in Europa. I torrenti esondarono uno dopo l’altro. La piena del Bisagno fu la più micidiale. Dalle colline defluirono a valle fiumi di fango, travolgendo macchine e passanti, inondando case e cantine. Le vittime furono 44, gli sfollati oltre 2mila, i danni pari a 130 mld di vecchie lire. Le disgrazie di Genova non sono mai attribuibili solo al destino cinico e baro, che pure ci mette spesso il suo artiglio. Nessuno avrebbe potuto fermare il diluvio dell’ottobre 1970. Molti, moltissimi avrebbero potuto limitarne le devastanti conseguenze. La colata di fango era conseguenza diretta del disboscamento cieco e selvaggio delle alture che sovrastano la città, la portata distruttiva delle esondazioni fu moltiplicata dalla mancata pulizia dei letti dei torrenti essiccati, trasformati in discariche a cielo aperto, la reazione dell’amministrazione alla situazione d’emergenza fu lenta e in alcuni casi irresponsabile. Sottopassaggi e ponti sui torrenti non furono chiusi, finché fango e acqua non travolsero automobili e passanti. Era Genova, ma non solo Genova. Scriveva sul Giorno il grande giornalista Italo Pietra, quando ancora nelle strade della città ragazzi e ragazzini arrivati da ogni parte d’Italia combattevano col fango: «Le troppo frequenti alluvioni dicono le stesse cose al Nord, al Centro e al Sud. Dicono che la montagna è sempre stata troppo povera e trascurata per non essere un punto debole del nostro paese; dicono che l’alluvione, mal di montagna, discende da decenni di ingiustizia sociale, di privilegi anacronostici, di scelte disastrose». Storie di ieri, di un’Italia che nell’ebbrezza del miracolo aveva dimenticato particolari come la sicurezza del territorio o la prevenzione? Mica tanto. A Genova e in Liguria le alluvioni si sono susseguite, inesorabili, nei decenni successivi, con frequenza e gravità crescenti. Il 3novembre del 2011 le piogge eccezionali gonfiarono di nuovo i torrenti e il 4 novembre, proprio all’ora dell’uscita dalle scuole, il Fereggiano uscì dal proprio letto e invase Marassi, seguito a breve dal Bisagno, uccidendo sei persone tra cui due bambini. Era un disastro annunciato. Meno di dieci giorni prima, il 25 ottobre, l’alluvione aveva fatto 12 vittime nelle Cinque Terre, sempre in Liguria e stavolta il nubifragio era atteso e previsto. L’amministrazione non chiese alle scuole di rinviare l’uscita nonostante lo stato di calamità preventivato. Lo “scolmatore” del Fereggiano, progettato proprio per evitare esondazioni, non era stato realizzato. La sindaca Marta Vincenzi, Pd, dichiarò il giorno dopo in tv: «Porterò per sempre le vittime di questo disastro sulla coscienza». Il peso non le impedì tuttavia di ricandidarsi alle primarie, perdendole, l’anno successivo. Per i fatti del 2011 è stata condannata a cinque anni con sentenza confermata in appello il 23 marzo scorso. Neppure la prevenzione si è giovata delle triste esperienza. L’alluvione si è ripetuta, in forme anche più gravi anche se fortunatamente con un bilancio meno tragica, una sola vittima, nel 2014: danni per 250 mln di euro e una città in ginocchio. Senza neppure il tempo di rialzarsi prima dell’ennesima esondazione, nel 2016. Dopo il crollo del ponte e in una situazione logistica che non è migliorata, l’unica, in attesa dell’autunno, pare sia incrociare le dita e sperare che quest’anno non piova. Se a Genova, nel 1960, una intera generazione era entrata in scena altrettanto successe 41 anni dopo, di nuovo in estate, ma con esiti opposti. Come shock e impatto internazionale quel che successe a Genova nei giorni del più tragico tra i G8 non fu meno devastante del grande ponte rovinato su case e capannoni tre giorni fa. La violenza insensata della polizia nelle strade, i pestaggi contro ragazzi addormentati nella scuola Diaz, quando le manifestazioni erano già terminate, le torture a Bolzaneto rivelarono che il decennio dell’ennesima grande illusione, quella sulla globalizzazione felice, era terminato ma proiettarono anche nel mondo intero l’immagine non di una città ma di un intero Paese in cui la democrazia sostanziale vacillava. Tanto da poter essere “sospesa”, senza alcun motivo, per 48 ore. Quella mattanza non è mai stata realmente punita, e neppure, cosa più grave, chiarita o spiegata. Nessuno sa né probabilmente saprà mai chi e perché diede quegli ordini dissennati. Chi decise di nascondere nella scuola dove dormivano i manifestanti bottiglie molotov per giustificare un’irruzione ingiustificabile. Chi disse ai poliziotti di usare il pugno di ferro quando ogni emergenza era finita, chi permise le torture nella caserma di Bolzaneto. La politica, quella del centrodestra appena arrivato al governo ma anche quella dei partiti di centrosinistra all’opposizione che temevano di inimicarsi un’opinione pubblica abituata a parteggiare sempre e comunque per la polizia, scelse di non sapere. Preferì derubricare il fattaccio in una serie di processi che potevano, forse, chiarire le responsabilità esecutive, ma non spiegare e chiarire. La politica tutta decise di rimuovere. Gli anni ‘ 60 erano cominciati a Genova, nel luglio 1960, con magliette dai clori squillanti a segnalare la vitalità del decennio nascente. Il declino della politica italiana, forse, è iniziato ancora a Genova, nel luglio 2001, nella torva notte delle torture ancora inspiegate.

Genova per noi: il significato di una città che è nel cuore di tutti gli italiani. Non serve esserci nato o abitare lì per voler bene a Genova. Lo ricordano qui scienziati e letterati, artisti e architetti. Assieme a un genovese doc: il primo astronauta italiano. Insieme raccontano, scrive il 19 agosto 2018 "Il Corriere della Sera". C’è chi la porta nel cuore per il verso di una poesia, o per quello di una canzone. Chi è rimasto stregato dalla sua luce e chi torna ogni volta con il pensiero al profilo del porto. La si può amare per le voci che animano i carrugi, per la sua storia e i personaggi ai quali ha dato i natali. Non serve esserci nato o abitare lì per voler bene a Genova. Lo ricordano qui scienziati e letterati, artisti e architetti. Assieme a un genovese doc: il primo astronauta italiano.

Lo scienziato Alberto Mantovani: «La città delle cure per i bimbi». Penso alla immunologia genovese; al Gaslini e alle altre eccellenze della città. Ai bambini con malattie immunologiche — come l’artrite reumatoide — e autoinfiammatorie, la cui vita è stata migliorata dalle ricerche condotte a Genova e che lì vanno per essere curati, ora con più difficoltà. Ebbene, ricordando le parole di un poeta-cantante genovese, Fabrizio De André, — «...dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior...» — la mia speranza è che dalle macerie del ponte fioriscano la Ricerca e la Medicina genovese, al servizio di tutti.

La cantautrice Antonella Ruggiero: «La forza della città operaia». Genova è una città tosta, decisa e che alzerà al più presto la testa. La sua è una storia operaia e anche le persone che ci andavano a vivere erano laboriose e pronte al sacrificio e per questo diventavano subito genovesi. Le disgrazie vicine e lontane l’hanno resa la città italiana che più ha sofferto finora, ma è anche quella che più volte ha dimostrato, con grinta e coraggio, di saper rialzare la testa. Questo è il momento in cui si deve stare vicino ai genovesi e chi ha promesso di aiutarla non si può permettere di deluderla perché con Genova non c’è niente da scherzare.

L’astronauta Franco Malerba: «I marinai sono abituati a non mollare». Mi torna in mente il dramma dell’Apollo 13 diretto verso la Luna e squassato da una gravissima avaria: failure is not an option (la sconfitta non è un’opzione), era la linea-guida al Mission Control, che consentì di rimediare. Non mollare è il motto marinaresco che confido vorrà rappresentare la mia Genova oggi; i liguri, abituati alle avversità del navigare per mari sconosciuti, sanno soffrire, sono capaci e resilienti e Genova è una città sobria, che nei momenti buoni come nei momenti difficili ha mostrato grande capacità di lavoro, impegno, sacrificio e innovazione.

L’architetto Stefano Boeri: «Bellezza difficile che resta nel cuore». Per me Genova è la struggente bellezza che mi è rimasta nel cuore. Una bellezza difficile, conquistata a fatica dalle architetture arrampicate le une sulle altre, dalle banchine di un porto schiacciato verso il mare dalla città, dall’alto monolite di pietra del centro storico, tagliato dalle sottili fenditure dei carrugi. Genova, città di paradossi e contrasti, ha diamanti e rovine addensati a poca distanza e forse per questo è una città vera, fortissima. In pochi anni ha vissuto le lacerazioni del G8, gli smottamenti, le alluvioni improvvise e infine il crollo del suo Ponte, che era anche il ponte più importante d’Italia. Ha sofferto, assorbito le sofferenze di tutti, ma non ha mai ceduto. Ho insegnato lì 10 anni e ho percepito la sua grande forza. Quella dei camalli e dei cantautori, degli ingegneri navali e dei ricercatori degli Erzelli, dei giovani che provano a restare e degli artisti che ne restano incantati, è la vera energia di una città verticale e unica al mondo, di cui è difficile non innamorarsi.

Lo scrittore Emanuele Trevi: «Culla dei poeti del Novecento». Tutti sanno che sarebbe difficile anche solo immaginare la storia della canzone italiana senza Genova; forse è meno noto che altrettanto si può affermare della grande poesia lirica del Novecento italiano. A pensarci bene, a nessun altro luogo d’Italia si addice meglio che a Genova l’epiteto di «città dei poeti». Da Dino Campana a Edoardo Sanguineti i colori, gli scorci vertiginosi, i capricci atmosferici della capitale ligure hanno suscitato un’autentica, impareggiabile topografia spirituale in versi, rendendo familiare la città anche a chi non ci ha mai messo piede. È come se, in qualche modo, i grandi poeti del Novecento avessero ereditato la città da Friedrich Nietzsche, che affittò una casa in Salita delle Battistine e quando viveva a Genova sentiva la volontà dilatarsi, e il coraggio di essere se stesso rafforzarsi. Se è lecito immaginare una cosa del genere, il filosofo tedesco avrebbe amato lo struggente «mottetto» di Montale, scritto nel 1934 e ambientato nell’«oscura primavera di Sottoripa»: una zona di portici vicino al mare.  Nella poesia di Montale ci sono due endecasillabi perfetti, che scolpiscono la visione del porto direttamente nell’eternità: «paese di ferrame e alberature/a selva nella polvere del vespro». Ma mette ugualmente i brividi, a rileggerlo oggi, lo Stornello di Giorgio Caproni. Perché il poeta, guardando le case di ardesia di Genova, sospese nella «brezza salina», non si limita ad ammirare, ma impara: come da una sorella maggiore, da un’amica fidata. Che insegna, guarda caso, «la fermezza».

Ponte Morandi: ecco perché il crollo era inevitabile. Il New York Times ha ricostruito i fatti di Genova cercando di capire come siano davvero andate le cose, scrive Barbara Massaro il 10 settembre 2018 su "Panorama". "Se cede uno strallo, viene giù tutto". Secondo l'ingegnere strutturale ed ex presidente della Società Americana degli Ingegneri Civili Andrew Herrmann il modo stesso in cui, negli anni '60, è stato concepito il ponte Morandi, avrebbe dovuto lasciar prevedere il potenziale pericolo di una struttura che, a pochi mesi dalla sua apertura al traffico nel 1967, già mostrava segni di deterioramento del calcestruzzo.

L'inchiesta del New York Times. Il New York Times ha condotto un'articolata inchiesta giornalistica sul disastro della vigilia di Ferragosto intervistando tecnici, ingegneri, vigili del fuoco, sopravvissuti e vagliando i video dell'incidente. A quasi un mese dalla tragedia che ha ucciso 43 persone e ferito al cuore la città di Genova e l'Italia intera quel che emerge è il quadro di una catastrofe inevitabile: ovvero quel ponte prima o poi sarebbe crollato. Quel che poteva essere previso ed evitato è che là sopra perdessero la vita 43 persone.

Il cedimento degli stralli. Secondo la ricostruzione del giornale americano a cedere sono stati gli stralli a sud (seguiti da quelli a nord) e la loro rottura ha causato prima il cedimento del tratto di ponte sottostante (Pila 9) e poi dello stesso pilone che reggeva gli stralli. Essenzialmente gli stralli hanno ceduto perché troppo deboli per reggere il carico del ponte. Quando l'ingegner Morandi ha concepito il viadotto ha scelto di alleggerire la vallata del Polcevera utilizzando linee morbide e flessuose dove gli elementi distintivi erano le tre antenne strette alte circa 90 metri che ricordavano la lettera A. A supportarle c'erano 12 stralli ancorati in alto al vertice dell'antenna e in basso all'impalcato. Spiega poi il New York Times: "L’ingegnere decise di sospendere l’impalcato dagli stralli, che essenzialmente sono dei gruppi di cavi ricoperti da un rivestimento di calcestruzzo precompresso. L’ingegner Morandi pensava che con questo sistema si sarebbe ridotta l’oscillazione del ponte e gli ingegneri strutturali all’epoca sembravano d’accordo. Credeva anche che il rivestimento in cemento avrebbe protetto i cavi d’acciaio dai danni dell’usura degli elementi".

Le infiltrazioni nel calcestruzzo. E invece già a pochi mesi dall'inaugurazione del ponte l'umidità, l'aria salmastra e l'usura avevano iniziato a danneggiare il calcestruzzo che, in questo modo, da subito ha perso la sua funzione protettiva dei cavi che hanno iniziato a corrodersi lentamente. "Le strutture di calcestruzzo sembravano essere eterne - ha spiegato al Times Massimo Majowiecki, architetto e ingegnere di Bologna intervistato dal giornale - Quella era la mentalità di allora". "Già alla fine degli anni ’70 - ricorda ancora il giornale della Grande Mela - il calcestruzzo del ponte aveva iniziato a deteriorarsi visibilmente, costringendo l’ingegner Morandi, che morì nel 1989, a difendere la sua creazione. Nel 1979 e nel 1981, studiò lui stesso le condizioni del ponte e concluse che l'impalcato e alcuni elementi delle pile erano già in degrado".

Bisognava rinforzare gli stralli. Altri ponti concepiti nello stesso modo da Morandi nel corso del tempo hanno subito opere di restauro che ne hanno migliorato la stabilità con l'aggiunta di ulteriori stralli in grado di distribuire meglio il peso della struttura stessa. E' avvenuto nel ponte Morandi in Venezuela, ma anche lo stesso viadotto del Polcevera, già negli anni '90, ha subito simili interventi per gli stralli a est che, infatti, non hanno ceduto. Nel 1999, poi, la gestione delle autostrade italiane è stata ceduta alla concessionaria Autostrade Spa e, per motivi non ancora chiariti, non si è più provveduto alla messa in sicurezza degli altri stralli. Il New York Times ha anche intervistato l'ingegnere strutturale del Politecnico di Milano Carmelo Gentile colui che lo scorso ottobre aveva effettuato un lungo studio sulle condizioni del ponte e aveva avvertito la concessionaria della necessità di agire il prima possibile sul Morandi e soprattutto sugli stralli nord e sud. Dallo scorso 31 ottobre, quando si è chiuso il contratto di collaborazione tra Gentile e Autostrade, però, nessuno si sarebbe messo in contatto con l'ingegnere per chiedere ulteriori dettagli circa lo scenario pre-catastrofe prefigurato da Gentile.

Problema di soldi? I costi della manutenzione nell'area di Genova, con le sue infrastrutture datate, sottolinea il giornale, sono in media doppi rispetto al resto delle autostrade italiane e per questo, ipotizza il Times, potrebbe essere stato deciso di procrastinare il restauro della struttura. Del resto, come dice Gary J. Klein, membro dell’Accademia Nazionale di Ingegneria degli Stati Uniti, organo che studia i cedimenti strutturali, "Non c’è niente di più impreciso del provare a valutare le condizioni dei cavi interni" e forse l'impossibilità di valutare con maggiore specificità lo stato di deterioramento dei cavi ha fatto sì che il problema venisse sottovalutato. Il restauro era sì in agenda sia del Governo sia della concessionaria, ma la data era slittata alla fine del 2019. L'iscrizione nel registro degli indagati di 20 persone è la prima tappa per accertare responsabilità e omissioni, ma la chiusura delle indagini è ancora lontana alla ricerca di quella verità sul ponte che si sarebbe dovuta stabilire già molto tempo fa.

Ponte Morandi, l'ingegnere Gotti: "Ha ceduto il pilone, ecco le cause del crollo di Genova", scrive il 14 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Ha ceduto il pilone". Dietro il crollo del ponte Morandi a Genova, un disastro che avrebbe provocato decine di vittime, ci sarebbe un cedimento strutturale. A sostenerlo, su Facebook, è l'ingegner Gherardo Gotti che ha analizzato i primi video pubblicati sui social dal luogo della sciagura. Qualche testimone ha parlato di un fulmine che si è abbattuto nelle vicinanze del viadotto Polcevera, ma Gotti tende a escludere ogni correlazione. "Il collasso - spiega l'ingegnere - si è verificato durante un nubifragio, probabilmente a causa del forte vento, che ha portato al collasso di un pilone. Questo va precisato perché non è crollata la sola parte sospesa, ma un intero pilone. Il ponte in passato ha subito fenomeni di degrado e fessurazione del calcestruzzo, e probabilmente questo aspetto legato alle condizioni atmosferiche hanno portato al collasso di un solo pilone. Gravi anche le problematiche di viscosità del calcestruzzo, che hanno portato a cedimenti del piano stradale sul quale è stato necessario intervenire più volte". Che il ponte, costruito negli anni Sessanta, avesse delle problematiche strutturali è cosa nota, anche se il presidente di Autostrade per l'Italia, Giovanni Castellucci, assicura: "Non ci risulta che il ponte fosse pericoloso, stiamo effettuando le indagini del caso".

Genova, ponte crollato: «Ci sono elementi di disagio», dicevano i tecnici di Autostrade ai cittadini. A luglio incontro coi comitati: presto lavori importanti. Il consulente: «Chiesi controlli 24 ore su 24, invano», scrivono Marco Imarisio e Andrea Pasqualetto, inviati a Genova, il 18 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". I due mondi si incontrano alle 14.36 di mercoledì 18 luglio 2018. C’è il mondo di sotto, che ringrazia perché a distanza di un anno «siamo riusciti ad arrivare al dunque con la vostra presenza». È rappresentato da persone come la signora Mimma Certo, che «in quanto casalinga posso dire che dobbiamo stare sempre attenti a pulire bene, questi calcestruzzi non piovono solo sulle macchine, ma sulle finestre, sulle persiane, sulle tende, e lavare lo laviamo, però i nostri polmoni, insomma, dobbiamo pensare anche a questo». Racconta che deve rinunciare al vasetto di basilico e maggiorana, «con quello che cade non lo potremmo neanche usare», e le piacerebbe avere sul terrazzo «due fiori, due cose», ma riconosce con rassegnazione che non è possibile. Sono i comitati cittadini di vie dal nome che purtroppo abbiamo imparato a conoscere, abitanti di case che rischiano di scomparire, come tutto il resto. E poi c’è il mondo di sopra, che governava quel ponte così vicino, presenza incombente e ingombrante, causa di rumori, tremori, e disagi. «Se il vostro problema è sapere qual è l’entità del nemico e dell’esercito» esordisce Mauro Moretti, responsabile degli interventi di Autostrade per l’Italia, «noi ci arrendiamo subito». All’incontro assistono i consiglieri comunali di ogni colore politico della Commissione per lo sviluppo e delle vallate. La Procura di Genova ha disposto l’acquisizione immediata del file audio della seduta. Perché in qualche modo, per cercare di fare giustizia, si parte da qui. Da questo confronto inedito, che rappresenta una prima e una ultima volta.

Gli stralli. «Cosa è successo sul Polcevera o ponte Morandi?» si chiede l’ingegner Moretti. Parla dell’impossibilità di mettere barriere acustiche, motivandola con la consapevolezza di essere alle prese con un gigante malato. «L’opera non può diventare un coacervo di ulteriori strutture che poi appese sopra diventerebbero un appesantimento di quella che è stata progettata per essere un’opera snella». Dice che hanno già installato barriere di cemento, i jersey, che hanno carichi superiori a quelle che c’erano prima, non nascondendo una certa preoccupazione per l’ulteriore appesantimento della struttura. «Siamo in un ambiente che non voglio dire sia salino al 100% ma siamo molto vicini al mare (...) ci sono elementi di disagio sulla parte esterna». Moretti parla anche delle cause della debolezza strutturale del viadotto, accennando ai lavori che sarebbero dovuti cominciare a ottobre, quelli che avrebbero forse evitato il disastro, ammettendo tra le righe che il problema è serio. «L’opera è un po’ come il corpo umano, dobbiamo farci passare qualcuno che evidenzia mali o danni dei quali si cominciano a vedere i primi segni. Per questo è previsto un intervento molto importante in futuro, che andrà a risarcire il danno a oggi subito e i danni di possibile e futura generazione per quanto riguarda le opere di sostegno, quindi gli stralli, ovvero i tiranti, che lavorano all’inverso rispetto a quello che è il normale funzionamento delle strutture, e questo nel tempo ha generato grazie all’azione vuoi del carico, vuoi degli agenti esterni, necessità di manutenzione».

Il Politecnico. L’esercizio del senno di poi è sempre facile e quasi mai giusto. Ma è inevitabile rileggere alcuni passaggi di quella audizione alla luce di quel che è accaduto martedì mattina, dopo un disastro forse dovuto proprio agli stralli. A una situazione che anche gli esperti della facoltà di ingegneria di Milano avevano definito anomala. Stefano Della Torre, direttore del dipartimento di Architettura e ingegneria delle costruzioni, coordinatore dello studio consegnato ad Autostrade nello scorso ottobre sul pilone 9, quello che è poi crollato e sul quale dovevano essere fatti i nuovi interventi di rinforzo, racconta il seguito di quell’ultimo allarme inascoltato. «Ci era stato detto che si trattava di un lavoro urgente. Noi abbiamo osservato che c’erano comportamenti anomali di quella particolare struttura, all’interno della quale a nostro avviso erano presenti forti criticità. Per questo avevamo suggerito la necessità di un ulteriore approfondimento diagnostico. E avevamo consigliato un monitoraggio continuo 24 ore su 24, a partire dal momento della consegna della nostra relazione. Questo è un punto critico, perché per noi era opportuno partire da subito. Purtroppo non è stato così». Sono proprio i controlli il tasto dolente di quest’incontro tra i due mondi. Franco Ravera, del comitato cittadino di via Porro, mette in dubbio la loro indipendenza, chiedendo di condividere i dati con Arpal, l’agenzia regionale per l’ambiente. «Siamo sicuri? Metto la mano sul fuoco?». Moretti si arrabbia. «Lei ha usato un termine che non ritengo corretto. Non è giusto che si dica che utilizziamo qualcuno pro bonis causa». Alle 16.31 il presidente dichiara chiusa la seduta. I due mondi promettono di rivedersi presto, «potrebbe essere a settembre». Mancano 27 giorni alla fine di tutto.

Ponte Morandi. L'agghiacciante retroscena: cosa dicevano quelli di Autostrade ai genovesi un mese fa, scrive "Libero Quotidiano" il 18 agosto 2018. Il 18 luglio scorso, poco meno di un mese dal crollo del ponte Morandi a Genova, Mauro Moretti, responsabile degli interventi di Autostrade per l'Italia, incontra i residenti dei palazzi sotto il viadotto, quelli che dopo la sciagura sono stati evacuati. All'incontro, spiega il Corriere della Sera, assistono anche consiglieri comunali genovesi e l'esito, alla luce di quanto successo la mattina del 14 agosto, è sconcertante. La società Autostrade ha sempre assicurato di aver eseguito la manutenzione necessaria, ora i pm indagano sui tiranti e l'ipotesi è quella del cedimento dello strallo 9, su cui presto sarebbero dovuti iniziare nuovi lavori. Moretti, incalzato dai residenti preoccupati per la continua caduta di calcinacci e pezzi di calcestruzzo, un mese fa ammetteva che "ci sono elementi di disagio sulla parte esterna, siamo in un ambiente che non voglio dire sia salino al 100% ma siamo molto vicini al mare...". L'opera, spiegava, "è un po' come il corpo umano, dobbiamo farci passare qualcuno che evidenzi mali o danni dei quali si cominciano a vedere i primi segni. Per questo è previsto un intervento molto importante in futuro, che andrò a risarcire il danno a oggi subito e i danni di possibile e futura generazione per quanto riguarda le opere di sostegno, quindi gli stralli, ovvero i tiranti, che lavorano all'inverso rispetto a quello che è il normale funzionamento delle strutture, e questo nel tempo ha generato grazie all'azione vuoi del carico, vuoi degli agenti esterni, necessità di manutenzione". Le criticità, insomma, erano note a tutti. Stefano Della Torre, il consulente che aveva coordinato lo studio consegnato ad Autostrade nell'ottobre 2017, è ancora più chiaro: "Noi abbiamo osservato che c'erano comportamenti anomali di quella particolare struttura, all'interno della quale a nostro avviso erano presenti forti criticità. Per questo avevamo suggerito la necessità di un ulteriore approfondimento diagnostico. E avevamo consigliato un monitoraggio continuo 24 ore su 24, a partire dal momento della consegna della nostra relazione. Per noi era opportuno partire subito. Purtroppo non è stato così". 

Genova, crollo ponte. Uno degli ingegneri che l'ha costruito: "Denunciai quelle strane oscillazioni", scrive il 16 agosto 2018 "Repubblica Tv". Saverio Ferrari, uno degli ingegneri che ha costruito il ponte Morandi, spiega le ragioni del crollo a Genova: "Il collaudo nel '67 era stato effettuato con le motrici Fiat, nel '79 sono arrivati gli autotreni, quindi la portata è aumentata notevolmente". L'ingegnere punta il dito contro il tipo di manutenzione effettuata nel corso degli anni: "Sono passato parecchie volte sul ponte e ho sentito le vibrazioni del piano stradale, proprio dove c'erano le giunture. Denunciai queste oscillazioni all'ufficio progettazione della società Morandi, mi risposero che non c'erano i soldi per sistemarlo". L'ingegnere stima anche i tempi di costruzione del nuovo ponte: "Ci vorranno tra i 24 e i 30 mesi".

L'esperto: "Ponte costruito per sopportare carichi 4 volte inferiori". Il professore Saggi ha denunciato: "Quando fu realizzato fu considerato un grandissimo successo. Inaccettabile infangare la memoria di Morandi", scrive Giorgia Baroncini, Domenica 19/08/2018, su "Il Giornale". "È vergognoso e inaccettabile che di fronte a questa tragedia si tenti di infangare la memoria di Morandi, che è stato un progettista di primissimo ordine". Lo ha affermato Antonino Saggio, architetto e docente di Progettazione Architettonica e Urbana all'Università La Sapienza di Roma. "Il viadotto Morandi è un'opera progettata e collaudata per sopportare carichi almeno 3-4 volte inferiori a quelli che sosteneva: all'epoca della costruzione, era impensabile uno sviluppo del traffico su gomma come quello che poi si è avuto", ha spiegato l'esperto. "Quando fu realizzato il viadotto fu considerato un grandissimo successo tecnologico e progettuale. E voglio ricordare che l'uso del cemento armato e del cemento precompresso ed il brevetto Morandi permisero a un paese come l'Italia di costruire utilizzando molto meno acciaio, che aveva prezzi proibitivi. Qualunque struttura è soggetta a rottura, dipende dal carico che ci si mette sopra". "Gli stralli - ha concluso Saggi - sono la parte più debole del ponte Morandi, tanto che negli anni '90 alcuni furono 'fasciati' e rinforzati e nel 2017 erano stati appaltati nuovi interventi: se fossero stati fatti, forse non saremmo qui a piangere questa tragedia".

Genova, la prima ipotesi sulla causa del crollo: ​«Così è collassato il ponte Morandi», scrive Venerdì 17 Agosto 2018 "Il Mattino". La rottura di uno strallo «è un'ipotesi di lavoro seria». Così Antonio Brencich, docente dell'università di Genova e membro della commissione dei Trasporti e delle Infrastrutture che deve accertare le cause del crollo, ha risposto ai giornalisti a Genova. Brencich ha fatto un breve sopralluogo nella zona del ponte crollato ma non è voluto entrare nel merito del lavoro della commissione. «La voce che gira è che il collasso sia stato attivato dalla rottura di uno strallo ci sono testimonianze e video che vanno in questo senso». ​Che la causa del crollo del ponte di Genova possa essere stata «la rottura di uno strallo è un'ipotesi di lavoro seria ma dopo tre giorni è solo un'ipotesi», ha sottolineato Brencich. Il docente ha invece smentito che possa essere stato un eccesso di carico a provocare il crollo del ponte Morandi: «La pioggia, i tuoni, l'eccesso di carico sono ipotesi fantasiose - ha detto - che non vanno prese neanche in considerazione».

Perché il ponte Morandi è crollato: le cause. Le inchieste della magistratura sono appena iniziate, ma le prime ipotesi già iniziano a circolare. Ecco cosa si sa finora sul motivo per il quale il ponte ha ceduto, scrive il 18 Agosto 2018 TPI. Il 14 agosto 2018 il ponte Morandi è crollato a Genova. Il cedimento è avvenuto intorno alle ore 11.30. Il tratto crollato, che fa parte dell’Autostrada Genova Savona, la A10, transitava sopra una zona densamente abitata. La maggior parte del viadotto si è schiantato sul greto del torrente Polcevera ma enormi tratti sono precipitati su su capannoni e sulle strade sottostanti.

Ma perché il ponte è crollato? Le inchieste della magistratura sono appena iniziate, ma le prime ipotesi già iniziano a circolare. La procura di Genova al momento è concentrata sulla verifica degli stralli, la grande innovazione introdotta da Morandi. Si tratta dei tiranti, le colonne trasversali di cemento armato con l’anima di cavi d’acciaio. “Ci dobbiamo porre il problema di possibili concause del cedimento. Io stesso mi trovavo lì sopra qualche giorno fa e ho notato proprio i lavori in corso”, ha detto il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, che insieme alla sua squadra sta acquisendo tutti gli atti riguardanti la progettazione, la realizzazione e la manutenzione dell’opera. Una testimone, come riporta il quotidiano La Repubblica, conferma questa ipotesi: “Ero al volante della mia auto e ho visto quei tiranti laterali cedere. Subito dopo ha cominciato a tremare l’asfalto sotto di me come se ci fosse un terremoto”, racconta Valentina Galbusera. Per stabilire la dinamica e le cause del crollo la procura sta acquisendo i filmati delle webcam di Austostrade che potrebbero aver ripreso il momento del crollo. Ma le condizioni meteo caratterizzate da forti piogge di quella mattina non consentono di avere immagini nitide. Secondo le prime dichiarazioni di Autostrade per l’Italia, non era prevedibile tale crollo, ma nel 2017 era stato commissionato uno studio proprio sugli stralli del viadotto. Un professore del Politecnico di Milano, che effettua le verifiche, conclude: “Per gli stralli del sistema bilanciato numero 9 si presentano con deformata modale non del tutto conforme alle attese e certamente meritevole di approfondimenti teorico-sperimentali”. A maggio del 2018 fu emesso un bando di gara a procedura velocizzata per i lavori di rinforzo degli stralli delle 9 e 10.

Nel 2017 i tecnici assicuravano: “Il ponte Morandi non presenta problemi strutturali”. Il 23 ottobre 2017, in occasione di un Consiglio regionale, l’assessore alla Protezione civile Giacomo Giampedrone è impegnato in una “interrogazione a risposta immediata” per far fronte alle preoccupazioni di chi abita sotto il ponte Morandi, a Genova. “Al momento il viadotto non presenta alcun problema di carattere strutturale”, assicura Giampedrone. Ha sentito il direttore del primo tronco delle Autostrade italiane, Stefano Marigliani, che ha chiesto a Giampedrone di tranquillizzare i cittadini. “I lavori attualmente in corso sono opere manutentive, e sono in progetto due interventi di carattere strutturale da realizzarsi nel 2018 che consisteranno nell’installazione di stralli e impalcati per il rafforzamento della infrastruttura”. Come riporta il Corriere della Sera, alle rassicurazioni emerse da quel Consiglio regionale si contrappone la relazione di due professori del Politecnico di Milano, Carmelo Gentile e Antonello Ruoccolo, chiamati da Autostrade per una consulenza periodica sullo stato del ponte. La relazione dei due professori sarà presentata il 12 novembre successivo e in essa verrà evidenziata chiaramente una “evidente” disparità di tenuta tra gli stralli. Quegli stessi stralli – i tiranti, quindi – che potrebbero essere alla base del crollo di martedì scorso. “In particolare gli stralli, ovvero i tiranti, del sistema numero 9 si presentano con una deformata modale non conforme alle attese e certamente meritevole di approfondimenti teorico-sperimentali”, si legge nella relazione. Un’irregolarità, quella messa in evidenza dai due esperti, che potrebbe essere attribuita forse ai possibili fenomeni di corrosione o da difetti di iniezione del cemento armato. Quello stesso sistema numero 9 è inserito nel blocco collassato martedì scorso. La relazione, però, potrebbe aver smosso qualcosa: infatti, Marigliani di lì a poco annunciava una serie di interventi strutturali, tradotti in un bando di gara da venti milioni di euro, proprio per procedere al rinforzo degli stralli delle pile 9 e 10. I lavori sarebbero dovuti partire nell’ottobre prossimo e avrebbero dovuto prevedere la costruzione dei tiranti esterni sui piloni che ne erano sprovvisti.

Breve descrizione del ponte Morandi. Il ponte attraversa il torrente Polcevera, a Genova, tra i quartieri di Sampierdarena e Cornigliano. Il ponte fu costruito tra il 1963 e il 1967 dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua. Il ponte è noto come “Viadotto Morandi”, o anche “Ponte delle Condotte” dalla società che lo costruì, e “Ponte di Brooklyn” per la sua forma che ricorda il celebre ponte americano. Il ponte, a trave strallata, lungo 1.82 metri, con un’altezza al piano stradale di 45 metri e piloni in cemento armato che raggiungono i 90 metri di altezza. Il ponte fu inaugurato il 4 settembre 1967 dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Il 14 agosto 2018 una parte del ponte che sovrasta la zona fluviale e industriale di Sampierdarena è crollata, probabilmente a causa di un cedimento strutturale. L’Autostrada A10 è quella che collega Genova con il confine di stato di Ventimiglia.

Il ponte è costruito in cemento armato precompresso per l’impalcato e cemento armato ordinario per le torri e le pile. Il ponte è al centro delle critiche da tempo.

Qui la scheda tecnica del “Ponte Morandi”, sul sito Ingegneri.info: 

Anno di costruzione: 1963-1967 (inaugurato nel 1967)

Campata maggiore: 210 m

Lunghezza: 1182 m

Tecnologia costruttiva: calcestruzzo armato precompresso

Forma delle pile: cavalletto rovesciato bilanciato

Altezza delle pile: 90 m

Stralli: Trefoli in acciaio rivestiti di calcestruzzo

Le critiche al ponte Morandi. Il ponte sul Polcevera fu interessato da “imponenti lavori di manutenzione straordinaria, tra cui la sostituzione dei cavi di sospensione a cavallo della fine anni ’80 primi anni ’90, con nuovi cavi affiancati agli stralli originari”, spiega l’ingegnere. A. Brencich, professore associato di Costruzioni in C.A. e C.A.P. dell’Università di Genova su Ingegneri.info. “La riflessione oggettiva a cui si giunge, alla luce della vita utile che dovrebbe avere una struttura del genere (almeno 100 anni) è che fin dai primi decenni il ponte è stato oggetto di manutenzioni profonde (fessurazione e degrado del calcestruzzo, nonché creep dell’impalcato) con costi continui che fanno prevedere che tra non molti anni i costi di manutenzione supereranno i costi di ricostruzione del ponte: a quel punto sarà giunto il momento di demolire il ponte e ricostruirlo”, continua. Nel 2016 era stato avviato un importante intervento di manutenzione, della durata di vari mesi, per il rifacimento di tutte le strutture in calcestruzzo e la sostituzione delle barriere bordo ponte in entrambe le direzioni di marcia.

Perché i ponti crollano. Ma come e perché crolla un ponte? TPI lo ha chiesto all’ingegnere Gabriele Tebaldi, docente del Dipartimento di Ingegneria Civile, dell’Ambiente, del Territorio e Architettura dell’Università di Parma. “Il cemento armato è stato considerato sostanzialmente eterno, c’è stato un approccio al calcolo delle strutture che non sempre ha tenuto conto della fatica, della durabilità del materiale. Ma in pratica non è necessariamente vero”, spiega a TPI l’ingegnere Tebaldi. “C’è necessità di interventi manutentivi, di adattamenti, che per vari motivi non sono stati fatti. Ultimamente i tagli alle amministrazioni locali hanno avuto ripercussioni sulla manutenzione delle infrastrutture. C’è inoltre da dire che i livelli di traffico sono aumentati rispetto a quanto chi ha progettato i ponti ai tempi potesse immaginare. Il sistema infrastrutturale italiano è degli anni ’60 e ’70. Il problema dei ponti e delle opere di attraversamento è noto da anni, non sono le prime avvisaglie”, prosegue Tebaldi. “Quella dei ponti è un’emergenza sotto gli occhi di tutti. Alcuni ponti sarebbero proprio da demolire e da rifare. Andrebbe fatta un’opera di monitoraggio importante, che richiedere ingenti investimenti. Generalmente il crollo arriva quando c’è un cedimento strutturale. Molti ponti sono fatti in cemento armato precompresso e potrebbe verificarsi un cedimento del sistema di precompressione. Un ponte cade quando uno dei suoi elementi strutturali collassa”, continua l’accademico. “A volte il caso gioca a sfavore, perché ad esempio un ponte che ha un livello di conservazione non buono può essere magari sollecitato casualmente da un elevato livello di traffico pesante, e spesso ci sono veicoli che circolano con un carico superiore a quello che potrebbero portare, e allora arrivano combinazioni che provocano il collasso”, sostiene l’ingegnere. “In alcune situazione anni fa il crollo è dipeso anche dai carichi pesanti che stavano passando. A volte c’è una combinazione fatale tra danneggiamento delle strutture ed evento catastrofico concomitante che amplifica la cosa. In linea di principio, si può capire qual è un ponte a rischio di crollo e quale non lo è, al di là della fatalità. È innegabile che vi sia bisogno di un piano manutentivo”, conclude Gabriele Tebaldi. Dello stesso parere è Settimo Martinello, direttore generale di 4 Emme, società di Bolzano che si occupa di ispezioni e verifiche sullo stato dei ponti. “Sono anni che dico che decine di migliaia di ponti italiani sono a rischio crollo e ogni anno puntualmente ne crollano una ventina solo che non fanno notizia perché non sono grandi come quello di Genova”, spiega. Secondo Martinello, che ha lanciato l’allarme, tutti i ponti italiani realizzati in calcestruzzo fra gli anni 50 e gli anni 60 sono a rischio “perché sono arrivati a fine vita, non sono eterni ed è troppo facile prevedere che andranno giù tutti”. “Questi ponti sono fatti con una struttura di acciaio ricoperta di calcestruzzo. Il calcestruzzo è solo una copertura che serve a proteggere i materiali ferrosi dall’acqua e quindi dall’ossidazione, ma il calcestruzzo ha una sua vita utile, trascorsa la quale l’umidità passa e inizia un processo di carbonatazione, che avvia l’ossidazione che provoca la corrosione. Ha presente quando sul calcestruzzo compaiono delle strisce nere? Quello è l’ossido del ferro che sta uscendo. Ci mette dieci o quindici anni questo processo a compiersi. Alla fine fuori sembra tutto a posto, dentro però l’armatura è sparita”. In Italia ci sono un milione e mezzo di ponti, “ma se calcoliamo le campate di ciascun ponte, come è corretto fare, arriviamo a tre o quattro milioni di strutture. Ma sa quanti sono quelli sotto monitoraggio? Sessantamila. Di quelli sappiamo tutto, degli altri quasi nulla, spesso le amministrazioni locali, senza soldi né competenze, non sanno nemmeno di quanti ponti dispongono”, conclude Martinello.

La commissione ispettiva del Mit: "Il crollo del ponte Morandi potrebbe essere avvenuto per una serie di concause". La procura ha autorizzato le verifiche per la messa in sicurezza dei monconi. L'esperto spiega: "Prima si è storto, poi è caduto", scrive Huffington Post il 19/08/2018. Il crollo di ponte Morandi potrebbe esser stato determinato da "una serie di concause" e non solo dalla rottura di uno strallo, come si era ipotizzato inizialmente. Lo ha detto Roberto Ferrazza, presidente della Commissione ispettiva del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, al termine del sopralluogo sulle macerie di Ponte Morandi. La magistratura, intanto, ha dato il via libera per alle verifiche per la messa in sicurezza: "La procura ha autorizzato le verifiche per la messa in sicurezza dei monconi di ponte Morandi proposte da Anas, dopo aver avuto il parere favorevole dei consulenti. Le verifiche verranno effettuate dai tecnici di Autostrade con i consulenti della procura", ha affermato Ferrazza. La lettura della dinamica del crollo, quale elemento si sia rotto per primo "non è ancora del tutto chiara. Non è chiaro quale sia stato l'innesco della dinamica" ma "il ponte non è caduto nella sua proiezione: prima si è storto, poi è caduto". Lo ha detto Roberto Ferrazza, presidente della commissione ispettiva del Mit al termine del sopralluogo sulle macerie di Ponte Morandi. "Bisognerà lavorare ancora sul posizionamento e ribaltamento delle macerie, considerando che c'è stata una rottura che ha provocato un movimento della struttura non equilibrato", ha aggiunto. Nei giorni successivi al crollo alcuni testimoni avevano affermato di aver visto i tiranti cadere contemporaneamente sulla carreggiata. Dopo il silenzio osservato nel giorno dei funerali di Stato, il presidente del Consiglio Conte è tornato sulla vicenda: "Siamo con Genova e con i genovesi, non solo a parole - ha affermato - si faccia in fretta per aiutare gli sfollati".

Nei video c'è la prova: un tirante si è spezzato. Le immagini registrate e i testimoni del crollo avvalorano l'ipotesi del cedimento dello strallo, scrive Valentina Carosini, martedì 21/08/2018, su "Il Giornale". Sotto la lente ci sono i momenti del crollo, quelli immediatamente precedenti, per capire se c'è stato un eventuale rapporto di causa-effetto e quale degli elementi strutturali cedendo per primo abbia innescato l'implosione del viadotto Morandi. A una settimana dal disastro di Genova tocca ai pm della procura del capoluogo ligure, che hanno in mano l'inchiesta - per attentato colposo alla sicurezza dei trasporti, disastro colposo e omicidio colposo plurimo - ricostruire il quadro del disastro. Mentre alcune fonti qualificate riferiscono che in alcune immagini il viadotto non sarebbe crollato tutto insieme e avrebbe dato segni di «torsione» negli istanti del disastro, i magistrati stanno acquisendo e ripercorrendo immagini, materiale video, testimonianze, utili a documentare da un punto di vista visivo e acustico le fasi del crollo e che uniti al risultato delle perizie da parte dei consulenti tecnici incaricati potranno fornire elementi utili a raccontare che cosa sia accaduto martedì scorso su ponte Morandi, il viadotto sul Polcevera che implodendo ha portato via con sé la vita di 43 persone. I video però sono solo alcuni degli elementi che contribuiranno alla ricostruzione. Come ha sottolineato ieri il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi: «Sono due i tipi di testimonianze e di prove che stiamo acquisendo: le fonti qualificate e tecniche e poi le persone che hanno vissuto la vicenda perché ne sono state coinvolte». Rispetto poi all'interruzione dei video prelevati dalle telecamere autostradali, nei quali la visibilità è scarsa per via della forte pioggia delle ore del disastro, Cozzi ha ribadito: «Non ci siamo accontentati, le immagini le abbiamo cercate, fatte cercare e abbiamo invitato il pubblico a fornire video di questo tipo». L'insieme degli elementi, dunque, sembrerebbe indicare nella rottura di un tirante la causa del crollo. Proprio ieri intanto gli uomini della Guardia di Finanza di Genova in un blitz negli uffici genovesi del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la Liguria, il Piemonte e la Valle d'Aosta hanno acquisito una serie di atti. Si tratta di documenti legati alla concessione e agli interventi di manutenzione eseguiti nel corso degli anni su ponte Morandi. Tra questi potrebbe essere poi prossimamente acquisito anche il verbale, considerato rilevante, della riunione tra ministero delle Infrastrutture, Provveditorato alle opere pubbliche e direzione di vigilanza sulle concessionarie autostradali, risalente allo scorso 1° febbraio veniva citata una corrosione e una riduzione dei tiranti del ponte. Intanto si sta proseguendo con la ricerca di reperti dal materiale del crollo. I tecnici della procura devono segnalare, catalogare e numerare ogni reperto prima che sia portato a dimensioni che ne rendano possibile il trasporto in un'altra area dove sarà analizzato per chiarire lo stato del materiale che componeva il viadotto. Sulle tempistiche di accertamento la procura è impegnata a fare in modo di conciliare il più possibile la completezza degli accertamenti dei consulenti tecnici con tempi contati per la rimozione per poter liberare le aree del letto del torrente ancora impegnate dalle macerie. Su questo fronte il capo del dipartimento di Protezione civile Angelo Borrelli, ieri a Genova, ha rassicurato sul fatto che dal via libera in poi alle rimozioni potrebbero volerci 10 giorni a completare il lavoro.

Ponte Morandi a Genova, in 3 nuovi video si vedono il tirante che si spezza e la dinamica del crollo. I tre video sono stati ripresi dalle telecamere di sicurezza di aziende private: insieme alle testimonianze oculari rivelano la dinamica del crollo del 14 agosto, scrive Andrea Pasqualetto il 20 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". La strada che cede ai due lati della campata e il pilone che si spezza come un grissino facendo collassare l’intera struttura. La dinamica del crollo del ponte Morandi è sempre più definita. A supporto di questa ricostruzione, che ha come presupposto la rottura di un tirante, le immagini di tre telecamere acquisite dalla Guardia di Finanza e giudicate molto interessanti. Si tratta di dispositivi di sicurezza di aziende private, posizionati a distanze e angolazioni diverse rispetto al viadotto. Combinate fra loro e incrociate con la versione fornita da due testimoni oculari, che dicono di aver visto spezzarsi prima uno o due stralli, i grandi tiranti che reggono la strada, fornirebbero dunque un quadro abbastanza chiaro di quel che è successo. 

Le cause della rottura del tirante. Alla ricostruzione manca però un tassello: la causa della rottura del tirante. Al di là delle ipotesi fin qui fatte, usura o fulmine, i tecnici non escludono infatti il cedimento di una parte del manto stradale, anche se lo ritengono meno probabile. 

Le ipotesi di reato. Nel frattempo in procura si discute di reati. «Stiamo valutando se contestare anche l’omicidio stradale colposo», ha spiegato un inquirente. Si tratta dell’articolo 589 bis del codice penale, che normalmente prende di mira chi guida un veicolo. «Ma si può estendere anche ai gestori di strade e autostrade, nella misura in cui hanno il dovere di garantire la sicurezza di chi circola». Si fa notare che, se così dovesse essere, la nuova accusa sarebbe la più grave dal punto di vista della pena: da due a sette anni. Gli altri tre reati presi in considerazione dai magistrati, il disastro colposo, l’omicidio colposo plurimo e l’attentato colposo alla sicurezza dei trasporti, hanno infatti pene edittali che non superano i cinque anni. «Risibili, di fronte a una tragedia del genere, con 43 morti», aveva dichiarato il procuratore Francesco Cozzi. «Per avere un’idea della sproporzione basti pensare che chi dichiara false generalità rischia di più di uno che causa un disastro di questo tipo», gli ha fatto eco ieri un suo sostituto. Per la verità, l’omicidio plurimo colposo può arrivare anche a 15 anni. «È una questione di pena edittale...». Comunque sia, nelle stanze dei pm ieri se ne parlava.

Il faro sul ministero. Venendo invece alle indagini, prosegue l’acquisizione di documenti da parte della Finanza, che ha avuto la delega a ricostruire i fatti e accertare delle responsabilità. Dove si profila un palleggio fra Autostrade per l’Italia e ministero delle Infrastrutture, il soggetto privato e quello pubblico, entrambi tenuti in qualche modo alla vigilanza sulla sicurezza, anche se in termini diversi. Di fatto il Ministero nel corso degli anni sembra essersi spogliato di questa funzione, affidandola alla parte privata. Ai pm il compito di capire se in modo legittimo o meno. 

Ponte Morandi, perché è caduto? Ecco che cosa sappiamo (e che cosa ancora no).

Perché si è spezzato un tirante? Se n'è rotto solo uno? Fulmini, pioggia e vento possono aver giocato un ruolo? E perché il ponte non era stato chiuso? Scrive Cesare Giuzzi il 20 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera".

Perché è caduto il ponte di Genova? I primi risultati della doppia inchiesta sul crollo del ponte Morandi portano a due ipotesi principali. La prima, quella della rottura di uno strallo del pilone 9, è emersa fin dalle prime ore dopo il disastro. Ma resta da capire se il tirante si sia spezzato per primo o se invece sia stata la conseguenza di un altro guasto. L’altra ipotesi riguarda la caduta di un «impalcato» (quello centrale tra i piloni 9 e 10) che poggiava grazie a «mensole» sulle due sezioni sostenute dagli stralli. In questo caso, però, il crollo sarebbe stato preceduto da «segnali premonitori». «Problemi che non sono stati evidenziati» hanno chiarito le Autostrade. Viene esclusa, invece, l’ipotesi che il crollo sia partito dal pilone.

Perché si è rotto il tirante? È l’indiziato principale perché il ponte prima si è storto, poi è caduto come se fosse venuto meno l’effetto elastico dei tiranti. O meglio, come se la rottura avesse innescato un effetto «frusta» sull’enorme cavalcavia. Ma com’è possibile che un cavo d’acciaio ad alta resistenza spesso decine di centimetri si sia spezzato? Due i casi: o a causa della corrosione e dell’incuria oppure per «strappo», un eccesso di carico o un collasso strutturale. Nella prima eventualità la frattura del cavo sarebbe netta nel punto di rottura e con presenza di ruggine e corrosione. Nel secondo i resti presenterebbero segni di allungamento e assottigliamento. Come quando si strappa un filo di nylon. Altro punto critico sono gli «appoggi» al pilone, dove i cavi sono agganciati alla struttura di cemento armato. Sono due, quello superiore era coperto dal cemento.

Può essersi rotta la campata? Anche se meno accreditata, secondo la prima analisi delle macerie e dei dati del crollo, anche l’ipotesi del cedimento di una campata del ponte non viene esclusa. In particolare ci si riferisce alle enormi mensole di cemento armato che sorreggono i blocchi di strada (gli impalcati) tra i due stralli. Un cedimento frequente in ponti convenzionali, dove spesso è la prima causa del crollo. Il Morandi è un ponte strallato, un progetto pressoché unico in Italia. Tiranti e impalcato hanno certamente ceduto prima del pilone di cemento armato, ma resta da capire quale struttura sia crollata prima. Sulla strada non erano state evidenziate fessure o lesioni all’asfalto, cosa che di solito precede un cedimento delle mensole. In questo caso è possibile che una volta caduto l’enorme impalcato i tiranti possano essersi spezzati di conseguenza.

C'è stato un fulmine? C'entra la pioggia? Tra le ipotesi residuali anche quelle legate al maltempo. Alcuni testimoni hanno parlato di un fulmine. Sugli effetti che può avere una scarica elettrica su una struttura simile, i tecnici sono divisi. Anche se tutti concordano che un fulmine avrebbe potuto rappresentare l’evento imprevedibile (specie se ha colpito il giunto di uno dei tiranti) che ha innescato una catena di reazioni dovute ai mali pregressi del ponte (difetti, corrosione). A sua volta la pioggia potrebbe aver avuto un ruolo. Uno studio recente impone di costruire stralli con rivestimenti elicoidali proprio per scaricare l’acqua in particolari condizioni di vento. I rivestimenti del ponte Morandi non erano costruiti così, e perciò la pioggia non scaricata potrebbe aver appesantito gli stralli ed innescato la rottura su una porzione già compromessa. Martedì c’erano quasi 30 nodi e pioveva fortissimo.

Perché il ponte non era stato chiuso? C’è una domanda che però non ha ancora trovato risposta: perché se gli stralli del ponte avevano problemi tali da richiedere lavori importanti sui tiranti, nessuno ha mai deciso la chiusura del ponte? In teoria in caso di problemi di sicurezza la chiusura del ponte potrebbe essere stata ordinata anche soltanto da una pattuglia delle forze dell’ordine. Ovviamente in caso di questioni ingegneristiche (pare non ci siano mai stati segnali evidenti dall’esterno) la decisione spettava al concessionario, ossia Autostrade. La società sostiene però che non c’erano allarmi per la sicurezza e che i lavori non erano urgenti ma programmati da tempo. «La struttura è monitorata da anni e la manutenzione non è mai mancata». Da settimane erano in corso interventi minori sul piano stradale, nulla di strutturale. Le opere venivano eseguite di notte, in alcuni casi, con limitazioni temporanee al traffico.

Crollo Ponte Genova, tiranti "ridotti del venti per cento": Ministero e Autostrade sapevano. Il verbale di una riunione tra Infrastrutture, Direzione generale di vigilanza, Provveditorato opere pubbliche e società di gestione dimostra che fin da febbraio 2018 la gravità della corrosione era nota. Il documento è firmato da Roberto Ferrazza e Antonio Brencich, ora nominati presidente e membro esperto della commissione d'indagine del governo, scrive Fabrizio Gatti il 19 agosto 2018 su "L'Espresso". La strage del ponte Morandi a Genova non può essere una sorpresa. Il ministero delle Infrastrutture, la Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali a Roma e il Provveditorato per le opere pubbliche di Piemonte-Valle d'Aosta-Liguria a Genova, insieme con Autostrade per l'Italia della famiglia Benetton, conoscevano perfettamente la gravità del degrado del viadotto collassato la mattina di martedì 14 agosto, provocando la morte di 43 persone. Almeno sette tecnici, cinque dello Stato e due dell'azienda di gestione, sapevano infatti che la corrosione alle pile 9 (quella crollata) e 10 aveva provocato una riduzione fino al venti per cento dei cavi metallici interni agli stralli, i tiranti di calcestruzzo che sostenevano il sistema bilanciato della struttura. E che nel progetto di rinforzo presentato da Autostrade erano stati rilevati «alcuni aspetti discutibili per quanto riguarda la stima della resistenza del calcestruzzo». Nonostante queste conclusioni, in sei mesi da allora né il ministero né la società concessionaria hanno mai ritenuto di dover limitare il traffico, deviare i mezzi pesanti, ridurre da due a una le corsie per carreggiata, abbassare la velocità. Come si dovrebbe sempre fare, in attesa dell'avvio dei lavori, per garantire la sicurezza e alleggerire il carico e l'affaticamento della costruzione. È tutto scritto nel verbale della riunione con cui il primo febbraio 2018 il Provveditorato alle opere pubbliche di Genova rilascia il parere obbligatorio sul progetto di ristrutturazione presentato da Autostrade. Il documento, che smentisce quanto la società di gestione continua a dichiarare sull'imprevedibilità del disastro, è firmato tra gli altri dal provveditore, l'architetto Roberto Ferrazza, e dall'esperto esterno, il professore associato della facoltà di ingegneria dell'Università di Genova, Antonio Brencich, che già nel 2016 e più volte nelle interviste tv di questi giorni ha denunciato le condizioni critiche del ponte. Ma nel luogo istituzionale dove portare le proprie osservazioni, in nessuna parte della riunione come dimostra il verbale, nemmeno nel capitolo che riguarda le interferenze con il traffico autostradale, Ferrazza e Brencich prescrivono raccomandazioni sui volumi di traffico che tengano conto delle condizioni dei tiranti, dell'incognita del calcestruzzo. E della conseguente riduzione dei margini di sicurezza, che il crollo ha poi rivelato. Il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, ha nominato proprio Ferrazza presidente e Brencich membro esperto della commissione di inchiesta del governo «per svolgere verifiche e analisi tecniche sul crollo». Nella stessa commissione sono stati inseriti anche gli ingegneri Bruno Santoro e Michele Franzese, dirigenti tecnici della Direzione generale per la vigilanza sulle concessioni autostradali: cioè della stessa struttura del ministero che pur avendo ricevuto il verbale da Ferrazza, a fronte di quanto è stato scritto nella riunione non ha ritenuto di dover intervenire. Toninelli è ministro da poche settimane. Ma il suo ufficio di gabinetto e le sue segreterie tecniche e legislative non potevano non sapere che il provveditore di Genova era tenuto per legge a esprimere un parere sul progetto di Autostrade. E che quindi la sua nomina al vertice della commissione ispettiva lo porta a occuparsi di se stesso. Ferrazza e Brencich avranno libero accesso ai luoghi delle indagini, alle macerie e a tutti gli atti amministrativi che riterranno di interesse. Arriverà forse il giorno in cui dovranno autointerrogarsi: chi meglio di loro è testimone della riunione del primo febbraio? Quando sei mesi fa il comitato tecnico del provveditorato si occupa del ponte Morandi, l'ingegner Paolo Strazzullo, responsabile unico del procedimento per Autostrade e il collega Massimiliano Giacobbi, progettista dell'intervento per conto della Spea Engineering, società collegata al gestore, presentano i dettagli del progetto. Sono i due tecnici sicuramente a conoscenza della situazione del ponte. Sono loro a illustrare il livello di declino della struttura. «I risultati delle prove riflettometriche hanno evidenziato un lento trend di degrado dei cavi costituenti gli stralli (riduzione d'area totale dei cavi dal 10 al 20 per cento) e proprio per tale considerazione la committente ha ritenuto opportuno avviare una progettazione finalizzata al rinforzo degli stralli delle pile 9 e 10», è scritto a pagina 3 del verbale, al capitolo “Descrizione difetti”. Poiché sono fin dalla costruzione inglobati nel calcestruzzo, i cavi dei tiranti non sono visibili all'esterno. Per studiarli, si ricorre alla riflettometria. Facendo passare corrente, si calcola la resistenza e quindi l'eventuale riduzione della sezione del tirante: dalle misure così eseguite, l'area totale delle sezioni risulta consumata dalla corrosione fino al 20 per cento. «Le indagini», aggiunge il verbale «sono state estese agli altri elementi strutturali che hanno evidenziato quadri fessurativi (lesioni) più o meno estesi, presenza di umidità, fenomeni di distacchi, dilavamenti, ossidazione... sulla base delle indagini svolte la società progettista ha cautelativamente stimato un grado di ammaloramento medio oscillante dal dieci al venti per cento». Il progetto ripropone quindi quanto è già stato fatto circa vent'anni fa sulla pila 11 del viadotto: la disposizione di nuovi cavi esterni, che vanno dal traversone dell'autostrada fino alla sommità delle “antenne” del ponte, a cui sono legati i tiranti. Relatori, per conto del ministero delle Infrastrutture, sono due ingegneri del provveditorato, Giuseppe Sisca e Salvatore Buonaccorso e gli esperti esterni, Mario Servetto e Antonio Brencich. Sisca è un ingegnere della motorizzazione. Insegna in numerosi corsi di scuola guida. Conosce direttamente la società Autostrade per l'Italia perché nel 2017, su autorizzazione del ministero, ha ricevuto dall'azienda un incarico retribuito in una commissione, attività non collegata ai suoi doveri d'ufficio. Sulla tabella ministeriale, l'importo della prestazione professionale è comunque indicato come presunto e la cifra come “0”. L'autorizzazione agli incarichi esterni di coordinamento lavori o collaudo per imprese private è una prassi ministeriale. Una consuetudine di tutti i governi. L'unico abbastanza critico tra i relatori è Brencich: «Il professore fornisce spunti per migliorare la lettura dei documenti progettuali», annota il verbale. In realtà la sua è una bocciatura totale dei metodi d'indagine scelti da Autostrade per studiare il ponte. Non sono state eseguite radiografie con raggi gamma ai cavi nascosti. Nessun carotaggio. E la stima sulla resistenza del calcestruzzo è definita discutibile: «Il metodo Sonreb-Win è scientificamente ormai ritenuto fallace. Il margine di errore è più-meno 80 per cento (un calcestruzzo di resistenza 40 viene rilevato con resistenza da 8 a 72), mentre la sonda Windsor definisce una penetrazione nel calcestruzzo indipendente dalla resistenza dello stesso: si osserva che la tecnica Windsor è stata abbandonata dal contesto scientifico». Eppure, nonostante queste osservazioni, le considerazioni finali lasciano increduli. I cinque tecnici che si esprimono a nome dello Stato, Ferrazza, Bernich, Sisca, Buonaccorso e Servetto firmano un verbale in cui dichiarano: «Complessivamente il progetto esecutivo esaminato appare ben redatto e completo in ogni dettaglio. Lo stesso risulta studiato in modo metodologicamente ineccepibile». Il provveditore, oggi capo della commissione ministeriale d'inchiesta, manda il documento a Roma alla Direzione generale per la vigilanza. La riunione del comitato tecnico amministrativo è sciolta. Escono tutti ordinatamente. Forse anche convinti di aver fatto un buon lavoro.

Il conflittuccio d’interessi del commissario nominato da Toninelli, scrive Alessandro D'Amato il 20 agosto 2018 su "Next Quotidiano". “È vero, sono il soggetto che ha esaminato” insieme “ad altri quattro relatori, il progetto esecutivo di Autostrade per l’Italia. Il fatto d’essere oggi a capo della commissione ispettiva credo sia conseguenza del mio incarico di provveditore delle opere pubbliche. Se questo non fornisce garanzie necessarie sono pronto a fare un passo indietro. Voglio ricordare però che la commissione ispettiva non ha nulla a che vedere con la Procura. I magistrati hanno i loro periti e noi non siamo lì per interferire o sbianchettare qualche documento”. In questa dichiarazione rilasciata all’agenzia di stampa ANSA di Roberto Ferrazza, che è capo della commissione del ministero delle Infrastrutture sul crollo del ponte Morandi a Genova c’è l’ammissione della veridicità di quanto scritto ieri da l’Espresso. Il settimanale ha raccontato di una relazione del febbraio 2018 con cui il ministero si pronuncia sui lavori previsti, firmata tra gli altri proprio da Ferrazza e Antonio Brencich (che oggi fanno parte della commissione d’indagine). Si legge: “I risultati delle prove riflettometriche hanno evidenziato un lento trend di degrado dei cavi costituenti gli stralli (riduzione d’area totale dei cavi del 10-20%) e proprio per tale considerazione Autostrade ha ritenuto avviare una progettazione finalizzata al rinforzo degli stralli delle pile 9 e 10”. Ancora: “Le indagini sono state estese agli altri elementi strutturali che hanno evidenziato quadri fessurativi (lesioni) più o meno estesi, presenza di umidità, fenomeni di distacchi, dilavamenti, ossidazione… sulla base delle indagini svolte la società progettista ha cautelativamente stimato un grado di ammaloramento medio oscillante dal 10 al 20%”. Sia Ferrazza che Brencich hanno firmato il verbale in cui dichiarano che il progetto di Autostrade «appare ben redatto e completo in ogni dettaglio. Lo stesso risulta studiato in modo metodologicamente ineccepibile». Sia Brencich che Ferrazza, però, muovono delle critiche. Brencich, in particolare, era netto: «Si rilevano alcuni aspetti discutibili per quanto riguarda la stima della resistenza del calcestruzzo». Contesta i metodi utilizzati, i margini di errore altissimi, le tecniche utilizzate ormai abbandonate dal contesto scientifico. Ma in attesa di partire con il progetto, Autostrade può tirare dritto visto che specifica che «il ponte è in sicurezza fino ad una riduzione dell’area totale dei cavi del 50 per cento». Sempre all’agenzia di stampa ANSA Ferrazza ha spiegato il senso di quanto affermato nel verbale a proposito del 20% di ammaloramento degli stralli: “Se una persona ha un deficit motorio del 20% non è detto necessariamente che non cammini più. Ma può bastare una stampella per aiutarla a farlo con regolarità”. Ferrazza premette che “non ho mai firmato alcuna relazione che sottolineasse questa criticità e sfido chiunque a dimostrarlo. È un punto cruciale” e, precisa, “pretendo che i passaggi della vicenda siano chiari. A ottobre 2017 il Politecnico di Milano presenta una relazione, su richiesta di Autostrade, in cui dopo aver seguito una serie di sollecitazioni esterne evidenzia lo stato degli stralli. La società a dicembre prepara il progetto esecutivo che viene inviato a Roma. Lo studio è rimandato dal Ministero al Provveditorato della Liguria per l’approvazione. È a quel punto che io e altri 4 relatori diamo un parere sostanzialmente favorevole. E sempre in quel frangente, dopo l’iter di autorizzazioni, Autostrade bandisce la gara e a ottobre 2018 dovevano cominciare i lavori”. Ferrazza però dice di non sentirsi in conflitto d’interessi: “Ho ricevuto una nomina in Commissione dalla mia amministrazione. Sto svolgendo questo lavoro. Oggi dovrei essere in cantiere. Non vedo conflitto di interessi. C’è forse più ricerca del clamore che la sostanza giuridica. In base al codice degli appalti noi siamo tenuti a dare quel parere e credo che la commissione esaminatrice sia stata molto scrupolosa. Lo abbiamo trasmesso tempestivamente a Roma. Questo avveniva 5 mesi fa. Sono ancora il provveditore in carica”.

Crollo Ponte Genova, l'investigatore scelto da Toninelli lavorava per la società Autostrade. Il dirigente pubblico della Vigilanza sulle concessionarie selezionato dal ministro delle Infrastrutture ha ricevuto 70mila euro dall'azienda per prestazioni professionali private. Dopo il caso del presidente Ferrazza e del professor Brencich, nuova tegola sulla commissione d'inchiesta sul disastro, scrive Fabrizio Gatti il 20 agosto 2018 su "L'Espresso". Sul crollo del ponte Morandi a Genovaindaga un dirigente del ministero delle Infrastrutture pagato fino al 2013 per prestazioni professionali da “Autostrade per l'Italia”, la società di gestione accusata dal governo di essere responsabile della strage. Bruno Santoro, 50 anni, ingegnere, è tra gli ispettori scelti di persona dal ministro Danilo Toninelli per formare la commissione che da giorni sta conducendo l'inchiesta tecnica e amministrativa sul disastro: il collasso del viadotto che il 14 agosto ha ucciso 43 persone. La singolarità è doppia perché dal 2015, cioè appena due anni dopo la fine del rapporto con Autostrade, al 2018 Santoro è anche direttore della “Divisione 3 – Qualità del servizio autostradale” nella Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali, cioè il massimo organismo di sorveglianza. E dal marzo di quest'anno è direttore della “Divisione 1 – Vigilanza tecnica e operativa della rete autostradale in concessione”, nella stessa Direzione generale del ministero. Sono quindi tre su sei i commissari nominati da Toninelli direttamente testimoni dei rapporti dello Stato con società Autostrade o delle procedure che non hanno impedito il disastro: un eufemismo per dire che prima o poi dovranno esaminare anche il proprio operato. Il primo dei tre è il presidente della commissione ispettiva, l'architetto Roberto Ferrazza, provveditore per le opere pubbliche di Piemonte-Valle d'Aosta-Liguria. Il secondo è il professore associato della facoltà di ingegneria dell'Università di Genova, Antonio Brencich. Ferrazza e Brencich il primo febbraio scorso, rispettivamente da presidente e da relatore esperto, hanno firmato il verbale del comitato tecnico amministrativo che ha approvato il progetto di ristrutturazione del ponte Morandi : pur consapevoli della “riduzione d'area totale dei cavi dal 10 al 20 per cento” e rilevando “alcuni aspetti discutibili per quanto riguarda la stima della resistenza del calcestruzzo”, né loro due né altri componenti del comitato hanno ritenuto di dover prescrivere misure di sicurezza come la deviazione del traffico pesante e la riduzione delle corsie di marcia in attesa del completamento dei lavori. Esattamente come era invece accaduto prima delle opere di rinforzo realizzate circa vent'anni fa. Il terzo tra i sei commissari è, come si scopre oggi ma per ragioni diverse, il dirigente della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali. L'ingegner Santoro, insieme con numerosi altri colleghi, appare nell'elenco del ministero delle Infrastrutture per gli “Incarichi autorizzati e conferiti ai dipendenti nel corso dell'anno 2009”. La sua è una prestazione professionale per “Direzione e coordinamento lavori, collaudo e manutenzione opere pubbliche”. L'incarico, iniziato il 30 ottobre 2009 e terminato il 30 ottobre 2012, è stato retribuito al dirigente da “Autostrade per l'Italia” con un importo di cinquantamila euro. A questo si aggiunge un secondo conferimento che appare nella lista delle autorizzazioni del ministero per il 2010. Si tratta di un incarico analogo per direzione e collaudo dal 13 gennaio 2010 al 13 gennaio 2013 per un ulteriore compenso di ventimila euro. Un totale di settantamila euro in quattro anni. L'elenco del 2009 indica il valore del compenso come “importo previsto” e la cifra “0,00” alla voce “importo erogato”: poiché, come spiegano al ministero, al momento della pubblicazione non era stato ancora comunicato il saldo e la lista non è più stata aggiornata. A distanza di anni si suppone che la parcella professionale sia stata comunque versata ma, interpellato da L'Espresso, l'ingegnere non ha voluto rilasciare commenti. In quegli anni Santoro è contemporaneamente in servizio al Consiglio superiore dei lavori pubblici dove è stato segretario della prima sezione che si occupa tra l'altro dei pareri sui progetti di infrastrutture strategiche pubbliche o private di preminente interesse nazionale, relatore di pareri dell'assemblea generale del Consiglio, coordinatore tecnico e anche consigliere della quinta sezione specializzata in infrastrutture stradali. Gli incarichi professionali non vengono conferiti al superamento di concorsi pubblici aperti a tutti ma grazie ai buoni rapporti personali tra dirigenti e aziende private, in questo caso “Autostrade per l'Italia”, società che appartiene alla galassia della famiglia Benetton. Si tratta di attività legali e autorizzate dal ministero. Non sappiamo però se, al momento della nomina nella commissione d'inchiesta, Bruno Santoro abbia informato il ministro del suo passato rapporto professionale per settantamila euro con l'azienda su cui dovrebbe oggi indagare. L'ingegner Santoro infatti non ha voluto rispondere alle domande de L'Espresso. Al suo posto, è intervenuto l'ufficio stampa del ministero di Danilo Toninelli: «Gli incarichi», è scritto nell'email di risposta, «sono stati regolarmente autorizzati anni fa dall'amministrazione all'epoca in cui l'ingegner Santoro era in servizio presso il Consiglio superiore dei lavori pubblici. L'ingegner Bruno Santoro è dirigente della Divisione 1 della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali dal 23 marzo u.s., divisione che non ha alcuna competenza su tali progetti di manutenzione straordinaria. Per ogni ulteriore informazione sull'operato della commissione si rivolga al presidente della stessa (l'architetto Ferrazza, ndr) in quanto, come ben saprà, la commissione è tenuta alla riservatezza». Sarà insomma il governo del cambiamento. Ma si continua con il vecchio scaricabarile.

Caos in commissione Mit, via Ferrazza e Brencich dopo "scandalo verbale". Il viadotto sarà demolito: Autostrade ha 5 giorni di tempo per decidere come. Ponte Morandi, l'esperto "Ecco come sarà abbattuto". Operazione complessa “Tempi molto lunghi”. Scrive il 25 agosto 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario".

Il ponte Morandi di Genova, o quel che ne resta, verrà abbattuto, anche se quando e con quali tecniche è difficile prevederlo. Per cercare di fare un po’ di chiarezza, Quotidiano.net ha interpellato Ivan Poroli, ingegnere nonché coordinatore della commissione tecnica di Nad, associazione italiana demolitori. «Ci sono tre scenari possibili – racconta in merito alla demolizione del viadotto - l’esplosivo è quel che viene in mente a tutti, la soluzione che si vede in tv. Ma oggi ci sono anche tecniche diverse: escavatori radiocomandati o martinetti idraulici, per indurre un crollo controllato. Si potranno usare più metodologie insieme, perché ogni pezzo di ponte ha la sua storia». Poroli sottolinea come l’iter per le demolizioni in Italia sia molto lungo a causa dei soliti cavilli burocratici, «In condizioni normali – spiega - per trovare l’esplosivo e posizionarlo, ci vogliono dai 30 ai 90 giorni. Tutto dipende dalla prefettura. Poi c’è da mettere in conto un lavoro preliminare: bisogna praticare i fori, posizionare le cariche. Operazioni che richiedono almeno qualche settimana». Insomma, il Morandi starà “su” ancora per un bel po’, almeno fino alla fine di settembre/inizio ottobre. Di certo sarà un fatto senza precedenti: «Un ponte strallato in cemento precompresso a mia memoria non è mai stato demolito – conclude l’esperto - al suo interno ha elementi metallici che sono tesi. Potrebbero esserci colpi di frusta e liberazione di energia non facilmente prevedibile. Quindi una proiezione di cemento anche a distanze importanti». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

PRESSIONE SU TONINELLI. Un componente dimissionario e l’altro attualmente sollevato dall’incarico. Monta sul Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, la pressione da parte delle opposizioni dopo che in pratica la Commissione nominata proprio dal Mit per indagare sulle cause del crollo del Ponte Morandi a Genova perde due pezzi non da poco, ufficialmente per ragioni di opportunità politica e di conflitto di interesse, dato momento che del verbale redatto ad aprile 2018 in cui veniva chiesto un parere in merito alla ristrutturazione facevano parte gli stessi Antonio Brencich e Roberto Ferrazza. Il primo, in una nota, ha voluto spazzare comunque il campo da qualsiasi illazione spiegando che le dimissioni sono una scelta propria: “Ho deciso il passo indietro con serenità e di mia iniziativa, per permettere alla Commissione di lavorare con serenità” fa sapere Brencich, mettendo a tacere possibili dietrologie e ribadendo di non avere ricevuto pressioni da nessuno. Differente la posizione invece di Ferrazza, il cui incarico è stato revocato dagli stessi vertici del MIT per ragioni di opportunità. Dal canto suo, lo stesso dicastero presieduto da Toninelli ha ringraziato Brencich “per il lavoro fin qui svolto”, elogiandole la professionalità e poi annunciando che a subentrargli nella suddetta commissione sarà Alfredo Mortellaro. (agg. di R. G. Flore)

PD ALL'ATTACCO DI TONINELLI. Il Partito Democratico attacca il Ministro Toninelli per il caos generato nella Commissione Mit: non tanto il “defenestramento” di Ferrazza, quanto piuttosto l’aver scelto le stesse persone che da mesi lavoravano sul ponte Morandi e non sono riuscite ad impedire la tragedia. «Toninelli sulla vicenda del crollo di ponte Morandi ha dimostrato totale inadeguatezza: prima dichiara che la Gronda è un’opera da rimettere in discussione, poi nomina una commissione d’inchiesta senza verificare le attività pregresse svolte dagli stessi membri, infine li rimuove senza ammettere di avere sbagliato. Il tutto rimanendo rigorosamente in vacanza mentre 177 persone vengono prese in ostaggio a Catania e Genova sta vivendo con il crollo del ponte la più grande tragedia degli ultimi decenni», scrive la parlamentare Raffaella Paita, ex candidata alla Regione Liguria per il Centrosinistra. Nel frattempo monta un’altra polemica, questa volta sul fronte pedaggi e dunque contro Autostrade per l’Italia: la famiglia Benetton ha mantenuto la promessa di rendere gratuito il pedaggio nella rete urbana di Genova proprio per venire incontro ai disagi per merci, tir e privati nel passare all’interno degli ingorghi provocati dal crollo del Morandi. Il problema è che, spiega il Giornale, vi sono diversi automobilisti provenienti da zone limitrofe a Genova che hanno denunciato di avere pagato il pedaggio: tradotto, l’Autostrada ligure è gratis ma solo per chi entra ed esce dai caselli genovesi (da Genova Pra’ a Genova Aeroporto e da Genova Bolzaneto a Genova Ovest ed Est), per chi viene da fuori (ovvero quasi tutti, specie per camion e tir) il pedaggio è ancora in pagamento. 

PERCHÈ FERRAZZA E BRENCICH NON SONO PIÙ NELLA COMMISSIONE. Ma perchè Brencich e soprattutto Ferrazza sarebbero stati "tolti" dalla Commissione Mit (il primo, va detto, si è dimissionato da solo, ndr) dopo le polemiche di questi giorni? Per cercare di capire meglio cosa stia succedendo, gli organi di stampa rilevano i contenuti del Comitato Tecnico delle Opere Pubbliche, diretto proprio da Ferrazza, solo qualche mese fa: «Indagini sperimentali e monitoraggio appaiono completi ma si rilevano alcuni aspetti discutibili per quanto riguarda la stima della resistenza del calcestruzzo e in particolare il metodo Sonreb-Win è scientificamente ormai ritenuto fallace»; in questo passaggio, sottolinea il Secolo XIX, forse sta il vero motivo della revoca di Ferrazza dalla Commissione Mit. In quelle stesse conclusioni il Comitato parlava di elementi altamente discutibili per quanto riguarda «la stima della resistenza del calcestruzzo e mette in evidenza che non vien precisato il tipo di tassello per il test di pull out che serve per sondare la resistenza del calcestruzzo». All’interno di quella lista di esperti e ingegneri che presentavano ad Autostrade i problemi relativi al Morandi diversi mesi prima del crollo, facevano parte anche Msssimiliano Giacobbi, di Spea Engineering (società del gruppo Atlantia) e Paolo Strazzullo, proprio di Autostrade per l’Italia. 

FERRAZZA: “MIT NON MI HA COMUNICATO NULLA”. Fa ancora molto discutere la decisione del Ministro Tonineli di “decapitare” la Commissione ispettiva sul Ponte Morandi, specie perché il diretto interessato pare che non abbia ancora ricevuto alcuna comunicazione dallo stesso Mit: «Anch’io vorrei cercare di capire. Ma prima di parlare dovrei ricevere una comunicazione del ministero, cosa che ancora non c’è stata», ha spiegato Roberto Ferrazza, fino a ieri il presidente della Commissione Mit oltre che provveditore delle opere pubbliche di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta. Oggi Ferrazza parteciperà ad una riunione in prefettura «con una disposizione d’animo aperta e serena sia pure con un ruolo che è messo in discussione se non revocato». Se i motivi della revoca di quel ruolo sono da cercarsi nelle polemiche sorte sulla presenza di diversi uomini della Commissione diversi mesi prima del crollo proprio nei board che avrebbero dovuto decidere in merito per una manutenzione - ovvero avrebbero dovuto intimare Autostrade per l’Italia a svolgere i controlli necessari - è anche vero che Toninelli al momento non ha comunicato la sua decisione a chi avrebbe dovuto essere il primo ad esserne informato. Brencich invece ha spiegato così, ai colleghi di Genova, le sue dimissioni: «ragione di opportunità. Lo volevo fare già quattro giorni fa. Su questa vicenda si è alzata una questione politica, con la quale non ho nulla a che fare. Quindi, per ragioni di serietà, mi sono dimesso». 

DECAPITATA COMMISSIONE MIT: VIA FERRAZZA E BRENCICH. È caos completo, a soli 10 giorni dalla tragedia del ponte Morandi crollato a Genova, nella commissione del Ministero delle Infrastrutture: in pratica ieri sera il Mit ha “decapitato” la parte direttiva della stessa, pensionando anzitempo il presidente Luigi Ferrazza e accettando le dimissioni (imposte o spontanee, non lo sapremo mai) dell’ingegnere e docente Antonio Brencich, quello stesso che diversi anni fa allarmò i genovesi spiegando che il viadotto Morandi era “malato”. La nota del Ministro Toninelli spiega in maniera asettica, come giusto che sia, la decisione che però appare molto più roboante di quanto sembra: «il ministro Danilo Toninelli allo stesso tempo - ovvero dopo le dimissioni presentate da Brencich - ha dato mandato per la revoca dall’incarico di presidente della stessa commissione per l’architetto Roberto Ferrazza, secondo ragioni di opportunità in relazione a tutte le istituzioni coinvolte in questa vicenda. Contestualmente - conclude il Ministero - sarà a breve aggiunto all’organico della commissione ispettiva del Mit Alfredo Principio Mortellaro. Dirigente del Consiglio superiore dei lavori pubblici». I due facevano parte di quelle riunioni nello scorso febbraio in cui si parlava già dello stato di corrosione e pericolosità del Morandi, come svelato dall’Espresso nei giorni scorsi, e probabilmente le polemiche in merito che ne sono scaturite e la possibilità che entrambi vengano sentiti dalla Procura di Genova durante il piano importantissimo di ricostruzione ha portato il Mit ha decidere per la “decapitazione” delle due cariche.

LE DENUNCE DELLE VITTIME. Intanto ieri è stato il giorno importante (qui tutti i dettagli) del vertice Regione-Autostrade, dove il Commissario Toti ha ottenuto dai vertici di Aspi una promessa sul piano di demolizione (o messa in sicurezza, sarà ancora da stabilire): «Il Ponte Morandi lo abbatteremo sicuramente: non tutto nello stesso momento, ma secondo quanto verrà stabilito in più riprese. […] L’intero ponte sarà demolito, ma non è detto che venga usato l’esplosivo. E qualora venisse usato non sappiamo dire come impatterà sulle abitazioni sottostanti» ha spiegato il Governatore ligure ieri sera in conferenza stampa con il Sindaco Bucci. Come invece riporta il Secolo XIX, inizia a prendere forma una bozza delle nomine di costituzione di parte civile, giunte ieri sulla scrivania del sostituto procuratore Massimo Terrile: «In questo momento ci interessa solo un’indagine rapida e completa che permetta di ottenere giustizia per la morte dei nostri cari. Su quell’auto c’era mio nipote, suo padre e sua madre: una famiglia intera», sono le parole della famiglia Robbiano, con nonna e zia del piccolo Samuele (morto sul Morandi assieme a mamma Ersilia e papà Roberto, ndr) che rivendicano giustizia. « I magistrati ipotizzano almeno centoncinquanta solo tra i parenti delle vittime tra cui anche alcuni stranieri. A queste vanno aggiunte anche altre persone che possono aver subito gravi danni dal crollo», riportano i colleghi del Secolo, in attesa che Comune e Regione decidano in merito al costituirsi parti civili nel processo sulla strage genovese.

Crollo Genova, anche la Vigilanza del ministero sapeva del degrado del ponte: ecco la prova. Una lettera coinvolge l'ufficio di Roma da cui Toninelli ha scelto tre dei cinque membri della commissione d'inchiesta. Rimossi Ferrazza e Brencich, nominato un ex 007 del Sisde: ma è un esperto di informatica, scrive Fabrizio Gatti il 24 agosto 2018 su "L'Espresso". Per capire qualcosa sul crollo del ponte di Genova, il ministro Danilo Toninelli ha ora spedito un informatico. Alfredo Principio Mortellaro, 66 anni, ex agente segreto del Sisde, è stato inserito ieri sera nella commissione d'inchiesta dal ministro delle Infrastrutture, che nelle stesse ore ha revocato l'incarico di presidente e commissario a Roberto Ferrazza, provveditore alle opere pubbliche di Piemonte-Valle d'Aosta-Liguria. Contemporaneamente si è dimesso anche Antonio Brencich, professore associato di ingegneria all'Università di Genova. La decisione è stata presa dopo che L'Espresso ha scoperto che sia Ferrazza, sia Brencich il primo febbraio scorso avevano firmato il verbale del comitato tecnico amministrativo con cui il ministero ammetteva di conoscere il degrado del viadotto, approvava il progetto di ristrutturazione di società Autostrade per l'Italia: ma non prescriveva nessuna misura di sicurezza, come la riduzione del traffico. Il dettaglio che spicca dal curriculum di Principio Mortellaro, ingegnere meccanico laureato al Politecnico di Torino nel 1980, è che comunque non si è mai occupato né di progettazione, né di costruzione, né di demolizione di ponti. Con lui salgono ora a tre su cinque i commissari che Danilo Toninelli ha scelto dalla Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali: è lo stesso organismo ministeriale di sorveglianza su convenzioni e sicurezza che in febbraio aveva ricevuto il verbale del comitato tecnico amministrativo firmato da Ferrazza e Brencich e, visto che il viadotto è crollato, non sembra aver particolarmente vigilato sulle sue condizioni. La prova che anche la Direzione generale fosse a conoscenza del degrado del ponte Morandi, è la nota di trasmissione del verbale inviata dal provveditore di Genova, che pubblichiamo qui sopra. Dal 27 ottobre 2017 Principio Mortellaro è reggente funzione dirigenziale della “Divisione 6 – Analisi piani tariffari e adeguamento tariffario annuale”. Stesso ufficio e stessa divisione dell'altro commissario, Michele Franzese, 56 anni, ingegnere civile. Il terzo commissario preso dal ministro dalla Direzione generale per la vigilanza è Bruno Santoro, 50 anni, ingegnere civile, dirigente della “Divisione 1 – vigilanza tecnica e operativa della rete autostradale in concessione”. Sono stati tutti e tre promossi nelle loro posizioni ministeriali da Vincenzo Cinelli, 60 anni, laurea in scienze politiche, il capo della Direzione generale per la vigilanza sulle concessioni autostradali nominato il 14 agosto 2017 dall'allora ministro per la Pubblica amministrazione, Maria Anna Madia, su proposta dell'allora ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio. Il commissario Santoro dal 2009 al 2013, quando era in servizio al Consiglio superiore dei lavori pubblici, ha ricevuto da Autostrade per l'Italia, la società concessionaria su cui sta ora indagando, due incarichi professionali ad personam autorizzati dal ministero per un totale di settantamila euro. È questa l'armata ministeriale che dovrà curare gli interessi dello Stato e dei contribuenti nella lunga battaglia legale e tecnica che si preannuncia contro la società Autostrade, accusata dal governo di Giuseppe Conte di non aver provveduto alla corretta manutenzione del viadotto. E quindi di essere l'unica responsabile del disastro che la mattina del 14 agosto ha ucciso 43 persone. Alfredo Principio Mortellaro è un ex agente segreto del Sisde. Dal 1988 all'89, anni finali della Guerra fredda, ha lavorato nella Divisione informatica della Presidenza del Consiglio, come responsabile del nucleo di manutenzione delle apparecchiature elettroniche per le trasmissioni cifrate e addetto alla sicurezza dei dati. Fino al 1994 si è poi occupato di “attività di controllo sulle esportazioni di beni di altissima tecnologia e dei materiali di armamento, nonché in ambito nazionale... di controllo antiproliferazione dei mezzi di distruzione di massa”. Il futuro investigatore del ministro Toninelli, sempre come dipendente dei servizi segreti, ha poi diretto la logistica e la motorizzazione. Dal Sisde nel 2006 viene trasferito al Consiglio superiore dei lavori pubblici, nel ministero delle Infrastrutture. Carriera da 007 finita, stipendio decimato. La causa della rimozione, secondo lui, è la famosa Cricca dell'alto dirigente del ministero, Angelo Balducci e del costruttore Diego Anemone, indagati per corruzione e condannati a febbraio 2018 in primo grado rispettivamente a sei anni e sei mesi e a sei anni di reclusione. Convocato in Procura a Perugia come testimone sull'attività di Balducci e Anemone, Principio Mortellaro chiama in causa il direttore del Sisde, il prefetto Mario Mori: «Il prefetto Mori ebbe modo più volte di esprimere giudizi negativi su Balducci che aveva, a suo dire, lavorato in modo non regolare; d'un tratto il suo giudizio cambiò e passò per un vero salvatore della patria». Mori non deve averla presa bene. L'ex agente segreto riappare quindi come parte civile al processo contro gli imputati della Cricca, che lui accusa di avergli rovinato la carriera. Il suo curriculum illustra anche le sue doti di “esperto per il settore impiantistica con compiti di vigilanza”. Al ministero delle Infrastrutture nel 2011 entra nell'Albo temporaneo degli ispettori. Lo mandano a occuparsi di gallerie. Una materia non proprio vicina al suo percorso di ingegnere meccanico, specializzato in informatica. Ma già nel 1981 ad Avellino, nella ricostruzione del dopo terremoto in Irpinia, aveva firmato un intervento di ingegneria civile con il “progetto definitivo di un nuovo impianto industriale per la produzione di caldaie a doppio focolare”. Già, ma tutto questo con i ponti cosa c'entra? Nel comunicare la nomina, il ministro Toninelli non ha fornito spiegazioni. I tre commissari della Direzione generale per la vigilanza affiancano così il professor Ivo Vanzi, 52 anni, ingegnere strutturista componente esperto del Consiglio superiore dei lavori pubblici, e il tecnico del ministero Gianluca Ievolella, 62 anni, consigliere di supporto del presidente dello stesso Consiglio e a sua volta dirigente e ingegnere idraulico, come rivela il suo curriculum ministeriale: «37 anni di esperienza nel settore marittimo, portuale e dell'ingegneria pubblica in generale». Chissà, forse per il ministro tra ponti e pontili non c'è nessuna differenza.

Ponte Morandi, la corsa ad ostacoli della Commissione istituita dal Mit. Una commissione nata zoppa, con le dimissioni di Brencich e Santoro e la revoca dell’incarico al presidente Roberto Ferrazza: si attendono i primi risultati del pool di esperti, scrive Roberto Di Sanzo l'11 settembre 2018 su "Ingegneri.info". Il sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti, Edoardo Rixi, spera che già entro la metà di settembre, comunque prima della Legge finanziaria, possa essere varata una norma speciale per Genova, colpita dal crollo del ponte Morandi. Questo è un tentativo evidente, da parte del Governo, di snellire e velocizzare l’iter procedurale per gli interventi sul ponte. E intanto continua a muoversi ‘l’apparato burocratico’ incaricato per far fronte all’emergenza: la commissione di esperti che dovrà coadiuvare tutte le decisioni del commissario delegato per il superamento dell’emergenza Giovanni Toti e del sindaco di Genova Marco Bucci, è stata integrata con un nuovo profilo di assoluto spessore, il professor Pietro Croce, associato di Tecnica delle Costruzioni e Teoria di progetto dei ponti dell’Università di Pisa. L’obiettivo del sottosegretario Rixi è piuttosto chiaro: “Inserire in una legge attuale una norma esclusiva per Genova per fare in modo di avere ancora meno tempi morti. Noi speriamo entro metà di questo mese di essere in grado di dare risposte concrete”. Rixi ha inoltre allargato il discorso: “Genova deve rappresentare una chiave di volta per il sistema paese nel modo in cui si affrontano determinate situazioni. L’Italia è dotata di grandissime energie che devono essere in grado di sprigionarsi. Pubblico e privato devono lavorare assieme, come parte di una stessa comunità, e non uno contro l’altro”. Il sottosegretario ha detto inoltre che con la Finanziaria saranno sbloccati fondi, che “ci sono già, per mettere in sicurezza ponti e strade”. Bisogna inoltre “fare un monitoraggio, che non è mai stato fatto, sulle infrastrutture del paese. Useremo anche un sistema satellitare utilizzato finora solo per gli edifici storici. Il problema oggi è poter valutare in tempo reale la situazione di ogni singola opera”. Anche perché quella di Genova è una tragedia che “non deve più ripetersi. Oltre a creare un danno enorme alle vittime e alle loro famiglie crea anche un danno enorme di immagine alla nazione, che appare come non in grado di controllare in maniera remota lo stato delle proprie infrastrutture”.

La travagliata Commissione degli Esperti. Ha poche settimane di vita ma già una storia piuttosto travagliata la Commissione istituita dal Ministero delle Infrastrutture “per svolgere verifiche e analisi tecniche sul crollo” del Viadotto Polcevera nel tratto dell’Autostrada A10 di collegamento con l’Autostrada A7. La Commissione, costituita con decreto del 14 agosto 2018, era composta originariamente dall’architetto Roberto Ferrazza, provveditore alle opere pubbliche per il Piemonte, Liguria e Val d’Aosta, con funzioni di Presidente; dai professori Ivo Vanzi, Componente esperto del Consiglio superiore dei lavori pubblici, e Antonio Brencich, professore associato dell’Università degli studi di Genova; dagli Ingegneri Gianluca Ievolella, Consigliere di supporto al Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici; Michele Franzese e Bruno Santoro, Dirigenti tecnici della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali. C’è stato un vero e proprio terremoto – è proprio il caso di dirlo -, con le dimissioni di Antonio Brencich e la revoca, da parte del ministro Danilo Toninelli, dell’incarico di presidente della Commissione per l’architetto Roberto Ferrazza, “secondo ragioni di opportunità in relazione a tutte le istituzioni coinvolte in questa vicenda”, si legge in una nota ufficiale del Ministero. Ultimo a venir meno nella commissione è un altro tecnico nominato dal ministro Toninelli, Bruno Santoro, che ha presentato le sue dimissioni dopo essere stato informato dell’indagine a suo carico da parte della Procura di Genova per omicidio colposo, disastro colposo e omicidio stradale per due consulenze a sua firma effettuate negli anni scorsi per Autostrade. Anche Brencich e Ferrazza risultano tra gli indagati. Le ragioni di opportunità? Un possibile conflitto di interessi, in quanto Ferrazza era a capo della commissione del Provveditorato che lo scorso febbraio approvò, pur con alcuni rilievi, il progetto di ristrutturazione del ponte presentato da Autostrade. Al pm, Ferrazza ha ribadito quanto già detto nei giorni scorsi: “In nessuna circostanza ufficiale mi fu mai presentato un quadro di gravità tale che poteva fare pensare alla chiusura, totale o parziale, del Morandi”. Un conflitto di interessi che riguarda anche Antonio Brencich. Nella Commissione, dunque, ecco entrare Alfredo Principio Mortellaro, a lungo ingegnere capo al Sisde, 66 anni, una laurea in ingegneria conseguita nel 1980 al Politecnico di Torino: guida l’ufficio del Mit che sorveglia le concessioni autostradali. Ma non è finita: il pool di tecnici ha oggi al suo interno il professore Pietro Croce, reclamato a gran voce direttamente dal presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, Massimo Sessa. Nato a Foggia nel 1957, Croce è membro di numerose commissioni e gruppi di esperti nazionali e internazionali ed è presidente (Convenor) dell’HGB (Horizontal Group Bridges) del CEN/TC250 che coordina tutti gli Eurocodici strutturali relativi ai ponti. Attualmente dirige la convenzione di ricerca tra il dipartimento di Ingegneria civile e industriale dell’Ateneo pisano e il Comune di Firenze relativa alla “Verifica di vulnerabilità sismica e delle condizioni di sicurezza strutturale del patrimonio immobiliare scolastico e di complessi sportivi”, che interessa circa 80 edifici scolastici, oltre al Pala Mandela e alla Piscina Costoli. Una Commissione nata zoppa in seguito a quel verbale datato 1 febbraio 2018 e consegnato al Comitato tecnico amministrativo del Provveditorato interregionale O.O.P.P. (Opere Pubbliche) Piemonte-Valle d’Aosta-Liguria del MIT (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) nel quale si parla di “larghe lesioni verticali con estese risonanze in quasi tutte le pile”. L’inchiesta in atto parte da una possibile accusa nei confronti di chi doveva prendere la decisione di chiudere il ponte: si parla di inerzia, di ritardi che hanno portato a decidere di ‘non decidere’. Una vicenda intricata e complessa, certamente con una burocrazia preoccupata innanzitutto delle proprie posizioni e che preferì la purtroppo nota “politica del rimando” alla necessaria azione tempestiva di interessare organismi più in alto che avrebbero condotto accertamenti tecnici più approfonditi. Con la chiusura del ponte, naturalmente.

Nel rispetto delle povere vittime incolpevoli ed inconsapevoli e dei loro familiari di un grande tragedia nazionale, scrive il 19 agosto 2018 Edoardo Cosenza, professore universitario Componente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, riportato da "Il Corriere del Giorno". Il pensiero senza filtri del Prof. Cosenza, componente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il massimo organismo tecnico del MIT, e quindi dello Stato assolutamente da leggere per capire meglio il crollo del Ponte Morandi. Nessuno, dico nessuno, ha il diritto di avanzare ipotesi senza questi studi. Nel rispetto delle povere vittime incolpevoli ed inconsapevoli e dei loro familiari di questa grande tragedia nazionale. Ho subito deciso di non partecipare al dibattito mediatico e mi avevano cercato persino BBC e TV tedesca. E soprattutto ho deciso di non avere ruoli nelle varie Commissioni. Sono un Componente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il massimo organismo tecnico del MIT – e quindi dello Stato – e ritengo giusto non avere ruoli di parte. Affido solo alla mia modesta pagina Facebook qualche considerazione, senza filtri. Ed allora vorrei dire anche io qualcosa sul crollo. Non c’è dubbio che la crisi di uno strallo porta rapidamente al collasso dell’intero cavalletto e delle campate adiacenti. Il sistema nasce per essere fortemente compresso dagli stralli, una elevatissima compressione quasi centrata che fa lavorare in condizioni ottimali il calcestruzzo. Le piccole eccentricità che nascono per non simmetrie di carico o di altro, non credo che portino in trazione il calcestruzzo, nelle condizioni di progetto. Ovviamente la soletta da ponte invece è inflessa e perciò è stata precompressa. Con questo comportamento, praticamente pendolare, il collasso di uno o più stralli porta ad una rottura complessiva rapidissima. Nessun elemento è in grado di portare le enormi flessioni ed a catena, in frazioni temporali rapidissime, cede tutto. Con termini più moderni si direbbe che è una delle tante strutture “fragili” esistenti al Mondo, o con terminologia ancora più recente, “Poco Robusta”.  Ma questi ultimi sono requisiti che anche alle strutture moderne vengono chiesti da pochi anni con le nuove Norme Tecniche. E che non si possono chiedere a certi tipi di strutture anche usatissime oggi; su questo punto non mi posso soffermare. Dunque il cedimento di uno strallo equivale ad un arresto cardiaco. Ma il ponte è deceduto per arresto cardiaco? Con questa dizione medica che noi riteniamo un poco banale che alla fine non chiarisce? È chiaro che se c’è arresto cardiaco il paziente muore, ma perché c’è stato l’arresto? Cioè tornando ai termini ingegneristici, perché ha ceduto uno o più stralli? E il cedimento è una causa o un effetto? E quí viene la parte che merita silenzio. Perché può esserci stata corrosione degli stralli non prevista e non vista; oppure tensioni negli stralli da fatica ciclica troppo elevata; oppure cedimento improvviso del vincolo fra strallo e soletta; oppure vibrazioni da vento e pioggia (addirittura qualcuno ha parlato di fulmine) che hanno portato a sollecitazioni negli stralli assolutamente anomale; oppure ci sono stati cedimenti improvvise delle campate appoggiate sulle selle che hanno portato ad azioni flessionali dinamiche inaccettabili sul sistema strallato; oppure una combinazione delle cose che ho enunciato; oppure tanto altro ancora che adesso non mi viene in mente…E perciò il silenzio. Solo analisi approfondite e complessive su: progetto eseguito, filmati disponibili, parti strutturali rimaste, materiali nello stato di vecchiaia attuale, condizioni di pioggia e di vento prima del crollo, magari prove su modelli, ecc ecc potranno far arrivare alle necessarie conclusioni. Che dovranno essere affidabili e che non dovranno lasciare dubbi. Nessuno, dico nessuno, ha il diritto di avanzare ipotesi senza questi studi. Nel rispetto delle povere vittime incolpevoli ed inconsapevoli e dei loro familiari di questa grande tragedia nazionale. A chi ha avuto la pazienza di arrivare fino in fondo di questo post di lunghezza eccessiva rispetto agli standard di Facebook ed al tempo di attenzione dei lettori, chiedo un ulteriore sforzo: Non mi chiedete altro. IO NON SO COSA SIA SUCCESSO e se me lo chiedete vuol dire che non avete compreso, certamente per mia poca chiarezza, quello che è scritto in questo post.

Genova, Ponte Morandi e il nodo delle infrastrutture. Una città sempre in emergenza, dove manca la pianificazione. Le conseguenze sull'economia, scrive Marta Buonadonna il 14 agosto 2018 su "Panorama". "Si rimane attoniti nel vedere un paese come l'Italia, una città come Genova, colpiti da tragedie che si potrebbero far risalire a un altro secolo. Le vere emergenze oggi in Italia si chiamano 'sicurezza' delle infrastrutture e 'dissesto idrogeologico'". Commenta così a caldo la tragedia del Ponte Morandi Santo Grammatico, Presidente di Legambiente Liguria. Che con Panorama.it condivide qualche considerazione sul crollo del viadotto e sul suo impatto sulla città e sulla regione.

Problemi annunciati. "E' molto complicato fare considerazioni adesso, perché si tratta di un'opera ingegneristica, quindi dovranno essere fatte valutazioni strutturali e tecniche. Certamente quello che si conosce della storia del ponte è che era un ponte degli anni '60 e che ha sempre avuto delle problematiche". Grammatico ricorda le continue manutenzioni, e più in generale la sensazione che si aveva passandoci sopra di irregolarità, "un saliscendi un po' strano". "Questo crollo fa tornare a tutti noi che lo abbiamo attraversato molte volte la memoria di questa sensazione", l'impressione che qualcosa non andasse. "Mi vengono i brividi" commenta Grammatico, "a pensare che quel ponte in un qualunque giorno lavorativo avrebbe avuto ancora più traffico che non alla vigilia di Ferragosto". Nel disastro, aggiunge il presidente di Legambiene Liguria, "dobbiamo anche rilevare che la gran parte del crollo è avvenuta nell'alveo del torrente Polcevera. Avrebbe potuto cadere una porzione diversa su case e palazzi e allora sarebbe stata una tragedia ancora più immane".

Il ruolo del meteo. Tra le testimonianze c'è anche quella di chi sostiene di aver visto un fulmine colpire un pilone prima del crollo. A Genova ha piovuto questa mattina, ma secondo i dati dell'Arpa Liguria, provenienti dal pluviometro in zona Fiumara, a poche centinaia di metri di distanza dal viadotto, si è trattato di una precipitazione moderata. Poco meno di 30 mm di pioggia tra le 11 e le 12 di questa mattina, con un picco di 12,20 tra le 11:35 e le 11:40, più o meno l'ora del crollo. Tutta quella pioggia in 5 minuti rappresenta un bel rovescio, se ti cadono in testa sembra un nubifragio, ma è durato davvero molto poco, spiegano all'Arpal. Tanto per farvi un'idea, nelle alluvioni che hanno colpito Genova nel 2011 e nel 2014 sono caduti rispettivamente 180 mm/h e 140 mm/h di pioggia, quindi niente a che vedere. 

E il vento? La misurazione più vicina in realtà vicina non è, perché è stata fatta al Porto Antico, nel centro città. Lì l'anemometro ha misurato alle 11:40 una singola raffica da 55,80 km/h, quindi vento forte ma non una burrasca e nemmeno un uragano. Chi vive a Genova, città notoriamente molto ventosa, è abituato a ben altri valori. Per Grammatico si tratta comunque di ricostruzioni fantasiose: "Il nostro sistema infrastrutturale è debole, ma che sia così debole da poter essere messo in discussione da un temporale mi pare davvero troppo". E il viceministro alle Infrastrutture, il genovese Edoardo Rixi, alla conferenza stampa in cui l'Arpal ha presentato questi dati ha confermato che "i ponti non crollano né per un fulmine né per un temporale". Per il presidente di Legambiente Liguria occorre comunque "ridiscutere il modello di sviluppo infrastrutturale nella regione. Il discorso della manutenzione di tutte le strutture è centrale. E' necessaria una pianificazione, capire quali sono le priorità, dove intervenire, con quali risorse, che devono essere ingenti, per mettere in sicurezza il territorio. Ma questo è un problema che riguarda tutto il paese".

Liguria spezzata. Il ponte che è crollato era di fatto una delle arterie fondamentali di comunicazione col Ponente e con la Francia. Dopo la triste conta dei morti, quindi, è chiaro che la vita della città e dell'intera regione non sarà più la stessa. Tra i genovesi sui social c'è già chi sostiene che il crollo del Ponte è l'11 settembre della città. Ci saranno un prima e un dopo. "Non siamo un paese in via di viluppo dove a volte accadono queste tragedie perché non c'è la tecnologia o non c'è la cultura", commenta Grammatico. "Sono immagini che si vedono arrivare da altri mondi. Ma è successo qui, e rischia di essere davvero una mazzata per l'economia della nostra città. Stiamo vivendo un periodo storico e culturale anche molto difficile. Immaginiamo perciò la difficoltà a sostenere dibattiti con elementi concreti, dati, scevri da interessi e speculazioni. In questo momento servirebbero delle competenze disinteressate". Intanto a collegarci alla Francia, oltre all'Aurelia, rimane per ora "un tratto ferroviario che in molti punti è a binario unico". E la gronda? Si torna a parlare, e sempre di più lo si farà nei prossimi giorni e settimane, della bretella autostradale da costruire più a nord, sulla quale far transitare il traffico pesante che non deve passare dalla città. "Noi siamo sempre stati contrari per diversi motivi, tra i quali il fatto che non la riteniamo utile a risolvere le problematiche di viabilità nel nodo genovese" precisa il Presidente di Legambiente Liguria. "Ma ci sono 4 miliardi stanziati e fermi: se si reindirizzassero per manutenzioni alla rete sarebbe secondo noi la scelta più adeguata". "La nostra regione, conclude Grammatico, "si dimostra in assoluta difficoltà su tanti fronti, dal dissesto idrogeologico alla gestione dei rifiuti alle infrastrutture: si ragiona sempre di emergenza in emergenza, senza mai pianificare davvero niente, mancano certezze. L'unica cosa certa è che una tragedia di questo tipo nel 2018 è incomprensibile".

Crollo ponte Genova: alibi inutili perché tutti sapevano. Allarmi inascoltati, dubbi sui tiranti. Il racconto: "Esplosione come bomba". Un colpo durissimo a una città già colpita negli ultimi anni da più eventi rovinosi e oggi spezzata in due, con danni gravissimi per tutta l’economia ligure, scrive Gian Antonio Stella il 14 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". È il quinto ponte in cinque anni che viene giù. Nel 2017 quello di Fossano che piombò su un’auto dei carabinieri, salvi per miracolo. Nel 2016 quello sulla superstrada di Annone Brianza. Nel 2015 quello sulla Palermo-Agrigento inaugurato sei giorni prima. Nel 2014 quello accanto alla sede Rai a Saxa Rubra e il Ponte Lungo a Ceto... Fatalità? Basta! Lo spiegò secoli fa Francesco Guicciardini: «Sono adunque gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città». Per carità, «quasi sempre». Solo la magistratura potrà dirci se nell’apocalisse di Genova ci siano o meno precise responsabilità umane, amministrative, politiche. Ma certo, per chi ha perduto un marito, una moglie, un fratello, un figlio in questa tragedia ripresa in diretta coi telefonini («Oddio! Oddio!») sarà difficile se non impossibile accettare certe rassicurazioni uscite in queste ore sul «quotidiano e scrupoloso monitoraggio» sulle condizioni strutturali del viadotto Morandi. Il cui crollo, tra l’altro, assesta un colpo durissimo a una città come quella della Lanterna già colpita negli ultimi anni da più eventi rovinosi e oggi spezzata in due, con danni gravissimi per tutta l’economia ligure.

Il monito nel 2012. Sì, magari c’entra davvero anche un fulmine caduto nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Mano a mano che escono nuove ricostruzioni, sbucano nuovi testimoni e riemergono varie denunce dal passato, però, monta la collera: c’era almeno un po’ di consapevolezza del pericolo? Ed ecco un articolo del Giornale, certamente non favorevole alla sinistra che allora aveva in pugno la Regione, la Provincia e la città che già nel 2006 titola: «Genova scioglie il “nodo” del groviglio autostradale» e spiega che «il Ponte Morandi sarà demolito e al suo posto sorgerà un nuovo viadotto». E poi un monito nel 2012 di Giovanni Calvini, all’epoca presidente della Confindustria genovese, che spiega al Secolo XIX la necessità di avviare i lavori per quella circonvallazione esterna di cui si parla da anni, la cosiddetta «Gronda», con parole incancellabili: «Perché guardi, quando tra dieci anni il Ponte Morandi crollerà, e tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore, ci ricorderemo il nome di chi adesso ha detto “no”». E poi ancora i video e le interviste del presidente della Provincia Alessandro Repetto che denunciavano il degrado del ponte: «Non vorrei far la parte dell’uccello del malaugurio…».

Il «piano viario non orizzontale». Per non dire dell’intervento di esperti come l’ingegnere Antonio Brencich, che nel 2016 disse a Radio Popolare: «Negli anni 90, molti genovesi se lo ricordano, il ponte ebbe una quantità di lavori enorme. Gli stralli di una campata sono stati affiancati da nuovi cavi di acciaio. Io non lo prenderei come un campanello d’allarme, ma è indice che hanno rilevato una corrosione molto più veloce di quella ipotizzata e hanno dovuto integrare la struttura originale per impedire che insorgessero delle condizioni di pericolo». Dopo di che aggiunse: «Non vorrei far passare il messaggio che ci sia un pericolo imminente. Se dopo 30 anni dalla costruzione si devono sostituire integralmente degli elementi strutturali, però, vuol dire che è un ponte sbagliato. Un ponte non deve durare centinaia di anni ma almeno 70-80-100 senza manutenzione di questo tipo. Abbiamo dei ponti in muratura che hanno 150-200 anni e nessuno li ha mai toccati». Lo stesso ingegnere, docente di costruzioni in cemento armato all’università di Genova, spiegava a Sara Frumento di ingegneri.info che non solo il ponte Morandi era stato costruito con un «piano viario non orizzontale» al punto che «chi percorreva il viadotto era costretto a fastidiosi alti-e-bassi» per anni, ma che solo «ripetute correzioni di livelletta» avevano aggiustato il piano viario «nelle attuali accettabili condizioni di semi-orizzontalità». Non bastasse, accusava, «alla luce della vita utile che dovrebbe avere una struttura del genere (almeno 100 anni)» era preoccupante che «fin dai primi decenni» il ponte fosse stato oggetto di manutenzioni così profonde che «tra non molti anni i costi di manutenzione supereranno i costi di ricostruzione del ponte: a quel punto sarà giunto il momento di demolire il ponte e ricostruirlo».

Il comunicato dei «No Gronda». Dice oggi il ministro per i Trasporti e le Infrastrutture Danilo Toninelli, che dovrà trovare una soluzione per rimediare nei tempi più brevi possibili al disastro dell’interruzione dell’unica via diretta tra Italia e Francia: «In questi 60 giorni di governo abbiamo dato immediatamente mandato di lavorare su manutenzione e messa in sicurezza dei viadotti e al loro monitoraggio attraverso dei sensori. Quasi tutti, costruiti tra gli anni 50 e 70 hanno bisogno di manutenzione ordinaria. Questo governo metterà i soldi proprio lì, per evitare che capitino ancora tragedie di questo tipo». Di più: «La manutenzione viene prima di tutto e i responsabili dovranno pagare fino all’ultimo». Parole d’oro. Che finiranno presto in secondo piano dopo la scoperta che, nei minuti successivi al crollo del viadotto, una manina ha cancellato un comunicato online targato M5S «Coordinamento dei comitati No Gronda», gli attivisti nemici acerrimi della nuova autostrada ligure. Comunicato che non si limitava a sparare a zero sul progetto con le parole di Beppe Grillo («Questa gente va fermata. Con l’esercito italiano. Perché l’esercito deve stare con gli italiani») ma ironizzava: «Ci viene poi raccontata, a turno, la favoletta dell’imminente crollo del Ponte Morandi, come ha fatto per ultimo anche l’ex presidente della Provincia, il quale dimostra chiaramente di non avere letto la Relazione Conclusiva del Dibattito Pubblico»...

Gli errori di calcolo. Favoletta... Sia chiaro: sarebbe un peccato se questa sciagurata superficialità polemica, un autogol che dovrebbe suggerire ai grillini un po’ di cautela in più prima di aprire bocca per spararla grossa, fosse cavalcata strumentalmente per mettere in ombra tutto il resto. Ma questa catastrofe potrebbe aiutare le due parti a ragionare in modo serio su temi seri. Senza risse pretestuose e volgari. Basti rileggere quanto diceva già nove anni fa lo studio «La Gronda di Genova» di Autostrade per l’Italia. E cioè che i calcoli fatti nei lontani anni Sessanta su quell’arteria ieri spezzata erano totalmente sbagliati: «Il tratto più trafficato è il viadotto Polcevera (Ponte Morandi) con 25,5 milioni di transiti l’anno, caratterizzato da un quadruplicamento del traffico negli ultimi 30 anni e destinato a crescere, anche in assenza di intervento, di un ulteriore 30% nei prossimi 30 anni». Davvero sarebbe bastata, per il futuro, una «manutenzione ordinaria con costi standard»?

Ponte Morandi, quegli allarmi inascoltati. Parla l'ingegnere Pisani, che curò i lavori al ponte Morandi nei primi anni Novanta: "Vollero solo alcuni tiranti, perché non hanno voluto rinforzare tutto il ponte?". Diversi gli allarmi degli esperti rimasti inascoltati, scrive Raffaello Binelli, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Da una vecchia foto scattata alcuni anni fa si vede bene che il ponte Morandi di Genova aveva due tipi di stralli (tiranti): quelli originari, in cemento armato, e quelli in acciaio realizzati nei primi anni Novanta alla pila 11. A cedere sono stati i primi. Lo stesso lavoro di manutenzione straordinaria era previsto per la pila 9 e la pila 10 (quella crollata è la 9) e a tal fine lo scorso maggio era stato fatto un bando da circa 20 milioni di euro. Oggi ci si interroga su quei lavori non fatti. E su alcune frasi pronunciate ufficialmente, che testimoniano la sottovalutazione del problema: "Al momento il viadotto non presenta alcun problema di carattere strutturale", disse il 23 ottobre 2017 in Consiglio regionale l’assessore alla Protezione civile Giacomo Giampedrone. Stava rispondendo ad una interrogazione di un consigliere che voleva dare voce alla preoccupazione degli abitanti delle case sotto al ponte. Ma come faceva l’assessore ad essere così sicuro della stabilità del ponte? Diceva di aver sentito personalmente le rassicurazioni di Stefano Marigliani: l’ingegnere affermava che va tutto bene e che"i lavori attualmente in corso sono opere manutentive, e sono in progetto due interventi di carattere strutturale da realizzarsi nel 2018 che consisteranno nell’installazione di stralli e impalcati per il rafforzamento della infrastruttura". Ma i tecnici consultati dalla stessa società Autostrade per l'Italia poche settimane dopo evidenziarono che c'erano dei problemi urgenti. Come scrive il Corriere della sera i professori Carmelo Gentile e Antonello Ruoccolo, del Politecnico di Milano, nella relazione consegnata alla società il 12 novembre segnalarono una "evidente" disparità di tenuta tra i tiranti. "In particolare gli stralli, ovvero i tiranti, del sistema numero 9 si presentano con una deformata modale non conforme alle attese e certamente meritevole di approfondimenti teorico-sperimentali". Non si conoscono le cause di questi problemi (corrosione, eccessivo stress cui era sottoposta la struttura, difetti al momento della costruzione) ma di sicuro andava fatto un intervento per correre ai ripari. Già altre volte erano stati lanciati degli allarmi, purtroppo rimasti inascoltati. Nel 2001 la professoressa Giovanna Franco, dell'Università di Genova, in uno studio per una rivista tecnica scriveva che "la fase diagnostica ha evidenziato una situazione ben più grave rispetto alle forme di degrado cui sono solitamente oggetto le infrastrutture realizzate con gli stessi materiali. Gli stralli, infatti, elementi generalmente tesi, sono in questo caso soggetti a compressione, così come la guaina di rivestimento in calcestruzzo". Questo dettaglio tecnico aveva causato un problema di non poco conto: non era stato possibile "effettuare alcuna operazione ispettiva sui trefoli di acciaio, le singole fibre del cavo interno, che in molti casi avevano già raggiunto lo snervamento". E più avanti la docente sottolineava che "numerosi trefoli erano tranciati o fortemente ossidati, altri erano visibilmente rilasciati lasciando supporre una loro rottura a valle". C'è poi un'altra domanda che pesa come un macigno. La pone l'ingegner Francesco Pisani, 84 anni, per 13 anni collaboratore di Riccardo Morandi, l'uomo che aveva progettato il ponte di Genova. Pisani ricorda quanto fu fatto nei primi anni Novanta: "Riparammo e rinforzammo solo gli stralli della pila 11. Un intervento mirato. Mi dissero che gli altri piloni erano in condizioni accettabili e sarebbero stati monitorati. Perché negli ultimi 25 anni non sono stati rinforzati come quello di cui mi sono occupato io? Questo dovete chiederlo ad Autostrade".

Ecco la crepa su Ponte Morandi due giorni prima del crollo. Su YouTube gira un video che mostra come, appena due giorni prima del crollo, vi fossero delle avvisaglie chiare che il ponte Morandi di Genova potesse crollare, scrive Francesco Curridori, Giovedì 16/08/2018, su "Il Giornale". Dopo gli allarmi inascoltati degli esperti e dei politici, ora su YouTube gira un video che mostra come, appena due giorni prima del crollo, vi fossero delle avvisaglie chiare che il ponte Morandi di Genova potesse crollare. Un filmato, girato da Michele Mulè della durata di 1minuto e 30, fa notare che già appena dopo 34 secondi vi sia una crepa verticale esattamente all'altezza del pilone crollato. In tanti, come si è scritto in questi giorni, avevano denunciato le cattive condizioni del ponte. Nel 2012 l'ex presidente di Confindustria Genova, Giovanni Calvini, profetizzava: "Tra dieci anni il Ponte Morandi crollerà", mentre l'ex parlamentare Maurizio Rossi di Scelta Civica, nel 2015, aveva presentato un'interrogazione parlamentare all'allora ministro dei Trasporti, Graziano Del Rio. Tutte voci inascoltate eppure secondo il professore Antonio Brencich, docente all'Università di Genova del corso di costruzioni in cemento armato, "la storia ha dimostrato delle carenze strutturali su Genova e Maracaibo, non solo oggi ma nel passato. Sono esempi di come non si progettano i ponti".

Ponte Morandi, due anni fa l'interrogazione del senatore di Genova: "Rischio concreto di chiusura", scrive il 14 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Sono diversi, fin troppi, i segnali che indicano come la tragedia del crollo del ponte Morandi fosse più che prevedibile. Oltre ai continui allarmi lanciati dagli esperti, come quello del prof. Antonio Brencich dell'università di Genova, anche i politici genovesi da tempo cercavano di far sentire la propria voce in Parlamento. Come il senatore Maurizio Rossi, eletto nel 2013 con Scelta Civica, che ben due anni fa aveva presentato un'interrogazione a risposta scritta al ministero delle Infrastrutture, all'epoca guidato dal Pd Graziano Delrio. Rossi rilanciava la questione della Gronda, l'autostrada alternativa a quel tratto della A10, osteggiato da anni da diversi comitati locali, sostenuti dal M5s: "Il viadotto di Polcevera dell'autostrada A10, chiamato ponte Morandi, è una imponente realizzazione lunga 1.182 metri, costituita su 3 piloni in cemento armato che raggiungono i 90 metri di altezza che collega l'autostrada Genova - Milano al tratto Genova - Ventimiglia, attraversando la città sulla Val Polcevera - si legge nell'interrogazione - recentemente, il ponte è stato oggetto di un preoccupante cedimento dei giunti che hanno reso necessaria un'opera straordinaria di manutenzione senza la quale è concreto il rischio di una sua chiusura". Nell'interrogazione, Rossi insisteva sulla necessità di un intervento rapido e di più "ampio respiro, i mancati lavori di realizzazione della Gronda, sommati alla possibile futura chiusura totale o parziale del ponte Morandi, determinerebbero inevitabilmente il collasso dell'intero sistema viario genovese". Quel progetto però era ancora fermo e il senatore chiedeva quindi: "i motivi per i quali il necessario iter amministrativo per la costruzione della Gronda di Genova è fermo da anni e quale sia il cronoprogramma fissato per proseguire celermente nell'opera, a quanto ammontano le somme ad oggi percepite dagli aumenti autostradali concordati all'epoca con società Autostrade e se le disponibilità finanziarie, finalizzate alla costruzione della Gronda di Genova e incassate in anticipo da società Autostrade, siano state utilizzate per altre finalità o se siano state accantonate per la realizzazione dell'opera". I dubbi di Rossi si erano concentrati anche sull'effettivo stato di salute del ponte, chiedendo chiarimenti "della attuale situazione dei lavori di messa in sicurezza del ponte Morandi, gli interventi che ancora devono essere realizzati, se gli interventi saranno tali da comportare gravi disagi alla circolazione della città e la tempistica di fine lavori, e se corrisponda al vero che il ponte Morandi, viste le attuali condizioni di criticità, potrebbe venir chiuso, almeno al traffico pesante, entro pochi anni gettando la città nel totale caos".

Ponte Morandi di Genova, Giovanni Calvini lo aveva previsto: "Tra dieci anni crollerà", scrive il 14 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Giovanni Calvini, allora presidente di Confindustria locale, lo aveva previsto: "Il ponte Morandi crollerà fra dieci anni". Era il 2012 ed era furioso con tutti quelli, M5s in primis, che si opponevano alla realizzazione della Gronda di Ponente, necessaria per agevolare il traffico nella zona dove oggi 14 agosto è accaduta la tragedia. Huffingtonpost.it cita una sua intervista sul Secolo XIX in cui diceva: "Quando tra dieci anni il Ponte Morandi crollerà, e tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore, ci ricorderemo il nome di chi adesso ha detto no alla Gronda". Le sue parole finirono in Consiglio Comunale: durante la Seduta del 4 dicembre 2012 parla Paolo Putti, consigliere grillino, contrario alla tesi di Calvini. "Colgo l'occasione per manifestare il mio sentimento di rabbia rispetto a questa affermazione e devo dire anche un po' di stupore e poi, per facilitare la cosa, indicando il mio nome e cognome: Paolo Putti, consigliere del Movimento 5 Stelle, uomo libero che non ha voglia di fare carriera politica, non è questa la mia ambizione, che non ha interessi personali o di bottega, ma il solo interesse di fare il bene della comunità in cui vive e tra le persone che vivono nella mia comunità ci sono anche quegli imprenditori che io, credo, fra 10 anni, andranno a chiedere come mai si sono sperperati 5 miliardi di euro che si potevano utilizzare per fare delle cose importanti per l'industria". 

La strage e gli allarmi ignorati: "È un fallimento, va sostituito". Già due anni fa l'ingegnere Antonio Brencich segnalò i rischi. Le allerte di Conftrasporti sui carichi eccezionali, scrive Manuela Gatti, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale". Il nubifragio, un fulmine, l'usura del cemento armato, la corrosione interna delle strutture. Le cause del crollo del viadotto Polcevera non sono ancora state chiarite. La stessa Autostrade per l'Italia ha fatto sapere che «saranno oggetto di approfondita analisi non appena sarà possibile accedere in sicurezza ai luoghi». Di certo, però, c'è che gli allarmi sulle condizioni fragili del «ponte di Brooklyn» dei genovesi erano stati lanciati. Il problema è che non c'era nessuno ad ascoltarli. Ad ammettere implicitamente che quei 1.182 metri sospesi sopra Sampierdarena e Cornigliano avevano bisogno di manutenzione straordinaria è proprio la società Autostrade. Come segnala l'agenzia Radiocor, ad aprile era stato indetto un bando di gara per rinforzare gli stralli, cioè i tiranti di cemento armato dei piloni del viadotto. Un appalto da oltre 20 milioni di euro. L'intervento - che sarebbe stato assegnato definitivamente in autunno - doveva consistere nella «disposizione di nuovi cavi esterni» che andassero dal piano stradale fino alla sommità delle antenne che reggevano il ponte. I piloni interessati dall'intervento erano i numeri 9 e 10: proprio la «pila» numero 9 è tra quelle venute giù nel disastro di ieri, che in serata lasciava sul campo 22 vittime accertate. Più o meno espliciti, gli indizi della pericolosità del cavalcavia in questi anni si erano susseguiti. Esplicito era stato, ad esempio, Antonio Brencich, docente di Costruzioni in cemento armato alla facoltà di Ingegneria dell'Università di Genova. In un'intervista del 2016 aveva definito il viadotto Polcevera «problematico fin da subito», non solo per «l'aumento dei costi di costruzione preventivati» ma anche per motivi strutturali che hanno portato a diversi interventi di manutenzione straordinaria tra gli anni 80 e 90. «È necessario ricordare un'erronea valutazione della viscosità del calcestruzzo che ha prodotto un piano viario non orizzontale - spiegava Brencich al sito Ingegneri.info, criticando il sistema «Morandi M5» brevettato dal progettista -. Ancora nei primi anni 80 chi percorreva il viadotto era costretto a fastidiosi alti-e-bassi. Solo ripetute correzioni hanno condotto il piano nelle attuali accettabili condizioni di semi-orizzontalità». Il docente, che ieri è tornato a parlare della struttura definendola «un fallimento dell'ingegneria», ha escluso che il temporale possa aver avuto un ruolo nel crollo. Sentito da Fanpage.it, Brencich ha parlato di «enormi problemi di corrosione interna» mostrati dai test, anche se «non era possibile aspettarsi quello che poi si è verificato». Alla lista degli appelli inascoltati si aggiunge anche quello di Maurizio Rossi, ex senatore di Scelta Civica, unico ligure in commissione Trasporti al Senato quando, nell'aprile 2016, presentò un'interrogazione all'allora ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio sui problemi del viadotto e sulla necessità di predisporre una strategia per bypassarlo: si tratta del progetto della Gronda di Ponente, una bretella autostradale di cui si discute da anni. Due anni fa Rossi lanciava l'allarme sui mezzi pesanti che transitavano sul cavalcavia, inadatto a sostenere tali pesi. «Si vedevano spesso 300-400 tir bloccati in coda sul ponte», ha ricordato ieri. Dello stesso parere è Paolo Uggè, presidente di Conftrasporto: nella primavera 2017, dopo i tre crolli in sequenza di Annone Brianza, Fossano e Camerano, aveva denunciato l'aumento esponenziale dei trasporti eccezionali sulle strade italiane. «È molto più conveniente trasportare un carico d'acciaio una volta sola su un solo tir piuttosto che tre volte su altrettanti mezzi. Ma allora il trasporto non è più eccezionale, diventa la norma», diceva Uggè, chiedendo più controlli e una «mappa del rischio di nuovi cedimenti». Ma nemmeno lui è stato ascoltato.

"Segnalammo ad Autostrade ​i rischi per i piloni del ponte". L'esperto che ha lavorato per la società: "Lo scorso anno evidenziammo problemi al pilone 9 del ponte Morandi", scrive Franco Grilli, Martedì 21/08/2018, su "Il Giornale". Autostrade per l'Italia era a conoscenza delle criticità sui piloni 9 e 10 che sono poi crollati. La società che gestisce il tratto di autostrada crollato con il Ponte Morandi aveva commissionato uno studio nel 2017 proprio sul pilone 9, poi crollato, e sul 10. E a condurre quello studio è stato il professor Carmelo Gentile che di fatto, come racconta al Corriere della Sera, aveva segnalato tutti i problemi legati al ponte ad Autostrade: "Evidenziammo soprattutto che due degli stralli del pilone 9, quelli del lato sud, presentavano deformata modale non del tutto conforme alle attese e certamente meritevole di approfondimenti". Gentile, docente di Tecnica delle Costruzioni al Politecnico di Milano è stato di fatto il primo esperto che ha acceso un faro sulla criticità del ponte Morandi. "Conformemente al nostro mandato abbiamo segnalato le anomalie osservate e raccomandato un adeguato approfondimento", ha aggiunto. L'esperto infine parla delle cause che avrebbero portato al crollo del ponte: "Concordo sul fatto che la rottura di uno strallo sia una seria ipotesi di lavoro". Ipotesi questa su cui sta lavorando anche la procura. Ma servirà ancora del tempo e l'analisi di tutte le registrazioni per definire l'esatta dinamica del crollo.

Ponte Morandi, parla il professore che lanciò l’allarme: «Progettato male e con enormi problemi di degrado». Parla Antonio Brencich, docente di strutture in cemento armato alla Facoltà di ingegneria di Genova, che due anni fa parlò di «fallimento ingegneristico» e di «ponte da ricostruire»: «Se di ponti di quel tipo ce ne sono tre in tutto il mondo, un motivo ci sarà», scrive Francesco Cancellato su il “L’Inkiesta” il 14 Agosto 2018. «Macché capolavoro, è un fallimento dell’ingegneria». Così, in un’intervista all’emittente televisiva Primo Canaleil professor Antonio Brencich, docente di strutture in cemento armato alla Facoltà di ingegneria di Genova, aveva definito il ponte Morandi, il viadotto dell’autostrada A10 che attraversa il torrente Polcevera in direzione dell’aeroporto del capoluogo ligure, crollato improvvisamente nella mattina del 14 agosto 2018, poco prima di mezzogiorno. Quell’intervista, datata 5 maggio 2016 assume oggi le sembianze di una sinistra profezia: «Non dissi niente di sconvolgente, in quell’intervista - dichiara oggi Brencich, contattato telefonicamente da Linkiesta.it -, ma mi limitai a dare argomenti a ciò che a Genova in molti, esperti e profani, sostenevano da tanto tempo: che il ponte Morandi andasse sostituito e ricostruito».

Professore, che effetto le fa veder concretizzato l’allarme che aveva lanciato due anni fa?

«Sono ovviamente sgomento e temo ci saranno molti morti. Di sicuro, posso dire che non c’entra nulla la pioggia, come ho sentito dire in queste ore, né che il crollo dipende dall’usura del cemento armato, il materiale utilizzato per costruirlo. Il problema è il ponte, che passa per essere un capolavoro d’ingegneria, cosa che, come abbiamo tragicamente scoperto oggi, evidentemente non era. Per due ordini di motivi, soprattutto».

Il primo?

«Il primo è che il ponte Morandi aveva degli evidenti problemi di degrado. Il cemento armato di per se dura secoli, ci sono ponti in cemento armato che non hanno subito alcuna modifica dopo cent’anni. i costi della manutenzione del ponte Morandi, che di anni ne ha appena cinquantuno sono invece già oggi elevatissimi: alla fine anni '80, il ponte aveva solo vent'anni, c’erano già stata la sostituzioni degli stralli originali (i caratteristici tiranti inclinati che partono dalla sommità delle torri del ponte), per problemi di corrosione. E alla fine degli anni Novanta si era già speso in lavori l’80% di quanto speso per la realizzazione».

Il secondo problema, invece?

«È relativo al progetto. Il viadotto era stato progettato dall’ingegnere e architetto romano Riccardo Morandi, rinomato - più in Italia che all’estero, a dire il vero - per disegnare ponti con una struttura a cavalletti bilanciatiche riassume l’unione tra la trave precompressa isostatica e le strutture strallate, e per un sistema di precompressione denominato “Morandi M5” che applicò a diverse sue opere. Dicevo, e i fatti mi stanno dando ragione, che quella tipologia di ponti è mal progettata e mal calcolata, e ha evidenti problemi di vulnerabilità. Del resto, se ce ne sono solo tre in tutto il mondo, un motivo ci sarà».

Quali sono gli altri due?

«Uno è il ponte sul Wadi al-Kuf, in Libia. L’altro è il ponte General Rafael Urdaneta, nella baia di Maracaibo, in Venezuela, ed è anch’esso un ponte con gravi lacune progettuali. Basti pensare all’incidente dell’aprile 1964, quando la petroliera Exxon Maracaibo urtò le pile 30 e 31 del ponte e le fece crollare completamente, trascinando in mare ben tre campate consecutive. Allora, si scoprì che questo tipo di evento non era stato preso in considerazione in fase di progetto. Così come del resto l’eventualità di un terremoto».

Lo stesso si può dire del ponte Morandi?

«Non lo so. Giudico da utente, non avendoci mai lavorato. Sul ponte Morandi fino a decina di anni fa c’erano dei saliscendi incredibili - figli di clamorosi errori legati agli effetti di viscosità del calcestruzzi - poi ridotti da lavori di manutenzioni successivi. So anche che Autostrade per l’Italia lo teneva parecchio sotto osservazione, che molti colleghi del Politecnico di Milano stavano lavorando a una sua ristrutturazione».

Ponte Morandi, parla il capo dei comitati No Gronda: "Sono in Toscana", scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Da anni tecnici e semplici osservatori temevano che il ponte Morandi di Genova potesse crollare prima o poi. Da quasi trent'anni in città si discute della costruzione di una bretella, poi diventata più nota con il nome di Gronda, una strada alternativa a quel tratto della A10 che avrebbe alleggerito il traffico sulla struttura crollata il 14 agosto e che ha ucciso almeno 38 persone. Un progetto osteggiato da diversi comitati, per buona parte capeggiati dall'ex consigliere comunale del Movimento Cinque Stelle, Paolo Putti, oggi nella lista civica Chiamami Genova. E la rabbia dopo il disastro è esplosa quando fuori Genova gli italiani hanno scoperto come i No Gronda si spingevano anche a deridere chi negli anni passati metteva in guardia da possibili crolli del ponte: "Ci viene raccontata la favoletta dell'imminente crollo, potrebbe star su altri cent'anni", scrivevano sulla base di chissà cosa i comitati No Gronda di Putti in un comunicato del 2013. Scoppiata la bufera, Putti è scappato da Genova per rifugiarsi in Toscana. Sulla carta, ha raccontato al Corriere della sera, per raggiungere la famiglia: "Avevo bisogno di un momento di serenità. Voglio solo evitare tensioni in questo momento di dolore". Su quella frase infame, Putti si giustifica scaricando la colpa su chi lo ha consigliato male: "Si è trattato di una frase scritta in un momento di aspro dibattito politico. E in ogni caso noi riportavamo un dato di Autostrade per l'Italia che definiva il ponte sicuro. Questo mina alla base qualsiasi certezza". Di pentimento si fatica a trovare traccia: "Dico che se non ti puoi fidare di super ingegneri di chi ti devi fidare per avere un dato scientifico attendibile? Per il resto non rinnego le mie battaglie: io volevo e vorrò sempre una Genova integrata, dove gli obiettivi imprenditoriali tengano conto delle condizioni di vita della gente, dove non ci siano altre autostrade che passano fra le case". Chi sono i No Gronda che per anni hanno frenato la realizzazione di uno sfogo indispensabile per il traffico di Genova lo spiega meglio di chiunque altro lo stesso Putti: "Si tratta di persone semplici, il lattaio, la casalinga, il pensionato, che si trovano a essere insultati e colpevolizzati per una cosa lontana dalla loro responsabilità. C'è gente che scrive cose impressionanti: 'Su quel ponte dovevate esserci voi!'".

"Dalla politica ligure solo molti no alla Gronda", scrive Fabrizio de Feo, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Luigi Grillo, ex senatore spezzino di Forza Italia e del Pdl, per 10 anni ha presieduto la commissione Lavori Pubblici del Senato, è stato responsabile della stesura della cosiddetta «legge Obiettivo», con cui si è ottenuto il rilancio delle opere pubbliche in Italia, e del varo del Project Financing.

Senatore Grillo, lei conosce bene la storia delle infrastrutture liguri. Per quale motivo non si è mai riusciti ad alleggerire il traffico sul ponte Morandi?

«Nel 2001 ricordo che Vito Gamberale, allora ad di Autostrade, in Commissione ci disse che il nodo di Genova era il più trafficato d'Italia con un carico tre volte superiore a quello ipotizzato nel '67. Il Cipe a dicembre 2001 inserì la Gronda tra le opere strategiche. Società Autostrade l'avrebbe costruita senza contributo dello Stato ma con un aumento minimo del pedaggio a livello nazionale».

Da allora cosa è successo?

«Sono passati 17 anni. Sono state realizzate opere importantissime grazie alla legge Obiettivo, al project financing e ai governi Berlusconi, superando la fallimentare legge Merloni. È stato realizzato il Passante di Mestre, la terza corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma, il completamento della Salerno-Reggio Calabria, la Palermo-Messina. Della Gronda non è stato posto un mattone».

Di chi è la colpa?

«La politica ligure e gli enti locali dovrebbero farsi un esame di coscienza e in particolare il Pd sempre sensibile alle proteste della sinistra radicale. Così come un esame di coscienza dovrebbero farlo i Cinquestelle. Toninelli dimostrando incompetenza e improvvisazione ha detto in Commissione che la Gronda era tra le opere di cui si sarebbe dovuto valutare il rapporto costi-benefici. Figurarsi che lo ha detto anche del Terzo Valico, un'opera che porterebbe merci e persone da Genova a Milano in 32 minuti e cambierebbe la storia delle due città...».

È possibile revocare la concessione ad Autostrade?

«Ma no, è uno spot elettorale. Il ministero aveva fatto osservazioni critiche che non sono state ascoltate? Non risulta. E allora la revoca è irrealizzabile».

Ponte Morandi, dopo il crollo spunta la frase agghiacciante dei comitato No Gronda, scrive il 14 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Da decenni a Genova si discute della costruzione della Gronda, una nuova autostrada che dovrebbe collegare il capoluogo ligure al resto delle autostrade del Nord. Un dibattito diventato sempre più duro negli ultimi anni, con i comitato No Gronda, sostenuti in particolare dagli esponenti locali e nazionali del Movimento Cinque Stelle, convinti dell'inutilità e dannosità dell'opera. Un'opera in realtà fondamentale per alleggerire il traffico sulla A10 e quindi sul ponte Morandi, crollato questa mattina e sotto il quale sono morte almeno dieci persone. I lavori della Gronda dovrebbero partire entro la fine di quest'anno, anche se solo pochi giorni fa il ministro delle Infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli, aveva inserito la Gronda tra le opere che sarebbero stato sottoposte a "una revisione complessiva, che contempli anche l'abbandono del progetto". Sulla stessa identica linea anche il vicepremier Luigi Di Maio, che a un'autostrada proponeva l'alternativa di mezzi più ecologici, come i passaggi in auto: "Bisogna soprattutto investire sulla mobilità sostenibile, utilizzando i soldi della Gronda per potenziare il trasporto pubblico, per potenziare la mobilità condivisa, soprattutto quella elettrica, per permettere il trasporto dei passeggeri su ferro". Poche ore dopo la tragedia del ponte Morandi, sui social è tornato a circolare un comunicato stampa firmato dal "coordinamento dei comitati No Gronda" che risale al 2013. Rilette alla luce della strage che ha comportato il crollo del viadotto, quelle parole fanno venire i brividi. Da anni gli esperti mettono in guardia sulla precarietà del viadotto, subendo gli sberleffi dei comitati che ormai parlavano di "favoletta dell'imminente crollo del ponte Morandi". Una favoletta con un finale terribile. Oggi Toninelli sembra aver cambiato posizione. Ai microfoni di Skytg24 ha detto: "Chi pensa che il M5S sia contro le grandi opere si sbaglia di grosso, noi siamo contro quelle che sono una mangiatoia di soldi pubblici. Bisogna fare quelle utili, vogliamo impiegare le risorse prima di tutto per la manutenzione. Faremo nuove opere che siano alternative a quelle presenti che sono troppo vecchie". Il ministro delle Infrastrutture ha poi ribadito che la priorità del governo sarà quella della "manutenzione e messa in sicurezza di ponti e viadotti che sono stati costruiti negli anni 60". Il ministro ha assicurato che domani mattina si recherà nella città di Genova.

I "No Gronda" sul sito del M5s: "Il crollo del ponte? Una favoletta". Nel 2012 il M5s si scagliava contro l'opera che avrebbe alleggerito l'autostrada. E nel 2013 ospitava i comitati che dicevano: "Quel ponte starà su per altri 100 anni", scrive Andrea Indini, Martedì 14/08/2018, su "Il Giornale". Su Google c'è ancora l'url attivo, ma non è raggiungibile. Probabilmente perché l'articolo risale a prima del rifacimento del sito. Ma tant'è. A qualche ora dal crollo del Ponte Morandi di Genova, che ha causato numerose vittime e feriti, è tornato a galla il comunicato dei comitati "No Gronda" ospitato nel 2013 sul sito del Movimento 5 Stelle. È lì che gli odiatori delle grandi opere si accanivano contro la bretella autostradale. "Ci viene poi raccontata, a turno, la favoletta dell'imminente crollo del Ponte Morandi", dicevano in quella che oggi risuona in una macabra profezia. Una posizione che il consigliere pentastellato Paolo Putti aveva addirittura portato in consiglio comunale opponendosi allo "sperpero di 5 miliardi di euro" per il rifacimento della Gronda di Ponente. Le previsioni di quanto sarebbe accaduto risalgono a sei anni fa. In una intervista al Secolo XIX, che risale al dicembre del 2012, l'allora presidente della Confindustria locale, Giovanni Calvini, tuonava contro i comitati del "no" alla realizzazione dell'opera che sarebbe servita ad agevolare il traffico lungo il tratto che oggi si è sbriciolato come fosse di cartapesta. "Quanto tra dieci anni il Ponte Morandi crollerà e tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore - diceva - ci ricorderemo il nome di chi adesso ha detto 'no' (alla Gronda, ndr)". Contro di lui, come recuperato dall'Huffington Post negli archivi del Comune di Genova, si era scagliato il Movimento 5 Stelle che, per bocca di Putti, aveva espresso "rabbia e stupore". "Sono un uomo libero che non ha voglia di fare carriera politica, non è questa la mia ambizione - diceva il grillino in consiglio comunale - non hoa interessi personali o di bottega, ma il solo interesse di fare il bene della comunità in cui vivo e tra le persone che vivono nella mia comunità ci sono anche quegli imprenditori che io, credo, fra dieci anni, andranno a chiedere come mai si sono sperperati 5 miliardi di euro che si potevano utilizzare per fare delle cose importanti per l'industria". Dichiarazioni drammatiche che riecheggiano in un'altra pagina del blog a Cinque Stelle ospitata nella sezione "liste civiche". È l'8 aprile del 2013 e il comunicato per dire "no" alla costruzione del nuovo sistema autostradale del capoluogo ligure, composto da quattro strade che si fondono insieme, definisce l'allarme su un possibile crollo del viadotto come una "favoletta raccontata a turno" da chi invece vuole costruire la Gronda (qui il link). A sostegno della propria tesi viene pure citata una relazione presentata da Autostrade per l'Italia nel 2009 in cui si legge che il ponte Morandi a fronte di "una manutenzione ordinaria con costi standard". Le posizioni dei grillini e dei "No gronda" si vanno a schiantare contro la realtà. Non più di un paio di anni fa il professor Antonio Brencich, docente di strutture in cemento armato alla Facoltà di ingegneria di Genova, ha definito il ponte Morandi "un fallimento dell'ingegneria" e ne ha chiesto la ricostruzione. "I costi della manutenzione sono elevatissimi - ha spiegato a Primocanale - non esiste che dopo trent'anni un'opera abbia già subito tanti lavori di manutenzione. Ci sono ponti in cemento armato che dopo cento anni non hanno ancora subito nessuna modifica". I test effettuati negli anni hanno più volte portato alla luce problemi di corrosione enormi. E l'entità dei lavori di manutenzione svolti dimostra che la situazione era grave. Un campanello d'allarme che al ministro alle Infrastrutture, Danilo Toninelli, dev'essere risuonato in un orecchio e subito uscito dall'altro. Il 31 luglio scorso, in una audizione alla commissione Ambiente della Camera, ha inserito anche la Gronda autostradale di Genova nel lungo elenco delle grandi opere da sottoporre a revisione, imprimendo così un deciso stop alle "grandi opere mastodontiche e dispendiose" per prediligere "una rete di tante piccole opere diffuse, che servano realmente ai cittadini". Una posizione che oggi si scontra anche contro la drammaticità della cronaca.

Alta velocità, Terzo valico e Mose. Ecco tutti i "no" entrati nel Dna grillino. Il contrasto alle grandi opere è ormai diventato un «credo» pentastellato, scrive Domenico Di Sanzo, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale". Quando c'è da dire un No, il Movimento Cinque Stelle è sempre in prima linea. E l'opposizione alla Gronda con annesse frasi avventate sulla «favoletta dell'imminente crollo del ponte Morandi» è solo la punta dell'iceberg di anni passati a contestare qualsiasi opera pubblica.

Dal Nord al Sud dell'Italia. Il pensiero corre subito alla Tav. Il progetto della ferrovia ad alta velocità Torino-Lione è uno dei primi «campi di battaglia» dove si forgia la futura classe dirigente del M5s. Sull'onda delle proteste in Val di Susa, nel 2010 i pentastellati piemontesi riescono a conquistare il 4% alle elezioni regionali del 28 e 29 marzo, eleggendo due consiglieri: Davide Bono e Fabrizio Biolè. Entrambi si sono distinti nelle manifestazioni contro la linea italo-francese, anche se poi Biolè è stato espulso dal Movimento nel 2012. Dalla stessa esperienza proviene il grosso della truppa parlamentare piemontese, compresa quella Laura Castelli diventata nel frattempo viceministro dell'Economia, senza dimenticare i trascorsi di Chiara Appendino, dal 2016 sindaco della città della Mole. Un tema, quello della Tav, tornato alla ribalta di recente. Oggetto di scontro interno tra i comitati locali, cellule originarie del M5s, e i grillini arrivati nella stanza dei bottoni. E mela avvelenata della diatriba intestina, sotto traccia, tra gli stellati e i soci di governo della Lega. Il No alle infrastrutture è uno degli assi portanti dell'identità del grillismo, tanto da spingere a entrare nel dibattito, nelle scorse settimane, i due «padri nobili» Beppe Grillo e Alessandro Di Battista, esiliati più o meno volontari dall'agone politico. Oltre alla Tav, al centro delle preoccupazioni della base e dello stato maggiore c'è un'altra opera, stavolta nel Mezzogiorno. Il Tap: Gasdotto Trans-Adriatico o, in inglese, Trans-Adriatic Pipeline. Si tratta di un'infrastruttura per il trasporto del gas dalle riserve off shore del Mar Caspio fino alla provincia di Lecce, con approdo previsto nel comune di Melendugno. Anche in Puglia il M5s locale è sulle barricate per lo stop, Di Maio si impegna in equilibrismi e supercazzole, mentre tra i big a lottare è rimasta Barbara Lezzi, ministro del Sud. Ma non ci sono soltanto Tap e Tav. I grillini hanno minacciato più volte di bloccare tutti i progetti più importanti su e giù per la Penisola. Con conseguenti disagi per i cittadini e rischi di danni erariali per le casse dello Stato. In Lombardia sono diversi i focolari di tensione tra il Movimento e la Lega. Dall'autostrada Pedemontana Lombarda, voluta da Maroni e osteggiata dai grillini, all'autostrada Valtrompia con i pentastellati che partecipano attivamente al comitato per il No. Il M5s fa parte anche del comitato contro l'alta velocità Brescia-Verona e si oppone al Terzo Valico tra Milano e Genova. In Veneto, il sistema di dighe del Mose, è stato definito più volte come uno «scandalo», un «sistema di illegalità diffusa» e uno «spreco» da 5 miliardi di euro. Stesso discorso vale per la Pedemontana Veneta contro cui si battono gli stellati in consiglio regionale. Di nuovo al Sud, il M5s da anni protesta contro le estrazioni petrolifere in Basilicata e Grillo vorrebbe trasformare l'Ilva di Taranto in una sorta di parco giochi.

Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano 11 settembre 2018 – Estratto. Il recente annuncio del ministro Di Maio sui limiti alla pubblicità delle società partecipate dallo Stato (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Rai) è il minimo sindacale: i criteri di destinazione dei budget pubblicitari devono essere trasparenti e uguali per tutti, altrimenti si entra nella corruzione e negli scambi di favori. Di Maio sbaglia a sostituirsi al ministro dell'Economia e a limitare l'annuncio alla carta stampata: il grosso degli investimenti promozionali va alle tv e al web (la sede più adatta per la pubblicità di prodotto - sconti, nuove tariffe, nuovi servizi - perché il potenziale cliente può passare dall' inserzione all' acquisto con un clic; sui giornali è rimasta la pubblicità "istituzionale", che presenta il nuovo logo, ricorda l'esistenza di una certa azienda o presenta nuovi testimonial). Se poi un'azienda è monopolista, come gli acquedotti municipali o le Autostrade, non c' è motivo di concorrenza che giustifichi i suoi spot, inserzioni e sponsorizzazioni di qua o di là (se non quello inconfessabile di comprarsi la buona stampa coi soldi dei cittadini); se invece ha concorrenti privati e deve comunicare un nuovo servizio, è tenuta a farlo nella massima imparzialità per non turbare vieppiù il mercato editoriale. L' ha spiegato Gad Lerner, ex firma di Repubblica, al Fatto dopo la tragedia di Genova: "L'eccesso di zelo con cui si è protetta la famiglia Benetton - e cito anche lo spirito acritico con cui era stata valutata l'esperienza di Sergio Marchionne - ha confermato un riflesso automatico dei media a difesa dei grandi imprenditori, che poi spesso sono stati (o sono) nei gruppi editoriali". E l'ha ribadito a La Verità: "I grandi giornali si sono dimostrati reticenti perché, in tempi di penuria di pubblicità, sono stati condizionati dagl'investimenti degli azionisti di Autostrade Altra prova che, per molti anni, direttori di testate e protagonisti dell’informazione sono stati confidenti di grandi capitalisti e allo stesso tempo consiglieri dei dirigenti della sinistra". Perciò leggiamo con grande sorpresa l' editoriale di Ezio Mauro su Repubblica, che accusa Di Maio di voler sottomettere la stampa più sottomessa d' Europa con "l' ordine alle partecipate dello Stato di non fare più pubblicità sui giornali", con una "ritorsione per quelle poche fonti di informazione che le forze di governo non controllano direttamente o indirettamente", dopo che "la Rai si è allineata", anzi è stata "addomesticata" e "gli imprenditori comprati con un semi-condono" (vuoi mettere invece Renzi che anticipava a De Benedetti il decreto Banche popolari, facendogli guadagnare 600 mila euro in Borsa senza muovere un dito). Anzitutto siamo curiosi di sapere quali media "controllano direttamente o indirettamente" i giallo-verdi, visto che hanno contro il 95% della stampa e non posseggono neppure l' 1% di un giornale o di una tv (a parte il Blog delle Stelle e la Prova del cuoco); che gli attuali direttori di rete e di tg della Rai li ha nominati Renzi e quelli di Mediaset li ha scelti B.; che del "semi-condono" non c' è traccia normativa; e che gli imprenditori sono talmente comprati che minacciano di scendere in piazza contro il governo, furibondi per il divieto di spot al gioco d' azzardo, il dl Dignità, il Daspo a vita per i condannati, la revisione delle concessioni ad Autostrade &C. e i limiti alle aperture domenicali per la grande distribuzione. Lo stupore aumenta quando Mauro scrive che l'ordine di Di Maio "non cambierà nulla per i giornali", però ci precipiterà in un plumbeo "mondo senza giornali, dominato dalle prediche impartite ai seguaci dal pulpito dei social". Ora, se per i giornali vendere o non vendere pagine alle società pubbliche non cambia nulla, in che senso Di Maio vuole "neutralizzare i giornali, convinto che tutto si compri e si venda"? Se Repubblica continuerà a tenere le sue feste anche senza la sponsorizzazione di Autostrade-Benetton, e anche senza la presenza di Monica Mondardini nel Cda di Atlantia-Benetton e alla vicepresidenza del gruppo Repubblica- Espresso-Stampa-Secolo XIX, buon per lei. Semmai, a protestare contro Di Maio, dovrebbero essere i manager e i direttori della comunicazione delle partecipate, allarmati dalla rinuncia forzata a un'importante leva di marketing. Ma Mauro che c' entra? É un giornalista, che per vent' anni ha diretto Repubblica, celebre per meritorie battaglie contro i conflitti di interessi (degli altri, tipo B., un po' meno contro quelli di De Benedetti).  Anziché sostituirsi agli uffici marketing, un giornalista che teme ritorsioni dal governo dovrebbe chiedere ai lettori di acquistare più spesso il giornale, per trovare nel pubblico - cioè sul libero mercato - le risorse finanziarie che verrebbero meno. Invece Repubblica, curiosamente, tra i lettori e gl' inserzionisti di Stato, sembra preferire i secondi.

È rissa politica sulle macerie del ponte di Genova. La pax politica dopo la tragedia del ponte è durata solo poche ore. Alta tensione tra governo e opposizioni e tra governo e Autostrade per l’Italia, scrive il 17 Agosto 2018, su "Il Dubbio". E il quarto giorno iniziò la caccia al colpevole. La pax politica dopo la tragedia del ponte Morandi è durata solo poche ore, e già ieri l’alta tensione tra governo e opposizioni e tra governo e Autostrade per l’Italia ha raggiunto livelli altissimi. La prima bordata è arrivata dal leader dei 5Stelle Luigi Di Maio che ha preso di mira la famiglia Benetton, proprietaria, di fatto, di Autostrade per l’Italia e prima responsabile, secondo il ministro grillino, del crollo di venerdì scorso. L’altro obiettivo del ministro grillino è Matteo Renzi, indicato come complice al soldo dei Benetton. Replica dell’ex premier: «Chi come Luigi Di Maio dice che il mio Governo ha preso i soldi da Benetton o Autostrade è tecnicamente parlando un bugiardo. Se lo dice per motivi politici invece è uno sciacallo». Prova invece a mediare Matteo Salvini che offre una via d’uscita ad Autostrade: «Intanto paghi le vittime, il resto si vedrà». E intanto, dopo la morte dei quattro cittadini francesi, da Parigi arriva la notizia dell’apertura di un’indagine. E Le Monde poi attacca Grillo e il Movimento 5Stelle, responsabili di non aver voluto la costruzione dell’alternativa al ponte Morandi.

Ponte Morandi, anche nella tragedia si fa campagna elettorale. Finanziamenti, gestione degli appalti, ostilità alle grandi opere sono diventati i temi politici della settimana, scaturiti direttamente dalla tragedia, scrive Sara Dellabella il 17 agosto 2018 su "Panorama". Neanche il tempo di riprendere fiato che la politica aveva già iniziato la sua polemica. Dai finanziatori occulti ai partiti, all’accusa dei “No Gronda” che avrebbero bollato in passato come una “favoletta” il crollo del ponte Morandi, alla società accusata di pagare le tasse all’estero. In tre giorni, dal 14 agosto, è stato tutto un rimpallo di responsabilità, di accuse al limite del diffamatorio e passerelle che se fossero state accompagnate da un po’ di sobrietà avrebbero avuto un rilievo maggiore. Invece, direttamente da Genova, è andato in onda il solito "mercato del pesce". Di Maio che annuncia la revoca delle concessioni autostradali ai Signori Benetton che, secondo il vicepremier grillino, nel tempo sono stati bravi solo a finanziare le campagne elettorali degli altri. Così il Pd, che si è sentito chiamato in causa, ha minacciato querele. Ma a dipanare ogni dubbio è la stessa Autostrade che ha dichiarato che gli ultimi finanziamenti risalgono al 2006 e hanno riguardato tutti i partiti. Punto è che il Pd nasceva un anno dopo, il Movimento 5 stelle nel 2009. Certo qualcuno ribatterà che comunque all’epoca c’erano i DS e La Margherita (confluite nella famosa fusione a freddo nel Pd) e poi ci sono le fondazioni, casseforti occulte di ogni movimento politico. E così giù a botte di dichiarazioni, post, hashtag si è susseguita la settimana politica. Ce ne fosse uno che mentre pensava di revocare le concessioni, abbia pensato ad aumentare lo stipendio di questi uomini impegnati nei soccorsi per poche centinaia di euro al mese. Propaganda per propaganda, avrebbe avuto più senso.

Opposizioni a caccia dei No gronda. Dello stesso tono è anche la caccia alle streghe che il Pd ha avviato contro i “nimby” di casa nostra, ovvero quelli che si oppongono a ogni grande opera. Sulla vicinanza a questi movimenti, i grillini hanno costruito molto del loro consenso da nord a sud, dai no Tav ai no Tap, passando anche per i No Gronda, quell’opera infrastrutturale che avrebbe consentito di spostare molto del traffico del ponte Morandi su un’altra arteria. Dal sacro blog grillino il post in sostegno dei No Gronda è scomparso e anche questa tempestiva rimozione mostra quanto in queste ore la partita sia soprattutto politica. Il clima è quello della campagna elettorale perché di istituzionale si è visto veramente poco.

A Genova, ma con la testa altrove. Del cordoglio della politica neppure l’ombra. I vecchi politici (quelli senza gli smartphone per intenderci), ci avevano abituato alla compassione intesa come partecipazione al dolore, oggi questi politici sembrano su un altro piano, avulsi dal contesto, lanciati verso una campagna elettorale che li sta portando anni luce lontano da Genova e dalle sue vittime, pur stando a due passi dai luoghi del crollo.

Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2018. Matteo Salvini si volta verso il cronista che gli chiede della proroga ormai famosa: «Ma lei si ricorda proprio tutto quello che ha fatto nel 2008?». Il vicepremier è a Milano, alla mensa per bisognosi dell'Opera Cardinal Ferrari e quella domanda gli sta segnando la giornata. La notizia è che nel 2008 la Lega (al governo con Silvio Berlusconi) e lo stesso futuro leader del partito votarono una discussa proroga delle concessioni alle società autostradali, che qualcuno allora ribattezzò decreto salva-Benetton. Insomma, quel provvedimento così controverso e certo non ostile alla società Autostrade, porta anche la firma - anzi, il voto - dell'oggi vicepremier. Il ministro dell'Interno si era visto porre la domanda già di buon mattino, ospite ad Agorà Estate su Rai3. E, anche lì, il capo leghista aveva dovuto ammettere: «Se è così, è stato sicuramente un errore». Poi, l'irritazione prende il sopravvento: «Però, da parte di chi ha governato per anni e anni e ha firmato, approvato e verificato queste concessioni, un buon silenzio sarebbe opportuno». Il riferimento è al Partito democratico ma la deputata dem Alessia Morani non lascia cadere la palla. E posta il video della dichiarazione di voto in Aula negativa del Pd per voce dell'allora capogruppo Antonello Soro. Sull'argomento interviene anche il sottosegretario alla presidenza Giancarlo Giorgetti: «Probabilmente, a posteriori, fu un errore. Ma è chiaro che in queste convenzioni, che prevedono anche l'aggiornamento dei pedaggi, c'è qualcosa che non funziona. Paghiamo pedaggi elevatissimi per condizioni di sicurezza che tali non sono». In ogni caso, il dado è tratto, la revoca della convenzione è avviata. Salvini osserva che «se Autostrade si sta mettendo a disposizione, in ritardo, per ricostruire ponti, aiutare i parenti delle vittime, fa solo una piccolissima parte del suo dovere». Ma «nessuna guerra di religione: io non sono pro o contro Autostrade, non sono pro o contro Benetton. I privati nel 99 per cento dei casi fanno bene il loro lavoro, qui il privato ha fatto un disastro, ed è un privato molto ben pagato per aver fatto questo 

Serracchiani a Beppe Grillo: "Sei colpevole anche tu, taci sciacallo", scrive il 16 agosto 2018 Francesco Curridori su "Il Giornale". La deputata dem Debora Serracchiani attacca Beppe Grillo sul crollo del ponte Morandi e dice: “Taci, perché è proprio il tuo parlare che somiglia in modo inquietante allo stridulo verso dello sciacallo”. “Abbiamo appena finito di contare le vittime di Genova e già dai spettacolo, ti sporgi dal tuo balcone virtuale a secernere metafore barocche e minacce nemmeno velate. Un pò di dignità, un pò di pietà non la conosci, solo fredda arroganza e bava alla bocca”. Così la deputata Debora Serracchiani (Pd) attacca a Beppe Grillo che, chiede giustizia sul suo blog, dopo il crollo del ponte Morandi a Genova. “Il tuo partito sta governando l’Italia non il Paese dei Balocchi, –  continua Serracchiani–  uno Stato in cui c’è ancora libertà di dire quello che si vuole, anche se non piace, anche se viene vomitato da uno o l’altro dei tuoi blog amici, o dalla stampa simpatizzante del tuo regime”. L’ex governatrice della Regione Friuli Venezia Giulia, poi, contesta l’alleanza con i leghisti: “Uno Stato in cui la democrazia parlamentare che vuoi abbattere ti permette di allearti con la Lega, il partito che – sottolinea – ha reso ministro delle Infrastrutture l’ing. Roberto Castelli, che non vuole restituire 40 milioni come da sentenza definitiva, che si fregava i diamanti di Belsito e che pure vuole abolire il reato di razzismo”. “Non sei meglio di nessuno e – dice la dem rivolgendosi ancora a Beppe Grillo – non puoi giudicare nessuno: sei come tutti gli altri perché stai con chi ha governato per anni con Berlusconi, fai le cose che fanno tutti gli altri, parentopoli inclusa”. “Del crollo di quel maledetto ponte – attacca Serracchiani – sei colpevole quanto tutti gli altri che non hanno denunciato, non hanno vigilato o che non hanno fatto le manutenzioni. Anzi, sei più colpevole, perché tu e i tuoi non volevate né il ponte Morandi né la Gronda né niente”. “Non parlare di cosa si deve fare delle grandi opere, mentre una di queste è ancora bagnata del sangue delle vittime. Taci, perché è proprio il tuo parlare che somiglia – conclude Serracchiani – in modo inquietante allo stridulo verso dello sciacallo”.

Ponte Morandi, fermate tre donne sinti: volevano razziare le case degli sfollati. Nella zona rossa di Genova arrivano gli sciacalli. Le prime ad essere fermate sono tre donne di etnia sinti arrivate da Torino appositamente per razziare gli appartamenti evacuati, scrive Elena Barlozzari, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Tra macerie e case evacuate, nella zona rossa di Genova, adesso è allarme sciacalli. Le prime ad essere fermate ieri mentre cercavano di introdursi negli appartamenti di via Fillak, a due passi da Ponte Morandi, sono tre donne di etnia sinti 18, 36 e 43 anni. Le ladre sono arrivate da Torino a Genova appositamente per rubare nelle case lasciate incustodite dopo il crollo. Trovate in possesso di arnesi da scasso e sorprese mentre si aggiravano con fare sospetto nell’area evacuata sono state fermate dalle forze dell’ordine ed è scattata subito l’accusa di sciacallaggio. Per due di loro, processate per direttissima, si sono aperte le porte del carcere di Pontedecimo. Mentre alla complice più giovane è stato comminato il divieto di dimora a Genova con obbligo di firma a Torino. Nel frattempo sono stati rafforzati i controlli con un monitoraggio di 24 ore su 24 degli appartamenti abbandonati. Il bilancio è di più di 600 persone senza un tetto e 13 palazzine evacuate. Intanto, per tamponare l’emergenza, il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ed il sindaco di Genova Marco Bucci hanno fatto sapere che, da lunedì, agli sfollati verranno messi a disposizione 45 alloggi. Entro i prossimi due mesi, invece, ne verranno individuati altri 300. L’obiettivo però è quello di dare “una casa a tutti entro la fine dell’anno”, ha promesso il governatore della Liguria.

Guerra tra gli sciacalli. Si cercano ancora i morti ma il governo fa processi sommari e minaccia (e poi si rimangia) il ritiro delle concessioni. Autostrade: -22% in Borsa, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Ancora ci sono corpi sotto le macerie di quel ponte maledetto che nel governo è scattata la gara a chi la spara più grossa, manco fossimo al bar sotto casa. Ministri che si improvvisano giudici, politici che pensano di essere ingegneri, minacce di ghigliottina sulla pubblica piazza per i Benetton (proprietari della Società Autostrade), voglia di vendetta sommaria contro chiunque abbia avuto a che fare con il ponte e con i Benetton stessi ai quali Di Maio ha annunciato di voler revocare sui due piedi la concessione, manco stessimo parlando del pass per entrare in centro storico o della licenza di caccia. Una guerra tra sciacalli. Una babele infernale e indegna che aggiunge danno a danno (per esempio il crollo dei titoli delle società coinvolte che sono in mano anche a piccoli risparmiatori) e denota l'inesperienza di questa classe dirigente che si sta comportando come i venditori al mercato del pesce dove le urla servono a stordire i passanti e coprire la scarsa qualità del prodotto. Siamo la solita Italia di Piazzale Loreto, la barbarie umana e giuridica che non cancellò le colpe del fascismo ma mise da subito i presunti «buoni» sullo stesso piano dei presunti «cattivi». Voler appendere i Benetton a testa in giù può essere comprensibile, in queste ore di dolore e smarrimento, da parte di chi sotto quel ponte ci ha lasciato pezzi della sua storia e della sua vita, potremmo financo scriverlo noi per assecondare la rabbia di tutta la nazione o potrebbe sostenerlo qualche partitino in cerca di facili consensi. Non può farlo, a nostro avviso, chi ha responsabilità di governo, chi deve fare rispettare le leggi, accertare i fatti con rigore e trovare soluzioni credibili. Ed è credibile secondo voi l'annuncio di rescindere a costo zero il contratto ultra ventennale con i Benetton e statalizzare da subito le autostrade? Stiamo cioè parlando di dare la gestione e manutenzione delle autostrade a uno Stato che ha dimostrato di non saper gestire in sicurezza scuole, tribunali, edifici pubblici e tantomeno i ponti (quello crollato di recente nel Lecchese era sotto la sua responsabilità). Quasi tutto ciò che è pubblico in Italia è fuori legge e se dovesse sottostare al diritto privato dovrebbe chiudere non domani ma oggi stesso. Noi non è che ci auguriamo, noi pretendiamo che sia fatta chiarezza su ciò che è successo martedì a Genova e negli anni passati tra i governi Prodi, D'Alema e Gentiloni (quelli cioè che hanno ratificato le varie concessioni) e il gruppo Benetton. Ma fino a che non lo sappiamo, niente gazzarra. Se capace, Di Maio invece di teorizzare un Paese da socialismo reale, si occupi di fare controllare lo stato di tutti i ponti e viadotti pubblici e privati fino a che stanno in piedi. Questo deve fare un ministro, sempre che ci creda perché non dimentichiamo che - a proposito di geni - fu proprio il suo movimento a definire «una favoletta» l'ipotesi che il ponte di Genova potesse crollare da un momento all'altro.

Il Governo dei cialtroni. A Genova hanno detto ogni sorta di bugie, sono andati oltre ogni legge, hanno tentato in tutti i modi di aizzare l’odio sociale, la loro vera e unica specialità, scrive Giuseppe Turani il 17 agosto 2018. "ditoriale tratto dal sito Uomini&Business. Davanti al crollo del Ponte Morandi e ai morti di Genova il governo dei cialtroni ha dato il peggio di sé. Si comincia con quello che Ferrara chiama il Truce padano, cioè, Salvini.

Ecco dov’era Salvini la sera del crollo di Genova. Lui stava a sbevazzare con amici in Sicilia, ma appena arriva sul posto se la piglia con l’Unione Europea, che, a sentire lui, pone troppi vincoli e quindi non si riesce a tenere le cose in ordine. Naturalmente, da ora avanti ce ne freghiamo dei patti di stabilità e si farà quello che si deve fare per gli italiani. Viene smentito immediatamente: l’Italia ha avuto larghi finanziamenti e poi, comunque, gli interventi di manutenzione sono fuori dal patto di stabilità. Se qualcosa in Italia non funziona la colpa è solo degli stessi italiani e della loro burocrazia: un pugno in un occhio.

Luigi Di Maio. Il suo collega di cialtronaggine, Di Maio, ci va giù ancora più pesante. Questo, dice, è il primo governo che non prende soldi dai Benetton, e quindi… Il Pd, invece, li ha presi. Masi scopre subito che i soldi il Pd non li ha presi. Sono finiti invece alla Lega, cioè al Truce padano. E il presidente-marionetta, Conte, è stato avvocato dell’Associazione autostrade. I soldi, semmai, li hanno presi loro. Ma subito hanno accusato gli altri. Altri due pugni in un occhio. 3- Toninelli, che non è esattamente la mente più lucida della compagnia, frigna perché vuole che il suo ministero, infrastrutture, si costituisca parte civile nel processo che si farà per accertare le responsabilità, in modo da avere un palcoscenico su cui esibirsi. Ma Di Pietro, ex magistrato e ex ministro dei Lavori Pubblici lo gela: guarda che il tuo ministero potrebbe essere fra gli imputati (per i controlli omessi o fatti svogliatamente), e quindi non ti puoi costituire parte civile. Quarto pugno.

Giuseppe Conte. Ma è l’avvocato Conte, il presidente-marionetta quello che la spara più grossa: non abbiamo tempo di aspettare la giustizia, si provvederà subito alla revoca della concessione alla società Autostrade: un’affermazione alla Erdogan, forse ancora più scriteriata. Non esiste in alcun luogo democratico del mondo che il potere politico emetta sentenze e provvedimenti, che non siano stati vagliati prima dalla magistratura, che è un potere indipendente. Come misura immediata propone che venga revocata la concessione alla società Autostrade, e ne provoca il crollo in Borsa: per questa impresa, in qualunque paese civile l’avvocato Conte sarebbe già sotto processo e forse dovrebbe fare i conti anche con una class action miliardaria contro di lui. Quinto pugno in un occhio.

Come ciliegina finale, ieri, a tarda sera, si rifà vivo il Truce padano con la proposta che la società Autostrade sospenda il pagamento dei pedaggi (non si capisce mai se su quel tratto, dove purtroppo non circola più nessuno, o in tutta Italia). Ma non è importante: trattasi di idea impropria suggerita dagli esaltati della Rete che vorrebbero una pronta esecuzione in piazza della famiglia Benetton, proprietaria di Autostrade. Famiglia che è stata anche accusata, sempre dall’informato Di Maio, di non pagare le tasse perché localizzata in Lussemburgo. Ma viene subito smentito, l’Autostrade, se non altro, è italianissima e paga le tasse al fisco italiano, lo ha sempre fatto. Altra gragnuola di pugni.

Fin qui i fatti. Poi c’è il commento. L’ala 5 stelle del governo arriva a Genova con un peso di quelli difficili da togliersi di torno. Sono stati loro per anni con marce in piazza e con video del loro ignobile guru, Beppe Grillo, a irridere quelli che denunciavano la pericolosità del ponte Morandi e la necessità di avviare i lavori (già finanziati ma guarda uh po’, da Bruxelles) della Gronda, una variante che avrebbe alleggerito il traffico sul ponte crollato e che forse avrebbe evitato il disastro. Questa colpa grava sul loro movimento e non è evitabile. Sono loro ad aver definito una “favoletta” l’avviso che il ponte sarebbe crollato entro dieci anni (è venuto giù dopo 5). Allora arrivano a Genova e hanno interesse solo a una cosa: indicare dei colpevoli, senza attendere alcuna indagine, subito, per deviare un po’ l‘opinione pubblica e far dimenticare le proprie responsabilità. Ma anche perché il loro “popolo” di sciagurati questo pretende: giustizia sommaria, impiccagioni immediate di qualcuno. Non passano nemmeno 24 ore e la storia della revoca delle concessioni (sgangherata e folle, solo un demente poteva proporla prima di ogni accertamento giudiziario) viene ritirata. Si dice, adesso, che si sta studiando. Il Truce padano si rifà vivo di nuovo, sempre con le sue proposte da bar sport: se la società Autostrade ricostruisce il Ponte, costruisce la Gronda a sue spese (ma bisogna vedere che cosa dice Grillo, contrarissimo) e ci dà mille miliardi per i danni subiti, possiamo discutere. Già che era entrato in questa fase contrattuale da mercato delle vacche (sempre prima di ogni accertamento di responsabilità) Salvini poteva anche chiedere due mila felpe e 100 coni gelati.

In tutta queste serie di eventi non esiste alcun comportamento serio. Da parte di nessuno. Tutti cialtroni. Tutti interessati soltanto a indicare un colpevole su cui riversare l’ira popolare per i disastro. Si accusa persino la famiglia Benetton di essere protetta perché controlla i giornali. Ma, di nuovo e casualmente, non è vero: ne potrebbero comprare dieci (sono ricchissimi), ma non ne hanno nemmeno uno. Forse per fare un dispetto a Di Maio o forse perché non gli piacciono i giornali. Il metodo di governo dei cialtroni è questo: dare sempre e in ogni caso la colpa a altri, puntare di preferenza verso la giustizia sommaria, fregarsene alla grande di leggi e Costituzione, tenere alta la tensione con l’Europa. Posso sbagliarmi (me lo auguro), ma questi stanno cercando in tutti i modi di litigare con l’Europa per farci buttare fuori, mettere in crisi l’euro e tornare a stampare la lira. Poi si tagliano le tasse, finalmente, si distribuisce il tanto atteso reddito di cittadinanza, si nazionalizza tutto (Ilva, Poste, Alitalia, Autostrade, ecc.), con loro a timone di questo nuovo Stato Venezuelano-Bulgaro, che farà default in due settimane stampando una moneta che nessuno vorrà e che non varrà niente. Nell’attesa, stanno meditando di rapinare un po’ di pensionati, indicati naturalmente (perché al di sopra dei 4 mila euro/mese) come profittatori di regime e mascalzoni. Tanto quelli mica possono andare in piazza con le carrozzelle spinte dalle badanti. Questi non sanno niente e hanno idee dementi su quello che dovrebbe fare la settima potenza industriale del mondo. Ma sanno come arrivare alla loro sognata società silvo-pastorale nella quale si è finalmente tutti poveri e appiedati: incrementare, diffondere, generalizzare l’odio sociale. Più la tensione sale, più loro incassano voti. Adorano i processi popolari, immediati, qualche impiccato farebbe anche comodo, peccato non avere più la pena di morte. Sono i più grandi avvelenatori di pozzi mai apparsi nella storia. Per questo vanno non battuti, ma proprio distrutti, estirpati, cacciati fuori dalla storia, nella quale sono indegni di rimanere.

Il dono sconosciuto della sobrietà. Possibile che questa sciagura debba essere usata per creare polemiche politiche o per respingerle? Scrive Piero Sansonetti il 17 Agosto 2018 su "Il Dubbio". I grandi giornali europei attaccano in modo rude il nostro mondo politico, e in particolare il governo. Le Monde e Liberation usano parole molto sprezzanti. L’Independent parla di “gang populiste” e di “toni vergognosi anche per i loro stessi bassi standard”. Forse esagerano, ma non è un grande spettacolo quello al quale assistiamo. Siamo di fronte a una tragedia nazionale. Ci sono ancora, probabilmente, molte persone sotto il cemento e le macerie. Possibile che questa sciagura debba essere usata per creare polemiche politiche o per respingerle? Per guadagnare voti o farli perdere? Non sarebbe più decoroso uno spirito di unità nazionale? Nessuno di noi, evidentemente, e nessun ministro, e nessun segretario di partito è in grado di stabilire se ci sono responsabilità, e di chi sono, e in che misura. Che senso ha scagliarsi gli uni contro gli altri. Con i 5Stelle che strepitano contro Renzi e Benetton, inventando oscuri commerci politici, e gli avversari dei 5Stelle che fanno propaganda usando un video di 4 anni fa di un comizio di Grillo, certo sbrindellato, ma sbrindellato come tanti altri suoi comizi? Non sarebbe saggio aspettare che la magistratura faccia il suo lavoro, senza pretendere di menare manganellate, o di punire prima di sapere? Sobrietà. Serietà. Rigore. Rispetto. Forse è impossibile pretendere queste doti dalla nostra classe politica?

Funerali Genova. Scoppia la bufera su Rocco Casalino che manda sms di "sfida" alla stampa, scrive il 18 agosto 2018 "Il Corriere del Giorno". Cosa dire poi vedendo Matteo Salvini che si fermava a fare i selfie ai funerali. E poi ci chiediamo perchè 20 famiglie hanno deciso per le esequie in forma privata, ai funerali di Stato? Al cattivo gusto non c’è mai limite ed il comportamento di Rocco Casalino. ex concorrente del Grande Fratello (edizione del 2000), attualmente “grillino” di ferro e portavoce di Palazzo Chigi, il quale durante i funerali di Stato celebratisi questa mattina alla Fiera di Genova, è stato “beccato” mentre mandava a decine di giornalisti “nel pieno svolgimento dei funerali di Stato” degli sms  di propaganda politica, con all’interno il link di un articolo de “Il Fatto Quotidiano” preoccupandosi di sottolineare ai cronisti gli applausi ricevuti dal premier Conte e dagli esponenti del governo ed i fischi incassati dal Pd. Poi, mentre la cerimonia funebre era già iniziata (come dimostrato dall’orario di invio della chat di WhatsApp), Rocco Casalino, ha sfidato la stampa scrivendo: “Sono curioso di leggere i giornali domani…”. La vicenda è stato rivelato su Facebook dal deputato dem Michele Anzaldi, che ha ritenuto l’accaduto un “fatto gravissimo”. “Presenterò un esposto alla Corte dei Conti e all’Agcom – scrive il parlamentare del Pd – per sapere se è lecito che il portavoce di Palazzo Chigi, pagato con i soldi degli italiani per curare la comunicazione istituzionale del Governo, inondi la stampa di sms per fare falsa propaganda contro un partito di opposizione È una distrazione di risorse pubbliche? È un abuso di potere? Il presidente del Consiglio Conte conclude il deputato dem farebbe bene a licenziare in tronco il signor Casalino, prima di incorrere in guai più seri con la giustizia contabile”.

L’ On. Anzaldi così ricostruisce quanto accaduto oggi durante i funerali. “Oggi alle 11.46, in pieno svolgimento dei funerali di Stato per alcune delle vittime del Ponte di Genova e senza alcun rispetto per i morti – spiega –numerosi giornalisti anche del servizio pubblico RAI hanno ricevuto da Casalino un messaggio riferito ai presunti fischi a esponenti Pd, notizia peraltro non confermata da molti dei presenti e dai video. Casalino scrive: ‘sono curioso di leggere i giornali domani'”. Secondo il deputato dem Anzaldi “siamo di fronte ad un caso gravissimo di utilizzo di una funzione pubblica per interessi di partito” e per questo sarebbe “inadeguato” come portavoce di Palazzo Chigi. E questo perché Casalino dovrebbe “interpretare un ruolo senza la partigianeria incompatibile con una figura che è pagata da tutti gli italiani e non da un partito o da una società privata”.  Cosi conclude il deputato dem: “Questa confusione risulterebbe ancora più grave se associata a un frangente come l’emergenza del ponte Morandi a Genova. Un episodio che per la sua drammaticità e la delicatezza rispetto al futuro della città rende impensabili atteggiamenti non solo di parte ma persino di irrisione. Qualora l’invio del messaggio di Casalino venisse confermato, Conteallontani immediatamente Casalino da Palazzo Chigi”. E’ questa la seconda vicenda poco istituzionale che coinvolge Casalino già criticato nei giorni scorsi per l’attacco al giornalista de Il FoglioSalvatore Merlo: “Adesso che il giornale chiude, che fai? Mi dici a che serve Il Foglio?” aveva scritto. Minacce che a Merlo non avevano messo paura, rispondendogli: “Insomma i Cinque stelle festeggiano sotto la regia del loro poderoso ufficio propaganda e comunicazione, ma in realtà il clima è plumbeo”. Cosa dire poi vedendo Matteo Salvini che si fermava a fare i selfie ai funerali. Molti sostenitori del leader leghista sono andati in suo soccorso sostenendo che la foto del selfie di Salvini “è una fakenews” e “che la ragazza stava mostrando la foto delle vittime al ministro”. Questa gente davanti al video del selfie VERGOGNOSO del ministro Salvini dovrebbero anche loro solo vergognarsi. Vediamo se negano pure davanti al filmato… E poi ci chiediamo perchè 20 famiglie hanno deciso per le esequie in forma privata, ai funerali di Stato?

L'on. Ascani (Pd) minacciata di morte per aver svelato delle "fake news", scrive il 19 agosto 2018 "Il Corriere del Giorno". I social network sono diventati ormai sempre di più delle fogne a cielo aperto, anche a causa della mancanza di necessari ed opportuni controlli da parte delle rispettive società, che consentono a chiunque di registrarsi usando nomi falsi, e diffamare chiunque. L’on. Anna Ascani, deputata umbra del Pd, ha denunciato alle forze dell’ordine gli insulti, minacce di morte e di essere bruciata viva,  che ha ricevuto sui social dopo aver smascherato il falso esponente democratico di Forlì, tale  Tommaso Ciarponi, che il giorno dopo la tragedia del ponte Morandi di Genova aveva pubblicato su un account Twitter un messaggio con alle spalle il simbolo del Pd in cui si diceva dispiaciuto solo perché sotto le macerie non fossero finiti e  morti anche i vice premier Salvini e Di Maio. Il tweet del falso account era stato rilanciato più volte, indicato come esempio dell’odio verso gli esponenti dell’attuale Governo e ripreso dai soliti supergiciali giornalisti su vari giornali a caccia di notizie. Ma è bastato però un rapido e semplice controllo per verificare che al Pd di Forlì il sedicente Ciarponi nessuno lo conosceva e lo aveva mai visto, e non risultava nessuno iscritto con quel nome. Risalendo all’origine dell’account Facebook, prima di diventare “esponente Pd”, il fake Tommaso Ciarponi pubblicava continuamente i suoi “like” all’attività politica di Matteo Salvini. Spiega la Ascani su Facebook: “Ti trovi davanti a un profilo Twitter di un sedicente blogger che pubblica una serie di fake news intervallate da varie stupidaggini sull’euro e tweet poco velatamente razzisti. È il primo che ha diffuso il finto post del finto esponente PD che si augurava di trovare sotto le macerie Salvini e Di Maio. Ma non gli è bastato. Poco dopo ha pubblicato un finto screenshot con finti nomi di finti cittadini arabi che esultavano per il disastro di Genova. Ho scritto che questa roba va fermata. Taggandolo. E ho aspettato pochi secondi.Prima ha risposto lui, naturalmente.  Poco dopo ha risposto Casa Pound Italia. Qualche minuto dopo arriva lei, Francesca Totolo. Il nome vi dirà poco o nulla. Ma è la “signora” che si vantò di aver inventato la fake news dello smalto sulle mani di Josefa, la migrante unica sopravvissuta a un recente naufragio al largo della Libia. E disse che era stata pagata. Da Casa Pound”. Intervistata dal quotidiano La Nazione, l’on. Ascani ha spiegato che “Tommaso Ciarponi, se esiste, non è un militante del mio partito e questa storia è stata montata ad arte per infangarci. Ne ho chiesto conto a uno dei primi a rilanciare questa fake (di Ciarponi, ndr) e dopo di lui mi hanno risposto Casa Pound Italia e Francesca Totolo, (collaboratrice con Il Primato Nazionale, testata online legata a Casa Pound n.d.r.), assurta alle cronache per la bufala della migrante con lo smalto salvata dal naufragio. E insieme a loro una marea di account inneggianti a fascismo e violenza. Tra cui quello che mi augura la morte e istiga a uccidermi bruciandomi viva”. La deputata umbra ha reso noto di aver consegnato tutto il materiale alle forze dell’ordine con annessa denuncia-querela. “Quanto accaduto è una forma di violenza che viene riversata su chiunque abbia opinioni politiche differenti. Mi sento di dire di non avere paura a smascherare le tante bufale che girano sul web”. Numerose purtroppo sono state le squallide bufale che sono girate in rete dopo la tragedia di Genova. Persino a falsa lettera del presunto padre di Marta Danisi una ragazza morta nel crollo del ponte Morandi. Una lettera piena di critiche ai governi precedenti. Piccolo particolare…il padre della giovane Marta era morto da anni e la lettera è pressochè identica ad una pubblicata da un altro presunto padre di una vittima dell’attentato al Bataclan a Parigi. Ma non solo. Sono apparse sui socialnetwork anche numerose foto false, girate nelle ore successive al crollo, come quella della corrosione degli stralli del ponte Morandi (in realtà è di un altro ponte che nulla a che fare con Genova), o quella del “cane eroe” trasportato da una carrucola tra i detriti che in realtà è stata scattata nel settembre 2001 a New York dopo il crollo delle Torri Gemelle. La deputata umbra del Pd era stata protagonista nello scorso febbraio di un’altra “scoperta” e cioè della comparsa della partita Iva della consigliera regionale umbra M5S Maria Grazia Carbonarisui biglietti dello spettacolo di Andrea Scanzi a Foligno, dove il giornalista del foglio aveva presentato il suo libro. “Una domanda semplice: come mai sul biglietto dello spettacolo di Andrea Scanzi del Fatto Quotidiano compare il nome e la partita IVA di una consigliera regionale Cinque Stelle? In campagna elettorale gli spettacoli di un giornalista ospite fisso a La7 li organizza un partito politico?”, aveva commentato Anna Ascani con un post su Facebook. Scanzi le rispose con un post su Facebook in cui andava giù duro con l’Ascani, pur ammettendo che il suo spettacolo a Foligno era stato organizzato dal Movimento cinque stelle. Peccato però che sui manifesti risulta prodotto dalla Società Editoriale il Fatto spa. In quella occasione vi fu anche l’intervento di Maurizio Ronconi (Movimento per l’Umbria): “Necessaria anche da un punto di vista della legittimità, una valutazione da parte degli organi preposti della Regione sulla apposizione della partita Iva di una Consigliera Regionale dell’Umbria del M5S sui biglietti e sui manifesti pubblicitari di uno spettacolo tenuto dal giornalista del Fatto Quotidiano, Andrea Scanzi”. “C’è da chiarire – aggiunse Ronconi – se il suddetto spettacolo e il relativo compenso al giornalista sia stato liquidato con i fondi a disposizione del Gruppi consiliari oppure, visto che la manifestazione è organizzata da esponenti del M5S, la stessa faccia parte di un circuito nazionale con supposti finanziamenti indiretti allo stesso M5S”. I social network sono diventati ormai sempre di più delle fogne a cielo aperto, anche a causa della mancanza di necessari ed opportuni controlli da parte delle rispettive società, che consentono a chiunque di registrarsi usando nomi falsi, e diffamare chiunque. Eppure basterebbe poco: chiedere in fase di registrazione un documento di identità del registrante, ed un numero di cellulare a cui inviare via SMS la password di accesso.

Matteo Salvini, la foto rubata ai funerali di Genova: chi sta consolando, scrive il 19 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Non sappiamo chi sia quella signora di colore che Matteo Salvini accarezza durante i funerali di Genova per le vittime del ponte Morandi. Potrebbe essere una parente della mamma e della bimba (lei originaria dei Caraibi e sposata con un italiano) morte nel crollo del viadotto. Oppure una cittadina di Genova, disperata come tutti attorno. La foto, "rubata", ovvero scattata da un anonimo presente alle esequie mostra una reciproca tenerezza che in uno scatto spazza via qualunque strumentalizzazione fatta dalla sinistra nelle scorse ore circa la partecipazione del ministro dell'Interno ai funerali di Stato.

"Perché non gira la foto di Salvini che dà una carezza a una nera?" Lo sfogo dell'ex militante Pd su Facebook: " Ho visto l'intera scena del selfie di Salvini ai funerali di Stato. Aveva accanto una ragazza, si è girato e si è trovato nella scena, poi immortalata dall'altro lato, nella foto che gira", scrive Claudio Cartaldo, Domenica 19/08/2018, su "Il Giornale". Da qualche ora non si fa che parlare del "sefie" di Matteo Salvini ai funerali di Stato per le vittime del dramma di Genova. Già ieri il ministro ha risposto a chi, tra rapper e piddini, lo attaccava. Ma quello che ha sorpreso alcuni è il modo in cui il Pd, via Alessia Morani, ha utilizzato quella foto per attaccare il leghista. Proprio la Morani ieri aveva rilanciato il post del rapper Francesco Di Gesù, chiedendosi se fosse normale scattarsi selfie in quella situazione. "Esiste ancora un confine tra rispetto e propaganda? - ha scritto la dem - Fino a che punto ci si può autocelebrare? Può essere così impunemente superato il limite della decenza? La campagna elettorale continua può passare sopra come una ruspa anche al dolore?". Non tutti, però, sembrano aver apprezzato l'uscita degli esponenti Pd. Tra questi c'è Cristiana Alicata, scrittrice e ingegnere meccanico. Sulla sua biografia online la Alicata scrive di aver "partecipato alla fondazione del Partito Democratico" e di ritenere "che avremo un Paese migliore se avremo un Partito Democratico migliore. Anche se si è "dimessa dalla Direzione Nazionale del PD a maggio del 2015 a fronte della nomina nel CDA Anas avvenuta il 19/05/2015", il suo è un parere più o meno "interno". E sembra un invito al Pd a fare autocritica. "Sommessamente - scrive la Alicata su Facebook - Ho visto l'intera scena del selfie di Salvini ai funerali di Stato. Aveva accanto una ragazza, si è girato e si è trovato nella scena, poi immortalata dall'altro lato, nella foto che gira. Suggerisco ai dirigenti del PD tanto concentrati su questo, di concentrarsi sul fatto che la Genova che era presente ha applaudito l'omelia dell'imam di Ancona (ma noi siamo concentrati su qualche applauso e qualche fischio). Quanto è complessa la realtà, eh. Che se PD ha ricevuto fischi è perchè ha governato e viene riconosciuto come potere. Sì anche la Lega governa e ha governato, ma il nostro messaggio di essere 'potere' è passato più forte. Loro sono più bravi ad essere 'uno di noi'. Domandiamoci questo invece di commentare un istante". La critica della scrittrice è feroce. Soprattutto sul modo in cui condurre la battaglia contro il ministro dell'Interno. "Se commentiamo gli istanti - si chiede la Alicata - come mai non gira la foto di Salvini che un minuto prima del selfie fa una carezza, dolcissima, ad un donna nera tra le persone a salutare chi arrivava? Una foto che nessuno ha fatto e forse sarebbe stata più forte da raccontare in contrasto alla politica omicida sui migranti di questo governo, in stretta continuità con quella del governo precedente, solo meno elegante". Per la scrittrice "la narrazione deve essere sincera per arrivare al cuore. La sinistra ritrovi la sincerità. Non ne ha più, per questo non è più credibile. Non sono loro a vincere. Siamo noi a perdere".

Matteo Renzi, quel selfie ipocrita alla Camera ardente di Tina Anselmi, scrive il 19 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Sciacalli. Ma sciacalli veri, quelli del Pd (politici e sostenitori) che ieri hanno crocifisso Matteo Salvini per quel selfie con una parente delle vittima del crollo del ponte Morandi durante i funerali di Stato a Genova. Sciacalli perchè cos'altro avrebbe potuto fare il leader leghista? Dire, no grazie, niente selfie? Fare lo schizzinoso? Lo schiena-dritta con chi sta soffrendo. Sciacalli, ma anche ipocriti. Perchè Matteo Renzi, di selfie in una circostanza poco appropriata se ne fece lui pure uno. Era il 4 novembre 2016, lui era premier e segretario del Pd. Mancava un mese al referendum cruciale per le riforme, quello che lo avrebbe affondato. Renzi era alla camera ardente di Tina Anselmi, la prima donna ministro della Repubblica Italiana. E che fece? Un bel selfie con un fan sorridente. Sorridente pure lui. "Ci sono momenti in cui credo che le parole non contino". Già, ma i selfie sì.

Ora il Pd vuole incriminare Salvini: "Ai funerali claque pro governo". Ai funerali di Stato volano fischi per il Pd e applausi per Salvini e Di Maio. L'ira dei renziani. E Anzaldi attacca: "La polizia apra subito un'indagine", scrive Andrea Indini, Domenica 19/08/2018, su "Il Giornale". "A sostegno del governo ci sarebbe stata una rumorosa claque organizzata". All'indomani del funerale delle vittime del drammatico crollo di Ponte Morandi a Genova, il piddì Michele Anzaldi è già pronto a presentare una interrogazione al ministero dell'Interno. Dopo essere stati sommersi dai fischi, i dem si sono convinti che quella che è riecheggiata ieri nel padiglione B della Fiera non fosse la rabbia delle vittime di un disastro annunciato o, più in generale, l'ira dagli italiani che accusano il Pd di aver rinnovato le concessioni ad Autostrade per l'Italia, ma una claque organizzata a sostegno del governo Conte. "Ma come si fa a pensare certe cose?". Matteo Salvini è sbigottito nel sentire le ultime accuse mosse dal partito che ieri mattina si è beccato una selva di fischi dalle persone presenti ai funerali di Stato. Non appena Maurizio Martina e l'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti sono arrivati in Fiera per portare il proprio omaggio alle famiglie delle vittime, sono stati sommersi dalle critiche. Questo perché è al Partito democratico che i più rinfacciano i (continui) rapporti con la famiglia Benetton che, attraverso Atlantia, controlla Autostrade per l'Italia. Dall'ex premier Enrico Letta all'ex ministro Paolo Costa, passando per Romano Prodi e Massimo D'Alema, la liaison tra le politiche democratiche e gli affari ai caselli ha radici lontane. "Per la prima volta - ha detto nei giorni scorsi lo stesso Luigi Di Maio ai microfoni di RaiNews - c'è un governo che non ha preso soldi da Benetton, e siamo qui a dirvi che revochiamo i contratti e ci saranno multe per 150 milioni di euro". A torto o a ragione, le persone presenti ai funerali erano appunto convinte che una parte della colpa del drammatico crollo del 14 agosto sia da imputare proprio a quel partito che negli ultimi cinque anni ha governato il Paese. Non si sa se ai dem abbiano dato più fastidio i fischi o gli applausi che gli stessi hanno riservato a Salvini e a Di Maio. Già ieri pomeriggio, come riporta Libero, nella chat dei renziani aveva iniziato a circolare l'accusa al governo di aver "pilotato" le critiche al Pd durante i funerali di Stato. Oggi è stato Anzaldi a mettere in chiaro l'insinuazione denunciando la presenza di un gruppo di "trenta scalmanati" appostati, a suo dire, nei pressi dalla sala stampa. A questi imputerebbe non solo di "aver fischiato in modo scomposto gli esponenti dell'opposizione e di aver applaudito i rappresentanti del governo", ma di aver addirittura suggellato il tutto con saluti e selfie. "La polizia, postale e non, - ha commentato, quindi, l'esponente dem - farebbe bene ad aprire un'indagine per verificare se davvero qualche esponente di governo, oppure dei partiti di maggioranza, abbia davvero lavorato per trasformare un momento di lutto nazionale in una curva da comizio". Le polemiche del Pd sembrano tuttavia scivolare addosso a Salvini. Che si concentra piuttosto sull'affetto ricevuto ieri. "Voglio meritarmi con i fatti questo affetto e questa fiducia che mi hanno commosso oggi a Genova, fra i parenti delle vittime e tanti cittadini comuni - ha scritto ieri il ministro dell'Interno su Twitter - il mio impegno è lottare per giustizia, verità, sicurezza, futuro".

Come hanno letto i giornali gli applausi al governo e i fischi al Pd ai funerali di Genova. Per gli editorialisti dei quotidiani è il simbolo di un paese cambiato, ma il grande credito di cui ora gode il governo è un tesoretto rischioso da gestire. I commenti di Corsera, Fatto quotidiano e Il Messaggero, scrive il 19 agosto 2018 Agi. Applausi al governo, fischi al Pd. Anche se poche, le voci che hanno contestato il segretario dei democratici Maurizio Martina sono state tanto rumorose da finire su tutti i quotidiani oggi in edicola. Tutti raccontano il cambiamento radicale del clima politico in Italia. A partire proprio dalla differenza tra l’ovazione che ha accolto Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Matteo Salvini e i fischi ai dem. Lo rappresenta bene l’immagine sportiva data dal deputato dem Stefano Esposito: “Il popolo ora è contro di noi. Sono cambiate le regole, non è più calcio è rugby. E se non ti adegui finisce che devi appendere le scarpe al chiodo” (Corriere della Sera). Il tema occupa anche molto spazio negli editoriali dei quotidiani. A cominciare proprio dal Corriere, che in prima pagina ne ha due. “L’ovazione a Luigi Di Maio e Salvini è senz’altro un dato politico importante, perché accade ben di rado che ai funerali solenni venga riconosciuto un tale tributo a chi governa”, scrive Marco Imarisio sul Corriere. “Ma non rappresenta certo una cambiale in bianco, semmai è la prova di quanto forte sia il bisogno di giustizia, che non va confusa con la vendetta, dopo un disastro del genere”. “Gli applausi di Genova a Di Maio e Salvini ci dicono che la tragedia ha unito il Paese intorno al governo”, scrive sempre sul Corriere Antonio Polito. “Dopo due mesi di governo gli elettori sono ancora più convinti di aver fatto la scelta giusta. Caricano sui nuovi politici grandi aspettative, riconoscendo loro, se non ancora competenza e buon governo, certamente dirittura morale e schiena dritta […] Di Maio e Salvini hanno vinto la battaglia dell’opinione pubblica in queste ore tragiche” ma “dovrebbero ricordare che anche Silvio Berlusconi, all’inizio del suo governo nel 2008 fu accolto come un salvatore all’Aquila, sconvolta da un terribile terremoto. Dopo l’emergenza e i proclami, arriva però sempre il momento delle scelte concrete, quando bisogna sporcarsi le mani con la realtà”. “Fossimo in Conte, in Di Maio e in Salvini, però, eviteremmo di dormire sugli allori e sugli applausi come se fossero dovuti e eterni”, commenta Marco Travaglio nel suo editoriale per Il Fatto Quotidiano. “Anzi, ne saremmo sinceramente sgomenti per il carico di responsabilità che comportano. Se la sciagura del ponte fosse accaduta non 70 giorni, ma sette mesi dopo la nascita del governo giallo-verde, molti applausi si sarebbero trasformati in fischi e insulti”. La stagione anti sistema è finita, perché ora il sistema sono loro. E sta a loro dimostrare che è un sistema nuovo, diverso e migliore. Chi ieri li applaudiva si aggrappava disperatamente all’ultimo brandello di ponte, cioè di Stato, rimasto in piedi fra tante macerie e morti. Ma a sua fiducia è tutt’altro che infinita. Come la sua pazienza”. “Speriamo che Salvini ma soprattutto Di Maio non interpreti gli applausi come un assegno in bianco. Perché è proprio il contrario: richiede una restituzione e anche con data ravvicinata” Francesco Gervasoni su Il Messaggero. “Gli applausi vogliono dire: mantenete la vostra diversità ma dimostrate, nel caso di Genova, di risolvere questo grave disagio nel minor tempo possibile. Quindi fate ricostruire il ponte e poi occupatevi della concessione”. 

Quei morti e feriti sul conto 5 Stelle che non applaudono, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 19/08/2018, su "Il Giornale". I funerali di Stato come la prima della Scala, o se preferite come una puntata del Grande Fratello Vip. Il nuovo che avanza, il governo del cambiamento è anche questo. Altro che cordoglio, per i ministri è stata una gara alla ricerca del consenso, un cronometrare gli applausi e contare i selfie, esultare per i fischi (pochi) alla vecchia partitocrazia. La Chiesa (in questo caso il padiglione della Fiera di Genova) non come confessionale di Dio ma appunto del Grande Fratello, celebre stanza del famoso reality dove i concorrenti si fanno le scarpe e misurano il loro successo con il pubblico. Non a caso a dirigere l'operazione mediatica dei funerali delle vittime del crollo di Genova è stato Rocco Casalino, un ragazzotto ex concorrente proprio del Grande Fratello a cui i Cinquestelle prima e il presidente del Consiglio poi hanno affidato la loro immagine e la loro comunicazione. Per tutte le esequie questo poveretto (si fa per dire, stipendio da super casta) ha inviato messaggi ai giornalisti cercando di indirizzarne sguardi e orecchie a proprio vantaggio. Se tanto sforzo sarà premiato o no lo capiremo leggendo i giornali di questa mattina. Ma ormai non mi sorprende più nulla, neppure Di Maio che rifiuta in quanto «mancia» i cinquecento milioni messi a disposizione per la prima emergenza dal gruppo Benetton, responsabile della gestione di quel tratto di autostrada. Io mi auguro che se saranno ritenuti colpevoli - cosa al momento tutta da dimostrare - i Benetton paghino, in ogni senso (civile e penale) ben di più. Ma comportarsi da bullo in queste ore per strappare un applauso è da irresponsabile. Per di più da parte del leader di un partito, i Cinquestelle, che in tre anni di gestione non sono riusciti a rappezzare le buche di Roma (figuriamoci se prendono in carico le autostrade che cosa ci aspetta), che per incapacità hanno provocato nove morti a Livorno (il loro sindaco è sotto inchiesta per mancato allarme di una alluvione) e una carneficina a Torino (la Appendino è accusata di essere responsabile del ferimento di 1300 persone e della morte di una di loro durante la serata della finale di Champions). In nessuno dei tre casi mi risulta che Di Maio abbia messo mano al portafoglio per rimborsare morti e feriti (chi a Roma cade nelle buche per essere rimborsato va in contenzioso con la Raggi) e con un simile luttuoso curriculum sarebbe meglio volare bassi. Almeno così dovrebbe accadere nel mondo normale e reale, che non è quello del Grande Fratello e di Rocco Casalino.

Genova: i fischi agli ignavi, scrive Cristiano Puglisi su “Il Giornale” il 20 agosto 2018. Raramente, anzi, mai fino ad ora, chi vi scrive dalle colonne di questo piccolo e modesto spazio di riflessione sulle cose del mondo aveva avuto l’occasione di parlare di qualcosa di personale. Eppure, visto il momento, bisogna fare un’eccezione. La classica eccezione che conferma la regola, si potrebbe dire. Perché, da tre anni a questa parte, ogni anno, sempre lo stesso giorno, il 14 agosto, lo scrivente prendeva la propria auto per dirigersi la mattina presto dalla Versilia in Liguria, essendo solito dividere le ferie estive tra queste due località. Per farla breve e per non tediarvi con troppe questioni di scarsa importanza, anche quest’anno, da tradizione, il 14 agosto sarebbe accaduto esattamente lo stesso. Su quel tragitto c’è, o meglio c’era, il Ponte Morandi. Per un fortuito caso del destino (un viaggio di nozze all’estero rinviato di alcuni mesi), questa volta quella tradizione non si è rinnovata. Cosa è successo a chi su quel ponte, questo 14 agosto, ha avuto la sfortuna di passarci, è inutile ricordarlo. È perciò difficile, per chi vi scrive, trattenere la propria rabbia, il proprio disgusto, nell’osservare come, in questo Paese, vi siano politici che osano ancora schierarsi senza se e senza ma dalla parte di chi, come la ormai arcinota società concessionaria dai ricchi dividendi per gli azionisti, è da ritenersi responsabile (in che grado e in che misura rispetto ad altri attori certo lo dovranno dire analisi e indagini), in quanto responsabile di quel tratto di rete stradale, della tragedia avvenuta su quel ponte. Di quelle 43 vite spezzate. Non è invece difficile, ma piuttosto genera angoscia pensare a quanto sia insultante per la sofferenza di quei genitori, di quelle mogli che si sono viste portare via i loro cari per un incidente che non sarebbe dovuto accadere quando alcuni esponenti politici si schierano, per partito preso, con i “padroni”, per il solo fatto, inutile nascondersi dietro a un dito, che siano tali. Perché, così ci dicono loro, fanno in questo modo quelli che sono “seri”, “autorevoli”. “Responsabili”. Quelli che non “corrono verso conclusioni affrettate”, “non gridano”, non “puntano il dito”. Spesso, su questo blog, si sono commentate in modo critico e senza sconti le mancanze del Governo attualmente alla guida del Paese. Ma, d’altro canto, non si può non smettere di pensare a quelle immagini, a quegli applausi rivolti ai ministri Salvini e Di Maio e ai fischi indirizzati invece agli esponenti del Partito Democratico, durante i funerali di Stato per le povere vittime del crollo. È il simbolo, come hanno giustamente rilevato anche altri osservatori ben più qualificati, come ad esempio Massimo Gramellini, di un’Italia che, con questo esecutivo, urlatore e demagogico quanto si vuole per carità, ha stabilito un’empatia vera e viscerale. Empatia che non si può provare per chi, invece, con la scusa della serietà, dell’autorevolezza e della responsabilità autocertificate (quante volte si sentono pronunciare questi termini a sproposito…) non fa altro che schierarsi sempre e comunque col (pre)potente di turno. Perché è proprio questo che ha imputato a quei politici la folla di Genova. Si è fuori strada se si pensa ai fischi quale conseguenza di ipotizzate responsabilità dei “fischiati” nell’accaduto. Ad essere fischiati, non sono stati i responsabili del crollo. No, sono stati i politici ignavi, schiavi dei poteri economici, deboli e servili, lontani da quei cittadini che invece reclamano un rapporto diretto con il vertice dello Stato. Che deve fare i loro interessi, senza paura di sfidare i potenti. Un rapporto che, a suon di selfie e linguaggio ruspante e anche di quelli che si possono definire come qualunquismi, il Governo giallo-verde ha saputo creare. Tutto il contrario rispetto alla classe dirigente della sinistra borghese italiana, con la sua reiterata genuflessione e manifesta debolezza nei confronti dei signori del denaro, che risalta in maniera eclatante rispetto all’atteggiamento di un esecutivo che invece non si è fatto problemi ad alzare i toni in maniera anche spregiudicata contro una famiglia di oligarchi, quella dei Benetton, per indurla a più miti consigli rispetto alle prime scomposte reazioni sulla possibile decadenza della concessione. Reazioni che danno la misura di come la compagnia fosse abituata a considerare la politica in precedenza. Il nulla. Uno stuolo di obbedienti soldatini. Il popolo italiano invece, sconclusionato, individualista, disordinato, nelle tragedie, nonostante tutto, trova l’unità, con la generosità che lo caratterizza e che si è materializzata, in questo caso, con i soccorsi di volontari e non tra le macerie del Ponte Morandi. E ora quel popolo chiede uno Stato forte, che sappia aiutarlo ma punire anche in maniera inflessibile chi gli ha inflitto delle sofferenze. Delle ingiustizie. Non importa al momento cosa accadrà nel concreto. Importa che questa esigenza, il Governo ha saputo intercettarla. Il Partito Democratico, come al solito, no. E, checché ne dicano, quegli applausi e quei fischi sono lì a dimostrarlo.

Conigli. Perché il gruppo dirigente del Pd non è andato in massa ai funerali di Genova? Scrive il 19/08/2018 Lucia Annunziata, Direttore Huffpost Italia. Oltre ai Benetton, che hanno tentato senza riuscirci di fuggire dall'orrore di Genova, abbiamo scoperto in questi giorni un secondo gruppo di conigli: il Pd. Un'affermazione, questa, che scrivo con particolare dispiacere perché se di Benetton posso scrivere in astratto, del Pd sono una elettrice, e continuo a riconoscermi nella tradizione della sinistra. I fischi inequivocabili, e non corretti da nessun applauso (come succede di solito), alla delegazione dem durante i funerali sono stati tanto più dolorosi per il Pd perché rivolti a suoi esponenti che negli ultimi anni non hanno avuto nel partito ruolo di primo piano. Il giorno dopo, tuttavia, non arriva dal Pd nessuna presa d'atto. A parte alcuni cenni di sincerità, fra cui le parole dell'ex senatore Stefano Esposito ("il popolo ora è contro di noi", Corriere della Sera), i dem si sono rifugiati nelle solite versioni classiche dei partiti in difficoltà, cioè che i fischi siano stati una operazione organizzata. Nemmeno Genova dunque ha interrotto la fuga dalla realtà dei dirigenti Pd. E' incomprensibile, intanto, che il primo partito di opposizione non si sia presentato a Genova in tutti i suoi ranghi. C'era Martina, segretario attuale, che in tutta la sua provvisorietà ci ha tuttavia messo la faccia. Con lui, oltre la Pinotti, c'erano Cofferati (da tempo non più Pd) e Chiamparino, la deputata Paita, e figure dell'amministrazione locale. Ma non c'era il segretario di fatto Matteo Renzi, non c'erano il Presidente Matto Orfini, Graziano Del Rio ex ministro delle Infrastrutture, il ligure ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, l'ex premier Paolo Gentiloni, e nemmeno altri della storia di questo partito; o del sindacato, come Susanna Camusso. E non è forse Genova, nella iconografia italiana, una città simbolo della lotta, dello spirito, della storia della sinistra, per decenni governata da amministrazioni rosse? Davvero non era necessario (anche a costo di prendersi fischi?) presentarsi a omaggiare quei morti? Questa assenza è una ennesima manifestazione della fuga permanente in una sorta di realtà virtuale in cui il Pd si è rifugiato, dopo la sconfitta elettorale. Scelta che ha fatto prevalere il politicismo sulla politica. In affanno sul territorio, incapace di ricostruire la sua rete locale, il Partito Democratico che ha scelto con Renzi una forma di aventinismo, ha dato vita in questi mesi a una opposizione che somiglia a una astratta guerra combattuta da lontano, uno scontro di comunicati, facebook live e tweets. Politicismo, appunto, laddove la politica avrebbe richiesto, ad esempio in questa occasione, di affondare le mani nella materia bollente della realtà. Materia bollente è la definizione esatta. Quanto ha contato sulla decisione di non andare a Genova il fatto di essere sotto accusa di connivenza con i Benetton, di dipendenza, oggi e nel passato, dal capitalismo italiano? Accuse da cui il Pd si sta, giustamente, difendendo, denunciando una "campagna ingiusta, e fondata fu fake news". Ma il modo migliore per difendersi era esserci, a Genova, e non solo ai funerali. Esserci a prendersi i pomodori magari, non solo i fischi. Esserci come assunzione di responsabilità – anche degli eventuali errori. Fare questo passo avrebbe tuttavia significato rompere la bolla in cui il Pd e il suo ex segretario Matteo Renzi hanno vissuto. E non da adesso. Ancora oggi, dopo quasi due anni, non abbiamo una complessa spiegazione sul perché della sconfitta del referendum il 4 dicembre 2016. Così come, da allora, non abbiamo visto nessun cambiamento. Renzi fece un passo laterale dalla segreteria, mantenendo il controllo del Pd, e si formò un nuovo governo con il paziente Gentiloni che ha gestito (bene) tutto quello che si poteva e doveva fare per evitare uno scossone post-sconfitta. Per il resto, ci si aggrappò a quel 40 per cento come a un successo, e si cominciò già allora a scaricare tutto sui populismi. Fuga dalla realtà, appunto. Una insensibilità ai propri stessi meccanismi di sopravvivenza, nonostante tutti i campanelli continuassero a suonare: la disgregazione interna, le miniscissioni, il proliferare di sottogruppi di interessi, l'aumento della mancanza di trasparenza. Il tutto convogliato nel segnale di allarme più serio per un partito - la costante caduta nei consensi elettorali. La cosa più strabiliante del processo che abbiamo appena ri-raccontato, è che nulla di tutto questo fosse sconosciuto o taciuto. Tante voci (incluso l'HuffPost, nel proprio piccolo spazio) si sono alzate dentro e fuori il partito, dentro e fuori i luoghi dove si forma l'opinione pubblica, per avvertire che il Pd era su una rotta che lo portava a schiantarsi. Cosa stesse succedendo, del resto, non era difficile da capire perché le turbolenze del Pd erano parte di un grande fenomeno visibile in tutto il mondo occidentale. Globalizzazione, tecnologia – lo ripeto qui solo per forma – hanno cambiato il mondo e tutti noi. Ai meravigliosi balzi in avanti di cui oggi godiamo i vantaggi, è corrisposta la distruzione delle classi sociali come le conoscevamo. Nel grande treno dello sviluppo i vagoni di testa hanno accelerato e i vagoni di coda si sono staccati per strada. Uso questa immagine perché si impose anni fa nella scena mediatica internazionale perché usata dal Comandante Marcos, un giovane messicano incappucciato che nel capodanno del 1994 guidò un piccolo esercito di indios armati di frecce ad occupare i comuni di alcune città del Chiapas. Fu la prima rivolta contro la globalizzazione e venne considerata paternalisticamente come un segno di un mondo che scompariva. Da allora oltre agli indios sono stati massacrati dal treno del Chiapas anche operai e classe media. Ridotti il loro reddito, il loro prestigio, il loro percorso nel futuro. In questo l'Italia è stata tutt'altro che sola. E tutt'altro che inconsapevole. Centinaia di convegni in tutte le città del mondo, spesso organizzati da istituti, istituzioni, think tank delle forze democratiche, hanno negli ultimi anni studiato e denunciato questi effetti. Ma la consapevolezza in nessun paese occidentale è mai divenuta nuova politica – e la sinistra si sta spegnendo piano piano insieme al patto sociale che aveva sostenuto l'equilibro del dopoguerra, la fondazione dell'Europa, e la stessa democrazia rappresentativa. La elezione di Trump, la vittoria della Brexit, la vittoria in Italia di Lega e 5Stelle, la crisi dei governi e delle idee europee, la nascita in molti paesi non occidentali di nuovi uomini forti a presidio di economie chiuse, è il mondo in cui viviamo. Già, qui e ora. Perché la sinistra, italiana e mondiale, pur sapendo tutto questo, ha perso se non del tutto il potere politico, di sicuro la sua egemonia intellettuale? La risposta è anche questa non difficile. Perché la sinistra nonostante sapesse non è riuscita a elaborare una pratica politica adeguata ai nuovi tempi. Forse perché la sua classe dirigente è rimasta nei vagoni di testa del treno. Lontana dalla realtà più cruda e difficile. Il renzismo è stato il perfetto esempio di questa spaccatura fra intenzioni e pratica. Al suo arrivo sulla scena politica raccolse l'entusiasmo generale di quel desiderio di cambiamento che c'era nella società italiana. La sua invece è stata una storia di non incontro con la maggioranza del paese. Cosa sia andato perduto nel suo operato e in quello del suo Pd, lo sapremo forse fra alcuni anni da qualche studioso serio. Di certo la sinistra oggi, in tutte le sue affiliazioni, è profondamente invisa ai più. Ripiegata nella denuncia del populismo come origine dei suoi mali, e di quelli del paese. Con il risultato che sempre più spesso, la condanna ai vari Trump, Salvini e Di maio, coincide per la sinistra con la condanna anche di chi li ha votati. Il senso di abbandono, di sfiducia, di paura è oggi la vera materia della politica. Invece di attaccare, criticare, sminuire queste domande l'unico modo per riprendere l'iniziativa politica (e per noi giornalisti, e tutti i costruttori della pubblica opinione, di dare senso alle nostre funzioni), è quello di farsene coinvolgere. Legittimarle, capirle, elaborando proposte anche radicalmente diverse dalle formule da noi sempre sostenute: d'altra parte che tutte le formule politiche ed economiche possono cambiare ce lo dice la storia. L'alternativa al "populismo" non si crea con la sua denuncia, non si forma chiudendosi nelle torri d'avorio del proprio orgoglio. La battaglia con il populismo è nelle soluzioni che si offrono ai cittadini, non nell'ignorare i cittadini. Per tutto questo valeva la pena essere, fisicamente e non solo, a Genova.

Ponte Morandi, le tante parole inutili su Genova. Dal crollo, i politici si sono spesi in dichiarazioni che poco hanno a che vedere con la tragedia e l'emergenza. Polemiche che potevano aspettare, scrive Sara Dellabella il 17 agosto 2018 su "Panorama". Quante parole inutili su Genova. Dal crollo del ponte Morandi, le vittime, gli sfollati sono scomparsi velocemente dal radar delle dichiarazioni. Grazie ai nostri politici la discussione è passata immediatamente alla ricerca dei colpevoli da dare in pasto alla folla arrabbiata e indignata per quella che appare una tragedia assurda. Come la definisce bene, Massimo Gramellini, su Il Corriere della Sera, "la dittatura dell'istante" ancora una volta si è rivelata più funzionale all'ondata di indignazione che stava montando sui social network. Una pioggia di dichiarazioni di vicepremier, ministri contro la famiglia Benetton rea di aver pagato, secondo l'accusa, vecchie campagne elettorali. Una polemica che si è riversata nella discussione politica, senza neppure attendere che i soccorritori finissero di contare le vittime e di accompagnare centinaia di persone fuori dalle case pericolanti. Una notizia sulla quale la stessa società ha fatto chiarezza dichiarando che le ultime donazioni risalgono al 2006, quando ha diviso equamente uno stanziamento di 1,1 milioni di euro tra tutti i partiti, tra cui anche la Lega Nord che come gli altri ha ricevuto 150 mila euro. 

Il valore del silenzio. Non c'è stato un minuto di silenzio istituzionale. Quel silenzio spontaneo che nasce dallo sgomento di una tragedia inattesa. Su quel ponte poteva esserci chiunque e anche se oggi sono tutti intenti a cercare un colpevole da processare sulla pubblica piazza, lo smarrimento di molti è nel dover considerare l'inevitabile destino a cui si va incontro anche nei gesti più quotidiani, come quello di attraversare un ponte o la strada per andare a lavorare ogni mattina. Così come quel furgone verde fermo a pochi metri dal precipizio, salvo chissà per quale volere divino.  Neppure di fronte alla fragilità del destino, i politici hanno saputo tacere, tanto quelli di governo che quelli di opposizione.

Le parole sbagliate. Anche il nostro, solitamente, silente premier non ha lasciato il popolo a bocca asciutta. Accorso sul luogo della tragedia ha affermato che "non si possono attendere i tempi della giustizia" e nel corso della conferenza stampa straordinaria ha annunciato "siamo lieti di comunicare che il consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza per 12 mesi per la città di Genova". "Siamo lieti" ha detto proprio così l'avvocato del popolo che in poche ore ha mandato in fumo lo stato di diritto, la certezza della pena e le garanzie del processo per gli imputati alla faccia de l'onestà, del rispetto delle procedure e della trasparenza.

Se i Benetton sono il problema. Così se Luigi Di Maio attacca frontalmente la famiglia Benetton che di Atlantia (fondo che controlla la società Autostrade) detiene il 30 per cento delle azioni accusandola di essere collusa con i partiti che avrebbero beneficiato di laute donazioni. Un'accusa che con Genova ha poco a che fare, ma che la rende degna di un processo mediatico che, in poche ore, fa crollare il titolo in borsa a danno anche di migliaia di piccoli risparmiatori (quelli che i 5 Stelle hanno sempre difeso contro i poteri finanziari).

Anche le parole hanno un costo. Inoltre, di fronte all'improvvisazione delle dichiarazioni c'è chi si è messo a fare i conti ulteriori della tragedia. Perchè accanto ai danni materiali e umani, poi ci sono quelli della politica. Il titolo Atlantia ha perso valore a causa dello sciacallaggio mediatico a cui è stato sottoposto e dall'annuncio della rescissione del contratto (su cui poi la Lega ha fatto un passo indietro), il governo dovrebbe pagare il valore residuo della concessione per una cifra pari a 20 miliardi di euro. Una finanziaria o forse più. E poi a tutti quegli analisti finanziari improvvisati sui social di fronte alla bufala della società che non paga le tasse in Italia, ha risposto il fact checking dell'Agi, dove oltre ad evidenziare la sede romana della società, rileva che nel 2017 Atlantia ha pagato imposte per 632 milioni di euro (con un tax rate del 30,6 per cento).

E ora un po' di silenzio, per favore. Una propaganda che pezzo pezzo viene giù, mostrando la propria fragilità e i danni che può causare. Intanto, sotto alle macerie si cerca ancora, negli ospedali c'è chi lotta contro un codice rosso e migliaia di famiglie attendono di sapere se rientreranno mai nelle proprie case. Sono queste le parole che dovremmo ascoltare e quando non ci sono formule o soluzioni, sarebbero sufficienti anche dei silenzi, che magari nascondo una riflessione. Domani è stato indetto il lutto nazionale. In tanti, in queste ore si augurano di ascoltare solo il silenzio.

Genova è lo sfascio italiano. È tutta questione di… educare alla vergogna, scrive il 16 agosto 2018 Alessandro Bertirotti su "Il Giornale". Ho riflettuto prima di scrivere quello che leggerete. Il mio non è un discorso politico, almeno nel senso comune del termine. Lo è nel suo significato etimologico, nella sua sostanza esistenziale. Noi, in Italia, non abbiamo problemi infrastrutturali, ma abbiamo problemi etici, morali. Sono generalizzati, colpiscono tutti, nessuno escluso, e mi ci metto anche io. Quante volte vedo cose inenarrabili. Negli uffici pubblici, nelle scuole, all’interno delle istituzioni, nei supermercati. Oltraggi alla cittadinanza, alla pazienza, alle infinite liste di attesa per una visita medica, ai lavori autostradali permanenti, senza che nessuno ci rimborsi del tempo perso, e della pazienza tramutata in bile. Eppure stiamo zitti, perché in qualche modo siamo abituati a questo modo di fare. E sappiamo che se andiamo a denunciare, passiamo dalla parte del torto. Arriverà qualcuno, magari proprio un funzionario pubblico, a dirci che non ci conviene procedere, perché le cose possono sempre cambiare in corso d’opera. E, in cuore nostro, lo sappiamo davvero: le cose, nella maggioranza dei casi, cambiano in corso d’opera. Siamo profondamente tutti collusi. Nel nostro piccolo, oppure nel nostro grande. E sappiamo anche che nessuno, per la tragedia annunciata di Genova, pagherà. Perché ci sarà qualche cosa in corso d’opera che farà cambiare idea a qualche giudice, oppure la lungaggine burocratica giudiziaria non porterà a nulla. Ricordate Ustica, per non parlare di casi giudiziari insoluti, da oltre trent’anni. E poi, per ultimo. Gli ingegneri. Non lo sono, per fortuna. Se lo fossi, quasi tremerei di fronte alla firma di calcoli con i quali si dichiara l’agibilità di una costruzione. Quanti dubbi avrei, sulla mia capacità, sulla mia lucidità scientifica. Eh, sì! Perché noi crediamo che i numeri della matematica siano scientifici! Ma non è affatto così, perché abbiamo ascoltato alla televisione pareri discordanti sul ponte Morandi, dove ogni ingegnere intervistato esprimeva il proprio punto di vista. E nessuno di noi, ad oggi, sa perché il ponte è caduto. Fatto sta: è caduto, seminando morte. Dunque, smettiamo di invocare la scienza, perché questi scienziati sono cittadini come noi, corrotti e collusi come tutti. Tengono famiglia, e attaccano il loro carro dove i diversi padroni richiedono. Ci vorrebbe una rinascita morale, etica. Ma non accadrà sino a quando non verranno meno queste azioni mistificatrici, anche televisive, oltre che politiche. Ci vuole un reset, quasi totale. E ci penserà la Natura. Anzi, ci sta già pensando. Certo, muoiono molti innocenti. Ma è così che procede il mondo, da sempre. E fra un innocente ed un altro, soccomberà anche il colpevole. Direte che sono stato “di pancia”, nel mio scrivere. Sì, lo sono stato. Perché sono due giorni che non dormo. Non riesco a togliermi dalla testa le immagini che ho visto. E sono offeso, intimamente offeso. E triste, come la maggioranza degli italiani. 

Scatta subito lo sciacallaggio Di Maio-Renzi, rissa sui soldi. Il grillino: Pd pagato da Benetton. Il dem: il mio governo non ha preso un centesimo, chi lo dice è un bugiardo, scrive Laura Cesaretti, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale. La conta dei morti di Genova non si è neppure conclusa, ma la macchina della propaganda sulla tragedia funziona a pieno ritmo. Il governo, dal premier Conte al suo vice Di Maio, ha annunciato urbi et orbi la revoca della concessione ad Autostrade. Ma ieri è iniziata la precipitosa marcia indietro, con il ministro Toninelli che parla di revoca «eventuale» e i Cinque Stelle che spiegano che si farà solo «se ci fossero le condizioni», mentre la Lega propone una «trattativa» con Autostrade. Il tutto mentre in un lungo sproloquio via blog Beppe Grillo si scaglia contro i «parassiti privati» che gestiscono concessioni e chiede che sia fissato «un limite etico ai loro profitti», accusando i media (ovviamente venduti) di coprirli: «I pettegoli pagati da questi signori sono già scatenati a proteggerli». Intanto si provvede ad additare alla pubblica gogna colpevoli per tutti i gusti, via social e dichiarazioni: i Benetton, i governi precedenti, il Pd, la Ue (che replica per le rime), persino la stampa internazionale che accusa i «populisti di governo» di sparare troppe balle e il M5s di impedire la realizzazione di nuove e migliori infrastrutture. Di Maio inizia di buon mattino, accusando in pratica il Pd di aver preso soldi dai titolari di Autostrade: «Nello Sblocca Italia nel 2015 fu inserita di notte una leggina che prolungava la concessione ad Autostrade in barba alla concorrenza. Si è fatta per finanziare le campagne elettorali». E minaccia: «Scoperchieremo tutto e il marcio verrà a galla. Tanti, troppi favori da giustificare. Se non ci diranno perché, lo scopriremo noi». Di Maio punta anche il dito contro Matteo Renzi: «Che non dice niente delle fondazioni legate a doppio filo col suo partito. La sua parola per gli italiani vale zero», afferma. L'ex segretario dem replica con durezza: «Utilizzare una tragedia per attaccare gli avversari, mentendo, dà il senso della caratura morale e politica del vicepresidente del Consiglio», scrive Renzi. «Chi come Luigi Di Maio dice che il mio governo ha preso i soldi da Benetton o Autostrade è tecnicamente parlando un bugiardo. Se lo dice per motivi politici invece è uno sciacallo. In entrambi i casi - aggiunge - la verità è più forte delle chiacchiere: il mio governo non ha preso un centesimo da questi signori, che non hanno pagato la mia campagna elettorale, né quella del Pd, né la Leopolda». Dal fronte dem, il segretario Maurizio Martina denuncia «inaccettabili attacchi squadristi e infamanti» contro la precedente maggioranza. E l'ex senatore Stefano Esposito risponde per le rime a Di Maio: «Evidentemente non conosce le norme: la leggina del 2015 da lui evocata fu abolita nel 2016 con il nuovo Codice degli appalti. La nuova norma prevede che le concessioni a scadenza e le nuove concessioni devono essere messe a gara europea». E ricorda la «guerra» tra il governo Renzi e i concessionari autostradali sulla «norma per riservare in house solo una quota del 20% delle opere da realizzare, perché smettessero il giochetto di affidare i lavori senza gara, ossia la vera mangiatoia per i concessionari autostradali, altro che i pedaggi». Peccato, aggiunge, che a far guerra a quella norma furono, accanto alle aziende, «i sindacati, il M5s e purtroppo anche un pezzo di Pd». Intanto il renziano Anzaldi rilancia le indiscrezioni di stampa secondo cui proprio Giuseppe Conte, in veste di avvocato, «sarebbe stato consulente di Aiscat e legale dell'autostrada A4 Brescia-Padova», e chiede al premier di «chiarire quali sono gli attuali rapporti» con quelle società.

Ponte Morandi, la confessione drammatica di Graziano Delrio: il peso sulla coscienza dell'ex ministro, scrive il 17 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano". Nella girandola devastante di accuse dopo il crollo del ponte Morandi di Genova ci è finito anche l'ex ministro delle Infrastrutture, il Pd Granziano Delrio, che in più occasioni ha ricevuto interrogazioni da parte dei parlamentari sulle condizioni della struttura crollata il 14 agosto e che ha ucciso oltre 38 persone. Su Facebook Delrio ha respinto "i processi sommari", minacciando querela a chi lo avesse diffamato. Nel privato però, riporta un retroscena di Repubblica, è l'uomo a crollare davanti a una tragedia così imponente: "Non dormo da due notti. Sono sconvolto, amareggiato, triste per le vittime, per quello che ho visto". Da ex ministro, Delrio sente addosso delle responsabilità: "Mai ricevuto segnalazioni di alcun tipo, da nessuno, su ipotesi di cedimento strutturale del viadotto". E poi ci sono le accuse sulle pressioni della lobby di Autostrade e sui finanziamenti ai partiti di cui, secondo Luigi Di Maio, avrebbe goduto anche il Pd: "Il tesoriere del partito dice che non è mai arrivato un euro. Renzi conferma: mai un soldo, né al Pd né alla Leopolda. Per quanto mi riguarda non ho né fondazioni né associazioni, figuriamoci. E rifiutavo gli inviti ai convegni o sponsorizzati da società con le quali il ministero aveva rapporti". Come sia potuta accadere quella tragedia, Delrio non riesce a trovare una spiegazione: "Quel viadotto è il più controllato d'Italia, quello che riceve più manutenzione in assoluto. Perché? Perché è un ponte nato male, questo ormai è evidente a tutti. Però sarei più prudente sulle cause".

Crollo di Genova, tre domande a Delrio, scrive il 15 agosto 2018 Laura Tecce su "Libero Quotidiano". Con la consapevolezza che ciò che è accaduto a Genova rappresenta un fallimento anche per lo Stato italiano, occorre ricordare che questa tragedia annunciata presenta due livelli di responsabilità: quello del decisore politico sulle grandi opere e sul modello di sviluppo da perseguire e quello della realizzazione e gestione in regime di concessione, dove il concetto di trasparenza (scandalosamente) non esiste e dove di fatto vige un sistema di oligarchie simil soviet. Alla luce di ciò, egregio on. Graziano Delrio, da giornalista e da cittadina italiana vorrei porle tre domande inerenti alla sua precedente funzione di ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ruolo ricoperto dal 2 aprile 2015 fino al 1° giugno 2018.

1) Come è possibile che sia stato apposto il segreto di Stato su parti fondamentali degli atti convenzionali relativi alle concessioni autostradali, cioè quelle sui i contenuti economico- finanziari del contratto? Non sarebbe l’ora di toglierlo del tutto, dato che non si conoscono interamente i contenuti né della convenzione del 1997, né di quella del secondo Governo Prodi del 2007, né gli atti aggiuntivi del 2013 e del 2015 dei Governi Letta e Renzi?

2) L’attuale ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, parlando dal luogo del disastro crollo del ponte Morandi a Genova che (ad ora) ha causato 43 vittime innocenti, ha detto che il ministero si costituirà parte civile. «Chi ha sbagliato deve pagare fino alla fine. La prima cosa che faremo è andare a guardare la convenzione con Autostrade per l’Italia e revocarla, e sanzionare pesantemente coloro che non hanno adempiuto a obblighi contrattuali chiarissimi, quelli della manutenzione». Alle parole del ministro si sono aggiunte quelle del Procuratore capo di Genova Francesco Cozzi: «Prime indagini sulla società autostrade: ci chiedono il pedaggio, il minimo che ci possiamo aspettare è che non ci crolli addosso il ponte. Non è stata una fatalità, ma un errore umano» a provocare il crollo del ponte a Genova. Ebbene, on. Delrio, su quali basi è avvenuto l’allungamento della concessione, dalla data prevista del 2038 fino al 2042, definito il 5 luglio 2017 tra lei e la commissaria alla Direzione Generale della Concorrenza (DgComp) Margrethe Vestager? Secondo il piano concordato da Bruxelles con il governo italiano, le suddette proroghe delle concessioni autostradali ad Autostrade per l’Italia, società controllata del gruppo Benetton, che gestisce anche il tratto di A10 dove è crollato il ponte prevedono ovviamente anche la manutenzione, che garanzie aveva richiesto lei in merito? E perché durante il periodo delle privatizzazioni tutte le concessioni sono state rinnovate senza alcuna gara pubblica?

3) L’ex senatore ligure Maurizio Rossi, eletto nel 2013 in Parlamento con Scelta civica, l’aveva avvertita per ben due volte, il 20 ottobre 2015 e il 28 aprile 2016, dei problemi di sicurezza del viadotto Polcevera dell’autostrada A10 (chiamato ponte Morandi) attraverso due interrogazioni parlamentari. Perché non le ha ritenute degne di interesse?

I dem fanno quadrato su Delrio: "È un galantuomo". Il Pd respinge le accuse di aver prorogato la concessione ai Benetton: "È tutto regolare", scrive Laura Cesaretti, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale".  «Adesso basta». Il Pd cerca di reagire alla gragnuola di colpi bassi arrivati da una maggioranza alla frenetica ricerca di capri espiatori da dare in pasto alla pubblica opinione, e lancia la sua parola d'ordine. Matteo Renzi difende l'ex ministro dei Trasporti Delrio, «un galantuomo» che è stato «ingiustamente accusato, con metodo infame». Chiede che il Parlamento interrompa le ferie e che il successore di Delrio, Toninelli (che per ora «è sparito, commissariato da un Di Maio tutte le sere in tv») venga a «riferire in Aula». E «abbia il coraggio» di spiegare finalmente «se il governo è favorevole o no alla Gronda», sfida l'ex premier, ben sapendo che Lega e grillini sono su sponde opposte sul tema, e che l'attivismo sul fronte No Gronda, che definiva «una favoletta» il rischio di crollo del ponte Morandi, è un punto dolente per i Cinque Stelle e per lo stesso Beppe Grillo. Renzi ribatte «punto per punto, colpo su colpo» ad accuse e insulti di questi giorni, a cominciare da quella lanciata da Di Maio su presunti finanziamenti dei Benetton al Pd: «Vedendo le carte scopriamo che io non ho preso un centesimo né per la Leopolda, né per le nostre campagne elettorali. E ciò significa che Di Maio è un bugiardo. E uno sciacallo. Ma come se non bastasse si scopre che Società Autostrade ha finanziato la Lega e che il Premier Conte è stato legale di Aiscat, la società dei concessionari di autostrada. Quindi se Di Maio vuole sapere chi prendeva soldi dal sistema autostradale lo deve chiedere al prossimo Consiglio dei ministri, non a noi». Quanto all'accusa al suo governo di aver prorogato la concessione alla società dei Benetton, l'ex premier ricorda che nel 2017, «dopo un confronto con la Commissione Ue», si decise di allungarla di quattro anni ad una condizione precisa: «Prorogare la concessione è stata una scelta del governo per avere subito l'opera pubblica che avrebbe decongestionato il traffico a Genova» ossia la Gronda. «Adesso basta», dice anche il segretario Pd Maurizio Martina. «Ora servirebbero unità e responsabilità. Non propaganda e falsità. I ministri che scambiano il governo per un social network fanno male all'Italia». Matteo Orfini chiama in causa la «potente macchina del fango» dei partiti di maggioranza, che sui social media - accusa - e tramite pagine non ufficiali «creano, amplificano, rilanciano notizie false e accuse violentissime» contro gli avversari politici. E il presidente Pd, suscitando le ire di Lega e Cinque Stelle, chiede ai militanti di segnalare e denunciare gli «abusi» e le «fake news». Ma c'è di più e di peggio: nel Pd (come del resto in Forza Italia) sono in molti a chiedere alla Consob di verificare cosa sia successo attorno al titolo di Autostrade nel corso del tira e molla governativo su revoca sì - revoca no: «Un balletto molto strano, che sicuramente richiamerà l'attenzione della Consob», dice Renzi. Il deputato dem Michele Anzaldi è più brutale: «Si apra un'istruttoria sul colpo gobbo di Ferragosto ad opera del presidente del Consiglio Conte, dei vicepresidenti del Consiglio Di Maio e Salvini, del ministro Toninelli. Si indaghi su manipolazione del mercato e aggiotaggio».

Ponte Genova, il Pd se la prende con le fake news. La Lega: "Orfini pensi a Daisy". Scontro a distanza tra il Pd e la Lega sulla "fake news". Orfini: "Di Maio e Salvini aggrediscono il Pd con bugie e falsità". Grimoldi: "Hanno la memoria corta", scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Lo scontro sul ponte Morandi di Genova ora si sposta sul piano delle fake news. Ed è il presidente del Pd, Matteo Orfini, a lanciare il sasso riaccendendo la polemica politica sul crollo del viadotto nel capoliogo ligure. "Ora davvero si è passato il segno - ha scritto su Facebook Orfini - non che mi aspettassi molto da loro, ma speravo che almeno di fronte alla morte e al dolore si fermassero. E invece no, lo schema è quello di sempre: Di Maio e Salvini aggrediscono il Pd con bugie e falsità e una potente macchina del fango si muove sui social. Pagine non ufficiali creano, amplificano, rilanciano notizie false e accuse violentissime". Insomma: di fronte a quelle che Orfini definisce "bugie e falsità", il Pd decide (ancora) di rispolverare la battaglia alle fake news. "Ora basta - continua il dem - questa volta denunceremo tutto: dai leader che ci hanno accusato con falsità alle pagine e ai profili che hanno diffuso contenuti diffamatori. Segnaleremo ogni caso a seconda della gravità a facebook, all'agcom, alla polizia postale. Uno per uno. Ma abbiamo bisogno del vostro aiuto: segnalateci tutti gli abusi che trovate qui su Facebook, aiutateci a rendere ancor più capillare questo lavoro". E poi ha allegato un modulo da compilare per segnalare le presunte bufale (chiedendo pure di inviare gli screenshot). Immediata è arrivata la risposta della Lega. "Matteo Orfini annuncia che il PD vuole assemblare un dossier sulle fake news lanciate dal Governo? - attacca Paolo Grimoldi - Probabilmente è una barzelletta oppure la sparata di un dirigente di un partito che in effetti hanno rottamato, perché più rottamato di così sarebbe impossibile. Orfini si è dimenticato che le fake news le hanno inventate loro, propinandole ogni sera agli italiani, quando raccontavano che accoglievamo profughi che scappavano dalle guerre quando il 90% dei nigeriani, senegalesi ecc arrivati in realtà sono clandestini, quando raccontavano che l'immigrazione non si poteva fermare mentre in due mesi questo Governo ha chiuso i porti e azzerato gli sbarchi, quando tiravano fuori barzellette come la “buona scuola” dove poi ci sono i soffitti che crollano sulla testa degli studenti. Renzi ha persino annunciato che avremmo conquistato Marte con la sonda Schiaparelli". Il deputato della Lega e segretario della Lega Lombarda rimprovera a Orfini di avere la "memoria corta". "Per rinfrescargli la memoria - aggiunge Grimoldi - gli ricordiamo il suo virgolettato del 31 luglio, dove parlava di “emergenza razzista” e accusava 'il governo semina odio ed è responsabile di questa escalation nel Paesè, mentre si riferiva all'aggressione subita a Moncalieri dall'atleta azzurra Daisy Osakue, un'altra fake news del PD visto che dietro quell'aggressione non c'era razzismo, ma solo stupità e inciviltà da parte peraltro del figlio di un loro esponente. Magari questa fake news Orfini se la ricorda meglio".

Benetton, scontro Salvini-Renzi. "Fondi alla Lega", "Con me mai presi". Matteo Salvini replica alle accuse di Matteo Renzi per quanto riguarda i presunti finanziamenti di Benetton nelle campagne elettorali, scrive Giovanna Stella, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Si continua a discutere sul crollo del ponte Morandi. Anche se l'attenzione politica finisce sempre su Benetton e la gestione dei soldi per Autostrade. Dopo la netta presa di posizione di Luigi Di Maio nella quale ha ricordato che questo governo non ha preso soldi dall'azienda per le campagne elettorali, arriva la replica di Matteo Renzi. L'ex premier si è sentito tirato in causa: "Di Maio dice che il suo governo è il primo a non aver preso soldi da Benetton o Società Autostrade e che Benetton non gli ha pagato la campagna elettorale. Falso! Vedendo le carte scopriamo che io non ho preso un centesimo nè per la Leopolda nè per le nostre campagne elettorali. E ciò significa che Di Maio è un bugiardo. E uno sciacallo". Ma Matteo Renzi non si ferma qui e punta il dito anche contro la Lega: "Ma come se non bastasse si scopre che Società Autostrade ha finanziato la Lega e che il Premier Conte è stato legale di Aiscat, la società dei concessionari di autostrada. L'avvocato del popolo diventa all'improvviso l'avvocato delle autostrade. Quindi se Di Maio vuole sapere chi prendeva soldi dal sistema autostradale lo deve chiedere al prossimo Consiglio dei ministri, non a noi". E in questa partita a chi gioca più sporco, prende la parola Matteo Salvini. Il ministro dell'Interno precisa all'Huffington Post: "Era il 2006 e a quel tempo io non ero né segretario né amministratore del partito. Le posso garantire che da quando sono alla guida della Lega non abbiamo preso una lira da queste persone". Poi Salvini rincara la dose: "A differenza del Pd, noi abbiamo avuto la forza di fare pulizia, di cambiare tutti e tutto, mentre gli altri non hanno cambiato nulla. Fossi in chi ha firmato quelle concessioni qualche problema di coscienza ce l'avrei perché mi sembrano, letti i bilanci, molto per i privati e molto meno per i cittadini".

Ponte Morandi, i rapporti tra Pd e Autostrade dei Benetton: cosa faceva Simonetta Giordani per Enrico Letta, scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Sui rapporti (e i soldi) tra Benetton e Pd è scattata la battaglia del fango tra Luigi Di Maio e Matteo Renzi quando le macerie del ponte Morandi di Genova erano ancora fumanti e si scavava per cercare di salvare qualche altra vittima del crollo. Uno spettacolo per certi versi penoso, ma che non cancella i rapporti pericolosi tra i vertici dem e Autostrade per l'Italia, controllata appunto dalla Atlantia dei Benetton. Dagospia lancia nell'arena un paio di nomi pesanti, legati entrambi all'ex premier Enrico Letta, l'uomo che alla vigilia di Natale 2013 ha firmato a Palazzo Chigi la modifica della concessione ad Autostrada per l'Italia. Il primo è quello di Simonetta Giordani, pr di Autostrade promossa proprio da Letta al governo e piazzata, poi, da Renzi nel cda di Ferrovie. Oggi è tornata in Atlantia, capo delle relazioni istituzionali. C'è poi il caso di Francesco Delzio, co-fondatore del think tank lettiano VeDrò. Ora è vicepresidente e capo relazioni esterne di Atlantia e di Autostrade per l'Italia. 

Genova, Di Maio: "Molti politici passati per Autostrade, uno su tutti Enrico Letta". Il vicepremier grillino all'attacco: "I morti di Genova conseguenza delle marchette ad Autostrade". Poi l'affondo contro Enrico Letta, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Di Maio va all'attacco di Enrico Letta. Mentre il governo ha annunciato di aver avviato l'iterper la revoca della concessione a società Autostrade, il vicepremier grillino rinfocola la polemica politica scoppiata dopo il crollo del ponte Morandi a Genova. Toninelli e Conte hanno annunciato di voler "ribaltare" il sistema delle concessioni. "Faremo di tutto per rivedere integralmente il sistema delle concessioni e man mano che esse scadono ne approfitterà per impostare queste operazioni sulla base di nuovi princìpi e di più soddisfacenti equilibri giuridico-economici", ha spiegato in una nota il premier. Secondo cui il "processo di privatizzazioni" avviato anni fa è stato fatto secondo "una logica che ha favorito la gestione finanziaria delle stesse e ha oscurato la logica industriale che invece dovrebbe caratterizzarle". Le parole in politichese del premier si scontrano con quelle molto più dure del capo politico del Movimento. Il quale parla senza mezzi termini di "marchette" della politica ad Autostrade. "Molti dei personaggi politici che hanno permesso tutto questo, oggi o lavorano per Autostrade per l'Italia o sono loro consulenti - attacca Di Maio - Uno su tutti Enrico Letta, ex presidente del Consiglio, passato per il Cda della società che gestisce le autostrade spagnole, comprate dai Benetton con i soldi dei pedaggi degli italiani". In una lettera ai parlamentari del M5S, Di Maio ha ricordato che "per 5 anni dall'opposizione abbiamo combattuto contro i privilegi di Autostrade per l'Italia, che gestivano e gestiscono le nostre autostrade senza gare e con doveri contrattuali ridicoli". Non manca la polemica sul fatto che i contratti di concessione "siano stati secretati per i vergognosi vantaggi che gli erano stati concessi". "Sono anni che i nostri parlamentari, guidati dal nostro senatore e sottosegretario Andrea Cioffi, ad ogni legge di Bilancio hanno provato a fermare le marchette ai concessionari autostradali. Il crollo del ponte Morandi è figlio di tutti i trattamenti privilegiati e delle marchette fatti ad Autostrade per l'Italia", scrive Di Maio. "Il bilancio, per ora, è di 39 morti, con famiglie distrutte, feriti, gente che magari resterà in carrozzella per tutta la vita, oltre 600 sfollati che si vedranno la casa abbattuta. A tutte queste persone dobbiamo delle risposte concrete, non solo il cordoglio". Il governo, dice Di Maio, non intende "arretrare di un millimetro". "Applicheremo sanzioni e chiederemo risarcimenti per centinaia di milioni di euro - spiega il vicepremier ai parlamentari pentastellati - che sono soldi dovuti, non concessioni da barattare con l'eventuale revoca". Poi l'annuncio: "Desecreteremo tutti i contratti dei concessionari autostradali e mostreremo questa vergogna al mondo intero. Chiederemo a tutti i funzionari pubblici che hanno incarichi a vario titolo, anche dentro Autostrade per l'Italia, di dimettersi da uno dei due ruoli". Dal canto suo Enrico Letta a Dagospia ha fatto alcune precisazioni: "Sono entrato nel Consiglio di Abertis alla fine del 2016, quando questa era una società spagnola, e prima che venisse ventilata l'ipotesi di OPA da parte italiana". L'ex premier ha poi spiegato che "da Abertis sono uscito, dimettendomi volontariamente, e dandone pubblica notizia nel maggio scorso, esattamente quando è cambiata la proprietà con l'ingresso di Atlantia". E questo "perchè, proprio per evitare al massimo possibili conflitti di interesse con le mie precedenti funzioni, ho scelto, una volta lasciato il Parlamento, di esercitare attività professionali fuori dall'Italia". "È quindi vero proprio il contrario - ha concluso Letta - rispetto ai conflitti di interesse di cui, omettendo di raccontare i fatti appena descritti, mi si accusa impropriamente".

Genova, ponte Morandi: autostrade, tutti i regali della sinistra ai Benetton, scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Il Fatto quotidiano, per sdrammatizzare, definisce la regolazione delle concessioni autostradali in Italia "Metodo Marzullo - si faccia una domanda e si dia una risposta". Nel senso che quando le autostrade italiane vennero date in gestione ai privati nel 1999 (al governo c'era D'Alema), si creò un sistema quantomeno bizzarro, con il gestore autostradale che era di fatto il controllore di se stesso essendo l'unico a effettuare i periodici controlli sulle strutture autostradali. Stesso discorso vale, sempre secondo Il Fatto, per il piano pedaggi, cioè ricavi e profitti: una norma generale del 1994 stabiliva che prima di privatizzare imprese operanti in servizi di pubblica utilità si istituisse un regolatore indipendente per la determinazione delle tariffe e il controllo della qualità. Per questo furono istituite le varie "Authorithy" per l'energia, le comunicazioni e via dicendo. Ma questo non avvenne al momento di privatizzare autostrade e aeroporti. L'Autorità per i trasporti è nata solo nel 2011, è diventata operativa nel 2013ma la sua legge istitutiva dispone che per il settore autostradale debba occuparsi solo delle nuove concessioni, non di quelle già in essere. In più, cosa incredibile, le concessioni autostradali sono da sempre secretate e non ne conosce i contenuti neppure l'Autorità. L'ex ministro Delrio le rese pubbliche sul sito del ministero, ma senza gli allegati riguardanti i piani finanziari che giustificano le tariffe e le loro variazioni nel tempo. Ancora, un altro vantaggio per i gestori è quello di poter caricare nelle tariffe il recupero finanziario di investimenti che si faranno forse in futuro. Infine, il concedente (ovvero lo Stato), in caso di grave inadempienza del concessionario (ad esempio Autostrade per l'Italia), può fare decadere la concessione ma in tal caso deve indennizzarlo dei profitti che avrebbe conseguito per gli annui residui della concessione.

Ponte Morandi, la disperazione del responsabile dei controlli ai cantieri: "Non ci sono soldi", scrive il 16 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Emerge un altro dettaglio agghiacciante sul sistema di verifica e controllo delle manutenzioni nei confronti delle concessionarie autostradali, a due giorni dal tragico crollo del ponte Morandi a Genova. In un'audizione parlamentare del 7 settembre 2016, il direttore della Vigilanza del ministero delle Infrastrutture sulle concessionarie autostradali, l'architetto Mauro Coletta, che confessava al presidente della Commissione, Ermete Realacci, le enormi difficoltà che doveva affrontare per svolgere il proprio lavoro. Difficoltà cominciate con l'introduzione della legge 111 del 2011 che trasferiva l'attività di ispezione che prima spettava all'Anas direttamente al ministero delle Infrastrutture. La nuova legge aveva comportato innanzitutto il trasferimento immediato di tutto il personale che si occupava dei sopralluoghi nei cantieri per gallerie, ponti, viadotti e segnaletica stradale. Al trasferimento del personale però sembra non fosse seguito uno stanziamento adeguato di fondi, costringendo così gli ispettori a rimetterci di tasca propria per svolgere la propria attività: "I collaboratori che si recano in missione per svolgere i sopralluoghi - aveva detto Coletta - devono anticipare le spese. È importante farlo presente: mi scusi se parlo di queste piccole questioni, ma il rimborso arriva dopo quattro o cinque mesi. Il dipendente che non può anticipare le somme occorrenti per l'albergo e per i pasti è costretto a rientrare in sede. Ciò crea grossi problemi. Basti pensare che siamo passati da 1400 ispezioni all'anno nel 2011 a 850 ispezioni nel 2015. Ne risente quindi l'attenzione da parte di tutto l'apparato. All'interno di un assetto ministeriale c'è molta più burocrazia rispetto all'attività che conduciamo".

Sappiamo chi è stato. Più di 30 morti nel crollo del ponte, ma la catastrofe era evitabile. Non è vero che non c'erano i soldi, siamo stati ricattati da chi non vuole le grandi opere, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale". Non cominciamo con la storiella che il ponte autostradale di Genova è crollato inghiottendo il suo carico umano per colpa dei vincoli europei. Quel ponte non doveva crollare, punto e a capo. Sostenere l'inverso è soltanto uno squallido sciacallaggio politico fatto sulla morte di alcune decine di ignari e incolpevoli cittadini. La società Autostrade (azienda privata di proprietà della famiglia Benetton) responsabile del manufatto, trabocca di soldi che non sa più dove mettere. Soldi peraltro frutto di pedaggi da strozzini incompatibili con la qualità del servizio - meglio sarebbe dire disservizio - offerto agli automobilisti. Quel ponte non è crollato perché l'Europa è cattiva e non ci fa spendere ma perché l'Italia è stupida e ferma nelle grandi opere, salvo rare eccezioni tipo l'alta velocità ferroviaria e la variante di valico tosco-emiliana, agli anni Cinquanta. Quel ponte è crollato non perché mancano i soldi ma perché questo Paese è in perenne ostaggio di minoranze demagogiche e stupide che si sono messe di traverso ai già scarsi tentativi di modernizzare tutte le reti di comunicazione via terra. Per decenni lo è stato della sinistra ambientalista, oggi lo è del grillismo che, purtroppo con l'aiuto di un pezzo importante del centrodestra quale è la Lega, sta cercando di fermare i grandi e innovativi progetti già avviati per il trasporto sicuro e veloce delle merci e dell'energia. Il ministro delle Infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli (quello che in campagna elettorale disse di sentirsi geneticamente superiore ai colleghi del centrodestra) può piagnucolare e indignarsi quando vuole, ma è proprio il suo movimento a essersi opposto al progetto di una grande opera a Genova per bypassare quel maledetto ponte che a detta di tutti un giorno o l'altro sarebbe caduto. E sapete qual era lo slogan dei Cinquestelle? Questo: «Non crediamo alla favola del ponte che cade». Siamo onesti. Altro che Europa, cretini e incoscienti li abbiamo in casa e li abbiamo - non noi - mandati pure al governo, al grido di «basta nuovi ponti che arricchiscono i soliti noti». Per cui teniamoci quelli vecchi, così vecchi che non c'è manutenzione ordinaria o straordinaria che ne possa garantire la stabilità. E questo al di là di errori, omissioni e ladrerie umane che evidentemente ci sono state e andranno perseguite. I ponti non sono dei monumenti eterni, sono logorati dalla vita più o meno come capita a un uomo e dopo una certa età non c'è lifting o medicina capace di tenerlo in forma e garantirgli l'immortalità. La «favola del ponte che cade» si è avverata perché abbiamo dato, e ahimè continuiamo a dare, credito a questi venditori di fumo tipo Toninelli, travestiti da statisti e modernizzatori. Per liberarci di vecchi ponti e grandi opere dobbiamo prima liberarci di chi si oppone ai nuovi. Purtroppo, vista l'aria che tira, la seconda cosa sarà più difficile della prima. Ma se non vogliamo andare avanti a lutti di Stato dobbiamo provarci, non con il cemento ma con il voto.

L'autorità ministeriale per i controlli? In un anno una sola multa (da 40mila euro). I tecnici delle Infrastrutture faticano a controllare l'operato dei concessionari, scrive Lodovica Bulian, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". «Sappiamo che ci sono delle inadempienze, quindi revocheremo le concessioni», ha annunciato il governo mentre ieri dalla commissione Ue arrivava la conferma che è «il concessionario ad avere la responsabilità della sicurezza e della manutenzione della strada». La delicata questione delle competenze sui nodi autostradali non riguarda però solo i soggetti che li gestiscono. Ma anche chi su quei soggetti è chiamato a vigilare e a certificare possibili «gravi inadempienze» rispetto alle convenzioni siglate, come quelle su cui ora si dovrà fondare la promessa procedura di revoca. Si tratta della Direzione di vigilanza sulle concessioni autostradali, un organismo del ministero delle Infrastrutture nato per controllare l'operato delle 24 società che gestiscono la rete. Tra le sue attività è inclusa, si legge nel decreto con cui è stato istituito, la «vigilanza sull'adozione, da parte dei concessionari, dei provvedimenti ritenuti necessari ai fini della sicurezza», oltre che sulla costruzione di nuove opere, sulla qualità del servizio, sui piani finanziari e pedaggi. Insomma, ispettori. Sulla cui efficacia però, all'indomani della tragedia, è sorta più di qualche domanda. Nella sua ultima relazione disponibile, relativa al 2016, l'ufficio elenca le ispezioni svolte nello stesso anno sui concessionari per accertare, tra gli altri punti, anche «il mantenimento di adeguati standard di sicurezza, qualità e comfort, nonché l'espletamento degli interventi di manutenzione sulle infrastrutture autostradali gestite in concessione». Ne emerge che su 1.101 visite ispettive fatte, 453 hanno riguardato le reti gestite proprio da Autostrade per l'Italia e hanno portato alla luce 3.568 «non conformità», di cui 3.251 poi sanate. A fronte dei risultati delle verifiche, nel 2016 la Vigilanza ha avviato cinque procedure d'infrazione: una ha portato all'applicazione di una penale da 40mila euro per criticità sulla tratta A7-A26 che erano state rilevate nel 2015, mentre le altre sono in corso. Negli anni passati nei confronti della concessionaria, si legge, c'erano state altre due procedure concluse con due penali da 900mila euro ciascuna, di cui una per un'emergenza neve. Va detto però che contro le sanzioni di solito piovono poi i ricorsi dei concessionari contro la stessa Vigilanza: impugnazioni che negli anni hanno generato oltre trecento contenziosi pendenti. Eppure l'organismo di Vigilanza fatica a far fronte al delicato compito che gli è assegnato, soprattutto dopo la riorganizzazione delle risorse umane che sono state trasferite dall'Anas in capo al ministero delle Infrastrutture nel 2011. Rende l'idea delle difficoltà un'audizione alla Camera del 2016 in cui l'allora direttore della Vigilanza Mauro Coletta denunciava che «i collaboratori che si recano in missione per svolgere i sopralluoghi devono anticipare le spese. Il dipendente che non può anticipare le somme occorrenti per l'albergo e per i pasti è costretto a rientrare in sede. Ciò crea grossi problemi. Ne risente, quindi, l'attenzione da parte di tutto l'apparato». Tanto che le verifiche avevano subito un crollo, prima di risalire ai livelli attuali: dalle 1.073 fatte nel 2009, alle 496 del 2015, fino alle 1.001 del 2016. Non esistono, però, ispezioni sulle ispezioni.

Genova, crollo ponte Morandi. Di Pietro: "Ministri improvvisati sparano fake news", scrive il 16 agosto 2018 Repubblica Tv. L'ex magistrato ed ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, ospite di "In onda" su La7, ha voluto fare chiarezza riguardo la revoca della concessione di Autostrade annunciata dai ministri Salvini e Di Maio. "La caduta del ponte non è sufficiente di per sé a disporre la revoca della concessione", ha detto dopo aver definito "ministri improvvisati quelli che sparano a zero per fare comunicazione e fake news".

Strage di Genova, la sicurezza delle autostrade affidata a un laureato in scienze politiche. Le falle nei controlli: il capo della vigilanza del ministro Toninelli non ha competenze ingegneristiche. La componente dell'Autorità dei trasporti non ha superato un concorso pubblico. E dalle macerie emergono gli stessi giunti del ponte crollato in Brianza nel 2016, scrive Fabrizio Gatti il 16 agosto 2018 su "L'Espresso". Il capo della vigilanza del ministero sulla sicurezza delle autostrade? È laureato con lode, ma in scienze politiche. L'Autorità di regolazione dei trasporti? Uno dei due componenti che affiancano il presidente è talmente bravo che ha ottenuto l'incarico senza aver mai superato un concorso pubblico. Il crollo del ponte Morandi, avvenuto martedì 14 agosto, con almeno 39 morti e numerose persone ancora disperse, alza un velo non soltanto sulla gestione della rete viaria: anche il sistema di controllo che lo Stato deve garantire ha le sue crepe. Sulle cause del disastro, le ipotesi ora non riguardano soltanto il possibile cedimento degli stralli, i tiranti di ferro e calcestruzzo precompresso che sostenevano il piano stradale. Come L'Espresso ha potuto verificare, due parti importanti precipitate sul fondovalle erano collegate con il resto del viadotto da quattro "seggiole Gerber": lo stesso tipo di giunto la cui usura, insieme con il sovraccarico per il passaggio di un Tir, ha contribuito al crollo del ponte sulla superstrada Milano-Lecco ad Annone in Brianza il 28 ottobre 2016. «Lo schema a travatura Gerber», spiega Sergio Tattoni, professore al Politecnico di Milano, in uno studio per il Centro internazionale di aggiornamento sperimentale, «ha trovato molto favore nella costruzione dei ponti poiché consentiva di abbinare i vantaggi delle travature continue a quelli delle strutture isostatiche. La percolazione di acqua arricchita di agenti corrosivi, residui di combustione dei veicoli, sale anticongelante, oltre all'ossidazione della armature provoca un'alterazione chimica della pasta cementizia e la sua disgregazione». Due dei piani di autostrada caduti, da una parte e dall'altra del "traliccio" centrale crollato, erano appoggiati su mensole di cemento armato che per la corrosione tendono ad arrotondarsi e quindi a diventare meno resistenti al carico. «La caduta improvvisa di uno di questi piani», spiega un tecnico del ministero delle Infrastrutture, «potrebbe aver provocato uno sbilanciamento e un contraccolpo a tutto il viadotto, con il conseguente cedimento degli stralli e il crollo dell'intera antenna centrale del ponte». Questo dettaglio potrebbe spiegare la dinamica del collasso, avvenuta in almeno due fasi. All'inizio del video ripreso da un abitante del quartiere si vede infatti che almeno uno dei tratti sostenuto con "seggiole" Gerber è già caduto mentre la struttura di supporto è ancora in piedi e proprio in quel momento collassa. L'inchiesta stabilirà se si è rotto prima uno strallo oppure se è ceduto uno dei giunti. La risposta è piuttosto importante: perché non esistono in Italia altri ponti con stralli a calcestruzzo precompresso, ma migliaia di viadotti si reggono invece su "seggiole" Gerber. Un altro aspetto su cui stanno cominciando a indagare gli investigatori, coordinati dalla Procura di Genova, è la concomitanza tra la proroga dal 2038 al 2042 della concessione alla società “Autostrade per l'Italia”, avvenuta il 27 aprile di quest'anno con il via libera della Commissione europea, e la pubblicazione appena sei giorni dopo, il 3 maggio, dell'avviso della gara d'appalto per venti milioni per «interventi di retrofitting strutturale del viadotto». L'indagine verificherà se importanti lavori di manutenzione, che avrebbero dovuto rinforzare proprio gli stralli del tratto ora crollato, sono stati rinviati per fare pressione sulle autorità e ottenere così la proroga della concessione. Con una sottovalutazione del pericolo, che ha portato al disastro. Le procedure di appalto sono tuttora in corso. Ma ormai drammaticamente inutili. L'attenzione in queste ore riguarda anche le presunte falle nella sorveglianza da parte del ministero delle Infrastrutture, che avrebbe dovuto monitorare l'obbligo della società "Autostrade per l'Italia" nel garantire manutenzioni e sicurezza. Nessuna illegalità, ovviamente. Ma il 14 agosto 2017, per sostituire l'architetto Mauro Coletta al vertice della Direzione generale per la vigilanza sulle concessioni autostradali, la scelta dell'allora ministro per la Semplificazione, Maria Anna Madia, è caduta su Vincenzo Cinelli, 60 anni, laureato con lode in scienze politiche: con successiva specializzazione alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, diploma di consulente legislativo conseguito all'Istituto per la documentazione e gli studi legislativi e un master su "Il codice dei contratti sui lavori pubblici, servizi e forniture". Un'eccellente preparazione amministrativa, con cui però l'attuale capo degli ispettori del ministro Danilo Toninelli deve coordinare anche: la "vigilanza sull'esecuzione dei lavori di costruzione delle opere date in concessione»; «l'approvazione dei progetti relativi ai lavori inerenti la rete stradale e autostradale di interesse nazionale»; «la proposta di programmazione... del progressivo miglioramento e adeguamento delle autostrade in concessione»; e soprattutto la «vigilanza sull'adozione, da parte dei concessionari, dei provvedimenti ritenuti necessari ai fini della sicurezza del traffico autostradale». Si tratta ovviamente di competenze strettamente ingegneristiche. Barbara Marinali fino al 16 settembre 2013 è stata invece direttore generale della "Direzione generale per le infrastrutture stradali" del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Sue competenze: la regolazione del settore autostradale, la disciplina delle concessioni e delle convenzioni autostradali e la relativa regolazione tariffaria. Dal 2013, su proposta del presidente del Consiglio e su nomina del presidente della Repubblica, è uno dei componenti dell'Autorità di regolazione dei trasporti. L'organismo si occupa anche di autostrade: stabilisce i sistemi tariffari dei pedaggi, definisce gli schemi di concessione da inserire nei bandi di gara relativi alle gestione e costruzione e gli ambiti ottimali di gestione delle tratte. Insomma, tra le altre cose, fa in modo che le società private accantonino anche le risorse per le manutenzioni. Ma secondo una segnalazione al presidente dell'Autorità, Andrea Camanzi, nessun concorso pubblico, come accade per tutti gli altri dirigenti di Stato immessi in ruolo, ha mai verificato le indiscusse capacità di Barbara Marinali. Una svista sfuggita allo staff dell'allora ministro Renato Brunetta che l'ha promossa senza concorso; più volte non notata dalla Corte dei conti che ha approvato i suoi aumenti di stipendio; e per due volte sopravvissuta perfino allo scrupolo del Quirinale che l'ha poi nominata all'Autorità. Nemmeno alla presidenza del Consiglio se ne sono accorti, quando l'hanno proposta: nonostante un parere, sollecitato dal sottosegretario Antonio Catricalà, avesse messo in dubbio la legittimità del decreto 400 del 2011 con cui il direttore generale del ministero delle Infrastrutture, Alberto Migliorini, aveva inserito la Marinali nel ruolo dirigenti di prima fascia. Dal decreto risultava infatti che fosse già dirigente di seconda fascia all'Antitrust, l'amministrazione di provenienza: dove invece era soltanto una dipendente. L'Espresso si è già occupato della vicenda nel 2016 e Barbara Marinali aveva risposto così: «Sono stata nominata all’Autorità all’esito di un procedimento che ha visto il coinvolgimento delle competenti commissioni parlamentari... Sono prescritte indiscussa moralità e indipendenza e comprovata professionalità e competenza, requisiti che mi pare trovino conferma sia nel mio curriculum, sia nell’apprezzamento bipartisan a seguito dell’indicazione dei governi Monti e Letta. Per quanto attiene all’immissione nei ruoli del ministero... l’approfondita istruttoria non ha rilevato alcun elemento tale da mettere in discussione il conferimento degli incarichi dirigenziali». Sarebbe bastato rispondere con gli estremi e la data del concorso. Ma al presidente Camanzi evidentemente va bene così. Nessuna autorità controlla l'Autorità.

Ma adesso anche il governo rischia di finire nell'indagine. Vigilare su Autostrade è compito delle Infrastrutture, scrive Stefano Zurlo, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale". Il governo alza la voce: «Ci costituiremo parte civile». E punta il dito contro Autostrade per l'Italia. Ma qualcosa non quadra, perché l'esecutivo, attraverso il ministero delle Infrastrutture, è chiamato a controllare i lavori svolti dal concessionario. Insomma, non c'è solo il tema, scivolosissimo, della revoca della concessione su cui i leader del governo gialloverde hanno precipitosamente innestato la retromarcia. No, c'è di più, come ha notato Antonio Di Pietro, che a suo tempo su quella poltrona di ministro si era accomodato, in un colloquio con il sito Fanpage.it. Il ragionamento dell'ex pm è semplicissimo: «Quando nel 2007 fu firmata la convenzione fra Anas e Autostrade per l'Italia, io ero ministro e si stabilì che Anas avrebbe dovuto controllare le opere del concessionario. Sarebbe pure stato sufficiente, ma nel 2013 è intervenuta una legge che ha rafforzato il ruolo pubblico del controllore e l'ha sottratto all'Anas, creando una struttura di vigilanza delle concessioni autostradali presso il ministero delle Infrastrutture». Insomma, se nessuno si è accorto di nulla e le ispezioni non hanno rilevato nulla di anomalo, se la caduta è arrivata improvvisa, allora il ministero dovrebbe pendersela anche con se stesso. E con la sua task force. Difficile immaginare che il ministero possa ritagliarsi il ruolo di parte civile. Come fosse una vittima. Più facile immaginare un altro percorso, meno nobile. Per carità, in questa fase nessuno può prevedere che piega prenderà l'indagine. Ma non si può escludere che gli avvocati giochino una carta pesante nel corso del processo che sarà accesissimo, chiamando anche le Infrastrutture a rispondere di quel che è successo, magari sul piano civile. Esiste certamente un intreccio di responsabilità che deve essere sciolto. Danilo Toninelli, il titolare delle Infrastrutture, potrebbe pure cavarsela, se non altro perché è in quella posizione da poche settimane e il passato non può certo ricadere su di lui, ma resta il fatto che la struttura di vigilanza, varata fra squilli di tromba, si sia poi trovata a operare all'italiana, con mezzi e risorse limitati se non risicati. Come emerso dall'audizione in Parlamento nel 2016 del numero uno del team, Mauro Colletta. Colletta fu chiaro: spiegò che non c'erano nemmeno i soldi per le trasferte degli ispettori. Tanto che il personale, chiamato a svolgere un compito delicatissimo, doveva anticipare le spese dei viaggi. E aggiunse che il budget, una coperta troppo corta, aveva costretto i suoi tecnici a dimezzare le «ispezioni a sorpresa» fra il 2011 e il 2015. Non risulta che qualcosa sia cambiato dopo quella drammatica denuncia. Chissà. Se non altro a livello politico questa inadeguatezza dei mezzi dovrebbe essere argomento di discussione se non di polemica. Ma non si può escludere che qualche avvocato corazzato provi a farlo entrare fra le carte del dibattimento.

I maltempi della giustizia, scrive Venerdì 17 agosto 2018 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". «Per revocare la concessione ad Autostrade non possiamo aspettare i tempi della Giustizia». Detta da un presidente del Consiglio che è anche avvocato, la frase fa un certo effetto, per quanto appaia perfettamente in linea con altri tempi, quelli della comunicazione e della politica. La dittatura dell’istante, in cui ci ha precipitati l’avvento dei social, impone al governo Conte di decidere sull’onda dell’emozione. Il ponte collassato di Genova sarà presto oscurato da nuove emergenze e, prima della sentenza definitiva, chissà quante altre cose ci saranno cadute sulla testa, in questo Paese che scricchiola come una porta di Hitchcock. Ma a rendere il Potere impulsivo contro natura (di solito impulsive sono le opposizioni) è l’uso partigiano che ormai tutti fanno di categorie assolute come il garantismo e il giustizialismo. Il garantismo si applica ai propri cari, il giustizialismo ai cari degli altri. Renzi auspicò le dimissioni della Cancellieri, ministra di Letta, sventolando ragioni di opportunità che si guardò bene dall’evocare per i ministri suoi. E Di Maio, giustamente scandalizzato dai guai giudiziari degli anti-Raggi, apparve più comprensivo con quelli della Raggi medesima. Ai Benetton, che il governo ha iscritto d’ufficio al Pd nella corrente dei miliardari senza cuore, si applica dunque lo schema giustizialista, con i cinquestelle nella parte dei vendicatori implacabili e i leghisti in quella di chi tratta col nemico per una più prosaica riparazione in denaro.

Ma ora si preannuncia la battaglia del cavillo. Per lo stop alla gestione ci vorranno anni. La commissione del Mit è al lavoro ma Autostrade già annuncia ricorsi, scrive Antonio Signorini, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale". Lo ha ammesso anche il vicepremier Matteo Salvini. «Il percorso non durerà 15 giorni, ci saranno le controdeduzioni di Autostrade, i pareri, passeranno settimane, se non mesi». La decisione del governo di andare avanti con la revoca della concessione nonostante i dubbi di mezzo esecutivo, compreso il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, apre un percorso tutt'altro che lineare e scontato. La commissione ispettiva, istituita dal Ministero per le Infrastrutture e i Trasporti è già al lavoro e darà il suo giudizio entro trenta giorni, ha spiegato il presidente della commissione Roberto Ferrazza. Dovrà «rileggere la storia del progetto. Abbiamo documenti da chiedere alla concessionaria. Poi sottoporremo tutto alle autorità competenti». Già esclusa la causa maltempo. L'ipotesi alla quale si lavora è quella del cedimento di un tirante, ha spiegato il professore dell'Università di Genova Antonio Brencich che fa due anni fa lanciò per primo l'allarme. Il governo vuole dimostrare che la responsabilità è di Autostrade per l'Italia, società del gruppo Atlantia. Ma per rompere il contratto tra lo stato e il gruppo Benetton, ci vuole altro: il governo dovrà dimostrare anche che la società non ha risposto ai richiami. La convenzione siglata nel 2009 prevede che il contratto possa decadere se «perdura la grave inadempienza da parte del concessionario rispetto agli obblighi previsti». La legge sulla trasparenza amministrativa prevede che il concessionario abbia 90 giorni per adempiere gli obblighi, poi altri 60 giorni se ci sono contestazioni. Sono cinque mesi di tempo che Autostrade sostiene di non avere avuto. Ieri il ministero delle Infrastrutture ha precisato che l'ultima contestazione di inadempimento ad Autostrade per l'Italia risale al 28 giugno scorso, pertanto non corrisponde al vero che non siano state sollevate contestazioni di inadempimento nei confronti della società. «La società è stata destinataria, solo nel 2017, di 5 contestazioni di inadempimento» e «sono attualmente pendenti 25 ricorsi attivati da Autostrade per l'Italia», spiegava ieri una fonte del dicastero alle agenzie di stampa. Come dire, degli appigli legali per annullare il contratto ci sono. Il governo dovrà comunque raccogliere le controdeduzioni di Autostrade. Arriveranno quando il lavoro della commissione sarà terminato. E i tempi per presentarle non potranno essere molto diversi dai cinque mesi previste dalla convenzione. Se alla fine di questo percorso il governo dovesse veramente decidere di porre fine alla convenzione con Autostrade (e non è scontato), la società che gestisce 2.800 chilometri di autostrade potrà fare ricorso alla giustizia amministrativa. Quindi prima il Tar e poi, eventualmente, il Consiglio di Stato. Parallelamente anche la giustizia civile si occuperà del Ponte per le richieste di risarcimento. Secondo indiscrezioni rilanciate ieri da Paolo Madron, i Benetton proprietari di Atlantia si sarebbero affidati a uno dei più famosi studi legali italiani, Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners. Come dire, Autostrade è determinata quanto il governo a fare valere il proprio punto di vista.

Genova, ponte Morandi: alcune parti del contratto con Autostrade coperte da segreto, scrive il 19 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Luigi Di Maio lo aveva detto a caldo, poche ore dopo il crollo del ponte Morandi: "Stiamo cercando di avere accesso a tutti i contenuti del contratto di concessione autostradale, perchè non tutto è pubblico". Sembrava una "sparata", invece è la pura verità. Nel senso che, come scrive oggi Il Messaggero, il contratto di concessione della tratta autostradale Genova-Savona contiene alcuni omissis ai quali corrisponderebbero decreti di segretezza. Un vero e proprio segreto di Stato su alcune parti: ovvero la massima tutela alla quale possono essere sottoposte intese e contratti, visto che a porlo è il presidente della Repubblica e solo lo stesso presidente può cancellarlo con un decreto. La procura di Genova potrebbe così essere obbligata ad avviare una lunga e incerta procedura per de-secretare gli omissis e, se le porte dovessero essere sbarrate, non avrebbe altra possibilità che ricorrere alla Corte costituzionale.

Ponte Morandi, il retroscena sugli attacchi ai Benetton: perché Salvini ha umiliato Di Maio, scrive il 16 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". L'obiettivo finale dovrebbe essere ottenere un nuovo ponte pronto e collaudato entro e non oltre il 2019. Il modo per ottenerlo è sotto gli occhi di tutti, con il repentino cambio di strategia, solo apparente, di Matteo Salvini e dell'intera Lega nei confronti di Autostrade per l'Italia. Gli attacchi mediatici contro il gruppo controllato da Atlantia, con la famiglia Benetton socio di maggioranza, sono durati appena 24 ore. Sin da subito sono partite le minacce da parte del governo sul possibile ritiro immediato della concessioni autostradali, in barba a contratti e pesantissime penali. Era partito lanciatissimo il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, secondo il quale la procedura di verifica delle concessioni poteva già partite. Lo ha seguito a ruota il vicepremier Luigi Di Maio, che aveva addirittura accusato i Benetton di pagare le tasse all'estero, salvo poi essere smentito dai fatti, visto che la società Autostrade per l'Italia ha sede a Roma. Salvini ha seguito la linea del governo, finché oggi non ha riportato lo scontro sul terreno più utile per tutti, aprendo uno spiraglio per la riappacificazione con il concessionario in cambio di un "comportamento umano". Le condizioni dettate da Salvini sono state chiare: soldi, subito, spontaneamente, per gli sfollati e per le famiglie delle vittime. Prima che la magistratura si esprima sulle responsabilità, prima che sia più complicato tenere a bada gli alleati di governo che su quelle revoche vogliono andare fino in fondo. E una prima reazione, come un moto d'orgoglio, in fondo era arrivato da Autostrade per l'Italia, con la garanzia di poter ricostruire il ponte in appena cinque mesi. Una beffa a ripensarci oggi, roba da chiedersi sul perché non ci avessero pensato prima. Il governatore Giovanni Toti, tra i più vicini a Salvini in Forza Italia, ha colto la palla al balzo: "Subito un nuovo ponte entro il 2019, magari non saranno cinque mesi, ma anche entro 12 va bene". E con il sottosegretario ligure ai Trasporti, Edoardo Rixi, l'obiettivo della gamba leghista del governo è stato chiarissimo: "Chi pagherà il nuovo ponte sarà Società Autostrade, chi lo costruirà lo valuteremo". Di sicuro un successo, almeno i leghisti, possono dire sin da ora di averlo portato a casa.

Autostrade, parla l'esperta: "Fu Di Pietro a inserire a inserire la clausola che fa ricchi i Benetton", scrive il 19 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Fu nel 1999, "regnante" Massimo D'Alema a Palazzo Chigi, che il grosso della rete autostradale italiana fu dato in concessione a Autostrade per l'Italia. Tra quelli, anche la cosiddetta "Autostrada dei fiori" (A10) dove c'era il ponte Morandi. Ma la ormai famigerata "clausola" che consentirebbe alla Società del gruppo Benetton di essere indennizzata in caso di scioglimento della concessione anticipato (per un somma pari agli introiti che avrebbe ottenuto in quegli anni restanti), venne aggiunta all'accordo con lo Stato solo diversi anni più tardi, nel 2007, quando alla guida del ministero dei Trasporti c'era Antonio Di Pietro. A dirlo, in una intervista a Il Giornale è la legale rappresentante dell'Osservatorio vittime, Elisabetta Aldrovandi, in una intervista a Il Giornale. "La famosa clausola si trova nella convezione originaria, fu messa da Di Pietro e poi riconfermata, con qualche modifica, dal governo Renzi". La Aldrovandi è convinta che "il pagamento della penale da parte dello Stato si può evitare perchè nella convenzione c'è un appiglio che dice che da questa somma vanno decurtati tutti i danni che Autostrade ha causato per il suo grave inadempimento. Parlo sia di danni diretti che indiretti, oltre ai danni economici in divenire".

"Ecco come i Benetton acquisirono Autostrade". Sull'acquisizione di Autostrade da parte di Benetton spunta un retroscena. Ecco i passaggi che portarono la famiglia nel business dei pedaggi, scrive Luca Romano, Giovedì 23/08/2018, su "Il Giornale". Sull'acquisizione di Autostrade da parte di Benetton spunta un retroscena. A quanto pare per la famiglia fu un vero e proprio affare grazie anche al semaforo verde di Prodi, D'Alema e Draghi. A rivelare come andarono le cose è Giuseppe Oddo sul suo blog che ricostruisce con l'Analisi trimestrale dei bilanci di R&S-Il Sole 24 Ore del 24 dicembre 2009 l'entrata di Benetton in Autostrade. Di fatto secondo quanto riporta Oddo, l'acquisizione avvenne con una "scatola finanziaria" denominata "Schemaventotto". In questo modo i Benetton si aggiudicarono il 30% di Auotstrade investendo tramite Edizione proprio 2,5 miliardi di euro in Schemaventotto. Di questi 1,2 miliardi erano stati presi a prestito. Poi c'è un secondo step ed è del 2003. Entra in campo NewCo28, strumento di Schemaventotto. NewCo28 prese con un'Opa il 54% di Autostrade per un valore di 6,5 miliardi. In questo modo NewCo28 incorporò Autostrade "scaricandole il debito che aveva contratto per finanziare l’Offerta", sottolinea Oddo. L'operazione venne chiusa praticamente a costo zero. E qui Oddo cita altre cifre che fanno capire meglio come sono andate le cose: "Schemaventotto tra il 2000 e il 2009 prelevò infatti da Autostrade 1,4 miliardi di dividendi, tutti generati da utili, e ne collocò in Borsa il 12% con un incasso di altri 1,2 miliardi. Il ricavato totale fu di 2,6 miliardi di euro". Una mossa che ha permesso ai Benetton di rientrare dal debito. Infine sempre Oddo ricorda che questa operazione dal punto di vista politico porta la firma chiara di Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Draghi e Massimo D’Alema.

Conigli. La revoca della concessione va probabilmente contro lo stato di diritto. Ma è difficile difendere i diritti di qualcuno che non rispetta i diritti di tutti. In tre giorni Atlantia non si è assunta nemmeno la responsabilità morale, scrive Lucia Annunziata, Direttore Huffpost Italia, il 16/08/2018. Non sappiamo se Atlantia, azienda di proprietà del gruppo Benetton abbia un cuore, come suggeriva ieri sul Corriere della Sera Massimo Gramellini, ma se ce l'ha è certamente quello del coniglio. Dopo il primo smemorato intervento delle 13,39 in cui, a un'Italia con le mani nei capelli per l'orrore, Atlantia forniva un comunicatino senza un parola sulle vittime, la società dei Benetton non ha mai smesso di fuggire da ogni umana emozione, ma anche da ogni assunzione di responsabilità morale. Capiamo che nessuna azienda si prenderebbe mai la responsabilità diretta di un grave disastro, capiamo il terrore, l'autodifesa, gli avvocati. Ma qui si tratta di una reazione che fin dal primo momento, e ancora fino ad oggi, è segnata dalla fuga dalla realtà. Dove sono il Presidente Fabio Cerchiai, l'AD Giovanni Castellucci, i responsabili della comunicazione, o i proprietari, la celeberrima e ipercomunicativa Famiglia Benetton? In tre giorni di dolore e discussioni, Atlantia non ci ha mai messo la faccia – tranne che con il funzionario di zona, il responsabile del tronco di Genova. Le prime ore dopo la tragedia sono forse le più dolorose da digerire per chi stava in quelle ore incollato alle immagini, in attesa di sapere che proporzioni avesse quell'apocalisse. Nel comunicato delle 13.39 che abbiamo appena citato, il crollo è derubricata a una vicenda locale: " I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza da parte della Direzione di Tronco di Genova". Alle 14.10 l'Ad della società Autostrade Giovanni Castellucci così risponde al giornalista del Gr1 che gli fa notare che da anni si diceva che il ponte fosse pericoloso: "Non mi risulta ma se lei ha della documentazione me la mandi. In ogni caso non è così, non mi risulta". Immaginiamo che la maleducazione fosse intesa a dimostrare che l'Azienda era tranquilla, ma forse l'Amministratore Delegato, ha confuso maleducazione con il senso di responsabilità. Alle 16.57 il povero Responsabile del tronco Genova entra in scena e dice che "il crollo è inaspettato"(!) e solo a fine giornata arriva un "cordoglio per le vittime e la profonda vicinanza ai loro familiari". Purtroppo questo cordoglio non segna un cambio di toni, o di sensibilità. I comunicati del 15 e del 16 sono una girandola, evidentemente mirati a preparare la battaglia legale, con occhi soprattutto puntati sul rassicurare i mercati - "siamo stati corretti", "abbiamo fatto verifiche", "pronti a ricostruire il ponte in 5 mesi". Il primo cedimento nervoso di Atlantia avviene solo quando il governo minaccia di rescindere la concessione: " Da annuncio governo impatti su azioni e bond", "impegnati per verità". E sarà che è una girandola, ma alla fine il meccanismo si inceppa e la società, preoccupata del proprio futuro, sbraca nei modi e nei toni, ricorda che in caso di revoca le "spetta il valore residuo" del contratto. Nemmeno i gesti umanitari, che pure a questo punto offre come pegno di buona volontà, le riescono bene: il pedaggio di cui tutti chiedono la sospensione, viene sospeso infine sospeso, sì, ma "solo per le ambulanze". Nessuno nelle stanze degli avvocati o degli azionisti ha capito quanto macabra sia questa decisione? Sì, certo, lo Stato di diritto sarà sicuramente ferito dalla forzatura legale di avviare la procedura di rescissione della concessione. Che vi si arrivi o meno, certo la decisione ha tutte le stigmate di un governo che non vuole fare i conti con i diritti acquisiti, con le regole istituzionali. Ma, francamente, in questo caso è difficile difendere i diritti di una azienda che non ha a cuore i diritti di tutti. Il caso Genova deve essere inserito profondamente nel dibattito politico su cosa sta succedendo in Italia. La torre d'avorio in cui i Benetton, pur maestri di comunicazione, sono chiusi in queste ore; la cautela legale che travasa in pura indifferenza umana; la prevalenza della logica astratta del denaro sul servizio, sono la perfetta rappresentazione di tutte le ragioni della rivolta elettorale che ha dato la stragrande vittoria al populismo.

I fischi e la sindrome di Piazzale Loreto.

United Leccons of Benetton, scrive Marco Travaglio il 18 agosto 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Impreparati come siamo in fatto di modernità, di progresso, ma soprattutto di Stato di diritto, ci eravamo fatti l’idea che il crollo di un ponte notoriamente pericolante fosse responsabilità anzitutto di chi (la società Atlantia della famiglia Benetton) l’aveva in gestione e si faceva pagare profumatamente per tenerlo in piedi ma non aveva fatto nulla; e poi anche di chi (i governi di destra e di sinistra degli ultimi 19 anni) si faceva pagare profumatamente per controllare che ciò avvenisse ma non faceva nulla; e che, dopo 40 morti e rotti, il governo avesse il diritto-dovere di revocare il contratto al concessionario inadempiente. Ma ieri per fortuna abbiamo letto il Giornalone Unico e scoperto che sbagliavamo di grosso. Attribuire qualsivoglia colpa per il ponte crollato a chi doveva tenerlo in piedi e controllare che fosse tenuto in piedi è sintomo di gravissime patologie: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina, ansia da Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice “No a tutto”, pericolosa deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, punizione cieca, barbarie, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, decrescita, oscurantismo (Repubblica, Corriere, Stampa, il Giornale). Prendiamo nota e ci scusiamo con i Benetton e i loro compari politici se li abbiamo offesi anche solo nominandoli invano o pubblicando loro foto senz’attendere che, fra una quindicina d’anni, la Cassazione si pronunci sui loro eventuali reati. D’ora in avanti, ammaestrati da tanta sapienza giuridica che trasuda da giornaloni, tg e talk show, ci regoleremo di conseguenza nella vita di tutti i giorni. E invitiamo caldamente i nostri lettori e gli altri italiani contagiati dai suddetti virus, a fare altrettanto. Se, puta caso, acquistate o affittate un appartamento e, dopo qualche settimana sull’intonaco ancora fresco del soffitto compare una simpatica crepa, seguita magari dal gaio precipitare di calcinacci sulla vostra testa, evitate di farvi cogliere dalla classica cultura del sospetto, tipica del peggiore populismo grillino, e di protestare col proprietario o l’amministratore del condominio perché intervenga a riparare. Vi basterà la sua parola rassicurante sul fatto che nelle abitazioni moderne la crepa arreda e non c’è da preoccuparsi, perché la casa è “sotto costante monitoraggio e non presenta alcun pericolo di crollo”. Nel malaugurato caso in cui la casa dovesse sbriciolarsi e voi doveste sopravvivere, astenetevi dalla classica tentazione giustizialista di rinfacciare a chi di dovere i vostri allarmi inascoltati; o, peggio, di attribuirgli qualsivoglia colpa, cedendo al peggior populismo; o – Dio non voglia: sarebbe giustizia sommaria indegna di uno Stato di diritto – di chiedergli i danni prima che un Tribunale, una Corte d’appello e la Cassazione abbiano confermato irrevocabilmente la sua penale responsabilità. C’è anche il caso che alcune circostanze infauste (tipo i funerali dei vostri cari o le fratture multiple che vi paralizzano in un letto d’ospedale) vi inducano a cedere all’emotività al punto di pretendere almeno la sostituzione dell’amministratore inadempiente, specie se doveste scoprire che costui (come l’Ad di Atlantia-Autostrade, Castellucci, sotto processo per la strage di Avellino) era già imputato per omicidio colposo plurimo per disastri precedenti: ecco, resistete a questi barbari istinti di giustizia sommaria. E, se vi chiedono ancora l’affitto della casa crollata, tenete a bada le mani e continuate a pagarlo, per non precipitare nel gorgo della cultura anti-impresa che dice “No a tutto” e porta dritto al socialismo reale. Ci siamo fin qui barcamenati nella metafora della casa per non ricadere nel tragico errore di citare i Benetton e i governi degli ultimi 20 anni, cioè i concessionari e i concessori di Autostrade che credevamo responsabili politico-amministrativi del Ponte Morandi. Ora sappiamo dai giornaloni che essi non solo non vanno incolpati, ma neppure nominati. Al massimo – ci insegna Ezio Mauro – si può parlare di “una delle più grandi società autostradali private del mondo” che, “in attesa che la magistratura faccia luce”, non può diventare “il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza”, “tipici del populismo”. E guai a dire, come fa Di Maio, “a me Benetton non pagava campagne elettorali”: questo non l’avrebbe detto “nemmeno Perón”, forse perché a Perón i Benetton non pagavano le campagne elettorali, mentre Autostrade le pagò al centrosinistra e al centrodestra almeno nel 2008 (vedi Report). E guai soprattutto ad annunciare, come fa Conte, “la sospensione della concessione” senza aspettare “i tempi della giustizia”. Chi pensa che ai governi spetti accertare le responsabilità politico-amministrative e ai giudici quelle penali, perché un conto è revocare un contratto e un altro e mettere uno in galera, è un lurido “populista” e “pifferaio della decrescita”. Se c’è di mezzo Atlantia, che sponsorizza La Repubblica delle Idee e nel cui Cda siede la vice presidente del gruppo Repubblica Monica Mondardini, la responsabilità politico-amministrativa non esiste più: le concessioni si danno subito, anche in una notte, pure senza gara, ma per revocarle bisogna aspettare la Cassazione. Anzi, nemmeno quella, perché la revoca sarebbe – ammonisce Daniele Manca del Corriere – “una scorciatoia”, “un errore” e “un indizio di debolezza”: uno Stato forte viceversa lascia le sue autostrade in mani private, e che mani. Nemmeno Manca fa nomi, anche se sembra sul punto di farli: quando scrive “chi quelle società guida e controlla…”, par di vederlo mordersi la lingua e torturarsi le dita per impedire loro di scrivere “Benetton”. Poi, per non pensarci più, si scaglia contro i veri colpevoli: “Chi ha alimentato e salvaguardato l’interesse di minoranze a scapito del benessere del Paese, ostacolando nuove opere” (la famigerata “Gronda”, che avrebbe mantenuto in funzione il Ponte Morandi, e ci costerebbe 5-6 miliardi). Sistemati i veri colpevoli, restano da accertare le vere vittime: provvede Giovanni Orsina su La Stampa, lacrimando inconsolabile per i poveri Benetton (mai nominati), “sacrificati” come “capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi”. Roba da “paesi barbari”, soprattutto dinanzi “a una questione complessa come il crollo del Ponte Morandi”. Talmente complessa che ora Atlantia è pronta a ricostruirlo “in cinque mesi”. Un solo giornalista – il sempre spiritoso Luca Bottura – fa nomi e cognomi, con grave sprezzo del pericolo, su Repubblica: “Bagnai”, “Toninelli”, “i grillini” che “serbano nell’armadio lo scheletro della Gronda che forse avrebbe allungato la vita al Ponte Morandi” (mai fatta per colpa di chi non ha mai governato) e dicono “No tutto”, perfino al balsamico Tav “tra Torinoe Lione” (che non c’entra nulla e infatti Bottura lo cita ma non si “arrischia” a citarlo “per paura di finire nel mirino” dei No Tav padroni di tutti i giornali, compreso il suo), “Salvini”, “Grillo”, la “Casaleggio”, “l’ansia vendicativa del governo… che sparge la calce viva della bassa politica su decine di vittime”, e “soprattutto Di Maio” perché osa attaccare “Autostrade per l’Italia (che certo non se la passa bene, ma devono dirlo i giudici)”. Ecco: per incolpare chi non c’entra nulla basta il Tribunale di Repubblica; ma per incolpare chi c’entra bisogna attendere la Cassazione. Questi eterni Tartuffe italioti, usi a negare anche l’evidenza, Indro Montanelli li ritraeva con un apologo: “Un gentiluomo austriaco, roso dal sospetto che la moglie lo tradisse, la seguì di nascosto e la vide entrare in un albergo. Salì dietro di lei sino alla camera e dal buco della serratura la osservò spogliarsi e coricarsi insieme a un giovanotto. Ma, rimasto al buio perché i due a questo punto spensero la luce, gemette a bassa voce: Non riuscirò dunque mai a liberarmi da questa tormentosa incertezza?”.

Lucia Annunziata: "I Benetton? Sono senza cuore". Lucia Annunziata difende la scelta del governo di revocare la concessione ad Autostrade per l'Italia e attacca i Benetton: "Se hanno un cuore è quello di un coniglio”, scrive Francesco Curridori, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". “I Benetton? Se hanno un cuore è quello di un coniglio”. È questo il senso di un lungo editoriale di Lucia Annunziata, direttrice dell’Huffington Post, che critica fortemente l’atteggiamento di Atlantia, (azienda dei Benetton che possiede Autostrade per l’Italia) per quanto riguarda il crollo del ponte Morandi di Genova. “Dopo il primo smemorato intervento delle 13,39 in cui, a un'Italia con le mani nei capelli per l'orrore, Atlantia forniva un comunicatino senza una parola sulle vittime, la società dei Benetton non ha mai smesso di fuggire da ogni umana emozione, ma anche da ogni assunzione di responsabilità morale”, scrive la Annunziata che si chiede: “Dove sono il Presidente Fabio Cerchiai, l'AD Giovanni Castellucci, i responsabili della comunicazione, o i proprietari, la celeberrima e ipercomunicativa Famiglia Benetton?”. Anche i comunicati, che sono seguiti al primo, mirano soltanto a “preparare la battaglia legale, con occhi soprattutto puntati sul rassicurare i mercati”, accusa la direttrice di HuffPost. Atlantia, secondo lei, si è mostrata più preoccupata della possibilità di perdere la concessione statale piuttosto che delle vittime del crollo del ponte. Ma non solo. La società ha sospeso il pedaggio ma "solo per le ambulanze”. “Nessuno nelle stanze degli avvocati o degli azionisti ha capito quanto macabra sia questa decisione?”, si domanda ancora la Annunziata. Ecco, dunque, il motivo per cui la direttrice dell’HuffPost, stavolta, si schiera dalla parte dell’esecutivo gialloverde: “Sì, certo, lo Stato di diritto sarà sicuramente ferito dalla forzatura legale di avviare la procedura di rescissione della concessione. Che vi si arrivi o meno, certo la decisione ha tutte le stigmate di un governo che non vuole fare i conti con i diritti acquisiti, con le regole istituzionali. Ma, francamente, in questo caso è difficile difendere i diritti di una azienda che non ha a cuore i diritti di tutti”.

Toscani, Benetton e i "Maletton". Fanno la morale e poi lucrano senza scrupoli. Sono il simbolo del capitalismo allo sfascio. E il fotografo è il loro profeta, scrive di Marcello Veneziani il 17 Agosto 2018 su "Il Tempo". I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell'ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell'americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video «contro tutti i razzismi risorgenti». Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto. Dietro la facciata «progressista» di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali, come le comunità mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli Autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un «regalo» del pubblico al privato, come succede solo in Italia. Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica amministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città. Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de la Repubblica-L'Espesso-La Stampa, dove si sono incrociati - ma guarda un po’’ - i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie «progressiste» appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo. Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei Trasporti, che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società Autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata. A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere «aere perennius», ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione. In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una «favoletta» il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa. 

Autostrade, lo choc dei Benetton e la pressione sui manager. Che oggi a Genova chiederanno scusa. I fratelli di Ponzano Veneto e il ruolo di azionisti privati di una società di servizio pubblico, scrive Paola Pica il 17 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". Le parole sono importanti e lo è anche il silenzio. Nella famiglia Benetton misurare le parole è consuetudine, quasi legge. E chi da sempre frequenta i fratelli trevigiani fondatori dell’impero che dai maglioni colorati ha allargato gli interessi fino alle infrastrutture e alle autostrade spiega anche così la ritrosia di queste ore. Ma dopo una tragedia come quella di Genova non è più tempo di aspettare. Quali che siano i risultati dell’inchiesta e le decisioni del governo, a Treviso si dispone per «tutto ciò che è possibile fare». La pressione su Autostrade è massima, tanto che già oggi i vertici della società potrebbero annunciare un «grande piano» di ricostruzione della città, della sua viabilità e di assistenza alle famiglie sfollate e in difficoltà. L’amministratore delegato Giovanni Castellucci e il presidente Fabio Cerchiai sono attesi questa mattina a Genova per una comunicazioni prevista dopo i funerali delle vittime del crollo del Ponte sulla A10. Su richiesta di Edizione — la holding della famiglia Benetton che attraverso Sintonia controlla il 30% di Atlantia-Autostrade a fianco di grandi investitori istituzionali internazionali come il fondo sovrano di Singapore e il colosso bancario Hsbc — il piano di risarcimento alla città di Genova e al Paese dovrebbe seguire un percorso autonomo, sganciato dal contenzioso e dall’inchiesta giudiziaria. Nell’entourage di Ponzano Veneto, qualcuno si spinge a ipotizzare che i fratelli Benetton siano pronti anche a perdere Autostrade e dunque un settore per loro finora strategico. Dopo il disastro, niente tornerà come prima nemmeno nella vita di questa famiglia imprenditoriale. Queste sono tragedie, viene osservato, che cambiano il capitalismo. A Treviso, nella casa dove vive Gilberto Benetton, 77 anni, numero uno di Edizione, lo choc del 14 agosto viene descritto come fortissimo. Le notizie in arrivo da Genova sono sempre più drammatiche, il nome degli azionisti esposto al quasi linciaggio sui social network. Anche il governo attacca. Gilberto è in contatto continuo con i fratelli Giuliana, 81 anni e Luciano, 83. La famiglia — in lutto per la perdita di Carlo, il fratello più giovane stroncato da un tumore lo scorso luglio a 77 anni, e del marito di Giuliana, Fioravante Bertagnin morto in febbraio a 86 anni — si riunisce con alcuni dei figli e dei nipoti nelle ore successive. La grande tribù che si compone di 11 figli — i quattro di Luciano, Mauro, Alessandro, Rossella e Rocco; le due figlie di Gilberto, Barbara e Sabrina; i quattro di Giuliana, Paola, Franca, Daniela e Carlo; i quattro di Carlo, Massimo, Andrea, Christian e Leone — e numerosi nipoti è consegnata al silenzio. Anche se la volontà di muoversi e spingere Autostrade al cambio di passo è unanime. La società operativa che in prima battuta è chiamata a dare risposte ai cittadini, alle istituzioni, alla politica e al mercato, si trincera dietro un incomprensibile linguaggio tecnico, finendo per esporre ancor più gli azionisti di controllo che il ministro degli Interni, Matteo Salvini, definisce «senza cuore». Serve allora trovare un modo, un tono e, appunto, parole per dire «gli azionisti ci sono». In un comunicato diffuso all’indomani di Ferragosto, la stessa Edizione e i Benetton si assumono l’impegno di accertare «verità e responsabilità» sulla sciagura genovese. Dei «contenuti» di questa azione risarcitoria si comincia a parlare da questa mattina. Quello che è chiaro è che il futuro di Autostrade, che con l’acquisizione di Abertis puntava a diventare leader mondiale del settore, è adesso indissolubilmente legato alla capacità del suo management di gestire una crisi devastante. In un editoriale apparso ieri sul Financial Times viene osservato come «un’impresa coinvolta in un disastro serio come quello del crollo del ponte di Genova, dovrebbe rispondere in un solo modo: esprimere profondo rammarico, assistere le autorità e le vittime, e lasciare la propria resa dei conti ad un momento successivo. La reazione di Autostrade si concentrava invece «sulle regole contrattuali e le ripercussioni sugli investitori». Vedremo come Castellucci, il manager scelto per succedere a Vito Gamberale nel 2006, saprà riparare il torto. Forse, come anticipano alcune indiscrezioni, chiedendo oggi stesso formalmente e semplicemente scusa. Quanto ai Benetton, resta aperto l’interrogativo sul ruolo che i Benetton hanno scelto di esercitare sin dalla privatizzazione. La responsabilità dell’azionista di riferimento di una società che svolge un servizio pubblico, attività in tutto e per tutto diversa da ogni altra intrapresa a Ponzano Veneto.

Per i top manager arriva la resa dei conti in cda. Ma l'ad Castellucci avrebbe già la fiducia. Ieri riunione a Milano con gli avvocati, scrive "Il Giornale" Sabato 18/08/2018. Il crollo del ponte Morandi farà saltare qualche testa al vertice di Atlantia o della controllata Autostrade per l'Italia? Una risposta potrebbe arrivare dai cda delle due società fissati per settimana prossima: quello di Autostrade per martedì 21 e quello della capogruppo per mercoledì 22. C'è chi non esclude che Giovanni Castellucci, amministratore delegato di entrambe le società rispettivamente dal 2005 e dal 2006, si presenti davanti con in mano le dimissioni. Altre fonti smentiscono questa ipotesi aggiungendo che in ogni caso verrebbero respinte dai soci cui comunque il gruppo Atlantia ha distribuito solo nell'ultimo decennio quasi 7 miliardi di euro di dividendo (e di questi, più di due finiti nelle casse di Ponzano Veneto). Non è atteso, dunque, alcun cambiamento nel top management anche se non si esclude invece una revisione del governo societario. Intanto ieri mattina, secondo quanto riportato dal sito Lettera 43, ci sarebbe stata una riunione a Milano dei top manager Benetton alla quale avrebbero partecipato lo stesso Castellucci insieme al presidente del gruppo Fabio Cerchiai e all'ad di Edizione Holding (la cassaforte dei Benetton), Marco Patuano. Attorno al tavolo, anche il team di avvocati dello studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners che ha seguito anche la fusione con Abertis e che sta mettendo a punto le iniziative per gestire le conseguenze della tragedia di Genova (compresi eventuali risarcimenti per vittime e sfollati) e studiare le contromosse sia sul fronte dell'annunciata revoca delle concessioni da parte del governo sia su quello delle indagini in corso da parte della Procura per accerta le eventuali responsabilità del gruppo. Tra l'altro i vertici di Autostrade restano nel mirino dei pm per un altro incidente: ad Avellino si sta infatti celebrando il processo sul bus precipitato per 30 metri da un viadotto dell'autostrada A16 Napoli-Canosa, a Monteforte Irpino, in cui il 28 luglio del 2013 persero la vita 40 persone, che rientravano da una gita a Pietrelcina. Tra i 15 imputati, accusati a vario titolo di omicidio colposo plurimo, disastro colposo e falso in atto pubblico, c'è anche Castellucci assieme ad altri dirigenti della società. Ed è ancora aperta ad Ancona l'indagine sul cedimento di un cavalcavia sulla A14, nel tratto tra Loreto e il capoluogo della Marche, che il 9 marzo dell'anno scorso provocò la morte di una coppia di coniugi e il ferimento di tre operai romeni. Qui è indagata la stessa società, assieme alle ditte appaltatrici, subappaltatrici di progettazione, e sei dei suoi dirigenti e funzionari. 

Ponte Morandi, lo strazio di Oliviero Toscani dopo la strage di Genova: "Dovevo essere lì, poi...", scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Il personaggio gradasso e provocatore che è stata la cifra di Oliviero Toscani si è spento davanti alla tragedia del ponte Morandi di Genova. Come riporta il Corriere della sera, il fotografo che ha legato la sua immagine ai Benetton, concessionari anche di quel tratto autostradale sgretolatosi addosso a oltre 38 vittime, ha la voce bassa, dimessa: "Non ho niente da dire, non ho niente da dire". Difficile però anche per Toscani nascondere il dolore per una tragedia così grande, anche se sembra più addolorato per gli attacchi ai Benetton e alla sua persona che per la vittime: "Sono dispiaciuto. Soprattutto per il destino e l'ingiustizia. Sì, il destino e l'ingiustizia. E per tutte le bugie che la gente racconta". Secondo Toscani gli attacchi ai Benetton sono stati eccessivi: "Come se uno volesse speculare sulla vita degli altri. Ma se loro sono persone serissime. Sì, sono sempre seri, hanno sempre fatto le cose al massimo... e lo dico io che ci ho lavorato insieme". Toscani diventa più serio quando svela che in fondo anche lui è uno scampato al disastro: "Ho rischiato di essere lì. Martedì mattina stavo proprio andando in Francia in moto con mio figlio e per fortuna - dice tirando un sospiro - per fortuna, mentre stavo partendo da casa mi ha chiamato un tecnico del mio service, che doveva raggiungermi a casa. E mi ha detto: sono in ritardo. Ho voluto aspettarlo...". Partito più tardi quindi, è stato raggiunto da una chiamata: "Ero a Ferrara: 'Oliviero guarda che è crollato tutto'. Ed era la strada che dovevo fare. Ha capito cosa c'era? È stata una disgrazia, una disgrazia...".

Toscani difende i Benetton: "Italiani popolo di incattiviti". Il fotografo Oliviero Toscani difende i Benetton, proprietari di Autostrade per l'Italia e attacca gli italiani: "Siamo un popolo di infelici, incattiviti", scrive Francesco Curridori, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". "Cos’è questa cattiveria, questo livore?". A chiederlo è Oliviero Toscani che, in un'intervista al Corriere della Sera, difende i Benetton per quanto riguarda le loro responsabilità per il crollo del Ponte Morandi di Genova. "Non sono un tecnico, ma ho sempre sentito che era seguito con dei parametri molto più ampi della media europea", dice il fotografo che attacca i Cinque Stelle: "Parlano i grillini che ne hanno fatte di tutti i colori, che sono contro tutto, contro la Gronda? Siamo un Paese che deve andare dallo psicanalista. Ma ha visto la mia foto che gira". Secondo Toscani prendersela con i Benetton è sbagliato perché "loro sono delle persone serissime" e lo ribadisce più volte: "Sì, sono sempre stati seri, hanno sempre fatto le cose al massimo e lo dico io che ci ho lavorato insieme". Il fotografo si dice dispiaciuto per il crollo del Ponte Morandi ma anche "per tutte le bugie che la gente racconta". Secondo lui il popolo italiano è "frustrato" e "infelice": "Da fotografo e da uomo immagine - aggiunge - posso dire proprio questo: siamo un popolo di infelici, incattiviti. Ce l’abbiamo con la nostra condizione, secondo me è per una colpa nostra. Ma allora prendiamoci a sberle per strada, sarebbe più sano a questo punto. Che popolo cattivo… E non dico solo quello italiano, l’umanità. Ce l’abbiamo con tutti…". Toscani, poi, rivela che, solo per un fortuito ritardo, quella mattina non si è trovato a dover passare per il ponte crollato. Lui, proprio quella mattina avrebbe dovuto percorrere quel viadotto in moto, insieme al figlio per andare in Francia. "Mentre stavo partendo da casa mi ha chiamato un tecnico del mio service, che doveva raggiungermi a casa. E mi ha detto: sono in ritardo. Ho voluto aspettarlo…", racconta e aggiunge: "Grazie a quel ritardo sono partito un’ora e mezza dopo, senno sarei stato là".

Giancarlo Perna per “la Verità” il 24 agosto 2018. Ora sì che Luciano Benetton ha una buona ragione per avere i capelli ritti che finora erano un vezzo: i 43 morti, i molti feriti, i 1.000 sfollati del viadotto genovese crollato. Il maggiore dei fratelli Benetton è il convitato di pietra dell'incredibile vicenda del 14 agosto. È il demiurgo dell'impero di famiglia. Segue passo passo il fattaccio, coordina le mosse della holding e tace. In quale parte del mondo sia, se a casa a Treviso o in navigazione sul Tribù, il panfilo ecologico da 24 milioni di euro, si ignora. Il silenzio fa discutere e passa per indifferenza. Che sia un tipo laconico è fuori discussione. L'ottantatreenne capo clan di Ponzano Veneto è una lingua mozzata dalla nascita. Detesta la mondanità, tanto più in suo onore. Costretto ad andare a Venezia quando Ca' Foscari gli conferì la laurea honoris causa, pareva in preda alle doglie. Rosso in volto per lo sforzo, lesse senza mai alzare gli occhi il discorsetto di circostanza, afferrò l'attestato e fuggì lasciando di stucco il senato accademico. Teme sempre che qualcuno gli chieda favori. Soldi soprattutto, poiché sono in tanti a bussare cassa per affari bislacchi, questue, pure e semplici scrocconerie. Benetton, se non proprio taccagno, è parsimonioso. Non fa beneficenza e se un politico gli ronza attorno ha un modo infallibile per rintuzzarlo. Negli anni Novanta capitò da lui il radicale Marco Pannella, con Emma Bonino al seguito, per spillargli denaro e finanziare una serqua di referendum che gli frullavano in capo. Il magnate ascoltò senza una sillaba, poi disse: «Certo, se ci sono i presupposti, in avvenire si può vedere». E i radicali non si videro più. Nemmeno accetta raccomandazioni di lavoro perché gli uomini vuole sceglierli da sé. E lo sa fare. Quando, dopo il successo cosmico delle magliette colorate, ha voluto mettere le basi della successiva espansione, si buttò sulla Formula 1 (1983). Fu lui a scoprire Flavio Briatore, un cuneese senz' arte, col vizio delle carte da gioco. Gli affidò la scuderia come manager e quello in pochi anni, vinse 2 campionati del mondo e innumerevoli altri premi, lanciando piloti come Michael Schumacher, Giancarlo Fisichella, Jean Alesi, Nelson Piquet. Se a dargli la dritta su Oliviero Toscani fu, nel 1982, lo stilista Elio Fiorucci, a farne una star della fotografia è stato Benetton. L' intesa tra i due si basò sulla provocazione. Lo scopo era lanciare magliette e dare rinomanza mondiale al marchio United colors. Il mezzo fu andare controcorrente, in nome degli alti ideali: pacifismo, antirazzismo, mescolanze, mondialismo. Tutte robe che coi vestiti non c' entravano un baffo ma davano un'idea virtuosa del marchio. Si racconta che nel Sudafrica dell'apartheid con un adesivo Benetton sul parabrezza si potesse lasciare una limousine a Soweto e ritrovarla intatta. L'intesa con Toscani è durata fino al 2000. Poi si è interrotta, per resuscitare nel dicembre 2017. In questa data, Luciano, che da anni si era ritirato delegando la holding a figli e manager, ha ripreso le redini del settore prediletto, la maglieria. In un lustro, c'era stato infatti un tracollo: da 155 milioni di attivo a un passivo di 81. «Si sono dimenticati il colore», è stato il rimprovero di Benetton rientrando in pista. Così, risalito in sella, Toscani ci ripropina adesso le solite foto di ragazzetti di varie razze e sessi vari che si abbracciano e sbaciucchiano nelle T-shirt multicolori. Con queste «bislaccate», Luciano si è accreditato come imprenditore aperto ai valori contemporanei, orientato a sinistra e visionario. Ecco perché, per tornare al ponte crollato, Benetton tace. Non è indifferenza. È l'imbarazzo di chi ha sempre fatto le bucce agli altri e adesso è lui sotto la lente. Tecnicamente, Luciano Benetton è un repubblicano. Su richiesta di Giorgio La Malfa, salito a Ponzano per convincerlo, si presentò alle elezioni del 1992, entrando in Senato. Fu una breve legislatura, durata 2 anni, per Tangentopoli che la mise a sconquasso. A Palazzo Madama Luciano non lasciò traccia, tranne che per la foto adamitica scattata dal solito Toscani che i trevigiani, detestandolo, chiamano: «Maledèto toscan, ziocàn». L'immagine del cinquantottenne desnudo, con le mani pudicamente sulla natura e la scritta United colors apparve sui quotidiani del 26 gennaio 1993. Luciano la buttò sull' ideale, spiegando: «La gente vuole sapere a chi dà il proprio voto. Non dobbiamo nasconderci. È da questa nudità che si deve ricominciare a fare politica». «Alla sua età ci si copre», lo rimbeccò il dc Clemente Mastella. Il liberale, Antonio Patuelli, oggi capo dell'Abi, ironizzò: «Almeno ha fatto qualcosa dopo 8 mesi di vita parlamentare». Da sinistra, Mauro Paissan disse: «Meglio così che vestito da fricchettone invecchiato». Le vendite ebbero un'impennata e Luciano capì quanto era impopolare tra i senatori. Finita la legislatura, non si ricandidò. Un anno dopo si vendicò con gli ex colleghi inseguiti dai pm di Mani pulite, prendendoli per i fondelli. In un'intervista disse: «Vi è andata male in politica? Lasciatela. Sono pronto ad assumere 5 parlamentari disoccupati». Precisò: «Non li destinerò alla cassa. Ma oltre al guardiamacchine, ci sono posto di uscieri, telefonisti, addetti allo spolvero». Non per ripetermi, ma voi capite che quando nella vita ci si comparta da sopracciò, la volta che ti capita il ponte di Genova, ti rintani in attesa che passi. Nel 1993, Benetton ha offerto un lavoro anche a Fidel Castro. Stavolta con affetto sincero. I 2 avevano legato per comunità di vedute all' Avana dove l'imprenditore era andato a inaugurare attività. Pensava che dopo il crollo dell'Urss (1991) Castro sarebbe caduto. E poiché a Ponzano aveva aperto Fabrica, una scuola per giovani teste d' uovo di ogni nazionalità, scrittori, designer, di tutto un po', voleva Castro come docente. «Caro Fidel», gli scrisse, «proprio per la simpatia che ci lega vorrei proporti di venire a lavorare in Italia nel nostro gruppo. Il desiderio sarebbe, caro Fidel, di affidare a te la cattedra di "maestro della rivoluzione". Aspetto urgentemente risposta». Castro declinò e restò all' Avana a fare quello che sapeva: angariare i cubani. È di lombi modesti questo bizzarro miliardario in euro sul cui impero -dal tessile, agli aeroporti; dalle autostrade agli autogrill; dall' agricoltura, alle banche - non tramonta mai il sole. In Patagonia possiede 900.000 ettari che gli indigeni Mapuche gli rinfacciano di avergli sottratto. Il padre, che aveva un negozio di autonoleggio, perse tutto per seguire Mussolini in Africa e morirvi di malaria nel 1945. Moglie e 4 figli, dovettero arrangiarsi. Luciano lasciò gli studi per fare il commesso. La sorella Giuliana era maglierista a cottimo. Di qui, l'idea di uscire dalle tinte funeree dell'epoca e produrre in proprio magliette colorate. Era il 1965 e fu un trionfo. Al top, Benetton sfornava 150 milioni capi l'anno con 6.000 negozi. Oggi, la baracca è in mano ai figli dei fondatori. Luciano ne ha 3 dalla moglie, Teresa. Uno da Marina Salamon che a 17 anni si innamorò di lui che ne aveva 40. Una romantica passione che per poco non finiva drammaticamente. Ora, da lustri, è accasato con Laura, sua storica portavoce. Con questo, abbiamo concluso il periplo di Luciano. Senza però avvistarlo.

I segreti esteri della famiglia Benetton. L'indagine fiscale sui profitti delle autostrade portati in Lussemburgo. E le società offshore con il marchio di famiglia tra Panama e Caraibi. Un’inchiesta dell’Espresso in edicola da domenica 26 agosto svela gli affari riservati del gruppo veneto fuori dall’Italia, scrive Paolo Biondani e Leo Sisti il 24 agosto 2018 su "L'Espresso". Le società offshore con il marchio di famiglia tra Panama e Caraibi. E un'inchiesta fiscale, tenuta riservata, sui profitti autostradali spostati dall'Italia in Lussemburgo. Sono i segreti esteri del gruppo Benetton, rivelati da l'Espresso nel numero in edicola da domenica 26 agosto. Dopo il crollo del ponte di Genova, quando il vicepremier Luigi Di Maio ha accusato gli imprenditori veneti di arricchirsi con i pedaggi e portare i soldi all'estero, il gruppo Benetton ha risposto che è falso: la piramide societaria con cui controlla Autostrade per l'Italia, infatti, è totalmente tricolore e paga le tasse nel nostro Paese. Fino al 2012 però la catena di comando portava all'estero, a una società-capogruppo lussemburghese, la holding Sintonia. Il trasloco dal Lussemburgo all'Italia fu spiegato dall'azienda con motivazioni puramente economiche: «La decisione è maturata a seguito della recessione globale iniziata nel 2008 che non ha consentito alla società di raggiungere l'obiettivo iniziale di attrarre nuovi investitori esteri». Ora però emerge che il rimpatrio di Sintonia è stato l'effetto di un'indagine fiscale. La Guardia di Finanza di Milano ha ipotizzato, come per altri grandi gruppi, un caso di “estero-vestizione”: la holding lussemburghese, secondo l'accusa, era una società di comodo creata per minimizzare le tasse sugli utili prodotti in Italia. I documenti esaminati da l'Espresso mostrano che l'indagine fiscale si è chiusa nel 2012 con una sorta di patteggiamento: il gruppo Benetton ha versato all'Agenzia delle Entrate circa 12 milioni in contanti e si è impegnato, appunto, a trasferire la holding dal Lussemburgo a Milano. In quegli anni, per altro, a tagliare gli utili tassabili era soprattutto il peccato originale delle privatizzazioni all'italiana: anche Autostrade, come Telecom, è stata comprata a debito, attraverso una società-veicolo poi assorbita, con tutto il suo passivo, nella stessa azienda ceduta dallo Stato. Dal 2001 al 2017, quindi, la società italiana ha incassato pedaggi autostradali per oltre 43 miliardi di euro, ma ha bruciato più di 7 miliardi (un sesto di tutti i ricavi lordi) per ripagare i debiti bancari degli acquirenti privati. Dal 2012 comunque il gruppo Benetton, che oggi ha come capofila la società di famiglia Edizione srl, con sede a Ponzano veneto, ha sempre pagato tutte le tasse in Italia. Nelle carte riservate dei paradisi fiscali, rivelate dal consorzio giornalistico Icij di cui fa parte l'Espresso, compaiono però diverse offshore con il marchio Benetton. In particolare ad Aruba, un'isola dei Caraibi sotto sovranità olandese, sono attive da anni società come “United Colors of Aruba NV Benetton”, “Undercolours Aruba”, “Keshet Alliance Nv Benetton” e altre compagnie con azionisti protetti dall'anonimato. Alle domande de L'Espresso, il gruppo Benetton ha risposto che «nessuna delle società elencate appartiene al gruppo Benetton. Si tratta di società costituite in loco dagli agenti, rivenditori o clienti che nei vari paesi acquistano e rivendono la merce con il marchio United Colors of Benetton». Diverso è il caso della Bristol Consulting Corp, creata il 25 settembre 2001 alle Isole Vergini Britanniche dalla filiale svizzera dello studio Mossack Fonseca di Panama: come primo e unico amministratore è registrato Mauro Benetton. La società offshore è stata chiusa tra novembre 2002 e aprile 2003, negli stessi mesi dello scudo fiscale di Berlusconi e Tremonti. L'azienda di Treviso oggi conferma che la Bristol faceva capo a quell'esponente della famiglia, ma precisa che «non ha mai avuto alcun rapporto con il gruppo Benetton».

I Benetton smentiscono Di Maio: "Paghiamo le tasse in Italia, non in Lussemburgo", scrive il 16 agosto 2018 Sergio Rame su "Il Giornale". Nelle ultime ore vi sarebbe stato un giro di telefonate circolate tra gli associati Aiscat, il presidente e il direttore generale Massimo Schintu, in cui è stato ricordato che l’avvocato Giuseppe Conte, prima che diventasse presidente del Consiglio, è stato a lungo consulente legale della stessa Aiscat e della Serenissima, la A4 Brescia-Padova, delle quali aveva difeso con ardore gli interessi di “bottega”. Ma evidentemente tutto cià per il M5S è difficile e duro da ammettere e ricordare. I portavoce della famiglia Benetton affidano all’ AGI – Agenzia Italia la replica al vice premier Luigi Di Maio: “Tutte le tasse relative all’attività svolta da Autostrade per l’Italia vengono pagate in Italia”. Dopo il drammatico crollo di Ponte Morandi a Genova, Di Maio proferendo affermazioni ancora una volta prive di fondamento, aveva accusato Autostrade per l’Italia, società controllata, attraverso Atlantia (quotata in Borsa), sostenendo che la società partecipata dalla famiglia Benetton “incassa i pedaggi più alti d’Europa”, accusandoli di pagare “tasse bassissime, peraltro in Lussemburgo”. Affermazioni queste degne di una querela per diffamazione, se Di Maionon si nascondesse dietro l’immunità parlamentare. Fonti della società Autostrade hanno chiarito che “sia Autostrade per l’Italia che la controllante Atlantia hanno sede in Italia, a Roma, dove pagano le tasse”. I portavoce della famiglia Benetton hanno inoltre precisato che l’azionista di maggioranza di Atlantia è Sintonia spa che possiede il 30,25 per cento e fa capo alla stessa famiglia. Sintonia nasce nel 2009 come società finanziaria lussemburghese controllata dalla holding Edizione, dei Benetton, che “era stata creata in Lussemburgo per fare investimenti esteri attirando anche altri fondi esteri, ma poi è stata riportata in Italia”. L’ultimo bilancio di Edizione, in cui Sintonia risulta ancora nella sua ragione sociale del diritto lussemburghese (SA), è quello del 2011, dove si parla di 37,5 milioni di euro di dividendi (erano 39,5 nel 2010). Successivamente Sintonia nel 2012, cioè 6 anni fa, è stata riportata in Italia trasformandosi in società per azioni di diritto italiano che quindi paga le sue tasse sugli utili al fisco italiano. La “bufala” di Di Maio sul Lussemburgo, potrebbe avere origine nascere dal fatto che già nel bilancio 2009 si dava conto dell’esistenza di una Sintonia spa, “che però si occupava di altro”, e che è esistita per un breve lasso di tempo parallelamente alla Sintonia SA lussemburghese, e che però è andata a sciogliersi con l’operazione di ristrutturazione del gruppo Benetton avvenuta il 1 gennaio 2009. Fino a quel momento la società capogruppo era la Ragione di Gilberto Benetton & C sapa (società in accomandita per azioni) con sede legale e fiscale a Treviso. Edizione Holding spa e Sintonia spa sono state incorporate dal primo gennaio 2009 in Ragione sapa che a sua volta si è trasformata in Edizione srl. Nel frattempo Sintonia SA, a far data dal 27 giugno 2012, viene riportata in Italia, come già detto, e diventa una spa, con sede a Treviso, che paga le tasse in Italia sui propri utili percepiti dai divendi. “Quindi – chiariscono ulteriormente i portavoce della famiglia Benetton – l’azionista di maggioranza di Atlantia (30,25 per cento), che controlla il 100 per cento di Autostrade per l’Italia, è una società di diritto italiano, Sintonia spa, che tramite Edizione srl fa capo alla famiglia Benetton”. La decisione “annunciata” del Governo di voler revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia per la tragedia di Genova ha comportato l’immediata reazione dell’Aiscat (l’Associazione italiana società concessionarie autostrade e trafori) anche se il presidente Fabrizio Palenzona e il vicepresidente Giovanni Castellucci, amministratore delegato di Atlantia, notoriamente non hanno un buon feeling. Secondo quanto riportato dal quotidiano online Lettera43 nelle ultime ore vi sarebbe stato un giro di telefonate circolate tra gli associati, il presidente e il direttore generale di Massimo Schintu, in cui è stato ricordato che l’avvocato Giuseppe Conte, prima che diventasse presidente del Consiglio, è stato a lungo consulente legale della stessa Aiscat e della Serenissima, la A4 Brescia-Padova, delle quali aveva difeso con ardore gli interessi di “bottega”. Ma evidentemente tutto cià per il M5S è difficile e duro da ammettere e ricordare. Il deputato Michele Anzaldi (PD) sulla sua pagina Facebook attacca e scrive: “Di Maio dice di non aver ricevuto soldi da Benetton e accusa Renzi. Matteo Renzi replica di non aver mai preso un soldo e la lista dei finanziatori del Pd gli dà ragione. C’è tuttavia qualcuno che di soldi dal sistema autostradale ne ha presi di sicuro. E quel qualcuno è il premier Conte, che sarebbe stato consulente di Aiscat e legale dell’Autostrada A4. Alla luce di questa circostanza le accuse di Di Maio e dello stesso Conte ad altri partiti sono gravissime. Il premier chiarisca subito quali sono gli attuali rapporti con Aiscat e A4. E la smetta di rilasciare improvvide dichiarazioni sul concessionario: fa correre ai cittadini italiani di far pagare a loro eventuali risarcimenti per danni dovuti alle sue decisioni.”, ha concluso Anzaldi.

Ecco come Autostrade ha usato i 43,7 miliardi dei pedaggi: investimenti, tasse e debiti, scrive il 17 agosto 2018 "Il Corriere del Giorno". Autostrade per l’Italia ha investito 5 miliardi in interventi di manutenzione e 13,6 miliardi per la realizzazione di ampliamenti, migliorie e nuove opere. I costi del lavoro sostenuti nel periodo sono pari a circa 7 miliardi. Pagati 5 miliardi di imposte allo Stato italiano. A fare realmente i conti in tasca alla società Autostrade per l’Italia è necessario andare a spulciare i bilanci della società concessionaria della rete autostradale Italia.  La gestione di 27 tratte autostradali italiane per Autostrade per l’Italia ha generato ricavi da pedaggio tra il 2001 e il 2017 per 43,7 miliardi. Le tariffe autostradali vengono riconosciute ai concessionari dallo Stato (la proprietà della rete è pubblica, privata è solo la gestione) per remunerare manutenzione, investimenti e per coprirne i costi. L’accusa che negli anni è arrivata al gruppo è quella di aver beneficiato di extraprofitti garantiti da una convenzione troppo generosa che, tra i vari aspetti, sottostimava le attese di crescita del traffico per riconoscere adeguamenti tariffari più alti. È questo il bilancio degli incassi della gestione della famiglia Benetton (al netto degli altri ricavi come le royalties per le aree di servizio e quant’altro) ottenuti ai giorni nostri, a seguito della privatizzazione della concessionaria autostradale, avvenuta nel 2000.  Incassi pagati dagli automobilisti italiani e stranieri che sono transitati con i loro veicoli lungo le principali arterie nazionali del Paese.  Nello stesso periodo Autostrade per l’Italia ha però investito 5 miliardi in interventi di manutenzione e 13,6 miliardi per la realizzazione di ampliamenti, migliorie e nuove opere. I costi del lavoro sostenuti nel periodo sono pari a circa 7 miliardi. Il sistema tariffario italiano prevede che nella tariffa entri anche un canone riconosciuto all’Anas (cosiddetto sovrapprezzo) che contribuisce alle sue spese di sostentamento e un onere concessorio al Ministero dell’Economia: nel periodo questi costi sono stati pari a 3,6 miliardi. Singolare l’aspetto che riguarda il canone Anas, istituito quando la società aveva funzioni di ente concedente e di controllo delle concessionarie autostradali, funzioni queste assegnate al Ministero dei Trasporti con le riforme intervenute dopo il 2010, che è  comunque rimasto in essere anche adesso che l’ Anas è stata trasferita sotto il controllo delle Ferrovie dello Stato ed è  quindi diventato un ramo di azienda di un concorrente, considerando che gestisce 900 chilometri di tratte autostradali. Eliminate queste partite finanziarie che le tariffe sono chiamate a coprire per ripagare oneri, costi e investimenti alla società, dai 43,7 miliardi di utile ne restano soltanto circa 13 di margine: nel periodo preso in considerazione sono stati pagati 5 miliardi di imposte allo Stato italiano. Ne restano poco più di 9 miliardi: sempre nello stesso periodo sono stati pagati circa 7,2 miliardi di oneri finanziari a sostegno del debito, nel quale rientra anche il debito inizialmente contratto per l’acquisto di Autostrade in fase di privatizzazione. I profitti reali di cui la società Autostrade per l’Italia ha portato a casa sono pari a 2,1 miliardi nei 16 anni presi in considerazione: in pratica circa 130 milioni di euro l’anno, di cui buona parte distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi. Al socio di riferimento, la famiglia Benetton, è andato in media il 30% dei dividendi, anche se non tutto è stato distribuito (ci sono ad esempio le quote che vanno alle riserve). In modo sommario si può calcolare che alla famiglia di Ponzano Veneto siano arrivati in 16 anni utili per 600 milioni, cioè una media di circa 40 milioni di euro l’anno. I dati economici-finanziari analizzati sono relativi solo ad una parte dei profitti di Atlantia, che oltre alle 27 tratte di Autostrade per l’Italia ne gestisce altre 5 in Italia. Dopodichè ci sono le varie concessionarie acquistate in Sudamerica; completano il business del gruppo la gestione degli aeroporti di Fiumicino e quello di Nizza in Francia. Il business all’estero sarà esteso con l’acquisizione della spagnola Abertis.

Luciano Benetton, quella maglia gialla fu l’inizio. Finito nel mirino dei 5Stelle, Luciano Benetton è il padre fondatore dell’impero. Tutto ebbe inizio con un maglione giallo e un’intuizione geniale, scrive Paolo Delgado il 17 Agosto 2018, su "Il Dubbio". Per elencare le partecipazioni dell’impero Benetton e riassumerne le peripezie servirebbe un’enciclopedia. Riducendo all’’ osso si può dire che la famiglia trevigiana, attraverso Edizione srl, possiede il 100% di Benetton Group, il 50,1% di Autogrill, il 30,25% di Atlantia che a propria volta detiene il 100% di Aspi, Autostrade per l’Italia, e il 95,2% di Aeroporti di Roma. Non mancano quote di Generali ( 0,94%) e Mediobanca ( 2,16%). I trevigiani non hanno dimenticato la campagna: possiedono il 100% dell’azienda agricola Maccarese e sempre il 100% della Compania de tierras sud argentino, che opera in Patagonia: 900mila ettari di terreno che fanno della famiglia il principale proprietario terriero argentino. Uno zampino nell’edilizia è d’uopo: la holding Edizione Property ha un patrimonio di 112 immobili, valore sul miliardo e mezzo di euro. La raccolta delle presenze nei cda di peso li vede nel gruppo di testa se non primi assoluti: i Benetton campeggiano in ben 125 consigli d’amministrazione. Senza contare le entrate e uscite da Rcs e Pirelli. Re Luciano è stato senatore, per il Partito repubblicano, una sola volta, nella breve legislatura 19921994. Ma come industriale non ha preferenze. Nel 2006 distribuì 150mila euro per uno a tutti i quattro partiti dell’allora Cdl, il centrodestra, e ai tre del centrosinistra. Ci scapparono pure 50mila euro per l’Udeur di Mastella e 20mila (poi restituiti) per l’IdV di Tonino Di Pietro. Il motore di questo impero in via di ampliamento permanente è Luciano Benetton: dal gennaio scorso è tornato, alla bella età di 82 anni, a dirigere Benetton Group, dopo aver lasciato progressivamente il timone, tra il 2003 e il 2013, insieme ai fratelli Gilberto e Carlo e alla sorella Giuliana, alla nuova generazione. Nei primi anni ‘ 60 Luciano sbarcava il lunario da commesso, mentre la sorella lavorava a maglia per un piccolo negozio. Non era una famiglia povera. L’autonoleggio del padre a cavallo tra i ‘ 30 e i ‘ 40 andava alla grande, e senza l’avventura coloniale, nella quale l’uomo si lanciò morendo poi di malaria nel 1945, i quattro Benetton non avrebbero avuto problemi. Il miracolo fu un regalo di Giuliana e Luciano, un maglione giallo, e un’intuizione geniale del destinatario del coloratissimo presente. Di maglioni simili nell’Italia di allora non se ne trovavano. Luciano concluse che, se tutti gli invidiavano il capetto, voleva dire che c’era un mercato già pronto. I fratelli si misero insieme, inizialmente producendosi da soli i variopinti maglioni, con vendita porta a porta affiancata poi da un negozio- bugigattolo a Belluno: 32 colori, tutti squillanti, costo contenutissimo. Tempo un anno e la famiglia apriva un secondo negozio, stavolta a Cortina. Quello fu il trampolino di lancio. All’inizio dei ‘ 70 la produzione di jeans si aggiunse a quella dei maglioni, e l’azienda si lanciò alla conquista dei mercati esteri: a partire da Parigi, negozio aperto già nel 1969 per sfondare a Madison Avenure, New York City, nel 1980. Nel ‘ 74 Benetton acquisiva la Sisley, da affiancare a United Colours of Benetton. Alla fine del decennio il 60% della produzione era venduto all’estero. In realtà, come ricorda Guglielmo Ragozzino, di idee geniali Luciano e i suoi fratelli ne avevano avute due. La prima era la scoperta delle potenzialità dei colori squillanti a basso costo. La seconda, forse ancora più essenziale, era l’individuazione del modo di produzione che permetteva lo smercio a basso costo. I Benetton davano la produzione in appalto a migliaia di famiglie locali, “distribuendolo a domicilio”. E anche così dovevano arrancare per stare dietro alla richiesta crescente. La terza mossa vincente porta la firma di un nome che, pur non essendo della famiglia, è ormai indissolubilmente legato a quello dei Benetton: il fotografo e pubblicitario Oliviero Toscani. Arrivò nel 1982 e lanciò immediatamente un modello di pubblicità sino a quel momento del tutto inedito: non puntava sulla magnificazione del prodotto ma sulla sensibilizzazione sociale, sui temi che a lui, radicale e oggi presidente onorario dell’associazione contro la pena di morte “Nessuno tocchi Caino”, stavano più a cuore. Fu un successone e i tre campionati mondiali vinti da Benetton Formula, guidata da Briatore non guastarono. Negli anni ‘80 i Benetton mollano gli ormeggi e, pur mantenendo l’abbigliamento come core- business, si lanciano in un arrembaggio a tutto campo. A volte gli va bene, a volte meno bene ma la partita delle privatizzazioni si rivela una gallina dalle uova d’oro. Oggi l’azienda ricava il 25% dei profitti dall’abbigliamento, con 5mila negozi sparsi per il mondo, 120 paesi nazione più nazione meno e il resto dalle varie e diversificate attività. Le Autostrade sono una delle più redditizie, con gli utili in costante aumento. Aumento che però non riverberava sui controlli: per quelli, invece, gli investimenti erano in calo.

Sulla revoca è già dietrofront Costerebbe fino a 20 miliardi. Il governo frena, aperta l'istruttoria del Mit. Ma Di Maio non demorde. Penali enormi per lo stop anticipato, scrive Antonio Signorini, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". La prospettiva di un contenzioso infinito e, soprattutto, l'idea di dover sborsare ad Autostrade per l'Italia 20 miliardi euro ha fatto cambiare idea al governo. Fino a ieri mattina la linea ufficiale del governo era quella del premier Giuseppe Conte che, a poche ore dalla tragedia costata la vita a decine di persone che attraversavano il ponte Morandi, ha annunciato la revoca della concessione. Linea rilanciata ieri dal vicepremier Luigi Di Maio: «Confermo la revoca, le penali non andranno pagate». Ma nel pomeriggio sono spuntati dubbi e distinguo. Prima quello del viceministro dei Trasporti e responsabile economico della Lega Edoardo Rixi: «Se Autostrade per l'Italia metterà in breve tempo a disposizione risorse per gli sfollati, per i familiari delle vittime e ricostruirà il ponte Morandi senza aspettare le indagini, noi decideremo se rescindere o meno il contratto di concessione». Poi il vicepremier Matteo Salvini. Poco dopo anche dal M5s un cambiamento di rotta arrivato prima dal Blog delle stelle tramite un post nel quale si difende la revoca della concessione «qualora ce ne siano le condizioni». Poi il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha delineato un percorso dai tempi medio-lunghi, che potrebbe avere come esito l'uscita di Autostrade per l'Italia dalla gestione della rete autostradale, ma anche un conferma della società del gruppo Atlantia. «Il ministero che presiedo è subito in azione per stabilire le cause del dramma avvenuto a Genova. Abbiamo costituito una commissione ispettiva di esperti che faranno luce sull'accaduto e che sono già operativi. L'esito del loro lavoro, che dovrà arrivare entro un mese, entrerà nella procedura di un'eventuale revoca della concessione ad Autostrade». Il ministero chiede il ponte venga ricostruito a carico del concessionario «in un contenuto periodo di tempo». E il governatore della Liguria Giovanni Toti vuole il nuovo ponte entro il 2019. Solo il leader del M5s e vicepremier Di Maio è restato sulle sue posizioni e ieri sera a In onda su La7 ha confermato che «Chi non vuole revocare le concessioni deve passare sul mio cadavere. C'è la volontà politica del Governo». Se l'esito sarà veramente questo e quindi se tra un mese si deciderà la revoca della concessione prima del termine, il governo potrebbe trovarsi a dovere pagare una cifra tra i 15 e i 20 miliardi di euro, secondo una stima fatta dal Sole24ore. Un miliardo all'anno da dare ad Autostrade per i mancati ricavi dalla data della revoca fino alla scadenza naturale del contratto che è il 2038, con proroga al 2042. La decadenza della convenzione è possibile in caso di «grave inadempienza da parte del concessionario rispetto agli obblighi previsti». Difficile da dimostrare. Poi, se la commissione ispettiva del governo dovesse avviare la procedura, la società potrà fornire giustificazioni e fornire controdeduzioni. Se poi vengono respinte, il concessionario ha altro tempo per le controdeduzioni. In tutto 5 mesi per una decisione che può essere impugnata al Tar. La tragedia del ponte ha riflessi anche nei rapporti con l'Unione europea. La Commissione europea ieri da una parte ha sottolineato come la sicurezza delle strade dipenda dalla concessionaria. Dall'altro ha risposto ufficiosamente alle polemiche sulle risorse per la sicurezza bloccate. Per l'Italia sono già stati stanziati 2,5 miliardi euro in fondi Ue per le infrastrutture oltre al piano da 8,5 miliardi di investimenti in Autostrade in cambio di una proroga della concessione dal 2038 al 2042. Se il governo dovesse fare saltare la concessione, anche questi ultimi sarebbero a rischio.

Come funzionano le concessioni autostradali. Assegnazioni, meccanismi, criticità e revoche: un sistema che funziona male e che è economicamente quasi impossibile da sbloccare, scrive Ilaria Molinari il 16 agosto 2018 su "Panorama". "Toglieremo la concessione della A10 alla società Autostrade". Dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al ministro per lo sviluppo economico Luigi Di Maio a quello degli interni Matteo Salvini la volontà sembra essere unanime dopo l'immane tragedia che il 14 agosto ha sconvolto Genova e l'Italia intera con il crollo del Viadotto Morandi. Anzi, proprio Di Maio ha dichiarato di aver già avviato la richiesta di revoca della concessione e una multa da 150 milioni di euro, causando un crollo in Borsa del titolo Autostrade che fino alle prime ore del mattino non riusciva a fare prezzo attestandosi a -50%. Eppure la strada non è così semplice. Ma per capirlo bisogna avere chiaro come funzionano le concessioni autostradali.

Il funzionamento. Lo Stato possiede 6.668 km di rete autostradale. In piccola parte la gestisce attraverso l'Anas e altre società pubbliche (infatti su queste strade non si pagano pedaggi), mentre in larga parte la assegna in concessione a società private. Dal 2012 è il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a stipulare le convenzioni con i concessionari. Il funzionamento è semplice: il Governo dà in concessione un tratto stradale consentendo all'ente privato di chiedere un pedaggio per la sua percorrenza in cambio di investimenti e manutenzione sulle strade che siano "coerenti". Ed è il Governo che deve fare queste verifiche periodicamente insieme alla società concessionaria. L'anomalia italiana è che un unico privato ha in concessione circa la metà della rete (compresa la A10) ed è Autostrade per l'Italia, azienda al 100% del gruppo Atlantia la cui quota di maggioranza (30%) è di proprietà della famiglia Benetton attraverso la holding Sintonia. La durata delle concessioni è lunghissima: nel caso di Autostrade fino al 2042. 

Più pedaggi meno investimenti. Vi avevamo spiegato già qui perché il business delle concessioni è davvero un affare: nel 2016 (ultimi dati disponibili) le entrate da pedaggi erano aumentate del 4,1% mentre le spese per manutenzione (-7,3%) e investimenti (-23,9%) sono crollate. Non solo: nel 2018 i pedaggi hanno continuato ad aumentare (la media nazionale è del2,7% ma in alcuni tratti si va oltre addirittura al 50%).

Revocare una concessione: tutte le difficoltà. Ora, revocare una concessione non è affatto semplice come vuole far sembrare il Ministro Di Maio. Tutt'altro. Intanto per poter essere applicata deve essere dimostrato in sede giuridica un "dolo grave" del concessionario. Nel caso della tragedia del Ponte Morandi dunque, dovrebbe essere accertato che il dolo di Autostrade per l'Italia è stato tale da causarne il crollo. E su questo aspetto è difficile pensare che un colosso come Autostrade non si sia coperta da eventuali rischi. Tanto da aver dichiarato in una nota: "In relazione all'annuncio dell'avvio della procedura di revoca della concessione, Autostrade per l'Italia si dichiara fiduciosa di poter dimostrare di aver sempre correttamente adempiuto ai propri obblighi di concessionario, nell'ambito del contraddittorio previsto dalle regole contrattuali che si svolgerà nei prossimi mesi. È una fiducia che si fonda sulle attività di monitoraggio e manutenzione svolte sulla base dei migliori standard internazionali. Peraltro non è possibile in questa fase formulare alcuna ipotesi attendibile sulle cause del crollo. Autostrade per l'Italia sta lavorando alacremente alla definizione del progetto di ricostruzione del viadotto, che completerebbe in cinque mesi dalla piena disponibilità delle aree. La società continuerà a collaborare con le istituzioni locali per ridurre il più possibile i disagi causati dal crollo". Le incognite giuridiche sono le più importanti: mancano contestazioni formali precedenti per inadempienze che sembrano essere necessarie e sarà il Governo a dover muovere accuse dettagliate sulle cause del disastro alla società Autostrade con tutte le difficoltà tecniche che questo comporta. Ma c'è di più: revocare una concessione prevede delle penali, pesanti, per lo Stato che, nel caso della A10, sono state stimate intorno ai 15-20 miliardi. Come riportato da ANSA, la convenzione infatti prevede che il concessionario abbia diritto ad "un indennizzo/risarcimento a carico del Concedente in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione". L'indennizzo "sarà pari ad un importo corrispondente al valore attuale netto dei ricavi della gestione, prevedibile dalla data del provvedimento di recesso, revoca o risoluzione del rapporto, sino alla scadenza della concessione", nel 2042.

L'indecente segreto di Stato sui contratti di concessione. Gli accordi sulla gestione delle autostrade non possono essere resi pubblici: «Vanno protetti i dati delle società», scrive Angelo Allegri, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Quattro o cinque anni fa la neonata Autorità dei trasporti chiese al ministero delle Infrastrutture i testi dei contratti di concessione autostradale. Sembrava una richiesta di routine e invece i funzionari ministeriali fecero muro: i documenti, spiegarono, contengono dati delicati per le aziende coinvolte e quindi non possono essere divulgati. Nemmeno all'organismo di controllo. Affermazione sorprendente ma del tutto in linea con quello che era accaduto al momento stesso della creazione dell'Autorità. L'Aiscat, l'associazione dei gestori, era riuscita a ottenere una sostanziale riduzione dei suoi poteri: contrariamente a quello che accade in altri Paesi l'Autorità deve ancora oggi limitarsi alle nuove concessioni, ma non può mettere becco in quelle già firmate, tutte le più importanti compresa quella di Autostrade. Non meraviglia dunque che Phastidio, il sito dell'economista Mario Seminerio, abbia definito le concessioni «un indecente segreto di Stato», più tutelato di quelli militari. In questo caso, però a essere protetta non è la collettività, ma le società che incassano i pedaggi. Il muro di gomma ha fino ad ora sempre tenuto, sventando ogni pericolo; l'esempio più recente risale all'inizio di quest'anno: mantenendo all'apparenza le ripetute promesse di trasparenza, Graziano Delrio, ministro dei trasporti del governo Gentiloni, ha fatto pubblicare su internet i testi incriminati. Peccato però che siano state escluse le parti più importanti, quelle davvero utili per farsi un'idea della sensatezza economica degli accordi. Le concessioni, in tutto una ventina o poco più, sono i contratti con cui lo Stato (attraverso il Ministero delle Infrastrutture) affida a una società la gestione di un tronco autostradale, i rispettivi obblighi e diritti, i ricavi che l'operatore privato ne potrà trarre e gli investimenti a cui si impegna. Nella maggior parte dei casi risalgono alla fine degli anni Novanta, il periodo delle grandi privatizzazioni. Quella di Autostrade per l'Italia, siglata nel 1997, scadeva nel 2038, ma di recente, in cambio dei lavori sulla nuova super tangenziale di Genova, la cosiddetta Gronda, è stata prorogata al 2042. Proprio le proroghe sono uno dei tasti più delicati. La legge europea prevede che una volta scadute, le convenzioni vengano messe a gara, nel nome di una sana competizione. Peccato che in Italia non succeda praticamente mai. Il cavallo di Troia sono di solito i nuovi investimenti: il gestore si impegna a costruire un nuovo tronco, una terza (o quarta corsia), opere considerate indispensabili, e come remunerazione finisce con l'ottenere dal governo un aumento dei pedaggi o una proroga del contratto (talvolta entrambi). Spesso, tra l'altro, l'investimento provoca un aumento del traffico e il gestore ci guadagna due volte. Atlantia dei Benetton (con Autostrade primo gestore italiano) o il gruppo Gavio (secondo) hanno un altro vantaggio: possiedono delle società di costruzioni interne a cui, almeno in parte, affidano i lavori. L'incasso tende così a triplicarsi. Uno dei dominus del sistema è Fabrizio Palenzona, tra i più formidabili uomini di potere dell'Italia degli ultimi decenni. Ai tempi della prima Repubblica era già un democristiano in carriera (è stato sindaco di Tortona e presidente della provincia di Alessandria). Poi è diventato banchiere (vicepresidente di Unicredit) e proconsole dei Benetton nel settore infrastrutture. In questa veste è presidente di Aiscat (come detto l'associazione dei gestori autostradali) e di Assoaeroporti (i Benetton controllano lo scalo di Fiumicino). La famiglia di Ponzano Veneto, oggi in difficoltà di fronte all'accanita competizione nel settore dei maglioncini (dove da anni perde soldi) è entrata nel più redditizio comparto dei servizi in concessione già dalla prima privatizzazione nel 1998. Più o meno nello stesso periodo sono entrati i Gavio. Le società della famiglia di Tortona sono state coinvolte qualche anno fa in una grottesca vicenda che rende bene la scarsa trasparenza del settore. La cosiddetta legge sblocca Italia del 2015 prevedeva a loro vantaggio la solita proroga (con relativi incassi) in cambio di lavori per 10 miliardi. Arrivata a Bruxelles la norma fu bocciata tra mille imbarazzi: i «nuovi» lavori, dissero i funzionari Ue, sono gli stessi che ci avete presentato negli anni precedenti. Quante volte volete farveli pagare?

Carta igienica nel water, scrive il 16 agosto 2018 Emilio Tommasini su "Il Giornale". E pensare che tutti noi scrutavamo l’orizzonte in cerca di qualche crisi che si profilasse da lontano: la Turchia l’avevamo scampata bella e pensavamo … chissà da dove il mostro ci attaccherà da qui alla fine di agosto. E il mostro ha attaccato da Genova.

Ha attaccato con le azioni Atlantia. Non è stato il collasso del ponte e le povere vittime. Siamo stati noi, noi italiani a fare il resto, con le azioni Atlantia. Guardiamo l’affaire di queste azioni Atlantia dall’alto. Facciamo finta che io sia Emilek Chianka Shaik Tomaselik, sultano dei sultani, principe dei principi del Golfo Persico, e facciamo che io in questa vicenda compaia però come investitore di un misterioso paese del Golfo Persico e ho comprato delle azioni di Atlantia già da diversi anni. Me ne sto tranquillo su mio yatch a Cannes e apprendo dal telefonino che un ponte di una autostrada in concessione ad Atlantia è crollato. Siccome conosco da tempo i Benetton, da quando ancora facevano gli imprenditori veri producendo e vendendo maglioni, io me ne sto tranquillo, so che le autostrade in Italia sono una mucca da mungere e quindi il latte cola copioso nelle mie tasche (leggi i dividendi dalle azioni Atlantia). Addirittura ho letto non so su qualche sito un articolo di un tizio buffo con il papillon che sostiene di insegnare Finanza Aziendale all’Università di Bologna il quale ha scritto che con la sua nuova macchina bifuel ad andare al mare paga 20 euro di autostrade e solo 13 euro di metano. Della serie se non è la follia questo per un consumatore italiano non so quale altra follia ci possa essere in giro in tutto il mondo. E io sono quello che prendo quei 20 euro dal tizio buffo perché possiedo azioni Atlantia. Quindi io non sono io felice? Non sono tranquillo? Non mi godo la vita di socio di Atlantia qui a Cannes con il mio yatch e le mie 10 fotomodelle? Giusto per stare nel sicuro chiamo al cellulare il mio amico Benetton e lui mi rassicura: dovesse succedere qualcosa il governo italiano dovrebbe pagare un mare di soldi ad Atlantia, una cifra che mi pare di aver capito (non ricordo bene perché c’era il rumore del vento e delle onde) che fosse pari a 20 miliardi. Poi nel giro di 24 ore invece apprendo che: Il primo ministro italiano che di mestiere sembra faccia il professore di diritto e peggio anche l’avvocato di diritto amministrativo dichiara che il governo ritirerà la concessione ai Benetton. I Benetton dicono che se gli ritirano la concessione vogliono la grana come da contratto. Il vicepremier che mi dicono essere un ragazzino di Napoli di soli 30 anni che non ha mai lavorato in vita sua gli risponde che la grana no e poi no e che faranno una legge per non dargliela (e dire che mi avevano già detto che a Napoli spesso fanno cose simili con i motorini … lo chiamano “cavallo”….ma non pensavo anche con le azioni Atlantia degli investitori esteri). Io sono Emilek Chianka Shaik Tomaselik, principe dei principi, regno da sovrano assoluto e gli oppositori li faccio annegare nella mia piscina mentre mi sorseggio un aperitivo (spritz ???). Però una cosa ho imparato: che io debbo investire su quei paesi dove IL DIRITTO viene rispettato, non è CARTA IGIENICA ARROTOLATA NEL WATER. Nella mia testa di investitore io ho dato i soldi in cambio di azioni Atlantia perché Atlantia aveva un contratto scritto in cui se gli toglievano la concessione le davano 20 miliardi. Per questo ho investito. Io capisco il dramma di Genova e sono solidale con le vittime ma come investitore io voglio i miei soldi indietro perché qualcuno mi ha ingannato quando ho comprato le azioni Atlantia. E chi è questo qualcuno? Non vogliamo entrare nella polemica di chi come dove quando e in punta di diritto e l’articolo 25 del decreto legislativo e il combinato disposto tra la rava e la fava come fanno gli italiani, che quando fanno così sono peggio di noi arabi quando compriamo tappeti. Io voglio i miei soldi indietro perché io ho investito i miei soldi nelle azioni Atlantia in base ad un accordo che esisteva tra il Governo Italiano e Atlantia. Non voglio entrare nel merito dei dettagli di questo accordo, se chi l’ha firmato per conto del Governo Italiano deve essere oggi spellato vivo (così almeno faccio io principe dei principi nel mio regno in riva al Golfo Persico con i miei burocrati che sbagliano) o se invece sono semplicemente stati bravi quelli di Atlantia (io regalo cammelli o fotomodelle ai miei dipendenti che fanno cose giuste, di solito scelgono cammelli). Non lo voglio sapere. Io contesto che uno dei due contraenti era anche chi faceva banco e mentre il giocatore giocava con il banco il banco ha cambiato le regole. Era nella facoltà del banco cambiare le regole in corso? Non lo so. Io so che io principe Emilek Chianka Shaik Tomaselik, re dei re, sultano dei sultani, i miei soldi a questi truffatori degli italiani non glielo darò mai più. Mai più. E non capisco come il capo del governo non si renda conto che se l’Italia risparmia i 20 miliardi che doveva ad Atlantia ne ha persi 1000 di miliardi perché nessuno dei miei amichetti qui a Cannes con gli yatch e le fotomodelle vorrà mai più farsi truffare in questo modo. Capito?

Jacopo Orsini per “il Messaggero” il 21 agosto 2018. Lo spauracchio della nazionalizzazione incombe su Atlantia, la società della famiglia Benetton che controlla Autostrade per l'Italia. Ma anche sui piccoli investitori che hanno comprato azioni e obbligazioni della società. Il crollo del ponte Morandi a Genova ha spinto il governo ad avviare una procedura formale per revocare la concessione al gruppo e ad evocare anche la nazionalizzazione. Un’ipotesi che al solo paventarla ovviamente spaventa gli investitori, grandi e piccoli. Tanto che ieri sui titoli Atlantia, nonostante i già pesanti crolli della scorsa settimana, si è scatenata fin dall' avvio degli scambi una ondata di vendite, frenata poi nel pomeriggio dalle dichiarazioni più prudenti del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti, decisamente perplesso dall' ipotesi di riportare in mano allo Stato la gestione delle Autostrade. «Prima di nazionalizzare - ha avvertito infatti Giorgetti - bisogna revocare, se si arriverà alla fine della procedura». Parole che sono sembrate una frenata rispetto a quelle del ministro dell'Interno, Matteo Salvini. «Stiamo studiando e lavorando, sicuramente non faremo i regali fatti in passato, quando qualcuno ha firmato provvedimenti che hanno fatto guadagnare miliardi ai privati e pagare miliardi agli italiani», aveva risposto infatti il vice premier a una domanda sull' ipotesi di nazionalizzare Autostrade ventilata qualche ora prima dal titolare delle Infrastrutture, Danilo Toninelli. Il mercato ha colto subito il cambio di tono del sottosegretario leghista, che rappresenta da sempre l'ala più pragmatica del governo giallo-verde, e Atlantia nell' ultima parte della seduta ha dimezzato le perdite chiudendo con un calo del 4,6% a 18,43 euro. La capitalizzazione della società è comunque scesa di altri 639 milioni a 15,34 miliardi. Lunedì scorso, il giorno prima del crollo del ponte, il titolo aveva chiuso a 24,88 euro e la società valeva 20,5 miliardi. Sono circa 50 mila i piccoli azionisti della holding cui fa capo Autostrade che in caso di ritorno della gestione allo Stato rischierebbero di trovarsi con un pugno di mosche in mano, secondo le stime della stessa società. Con la conseguente raffica di class action che sicuramente partirebbe. Azioni peraltro già annunciate dagli Stati Uniti dallo studio legale Bronstein, Gewirtz & Grossman, che «sta esaminando potenziali rivendicazioni per conto di acquirenti di Atlantia». Per avere un termine di paragone del caos che potrebbe crearsi basti dire che i soci minori di Atlantia sono più del triplo dei 15 mila rimborsati dal Fondo di solidarietà per i crac di Banca Etruria, Banca Marche e delle casse di Ferrara e Chieti. Fra l'altro, l'ipotesi di riportare sotto l'ala del governo la rete privatizzata venti anni si fonda su un equivoco, visto che la proprietà è già dello Stato mentre è la gestione che viene data in concessione ed è questa che eventualmente tornerebbe sotto l'ombrello pubblico. Un' ipotesi che, se attuata nelle forme ventilate, potrebbe innescare sui mercati una nuova crisi di sfiducia sull' Italia, allontanando ulteriormente gli investitori stranieri dalla Penisola. Con il rischio che la tempesta sui mercati paventata da Giorgetti possa scatenarsi fin da subito. E tutto questo senza contare i costi, stimati in oltre 15 miliardi, che una revoca delle concessione potrebbe comportare per lo Stato. Va però detto che il ritorno sotto l'egida pubblica della rete autostradale non sarebbe un'eccezione in Europa: la Spagna è il caso più eclatante. Di sicuro per ora sul mercato prevalgono i timori. La situazione «resta molto confusa», dicevano ieri nelle sale operative. «La revoca sarebbe molto costosa e il know-how di Atlantia è difficile da rimpiazzare, siamo nel caos - affermano gli analisti di Kepler Cheuvreux -. Senza concessione e senza compensazione il valore del titolo finirebbe a zero».

C'è la chimica dietro la fragilità delle nostre opere, scrive Antonino Zichichi, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Con questo articolo non si vuole né accusare né difendere qualcuno ma solo e soltanto proporre lo studio della componente chimica, al fine di venire a capo della terribile disgrazia che ha colpito l'Italia con il crollo del ponte di Genova. La novità, a suo tempo, del ponte di Genova era nella forma snella della sua struttura. Per ottenere questa forma snella era necessario mettere insieme tutte le strutture necessarie per avere il ponte. Queste strutture erano fatte con acciaio (per i cavi) e con cemento armato per il resto. I cavi di acciaio circondati da una superficie di protezione furono incorporati nella struttura di cemento; questo incorporamento ha introdotto inevitabilmente un problema di «chimica» in quanto il materiale ferroso dei cavi pur se circondati da una superficie di protezione interagisce con il materiale del «cemento». Sarebbe stato necessario quindi studiare la struttura chimica con estrema attenzione. E infatti negli anni 1953-1954 tre aerei Comet (i più potenti modelli di quegli anni) si sono disintegrati in volo (2 Maggio 1953, 10 Gennaio 1954 e 8 Aprile 1954) per effetti di chimica non di dinamica.

I tre Comet si sono disintegrati mentre volavano normalmente, senza che un qualsiasi effetto esterno a ciascun Comet potesse avere la possibilità di intervenire. Il ponte di Genova si è disintegrato mentre era sottoposto alle solite vibrazioni prodotte dal transito degli autoveicoli, senza che un qualsiasi effetto esterno al ponte possa esserne stata la causa. Sarebbe stato necessario studiare gli effetti chimici prodotti dalle frequenze tipiche delle innumerevoli forme di vibrazioni generate dal traffico, essendo il traffico l'unico motivo per cui si fanno le autostrade sopra i ponti. Fu lo studio delle vibrazioni prodotte dai reattori dei Comet ad avere aperto gli occhi sui motivi per cui i Comet si disintegravano in volo. Nei Comet la novità estetica era legata, secondo i progettisti, a una struttura che avrebbe dovuto essere più robusta: infatti i reattori erano stati incorporati nella struttura dei Comet. Accadde invece che le vibrazioni prodotte dai reattori si propagavano con estrema efficienza su tutta la struttura dell'aereo producendo fenomeni di rottura dei legami macromolecolari, quindi fenomeni di natura chimica. Furono queste fratture macromolecolari a rendere gli aerei «fragili» in modo tale da disintegrarsi in volo. Potrebbero essere le fratture macromolecolari a rendere «fragili» le strutture del ponte di Genova. Dopo i collassi dei tre Comet tutti gli aerei hanno i reattori completamente fuori dalla struttura di ciascun aereo. Cosa che non si può fare con un'autostrada che deve ovviamente stare sopra il ponte. Vorremmo ricordare un altro esempio in cui venne accusata la dinamica mentre era la chimica la responsabile: il buco dell'ozono, ben noto a tutto il mondo. Molti pensavano che responsabile del buco doveva essere il fatto che la navicella spaziale in cui siamo, la nostra Terra, gira (come fosse una trottola) producendo vortici al Polo Nord. Com'è a tutti noto questo moto a trottola impiega 24 ore per fare un giro e genera il giorno e la notte. Secondo gli specialisti era questo movimento (quindi la dinamica) che causava gli effetti che generavano il buco dell'ozono. Fummo noi nei Seminari sulle emergenze planetarie di Erice a proporre che bisognava studiare anche gli effetti «chimici». Vennero così realizzati in laboratorio gli esperimenti di chimica. E venne scoperto che bastava una sola molecola di Cfc (Cloro fluoro carburi) per distruggere centomila molecole di ozono. Era la chimica non la dinamica a produrre il buco dell'ozono. E infatti l'uso dei Cloro fluoro carburi venne proibito da tutti i governi del mondo. Studiare la chimica per capire le cause del crollo del ponte di Genova dovrebbe essere una azione di assoluta priorità.

Crollo ponte a Genova, Mastella chiude il Morandi di Benevento. Il sindaco: "Vista la relazione tecnica, meglio disagi che disgrazie", scrive il 17 agosto 2018 "La Repubblica". Vista la relazione dell'ufficio tecnico comunale il sindaco di Benevento, Clemente Mastella ha deciso di emettere un'ordinanza con la quale stabilisce la chiusura al traffico leggero e pesante, in via precauzionale, del ponte "San Nicola", realizzato da Morandi nel 1955 a Benevento. "So - dice il sindaco - che ci saranno dei disagi per i cittadini ma è anche vero che è meglio avere disagi che disgrazie, come avvenuto con il crollo del ponte a Genova". A pesare sulla decisione dell'ex guardasigilli "anche il fatto che negli uffici di Palazzo Mosti (sede del Comune, ndr) non ci sono tracce del progetto". L'opera fu progettata nel 1955 per collegare l'area di Capodimonte alla zona alta della città e l'infrastruttura rientra nelle prime costruzioni edificate seguendo l'idea del telaio precompresso, tecnica diversa da quella utilizzata per il viadotto di Genova. Da allora il ponte, lungo 121 metri, è divenuto sempre più un punto strategico di collegamento tra l'area industriale ed il centro, oltre che di accesso in città dallo svincolo del raccordo autostradale di Benevento. Le preoccupazioni del sindaco per la incolumità pubblica sono accresciute anche a causa del terremoto che sta interessando il Molise, le cui scosse sono state avvertite, in modo lieve, anche nel Sannio. L'ordinanza di chiusura resterà in vigore fino a quando la commissione tecnica, composta da esperti come la professoressa Maria Rosaria Pecce dell'Università degli Studi del Sannio e dal professor Edoardo Cosenza dell'Università di Napoli, non garantirà la sicurezza del ponte, già oggetto di lavori di consolidamento due anni fa in seguito all'alluvione del 2015. "So che la chiusura del ponte - continua Mastella - dividerà ancora una volta in due la città, come accadde a causa dell'alluvione, e per questo ho chiesto la cortesia istituzionale all'Anas di darci una mano, in quanto il ponte è di proprietà del Comune, e nello stesso tempo, grazie all'intervento odierno del prefetto di Benevento Francesco Antonio Cappetta , già domani giungerà in città una rappresentanza del Genio Militare al quale ho chiesto la possibilità di allestire un ponte provvisorio ed alternativo sul torrente Serretelle, nelle adiacenze del ponte San Nicola al fine di alleggerire i disagi". "Ma chi pagherà? Chi rimborserà il mio comune, in dissesto finanziario, per fronteggiare questa emergenza?, si chiede l'ex Guardasigilli. Da qui la richiesta di aiuto alla Regione Campania e al Governo nazionale "gialloverde" al quale, in particolare, Mastella rinfaccia "lo scippo di 20 milioni di euro col decreto periferie che creerà enormi problemi anche alla città di Benevento".

I ponti che fanno paura in Lombardia. Precedenti: il viadotto sul Po fra Lodi e Piacenza e il cavalcavia di Lecco, scrive Alberto Giannoni, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale".  Piacenza nel 2009, Lecco nel 2016, Genova nel 2018. L'impensabile è accaduto, più di una volta. E adesso impedire che accada ancora è una priorità. Il 30 aprile 2009, intorno alle 13, una campata del ponte sul Po, fra Piacenza e la sponda lombarda, nel Lodigiano precipitò nel vuoto trascinandosi dietro le auto che in quel momento la stavano percorrendo. Ci furono quattro feriti. Qualche mese prima era terminata la ristrutturazione del ponte - costruito con l'unità d'Italia, bombardato nel '44 e poi ricostruito. Ventidue mesi fa un nuovo crollo in Brianza, lungo la statale 36 Milano-Lecco, tra i Comuni di Cesana Brianza e Annone (Lecco). Un cavalcavia è venuto giù al passaggio di un grosso Tir, un trasporto eccezionale di materiali metallici. Crollando, il ponte ha schiacciato due auto. Il cedimento ha provocato un morto e cinque feriti, tre dei quali bambini. Per il «Sole 24 ore», a febbraio 2019 dovrebbe esserci il taglio del nastro del nuovo cavalcavia a campata unica, in calcestruzzo armato e acciaio anticorrosione, più alto e più resistente di quello precedente, in grado di reggere il passaggio in contemporanea di due trasporti eccezionali da più di 108 tonnellate ciascuno. Il disastro di Genova, intanto, fa moltiplicare le comprensibili preoccupazioni. Nel Varesotto, l'ex sindaco di Solbiate Olona Antonello Colombo, oggi consigliere di opposizione, ha pubblicato una foto del ponte di Genova insieme al viadotto che collega Cairate a Lonate Ceppino. Con i suoi 447 metri su sette campate principali il ponte è il più grande fra quelli sull'Olona ed è stato costruito nel 1955. Intanto il Corriere della Sera, citando «documenti riservati» parla di quattro cavalcavia pericolosi, tre ancora aperti, sulla superstrada Milano-Meda. Da tempo è un sorvegliato speciale il ponte della Becca, che collega il Pavese all'Oltrepò ed è stato costruito fra il 1910 e il 1912 proprio alla confluenza del Po con il Ticino, a pochi chilometri da Pavia. Distrutto in parte durante la Seconda guerra mondiale, il ponte lungo 1.081 metri è stato ricostruito in parte dal 1944 al 1950. Nel 2010, dopo il cedimento di 4 centimetri di un giunto della struttura, la Becca è stata chiusa al traffico, poi consentito solo ai mezzi leggeri. Il territorio chiede a gran voce un nuovo ponte, che dovrebbe mandare in pensione il vecchio, destinato a diventare monumento e pista ciclabile. La Regione intanto ha finanziato integralmente la redazione del documento di fattibilità, per 800mila euro. La gara è prevista entro dicembre.

Quei piloni sull'orlo del crollo: la denuncia dei cittadini per il ponte "nuovo" del Sangro. Enormi crepe e cemento armato degradato: tra Atessa e Lanciano il viadotto che ha la stessa età del Morandi di Genova desta enorme preoccupazione nei cittadini. Ma il presidente della provincia di Chieti: ««Mi assumo la piena responsabilità delle mie parole: questo ponte non presenta nessun problema statico, non cadrà», scrive Maurizio Di Fazio il 16 agosto 2018 su "L'Espresso". Guardate questo ponte abruzzese, di 467 metri, che collega la città e l’area industriale di Atessa (vi sorge tra gli altri il polo Fca della Sevel) e Lanciano. Le immagini, ormai virali sul web, parlano un linguaggio crudo e scioccante. Si vedono enormi crepe sui suoi piloni, per di più usciti dalle rispettive sezioni. Piloni che sembrano sull’orlo del crollo. Il cemento armato appare decisamente degradato. Ogni giorno attraversano questa strada provinciale sopraelevata, facendosi il segno della croce, migliaia di veicoli: automobili e anche Tir, vista la vicinanza del predetto colosso Fiat-Chrysler, dove si produce il Ducato. Molti eviterebbero di passarci se esistesse un’alternativa plausibile. La situazione è così da oltre dieci anni e l’hanno denunciata in tanti: gruppi di cittadini residenti, turisti di passaggio e pagine Facebook. Se n’è occupata Striscia la Notizia: il suo inviato riuscì a infilare agevolmente la mano nelle fenditure del pilone horror. Chi realizzò il progetto di questo ponte di cinquant’anni fa (ha la stessa età del Morandi di Genova) ha seguito tutte le regole e le precauzioni del caso? È sicuro, oggi, transitarci? La sua manutenzione viene portata avanti correttamente e costantemente? Quando fu edificato, negli anni Sessanta, il traffico era molto meno sostenuto di adesso. Da decenni inoltre l’erosione e il dissesto idrogeologico procedono inesorabili: sotto questo viadotto scorre, infatti, il fiume Sangro ed è dilagata nel corso del tempo un’autentica e smisurata discarica abusiva, ingrossata persino da lastre di eternit. Last but not least, questo è un territorio sismico. Ma l’attuale presidente della provincia chietina Mario Pupillo ha rassicurato: «Mi assumo la piena responsabilità delle mie parole: questo ponte non presenta nessun problema statico, bensì soltanto qualche dubbio in previsione di possibili terremoti, come tutte le strutture costruite prima delle nuove direttive. Ma ha tutte le caratteristiche di sicurezza. No, non cadrà». Pensa positivo anche l’ingegner Carlo Cristini, dirigente della struttura tecnica della Provincia di Chieti, che ha dichiarato: «Dagli anni ’90 abbiamo avviato un’attività di monitoraggio e controllo visivo sull’opera. Staticamente è tutto a posto, l’allarmismo generale non è giustificato. Tuttavia, considerata l’età del ponte, restano necessari interventi di manutenzione al fine di conservarne le caratteristiche statiche e funzionali nel tempo». Interventi decisamente rarefatti a detta di chi frequenta quel viadotto tutti i giorni. Nel 2012 l’allora presidente alla Provincia di Chieti Di Giuseppantonio, invece, annotò: «È evidente che il passare degli anni e le continue sollecitazioni a cui tale infrastruttura viene sottoposta ci impongono di pensare, in prospettiva, alla realizzazione di un nuovo ponte. Ed è per questo che mi rivolgo alla Regione, vista l'impossibilità da parte della Provincia di effettuare un simile investimento, affinché lo inserisca nel capitolo delle opere strategiche da finanziare». Impossibilità acuitasi in seguito alla luce di una delle più controverse riforme a metà di Matteo Renzi. Ed ecco che torna a galla la finta abolizione delle province. In realtà, questi enti locali intermedi esercitano oggi le stesse funzioni e hanno le stesse responsabilità di prima (tra queste, quella di gestire le strade provinciali), ma con molti meno fondi del passato. Anzi, spesso gli stanziamenti statali sono stati completamente cancellati, e con essi il finanziamento di imprescindibili opere di manutenzione ordinaria e straordinaria. «Siamo allarmisti, è vero, siamo ingenui e non-tecnici. Rimaniamo umili, siamo in attesa...» scrive un ragazzo sui social, uno dei tanti che è costretto a prendere tutte le mattine il ponte Atessa-Lanciano, fatti i debiti scongiuri del caso. Sperando che non rivenga il momento dei fantomatici fulmini sbriciola-ponti, e degli «adesso non è il tempo delle polemiche».

Disastro di Genova: ecco quali sono i ponti ad alto rischio in Italia. La tragedia di Genova porta l'attenzione sulle strutture obsolete del Paese, per sostituirle servirebbero decine di miliardi di euro, scrive Matteo Politanò il 16 agosto 2018 su "Panorama". La maggior parte dei ponti italiani è stata costruita tra gli anni '50 e gli '80 e "ha esaurito il periodo di vita per il quale è stata progettata". La nota ufficiale del Cnr, l’Istituto di tecnologia delle costruzioni, lancia l'allarme per decine di migliaia di ponti italiani dopo il disastro di Genova. Il ponte Morandi è solo l'ultimo cavalcavia crollato in tempi recenti, un allarme grave sullo stato delle infrastrutture nella penisola che dopo Genova spaventa ancor di più. In Italia ci sono circa un milione e mezzo di chilometri di strade, gestiti da diverse realtà. Le autostrade sono affidate ai concessionari, oltre 7 mila chilometri con quasi 700 gallerie e oltre 1.500 viadotti. La gestione e la manutenzione di questi tratti spetta ai soggetti che le hanno in concessione, tuttavia l'allarme sullo stato di alcuni tratti è nota da tempo alle istituzioni. Nel 2013 è stato lanciato e finanziato dallo Stato un programma di manutenzione straordinaria e strutturale di ponti, viadotti e gallerie e anche il contratto di Anas per il quadriennio 2016-2020 prevede di 350 milioni di euro l'anno per manutenzione straordinaria, troppo poco per un problema che necessiterebbe di decine di miliardi di euro. Nonostante il deterioramento delle strade nel nostro paese non esiste ancora un mappatura ufficiale dei ponti e le segnalazioni dei rischi spettano ai cittadini e alle amministrazioni locali. 

Dove sono i ponti a rischio.

A Como preoccupa il viadotto dei Levatoi, in attesa di rafforzamento come il cavalcavia Isella a Lecco e il viadotto di Ponte di Legno. Sulla superstrada Milano - Meda si teme per i tratti maggiormente a rischio, i ponti Cesano Maderno e Bovisio Masciago. Anche sulla A6 Torino - Savona ci sono viadotti che preoccupano: il viadotto Ferrania a Cairo Montenotte, il viadotto Chiaggi a Priero e quello di Stura di Demonte a Fossano. 

Critica la zona del Po con tre ponti che necessitano di restauri: il Po Viadana - Borretto, il Colorno - Casalmaggiore e il Ragazzola - San Daniele. In Abruzzo, anche in seguito al sisma del 2009, c'è preoccupazione per due viadotti sulla A24/A25. A Trani si segnala un evidente deterioramento del calcestruzzo in un viadotto della 16bis, idem per il viadotto Manna ad Ariano Irpino. 

In Calabria due ponti a rischio: il Cannavino tra Paola e Crotone e il Petrace tra Gioia Tauro e Palmi. In Sicilia c'è il viadotto Himera sulla A19 e ad Agrigento c'è l'altro viadotto Morandi, costruito dallo stesso ingegnere nel 1970 e vietato alle auto dal 2017 per il degrado dei piloni. L'Anas lo sta ristrutturando. Un cavalcavia che preoccupa c'è anche in Sardegna, quello della Statale 131 a Mesu Mundu. 

I PRECEDENTI

Ponte Morandi, sono quattro i cavalcavia crollati in Italia in meno di due anni, scrive Marco Morino il 14 agosto 2018 su "Il Sole 24 ore". Il crollo del ponte Morandi nel cuore di Genova è il quarto caso che si verifica in Italia in poco meno di due anni. Lo schianto del viadotto genovese è di gran lunga la tragedia più grave delle quattro e, tra l’altro, segue di pochi giorni (6 agosto) il gravissimo incidente nel nodo autostradale di Bologna, dove una violentissima esplosione, causata dal tamponamento di un’autocisterna carica di Gpl con un camion bisarca, ha fatto crollare parte di un cavalcavia. Il disastro di Genova riapre la polemica sulla tenuta delle infrastrutture viabilistiche del Paese e, più in generale, sulla sicurezza della rete dei trasporti. Vediamo in sintesi i tre crolli precedenti.

Lecco, 28 ottobre 2016. Il primo schianto si verifica lungo la statale 36 Milano-Lecco, in Brianza, tra i Comuni di Cesana Brianza e Annone (Lecco). Il cavalcavia crolla al passaggio di un Tir che, precipitando, schiaccia due auto. Il bilancio finale parla di una persona morta e cinque feriti, tre dei quali bambini. Sulla vicenda si apre un’inchiesta della procura di Lecco. Sotto accusa finisce il trasporto eccezionale: il ponte brianzolo cede di colpo sotto il peso del mezzo proprio quando il Tir, che trasporta bobine di metallo, si trova esattamente nella parte centrale del manufatto. Ora si è in attesa della ricostruzione. Salvo imprevisti, a febbraio 2019 si potrà procedere al taglio del nastro inaugurale, forse prima. Il cavalcavia sarà a campata unica, in calcestruzzo armato e acciaio anticorrosione, più alto e più resistente di quello precedente, in grado di reggere il passaggio in contemporanea di due trasporti eccezionali da più di 108 tonnellate ciascuno.

Osimo, 9 marzo 2017. Due morti e due feriti, il 9 marzo 2017 per il crollo del cavalcavia sull’autostrada A14 tra Ancona Sud-Osimo e Loreto. L’autostrada era stata ampliata e si stava lavorando sul cavalcavia. La Procura di Ancona apre un’inchiesta per omicidio colposo plurimo. Il nuovo cavalcavia sulla A14, ricostruito, è stato infine riaperto al traffico nello scorso mese di giugno ma senza tagli del nastro, nel rispetto della memoria delle vittime.

Fossano, 18 aprile 2017. A Fossano, Cuneo, cede all’improvviso il ponte della tangenziale (Anas), finendo su un’auto dei Carabinieri: i militari riescono ad allontanarsi in tempo rimanendo illesi. Tre le inchieste aperte: Anas, ministero Infrastrutture e Procura di Cuneo. Il lavoro è stato realizzato da Itinera (Gavio) 27 anni fa. La stessa mattina del 18 aprile l’Anas aveva condotto un’ispezione di routine, non rilevando criticità. Al momento le cause del crollo del ponte di Fossano non sono ancora state chiarite.

Dieci i ponti crollati in 5 anni: in calo la manutenzione e gli investimenti. Solo dal 2013 ad oggi è lunga la scia degli incidenti, quasi sempre mortali: le strutture sono vecchie, il calcestruzzo è corroso e i fondi stanziati sono esigui rispetto ai ricavi, scrive Ferruccio Pinotti il 15 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". Una lunga scia di crolli e di morti. È quella che caratterizza la storia recente dei ponti stradali e autostradali italiani. Solo negli ultimi 5 anni, cioé dal 2013, i casi di ponti crollati in Italia sono stati ben 10. Qual è la causa di questi continui crolli? La mancanza di investimenti nella sostituzione di strutture ormai obsolete e di una manutenzione adeguata. Il Ponte Morandi, che fin da subito presentava diversi aspetti problematici, aveva ben 51 anni. In questa e molte altre realtà c’è poi il problema dei materiali: il cemento armato, o meglio, il calcestruzzo armato. Un materiale inventato nell’800 e di cui non si conosce l’effettiva durata. Sono trascorsi troppi pochi decenni per stabilire se sia un materiale valido o “eterno”, come si riteneva in passato: a quanto pare, non è così. Molti ponti «moderni» sono costruiti in calcestruzzo armato, una miscela di cemento, acqua, sabbia e ghiaia che viene appunto «armata» con sbarre di ferro e acciaio. Ma questi materiali sono oggetto di usura e sono facilmente indeboliti dall’azione dell’acqua nei punti più deboli. Senza contare un’aggravante da non sottovalutare: in Italia vige una lunga tradizione di lavori «al risparmio» in termini di tempo e denaro. E a differenza di Paesi come la Svizzera dove una struttura che ha un certo numero di decenni viene abbattuta e ricostruita prima che crolli, in Italia prevale la logica della «conservazione», anche se si tratta di infrastrutture e non di monumenti storici.

I soldi spesi nella sicurezza. C’è poi il problema degli investimenti e della manutenzione. Come già evidenziava un’inchiesta del Corriere della Sera («Perché le autostrade italiane sono le più care d’Europa» di Milena Gabanelli e Ferruccio Pinotti, 11 giugno 2018) nonostante gli enormi ricavi delle società di gestione delle concessioni autostradali (7 miliardi di euro: l’83% dei ricavi arriva dai pedaggi), il valore degli investimenti complessivi è sceso del 23,9% e anche la spesa per le manutenzioni è calata del 7,5% (dati 2016 su 2015, ultimi disponibili). Il nodo è che il sistema è caratterizzato da un duopolio che opera senza gare europee e al di fuori della concorrenza prevista dalle direttive comunitarie. Quasi il 70% della gestione dei circa 7.000 km di autostrade se lo spartiscono da anni due gruppi: si tratta del Gruppo Atlantia (Benetton), che controlla Autostrade per l’Italia e che gestisce oltre 3.000 chilometri, e del Gruppo Gavio, che gestisce oltre 1.200 chilometri. Insieme coprono i tre quarti circa del mercato. Gli altri 1.650 chilometri sono gestiti da società controllate da enti pubblici locali e da alcuni concessionari minori. Il Ponte Morandi fa parte di uno dei tratti gestiti da Autostrade per l’Italia (Atlantia, gruppo Benetton), che infatti ha accusato una pesante perdita in Borsa. La società ha dichiarato: «Sulla struttura erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto ed era stato installato un carro-ponte per consentire lo svolgimento delle attività di manutenzione. I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza da parte della Direzione di Tronco di Genova. Le cause del crollo saranno oggetto di approfondita analisi non appena sarà possibile accedere in sicurezza ai luoghi». Ma al di là del singolo episodio restano, i problemi strutturali. I precedenti:

6 agosto 2018. A seguito dell’esplosione di un’autocisterna di Gpl, crolla il viadotto-ponte dell’autostrada del raccordo di Casalecchio A1-A14. Un morto e 145 feriti.

9 marzo 2017. Il crollo del cavalcavia sull’A14 fra Loreto e Ancona provoca due morti e due feriti, coinvolgendo le automobili sottostanti.

18 aprile 2017. Crolla un viadotto della tangenziale di Fossano, in provincia di Cuneo. La struttura era stata realizzata negli anni Novanta e inaugurata nel 2000. Solo per un caso non ci sono state vittime: sopra non stava passando nessuno.

23 gennaio 2017. Crolla un ponte in Calabria, il Fiumara Allaro, fortunatamente non c’è nessuna vittima.

28 ottobre 2016. Crolla il cavalcavia di Annone, in provincia di Lecco, che passa sopra la “Valassina”, la SS 36 che collega Milano all’alta Brianza. Il ponte cede a causa del passaggio di un tir da oltre 108 tonnellate che trasporta bobine di acciaio: schiaccia l’Audi di Claudio Bertini, 68 anni, che perde la vita.

10 aprile 2015. A causa di una frana provocata dal maltempo, crolla un pilone del viadotto Himera sull’Autostrada A19 Palermo-Catania. Non vi furono feriti.

25 dicembre 2014. Cede il viadotto Scorciavacche sulla statale Palermo-Agrigento. Era stato inaugurato il 23 dicembre. Questo incidente non ha coinvolto automezzi e non ha causato danni alle persone.

7 luglio 2014. Crolla un tratto del viadotto Petrulla, sulla strada statale 626 tra Ravanusa e Licata, in provincia di Agrigento. Quattro persone, tra le quali una donna incinta, rimangono lievemente ferite.

18 novembre 2013. In Sardegna si abbatte una forte alluvione che provoca il crollo di un ponte sulla strada provinciale Oliena-Dorgali. Un agente di polizia muore e tre suoi colleghi restano feriti.

22 ottobre 2013. A causa di un nubifragio, nella notte tra il crolla il ponte a Carasco, in Liguria, sul torrente Strula. Le vittime sono due.

Crollo del ponte di Genova: tutti i precedenti. L'immane tragedia è solo l'ultima di una serie: dal viadotto della tangenziale di Fossano al crollo sull'Adriatica fino alla Palermo-Catania, scrive Ilaria Molinari il 14 agosto 2018 su "Panorama". È un'immane tragedia quella che ha sconvolto l'Italia intera nel pomeriggio del 14 agosto. Il crollo del ponte Morandi sull'autostrada A10 a Genova, che attraversa il fiume Polcevera tra i quartieri di Sampierdarena e Cornigliano, costruito negli anni Sessanta porta con sé decine di vittime e feriti. Il tempo e le indagini chiariranno l'accaduto. Nel frattempo ripercorriamo insieme il lungo (ahimé) elenco di viadotti e cavalcavia che sono caduti per cause diverse negli ultimi anni in Italia.

Il 18 aprile 2017 è stata la volta del viadotto della tangenziale di Fossano realizzato negli anni '90 e inaugurato nel 2000 e da cui si sono salvati i Carabinieri che si trovavano sotto il viadotto per lavori di routine.

Il 9 marzo 2017 è stata la volta delle Marche: lungo l'autostrada A14 Adriatica all'altezza del chilometro 235 tra Camerano e Ancona Sud, è crollato un pezzo di autostrada in corso di ristrutturazione. Due persone sono morte e altre due sono rimaste ferite. 

Il 28 ottobre 2016 un cavalcavia sulla provinciale 49 Molteno-Oggiono ha ceduto al passaggio di un Tir sulla superstrada Milano-Lecco: un morto e quattro feriti.

Il 10 aprile 2015 è crollato un pilone del Viadotto Himera sull'Autostrada A19 Palermo-Catania.

Il 3 gennaio del 2015, 10 giorni dopo l'inaugurazione, il viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento ha ceduto. Nessuna vittima fortunatamente.

In Sardegna nel novembre 2013 è crollato un ponte sulla provinciale Oliena-Dorgali causando un morto e tre feriti, tutti agenti della polizia. 

Sempre in Liguria nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 2013 a causa di un nubifragio è crollato il ponte a Carasco sul torrente Sturla: due morti.

Esultare per la tragedia di Genova: solo degli islamici potevano esprimere tutta questa cattiveria ed è proprio per questo che io in Italia non gli permetterei più di potervi entrare perchè rappresentano un concreto pericolo per la pubblica sicurezza dell’Occidente, scrive il 17 agosto 2018 Andrea Pasini su "Il Giornale". Cari connazionali sono anni che scrivo che non esiste un islam moderato e che questa religione è totalmente incompatibile con l’occidente. Nessuno dei tre cardini dell’islam è compatibile con la costituzione italiana. Io non ho paura di dire ciò che penso sull’islam anzi lo faccio senza peli sulla lingua. Lo dissi subito dopo l’attentato alla redazione del quotidiano satirico francese Charlie Hebdo che gli islamici sono sa tempo in guerra contro l’occidente e l’occidente purtroppo non sa minimamente difendersi. L’islam è incompatibile con il mondo occidentale lo dico e lo ribadisco in ogni sede, sempre a gran voce perché così facendo parlandone senza paura a voce alta possiamo far prendere sempre più coscienza alle persone del rischio concreto per la pubblica sicurezza che l’Islam rappresenta. Nessuno dei tre cardini dell’islam è compatibile con la costituzione italiana, francese o tedesca e non accetterà mai di rispettare le regole o alle leggi che vigono in questi Stati perchè si scontrano con le regole imposte dell’islam. Il fedele vale più dell’infedele, l’uomo vale più della donna, l’emirato vale più della democrazia, sono tre bestemmie costituzionali. Ecco perché gli islamici non potranno mai essere cittadini europei ed integrarsi nella società europea. Questa non è affatto una analisi di destra come spesso qualche sinistroide cerca di farmi notare, ma corrisponde semplicemente alla realtà dei fatti. La mia teoria ancora una volta trova l’ennesimo riscontro nella realtà: come dimostrano i numerosi commenti pubblicati su al-Jazeera dove moltissimi islamici esultano per la tragedia del ponte crollato a Genova. Appena si è diffusa la notizia del crollo del ponte di Genova sono apparsi commenti che fanno veramente accapponare la pelle da parte dei telespettatori islamici. Frasi del tipo: “Questo è un segno di Allah in seguito alla decisione del Governo italiano di impedire la costruzione di mosche”. Non ci sono parole difronte a questo tipo di comportamenti ed azioni. Senza alcun timore dico che questa gente che ha scritto questi commenti così di basso livello che mi fa veramente schifo e ribrezzo e che nel mio paese questa gentaglia non la voglio vedere. Alla faccia dei buonisti del cavolo di sinistra. Una cosa va detta e ribadita con estrema fermezza. Nonostante i buonisti della Sinistra che si schierano sempre dalla parte di questa gente. Agli islamici presenti in Italia e in tutto l’occidente vanno imposte delle regole ben precise che devono assolutamente rispettare e qualora non lo facciano bisogna intervenire con la forza per far sì che le rispettino come tutti gli altri cittadini per bene. Non è più possibile come ha sempre fatto la sinistra avallare tutte le richieste che le comunità islamiche avanzavano continuamente, come quella ad esempio di costruire moschee d’ovunque senza minimamente informarsi da dove provengono i soldi per costruirle. Queste persone dobbiamo essere onesti con noi stessi, non potranno mai integrarsi con la nostra gente.

Questi veri e propri insoliti sono di una gravità indescrivibile. Una persona normale secondo voi può dopo una tragedia del genere provare un sentimento di felicità e di contentezza verso le persone che purtroppo hanno perso la loro vita? La risposta è No! Le persone normali, che hanno un cuore e dei sentimenti hanno provato un grande senso di tristezza, di dolore e di enorme vuoto appena appresa la triste notizia della tragedia di Genova. Chi prova contentezza per queste tragedie non è una persona, non è nemmeno un animale ma è un grande schifoso bastardo. Vi pare normale una frase di questo tipo: “Questo è un segno di Allah in seguito alla decisione del Governo italiano di impedire la costruzione di moschee”. Questo scrive uno dei tanti schifosi, se andate a vedere la pagina incriminata come scrivono anche altri giornalisti sui loro articolo vi renderete conto di persona delle schifezze che ci sono scritte nei commenti alla notizia. Conclusione, checché ne dicano i buonisti della Sinistra, queste persone non potranno mai integrarsi nella nostra società e senza timore dico che io questa gentaglia non la voglio a casa mia dove dovranno crescere i miei figli. E quindi, che restino serenamente nei loro paesi dove si possono confrontare con gente come loro.

E i francesi si divertono di nuovo con le tragedie italiane, scrive Alessio Biondino il 17/08/2018 su "Nursetimes.org".  Che la satira, in quanto tale, debba essere pungente e politicamente scorretta siamo tutti d’accordo. Altrimenti non sarebbe satira, bensì… Qualcos’altro. Qualcosa di meno stuzzicante, di meno irriverente e… Di sicuro assai poco interessante. Fin qui credo (o almeno spero) che ci troviamo tutti d’accordo. Ma i nostri cuginetti francesi non sono nuovi a disegnini, vignette e altre iniziative di cattivo gusto all’indomani delle tragedie italiane. Accadde con Charlie Hebdo dopo il terremoto di Amatrice (che sventrò il centro Italia e uccise 295 persone), quando venne pubblicata una macabra lasagna fatta coi cadaveri e con le macerie delle abitazioni crollate. E ora, a seguito del crollo di Genova (VEDI), è stato il disegnatore “Plantu” de Le Monde a pubblicare una ‘bella’ rappresentazione della tragedia che a noi risulta quantomeno discutibile. Evitabile. Assai poco simpatica: una lupa squarciata, con in groppa il ponte Morandi a pezzi e le auto che cadono in una voragine creatasi sulla bandiera italiana, piena di macerie e cadaveri. Quando Charlie Hebdo ‘esagerò’, furono molte le manifestazioni di indignazione, protesta e shock tra i cittadini italiani. Sfociate con la denuncia-querela nei confronti del quotidiano d’oltralpe per diffamazione aggravata da parte del Comune di Amatrice. Non sarà il caso, anche stavolta, di chiedere RISPETTO? Nel frattempo, la risposta in dialetto da parte di una collega romana ci sembra alquanto azzeccata…

Charlie Hebdo, vignetta choc: ride sui morti di Genova. La copertina dell'ultimo numero di Charlie Hebdo dedicata al ponte Morandi di Genova e ai migranti. Rixi (Lega): "C'è solo una parola: schifo", scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 23/08/2018, su "Il Giornale". E subito scattano le polemiche. La nota rivista satirica francese ha deciso di andare in stampa sbattendo in prima pagina l'Italia e due questioni centrali in questi giorni nel Belpaese: la drammatica vicenda del viadotto genovese e l'emergenza immigrazione. L'immagine (guarda la foto) è una vignetta su sfondo giallo che mostra il ponte spezzato in alto a sinistra mentre a terra, tra le macerie e un'auto appena precipitata, c'è una persona di colore che spazza il suolo con una ramazza: "Costruito dagli italiani...pulito dai migranti". Si tratta di macabra ironia, dice già qualcuno. E in molti ricordano le vergognose copertine dedicate al sisma in Centro Italia, disegni che già due anni fa provocarono un vortice di polemiche. Oppure quella intitolata "Italia, la neve è arrivata" sulla tragedia di Rigopiano, dove si vedeva la morte che, indossando due falci come sci, scendeva sopra la valanga che ha sommerso l'hotel tra le montagne. Il primo ad attaccare il giornale satirico francese è stato il viceministro ai Trasporti, il ligure Edoardo Rixi: "Il giornale francese Charlie Hebdo è senza vergogna e riesce a superare ogni limite nel cattivo gusto. Questa sarebbe satira? Per me c'è solo una parola: schifo", ha scritto su Facebook il leghista. A dire il vero il crollo del ponte di Genova già i social aveva prodotto una falsa copertina di Charlie. Questa volta però il disegno è vero. E di certo solleverà un polverone di commenti.

Crollo Ponte Genova, adesso la Francia ha paura: a rischio il 30% dei ponti. Una tragedia immane, quella del crollo del Ponte Morandi a Genova, che ha scosso il mondo intero. Anche la Francia adesso ha paura: il 30% dei ponti è a rischio, scrive Antonella Petris su Meteo web il 16 agosto 2018. Una tragedia immane, quella del crollo del Ponte Morandi a Genova, che ha scosso il mondo intero. E molti si interrogano sullo stato attuale delle proprie strutture. In questi termini, un rapporto che in altri tempi sarebbe passato inosservato, adesso è diventato più attuale che mai: secondo due società specializzate, incaricate di uno studio dal ministero dei Trasporti, “sui 12.000 ponti della rete francese gestiti dallo stato, un terzo ha bisogno di riparazioni”. Secondo i media di Oltralpe, che citano ampiamente il rapporto, nella maggior parte dei casi si tratta di “piccole riparazioni allo scopo di prevenire l’apparizione di problemi strutturali”, ma “nel 7%” delle situazioni prese in esame “i danni sono più gravi, e arrivano fino al rischio di “presentare, in futuro, rischi di crollo”, tanto da rendere necessaria la “chiusura preventiva dei ponti alla circolazione dei mezzi pesanti o di tutti i veicoli”. In questa situazione più grave si troverebbero 840 ponti. 

Usa, ponti a rischio, scrive il 16 agosto 2018 Orlando Sacchelli su "Il Giornale". Quello dei ponti che crollano è un problema molto sentito anche negli Stati Uniti, al punto che il presidente Trump lo scorso febbraio ha annunciato un piano da 1500 miliardi di dollari per risanare e modernizzare le infrastrutture del Paese, con 200 miliardi di fondi federali e la parte restante a carico di Stati e municipalità. Molto preoccupante è il dato fornito dalla American Road & Transportation Builders Association (Artba): sul territorio americano sono 54.259 i ponti con “carenze strutturali”. La definizione “structurally deficient”, secondo gli standard del Dipartimento dei Trasporti, interessa quei ponti che presentano uno o più elementi chiave in condizioni considerati non ottimali. Nella categoria, quindi, rientra circa un ponte su 10 tra quelli esistenti. Le infrastrutture che presentano carenze, riferisce l’Artba, sono interessate ogni giorno da 174 milioni di passaggi e hanno un’età media di 67 anni. L’emergenza riguarda soprattutto i seguenti Stati: Iowa (5.067 ponti), Pennsylvania (4.173), Oklahoma (3.234), Missouri (3.086) e Illinois (2.303). La necessità di una imponente opera di manutenzione non riguarda solo i ponti. Secondo l’associazione nazionale degli ingegneri servirebbero 4.500 miliardi di dollari entro il 2025 per interventi massicci sull’intera rete delle infrastrutture: non solo ponti, ma anche strade, ferrovie, aeroporti. Ancora peggiori le stime del Wall Street Journal, che in un articolo del 2017 scriveva che erano circa 84 mila i ponti che la Federal Highway Administration considera “funzionalmente obsoleti”. L’avvocato Barry LePatner, autore del libro “Too big o fall: America’s falling infrastructure and the way forward”, ha detto al Wall Street Journal che “il problema è destinato a crescere poiché le risorse economiche sono insufficienti” per fare i lavori necessari, compresa la manutenzione dei ponti in buono stato. Trump, come dicevamo, ha annunciato un piano da 1,5 trilioni che punta alla stretta collaborazione tra pubblico e privato, vincolato ai finanziamenti provenienti dalle amministrazioni locali. Il piano si basa su 4 punti cardine: generare i fondi, velocizzare il processo della concessione delle autorizzazioni per le costruzioni, investire in progetti infrastrutturali nelle zone rurali e favorire la qualificazione professionale della forza lavoro. Il piano di Trump è ambizioso, anche se copre un terzo delle spese necessarie, secondo le stime fornite dall’associazione degli ingegneri. Dal punto di vista finanziario è un piano che, a differenza della tradizione, riduce fortemente l’investimento diretto da parte del governo federale, che tradizionalmente oscillava tra il 50 e l’80% del totale. Qui, invece, si punta prevalentemente sui fondi locali, cercando di premiare con sovvenzioni federali chi è più bravo a trovare risorse. Per i democratici i 200 miliardi promessi da Trump sono troppo pochi, e nel loro piano alternativo ne mettono sul piatto mille. Il problema sono i conti da far quadrare, il debito pubblico (sempre più grande) e il deficit. Come reperire i fondi necessari per sistemare le infrastrutture? La maggior parte proviene dalle tasse federali sui carburanti (la metà rispetto alle accise che abbiamo in Italia). Questa carenza di fondi ha indotto 25 stati ad aumentare le tasse locali sulla benzina o cercare misure alternative per reperire le risorse. Il tema, quindi, oltre a quanti soldi serviranno e quanti lavori si dovranno fare con urgenza, è soprattutto questo: chi dovrà pagare. Utilizzatori (automobilisti), contribuenti, investitori. La decisione è complessa e interessa i cittadini-elettori, i politici ma, inevitabilmente, anche le potenti lobby.

Ogni quattro anni gli Usa fanno rapporto. In Germania a posto solo un ponte su otto. Un terzo delle strutture francesi ha bisogno di interventi, in America il 9%, scrive Valeria Robecco, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale". New York - Un rapporto quadriennale dettagliato e aperto al pubblico sullo stato di salute di grandi e piccole opere infrastrutturali degli Stati Uniti. È questo lo strumento con il quale le autorità americane tengono aggiornati contribuenti e addetti ai lavori in materia di ponti, dighe e strade, per garantire trasparenza e rispondere alle preoccupazioni emerse in maniera ancora più forte dopo i fatti di Genova. Preoccupazioni che riguardano anche i governi di mezza Europa, a partire da quelli di Germania e Francia. Negli Usa, l'Asce, l'associazione degli ingegneri civili, diffonde ogni quattro anni un dossier dettagliato sullo stato delle infrastrutture nel Paese. Accessibile sul sito web infrastructurereportcard.org, è un'analisi capillare effettuata per tutti e 50 gli stati americani e basata su 16 tipi di infrastrutture tra cui aviazione, ponti, dighe, energia, rifiuti pericolosi, argini, porti, parchi pubblici, rete ferroviaria, strade, scuole. Gli esperti attribuiscono un punteggio da «A» ad «E» utilizzando diversi parametri tra cui condizioni, finanziamenti, manutenzione, sicurezza, innovazione, e offrono raccomandazioni per migliorare la situazione. Dal rapporto del 2017 emerge che le infrastrutture americane non navigano in ottime acque, visto che la valutazione in generale è «D+», ovvero una netta insufficienza. Nel dettaglio, per esempio per quanto riguarda i ponti, negli Stati Uniti ce ne sono 614.387, di cui quasi 4 su 10 hanno più di 50 anni. Nel 2016 il 9,1 per cento (su cui vengono effettuati 188 milioni di viaggi al giorno) hanno mostrato carenze strutturali. Anche se si tratta di un miglioramento rispetto al 12,3 per cento di dieci anni fa. In Germania, invece, Bild afferma che secondo il governo federale «dei 39.500 ponti sulle autostrade e strade principali, solo uno su otto è in buone condizioni». Mentre uno su tre deve essere ristrutturato «in modo tempestivo». E dai dati dell'osservatorio di controllo del ministero tedesco delle Infrastrutture e dei Trasporti emerge che tra il 2014 e il 2018 circa 9 milioni di metri quadrati di ponti risultano essere deteriorati. Anche in Francia ci sono timori sulla sicurezza, in particolare dopo l'allarme lanciato da un rapporto governativo nel quale si afferma che almeno il 30 per cento dei ponti versa in uno stato precario. Il dossier, realizzato da due società specializzate e ripreso da diversi quotidiani, tra cui Le Monde, spiega che «sui 12mila ponti della rete francese gestiti dallo Stato, un terzo ha bisogno di riparazioni». In particolare 840 di queste strutture presenterebbe danni gravi, con il rischio di manifestare in futuro rischi di crollo, e per questo sarebbe necessaria la «chiusura preventiva dei ponti alla circolazione dei mezzi pesanti o di tutti i veicoli». Gli esperti sottolineano poi «l'insufficienza di mezzi destinati alla manutenzione e alla gestione» della rete stradale nazionale non data in concessione, con un costo annuo stimato di 1,3 miliardi di euro.

La ricostruzione? Tempi lunghi e carte bollate. Autostrade per l'Italia promette tutto in 5 mesi. Ma è scontro con il governo. Toti: fate presto, scrive Jacopo Granzotto, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Ci vorrà tempo, chissà quanto, ma la notizia è che il ponte sarà demolito e ricostruito. L'annuncio di Autostrade per l'Italia è a costo zero ma ignora, di fatto, la minaccia della revoca della concessione da parte del governo. La società annuncia, infatti, l'«avvio di un progetto di ricostruzione del viadotto, che completerebbe in 5 mesi dalla piena disponibilità delle aree». Figuriamoci. Il problema è lo spettro delle carte bollate tra governo e Autostrade per l'Italia che allungherebbe ulteriormente i tempi. A sentire gli esperti di alternative non ce ne sono proprio. Impensabile risistemare il ponte. Andrà demolito progressivamente portando via 80 mila metri cubi di calcestruzzo, mentre le case popolari sottostanti dovranno essere evacuate via via. Un lavoro lungo e complicato. Oggi quasi tutto viaggia su autoarticolati. Un traffico incessante. Serviranno soluzioni che in una struttura urbana aggrovigliata come quella di Genova sono complicate. Unica certezza è che la A10 resterà chiusa tra Aeroporto e Genova Est. E così tutto il traffico dovrà passare in città. Il governatore della Liguria Giovanni Toti è preoccupato: «L'emergenza di Genova finisce quando il ponte Morandi sarà ricostruito, quando la viabilità della Regione piattaforma logistica del Paese tornerà come prima, anzi migliore, con la Gronda, il Terzo Valico, Lungomare Canepa e il secondo anello ferroviario». Per il sottosegretario alle Infrastrutture Edoardo Rixi bisognerà capire se il Ponte verrà demolito totalmente. «In ogni modo - fa sapere - ci sono già gravi ripercussioni per la città. Abbiamo un'opera alternativa: speriamo di anticipare a ottobre il completamento del bypass, la strada a mare che collegherebbe Genova aeroporto con Genova ovest». Intanto ieri il ministero dei Trasporti ha chiesto la ricostruzione del Ponte a carico di Autostrade per l'Italia. Mit che in una comunicazione comunica di aver aperto un'istruttoria a carico della Società. «Il Ministero chiede ad Autostrade per l'Italia - si legge nel comunicato - di voler confermare sin d'ora l'impegno a ripristinare integralmente il viadotto di Polcevera con oneri a proprio carico, entro un contenuto periodo di tempo che sarà indicato sulla base di uno stato aggiornato della situazione. Si chiede anche di assicurare la copertura, a proprie cure e spese, di tutti gli oneri connessi all'integrale ripristino delle opere e aree danneggiate dall'evento». In attesa di sviluppi concreti si fanno ipotesi sui costi e sulle modalità della ricostruzione. Il vicepremier Matteo Salvini, che quantifica la spesa in 80, 100 milioni di euro, si augura che «il ponte si realizzi in pochi mesi e con criteri diversi rispetto a quelli di cinquant'anni fa». E sarebbe il minimo. 

"Ponte Morandi, ispezioni difformi a standard" Autostrade ammette le prove fallite sui tiranti. La società risponde all'inchiesta dell'Espresso: le indagini, per essere correttamente eseguite, dovrebbero forare gli stralli da parte a parte, cosa non possibile per la presenza dei cavi interni, scrive Fabrizio Gatti il 27 settembre 2018 su "L'Espresso". Durante alcune importanti ispezioni sul ponte Morandi, c'erano difformità tra quanto prescrive l'ingegneria e il metodo di indagine seguito. La società di gestione lo ammette per la prima volta: «Le cinque prove cosiddette fallite erano in realtà tentativi di verificare, con procedure difformi rispetto a quelle standard, il grado di tensione del calcestruzzo dello strallo». La frase è scritta nel comunicato diffuso da “Autostrade per l'Italia” come risposta all'inchiesta pubblicata da L'Espresso venerdì 21 settembre che, nell'edizione online, rivela l'esistenza di un rapporto shock dei tecnici di Spea Engineering. Lo studio di progettazione, collegato alla concessionaria, descrive così le condizioni di conservazione del cemento armato delle pile 9, quella crollata, e 10, oggi pericolante: «I valori misurati non permettono nemmeno una fantasiosa interpretazione», dichiarano gli ingeneri in una relazione, allegata al progetto esecutivo per il potenziamento del viadotto approvato dal ministero delle Infrastrutture. Gli stralli sono le bretelle di calcestruzzo che sostenevano il ponte, attraversate ciascuna da 52 tiranti: il collasso è attribuito alla rottura di uno strallo del pilone 9 per la corrosione dei tiranti oppure al cedimento di più travi del piano autostradale al passaggio di un Tir carico di acciaio che, per il contraccolpo, avrebbe provocato il successivo crollo dell'intera struttura. Fallite le cinque prove sul calcestruzzo, eseguite nell'ottobre 2015 con procedure quindi difformi rispetto a quelle standard, le direzioni tecniche di Autostrade ritengono comunque di conoscere lo stato di salute del ponte grazie alle indagini riflettometriche “Rimt-Reflectometric Impulse Measurement” concluse nel 2015 e nel 2017. Il metodo consiste nell'invio di impulsi ad alta frequenza nei tiranti d'acciaio interni: la registrazione della loro riflessione dovrebbe rivelare anomalie invisibili provocate dalla corrosione o dalla presenza di spazi vuoti. In base a queste valutazioni, dieci mesi prima del crollo il progetto esecutivo sostiene addirittura che «risulta uno stato di conservazione degli stralli delle pile 9 e 10 discreto», con una riduzione per corrosione dei cavi dei tiranti «dal dieci al venti per cento». La strage di Genova dimostra però che questi metodi di ispezione non diretta dei cavi interni continuano a nascondere brutte sorprese poiché i risultati sono sempre approssimativi, come spiega nella sua relazione pubblicata pochi giorni fa la commissione ispettiva del ministero delle Infrastrutture. Il fiasco delle indagini sul calcestruzzo è invece apertamente dichiarato. I tecnici di Spea-Autostrade su cinque prove ne falliscono quattro e una dà risultati contrari alle attese. «Tali prove», spiega ora la società in base alle risposte fornite dalle proprie strutture tecniche, «per essere correttamente eseguite, dovrebbero prevedere la foratura con carotatrice dell'intero spessore dello strallo: cosa evidentemente impossibile nel caso specifico, vista la presenza di cavi all'interno. Si tentò, pertanto, una verifica della tensione con carotatura superficiale che, come correttamente riportato, non ha potuto dare alcun risultato leggibile. Peraltro, il livello di tensionamento del calcestruzzo è stato determinato con la modellazione, i cui risultati sono stati inseriti nel progetto». Tutto questo non ha impedito il crollo. E nemmeno salvato la vita a quarantatré persone.

Il decreto su Genova punto per punto. Il Commissario avrà poteri straordinari, la società Autostrade dovrà pagare ma sarà esclusa dai lavori, verranno assunto 250 persone negli uffici della Regione Liguria, scrive Marco Galluzzo il 27 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Per il partito democratico «è un topolino», per le autorità liguri è un provvedimento insufficiente dal punto di vista finanziario, per il governo è comunque la prima pietra per rispondere alla tragedia di Genova. Il decreto contiene comunque molte risposte e una procedura di ricostruzione. Affida poteri straordinari al Commissario che sarà nominato, stanzia risorse pubbliche per 360 milioni di euro in dieci anni nel caso in cui la società Autostrade non dovesse pagare demolizione e ricostruzione, prevede l’assunzione di 250 persone presso la Regione Liguria (ma inizialmente erano 500). Restano ovviamente tanti interrogativi: ieri il Governatore Toti ha trasmesso al governo il piano di demolizione e ricostruzione che gli ha consegnato la società Autostrade. Un atto dovuto, ma ci vorranno ancora molte settimane per capire quale sarà il progetto di ricostruzione, quanto costerà effettivamente, chi lo eseguirà, se ci sarà una gara o meno.

Il commissario. Per assicurare «il celere avvio delle attività» del Commissario straordinario, in caso di mancati o ritardato versamento da parte del concessionario Autostrade, sarà anticipata la spesa di 30 milioni annui dal 2018 al 2029, pari a 350 milioni, attingendo al Fondo per le infrastrutture. Il Commissario avrà due vice e un ufficio di 19 persone. Nel testo del decreto legge bollinato compare un articolo 46, sulle norme di coperture, che prima non esisteva. In tutto le spese quantificate e coperte (in gran parte tramite utilizzo pluriennale di fondi già presenti in bilancio) ammontano ad oltre 600 milioni di euro, di cui 360 per la ricostruzione del ponte sul Polcevera e la viabilità connessa.

Addio fondi Terzo valico. Nei territori dei comuni colpiti dal crollo del ponte del Genova il pagamento del canone Rai è sospeso fino al 31 dicembre 2020. Non compaiono più nel decreto i fondi per il Terzo Valico dei Giovi. Nella bozza precedente si prevedeva di assegnare al sesto lotto del Terzo Valico 791 milioni di euro ad integrazione del finanziamento già disponibile. Nei territori dei comuni colpiti dal crollo del ponte del Genova, inoltre, il pagamento del canone Rai è sospeso fino al 31 dicembre 2020.

Porto e assunzioni. Vengono anche stanziati 30 milioni di euro in tutto per il Porto, cifra che per le autorità locali è ampiamente insufficiente, mentre le previsioni che circolano sono di una perdita di circa 5 miliardi di euro di prodotto, nel 2019, per le attività del primo scalo commerciale marittimo italiano. La Regione Liguria, la città metropolitana di Genova e il Comune di Genova potranno assumere complessivamente per gli anni 2018 e 2019 «fino a 250 unità» per far fronte alle necessità conseguenti al crollo del ponte Morandi.

Torna Cigs. Vengono anche reintrodotte misure cancellate dal Jobs act. Viene ripristinata la Cigs delle aziende in cessazione, l’intervento è previsto nell’articolo 44, per gli anni 2019 e 2020, e la misura può essere autorizzata «sino ad un massimo di dodici mesi complessivi, previo accordo stipulato in sede governativa presso il ministero del Lavoro e delle politiche sociali, anche in presenza del ministero dello Sviluppo economico e della Regione interessata». Il trattamento straordinario di integrazione salariale per crisi aziendale è previsto «qualora l’azienda abbia cessato o cessi l’attività produttiva e sussistano concrete prospettive di cessione dell’attività con conseguente riassorbimento occupazionale».

Le coperture. In sintesi, il decreto prevede spese complessive per 645 milioni di euro, di cui 360 milioni provvisoriamente stimati per la ricostruzione del ponte e la viabilità complementare e 285 milioni (fino al 2022) per gli indennizzi e le misure di sostegno economico. Nel caso delle infrastrutture le spese saranno coperte con taglio del Fondo investimenti (30 milioni all’anno dal 2018 al 2029), in attesa che Autostrade paghi il conto. Per gli altri 285 milioni l’articolo 46 prevede le coperture utilizzando vari fondi emergenziali già presenti in bilancio.

Ponte Morandi di Genova: il punto sulle indagini. Continuano gli interrogatori, oltre ai 22 indagati verranno ascoltate anche 40 persone potenzialmente informate sui fatti, scrive Matteo Politanò il 26 settembre 2018 su "Panorama". Si è svolto martedì 25 settembre a Genova l'incidente probatorio per il crollo del ponte Morandi, il disastro che lo scorso 14 agosto ha provocato la morte di 43 persone. La prima udienza del processo ha stabilito 60 giorni il tempo per la repertazione dei detriti a partire dal prossimo 2 ottobre. In parallelo continuano le indagini per far luce sui motivi della tragedia. Tra le principali ipotesi ci sono i difetti strutturali che risalgono alla costruzione del ponte nel 1967 e il passaggio di un camion troppo pesante che alle 11.36 di quella maledetta vigilia di Ferragosto ha dato il colpo di grazia a una struttura già compromessa. 

Le fasi data per data.

Giovedì 16 agosto 2018. L'ultimo capitolo è stato il sequestro dei due monconi rimasti in piedi dopo il crollo della campata centrale del viadotto. Le macerie del ponte, come confermato dal procuratore capo Francesco Cozzi, verranno invece rimosse e trasferite in un'area attigua individuata dal Comune dove verranno sequestrate e analizzate dai periti nominati dalla Procura. Le prime indagini riguarderanno le cause che hanno portato al crollo del ponte. "Non è stata una fatalità" ha dichiarato il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi. Nel mirino degli inquirenti ci saranno soprattutto le responsabilità di Autostrade che a maggio aveva indetto un bando per un maxi appalto da 20 milioni di euro con l'obiettivo di rinforzare i tiranti superiori del ponte, il cui collasso sembra essere tra le cause principali della sciagura. I lavori sarebbero dovuti iniziare dopo l'estate. Autostrade conosceva la situazione critica del ponte? Alcuni tiranti, tecnicamente chiamati "stralli", erano stati rinforzati durante gli anni '90 aggiungendo cavi di sostegno esterni. La parte del ponte caduta non era invece stata mai rinforzata e lo scorso 3 maggio Autostrade aveva indetto la gara d'appalto per una messa in sicurezza urgente. La data d'inizio dei lavori era stata decisa in modo da non penalizzare il flusso dei turisti in città e verso i traghetti. Enrico Sterpi, segretario dell'Ordine degli Ingegneri liguri, ha commentato così il bando a Il Secolo XIX: "Autostrade aveva focalizzato la criticità e si era presa una bella responsabilità facendo una gara ristretta per un importo così elevato. È chiaro che ci fosse la necessità di accelerare la procedura". Già alla fine degli anni '90 l'Ordine degli Ingegneri di Genova propose nero su bianco di integrare la struttura di calcestruzzo con l'acciaio per gestire il forte aumento del traffico sul ponte. Al vaglio degli inquirenti ci saranno anche le certificazioni obbligatorie che Autostrade doveva eseguire per riferire sullo stato della struttura: una trimestrale con personale proprio e una biennale con periti esterni. Né gli enti locali, né il Ministero delle infrastrutture, intervengono infatti direttamente su questo tipo di controllo e manutenzione.

Venerdì 17 agosto 2018. Anche la Procura di Parigi ha aperto un'inchiesta per omicidi colposi in relazione al crollo del ponte in cui sono rimasti uccisi anche 4 ragazzi francesi.

Sabato 18 agosto. La società autostrade dovrà presentare entro due settimane una relazione dettagliata sulle operazioni di monitoraggio e pianificazione degli interventi che riguardavano il viadotto.

Domenica 19 agosto. Roberto Ferrazza, presidente della commissione ispettiva sulle cause del crollo della campata centrale del ponte Morandi, ha fatto sapere che il disastro potrebbe essere dovuto "ad una serie di concause". Al termine del sopralluogo sul luogo della tragedia è stato reso noto che "il ponte si è prima piegato, poi è caduto". 

Lunedì 20 agosto. Dopo le dichiarazioni della Procura di Genova sul sospetto che il peso del carroponte possa aver contribuito al cedimento del ponte Morandi, il direttore della Weico di Velturno, Hubert Weissteiner afferma che il carroponte non era ancora stato installato. "Stavamo lavorando all'installazione di binari sui quali avrebbe dovuto scorrere il carroponte che però non è mai entrato in funzione" ha dichiarato. Domani è in programma una riunione nel palazzo di giustizia di Genova per fare il punto delle indagini tra i titolari dell’inchiesta. Tra le motivazioni del crollo, oltre alla più accreditata del cedimento degli stralli, secondo fonti vicine alla Procura si ipotizza che possa aver influito anche il carro ponte attaccato all'impalcata del ponte. Ad oggi non esiste ancora nessun nome iscritto nel registro degli indagati. La procura è pronta, in caso di concreto pericolo, ad autorizzare l'abbattimento del moncone di ponte Morandi, sequestrato il 17 agosto dopo il crollo della campata, che si trova sopra gli edifici evacuati di via Porro. Ieri sera infatti sono stati segnalati scricchiolii che hanno portato i Vigili del fuoco alla sospensione del recupero beni da parte sei cittadini sfollati. 

Martedì 21 agosto. Il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi ha dichiarato che per comprendere le cause del crollo di ponte Morandi "non ci sono dei tempi, se non quelli conseguenti alla continuità e alla completezza degli accertamenti". Intervenuto a Radio 1 il responsabile delle inchieste ha fatto sapere che "tutto quello che può essere fatto viene fatto, tra l’altro con difficoltà non indifferenti perché bisogna rendere compatibile il compito con quello della sicurezza, come il pericolo di altri crolli, la necessità di rimuovere i detriti dal torrente Polcevera o dalla ferrovia e di rendere le indagini compatibili anche con le esigenza di ripresa della vita quotidiana».

Mercoledì 22 agosto. La Anac, Autorità nazionale anticorruzione, ha chiesto ad Autostrade per l’Italia l’invio degli atti predisposti e necessari per la manutenzione del viadotto approvati dal Consiglio d'Amministrazione e anche chiarimenti sull’appalto per i lavori sul ponte Morandi. Il moncone est del ponte Morandi è pericolante e non si può più aspettare per abbatterlo. Lo ha reso noto la struttura commissariale per l'emergenza che ha ricevuto una relazione tecnica dalla commissione ispettiva del ministero guidata dall'architetto Roberto Ferrazza. Al termine della riunione del centro coordinamento soccorsi il prefetto di Genova Fiamma Spena ha fatto sapere che "abbiamo ricevuto una relazione dal presidente della commissione ministeriale che segnala sul pilone 10 un evidente stato di corrosione di grado elevato". Il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, che ricopre anche il ruolo di commissario delegato all'emergenza per il crollo, ha dichiarato che "occorre sicuramente demolire il moncone nei tempi più brevi possibili, uno per garantire sicurezza anche se oggi l'area è evidentemente sgomberata e dunque nessun essere umano corre alcun rischio, due perchè senza la demolizione non riparte la ricostruzione". L'inchiesta per il crollo del ponte Morandi entra nel vivo con i primi interrogatori. La squadra mobile di Genova ha iniziato sentendo alcune persone che si trovavano lungo il ponte Polcevera al momento del crollo in modo da effettuare le prime "ricostruzioni visive". La Procura sta anche repertando i pezzi del ponte più utili alle indagini, materiale che verrà spostato dall'area insieme a tutto ciò che i Pm valuteranno come materiale da sequestrare. 

Giovedì 23 agosto. Le forze dell'ordine hanno ridisegnato la zona rossa intorno al ponte Morandi dopo le nuove segnalazioni di scricchiolii nella zona. Il procuratore Francesco Cozzi ha lanciato l'allarme anche sul moncone ovest del ponte: "I consulenti tecnici hanno evidenziato anche il grave stato di degrado della parte di ponte sul lato ovest". Il primo dossier dell'inchiesta sul crollo del ponte Morandi racconta come Ministero e Autostrade fossero a conoscenza della grave situazione del viadotto. Il livello di degrado della torre rimasta in piedi è infatti più alto di quello della parte crollata. Il presidente della commissione d'inchiesta ministeriale Roberto Ferrazza ha fatto sapere che sul livello ancora in piedi c'è uno stato di degrado di "quattro su una scala di cinque. Un dato superiorie rispetto al livello tre che era stato registrato nella parte crollata". Il primo dossier è stato consegnato ieri alle autorità e deriva da "un’attività d’indagine svolta da Autostrade per l’Italia", un documento dell'autunno 2017 rimasto però ignorato. Nelle prossime ore verranno notificati i primi avvisi di garanzia, circa 12, ad alcuni dirigenti di Autostrade per l'Italia e del Ministero delle Infrastrutture.

Venerdì 24 agosto. Il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Danilo Toninelli ha dato mandato di revocare l’incarico al numero uno della commissione d’inchiesta sul crollo di ponte Morandi, RobertoFerrazza. Dallo stesso organismo si è dimesso Antonio Brencichche ha consegnato le sue dimissioni nella serata di giovedì. Il procuratore di Genova Francesco Cozzi sottolinea la necessità di procedere al più presto con lo smantellamento del ponte: "Era già malato e non solo la parte est. Le condizioni sono gravi se non gravissime". Un avanzato stato di deterioramento che era precedente al crollo del 14 agosto. Le autorità attendono ora da Autostrade un piano per lo smantellamento, previsto entro 5 giorni. Il fascicolo dell'indagine sul crollo del ponte Morandi resta a carico di ignoti ma nei prossimi giorni dovrebbero essere iscritti nel registro degli indagati le prime venti persone. La Guardia di finanza ha sequestrato altro materiale negli uffici di Società Autostrade a Genova, Firenze e Roma. Nel mirino le comunicazioni interne e quelle tra Autostrade e il Ministero delle Infrastrutture. 

Domenica 26 agosto. Il sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti, Edoardo Rixi, ha detto che i lavori per lo smantellamento del ponte Morandi potrebbero iniziare "per i primi di settembre, direi entro la prima settimana". Sui tempi dell'intervento: "dipende dalla tecnica usata, credo che si vada verso un mix di smontaggio e microcariche esplosive". Della commissione d'inchiesta non fanno più parte Roberto Ferrazza e Antonio Brencich, il nuovo arrivo è invece Alfredo Mortellaro, dirigente del Consiglio superiore dei lavori pubblici che aveva gestito parte dei progetti di ricostruzione dopo il terremoto in Irpinia e che è stato ai vertici del Sisde. Le attività nella zona del ponte Morandi sono state sospese a causa dell'allerta meteo che ha colpito la Liguria fino alle 8 di questa mattina.

Lunedì 27 agosto. La società Autostrade ha pubblicato on line il testo della convenzione con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti in modo da "rispondere alle polemiche e alle strumentalizzazioni" per far conoscere "tutti gli elementi che regolano la concessione". Il governatore della Liguria, e commissario straordinario per l'emergenza, Giovanni Toti ha parlato ai giornalisti dei tempi per la demolizione del ponte: "Dire con esattezza quando saranno demoliti i due monconi è una previsione da rabdomanti. Auspicabilmente prima di Natale". Nel registro degli indagati per il crollo del ponte Morandi non ci sono ancora nomi. Le indagini procedono ma secondo Il Secolo XIXdi Genova è scontro tra politica e magistrati su indagini e tempi di demolizione. Delicato l'argomento degli elementi di prova, le parti crollate del ponte che la magistratura vorrebbe esaminare a fondo ma che vanno tolti per la ricostruzione. Chi si occuperà della ricostruzione? Di Maio vorrebbe estromette Autostrade per l'Italia mentre il governatore della Liguria Toti, che è anche il commissario straordinario per l'emergenza, sostiene che la società del gruppo Benetton debba prendersi in carico dell'operazione.

Mercoledì 29 agosto. La Procura di Genova ha emesso un ordine di sequestro per tutta la documentazione relativa al ponte Morandi. La Guardia di Finanza ha acquisito le prove nelle sedi del Ministero delle Infrastrutture e nell'ufficio ispettivo territoriale di Genova e in altri uffici a Roma, Firenze e Milano. Finanzieri anche nella sede del Provveditorato delle opere pubbliche di Liguria, Piemonte e Val d’Aosta e della Spea Engineering, società del gruppo che controlla Autostrade per l'Italia, il gruppo Atlantia. Il governatore della Liguria, e commissario straordinario per l'emergenza del ponte, Giovanni Toti ha pubblicato su Facebook la sua proposta per la ricostruzione: "Autostrade apre il cantiere e paga il conto. Poi Fincantieri costruisce il ponte. Renzo Piano ha regalato a Genova il disegno di un ponte bellissimo e così la città potrà riavere in fretta un'opera indispensabile, sicura e meravigliosa".

Giovedì 30 agosto. Secondo L'Espresso, esiste una lettera d'allarme datata 28 febbraio 2018 in cui è stata richiesta un'accelerazione delle procedure per le opere di rinforzo strutturale del ponte Morandi. Il documento sarebbe stato firmato dal Direttore per la Manutenzione di Autostrade, Michele Donferri Mitelli e indirizzato al Ministero delle Infrastrutture. Mitelli scrive: "Vista l'importanza strategica dell'opera e la natura dell'intervento e tenuto conto che il completamento delle procedure di affidamento può essere stimato in 13-15 mesi, si ritiene, in considerazione del protrarsi dei tempi di approvazione, che l'intervento non possa essere in esecuzione prima del secondo semestre 2019 o inizio 2020. Tale circostanza comporterebbe una serie di ripercussioni sia per la pianificazione economica che per l'incremento di sicurezza necessario sul viadotto Polcevera. Per quanto sopra, Vi preghiamo di portare avanti l'iter autorizzativo quanto prima". Tra i documenti sequestrati dalla Guardia di Finanza spunta una relazione dello stesso ingegnere Riccardo Morandi, ideatore del ponte, che negli anni ottanta si mostrava stupito e deluso dal veloce degrado dei materiali utilizzati.

4 settembre. Sul tavolo della Procura del è arrivata una prima lista di una trentina di nomi. Si tratta di coloro che, s'ipotizza, sarebbero stati a conoscenza dello stato di criticità. Un elenco che ora Cozzi dovrà vagliare con attenzione per arrivare all'iscrizione sul registro degli indagati di coloro che avrebbero avuto "cognizione" di quanto sarebbe potuto accadere (e poi è accaduto) visto lo stato del viadotto. La svolta potrebbe arrivare con l'incidente probatoriodove potrebbero venire cristallizzati per la prima volta nomi e ipotesi di reati che vanno dall'omicidio plurimo colposo al disastro colposo fino all'attentato colposo alla sicurezza dei trasporti. Sono nomi pesanti quelli che i magistrati dovranno vagliare con cura per accertare eventuali responsabilità e ipotesi di colpa: alti dirigenti ministeriali, funzionari locali, tecnici strutturali e amministratori di Autostrade Spa. L'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo D'Ovidio e dai sostituti Walter Cotugno e Massimo Terrile, s'avvale dei dati raccolti sal primo gruppo della Guardia di finanza di Genova, al comando del colonnello Ivano Bixio. Quel che va precisato è che sarà difficile accertare eventuali responsabilità visto che quel che è certo e dimostrato è che tutti erano consapevoli della necessità di lavori di manutenzione sull'opera. La questione è: chi sapeva che il crollo era imminente? La lista depositata dalla Gdf comprenderebbe i nomi di Vincenzo Cinelli, direttore generale della vigilanza del ministero delle Infrastrutture, il suo predecessore Mauro Coletta e i responsabili di divisione Bruno Santoro e Giovanni Proietti. Nell'elenco figurerebbero anche i vertici di Autostrade: il presidente del Cda Fabio Cerchiai, l'amministratore delegato Giovanni Castellucci, il direttore centrale operation Paolo Berti, il direttore del primo tronco di Genova Stefano Merigliani e il direttore di manutenzione degli interventi Michele Donferri. A questi andrebbero aggiunti anche i vertici di Spea che si è occupata delle verifiche sullo stato del Morandi: l'ad Antonio Galatà, Massimo Giacobbi, responsabile del progetto di retrofitting (restauro della struttura) e Massimo Bazzanelli, a capo della sicurezza. Infine figurerebbe il nome di Roberto Ferrazza, Provveditore alle opere pubbliche e Carmine Testa, a capo dell'ufficio ispettivo territoriale delle Infrastrutture. Le domande cui le 145 persone che si sono costituite parte civile (tra feriti e parenti delle vittime) vorrebbero risposte sono tante: chi sapeva? Davvero c'era più preoccupazione per le ripercussioni sulla viabilità causate dalla chiusura del viadotto che per la sicurezza dei cittadini? Perché si è aspettato tanto? Chi ha determinato questo stallo? E soprattutto chi, pur sapendo, non ha fatto nulla per evitare una tragedia annunciata?

7 settembre. Il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi ha definito "Un atto dovuto" l'iscrizione nel registro degli indagati di 20 persone che sarebbero coinvolte a vario titolo nell'incidente. Cozzi ha spiegato che contestualmente all'iscrizione nel registro degli indagati la procura chiederà l'incidente probatorio all'ufficio del giudice affinché le indagini possano subire un'accelerazione sensibile e gli avvisi servono anche a far sì che le persone coinvolte possano elaborare una strategia difensiva. Si tratta di una lista comunque provvisoria e, al momento, fra gli indagati ci sono i vertici di Autostrade Spa nelle persone di: l'amministratore delegato Giovanni Castellucci, il direttore centrale operazioni Paolo Berti, il responsabile Maintenance Michele Donferri Mitelli, il direttore del tronco di Genova Stefano Marigliani, il suo predecessore Riccardo Rigacci, Paolo Strazzullo, responsabile unico del progetto di retrofitting (restauro della struttura). Con loro sono indagati anche gli alti dirigenti e i tecnici ministeriali che hanno avuto a che fare con la ristrutturazione del ponte (di cui nessuno ha mai chiesto la chiusura). Avvisi sono arrivati a Vincenzo Cinelli, responsabile della Direzione generale vigilanza autostradale del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, al suo predecessore Mauro Coletta, al dirigente di divisione della vigilanza Bruno Santoro, al capo dell’ufficio ispettivo territoriale Carmine Testa, e al provveditore alle opere pubbliche di Piemonte, Liguria e Val d’Aosta Roberto Ferrazza. Tra gli indagati ci sono anche il docente universitario del Dicca di Genova, Antonio Brencich, l’ingegnere Mario Servetto e Giuseppe Sisca coloro che avevano firmato il parere tecnico sull’appalto del ponte in qualità di consulenti del ministero.

17 settembre. Il team ingegneristico guidato da Piergiorgio Malerba e Renato Buratti su ordine della Procura ha prelevato campioni della struttura e le ha analizzate all'interno di un bunker nella zona rossa. L'attenzione, in particolare, è stata posta sulla struttura di quegli stralli del pilone 9 che si sono spezzati la mattina del 14 agosto. Da quanto sostiene il report il numero di cavi d'acciaio presenti nel calcestruzzo sarebbe inferiore rispetto a quello previsto dal progetto originario. Non solo: la guaina protettiva di quei cavi è quasi assente a indicare un totale deterioramento dei materiali utilizzati che devono essere stati di scarsa qualità. Secondo quanto trapela materiali scadenti e addirittura una fase realizzativa dell’opera in cui si è passati sopra a componenti che, sulla carta, erano ritenuti fondamentali sarebbero alla base di un ponte nato malato. Una delle ipotesi al vaglio degli inquirenti che dall'alba del giorno dopo la tragedia vagliano frame a frame il video del crollo è che a dare il colpo di grazia a un ponte già compromesso sia stato il passaggio di un tir che trasportava un rotolo d’acciaio da 440 quintali (il limite di legge è 462). Il conducente, rimasto illeso, è stato intervistato da Corriere della Sera, e ha spiegato che quel ponte traballante col suo mezzo pesante lui lo attraversava due volte al giorno per portare i rotoli d'acciaio dall'Ilva di Genova verso altre destinazioni. L'uomo ha ammesso di sentirsi sempre poco sicuro quando attraversava il viadotto proprio per le forti oscillazioni che percepiva. Il peso del mezzo era comunque nei limiti previsti dalla legge e la struttura avrebbe dovuto reggere. Dopo due secondi dal suo passaggio del camion dal pilone numero nove lo strallo est si è spezzato risucchiando l'asfalto e il suo camion nel vuoto. 

18 settembre 2018. La Guardia di Finanza ha sequestrato documentazioni informatiche e cartacee nelle sedi del Politecnico di Milano e del Cesi, la società che nel 2016 si occupò dello studio sul viadotto. Le acquisizioni sono state effettuate nell'ambito dell'inchiesta sul crollo, indagini che negli ultimi giorni hanno riguardato soprattutto l'acquisizione di materiale legato alle attività di studio sul viadotto. L'elenco delle persone indicate come potenzialmente informate sui fatti conta circa una quarantina di nomi, persone non indagate ma che dal 2012 ad oggi potrebbero essere state a conoscenza di documenti e informazioni sullo stato del ponte Morandi. Nel frattempo è iniziato a Palazzo Chigi il vertice tra il premier Giuseppe Conte, il governatore della Regione Liguria Giovanni Totie il sindaco di Genova Marco Bucci. Sul tavolo c'è la scelta del nome per il Commissiario alla Ricostruzione.

20 settembre 2018. Il quotidiano genovese Il Secolo XIX racconta oggi come Autrostrade per l'Italia avesse espresso dubbi sull'affidabilità di Spea Eginnering, la società responsabile della manutenzione del ponte Morandi che figura nel registro degli indagati. Il quotidiano, che cita una qualificata fonte investigativa, racconta come le novità siano emerse esaminando una serie di mail riservate che i finanzieri agli ordini dei colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco, hanno individuato dopo l'analisi di computer e telefoni nei giorni immediatamente successivi alla tragedia. Tra i mittenti delle mail incriminate ci sarebbero anche Paolo Berti, direttore centrale operativo di Autostrade per l'Italia, e Michele Donferri Mitelli, entrambi nel registro degli indagati con le accuse di omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, disastro colposo e attentato alla sicurezza dei trasporti. La Procura ha acquisito uno studio secondo cui lo scorso 30 giugno il segmento del viadotto in direzione Ponente, quello sopravvissuto al crollo, subì oscillazioni sino a 11 centimetri durante il passaggio dei camion. I periti del tribunale dovranno ora valutare le fluttuazioni e deformazioni del viadotto, confrontandoli con le relative operazioni di manutenzione e monitoraggio.

24 settembre 2018. Interrogatori: il direttore del Tronco di Genova di Autostrade per l'Italia Stefano Marigliani e il suo predecessore Riccardo Rigacci si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Nel frattempo, esaminando i documenti sequestrati sulla manutenzione del viadotto, sarebbe emerso un dato importante: dal 2000 al 2014 non sarebbero stati commissionati studi sulla staticità del ponte, un periodo di silenzio totale al quale è invece seguito un alto numero di incarichi per la manutenzione: tre nel giro di due anni.

25 settembre 2018. Si è concluso nell'aula bunker di Genova l'incidente probatorio sul crollo del ponte Morandi, prima udienza del processo per trovare i responsabili della tragedia. I tre periti nominati dal Gip Angela Nutini avranno 60 giorni di tempo per effettuare le operazioni di sopralluogo e di repertazione dei detriti. Il primo sopralluogo dei periti e dei consulenti di indagati e familiari delle vittime avverrà martedì 2 ottobre, la prossima udienza in tribunale è invece fissata per il 17 e 18 dicembre prossimi. 

26 settembre. Il Ministero delle Infrastrutture dei Trasporti (MIT) ha pubblicato online la relazione della commissione ispettiva ministeriale sul crollo del ponte Morandi di Genova dello scorso 14 agosto, un disastro che ha ucciso 43 persone.

"Disastro senza precedenti. Ma non finirà all'italiana". Il procuratore di Genova: era un pezzo della nostra identità, è come se mi avessero amputato un braccio, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Il ruolo gli impone una certa freddezza, ma Francesco Cozzi, procuratore della Repubblica di Genova, non si nasconde dietro la toga: «Per noi che siamo nati e cresciuti in questa città, il ponte Morandi era un pezzo della nostra identità. È come se mi avessero amputato un braccio, è come se, tornando a casa per una via tortuosa, non trovassi più la porta d'ingresso».

Il ponte Morandi era la cerniera fra Levante e Ponente.

«Per i genovesi era eterno».

Ma le polemiche erano all'ordine del giorno da anni.

«Occorre distinguere i piani. Era eterno nella nostra percezione come tutti i simboli. Come la Lanterna. Poi c'erano i lavori di rattoppo, eterni pure quelli, che duravano da venti o trent'anni. Però architettonicamente il ponte era ben fatto».

Si discute sulle cause del disastro: errori di progettazione e realizzazione dell'opera negli anni '60 o mancata manutenzione oggi?

«I ragionamenti degli esperti proseguono in queste ore».

Le con chi si schiera?

«Io devo capire».

E come farà per capire?

«Domani (oggi per chi legge, ndr) nomineremo i periti che dovranno studiare le cause di questo immane disastro».

Quanti saranno?

«Non glielo posso dire. Di sicuro non sarà uno e non saranno molti. Ed è certo che la parte ingegneristica sarà preponderante. Ci saranno ingegneri molto qualificati. Daremo loro quesiti stringenti, con la preghiera di rispettare i tempi che saranno ragionevolmente celeri».

Non finirà all'italiana come quelle indagini che si perdono in mille analisi, mille filoni, mille ipotesi?

«No, daremo le risposte che tutto il Paese si attende. La procura in questi anni ha condotto indagini importanti su disastri ambientali nel nostro territorio e non si è smarrita nella foresta delle leggi, dei pareri e delle responsabilità frammentate».

Qui siamo oltre.

«Si, è un disastro senza precedenti, ma faremo tutto quello che è necessario. Poi, certo il tempo va a braccetto della qualità. Potremmo pure chiudere a razzo una sorta di inchiesta lampo ma temo che non arriveremmo ad alcuna conclusione».

Per che reati procedete?

«Il più grave è l'omicidio colposo plurimo che prevede pene fino a 15 anni; poi c'è il disastro colposo per il crollo e l'attentato alla sicurezza dei trasporti perché sul ponte circolavano i mezzi pubblici».

L'omicidio stradale?

«Si applica a chi abbia violato le norme del codice della strada però secondo alcuni potrebbe riguardare anche le prescrizioni sulla sicurezza. Vedremo, è un'eventualità da studiare».

Poi ci sono le case sotto il ponte. Aprirete un fascicolo anche su questo?

«Le case sono preesistenti al Morandi e il Morandi è degli anni Sessanta quando il piano di sviluppo prevedeva una Genova da oltre un milione di abitanti. Un'altra epoca, aprire un fascicolo ora servirebbe solo a guadagnare qualche titolo in prima pagina».

Nel 2012 il Presidente di Confindustria di Genova Giovanni Calvini era stato profetico: «Fra 10 anni il Morandi crollerà». Una sparata o aveva elementi certi?

«Oggi lui minimizza e dice che la sua fu una provocazione. Però è vero: nel parlato collettivo c'è sempre stata ansia per le sorti del ponte Morandi».

Un aiuto potrebbe arrivare dai video che documentano il momento del crollo?

«L'acquisizione di questi video è in corso. Quel che ho visto finora non è di grande aiuto. Però alle due estremità del ponte c'erano due webcam che dovrebbero aver ripreso quel che è successo, speriamo siano utili».

Il Governo ha dichiarato guerra al concessionario Autostrade per l'Italia.

«Il Governo ritiene di non poter aspettare i risultati del nostro lavoro. È una scelta della politica ma quel che fa la politica non deve riguardare in alcun modo il nostro lavoro».

Genova, ponte Morandi: le ipotesi di reato formulate della Procura, scrive il 16 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". I primi segnali non sono confortanti. Certo, le indagini sono ai primi passi e il processo, se e quando si farà, avrà verosimilmente tempi lunghi. Ma le ipotesi di reato che la procura di Genova ha fin qui formulato fanno già pensare quel che temono un po' tutti: che anche questa volta, difficilmente qualcuno finirà in carcere per il crollo del ponte Morandi sulla A10 a Genova. Nonostante i 38 morti (destinati a diventare purtroppo di più), le decine di feriti e le centinaia di persone sfollate per sempre dalle loro case. I reati ipotizzati, infatti, sono quello ex articoli 432 e 449 del codice penale ("Attentato colposo alla sicurezza dei trasporti"), ex articoli 434 e 449 ("Disastro colposo dovuto a crollo") ed ex articolo 589 comma 1 e comma 3 ("Omicidio colposo plurimo"). E' proprio quel "colposo" a fare temere il peggio: chi mai per un reato "colposo" è finito in carcere in questo Paese, oltretutto in riferimento a un disastro relativamente al quale sarà difficile indicare le responsabilità e i confini delle responsabilità dei soggetti coinvolti (Autostrade per l'Italia e ministro dei Trasporti)? 

Toninelli: "Autostrade non ricostruirà il ponte ma lo pagherà". Il ministro in aula per le comunicazioni sul disastro di Genova: "Agli sfollati una sistemazione entro tre mesi". Linea dura sulle concessioni: "Società saranno obbligate a reinvestire", scrive il 4 Settembre 2018 "la Repubblica". Il governo non cambia idea sulla ricostruzione di Ponte Morandi a Genova. "Non sarà Autostrade per l'Italia a ricostruire il ponte", ha detto il ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, nelle comunicazioni alla Camera sul crollo dell'infrastruttura. "La ricostruzione sarà affidata a un soggetto pubblico, ma a pagare i costi sarà la società concessionaria Aspi", ha aggiunto. "Il governo - ha detto Toninelli - è compatto nel ritenere che i lavori di ricostruzione del ponte non possano essere affidati ed eseguiti da chi giuridicamente aveva la responsabilità di non farlo crollare". "Lasciare ad Autostrade per l'Italia - ha aggiunto il ministro - la ricostruzione del viadotto sarebbe una follia e irrispettoso nei confronti dei familiari delle vittime. La ricostruzione va affidata a un soggetto a prevalente o totale partecipazione pubblica dotato di adeguate capacità tecniche, mantenendo in capo al concessionario l'ovvio onere dei costi. L'integrale finanziamento dell'opera da parte della società concessionaria rappresenta solo una minima parte del risarcimento dovuto e non ha nulla a che vedere con la procedura di decadenza dalla concessione. Sulla ricostruzione del ponte dovrà esserci il sigillo dello Stato". Toninelli si è soffermato sul tema delle concessioni. "D'ora in avanti - ha detto -  tutti i concessionari, pubblici o privati che siano, saranno vincolati a reinvestire gran parte degli utili nell'ammodernamento delle infrastrutture che hanno ricevuto in concessione e dovranno comprendere che l'infrastruttura non è una rendita finanziaria, ma un bene pubblico del Paese".  "Saranno cancellate le convenzioni nelle quali i costi sono pubblici e i profitti privati come quelle stipulate sotto di Governi di Prodi e Berlusconi", ha aggiunto Toninelli."Questo Governo - ha ribadito - farà di tutto per rivedere integralmente il sistema delle concessioni autostradali e degli obblighi convenzionali, per impostare questi rapporti sulla base di nuovi princìpi e di più soddisfacenti equilibri giuridico-economici". Toninelli ha quindi ricordato l'operazione trasparenza che ha portato alla pubblicazione "sul sito web del Ministero delle Infrastrutture tutti i contratti di concessione delle autostrade e tutti i relativi allegati". "Nonostante le pressioni, interne ed esterne, che abbiamo subito - ha detto -, abbiamo messo a disposizione della collettività atti che tanti cittadini nel corso degli anni hanno richiesto all'Amministrazione, vedendosi sempre sbattere portoni in faccia". Quanto al tema delle persone che non possono più disporre delle proprie abitazioni Toninelli ha spiegato che "tutte le persone sfollate riceveranno una sistemazione entro 3 mesi". Il ministro ha spiegato che "il totale del numero dei nuclei sfollati è oggi di 255 famiglie, per un totale di 566 persone" e "gli alloggi pubblici messi a disposizione dei nuclei familiari sono ad oggi 170, di cui 88 alloggi sono stati già assegnati o opzionati". "Chiedo scusa a nome dello Stato". Lo ha detto il presidente della Camera, Roberto Fico, aprendo i lavori dell'Aula dove si svolgerà l'informativa del governo sul crollo del ponte Morandi. L'Aula di Montecitorio ha osservato un minuto di silenzio. "Quanto accaduto a Genova è inaccettabile ed è necessario fare piena luce in tempi rapidi sulle cause, le responsabilità individuali così come sulle carenze infrastrutturali. Al di là di quanto sarà accertato dalla magistratura, è compito del Parlamento acquisire tutte le informazioni sulla vicenda" per questo oggi si svolgono le informazioni del governo con il ministro Toninelli. Lo ha detto il presidente della Camera, Roberto Fico, avviando i lavori dell'Aula prima dell'informativa del governo sul crollo del ponte Morandi. "Auspico che questo tragico evento induca tutte le istituzioni a una attenta riflessione sullo stato del nostro territorio e sulle condizioni delle infrastrutture affinchè tragedie come questa non si ripetano", ha aggiunto la terza carica dello Stato.

Ponte Morandi a Genova: i ritardi della burocrazia mentre già era a rischio. Dal 1981 — quando arrivò l’sos inascoltato dell’ingegner Morandi — al 2015, con le pastoie del ministero. Così si è arrivati alla tragedia del 14 agosto con 43 morti, famiglie con bambini, turisti, camionisti, scrivono Cesare Giuzzi e Andrea Pasqualetto il 4 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". «Bisogna consolidare il ponte», disse nel 2015 il dottor Mario Bergamo di Autostrade ai progettisti, sulla base dei risultati dei monitoraggi fatti sul Morandi. Quattro anni dopo, in attesa del consolidamento, quel ponte è crollato e sotto le sue macerie, lo scorso 14 agosto, sono rimasti in 43. . Tutta gente in viaggio, chi per vacanza, chi per lavoro. Un disastro e, naturalmente, un’inchiesta giudiziaria. Che, escluse le ipotesi accidentali e il dolo, si sta focalizzando sul cedimento strutturale e su chi poteva decidere qualcosa: dirigenti, funzionari, manager, tecnici. La Guardia di Finanza ne ha individuati una trentina, la Procura di Genova intende stringere il cerchio a una lista di nomi da iscrivere presto nel registro degli indagati, come ha fatto capire il procuratore Francesco Cozzi. Appartengono tutti ai colossi che si dividono mezza Italia autostradale: il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) e Autostrade per l’Italia del gruppo Benetton, pubblico e privato, proprietario e gestore. E già si profila uno scontro fra i due, con Autostrade che appare più forte, più strutturata, con più uomini, mezzi e denari; e il ministero che ne esce invece fiacco, senza risorse e perciò lento, indebolito forse anche dalla politica che ha cambiato colore. Per esempio, da qualche giorno Autostrade ha iniziato a difendersi con energia; il Mit, invece, tace. Abbiamo riavvolto il nastro di questa storia cercando di ricostruire, sulla base dei documenti finora emersi, i retroscena del ponte con gli stralli in acciaio avvolti nel cemento che portava il nome del suo creatore, l’ingegner Riccardo Morandi. L’aspetto era quello affascinante di Brooklyn, la sostanza no (qui, lo scontro tra il governatore Toti e il ministro Di Maio sugli aiuti agli sfollati). «La struttura ha subito un deterioramento più rapido del previsto che ne pregiudica la stabilità e la sicurezza, gli stralli del pilone 9 (quello crollato, ndr) presentano infrazioni trasversali». Era il 1981, 14 anni dopo l’inaugurazione. Un sos rimasto inascoltato fino al 2015, quando Autostrade per l’Italia, controllata dalla famiglia Benetton, decide che è giunto il momento di intervenire seriamente con un’opera di rinforzo complessiva. Bergamo, predecessore di Michele Donferri Mitelli alla Dirigenza della manutenzione del concessionario, si affida ad una società di famiglia: la Spea del gruppo Atlantia che per Autostrade cura la sorveglianza e la progettazione. Non quattro gatti: «750 dipendenti in giro per il mondo», precisa il suo presidente Paolo Costa, ministro dei Lavori pubblici del governo Prodi. Spea deve dunque partorire il progetto stralli, del quale si occuperanno il direttore tecnico Massimo Giacobbi e il suo collega Emanuele De Angelis. L’incarico è datato 24 giugno 2015. Prima ancora che si inizi a visitare il malato, Autostrade affida a una società esterna, la Ismes del gruppo Cesi, una consulenza per «l’analisi della documentazione sul ponte». Ismes consegna i risultati fra gennaio e maggio 2016: «Aumentare le ispezioni e implementare un monitoraggio continuo della struttura». Gli ingegneri di Spea concludono il progetto di rinforzo, tecnicamente retrofitting strutturale, oltre due anni dopo, alla fine di settembre del 2017. «Troppo tempo?», si chiedono gli inquirenti. Se nel 2014 c’erano stati segnali tali da indurre Bergamo a intervenire, perché aspettare due anni? È un autunno frenetico, quello dello scorso anno. Anche Spea chiede conforto all’esterno e sceglie il Politecnico di Milano che risponde il 25 ottobre: «Stralli deformati del pilone 9, si consiglia monitoraggio continuo prima, durante e dopo l’intervento». Ma quei sensori non verranno mai montati. Anche perché tutti invitano a monitorare ma nessuno lancia mai un chiaro allarme e questo esclude un intervento d’urgenza, il solo sul quale si poteva attivare il direttore del Tronco di Genova, Stefano Marigliani, per limitare il traffico sul ponte. Il 12 ottobre il cda di Autostrade vota il progetto e il 31 dello stesso mese chiede al ministero l’approvazione. E qui seguiranno quasi otto mesi per ottenere il decreto ministeriale, firmato da Vincenzo Cinelli l’11 giugno. «Il termine previsto dalla convenzione è di 90 giorni, il ritardo è stato di quasi cinque mesi», sospirano oggi quelli di Autostrade. Nessun progetto viene mai approvato nei tempi: ma mediamente sono 100 i giorni di sconfinamento. In questo caso 150. Il documento s’infila nelle pastoie burocratiche ministeriali. Che emergono con chiarezza dallo scambio di lettere fra Autostrade, Provveditorato e Mit, sequestrate dagli inquirenti. Due decreti che trasferiscono agli uffici locali le competenze per i progetti sotto i 50 milioni, uniti a una regoletta imposta da Mauro Coletta del Mit, che chiedeva la convergenza nel suo ufficio di tante richieste, generano il caos. Il provveditore ligure Roberto Ferrazza (il primo febbraio 2018 dà parere favorevole al progetto) lamenta «scarsità di ingegneri», di «competenza tecnica» e assenza di flussi informativi. Donferri prende a sollecitare il ministero: l’assenza di «interlocuzione dirette con i provveditorati comporta ritardi». Anche Cinelli ammette il «dilatamento dei tempi». Mentre il ponte Morandi è lì, ad aspettare una stampella che non arriverà mai.

Genova, nuovi documenti. Il progetto mai realizzato: "Migliorare standard di sicurezza". Lesioni larghe verticali nei piloni, rigonfiamenti nel calcestruzzo, tutti gli appoggi fortemente ossidati: così scrivono i progettisti di Autostrade nella relazione della società approvata dal ministero delle Infrastrutture nel giugno scorso, scrive Fabrizio Gatti il 31 agosto 2018 su "L'Espresso". Andava migliorato il livello di sicurezza del ponte Morandi a Genova: è questo il motivo con cui Autostrade per l'Italia giustifica dieci mesi fa i lavori di potenziamento. Ma nel progetto esecutivo inviato il 3 novembre 2017 al ministero delle Infrastrutture, l'informazione non è scritta in modo esplicito. La ragione dell'intervento è invece spiegata con una sigla in codice: «Art.2.2 lettera C5 della Convenzione unica». Bisogna poi consultare l'accordo del 2007 tra Stato e società di gestione per trovare la risposta: eccola, a pagina 7 nel capitolo «C) Altri investimenti. Trattasi di interventi di ammodernamento e rinnovo della rete in concessione». Al punto 5 si legge: «Miglioramento standard di sicurezza». Ma quanti tra i tecnici-controllori del Provveditorato alle opere pubbliche di Genova e della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali hanno controllato il significato? Nel momento in cui Autostrade si rende finalmente conto che deve intervenire sul viadotto, crollato il 14 agosto con la morte di 43 persone, i progettisti della società pensano subito alla sicurezza. Avrebbero potuto giustificare la spesa di venti milioni come «Adeguamento e potenziamento rete autostradale» o come «Altri interventi di miglioramento e di manutenzione capitalizzati», così come è indicato ai punti 3 e 7 della stessa convenzione. Ma loro scelgono proprio il punto 5: è il miglioramento degli standard di sicurezza la ragione dei lavori. Ed è sempre la sicurezza il 28 febbraio 2018 a spingere il direttore delle manutenzioni di Autostrade, Michele Donferri Mitelli, a scrivere al Provveditorato di Genova e alla Direzione vigilanza del ministero, per sollecitare il via libera al progetto esecutivo: «Si ritiene, in considerazione del protrarsi dei tempi di approvazione, che l'intervento non possa essere in esecuzione prima del secondo semestre 2019 o inizio 2020. Tale circostanza comporterebbe una serie di ripercussioni... per l'incremento di sicurezza necessario sul viadotto Polcevera», che è l'altro nome con cui viene chiamato il ponte progettato e costruito cinquant'anni fa da Riccardo Morandi. La società concessionaria replica con un comunicato che la lettera di Donferri Mitelli è una «ordinaria comunicazione con cui la competente Direzione del ministero delle Infrastrutture viene sollecitata per l'approvazione del progetto di miglioramento delle caratteristiche strutturali del viadotto Polcevera, per il quale era già stato prodotto il parere favorevole del Provveditorato alle opere pubbliche di Genova, tenuto conto che il tempo di approvazione da parte del ministero si stava protraendo oltre il termine dei novanta giorni». La pagina 6 della relazione che accompagna il progetto esecutivo sembra dar ragione ad Autostrade. È infatti scritto: «L'intervento proposto... è pertanto da considerarsi come un vero e proprio provvedimento migliorativo... che allunga la vita utile di questi elementi, fondamentali per la statica del ponte, incrementando così il valore del cespite». Solo traducendo la sigla «art.2.2 lettera C5 della Convenzione unica» si scopre il vero significato dell'intervento. Il collasso del pilone 9, forse provocato dal contemporaneo cedimento dell'appoggio di una “sella Gerber” del piano autostradale al passaggio di un Tir, dimostra oggi come il miglioramento degli standard di sicurezza fosse più che mai urgente e necessario. Sentite cosa scrivono alle pagine 24 e 25 gli autori del progetto esecutivo, dopo aver dedicato altre pagine a elencare i difetti dei tiranti degli stralli. Ecco: «Descrizione difetti pile n. 9-10 ed impalcati tra pila n.9 e pila n.11. I difetti riportati sono stati estrapolati dal rapporto trimestrale STOone, allegato alla presente relazione. Pile-elevazioni: lesioni ramificate capillari con risonanze e fuoriuscita di umidità, sulla malta di ripristino; lesioni larghe verticali con estese risonanze, sugli spigoli nella parte alta di quasi tutte le pile. Antenne-stralli: lesioni ramificate capillari con fuoriuscita di umidità (bulbi di attacco degli impalcati); malta di ripristino risonante, interessata da lesioni ramificate capillari con fuoriuscita di umidità con distacchi; placche risonanti evidenziate da lesioni (2° sistema bilanciato). Impalcati travi: evidenti lesioni agli spigoli con risonanze (travi in corrispondenza delle Gerber e dei giunti); zone risonanti con lesioni in mezzeria (intradosso 4° trave, impalcato E11); lesioni ramificate capillari e longitudinali con fuoriuscita di umidità (intradosso bulbo campata E11); calcestruzzo dilavato ammalorato con distacco malta di ripristino (testate travi di bordo in corrispondenza dei giunti). Impalcati traversi: evidenti lesioni agli spigoli con risonanze, ferri di armatura ossidati dovuti al copioso dilavamento dell'acqua provocata dai giunti (traversi di testata); spigoli risonanti in distacchi (traversi di mezzeria). Impalcati solette: efflorescenze e ferri scoperti ossidati (intradosso). Impalcati cassoni: lesioni trasversali passanti su anima e controsoletta (cassoni pila n.11, lato Savona); lesioni e rigonfiamento malta da ripristino con risonanze in corrispondenza delle staffe ed agli spigoli (pareti esterne); lesione larga longitudinale a tratti interessata da vespai con ferri in vista ossidati (intradosso impalcato E6); calcestruzzo dilavato, ammalorato evidenziato da rigonfiamenti con zone risonanti e lesionate, con vespaiosità e ferri ossidati (ferri dei cassoni). Appoggi-apparecchi: appoggi fortemente ossidati (tutti gli appoggi fissi). Appoggi-baggioli: lesioni ramificate con fuoriuscita di umidità e calcestruzzo dilavato ammalorato (baggioli in calcestruzzo presenti sulle selle Gerber)». La relazione è firmata dagli ingegneri della Spea Engineering, società di progettazione di Autostrade, Emanuele De Angelis e Massimiliano Giacobbi con la collaborazione di Barbara Iuliano. Dei contenuti del progetto sono ovviamente al corrente il direttore della manutenzione, Donferri Mitelli e il responsabile unico del procedimento, Paolo Strazzullo. Per il ruolo che ricoprono al ministero delle Infrastrutture, dovevano essere a conoscenza dei dettagli del progetto anche il capo della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali, Vincenzo Cinelli, figura che riferisce sia al capodipartimento Infrastrutture, sia al capo di gabinetto del ministero, sia al ministro; il dirigente della Vigilanza, capo della Divisione 1 vigilanza tecnica-operativa,Bruno Santoro, che ora si trova nel doppio ruolo di commissario d'inchiesta del ministro Danilo Toninelli nonché ex consulente di Autostrade retribuito fino al 2013 dalla società privata con 70 mila euro; il capo dell'Unità ispettiva territoriale di Genova, Carmine Testa; il provveditore alle opere pubbliche di Genova, Roberto Ferrazza; gli altri nove membri del comitato tecnico amministrativo del Provveditorato che hanno votato il progetto; gli ingegneri del Provveditorato Giuseppe Sisca e Salvatore Buonaccorso e i membri esterni Mario Servetto e Antonio Brencich che con Ferrazza il primo febbraio 2018 hanno firmato il verbale di approvazione del progetto esecutivo, senza però prescrivere misure di sicurezza, come la deviazione del traffico pesante e la riduzione delle corsie, per alleggerire le fatiche del ponte ormai pieno di lesioni. Il decreto di approvazione del progetto viene rilasciato dalla Direzione generale per la vigilanza otto mesi dopo la consegna soltanto a giugno 2018, due mesi prima del crollo. I tecnici del ministero delle Infrastrutture e gli ingegneri di società Autostrade sono tutti testimoni, per l'indagine della Procura di Genova, su come con un po' di zelo in più controllori e controllati avrebbero potuto salvare quarantatré vittime innocenti.

«Ponte Morandi non è sicuro»: la lettera di febbraio accusa Autostrade e Ministero. Il direttore manutenzioni della società scriveva sette mesi fa alla Direzione vigilanza e al Provveditorato perché fosse approvato urgentemente il progetto di rinforzo del viadotto di Genova: "Fate presto, è necessario incrementare la sicurezza". La replica di Autostrade: "Interpretazione fuorviante", scrive Fabrizio Gatti il 29 agosto 2018 su "L'Espresso". Lo scenario del crollo del ponte Morandi ora cambia completamente. Dal 28 febbraio 2018 la Direzione generale per la vigilanza del ministero delle Infrastrutture, il Provveditorato alle opere pubbliche di Genova e la Direzione maintenance e investimenti esercizio della società Autostrade per l'Italia sapevano che il viadotto aveva problemi di sicurezza. L'Espresso ha scoperto una lettera firmata dal direttore della manutenzione, Michele Donferri Mitelli, che mette in guardia il ministero delle Infrastrutture sui rischi per il ritardo nell'approvazione del progetto esecutivo di rinforzo del ponte. Non si sa chi abbia ricevuto l'avviso, poiché come destinatario è indicato soltanto l'ufficio. È noto comunque che la Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali è diretta da Vincenzo Cinelli, nominato il 14 agosto 2017 su proposta del ministro Graziano Delrio e confermato dall'attuale ministro Danilo Toninelli. Mentre il capo del Provveditorato di Genova è l'architetto Roberto Ferrazza, lo stesso scelto da Toninelli come presidente della commissione d'inchiesta del ministero. E rimosso nel giro di una settimana, dopo che L'Espresso aveva scoperto che Ferrazza aveva dato parere favorevole al piano di Autostrade, senza prescrivere misure per garantire la sicurezza. Finora si sapeva che gli uffici coinvolti fossero al corrente soltanto del degrado della struttura, a cominciare dai tiranti consumati dalla corrosione del venti per cento. Ma nessun documento dimostrava che ingegneri e funzionari fossero consapevoli del pericolo, che ogni giorno e ogni notte decine di migliaia di automobilisti e camionisti stavano correndo. La lettera di allarme del direttore di Autostrade è la seconda di cinque scritte al ministero tra il 6 febbraio e il 13 aprile 2018. In quella del 28 febbraio, protocollata dalla società con il numero 5003, il manager è esplicito. «Si fa riferimento a quanto in oggetto», scrive Michele Donferri Mitelli, «alla nostra precedente corrispondenza e alle interlocuzioni intervenute presso il Comitato tecnico amministrativo del Provveditorato alla presenza del vostro funzionario Uit Genova nella seduta del 1.2.2018». Quella del primo febbraio è la riunione presieduta dal provveditore Ferrazza, alla presenza del rappresentante genovese della Direzione generale per la vigilanza, l'ingegner Carmine Testa, capo del Uit, l'Ufficio ispettivo territoriale. «Al riguardo», continua il direttore di Autostrade, «dal momento che non abbiamo più avuto evidenza se siano necessari ulteriori approfondimenti e/o elementi integrativi Vi significhiamo... di restare a Vostra disposizione qualora siano necessari chiarimenti e integrazioni in relazione agli aspetti tecnico-economici del progetto rappresentando, ancora una volta, l'urgenza che riveste la conclusione dell'iter approvativo dell'intervento». «Vista l'importanza strategica dell'opera e la natura dell'intervento», aggiunge Donferri Mitelli, tenuto conto che il completamento delle procedure di affidamento può essere stimato in 13-15 mesi, «si ritiene, in considerazione del protrarsi dei tempi di approvazione, che l'intervento non possa essere in esecuzione prima del secondo semestre 2019 o inizio 2020. Tale circostanza comporterebbe una serie di ripercussioni sia per la pianificazione economica che», e proprio qui viene lanciato l'allarme, «per l'incremento di sicurezza necessario sul viadotto Polcevera. Per quanto sopra, Vi preghiamo di portare avanti l'iter autorizzativo quanto prima». Il direttore della manutenzione di Autostrade il 28 febbraio 2018 è dunque consapevole che bisogna fare in fretta perché, per il ponte Morandi sul torrente Polcevera, è necessario un incremento di sicurezza: che evidentemente manca. E non bisogna più perdere tempo. Ma nessuno si attiva per proteggere il viadotto e quanti continuano a passarci sopra, con prescrizioni come la limitazione del traffico pesante e la riduzione delle corsie di marcia. L'autorizzazione al progetto da parte della Direzione per la vigilanza che Michele Donferri Mitelli sollecita arriverà soltanto a giugno. Il viadotto crolla il 14 agosto uccidendo 43 persone e provocando lo sgombero di un intero quartiere. Ma già in febbraio sono evidentemente preoccupati nella società Autostrade per l'Italia, ora accusata dal governo di aver lasciato per anni deperire la struttura oltre il punto di non ritorno. Fino a ottobre 2017 non avrebbero fatto abbastanza, a parte l'ordinaria manutenzione. Tra il 9 e il 13 ottobre il Politecnico di Milano, con uno studio commissionato dalla concessionaria, segnala che nel pilone 9 ci sono anomalie che vanno approfondite. Il progetto esecutivo per il potenziamento dei tiranti viene revisionato. Quindi tra il 30 ottobre e il 3 novembre la società lo invia alla Direzione per la vigilanza sulle concessionarie. E lì al ministero, l'ufficio di Cinelli il 5 dicembre lo gira al Provveditorato di Genova per il parere obbligatorio. Il comitato tecnico amministrativo del Provveditorato si riunisce il primo febbraio. Il progetto torna alla direzione generale di Cinelli e sparisce fino a metà giugno. Due mesi dopo proprio il pilone 9 si sbriciola. Vincenzo Cinelli risponde direttamente al capodipartimento delle Infrastrutture e, al di sopra, al capo di gabinetto del ministro. Tanto che oggi tre componenti del suo ufficio di vigilanza, che non sembra aver vigilato abbastanza, compongono la commissione d'inchiesta nominata da Toninelli. Un cortocircuito che al nuovo governo continua a sfuggire. Sono le carte a dirci ora che il ponte Morandi da mesi non garantiva la sicurezza, al punto da rendere necessario un urgente incremento. L'inchiesta della Procura si arricchisce così di molti testimoni: i tecnici della società che soltanto da ottobre 2017 si preoccupa di intervenire sulla stabilità del viadotto, il direttore delle manutenzioni Donferri Mitelli che lancia l'allarme già a febbraio 2018, il direttore generale del ministero Cinelli, il provveditore Ferrazza, l'ispettore territoriale Testa, i membri con diritto di voto nel comitato tecnico amministrativo del Provveditorato di Genova. Giorno dopo giorno, l'elenco si allunga.

AGGIORNAMENTO: LA REPLICA DI AUTOSTRADE AL NOSTRO ARTICOLO: In relazione alla lettera pubblicata da L’Espresso, Autostrade per l’Italia evidenzia che si tratta di una ordinaria comunicazione con cui la competente direzione del Ministero delle Infrastrutture viene sollecitata per l’approvazione del progetto di miglioramento delle caratteristiche strutturali del viadotto Polcevera, per il quale era già stato prodotto il parere favorevole da parte del Provveditorato Interregionale delle Opere Pubbliche, tenuto conto che il tempo di approvazione da parte del Ministero si stava protraendo oltre il termine dei 90 giorni. Il progetto aveva l'obiettivo di migliorare la vita utile dell'infrastruttura. Risulta, quindi, assolutamente fuorviante e non veritiera l'interpretazione del settimanale secondo cui si sarebbe trattato di una “lettera d’allarme” che metteva in guardia sulla "non sicurezza" del viadotto.

Ponte Morandi, la lista dei possibili indagati sul tavolo dei pm di Genova. Sono 145 le persone offese per la strage, consegnato l'elenco definitivo, scrive il 04/09/2018 Huffington Post. C'è una lista persone alla procura di Genova. Si tratta di coloro che sapevano dei problemi della struttura e che in futuro potrebbero essere indagate per il crollo del Ponte Morandi a Genova che ha provocato la morte di 43 persone il 14 agosto. Lo riportano i principali quotidiani in edicola.

Secondo il Corriere della sera: la guardia di Finanza ha consegnato in Procura la sua lista: una trentina di nomi. Si tratta di dirigenti, funzionari, manager e tecnici che si sono occupati a vario titolo del Ponte Morandi negli ultimi sei anni. Da quando, cioè, la vigilanza sulle concessionarie autostradali è stata trasferita all'Anas al Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, dove nel 2012 è nata una specifica Direzione generale.

Il quotidiano la Repubblica scrive che: sulla scrivania del pm arriva un elenco di 13 persone: chi sapeva con certezza della criticità del ponte, chi da tre anni a questa parte ha visto passare dal suo ufficio documenti, mail, progetti e comunicazioni varie.

Per la Stampa: il dato clou è l'informativa della finanza, che circoscrive un dossier principale di 13 nomi, il cui operato si è svolto in tempi recenti. Il numero sale a 25 nel caso, non scontato, in cui i pubblici ministeri decidessero di allargare gli accertamenti a figure apicali che hanno operato prima del 2015. La lista numero uno - la scelta se iscrivere o meno questi nomi al registro degli indagati e soprattutto quali scremandone alcuni a scapito di altri, spetta ai magistrati ed è compiuta in queste ore - contiene: Fabio Cerchiai (presidente di Autostrade per l'Italia), Giovanni Castellucci (ad di Aspi), paolo Berti (direttore centrale operazioni Aspi), Michelle Donferri Mitelli (direttore maintenance e investimenti esercizio Aspi), Stefano Marigliani (direttore primo tronco Aspi).

Intanto sono 145 le parti offese, tra familiari delle vittime e feriti del crollo di ponte Morandi. L'elenco definitivo è stato consegnato dalla squadra mobile, ma potrebbe poi aumentare quando inizierà il processo se dovessero essere ammessi anche i danneggiati e gli sfollati. Si allungano invece i tempi dell'incidente probatorio che potrebbe partire anche in corso di demolizione dei resti della struttura. Dalle indagini intanto emerge che già a partire dal 2013 ad Autostrade erano arrivati i primi alert sullo stato di ammaloramento del viadotto. Successivamente venne commissionato un altro studio alla Cesi e poi al politecnico di Milano. Quest'ultimo aveva segnalato anomalie da approfondire e avevano suggerito la progettazione di una serie di sensori per monitorare costantemente il Morandi.

Gli investigatori stanno controllando gli studi preliminari che la società aveva ricevuto e che poi hanno portato, nel 2017, al progetto di retrofitting sulle pile 9 e 10. Gli inquirenti vogliono capire se gli allarmi furono interpretati correttamente e se non vennero sottovalutati alcuni aspetti. Tra gli aspetti sotto analisi anche le tecniche e il materiale usato per la realizzazione della struttura. "Vogliamo capire - ha spiegato il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi - se il progetto realizzato dall'ingegner Morandi sia poi stato eseguito correttamente e se è stato usato il materiale giusto".

Inchiesta sul disastro di Genova: il punto sulle indagini. La Gdf ha depositato un elenco di persone che avrebbero avuto "cognizione" dello stato del ponte, scrive Matteo Politanò il 4 settembre 2018 su "Panorama". Sul tavolo del procuratore capo di Genova Francesco Cozzi è arrivata una prima lista di una trentina di nomi. Si tratta di coloro che, s'ipotizza, sarebbero stati a conoscenza dello stato di criticità del ponte Morandi crollato la vigilia di Ferragosto a Genova uccidendo 43 persone. Un elenco che ora Cozzi dovrà vagliare con attenzione per arrivare all'iscrizione sul registro degli indagati di coloro che avrebbero avuto "cognizione" di quanto sarebbe potuto accadere (e poi è accaduto) visto lo stato del viadotto. La svolta potrebbe arrivare con l'incidente probatorio dove potrebbero venire cristallizzati per la prima volta nomi e ipotesi di reati che vanno dall'omicidio plurimo colposo al disastro colposo fino all'attentato colposo alla sicurezza dei trasporti. Sono nomi pesanti quelli che i magistrati dovranno vagliare con cura per accertare eventuali responsabilità e ipotesi di colpa: alti dirigenti ministeriali, funzionari locali, tecnici strutturali e amministratori di Autostrade Spa. L'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo D'Ovidio e dai sostituti Walter Cotugno e Massimo Terrile, s'avvale dei dati raccolti sal primo gruppo della Guardia di finanza di Genova, al comando del colonnello Ivano Bixio. Quel che va precisato è che sarà difficile accertare eventuali responsabilità visto che quel che è certo e dimostrato è che tutti erano consapevoli della necessità di lavori di manutenzione sull'opera. La questione è: chi sapeva che il crollo era imminente? La lista depositata dalla Gdf comprenderebbe i nomi di Vincenzo Cinelli, direttore generale della vigilanza del ministero delle Infrastrutture, il suo predecessore Mauro Coletta e i responsabili di divisione Bruno Santoro e Giovanni Proietti. Nell'elenco figurerebbero anche i vertici di Autostrade: il presidente del Cda Fabio Cerchiai, l'amministratore delegato Giovanni Castellucci, il direttore centrale operation Paolo Berti, il direttore del primo tronco di Genova Stefano Merigliani e il direttore di manutenzione degli interventi Michele Donferri. A questi andrebbero aggiunti anche i vertici di Spea che si è occupata delle verifiche sullo stato del Morandi: l'ad Antonio Galatà, Massimo Giacobbi, responsabile del progetto di retrofitting (restauro della struttura) e Massimo Bazzanelli, a capo della sicurezza. Infine figurerebbe il nome di Roberto Ferrazza, Provveditore alle opere pubbliche e Carmine Testa, a capo dell'ufficio ispettivo territoriale delle Infrastrutture. Le domande cui le 145 persone che si sono costituite parte civile (tra feriti e parenti delle vittime) vorrebbero risposte sono tante: chi sapeva? Davvero c'era più preoccupazione per le ripercussioni sulla viabilità causate dalla chiusura del viadotto che per la sicurezza dei cittadini? Perché si è aspettato tanto? Chi ha determinato questo stallo? E soprattutto chi, pur sapendo, non ha fatto nulla per evitare una tragedia annunciata? Per i genovesi, infatti, il crollo del Ponte Morandi non è stata una sorpresa, bensì un incubo ventilato da tempo e un appello alla manutenzione rimasto inascoltato. La Procura di Genova la scorsa settimana aveva aperto una triplice inchiesta per omicidio colposo plurimo, disastro colposo a carico di ignoti e attentato colposo alla sicurezza dei trasporti, quest'ultimo previsto dall’articolo 432 del Codice Penale. I pm stavano già da giorni vagliando l'ipotesi di inserire, appena vi siano iscrizioni nel registro degli indagati, anche l'omicidio stradale colposo aggravato. L'indagine era stata affidata al procuratore capo Francesco Cozzi che la condividerà con i pm Walter Cotugno e Massimo Terrile sotto il coordinamento aggiunto di Paolo D'Ovidio.

Genova, spuntano i nomi di chi sapeva che il ponte era a rischio crollo. Il documento della guardia di finanza nelle mani dei pm: nella lista figurano anche dirigenti di Autostrade per lʼItalia, Spea e Mit, scrive tgcom24.mediaset.it il 4 settembre 2018. Poco meno di trenta nomi. La lista di chi sapeva con certezza dei rischi e delle criticità legati al ponte Morandi crollato a Genova il 14 agosto. Il documento è arrivato in procura dopo le indagini e le ricostruzioni della guardia di finanza. Ci sono i vertici di Autostrade e di Spea, la controllata del gruppo Atlantia che si occupa di sorveglianza e manutenzione delle infrastrutture, ma anche nomi del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Al momento nessuno risulta indagato, anche perché la magistratura dovrà individuare i reati eventualmente da contestare: si va dall'abuso di ufficio all'omicidio plurimo colposo, al disastro colposo o all'attentato colposo alla sicurezza dei trasporti. Tutti i nomi - Nella lista della finanza ci sono dirigenti, funzionari, manager e tecnici. Tutti quelli che in questi anni, tra documenti, mail e comunicazioni rintracciate, sono stati messi al corrente della situazione sul viadotto della A10. Tra i nomi più importanti, scrivono Corriere e Repubblica, ci sono quelli dell'a.d. di Autostrade, Giovanni Castellucci, del presidente, Fabio Cerchiai, del direttore centrale operativo, Paolo Berti, del responsabile delle opere di manutenzione, Michele Donferri Mittelli, e di Paolo Strazzullo, responsabile del procedimento di retrofitting previsto per rinforzare la struttura. Tra i dirigenti del Mit ci sono Vincenzo Cinelli, direttore generale della Vigilanza, Bruno Santoro, capo della Divisione tecnico-operativa della rete autostradale, e Giovanni Proietti, responsabile della Divisione analisi e investimenti. C'è anche chi in Spea ha dovuto gestire la situazione del ponte Morandi: l'amministratore delegato Antonino Galatà, il responsabile del progetto di retrofitting, Massimiliano Giacobbi, e il capo del piano sicurezza Massimo Bazzanelli. A livello locale ci sono il provveditore interregionale per le opere pubbliche, Roberto Ferrazza, con i suoi due sottoposti, Alessandro Pentimalli e Salvatore Buonaccorso, e Carmine Testa, responsabile dell'articolazione locale della Direzione di vigilanza.

Cesare Giuzzi e Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2018. La Guardia di Finanza ha consegnato in Procura la sua lista: una trentina di nomi. Si tratta di dirigenti, funzionari, manager e tecnici che si sono occupati a vario titolo del ponte Morandi negli ultimi sei anni. Da quando, cioè, la vigilanza sulle concessionarie autostradali è stata trasferita dall' Anas al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dove nel 2012 è nata una specifica Direzione generale. Premessa, nessuno è ancora indagato e molti potrebbero non esserlo mai. Ma da questa lista la Procura di Genova conta di individuare i nomi di chi verrà iscritto con l'ipotetica accusa di omicidio plurimo colposo, di disastro colposo e di attentato colposo alla sicurezza dei trasporti, nell'ambito dell'inchiesta sul crollo di Ponte Morandi che il 14 agosto scorso fece 43 vittime.

Due i «ministeri» coinvolti: quello pubblico delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit), proprietario del Ponte Morandi; e quello privato, Autostrade per l'Italia del gruppo Atlantia controllato dalla famiglia Benetton, concessionario e gestore. Gli inquirenti si sono concentrati soprattutto sull' intervento di rinforzo strutturale del viadotto Polcevera, tecnicamente retrofitting, che avrebbe dovuto potenziare i tiranti di sostegno del ponte, vecchi di mezzo secolo. Un progetto che nasce nel 2014 e che ha visto un'improvvisa accelerazione nell' autunno del 2017, arricchito da un paio di studi esterni, senza però mai essere realizzato, visto che il ponte è crollato prima e forse proprio per il cedimento di un tirante. Nella lista della Finanza ci sono nomi del presente e del passato. Fra i più importanti della galassia Autostrade quelli dell'ad Giovanni Castellucci, del presidente Fabio Cerchiai, del direttore centrale operativo Paolo Berti, del responsabile delle opere di manutenzione Michele Donferri Mitelli e dell'ingegner Paolo Strazzullo, responsabile del Procedimento di retrofitting. A livello locale, il responsabile del Tronco autostradale di Genova Stefano Marigliani e il suo predecessore Riccardo Rigacci. E poi ci sono quelli di Spea, la controllata del gruppo Atlantia che ha fatto il progetto. Qui spicca l'ex ministro dei Lavori pubblici Paolo Costa, presidente della società. Con lui l'ad Antonino Galatà, il direttore tecnico Massimiliano Giacobbi e il suo collega Emanuele De Angelis che firmarono il progetto, mentre l'ingegner Massimo Bazzarelli sottoscrisse il Piano di sicurezza. A livello ministeriale, Vincenzo Cinelli, il direttore generale della vigilanza del Mit che l'11 giugno scorso ha dato l'ok al progetto. Con lui il suo predecessore Mauro Coletta e i responsabili di divisione Bruno Santoro e Giovanni Proietti. Per Genova il personaggio più in vista è il Provveditore interregionale per le opere pubbliche Roberto Ferrazza. Segnalati anche i suoi sottoposti Alessandro Pentimalli e Salvatore Buonaccorso, entrambi presenti alla riunione dello stesso Comitato tecnico. Infine Carmine Testa, responsabile dell'articolazione locale della Direzione di vigilanza. Fra un nome e l'altro c'è spazio anche per un giallo. È legato alla notte tra il 14 e il 15 agosto. Poche ore dopo il crollo del Ponte Morandi, mentre ancora i soccorritori scavavano a mani nude, i vertici di Autostrade hanno contattato i responsabili del centro di ricerca Cesi di Milano per chiedere la relazione realizzata tra ottobre e novembre 2015 sul ponte Morandi. Gli inquirenti stanno cercando di capire per quale ragione, a meno di 24 ore dal crollo, l'attenzione del gestore autostradale si era concentrata sullo studio eseguito due anni prima e che già aveva rilevato la necessità di «ulteriori analisi e approfondimenti». Da Autostrade, intanto, arrivano chiarimenti sulla questione dei «sensori» di controllo che erano stati consigliati dagli esperti del Politecnico di Milano: «La raccomandazione fu accolta dal progettista di Spea che inserì il sistema di controllo suggerito nel progetto - spiega Autostrade -. Nessuno ravvisò, analogamente al progettista, elementi di urgenza». E nessun campanello d' allarme venne rilevato anche dalla Direzione di Tronco guidata da Marigliani: «Né dalla sorveglianza né dalle strutture che si occupavano del progetto di retrofitting, che avendo potuto esaminare i documenti poi inseriti nel progetto non hanno ritenuto di rilevare alcun elemento da porre alla mia attenzione».

 Ponte Morandi, ispezioni su stralli erano fallite: Ministero ha approvato un progetto incompleto. Il rapporto shock degli ingegneri di Spea-Autostrade: «I valori misurati non permettono nemmeno una fantasiosa interpretazione». Ma la Direzione della vigilanza accettò l'omissione dei primi due livelli di studio. E sull'Espresso in edicola da domenica 23 l'inchiesta "Il crollo dei tecnici" sulle gravi responsabilità dei professionisti, scrive Fabrizio Gatti il 21 settembre 2018 su "L'Espresso". Le foto shock del ponte Morandi di Genova prima del crollo non erano superate, come invece sostiene la società di gestione Autostrade per l'Italia. E non lo sono tuttora. Quelle immagini, oltre a rivelare le condizioni del degrado che ha portato al disastro e ha ucciso quarantatré persone, dimostrano che il ministero delle Infrastrutture ha approvato alla cieca il progetto presentato dalla concessionaria: senza cioè conoscere le reali condizioni di conservazione del calcestruzzo degli stralli, le bretelle a cui era appeso il viadotto. Non lo potevano sapere per una ragione: le indagini diagnostiche, fondamentali per misurare il livello attuale di precompressione del cemento armato e il grado di intervento necessario, erano miseramente fallite nell'ottobre 2015 e non sono state ripetute. Dopo notti trascorse sotto la pioggia aggrappati ai montacarichi a estrarre “carote” di calcestruzzo dalla struttura gli ingegneri di Spea, lo studio di progettazione collegato ad Autostrade, ammettono con 41 pagine di rapporto che su cinque prove ne hanno praticamente fallite quattro e una ha dato risultati contrari alle attese. È andata male anche per colpa del maltempo e dell'umidità: per questi carotaggi hanno scelto il periodo tra il 12 e il 30 ottobre 2015. Nessuno ha evidentemente pensato di consultare le previsioni meteo o di programmare l'ispezione durante la bella stagione. Il percorso seguito dal progetto di manutenzione del ponte sul torrente Polcevera, reso ora inutile dal crollo del 14 agosto, è la spina dorsale dell'inchiesta della Procura: approssimazioni e sviste rivelano non solo errori colposi, ma anche il sospetto che qualcuno fosse consapevole che non c'era più tempo da perdere. A pagina 28 della relazione generale presentata da Autostrade al ministero, una nota spiega che al progetto esecutivo mancavano ancora informazioni essenziali: «Dovrà essere realizzato un rilievo delle armature di precompressione prima di effettuare le lavorazioni interferenti con le stesse», scrivono Emanuele De Angelis e Massimiliano Giacobbi, gli ingegneri di Spea che firmano il documento. E aggiungono: «Prima di posizionare i blocchi di ancoraggio, valutare lo stato di conservazione dei calcestruzzi». Al di là della riduzione per corrosione del 20 per cento dei cavi rilevata dalle indagini riflettometriche (misurando la resistenza al passaggio della corrente elettrica), al di là dei calcoli teorici, De Angelis e Giacobbi avvertono con questa nota di non avere dati per determinare il vero stato di salute di parti essenziali del ponte: come le altissime antenne di cemento armato a cui dovranno ancorare i nuovi tiranti. E quindi se non lo sanno i progettisti, nemmeno al ministero possono garantire il successo dell'intervento di “retrofitting”: cioè il potenziamento delle prestazioni di carico che, senza la conoscenza di dettagli fondamentali, potrebbe anche non migliorare ma peggiorare le condizioni del viadotto. Allora perché approvano il progetto così com'è? Senza prescrivere quelle necessarie precauzioni che, vietando il transito ai mezzi pesanti, avrebbero forse evitato il disastro. Quando si arriva alla fase esecutiva della progettazione, quelle informazioni dovrebbero essere già acquisite ed elaborate. Lo stabilisce la legge, con l'articolo 33 del Decreto del presidente della Repubblica 207 del 2010: «Il progetto esecutivo costituisce la ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni e... definisce compiutamente e in ogni particolare architettonico, strutturale e impiantistico l'intervento da realizzare». Inoltre: «Il progetto (esecutivo) è redatto nel pieno rispetto del progetto definitivo». E poi l'articolo 29: «I calcoli delle strutture e degli impianti (del progetto definitivo) devono consentire di determinare tutti gli elementi dimensionali, dimostrandone la piena compatibilità con l'aspetto architettonico e impiantistico e... con tutti gli altri aspetti del progetto... a un livello di definizione tale che nella successiva progettazione esecutiva non si abbiano significative differenze tecniche e di costo». E l'articolo 37: «I calcoli esecutivi degli impianti sono eseguiti con riferimento alle condizioni di esercizio o alle fasi costruttive qualora più gravose delle condizioni di esercizio...». Ma senza informazioni aggiornate sullo stato di conservazione del calcestruzzo, quali condizioni reali di esercizio del ponte hanno calcolato? Stando al verbale del comitato tecnico amministrativo del Provveditorato di Genova, non lo chiedono né i quattro relatori, né il presidente-provveditore Roberto Ferrazza quando il primo febbraio si riuniscono e approvano l'intervento. Si scopre oggi, ed è la seconda novità clamorosa, che il progetto definitivo non è mai stato consegnato al ministero. I livelli di progettazione stabiliti dalla legge sono infatti tre: fattibilità, definitivo, esecutivo. Società Autostrade però decide di passare subito alla terza fase, riducendo così i tempi di studio e di riflessione sulle soluzioni proposte. Se, come dichiarano, nessuno si era reso conto del pericolo di crollo, perché tanta fretta per un intervento così complicato? La decisione viene comunicata il 15 dicembre 2017 al provveditore Ferrazza da Vincenzo Cinelli, capo al ministero della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali. Nella raccomandata con cui viene trasmesso il progetto da Roma e Genova, Cinelli conclude così: «Si vuole significare che la redazione del progetto definitivo non è stata eseguita in ordine all'articolo 23, comma 4, del decreto legislativo numero 50/2016». È il codice degli appalti. E quel comma stabilisce che «è consentita l'omissione di uno o di entrambi i primi due livelli di progettazione, purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso, salvaguardando la qualità della progettazione». Elementi che, come abbiamo visto, sono carenti. A questo punto, avendo già saltato le fasi di fattibilità e definitiva pur trattandosi di un ponte molto delicato, tocca a Ferrazza nominare relatori preparati: saranno loro a discutere il progetto esecutivo di fronte al comitato tecnico del Provveditorato a Genova. Invece Ferrazza scarta i dirigenti: qualcuno in città sostiene che i vertici ministeriali volessero tenersi liberi da incompatibilità per ottenere consulenze da Autostrade nei futuri collaudi del viadotto. Vengono così incaricati due semplici funzionari che i ponti li conoscono più come automobilisti: Giuseppe Sisca è un ingegnere della motorizzazione che insegna nelle scuole guida, Salvatore Buonaccorso si occupa di certificazione di imprese. Il terzo relatore scelto come esperto esterno è Mario Servetto, ingegnere ed ex assessore a Recco in provincia. Antonio Brencich, professore associato del Dipartimento di ingegneria di Genova, non appare nell'atto di nomina. Viene aggiunto dopo. Chi l'ha proposto? Convocato dalla Procura tra i primi venti indagati, Brencich ha scelto di non rispondere alle domande dei magistrati. Eppure che quel progetto non possa pienamente definirsi “esecutivo” è scritto nell'allegato C della relazione generale, allegato intitolato: «Indagini diagnostiche sugli stralli di pila 9 e pila 10». Quello che il 14 agosto ha ucciso uomini, donne, bambini e intere famiglie in viaggio per le vacanze, è proprio il pilone numero 9. La precompressione nel calcestruzzo, ottenuta grazie ai cavi di acciaio che attraversano la struttura da parte a parte, è fondamentale per aumentare la resistenza ai carichi. Se i tiranti interni si allentano o si spezzano per la corrosione, la trave di cemento armato si flette, diventa più fragile e cede. Per questo nell'ottobre 2015 i tecnici di Spea salgono sul ponte Morandi: «Al fine di valutare sia le condizioni di conservazione quanto le caratteristiche meccaniche del calcestruzzo e delle armature, lente e di precompressione, sia lo stato tensionale degli stralli dei sistemi bilanciati di pila 9 e 10». Dice così la pagina 4 del loro rapporto, datato gennaio 2016. E così loro speravano. Ma le conclusioni sono surreali. «Durante la prova c'era pioggia intermittente che ha ostacolato notevolmente le attività di installazione e di lettura degli estensimetri», annotano Alessandro Costa, Leonardo Veronesi, Maurizio Ceneri con l'approvazione di Giampaolo Nebbia, direttore tecnico di Spea. In quel momento sono sulla pila 10, lato mare: «È poi stato necessario staccare i fili dai connettori e proteggerli all'interno della superficie di carotaggio... Il comportamento rilevato dal sistema di misura estensimetrico è anomalo e non interpretabile... probabilmente non si è incollato perfettamente a causa della superficie umida del calcestruzzo per la pioggia, sia per le saldature dei cablaggi dei fili bagnati... Si sottolinea inoltre che una condizione necessaria per aumentare la probabilità di riuscita della prova di liberazione delle tensioni sarebbe non staccare i fili dal sistema...» che però, scrivono loro, in tutte le prove vengono staccati. Finisce così, pagine 35 e 36 del rapporto, su carta intestata Spea-Autostrade. Prima prova, pila 10, lato mare, lato Savona: «Non è riuscita, infatti si sono ottenuti risultati non interpretabili». Seconda prova, pila 10, lato monte, lato Genova: «I valori misurati non sono attendibili, in quanto presentano delle variazioni decisamente eccessive... che non ne permettono nemmeno una fantasiosa interpretazione». Terza prova, pila 10, lato monte, lato Savona: «È quella apparentemente meglio riuscita, anche se i valori misurati dai due estensimetri sono discordi (uno è positivo e uno è negativo)... per poi essere concordi la mattina seguente». Ma qui lo strallo anziché essere compresso sembra in trazione: «È sottoposto, almeno superficialmente, a una tensione di trazione, infatti... dopo il carotaggio gli estensimetri hanno misurato un accorciamento della superficie». Poi ecco la quarta prova, pila 9, quella crollata, lato mare, lato Savona: «I valori misurati dai due estensimetri sono discordi, uno è positivo e uno è negativo» nella notte, «per essere concordi, entrambi con segno negativo, la mattina seguente». E la quinta prova, pila 9 lato mare, questa volta lungo lo strallo rivolto a Genova: «I valori misurati non sono attendibili». Proprio quei due, gli stralli della pila 9 lato mare, sono forse i primi a rompersi, dopo il probabile sfondamento di una trave al passaggio di un Tir da 44 tonnellate, carico di acciaio destinato all'Ilva di Novi Ligure. Si salvano solo le prove di “pull-out”, di estrazione, «eseguite per stimare la resistenza a compressione del calcestruzzo». Ma vengono bocciate dal comitato tecnico amministrativo del provveditore Ferrazza: «Nella letteratura scientifica è documentato che determinati tasselli per pull-out... potrebbero portare a sovrastime anche del 100 per cento della resistenza del calcestruzzo», è scritto nel verbale. Ma le osservazioni si fermano lì. Nessuno nell'organo territoriale di controllo del ministero nota le carenze del progetto esecutivo e delle indagini che lo compongono. I progettisti spiegano che bisogna rinforzare la campata E11 tra la pila 9 e la pila 10, proprio quella che forse è caduta per prima al passaggio del Tir da 44 tonnellate. Da nessuna parte però si descrivono i lavori straordinari fatti su quelle stesse travi tra il 2014 e il 2016. E affidati da Autostrade alla Soteco di Aulla in Toscana, una Srl di due geometri e 25 dipendenti che come principale attività non promuovono il potenziamento di viadotti ma l'installazione di barriere antirumore e rivestimenti di gallerie. No, nessuno nel comitato ha altro da dire. Progetto approvato. Passano sei mesi prima del crollo. Ponte Morandi sta per morire e loro, quel giorno a Genova, pensavano ai tasselli.

Ponte Morandi, le foto shock prima del crollo: travi rotte e cavi ridotti del 75 per cento. L'Espresso pubblica in esclusiva le immagini riprese da società Autostrade tra il 2011 e il 2016 che già allora rivelavano il rischio di cedimenti della struttura. Messe a disposizione del ministero delle Infrastrutture dieci mesi fa, sono state ignorate, scrive Fabrizio Gatti il 13 settembre 2018 su "L'Espresso". L'anima del ponte Morandi di Genova alle 11.35 di un mese fa, un minuto dal crollo del 14 agosto, è già da anni un ammasso di ruggine e corrosione. Lo dimostrano le fotografie che L'Espresso ha trovato e che qui pubblichiamo in esclusiva: possiamo finalmente guardare dentro il viadotto prima del disastro. Eccolo come appare sotto la copertura di cemento dove alcuni dei cavi dei tiranti esaminati erano addirittura liberi di muoversi, con perdita della loro capacità di carico tra il 50 e il 75 per cento. Ma fino a quella mattina le travi di sostegno del piano autostradale stanno perfino peggio degli stralli, le famose strutture diagonali di calcestruzzo e acciaio inventate da Riccardo Morandi alle quali ogni anno era appesa la vita di milioni di persone. Un'ispezione dell'agosto 2011 ripetuta con gli stessi risultati nel maggio 2013, senza però nessun intervento riparatore, conferma che la situazione tra la pila 9 crollata e la 10 ora pericolante è già allora spaventosa: tutti i ferri in vista, viene scritto sette anni fa e ripetuto due anni dopo, «sono risultati deformabili anche solo facendo leva con uno scalpello: si può quindi ritenere che non presentino più la tensione prevista e quindi siano da ritenere non efficaci». Quando la vigilia di Ferragosto Giancarlo Lorenzetto, 55 anni, passa con il suo carico di trecento quintali, un rotolo d'acciaio destinato all'Ilva per un peso complessivo con il suo Tir di circa quarantaquattro tonnellate, il crollo del ponte lo sorprende al volante. È lui probabilmente a innescare incolpevolmente il collasso e a cadere nel vuoto con la trave spezzata e tutto il piano autostradale. Lo si intuisce dalla sua testimonianza. Poi nel giro di alcuni secondi il contraccolpo butta giù i tiranti del pilone 9 e tutto il resto, uccidendo quarantatré persone e lasciando incredibilmente illeso l'autista del camion. Lorenzetto passava di lì due volte al giorno, come tutti i suoi colleghi ignari del pericolo: perché dal 2011 nessuno, proprio nessuno nel ministero delle Infrastrutture e nella società Autostrade per l'Italia, ha preso in considerazione i rapporti tecnici da cui abbiamo preso queste fotografie. Rapporti puntualmente compilati dalla Spea, studio di ingegneria collegato all'azienda concessionaria e appartenente allo stesso gruppo della famiglia Benetton. Una totale mancanza di ispezione e controllo negli anni non si può più limitare alla presunta superficialità dimostrata da funzionari ed esperti locali del rango del provveditore alle Opere pubbliche, l'architetto Roberto Ferrazza, e del suo consulente, l'ingegner Antonio Brencich, professore del dipartimento di Ingegneria dell'Università di Genova. L'evidente incapacità nel gestire la complessità delle infrastrutture che lo Stato ha affidato ai privati chiama in causa le direttive impartite da almeno quattro ministri, dal 2011 a oggi: Corrado Passera, Maurizio Lupi, Graziano Delrio. E anche l'attuale Danilo Toninelli, che dopo aver infarcito la commissione d'inchiesta di tecnici in conflitto di interesse poi indagati (Ferrazza, Brencich e l'ingegnere del ministero Bruno Santoro), continua a sostenere che le sue direzioni generali non sapevano nulla del pericolo. Se non sapevano, è perché non hanno vigilato. Il decreto legislativo numero 35 del 2011, facilmente scaricabile dal sito del ministero di Toninelli, stabilisce infatti gli obblighi per i “controlli della sicurezza stradale sui progetti” (capitolo 3 delle linee guida) e per le “ispezioni di sicurezza sulle infrastrutture stradali” (capitolo 4). La legge pone così controlli e ispezioni sotto la responsabilità della “Direzione generale per le strade e le autostrade e per la vigilanza e le sicurezza nelle infrastrutture stradali” del ministero delle Infrastrutture, ufficio che finora non è mai stato chiamato in causa. E che non sembra aver esercitato i suoi doveri di sorveglianza e prevenzione, visto che il viadotto è crollato con il traffico tranquillamente aperto anche ai carichi pesanti. La Procura di Genova ha finora indagato il direttore della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali, Vincenzo Cinelli, che è il capo di un altro ufficio. Ma nei prossimi giorni potrebbe convocare, almeno come testimoni, i dirigenti che oltre a Cinelli hanno guidato dal 2011 a oggi proprio la Direzione generale che avrebbe dovuto garantire la vigilanza e la sicurezza nelle infrastrutture, quella cioè che avrebbe dovuto predisporre di routine i programmi di ispezione. I nomi sono noti: dall'attuale Maria Lucia Conti all'allora direttrice Barbara Marinali, immessa in ruolo per errore senza concorso dal ministro Renato Brunetta, in violazione dell'articolo 97 della Costituzione, e poi entrata nelle simpatie professionali del ministro Lupi, che l'ha sponsorizzata nel passaggio all'Autorità di regolazione dei trasporti, dove si trova tuttora. Al ministero delle Infrastrutture, dove rientrerà a fine mandato, Marinali dal 2009 al 2013 è proprio la responsabile dei «programmi di adeguamento e messa in sicurezza delle infrastrutture di viabilità di interesse statale», nonché del «monitoraggio sull'attuazione degli interventi previsti nelle convenzioni autostradali», come stabilito nel decreto di incarico firmato dal ministro Brunetta. Il ponte Morandi non dovrebbe essere sconosciuto. Come ripetono molti docenti universitari, il viadotto sta alle infrastrutture italiane come la Gioconda sta alla pittura. Dal 2011 al 2018 è un tempo immenso. L'insieme di queste fotografie e dei rapporti che le contengono è ovviamente noto agli uffici operativi di società Autostrade, a cominciare dal direttore delle manutenzioni, Michele Donferri Mitelli, e della collegata Spea Ingegneria Europea, con il direttore tecnico Giampaolo Nebbia. Ed è difficile credere che gli ingegneri dell'azienda non abbiano informato il vertice amministrativo delle società, visto che il consiglio di amministrazione ha poi autorizzato la spesa di ventisei milioni per il rinforzo del ponte. Ma le stesse fotografie e gli stessi rapporti restano per mesi anche a disposizione degli uffici del ministero delle Infrastrutture: almeno da novembre 2017 a oggi. Le devono sicuramente aver ricevute sia il comitato tecnico amministrativo presieduto dal provveditore Ferrazza, con i relatori del progetto Antonio Brencich, Mario Servetto, Salvatore Buonaccorso e Giuseppe Sisca, sia la Direzione generale per la vigilanza di Cinelli e Santoro. Foto e rapporti fanno parte delle oltre cinquecento pagine di analisi, allegate al progetto esecutivo per il rifacimento del viadotto che il comitato del provveditorato e la direzione di Cinelli hanno approvato. Il codice penale stabilisce che non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo (articolo 40). Vedere queste immagini, leggere questi rapporti e pensare che il ponte non possa crollare è davvero incredibile. Entriamo nei dettagli. Cominciamo dalle “Indagini diagnostiche sugli stralli di pila 9 e pila 10”, i tiranti di calcestruzzo e acciaio che sorreggono parte dell'autostrada in quel tratto. La verifica, eseguita a ottobre 2015 e consegnata a gennaio 2016, è firmata dai tecnici di Spea Alessandro Costa, Leonardo Veronesi, Maurizio Ceneri con l'approvazione del direttore tecnico Giampaolo Nebbia. Sui cinque punti scelti a campione - tre punti su due dei tiranti del pilone 10 e gli altri due su due tiranti del pilone 9 - il risultato è drammatico: uno dei cavi che dovrebbe garantire la precompressione del calcestruzzo e la solidità della struttura rivela una perdita della capacità di carico del 75 per cento, altri due cavi del 50 per cento e uno non si trova dove dovrebbe essere. Solo in un caso, sulla pila 10 lato Savona-lato mare, alla fine del carotaggio nella copertura di calcestruzzo per arrivare ai cavi sottostanti, i tecnici possono scrivere che «sono stati visti due dei quattro trefoli che sono apparsi tesati»: il trefolo è l'elemento costitutivo delle corde ma anche dei cavi d'acciaio, formato da fili ritorti, che solo qui sono quindi tesi come dovrebbero essere. Sulla stessa pila 10, lato Savona-lato monte, non trovano invece nessun “cavo di precompressione” nei primi diciotto centimetri di perforazione. E concludono: «Questo fa presupporre che in alcuni casi la disposizione dei cavi possa non corrispondere esattamente a quella ipotizzata in progetto». Il resto è il sintomo di un'agonia strutturale. Pila 10, strallo lato Genova-lato Mare, il pilone che tuttora incombe sul quartiere sottostante. Scrivono che la guaina protettiva è ossidata all'interno, l'iniezione di malta protettiva è assente. E che «sono stati visti due dei quattro trefoli che si muovono con facilità facendo leva con uno scalpello». Significa che da qualche parte sono rotti o sganciati e danno così il cinquanta per cento di capacità di carico in meno. Il 28 e il 29 ottobre 2015 i tecnici di Spea esaminano la pila 9, oggi crollata, lungo lo strallo lato Savona-lato mare: «La guaina è apparsa ossidata, l'iniezione è assente, sono stati visti tre dei quattro trefoli che si muovono con facilità facendo leva con uno scalpello». Su questo cavo siamo dunque a meno settantacinque per cento di capacità di carico. L'ultimo carotaggio è sempre sulla pila 9, strallo lato Genova-lato mare: «La guaina è apparsa fortemente ossidata, l'iniezione di malta è assente, sono stati visti due dei quattro trefoli che si muovono con facilità facendo leva con uno scalpello». Un altro cavo rotto o sganciato con il conseguente cinquanta per cento di capacità in meno. I tiranti nel ponte non sono soltanto questi esaminati. Ogni ramo del braccio sospeso di calcestruzzo è tenuto in compressione da 8 cavi con 16 trefoli, 4 cavi da 12 trefoli per l'armatura primaria e da 14 cavi da 4 trefoli per l'armatura secondaria, che è quella raggiunta dal carotaggio. Ma quattro risultati estremamente negativi su cinque dovrebbero spingere a qualche prudenza. Invece gli ingegneri che lavorano per la società Autostrade per l'Italia non sembrano particolarmente allarmati. Nemmeno quando mettono questi risultati in relazione con gli esiti della “Sorveglianza riflettometrica dei cavi di precompressione degli stralli” delle pile 9 e 10 lato mare. Data del rapporto: settembre 2015. La scansione degli eventi per il pilone numero 9 rivela che la corrosione si sta inesorabilmente impossessando dell'anima d'acciaio del ponte: «2006: peggioramento delle anomalie di corrosione con comparsa di anomalie di livello 3 su tutti i cavi e di anomalie di livello 4 su ulteriori quattro cavi, oltre i tre già segnalati nel 2003. 2008: lieve incremento delle anomalie di corrosione, con transizione dal livello 2 al livello 3 e comparsa di anomalie di livello 4 su ulteriori cinque cavi oltre i dodici già segnalati». La scala dei livelli va da 1 a 5. Livello 3 significa: «Corrosione diffusa con presenza di croste superficiali. Anomalia media, con una discreta riduzione della sezione utile dell'elemento». Livello 4: «Corrosione diffusa con presenza di croste superficiali. Riduzione rilevante della sezione utile dell'elemento». I cavi così malridotti nel 2015 sul pilone 9 sono quindi diciassette. I successivi test del 21-22 febbraio 2017 concludono però che «le anomalie di corrosione di livello 3 e 4 sono generalmente stabili». E tanto basta per lasciare tutti tranquilli. Nessuno nel frattempo sembra pensare al rischio di cedimento delle travi di calcestruzzo precompresso che sono la spina dorsale del piano autostradale su cui corrono auto e camion. Uno studio di Spea dell'agosto 2011 e ripetuto nel maggio 2013, entrambi approvati dall'ingegner Nebbia, dimostra però che gli stralli del ponte sono messi perfino meglio. I tecnici esaminano le travi del bordo esterno. Di solito, su tutte le infrastrutture a doppia corsia, sono le più deteriorate perché corrispondono alla corsia di marcia più lenta su cui si accodano i Tir. Ecco la descrizione nel 2013 dell'elemento che unisce la pila 9 crollata alla pila 10: «Nel 2011 la trave di bordo lato mare presentava un distacco tra l'anima e il ripristino del bulbo inferiore con ampiezza di circa 5 millimetri che si estendeva per diversi metri con una profondità misurata di circa 10 centimetri sulla parete esterna». Ed ecco i cavi che, come negli stralli, dovrebbero garantire la precompressione del cemento armato: «Il cavo più alto appariva senza iniezione. In ogni cavo sono stati osservati almeno quattro fili rotti. Nella sezione a circa 6 metri dall'appoggio lato Savona è stato nuovamente intercettato il cavo più alto, che si trovava in analogo stato di conservazione. Tutti i fili esaminati risultarono deformabili anche solo facendo leva con uno scalpello e si poté quindi ritenere che fossero non efficaci». Questo nel 2011. Ma nel 2013 cosa fanno? Niente: «Nel corso delle indagini attuali», scrivono, «non è stato possibile ripetere l'esame dei cavi in quanto la zona è stata protetta con una rete, posta in opera alla fine di evitare la caduta di materiale». Non hanno tagliato la rete e sono andati via. Fanno anche passare onde a ultrasuoni nel calcestruzzo della sezione. Risultato: «Gli unici valori di velocità ultrasonica apparente che è stato possibile misurare sia nel 2011 che nel 2013 sono generalmente compresi tra circa 1.500 metri al secondo e circa 200 metri al secondo. In tutti gli altri punti non si è riusciti a misurare alcuna velocità perché il segnale non riusciva ad attraversare il materiale. Inoltre i valori misurati sono risultati molto bassi e indicano anche in questi punti una discontinuità nel materiale... Con velocità ultrasoniche così basse non è nemmeno possibile stimare la resistenza meccanica del calcestruzzo». In altre parti solide del ponte le onde viaggiano a una velocità sopra i 4.000 metri al secondo: “discontinuità nel materiale” può anche essere tranquillamente tradotto con “ampie fessurazione”, o meglio, “crepe”. Anche l'elemento E17, il pezzo di autostrada finito conficcato come una freccia nel torrente Polcevera, è messo molto male già nel 2013: «La trave di bordo lato mare presenta alcuni distacchi capillari tra il bulbo e l'anima e alcune lesioni sull'anima della trave con calcestruzzo risonante». Viene scoperto il cavo di precompressione che dovrebbe garantire alte prestazioni al calcestruzzo: «Nel cavo esaminato la guaina è risultata fortemente ossidata, l'iniezione di malta presente ma degradata. Sono stati esaminati quattro fili, due dei quali sono apparsi rotti e gli altri due fortemente ossidati e corrosi». Due anni dopo tornano da quelle parti con nuove “misure riflettometriche” negli “impalcati semplicemente appoggiati” che sorreggono l'autostrada. Alle apparecchiature le armature di precompressione restituiscono i segnali di un corpo sempre più spento. Aumentano le corrosioni di livello 3 e 4. Con riduzione delle sezioni dei cavi del venti per cento, del ventitré. Addirittura del trenta e del trentacinque per cento spostandosi verso Savona e verso Genova. Sono i giorni tra il 30 marzo e il 2 aprile 2015. Il ponte ormai marcio potrebbe crollare in qualunque suo punto. Ma passano altri tre anni di silenzi. Mentre Autostrade per l'Italia incassa miliardi con i pedaggi. E le direzioni generali del ministero delle Infrastrutture dormono indisturbate.

Genova, Autostrade ha dato 45mila euro ai colleghi del professore che approvò il progetto. Un mese prima del crollo, una consulenza per la società di gestione è stata assegnata a un docente dell'Università di Genova che ha firmato studi e ricerche con Antonio Brencich, ora tra gli indagati per il disastro di Ponte Morandi, scrive Fabrizio Gatti il 12 settembre 2018 su "L'Espresso". Sul crollo del ponte Morandi e la morte di quarantatré persone si intrecciano nuove coincidenze che ora riguardano l'Università di Genova: il Dicca, il dipartimento di Ingegneria civile chimica e ambientale, dopo il via libera dato da un suo professore al progetto di Autostrade per l'Italia sul potenziamento del viadotto, ha ricevuto dalla stessa società un incarico di consulenza per quarantacinquemila euro. Due nomi legano questo ennesimo capitolo sui rapporti tra l'azienda privata e gli enti pubblici incaricati di eseguire i controlli: il professor Sergio Lagomarsino e il collega Antonio Brencich, tutti e due membri della giunta ai vertici del dipartimento di Ingegneria, appena un gradino sotto il direttore Giorgio Roth. Brencich da qualche giorno è tra i venti indagati per il crollo del 14 agosto. Lagomarsino è invece un semplice testimone. Ma è anche il compagno di lavoro di Brencich: insieme dal 1997 hanno firmato studi e pubblicazioni. Praticamente sono spesso partner nella ricerca scientifica. E sempre insieme hanno organizzato nel 2004 il convegno su “Ingegneria sismica in Italia”, con tanto di comitato d'onore: ne facevano parte Guido Bertolaso, Enzo Boschi, Michele Calvi e altri personaggi a quel tempo famosi nel Paese delle emergenze. L'inizio della storia lo conosciamo già. Il primo febbraio 2018 il professor Brencich, nonostante qualche perplessità, approva il piano di Autostrade per il rinforzo del viadotto vecchio di cinquant'anni: come docente universitario ed esperto in costruzioni in calcestruzzo precompresso, è tra i quattro relatori nominati dal ministero delle Infrastrutture nel comitato tecnico amministrativo che deve esaminare il progetto e per questo si ritrova adesso sotto inchiesta. Ma già a fine 2017 l'azienda concessionaria contatta il dipartimento di Ingegneria per proporre la consulenza, secondo la testimonianza di uno dei docenti, cioè prima che Brencich si pronunci. E il 13 luglio, un mese prima della strage e cinque mesi dopo il sì di Brencich, la stessa Università riceve dalla società di gestione dell'autostrada Genova-Savona e del ponte Morandi l'incarico da quarantacinquemila euro: lo studio viene assegnato ai professori Giovanni Solari e Sergio Lagomarsino, che proprio con Brencich condivide pubblicazioni e ricerche. La Procura di Genova si è soffermata in questi giorni sull'apparente necessità della direzione di Autostrade di ricontrollare l'intera relazione di calcolo del progetto: per questa ragione la società avrebbe firmato la convenzione con il dipartimento di Ingegneria di Genova. Ma l'ipotesi sarebbe smentita sia dalla prassi sia dagli affidatari dell'incarico: lo stesso Solari ha definito «insolita una consulenza del genere», che comunque ha accettato. Già il 3 maggio infatti Autostrade per l'Italia pubblica online il bando per la selezione delle imprese da invitare alla gara d'appalto. E l'11 giugno, con il governo di Giuseppe Conte insediato da appena dieci giorni, la Direzione ministeriale per la vigilanza sulle concessionarie invia alla società il decreto di autorizzazione dei lavori. L'iter è in ritardo di quasi cinque mesi sui novanta giorni previsti dalla legge. Rifare i calcoli significa rimettere in discussione tutto il procedimento già approvato. Non sembra essercene motivo. Al contrario il direttore delle manutenzioni di Autostrade, Michele Donferri Mitelli, sollecita il ministero per il ritardo. Spedisce cinque lettere tra febbraio e aprile 2018 con cui tra l'altro sottolinea «l'urgenza... per l'incremento di sicurezza necessario sul viadotto». Bisogna allora rileggere quello che i due professori del Dicca dichiarano a Giuseppe Filetto e Marco Preve in due articoli pubblicati da Repubblica. Il primo risale al 24 agosto. Quattro giorni prima L'Espresso scopre che proprio Antonio Brencich è tra i relatori e i firmatari del verbale che dà il via libera al progetto di Autostrade, senza prescrivere nessuna misura di sicurezza. E il 23 agosto Brencich si dimette dalla commissione d'inchiesta nominata dal ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, subito dopo il disastro. Solari ha ben presente il ruolo del collega nella vicenda: «Non avevo inserito, a malincuore, nel gruppo di lavoro il professor Brencich», dichiara infatti il 24 agosto, «che pur essendo un grande esperto aveva già espresso pareri sul viadotto e non volevo quindi si potesse creare una situazione di imbarazzo». Anche la fretta del direttore di Autostrade, Donferri Mitelli, nelle loro parole scompare: «Dobbiamo dire che non ci venne chiesta né particolare urgenza, né furono suggeriti particolari accertamenti mirati, ma di valutare l'intero progetto in tutte le sue parti», ammettono Lagomarsino e Solari, non indagati ma solo testimoni. Il 9 settembre si conoscono già i nomi dei primi venti tecnici sotto inchiesta. Nel frattempo il professor Solari si è già presentato in Procura per rendere spontanee dichiarazioni, sempre come testimone. Lo rivela lui stesso a Repubblica, specificando anche il tipo di incarico ricevuto dalla società: «Autostrade ci contattò a fine 2017», racconta. Una testimonianza non da poco, se confermata dalle indagini: perché significa che quando Antonio Brencich approva il progetto per conto del ministero delle Infrastrutture, Autostrade aveva già contattato il suo stesso dipartimento per offrire una consulenza poi valutata in quarantacinquemila euro. «Ma solo il 13 luglio firmammo il contratto», continua Solari: «Ci chiesero una nuova relazione di calcolo ma noi... abbiamo rifiutato quella parte. Il nostro compito era quindi di valutare il progetto nella sua interezza, fare assistenza alla fase di esecuzione ed eventualmente eseguire prove di laboratorio. Avremmo iniziato in questi giorni, con otto mesi di tempo e un compenso di quarantacinquemila euro». Otto mesi, senza più urgenza. «Effettivamente», conclude il professor Solari, «è insolita una consulenza del genere per un progetto esecutivo, ed è anche per questa ragione che mi sono presentato in Procura per rilasciare dichiarazioni spontanee». Così come è insolito il giudizio di Brencich nel corso dei mesi. Eccolo il 5 maggio 2016 a Primo Canale, la tv di Genova: «Il ponte Morandi è un fallimento dell'ingegneria», dichiara senza giri di parole, «e dovrà essere presto ricostruito perché i costi di manutenzione supereranno quelli di ricostruzione». E rieccolo il primo febbraio 2018, seduto nel comitato del ministero delle Infrastrutture mentre tutti insieme approvano senza urgenza il piano di manutenzione di Autostrade. Nonostante i progettisti della società descrivano «larghe lesioni verticali nei piloni» e una «riduzione d'area totale dei cavi dal dieci al venti per cento» nei tiranti che sorreggono il ponte. Il professore del dipartimento di Ingegneria dimentica ciò che ha detto nel 2016. Nei panni di relatore è critico con i metodi d'indagine scelti dalla società di gestione: perché «si rilevano alcuni aspetti discutibili per quanto riguarda la stima della resistenza del calcestruzzo». Ma alla fine firma ugualmente il verbale in cui si dichiara che «è risultato uno stato di conservazione degli stralli delle pile 9 e 10 discreto». Sì, discreto. Si guadagna così i complimenti del direttore manutenzioni di Autostrade, Donferri Mitelli, che in una lettera del 6 febbraio al provveditore delle Opere pubbliche, Roberto Ferrazza, scrive queste parole: «Vogliamo altresì segnalarvi il nostro compiacimento motivato dalla condivisione dell'impostazione progettuale dell'intervento da parte del vostro consulente prof. A. Bercich». Il cognome è storpiato, comunque è lui. Il crollo ha reso superflua la consulenza. E ora che il pilone 9 ha ammazzato 43 persone probabilmente per il cedimento degli stralli e il 10 minaccia di cadere su un intero quartiere, l'Università ha prontamente costituito il “Gruppo di lavoro ponte Morandi”. Nella squadra c'è ovviamente il Dicca, il dipartimento di Ingegneria di Genova. E a rappresentare il Dicca, c'è il compagno di lavoro di Antonio Brencich: ancora lui, il professor Lagomarsino.

Il cemento disarmato del ponte di Genova, scrive Giorgio Nebbia il 19.9.2018 su Il Manifesto. Il cemento come tale serve a poco, nelle costruzioni viene utilizzato sotto forma di calcestruzzo che si prepara miscelando il 10-15 % di cemento, il 15-20 % di acqua con circa il 60-75 % di sabbia e ghiaia (circa 10 miliardi di tonnellate di sabbia sono richieste ogni anno nel mondo dal settore delle costruzioni, come si legge in un’altra pagina di questo numero). Dopo la miscelazione degli ingredienti la massa di calcestruzzo deve essere tenuta in continua agitazione, anche durante il trasporto con speciali camion, le betoniere. Il calcestruzzo nel cantiere viene “gettato” in uno stampo di legno (cassaforma) della forma di colonne, piastre, eccetera, in cui si svolge la presa, la trasformazione della miscela in un materiale duro e resistente. Qualche volta interessa avere dei calcestruzzi che induriscono rapidamente, addirittura in poche ore, per esempio quelli che devono essere impiegati per opere sottomarine; normalmente la presa richiede qualche giorno. Nella seconda metà dell’Ottocento vari ingegneri scoprirono che gli edifici potevano essere più sicuri se costruiti gettando il calcestruzzo intorno a una rete di acciaio posta all’interno della cassaforma; si ottiene così il calcestruzzo armato. L’acciaio per calcestruzzo si ottiene per lo più in speciali acciaierie che partono dai rottami di ferro e li fondono nei forni elettrici: la corrente elettrica scorre fra gli elettrodi di grafite posti al disopra del rottame preriscaldato; l’arco elettrico che si forma fra gli elettrodi porta la massa del rottame a oltre 2000 gradi e fa fondere l’acciaio che, separato dalla scoria, fuoriesce dal forno e viene poi trasformato, per trattamenti successivi di laminazione a caldo, in fili e tondini del diametro voluto. Le norme prevedono decine di diversi acciai da calcestruzzo armato, ciascuno adatto allo speciale uso a cui è destinato nella costruzione; in genere si tratta di acciaio dolce, con circa lo 0,2 % di carbonio, al quale vengono addizionati altri elementi come manganese, silicio, eccetera in modo da formare leghe in grado di resistere alle sollecitazioni che l’acciaio subirà quando è incorporato nel calcestruzzo. Il calcestruzzo armato, soprattutto nelle struttura all’aperto come ponti e strade, è esposto a dilatazioni col caldo e contrazioni col freddo, alle pressioni dovute al traffico, alle infiltrazioni dell’acqua e del sale sparso come antigelo d’inverno, alla formazione del ghiaccio, eccetera, che comportano corrosione e ossidazione dell’acciaio, distacco dall’acciaio dal calcestruzzo e frantumazione del calcestruzzo. Per migliorare l’adesione dell’acciaio al calcestruzzo i tondini vengono fabbricati in modo da presentare sulla superficie delle nervature o zigrinature. Per aumentare la resistenza del calcestruzzo armato il manufatto, prima o durante la messa in opera, viene sottoposto a trattamenti di compressione; si ottiene così il calcestruzzo armato precompresso. Col passare del tempo comunque le strutture di calcestruzzo armato si modificano e ne diminuisce la resistenza e richiedono interventi di manutenzione. Per questo motivo nella costruzione dei ponti sempre più spesso al posto del calcestruzzo armato si usa acciaio il cui costo di costruzione è maggiore ma che richiede minori costi di manutenzione. Nei ponti e viadotti e nelle autostrade, le lunghe carreggiate sono divise in tratti fra ciascuno dei quali vengono posti degli speciali giunti elastici per compensare le dilatazioni che si hanno per esposizione al calore estivo. Quando vedete i negozi pieni o andate in vacanza, pensate per un momento alle migliaia di lavoratori che sono stati impegnati nella progettazione, nelle cave di sabbia e argilla, nei cementifici, nelle acciaierie, nei cantieri, alla fatica, al dolore, talvolta alla morte che sono costate le strade e i ponti indispensabili per il movimento delle merci e delle persone.

Genova, ponte Morandi: un mese dopo crollo. Installati sensori, Gdf a pm lista con altri nomi. Genova, un mese fa il crollo del ponte Morandi: commemorazioni e ultime notizie. Alle 11.36 la città si spezzò in due: 43 morti, il dramma degli sfollati, scrive il 15 settembre 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario".

Sono cominciate le operazioni di installazione dei sensori che dovranno sorvegliare i tronconi del ponte Morandi che rischiano di crollare. Con l'ausilio di una gru per poter operare restando lontano dal ponte ancora pericolante, i vigili del fuoco hanno raggiunto diversi punti della struttura e installato i sensori che forniranno le informazioni sulle condizioni del ponte ed eventuali vibrazioni in tempo reale. I tecnici potranno stabilire anche se e quando gli sfollati potranno rientrare nelle loro abitazioni per recuperare oggetti personali, di valore e ricordi di famiglia. Intanto la Guardia di Finanza ha consegnato ai pm di Genova una lista di 60 nomi che potrebbero essere coinvolti nell'inchiesta sul crollo. Ora i magistrati dovranno analizzare il documento e stabilire se iscrivere altre persone nel registro degli indagati, oltre alle 20 già presenti. Tra i nuovi nomi ci sarebbero dipendenti, tecnici dirigenti di Autostrade, del ministero dei Trasporti e di Spea, persone che a vario titolo erano a conoscenza delle condizioni del ponte. (agg. di Silvana Palazzo)

FELICITÀ GIANLUCA: DA VITTIMA DEL CROLLO A PAPÀ. E così succede che da una tragedia come quella del viadotto Morandi di Genova, che proprio ieri ha compiuto un mese di vita, possano nascere delle storie piacevoli, quasi delle favole. E’ quella che vede come protagonista Gianluca Ardini, ragazzo di 29 anni che quel giorno di un mese e un giorno fa, rimase incastrato fra le lamiere del suo furgone nei detriti del ponte. Giovedì scorso, poco prima della mezzanotte, Gianluca è diventato papà: «E' nato giovedì, due minuti prima della mezzanotte – le parole della vittima, intervistato dai microfoni del quotidiano LaRepubblica - Mi hanno avvisato per telefono: praticamente è come fossi stato lì». E’ ancora in ospedale Gianluca, ricoverato presso il San Martino di Genova con evidenti busti e tutori per sistemare le fratture, ma si sente un miracolato: «Non ho ancora visto mio figlio – dice - è una sofferenza essere distante dalla mia compagna. Ma potevo non esserci, quindi va bene così. Ora voglio una vita tranquilla». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

IL COMMENTO DI TOTI. Il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti incalza il governo all'indomani dell'annuncio del premier Giuseppe Conte della nomina del commissario straordinario alla ricostruzione del ponte di Genova tra una decina di giorni. «Non tollereremo più ritardi», ha dichiarato il governatore mentre vanno avanti i lavori per la messa in sicurezza dell'area sotto il ponte Morandi. «se i tempi per la ricostruzione del ponte Morandi non saranno quelli previsti da noi ne risponderanno davanti ai liguri e agli italiani», ha dichiarato su Facebook Toti. Il commissario per l'emergenza si aspetta entro settembre l'inizio della demolizione ed entro novembre l'apertura del cantiere. «Non tollereremo un'ora di ritardo, per nessuna ragione al mondo», ha ribadito il presidente della Regione Liguria. Ad un mese dal crollo sono state trovate le case per gli sfollati, mentre mercoledì Toti inaugurerà col sindaco Bucci la nuova strada a mare, realizzata in trenta giorni; si lavora anche per il montaggio dei sensori. «Grazie per la fiducia e l'affetto che ci avete dimostrato ieri nella nostra bellissima piazza», ha concluso Toti. (agg. di Silvana Palazzo).

COMMERCIANTI DI CERTOSA FRA LE VITTIME "NOI IN GINOCCHIO". Nella giornata di ieri Genova si è fermata. Alle 11:36 il capoluogo ligure ha ricordato il crollo del viadotto Morandi, a esattamente un mese da quei tragici eventi. La città si è unita ancora una volta, segno che quanto accaduto ha colpito tutti i genovesi, anche chi risiede lontano dalla zona rossa. Quella di ieri è stata anche una giornata per dare voce a quelle persone che hanno visto la loro vita cambiare dopo la caduta del Morandi. Oltre ai parenti delle vittime e agli sfollati, anche i commercianti del quartiere Certosa hanno provato a sfogarsi. Quella parte della città ligure risulta praticamente isolata dopo il crollo del Morandi, e i negozi ne stanno ovviamente risentendo. In quella zona vi sono in particolare attività storiche di Genova, quasi tutte a conduzione famigliare, come ad esempio la polleria e gastronomia Ivaldi di via San Bartolomeo: «Noi siamo aperti dal 1958, il negozio l’hanno aperto i miei genitori - spiega Domenico Ivaldi, il titolare, parlando a IlSecoloXIX - stiamo reagendo passivamente alla situazione. Dobbiamo accontentarci dei clienti rimasti in zona, perché siamo di fatto isolati e chi prima passava e si fermava per fare la spesa non può più farlo con l’istituzione della zona rossa. Abbiamo perso anche i clienti di via Porro e di via Fillak, che abitualmente venivano a comprare». (aggiornamento di Davide Giancristofaro).

GENOVA SI E' FERMATA. Ad un mese dal crollo del Ponte Morandi, oggi la città di Genova si è fermata per ricordare le 43 vittime della tragedia. Toccanti le lacrime sul palco in piazza De Ferrari di Tullio Solenghi che, soprattutto al momento della lettura dei nomi delle vittime più piccole ha fatto fatica ad andare avanti. Il sindaco Bucci ha inevitabilmente paragonato la tragedia di Genova al ground zero per New York, città che, come ribadito dallo stesso primo cittadino, è riuscita a rimettersi in piedi esattamente come riuscirà a fare anche Genova. Applausi in piazza anche per Toti, intervenuto con Bucci. A commuovere sono state poi le parole del premier Giuseppe Conte che, durante la commemorazione delle vittime ha reso noti i suoi pensieri. "Il mio primo pensiero lo voglio rivolgere al dolore che ancora soffre chi ha subito la perdita di affetti cari, all'ingiustizia di chi si è dovuto allontanare repentinamente dalla propria abitazione e dal proprio luogo, e a chi soffrirà i postumi di questa immane tragedia", ha detto. "Un secondo pensiero lo rivolgo a tutti coloro che hanno partecipato alla macchina dei soccorsi", ha poi aggiunto il presidente del Consiglio che si è detto testimone dei tempestivi interventi e del lavoro svolto notte e giorno. (Aggiornamento di Emanuela Longo).

TOTI: “ANDARE AVANTI OLTRE LE POLEMICHE”. Secondo il Governatore della Liguria e Commissario all’emergenza di Genova, la giornata di ricordo e commemorazione per la strage del Ponte Morandi deve aiutare a ristabilire nel più breve tempo possibile le esatte priorità dei prossimi mesi su Genova. «La giustizia è la prima cosa, sapere cosa è successo, cos’ha prodotto una cosa così. La procura sta facendo uno straordinario lavoro e l’aula di giustizia ci dirà cosa è successo», spiega davanti al ponte crollato il Presidente della Regione, non prima di sottolineare come «Non sarà la caduta di un ponte a piegare Genova, una città che ha voglia di tornare a correre nel più breve tempo possibile. Oggi in piazza De Ferrari, la piazza delle grandi adunate di quel popolo che ha saputo dire no ai terroristi quando fu ucciso Guido Rossa, ribadiremo a tutti questa volontà». In questo primo pomeriggio, davanti all’ennesima domanda dei cronisti sulle polemiche e tempi del Decreto Genova, Toti ha ribadito «Dobbiamo continuare ad andare avanti, al di là delle polemiche». 

BUCCI: “IL NOSTRO GROUND ZERO”. Il sindaco di Genova Marco Bucci ha commentato anche con i giornalisti dopo la commemorazione sotto il ponte Morandi, il livello di dolore e la necessità di rinascere sotto quel dramma: «Per noi genovesi il crollo del Morandi è stata una tragedia terribile. Come ground zero per New York, città che ha saputo uscire dal disastro molto bene. Noi vogliamo fare la stessa cosa. Genova non è in ginocchio. Oggi ricordiamo le vittime e pensiamo alla ricostruzione per uscire dalla tragedia con la città più forte e grande di prima». Molte le lacrime ma tante anche le polemiche, specie vicino a quella “zona rossa” che rappresenta ancora un monito su tutto quello che non ha funzionato attorno a quel drammatico ponte: il padre di una delle 43 vittime, Giuseppe Matti Altadonna (papà di Luigi, morto nel suo furgoncino sotto il viadotto) urla tutta la sua disperazione «Noi chiediamo solo la verità. Ci dicano perché è crollato quel ponte. Ce lo devono. Al momento non abbiamo ricevuto aiuti dallo Stato. E' passato un mese e abbiamo zero notizie e zero sostegni dalle istituzioni».  

MINUTO DI SILENZIO ALLE 11.36. Alle 11.36 un silenzio surreale si è alzato su Genova: ad un mese esatto dal crollo del ponte Morandi, l’intera città si è fermata con due unici “rumori” che sovrastavano su tutta la quotidianità di nuovo ferma, 30 giorni dopo il dramma. Prima le sirene del porto che “urlano”, quasi piangono davanti ad un dolore enorme che ancora non può essere “riempito” da polemiche, speranze e futuro; poi i 43 rintocchi delle campane, come quei volti che oggi non ci sono più e che sono rimasti sepolti sotto quel maledetto viadotto crollato ancora non si sa bene perché. Il sindaco di Genova Marco Bucci, in totale silenzio durante il lungo e “infinito” minuto di silenzio, ha commentato subito dopo con pochissime parole: “oggi è il nostro Ground Zero”. Impressionanti i video della gente comune da ogni luogo di Genova (e non solo, anche alla Camera hanno fermato i lavori alle 11.36 e in tanti altri luoghi di lavoro sparsi per l’Italia): li potete trovare a questo indirizzo, mentre qui sotto un lungo estratto di quei minuti intensi che la città ferita ha “ascoltato”, dalle sirene fino alle campane. 

GENOVA, UN MESE FA IL CROLLO DEL PONTE MORANDI. Erano le 11.36 quando il 14 agosto la città di Genova si “svegliò” spaccata a metà: il ponte Morandi cadde proprio in quel momento, il simbolo di una innovazione e tecnologia di 60 anni fa che permise alla Liguria collegamenti e commercio molto più che triplicati rispetto a prima, viene giù sotto una pioggia torrenziale. Il crollo ancora oggi, ad un mese dalla tragedia in cui persero la vita 43 persone, non ha una spiegazione chiara: le indagini sono ancora in corso e finora sono stati indagati in 20, tutti i responsabili delle società che hanno avuto a che fare col viadotto sopra il Polcevera (Autostrade per l’Italia, Spea fino al Ministero delle Infrastrutture), ma i reali motivi della caduta mancano ancora. Gli scontri politici, il caos sulle concessioni ad Aspi e poi la demolizione la ricostruzione, il nuovo ponte progettato da Renzo Piano fino al dramma degli sfollati (circa 300 famiglie) e le case nuove da ridistribuire entro l’autunno: sembra passata un’eternità e invece è “solo” un mese, dove però la vita a Genova è ancora “spezzata” e lo sguardo sul futuro tutt’altro che sereno. Oggi scattano le operazioni per mettere i sensori ai piloni rimasti in piedi, mentre il premier Conte nel pomeriggio incontrerà i vertici locali per presentare il Decreto Genova appena nato e già sommerso di polemiche e critiche (qui tutti i dettagli e le ultime notizie).

TOTI: “GENOVA SI RIALZERÀ”. In questi minuti è cominciata la cerimonia di commemorazione (qui le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella) cui partecipano fra gli altri il governatore della Liguria, Giovanni Toti, il sindaco Bucci, il prefetto Fiamma Spena e il vescovo Anselmi. Alle ore 17.30 invece, tutti i vertici locali incontreranno il premier Giuseppe Conte nella zona rossa, mentre alle 19 si conclude la giornata ad un mese dal crollo con la Santa Messa nella Cattedrale di San Lorenzo celebrata dall’Arcivescovo di Genova Card. Angelo Bagnasco. Arrivando nei pressi della zona rossa, il Governatore e Commissario all’emergenza Giovanni Toti ha scritto su Facebook «14 settembre, un mese esatto dal crollo del #pontemorandi. Oggi il pensiero di tutti noi è per le 43 vittime, per le loro famiglie, per i feriti, per i genovesi che hanno perso la loro casa. Oggi il pensiero di tutti noi è per Genova, che non dimentica, che non si arrende, che si rialzerà». Parlando invece ad Agorà su Rai3, il Ministro dei Trasporti Danilo Toninelli (accusato dall’amministrazione ligure di aver perso tempo e prodotto un Decreto senza minimamente consultare i vertici amministrativi di Genova, ndr) ha rilanciato «Il nome del nuovo commissario dovrà rappresentare l'intera Liguria e dovrà dare a Genova entro il 2019 un risultato che io penso abbia dello straordinario, cioè un nuovo ponte che ricollega Genova e tutta l'Italia. Faremo l'impossibile per ricostruire il ponte entro il 2019».

Prescrizione: tu quoque, Lilli Gruber…, scrive Piero Sansonetti il 31 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La polemica. Persino Lilli Gruber, che pure è una giornalista molto esperta, intelligente e di ottima cultura, ieri non ha resistito alla tentazione di gettarsi, lancia in resta, contro la prescrizione. Indicandola come il simbolo e il cuore dei problemi della giustizia italiana. Lo ha fatto scrivendo sul “7” (il settimanale del Corriere della Sera), in risposta alla lettera di un lettore. Tu quoque, Lilli Gruber, appoggi la campagna contro la prescrizione? Questo lettore (Mauro Chiostri), dopo una serie di osservazioni molto serie e garbate sui politici che hanno usato il disastro di Genova come ottima occasione per fare propaganda, tocca, con una certa indignazione, il tema della prescrizione, sostenendo che probabilmente salverà tutti i colpevoli. Lilli Gruber gli risponde dandogli ragione, e raccontando di come, all’inizio degli anni settanta, per poche settimane la prescrizione non salvò alcuni dei responsabili del disastro del Vajont. E infine esprimendo l’augurio che il nuovo governo sia in grado, su questo terreno, di dimostrare le proprie capacità riformatrici. Intendendo dire immagino – che il governo- Conte potrebbe dar prova delle sue capacità attuando il programma dei 5 Stelle e abolendo, o almeno allungando molto, i termini di prescrizione. Del disastro del Vajont abbiamo già parlato nei giorni scorsi. E’ stato una delle più grandi tragedie nazionali del dopoguerra. Quasi duemila morti travolti da una inondazione gigantesca e violentissima che ridusse in sassi e polvere un intero paese, Longarone, in provincia di Belluno. L’inondazione fu provocata da un pezzo del monte Toc, che si staccò e piombò nel bacino della diga, appunto la diga del Vajont (che è ancora lì, forte e maestosa) che era una costruzione recente e realizzata ad opera d’arte in tutto e per tutto tranne che per un particolare: il rischio di frana del Monte Toc, che i geologi conoscevano e che alcuni giornalisti coraggiosi avevano denunciato, prendendosi improperi e sberleffi da imprenditori, politici e dai mostri sacri del giornalismo italiano.

Eravamo nel novembre del 1963. Il processo si concluse otto anni dopo. Effettivamente alla vigilia della prescrizione. Allora c’era un altro codice di procedura penale, un’altra magistratura, un’altra stampa. Anche il codice penale era diverso, molto meno attento ai reati ambientali. Le imputazioni contro i responsabili furono abbastanza leggere, e questo accorciò i termini di prescrizione. I due imputati maggiori furono condannati a sei e a quattro anni e mezzo di prigione.

Oggi, per Genova, c’è il rischio della prescrizione? Naturalmente, essendo passati pochi giorni dalla tragedia del ponte crollato, è difficile immaginare se ci saranno imputati, per quali reati, e in che tempi. E’ un’indagine molto complessa, e individuare le responsabilità non sarà facile. La frase del premier Conte (“non possiamo aspettare i tempi della giustizia”) è stata infelice, una vera e propria gaffe, fortunatamente criticata un po’ da tutti. Quello che sappiamo è che i rischi di prescrizione, se saranno individuati gli imputati, sono molto bassi. Proviamo a immaginare i reati. Disastro colposo e/ o omicidio plurimo colposo. Nel primo caso credo che la prescrizione potrebbe scattare dopo 12 anni, nel secondo caso (abbastanza probabile perché ci sono 43 morti) credo che la prescrizione scatti dopo 30 anni.

Basteranno? Ammettiamo anche – per assurdo – che non bastino, e che nell’agosto del 2048 il processo sia ancora in corso. Sarebbe in quel caso giusto o no cercare di andare avanti per condannare magari nel 2040 o nel 2045 eventuali imputati rimasti in vita e ragionevolmente ultraottantenni? Vedi, amica Gruber, il problema è questo: nel “senso comune” ormai è affermatissima l’idea che il male della giustizia sia la prescrizione, e che la prescrizione sia una norma salva- manigoldi, abilmente usata dagli avvocati, e voluta sostanzialmente da Berlusconi per coprire i suoi magheggi. Beh: è una fake news. Esattamente come tante altre fake news che avvelenano il nostro dibattito politico, a partire da quelle su l’invasione dei migranti, sull’aumento degli sbarchi, sull’impennarsi della criminalità, e sull’aumento esponenziale della corruzione politica. La prescrizione non è affatto il male della nostra giustizia, non è affatto un marchigengo degli avvocati, non è affatto un’invenzione di Berlusconi: è semplicemente una misura che in parte – solo in parte – attenua gli effetti deleteri di una giustizia lentissima e che funziona male. E’ chiaro che uno dei nostri problemi è la lentezza della giustizia. I tribunali sono intasati. Non si risolve sicuramente questo problema concedendo ai magistrati il diritto al processo infinito. Il processo infinito è peggio del processo lunghissimo. E ha tra i suoi effetti quello di rendere ancora più lunga la giustizia. Il processo sul Vajont, nelle sue ultime fasi, fu affrettato proprio per evitare la prescrizione. Altrimenti sarebbe durato anni ancora. La prescrizione è una misura che serve a garantire un minimo di giustizia. Il diritto a un processo giusto e rapido, affermato nell’articolo 111 della Costituzione, riguarda sicuramente le vittime dei reati, ma anche gli imputati. I quali, per altro, come si sa, non sempre sono colpevoli. La lunghezza del processo è già una condanna insopportabile e sommamente ingiusta per un imputato innocente. Ma è una ingiustizia anche una condanna che arriva venti o trenta anni dopo il reato, quando l’imputato è una persona molto diversa da quella che aveva commesso il delitto. Poi c’è un’altra cosa da dire, così, solo perché si sappia: non è vero che sono gli avvocati quelli che lavorano per giungere alla prescrizione. Nel 70 per cento dei casi la prescrizione scatta prima che il processo cominci, e dunque prima che l’avvocato possa neppure iniziare a muoversi. Vedi, Gruber, quanti luoghi comuni? Sono molto pericolosi perché spingono l’opinione pubblica a scagliarsi contro il diritto alla difesa e al giusto processo. Specie in coincidenza con le grandi emozioni nazionali, prodotte da sciagure come quella di Genova. Ma allora come si può fare per sveltire la giustizia? Bisognerebbe investire un po’ di soldi, per rafforzare le strutture e aumentare il personale. Questo è essenziale. E poi si potrebbero fare alcune piccole riforme a costo zero. Per esempio: abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, rinuncia all’appello da parte dell’accusa (come in molti paesi occidentali), responsabilità civile dei magistrati. Poi io penso che si potrebbe prendere un’altra misura molto utile (richiesta da anni dagli amici radicali: una robusta amnistia. Piccole cose? No, probabilmente dimezzerebbero i tempi della giustizia, senza offendere lo stato di diritto. Il problema è che non piacciono a una parte della magistratura. Che è sempre riuscita a bloccarle.

Gallerie killer, cedimenti, appalti e poltronifici: così le nostre strade sono diventate un incubo. Il ponte Morandi è solo l'ultimo di una lunga serie di tragedie e inefficienze. E la legge del 2001 sulle responsabilità delle aziende protegge i top manager, che "possono non sapere", scrive Gianfranco Turano il 28 agosto 2018 su "L'Espresso". C’è una presunzione di colpevolezza in ogni grande infrastruttura. In Italia ogni strada, ogni ponte, ogni binario sono sospettati di esistere non perché necessari ma come pretesto per creste, tangenti, ruberie. È triste, quando va bene e si finisce in coda. Sa di presa in giro quando si osserva increduli il minischermo del casello che indica l’ennesimo aumento di pedaggio poco prima che la sbarra si alzi e una voce registrata ti dica arrivederci con allegria. È tragico quando la campata del viadotto Morandi a Genova si sbriciola sotto le ruote dei veicoli di passaggio, martedì 14 agosto. Il bilancio delle vittime è da strage terroristica. Il costo politico non è meno pesante. A ragione o a torto, lo paga per intero il centrosinistra, accusato dalla folla ai funerali del 18 agosto e dai social network di comparaggio con il concessionario Autostrade per l’Italia (Aspi). Le scuse tardive dei Benetton hanno messo benzina nel serbatoio di un governo spaccato sulle infrastrutture. È parso che sia stata la linea dura del premier Giuseppe Conte a piegare l’arroganza e il gelo tecnicistico del management di Aspi, guidato da Giovanni Castellucci e Fabio Cerchiai. Conte è un avvocato. Per mestiere sa che un contenzioso sulla revoca della concessione può durare più del suo governo ma ha giocato bene la sua carta. Ha fatto dimenticare che il suo alleato, la Lega, ha governato in sede locale e nazionale alcuni fra i peggiori disastri strutturali e che tutti hanno partecipato a costruire la distruzione, incluso lo stesso premier, consulente ben retribuito delle concessionarie.

La strana alleanza. Questa estate chi ha percorso la Salerno-Reggio Calabria, gestita dall’Anas e dunque dallo Stato, si sarà goduto il solito spettacolo di una mezza dozzina di gallerie che traforano il nulla, con un po’ di terra sparsa in cima a scopo ornamentale. Nella zona fra Mileto e Rosarno gli automobilisti avranno visto che il limite di velocità scende a 80 km/h senza ragione apparente. Una serie di cartelli gialli, lunghi otto righe e non proprio di facile lettura anche rispettando gli 80, spiegano che quel tratto è sotto sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria per l’inchiesta sulla ditta Cavalleri, avviata oltre due anni fa. È possibile che abbiano rubato, quindi bisogna andare piano. Nella stessa zona c’è la “galleria killer” Fremisi-San Rocco, un tunnel nuovo di zecca che ha provocato cinque morti in pochi mesi nel 2016 con relativa inchiesta e dodici indagati. Come si spiega la galleria killer a un turista tedesco? Lui viene da un paese dove le autostrade non si pagano e si comportano con ottusità germanica, ossia da autostrade e non da oggetti di cristalleria. Come si spiega a uno straniero in una domenica di controesodo infernale, che per salire dalla Riviera adriatica bisogna aggirare la voragine di Bologna e che lo stesso accade a Genova, dove ci sono anche i traghetti in arrivo da Corsica e Sardegna? Le grandi opere sono un mondo complicato, pieno di codici e norme in continuo cambiamento, dove ballano cifre a otto o a nove zeri. È un sistema dove è difficile fare cronaca, tra querele sistematiche e budget pubblicitari usati a mo’ di silenziatore. Così il dibattito pubblico si è polarizzato sugli slogan. Di qua c’è il no a tutto, alla Gronda di Genova, al passante di mezzo di Bologna, alla Tirrenica, alla Torino-Lione, al passante ferroviario di Firenze, e via elencando. È la posizione del M5S prima del 4 marzo. Dall’altra parte c’è la Lega e il suo sì a tutto perché l’Italia si sviluppa soltanto con più cemento, più strade ferrate, più acciaio. L’escamotage del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, cioè il calcolo costi-benefici sui progetti in cantiere, serve soltanto per guadagnare tempo e rinviare la resa dei conti nell’esecutivo. Ma il calcolo costi-benefici sulle grandi opere è sempre in perdita. Le principali infrastrutture, dal canale di Suez a Panama all’Eurotunnel, sono costate cifre terrificanti, hanno rovinato i privati che ci hanno investito e hanno sommerso di debiti gli Stati. L’unico calcolo sensato sarebbe: serve o non serve? Ma per questo ci vuole una linea strategica a lungo termine, non un’alluvione di tweet e comparsate tv per vincere le prossime regionali in Abruzzo. La fretta dei politici nel monetizzare i disastri corre in parallelo con la cecità aziendale dell’obiettivo immediato, a scadenza trimestrale, finalizzato al bonus variabile di fine anno. Se lo Stato è il primo colpevole, è difficile trovare innocenti. Dice un progettista con trent’anni di esperienza e qualche no di troppo che non ha certo giovato alla sua carriera: «È un caso da manuale di eterogenesi dei fini. L’antagonismo sistematico degli ambientalisti è stato il migliore alleato di chi non voleva investire».

Rischio erosione. Soltanto in Sicilia, trenta viadotti sono a rischio inclusi i due realizzati da Morandi sulla Agrigento-Porto Empedocle e il Corleone, quello che sembra più problematico. A Catanzaro c’è un altro Morandi, il ponte Bisantis non lontano dagli svincoli nuovi creati nella zona dell’università di Germaneto che hanno già mostrato segni di cedimento. Più a nord c’è il ponte sulla statale 107 che oscilla e si flette in modo pauroso al passaggio dei veicoli: la Procura di Cosenza ha appena aperto un’indagine. L’Anas ha assicurato che è tutto a posto. Ma è la stessa cosa che ha detto l’ingegnere Giovanni Castellucci, ad di Atlantia-Autostrade. Lo ha detto dopo, non prima che crollasse il viadotto sull’A10 («Non mi risulta che il ponte fosse pericoloso»). A Benevento un’altra opera di Morandi è stata chiusa dal sindaco Clemente Mastella. In Abruzzo c’è il ponte di Lanciano, sulla Torino-Savona c’è il viadotto Lodo con i tondini in bella mostra grazie all’erosione del cemento. È un elenco infinito e da dopo Ferragosto centinaia di Comuni italiani con strutture a rischio, reale o presunto, stanno tempestando di telefonate l’Anas che ha dovuto creare una struttura ad hoc. La tragedia di Genova segna la fine della fiducia nei controllori e l’inizio della speranza in un fato benevolo ogni volta che si sale in macchina. Sul fronte delle sanzioni non va molto meglio.

Per il crollo del viadotto di Fossano dell’aprile 2017 ci sono dodici indagati. Ci è voluto più di un anno per una perizia tecnica che non ha portato a conclusioni definitive sulle responsabilità.

Per il crollo del viadotto sull’A14 ad Ancona il 9 marzo 2017 (due morti) l’inchiesta è in corso con sei indagati dipendenti di Aspi.

Anche per il crollo del viadotto di Annone Brianza sulla statale 36 il 28 ottobre 2016 (un morto) sono in corso le indagini.

Per il crollo del viadotto Scorciavacche, inaugurato senza collaudo dal top management dell’Anas il 23 dicembre 2014 e collassato una settimana dopo, il gip di Termini Imerese sta valutando le richieste di rinvio a giudizio della Procura.

Per la strage sul viadotto dell’Acqualonga ad Avellino, dove un pullman sfondò le barriere dell’A16 (40 morti) il 28 luglio 2013, è in corso il processo che vede fra gli imputati anche Castellucci. Per il cedimento del ponte di Carasco (Genova) sul torrente Sturla il 21 ottobre 2013 (due morti) ci sono state quattro assoluzioni. Il crollo non era prevedibile. Per il crollo sulla provinciale Oliena-Dorgali in Sardegna del 18 novembre 2013, che provocò la morte di un poliziotto di scorta a un’ambulanza, la Procura ha chiuso le indagini ad aprile di quest’anno con tre richieste di rinvio a giudizio.

La legge 231 del 2001 sulla responsabilità penale delle aziende ha prodotto una quantità di organi di vigilanza che sono diventati un poltronificio ben pagato per i soliti noti, grandi avvocati, ex magistrati amministrativi o contabili. Sul piano pratico, la 231 ha spesso allontanato la responsabilità dal top management, che ha il diritto di non sapere, per scaricarla sui livelli medi o bassi, nella più classica struttura di governance fantozziana. Del resto, il responsabile per Autostrade della manutenzione sull’A10 è un geometra, come risulta dai documenti interni di Aspi. Si chiama Mauro Moretti ed è solo omonimo dell’ingegnere Moretti. Il numero uno di Fs, e poi di Finmeccanica, è stato condannato in primo grado a sette anni per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009 (32 morti). L’appello inizierà il prossimo novembre. Forse per la presunzione di innocenza il Moretti delle Fs è ancora presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato e ha la carta per viaggiare gratis sui treni. A oggi la sentenza più dura è toccata a Sandro Gualano per il disastro di Linate dell’8 ottobre 2001 (118 morti). L’ex ad di Enav è stato condannato in via definitiva a sei anni e sei mesi.

Controlli? No, grazie. Sugli aspetti giuridici della revoca della concessione è intervenuto l’ex magistrato ed ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. Il fondatore dell’Idv ha commentato che la costituzione di parte civile contro Atlantia da parte del ministro attuale è infondata perché proprio il Mit dovrebbe controllare le concessionarie. Toninelli, dottore in giurisprudenza, dovrebbe sapere che a un tribunale non interessano i cambi di maggioranza. I giudici valutano gli atti del governo in continuità e chi non ha controllato o ha controllato male è responsabile per un principio giuridico (culpa in vigilando) vecchio quanto il diritto romano. È anche giusto ricordare che, da ministro delle Infrastrutture (2006-2008), Di Pietro diede il via alla convenzione Anas-Autostrade che conteneva l’adeguamento automatico delle tariffe (70 per cento sull’inflazione reale). Inserita nel decreto Milleproroghe, ultimo atto del governo Prodi bis, la convenzione fu esclusa in extremis e approvata il 18 giugno 2008 dal nuovo Senato a maggioranza Pdl. È un meccanismo con benedizione bipartisan che nessuno è più riuscito a smontare, come pure ha tentato di fare Graziano Delrio, fallendo per i ricorsi ai tribunali dei concessionari. Benetton, Gavio e gli altri imprenditori che gestiscono le strade a pagamento hanno sempre pubblicizzato i loro investimenti a nove zeri. In che misura siano stati fatti è difficile dire. Fino a sei anni fa questi investimenti li controllava l’Anas. Poi, sotto la gestione di Pietro Ciucci, l’ex ente concedente ha voluto farsi concessionario nel tentativo di uscire dal perimetro della pubblica amministrazione. Destinata alla regionalizzazione dalle prime ipotesi federaliste di vent’anni fa, l’Anas si è messa in società con le regioni, attraverso una serie di jont-venture dalla Lombardia al Veneto, dal Molise al Lazio, dall’Umbria alle Marche, che avevano come principale utilità il parcheggio a peso d’oro di pensionati dell’Anas stessa e di usati sicuri della politica locale. Intanto l’Ivca, l’ispettorato vigilanza concessioni autostradali dell’Anas, è passata armi, bagagli e personale al Mit nell’autunno del 2012 cambiando nome in Svca (struttura di vigilanza sulle concessioni autostradali) e mantenendo alla guida Mauro Coletta. I controlli, che già non erano feroci, sono stati ulteriormente ammansiti all’interno di una squadra demotivata dal taglio di stipendio. Nell’agosto 2017 alla Svca è stato nominato il dottore in scienze politiche Vincenzo Cinelli, ex dg per il settore dighe e infrastrutture elettriche, mentre Coletta ha assunto la direzione di controllo sui porti del Mit. È uno degli esempi di quel nocciolo duro di alti dirigenti ministeriali che, di norma, finiscono per contare più dei ministri stessi, qualunque sia il loro orientamento politico.

Il tutti contro tutti fa emergere vecchi rancori fra la parte pubblica, dove gli stipendi sono più bassi, e la parte privata. Un dirigente dell’Anas racconta così il suo esodo estivo sull’A16, la Napoli-Bari gestita da Autostrade. «Il 3 agosto nel beneventano inizia a grandinare. Non si vedeva nulla e non ci si poteva fermare perché non c’è corsia di emergenza. Siamo finiti incolonnati dietro un mezzo di Autostrade che segnalava lavori in corso. Lì sono tutti viadotti con una piazzola di emergenza ogni tanto. Le nostre statali, anche quelle più problematiche come la 106 hanno la corsia di emergenza. D’inverno, alla prima nevicata, i concessionari chiudono l’autostrada e scaricano tutto il traffico sulla nostra rete». Nei giorni di fuoco del viadotto Morandi è tornata più volte l’eventualità di affidare le autostrade di Aspi all’Anas, in caso di revoca della concessione o addirittura di nazionalizzazione. Anche questa sarebbe un’inversione di marcia a 180 gradi e presume un accordo politico fra le forze di governo. Il primo passo operativo è relativamente semplice: annullare l’incorporazione di Anas nel gruppo Fs varata alla fine del 2017 da Delrio. L’Anas grillo-leghista sarebbe più simile al vecchio ente della Prima Repubblica senza averne le forze, dopo anni di destrutturazione dovuta al cosiddetto federalismo stradale previsto dalla legge Bassanini del 2000. Un vecchio dirigente dell’Anas ricorda di quando andò a contrattare la restituzione delle strade agli enti locali. «I liguri erano i più scatenati», dice. «Volevano fino all’ultimo metro di asfalto disponibile e lo volevano subito». Il riflusso è partito già da qualche anno e, ancora una volta, la Liguria ha guidato la devoluzione dei tracciati dopo avere scoperto che sono soltanto spese e contenzioso. Il controesodo da regioni e province ha portato l’Anas vicino ai 30 mila chilometri di strade gestite.

Lega d’asfalto. Prima del 14 agosto, la Lega lo aveva detto chiaro attraverso i suoi governatori di punta. Luca Zaia e Attilio Fontana hanno comunicato: con la Torino-Lione e il gasdotto Tap fate come vi pare, ma le nostre pedemontane vanno completate a qualunque costo e i miliardi che mancano vanno trovati. In Liguria il terzo governatore di centrodestra, il forzista con appoggio della Lega Giovanni Toti, si ritrova in una posizione di forza dopo lo scempio dell’A10. Non solo ha tutte le ragioni di puntare oltre l’emergenza ma sarà complicato per i grillini bloccare anche altre grandi opere di quel quadrante, incluso il terzo valico dell’Av ferroviaria. C’è però un elemento di allarme che è sfuggito al fiume di dichiarazioni successive al 14 agosto. Le grandi opere si fanno a debito. Per finanziare i lavori non ci sono solo i soldi pubblici del Cipe ma un insieme di mutui bancari, di pegni, di obbligazioni emesse da società private (corporate) oppure da enti come nel caso Pedemontana Veneta, con la regione che paga interessi stratosferici sul capitale. Alcuni di questi bond sono quotati e tutti questi strumenti gravano sui bilanci. Imprese e concessionarie sono cariche di debiti che hanno una sostenibilità solo a fronte di margini improbabili, per chi costruisce, e di convenzioni a lunghissima durata, per chi gestisce. Con la crisi delle cooperative di costruzione, di Condotte, di Astaldi, non è esagerato dire che il vigilante di ultima istanza sul sistema grandi opere è la Banca d’Italia. Con una frase che meglio di tutte riassume la vacuità amatoriale del governo, Di Maio ha affermato: «L’Italia non è ricattabile». Come no. La precarietà finanziaria del sistema grandi opere è una bomba a orologeria nei conti già pericolanti dell’intera nazione.

Divorzio miliardario. Nel disastro, tra le foto delle famiglie distrutte e dei bambini travolti dal cemento, è crollato anche l’alibi di un certo capitalismo italiano fatto di imprese che vivono di tariffe. Suona paradossale che il gruppo Benetton, nato dal prodotto, abbia cambiato pelle fino a questo punto: tanta finanza, taglio costi, tariffe e royalties per fare utili. Atlantia ha portato il grosso dei profitti distribuiti alla famiglia (2,7 miliardi nel biennio 2016-2017 e 4,8 miliardi negli ultimi cinque anni). Come disse anni fa Alessandro Benetton a un manager del gruppo: «Ma tu lo sai quanti cugini ho?» Castellucci ha assicurato un considerevole tenore di vita alla seconda e alla terza generazione della famiglia di Ponzano Veneto ed è stato premiato con l’affidamento della pratica Leonardo da Vinci, l’ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino. Una delle sue frasi famose dette in riunione ai suoi manager recita: «Gli italiani non hanno mai fatto una rivoluzione». Dopo il disastro il gruppo ha promesso mezzo miliardo di euro per risarcire le vittime. Tanto o poco che sia, bisogna ricordare che nelle concessioni, secretate per motivi di concorrenza, c’è una clausola che vale molto di più. Si chiama diritto di subentro. Se lo Stato si riprende il suo, cioè l’autostrada, deve pagare un indennizzo al concessionario. L’unico caso pubblico finora è stato quello della Sat, l’autostrada tirrenica. D’accordo con l’Anas e il Mit, i Benetton avevano inserito una clausola di subentro alla scadenza (anno 2046) pari al costo previsto dell’opera (3,8 miliardi di euro). La clausola fu bocciata da una direttiva dell’Ue e cancellata dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Su altre concessioni il subentro è in vigore. Altri costi e altre cause in vista.

In Italia le infrastrutture sono a pezzi ma la manutenzione non porta voti. Nella strage del Ponte Morandi non ci sono innocenti. Perché il fallimento è di tutti: politici, manager, imprenditori. E i nuovi governanti sono divisi sulle opere, scrive Francesco Turano il 17 agosto 2018 su "L'Espresso". Nel crollo del viadotto Morandi a Genova ci sono vittime ma non ci sono innocenti. Si fanno i funerali, si aprono inchieste, si avviano perizie e forse, fra anni, qualcosa capiremo. Intanto è uno in più, un disastro in più dopo i viadotti Scorciavacche e Himera in Sicilia, dopo il viadotto Annone a Lecco, dopo il viadotto di Fossano in Piemonte, dopo il botto di Bologna che è sì provocato dall'esplosione di un'autocisterna ma basta a spaccare l'Italia, unita finalmente dal suo scheletro calcificato, fragilissimo ovunque. I tecnici, pescati qui e là dall'Espresso nella settimana di Ferragosto, sono attoniti. La risposta standard è: «Non è possibile». Non è possibile che il viadotto sia venuto giù così «come farina», come ha dichiarato alle telecamere della Rai una testimone oculare. «Non mi risulta che il ponte fosse pericoloso», ha dichiarato a botta calda l'amministratore delegato di Atlantia, Giovanni Castellucci. Eppure il viadotto sull'A10 era noto a tutti gli addetti ai lavori come il tallone d'Achille nella rete gestita da Autostrade per l'Italia-Atlantia (2964 chilometri). Le debolezze dell'opera erano sotto controllo da tempo. Alcuni dei vecchi stralli in acciaio e cemento concepiti da Riccardo Morandi, autore del ponte sull'ansa del Tevere lungo la Roma-Fiumicino, del collegamento sulla laguna di Maracaibo e di molte altre opere, erano stati sostituiti da stralli più resistenti, solo in cemento. Erano in corso le opere di consolidamento della soletta. Dunque non è possibile, dicono gli uomini di Autostrade e i controllori del Mit e dell'Anas che controllano sempre meno, sommersi dallo strapotere della concessionaria della famiglia Benetton e diluiti dall'ex ministro Graziano Delrio nella insensata fusione con le Ferrovie dello Stato, servita solo a garantire ricchi aumenti di stipendio al top management. Non è possibile ma è successo, nel paese che sogna ancora ponti sullo Stretto a governi alternati e che si trova di fronte al fallimento della manutenzione dell'esistente, stritolata dalla logica del massimo ribasso e del risparmio ossessivo sui costi finché il prezzo offerto dall'impresa non basta nemmeno a coprire le spese dell'intervento. Se i dati tecnici sono ancora in via di accertamento, il dato politico è trasparente fin dall'inizio di questa legislatura. L'Espresso aveva segnalato subito che il vero scoglio di questo governo, e dell'alleanza grillo-leghista, sarebbe stato l'indirizzo sulle infrastrutture. Come tutta risposta, Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno imposto una spartizione alla Cencelli sulla dicastero di Porta Pia. Hanno affidato la poltrona titolare a Danilo Toninelli, che aveva zero esperienza nel settore e che come primo provvedimento della sua gestione ha stanziato 5 milioni di euro per il ponte sul Po a Casalmaggiore, nella zona di casa sua. Giustissimo per carità. Intanto i suoi sottosegretari leghisti, Armando Siri, che ha giurato al Quirinale senza nemmeno interessarsi di sapere chi era il suo ministro, ed Edoardo Rixi, entrambi genovesi, remavano nella direzione opposta, quelle delle nuove grandi opere senza se, senza ma e soprattutto senza quel calcolo costi-benefici che il M5S ha affidato a professori e professionisti. Ecco, se applichiamo il calcolo costi-benefici al viadotto Morandi, il conto è facile. Bisognava abbatterlo. È costato più in manutenzione che in realizzazione. Ma era impossibile. Si sarebbe tagliata in due la Liguria. C'era la Gronda di Genova in dirittura di arrivo, un investimento miliardario rinviato per anni che aveva reso il viadotto Morandi necessario al traffico cittadino, oltre che ai passaggi Ponente-Levante. C'era il Terzo Valico dell'alta velocità ferroviaria. Insomma c'erano i progetti indispensabili a liberare Genova dal soffocamento urbanistico nel quale si è abituata a vivere, fra traffico ed esondazioni di torrenti. L'unica cosa che mancava era l'indirizzo politico perché le infrastrutture, a differenza della presunta sostituzione etnica in arrivo dall'Africa, non danno notorietà se non quando se ne farebbe a meno, cioè in caso di disgrazia. Adesso il dilemma di fondo dell'alleanza di governo è davanti a tutti. Si può risolvere soltanto se una delle due parti cede. Ma è un dilemma puramente politico. Per chi va in strada, per i cittadini, pronti a indignarsi per il sacchetto di plastica del supermercato a 10 centesimi eppure assuefatti agli aumenti automatici dei pedaggi a ogni inizio di anno in cambio di investimenti lasciati alla bontà dei concessionari, la realtà è una. È nel fallimento delle politiche di tutti i governi, di tutti i ministri, di tutti i grand commis di Stato o manager privati almeno a partire dall'anno di grazia 2001, quando il premier Silvio Berlusconi disegnò alla lavagna in tv le meraviglie della Legge Obiettivo. Ha fallito lui, hanno fallito tutti. I crolli di oggi sono figli di uno Stato che, oggi come ieri, è debole coi forti e forte con i deboli. Diciassette anni dopo i faraonici progetti del Berlusconi bis contiamo i morti e torna vera la battuta che in Italia non serve il terrorismo integralista. Ci terrorizziamo da noi. Ormai possiamo tracciare l'anamnesi di ogni opera pubblica secondo le età. Il viadotto Marconi lo ha completato 51 anni fa la società Condotte, al tempo controllata dall'Iri e quindi dai partiti e dal loro sistema di finanziamenti più o meno illeciti. Ci saranno state mazzette? Cemento depotenziato? Acciaio un po' meno inox? Saperlo adesso, mezzo secolo dopo e con la conta dei morti di Genova, non serve a nulla. Condotte è stata venduta ai privati perché, dicevano, i privati gestiscono meglio. Infatti, è finita in concordato un mese fa. Anche Autostrade è stata privatizzata. È il sistema del capitalismo avanzato, ci hanno detto. Negli Stati Uniti si fa così, ci hanno ripetuto anni fa, quando le fake news si chiamavano ancora balle. Il ponte di Brooklyn è stato inaugurato nel 1883. Alla sua gestione e manutenzione provvede il Dot (department of transportation) della città di New York, soldi pubblici. Stesso schema per il Golden Gate di San Francisco, aperto nel 1937. Ogni tanto qualche ultraliberista a stelle e strisce lancia l'idea che sarebbe meglio buttarli giù perché costano troppo. Lo ringraziano dell'opinione e continuano a riparare.

Ponte Morandi: l'impatto del crollo su economia e turismo. L'economista dei trasporti Musso: "Il danno per Genova e la Liguria rischia di essere devastante". Porto e aeroporto scollegati dalla città e non solo. Intervista di Marta Buonadonna del 16 agosto 2018 su "Panorama". Mentre i vigili del fuoco continuano a scavare alla ricerca di possibili sopravvissuti e, si teme, di altri cadaveri, il bilancio delle vittime del crollo del Ponte Morandi è oggi di 38 persone, di cui tre bambini, e si parla di almeno 10 o 20 dispersi. A Genova è ancora giornata di lutto cittadino, gli abitanti riprendono faticosamente a lavorare dopo un ferragosto che definire surreale è poco. Ma come sarà la vita in questa città dopo il crollo del ponte che la teneva insieme? Molti nelle scorse ore hanno commentato che c'è un prima e un dopo quell'evento, che ha rubato la vita a decine di persone. Al di là della tragedia, la città oggi comincia a fare i conti con quello che diventerà un incubo quotidiano: spostarsi, andare a lavorare, raggiungere da est i quartieri che stanno a ovest e viceversa sarà per i prossimi anni molto difficile. In una città che conosce due sole dimensioni, Ponente e Levante, stretta com'è tra i monti e il mare, la rottura di quel ponte rappresenta l'interruzione della viabilità che rischia di avere ricadute pesantissime sull'economia della città. Panorama.it ne ha parlato con Enrico Musso, Professore di Economia dei Trasporti presso l'Università di Genova, responsabile del prossimo Piano di mobilità sostenibile del Comune e direttore del Centro Italiano di Eccellenza sulla Logistica i Trasporti e le Infrastrutture.

Professor Musso che cosa significava quel ponte per la vivibilità cittadina?

«Era un anello della rete critico su diverse scale territoriali, nazionale, interregionale e internazionale (collegava con la Francia) e poi anche cittadino e metropolitano, essenziale per i flussi di pendolari anche da fuori Genova, per esempio da Savona. Vi è poi l'aspetto portuale: il porto oggi è tagliato a metà, vi sono terminali nella parte est e terminali nella parte ovest. Se uno deve prendere un traghetto venendo dal ponente, deve scegliere tra un percorso autostradale addizionale di oltre 100 km e un ingorgo cittadino inimmaginabile».

Cosa succederà adesso alla viabilità?

«Prima di tutto credo che occorrerà attrezzare la città come se fossero due, se non tre, città diverse: la parte di centro e levante, il ponente con l'aeroporto e poi Genova nord con i quartieri di Bolzaneto, Rivarolo e Pontedecimo che da soli contano oltre 100mila abitanti. Occorre trovare soluzioni urbanistiche intelligenti, banalmente i servizi pubblici, comunali, dovrebbero essere riorganizzati territorialmente come se fossero comuni diversi, per evitare spostamenti inutili. Potenzialmente andrebbero sviluppate situazioni di telelavoro, per consentire alla gente di lavorare più da casa ed evitare di ingorgare le strade. Rispetto al traffico inevitabile, bisogna individuare i ruoli delle poche strade che rimangono. La superstrada a mare non è ancora stata completata, ci sono molti lavori in Lungomare Canepa. Per farne una viabilità quasi autostradale bisognerà però eliminare il più possibile le interazioni con la rete stradale. Al momento in Lungomare Canepa c'è uno dei varchi di accesso al porto, il varco Etiopia. Se quell'asse deve diventare un'autostrada penso che sarà necessario prevedere di spostare i carichi su altri varchi»

Che tipo di impatto avrà il crollo del ponte sull'economia della città?

«Dipende dall'orizzonte temporale nel quale si vuole ricostruire. Anche il solo smaltimento del ponte crollato è un problema. Si tratta infatti, in base alla normativa attuale, di rifiuti speciali, probabilmente c'è anche l'amianto. Se per smaltire quei rifiuti si dovesse seguire la normativa che regola i rifiuti speciali, fra qualche anno saremmo ancora lì. In una situazione come questa non si potrà non andare verso una normativa emergenziale per dare priorità al fattore tempo, nel rispetto della salute dei cittadini. Poi occorre ricostruire subito nel modo migliore possibile, magari non esattamente lì e certo non nello stesso modo, ma ricreare un'infrastruttura subito è una priorità. Altrimenti il danno economico per la città e per la Regione sarà devastante. I porti sono talmente in concorrenza oggi, che non si sta ad aspettare qualche ora in coda per accedervi. Forse lo si fa per una settimana, poi però le aziende decidono semplicemente di andare in un altro porto, a Livorno, Marsiglia, Anversa. Il rischio è che il porto abbia una caduta verticale di traffico con conseguenze devastanti. La società e l'economia comunque si riorganizzeranno da sé. Di fronte a un'insufficienza delle infrastrutture ci si adatterà a vivere diversamente, a cambiare casa o lavoro».

Dopo la deindustrializzazione degli anni '80 e soprattutto dopo le Colombiane e la riqualificazione del Porto Antico fatta da Renzo Piano, con l'Acquario, Genova ha iniziato a puntare sul turismo. Anche quello però, con l'aeroporto rimasto al di là del ponte spezzato, per dirne una, rischia di subire una batosta tremenda...

Sul turismo l'impatto sarà sicuramente molto grave. Eravamo già in una situazione potenzialmente critica con un aeroporto con pochi collegamenti, sebbene in lievissimo miglioramento negli ultimi tempi. C'è un delicato equilibrio nel rapporto con le compagnie aeree che saggiano il mercato per un po' e poi, se non funziona, se non fanno i numeri sperati, se ne vanno. In generale la rete di collegamenti è insufficiente e questo già un po' isolava Genova dal resto del mondo, ma direi più per il business che per il turismo. Quello che ora è pesantemente messo in crisi è l'unico vantaggio che aveva l'aeroporto cittadino, cioè che si trovava a 20 minuti dal centro. Ora che il ponte Morandi è crollato, per raggiungerlo possono servire anche 2 o 3 ore: meglio Pisa. Il rischio è quindi che l'attrattività dell'aeroporto si abbassi ancora di più»

Ma le infrastrutture della città e della regione sono carenti anche sul fronte della ferrovia.

«La ferrovia risente di un ritardo sulle grandi opere. Negli anni '80 quando ho iniziato a occuparmi di questi temi, era un argomento già ampiamente dibattuto. Abbiamo perso un quarto di secolo sulla questione del terzo valico (linea di collegamento ad alta velocità tra Genova e Milano e Torino, n.d.r.). Si dice che potrebbe essere completato nel 2021 o 2022, ma una volta fatto il terzo valico abbiamo una struttura comunque da completare per avere davvero l'alta velocità su tutta la tratta. Si poteva fare 25 anni fa».

C'è una dicotomia tra la progettazione delle grandi opere, invisa all'attuale governo, e la manutenzione di ciò che c'è già?

«Mettere una cosa contro l'altra è colpevole ai limiti del criminale. Evidentemente le manutenzioni vanno fatte e bene, ma se ci fosse stata un'alternativa a questa struttura, le opere di manutenzione avrebbero potuto essere fatte bene o sarebbe stato possibile demolire il ponte e ricostruirlo. Se ti riduci ad avere un solo paio di scarpe, prima o poi si rompono. Se ne hai due paia e il primo paio è rovinato, puoi metterti il secondo mentre aggiusti il primo».

La gronda di cui tanto si è parlato quindi ora si farà?

«La gronda, che sia quella nel tracciato del progetto attuale, che passa più a nord del ponte Morandi, oppure quello pensato originariamente, come una sorta di raddoppio del ponte esistente, quindi accanto ad esso, dovrà essere fatta. Del resto si sapeva che il volume di traffico e il peso dei singoli veicoli rispetto alla progettazione si fosse moltiplicato grosso modo per quattro dall'epoca dell'inaugurazione. La necessità di un'alternativa, per avere una certa ridondanza nel sistema in un qualsiasi momento critico, era ovvia».

Cosa pensa della revoca della concessione ad Autostrade?

«Sul sistema delle concessioni vi sono molte critiche da fare: si tratta di un sistema anticoncorrenziale. Invece di fare gare per riattribuire nuove concessioni alla scadenza delle precedenti, con il trucchetto delle nuove spese, dei nuovi investimenti, i cui costi andavano traslati sui pedaggi, si negoziava sempre uno slittamento del termine delle concessioni. E' avvenuto anche per la gronda. Nell'approvazione finale del progetto, per rientrare nell'investimento, Autostrade ha presentato un piano finanziario di innalzamento dei pedaggi su tutta la rete, per coprire i costi, e uno slittamento del termine di concessione dal 2038 al 2042. Le concessioni così diventano infinite.

Questo è un sistema che è sempre andato avanti grazie alla potenza della lobby dei concessionari, talmente potenti che uno dei lobbisti che si vedevano sempre in Parlamento quando io ero senatore in un governo successivo è diventato sottosegretario. Fatte le dovute critiche all'assetto del sistema, inclusa l'inspiegabile segretezza di fatto dei termini della concessione e delle modalità di innalzamento delle tariffe, a me non risulta che al momento esistano prove che Autostrade non abbia fatto i monitoraggi e le manutenzioni previste. Non sono d'accordo con quanto affermato dal Viceministro alle Infrastrutture, peraltro mio ex studente, Edoardo Rixi, secondo il quale "visto che il ponte è venuto giù, significa che la manutenzione non è stata fatta bene". A questo governo e in particolare ai 5 stelle, che erano contro la gronda, comunque conviene trovare un colpevole che non siano loro. Le cause del crollo a mio avviso vanno ricercate prima di tutto in un misto tra difetti progettuali, la tecnologia alla base del ponte secondo molti era sbagliata (Morandi stesso ha fatto in questo modo solo 3 o 4 ponti e poi è passato ad altro), e una quantità di traffico mostruosa. Ora si teme per altri viadotti sulla nostra rete autostradale, ma sinceramente non so dove altro si riproduca questo binomio. Una cosa che si potrebbe già fare è usare sistemi di monitoraggio in tempo reale, poco costosi, con i quali non eviti che un viadotto crolli, ma magari lo capisci qualche ora prima ed eviti la strage»

La tragedia poteva essere peggiore dal punto di vista delle vittime?

«C'era pochissima gente su quel ponte rispetto ai normali livelli di traffico. Il 14 agosto i vacanzieri sono quasi già tutti dove pensano di trascorrere il Ferragosto, e i genovesi con quella pioggia se non avevano urgenze particolari sono stati a casa. In tempi normali al bilancio delle vittime si sarebbe potuto aggiungere tranquillamente uno zero».

La gaffe dell'anno a SKY, la giornalista non riconosce il sindaco e chiede: Lei è di Genova? Scrive "Pagina Inizio.com" il 20 agosto 2018. In questi giorni drammatici Genova è stata invasa da giornalisti e reporter di tutto il mondo, intenti a documentare quanto avvenuto ed il disagio della città, con tanto di interviste e flash mob per strada. Ecco che durante una di queste, lo scorso 19 agosto in piazza De Ferrari, una giornalista di SKY TG24 incontra (in diretta) il sindaco di Genova Marco Bucci e gli chiede incredibilmente "Lei è di Genova?". Insomma, una gaffe davvero clamorosa che è diventata subito virale e circolerà parecchio sui social. Il sindaco di Genova rimane quasi sbigottito e forse per un attimo ha pensato di essere vittima di un qualche scherzo televisivo... ma poi si riprende e risponde un po' stizzito abbozzando anche un sorriso di circostanza “sono il sindaco, veda un pò lei”. La vicenda ha del clamoroso anche perché Bucci è comparso molte volte in questi giorni in TV e sui giornali ed è divenuto un volto familiare agli italiani, forse non molto ai giornalisti.

Ponte Morandi, lo scivolone in diretta dell’inviata Sky: “Lei è di Genova?” e l’interlocutore la gela: “Sono il sindaco, veda un po’ lei”, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 20 agosto 2018. Sta facendo il giro della rete lo spezzone di una diretta di Sky Tg24di domenica 19 agosto. L’inviata è in piazza, per raccogliere le reazioni dei genovesi a distanza di qualche giorno dal drammatico crollo del ponte Morandi. La giornalista si avvicina ad un uomo e gli rivolge una domanda: “Lei è di Genova?”. L’interlocutore risponde: “Sono il sindaco, veda un po’ lei”. Si trattava in effetti di Marco Bucci, il primo cittadino del capoluogo ligure. Superato il momento di imbarazzo l’inviata riprende il suo lavoro, ma lo scivolone non è passato inosservato. Su Twitter un altro genovese, il comico Luca Bizzarri, posta il filmato sottolineando: “Quando nel dramma, nella tragedia, basta spostare un attimo il punto di vista per far nascere un piccolo, solitario, sorriso ‘Veda un po’ lei’”. “È genovese?” gaffe della giornalista Sky con sindaco Bucci/ Video, l’innocuo errore spacca in due il web.

“Lei è genovese?” al sindaco Bucci, gaffe della giornalista di Sky. E i social subito si scatenano: il filmato fa il giro di Internet e diventa virale, scrive Silvana Palazzo il 20 agosto 2018 su "Il Sussidiario".

Genova, gaffe della giornalista di Sky. La gaffe della giornalista di Sky è diventata virale. Qualcuno la giustifica altri invece l’hanno “demonizzata”. Il pubblico social come sempre, da perfetto paladino della giustizia ha voluto puntare il dito, senza rendersi conto nemmeno per un attimo della possibilità che nel mondo, può capire di non essere a conoscenza di qualcosa di “marginale”. Perché diciamolo, riconoscere al primo colpo la faccia del sindaco di Genova, rispetto all’immane tragedia accaduta, in questo momento è esattamente qualcosa di secondario. La diretta interessata per giunta, ha ripreso in mano con disinvoltura la situazione. Il video peraltro, se non fosse per l’avvento del web, non sarebbe nemmeno divenuto virale come invece è accaduto. “Proviamo ad avvicinare alcune persone se sono genovesi, soprattutto. Buonasera, siamo in diretta su Sky Tg 24, lei è genovese, posso chiedere?” – “Sono il sindaco, veda un po’ lei…” – “Ah, il sindaco di Genova?”. Questo il breve discorso condiviso online. Una gaffe assolutamente innocua ed inoffensiva che si è portata a casa già più di 300mila visualizzazioni. “L'unica cosa che spero che non sia ligure questa…”, si legge. “Una giornalista che sta tutto il giorno a raccogliere testimonianze e lì per lì non riconosce un tizio che fino a una settimana fa non conosceva nessuno. Che scandalo”, commenta invece un altro utente. (Aggiornamento di Valentina Gambino)

L'INNOCUO ERRORE. Errore giornalistico a SkyTg24 nel corso del collegamento con un'inviata a Genova. La giornalista, impegnata nel racconto dei tanti messaggi di cordoglio lasciati in città per le vittime della tragedia del ponte crollato lo scorso 14 agosto, era intenta a cercare persone del posto per carpire impressione e fare qualche domanda di circostanza. Riesce a fermare un uomo barbuto senza troppi timori: “Posso chiederle se lei è di Genova?”. Incredulo l'uomo intervistato, che ha risposto un po' imbarazzato e stizzito: «Sono il sindaco, veda un po' lei!». Il signore in questione è Marco Bucci, sindaco di Genova dal 2017. In un frammento di secondo si capisce che la figuraccia è servita. Sui social scatta subito l'ironia, anche da parte di personaggi che la usano per lavoro, come nel caso del comico genovese Luca Bizzarri: «Quando nel dramma, nella tragedia, basta spostare un attimo il punto di vista per far nascere un piccolo, solitario, sorriso “Veda un po' lei”». (agg. di Silvana Palazzo)

GAFFE DELLA GIORNALISTA DI SKY CON SINDACO GENOVA. Non riconosce il sindaco della città e la sua gaffe diventa virale. Sta circolando da diverse ore su Internet il video di un collegamento su SkyTg24 da Genova nel quale la giornalista non riconosce Marco Bucci, sindaco della città dal 2017. Una gaffe che è stata già definita “epica”. L'intervistatrice, che si trovava in piazza De Ferrari durante una manifestazione in sostegno delle vittime del crollo del ponte Morandi, stava mostrando una serie di biglietti di solidarietà lasciati a terra, poi si è avvicinata ad uno dei passanti per avere un commento, senza intuire che si trattava di Marco Bucci. E gli ha chiesto se fosse genovese. «Sono il sindaco, veda un po' lei», la replica del primo cittadino.  Una gaffe che ha strappato più di un sorriso in un momento difficile per una città piegata dal drammatico crollo del viadotto Morandi. E il video spopola in Rete e sui social. Clicca qui per il video della gaffe col sindaco di Genova.

I SOCIAL SI SCATENANO. L'inviata di SkyTg24 era in piazza De Ferrari a Genova per seguire il flash mob in ricordo delle vittime del ponte. Fila tutto liscio durante il collegamento finché si imbatte nel sindaco della città. Non lo riconosce e gli chiede se è genovese. Immancabile l'ironia dei social, che non hanno perso l'occasione per commentare questo episodio. La cronista voleva evitare di mandare in video un turista, per questo ha chiesto giustamente se il signore fosse di Genova, peccato che non abbia riconosciuto in quell'uomo con la barba il sindaco. Un errore comprensibile per la natura “dinamica” dell'intervista e il vestiario non “istituzionale” del primo cittadino, che indossava una polo azzurra. Il primo cittadino con aria sorniona e un pizzico di imbarazzo ha risposto con una battuta e il video di questo momento è diventato subito virale facendo il giro dei social con tantissime condivisioni.

Il crollo del ponte a Genova. E l’intramontabile tv del dolore, scrive il 19 agosto 2018 Carmine Castoro su "Democratica". Quelle che dovrebbero essere pagine di giornalismo coraggioso e civico assumono sempre più, e quasi esclusivamente, i connotati di una colata di stucchevoli liquami informazionali ed emozionali. Il crollo del ponte Morandi a Genova, e le conseguenti cornici tragiche e polemiche, hanno dischiuso – com’è prassi ormai nei media cosiddetti mainstream – il vaso di Pandora di un antico immarcescibile male: la verità e i faticosi processi per raggiungerla sostituiti e imbavagliati dal solito tsunami di sentimentalismo, bombardamento confusionario di immagini e parole, propaganda. E così, quelle che dovrebbero essere pagine di giornalismo coraggioso e civico assumono sempre più, e quasi esclusivamente, i connotati di una colata di stucchevoli liquami informazionali ed emozionali che fanno da gigantesco esorcismo collettivo di eventi agghiaccianti cui nessuno, nei tempi giusti, ha saputo opporre un argine. Che si tratti di cavalcavia che si accasciano come biscotti, di terremoti devastanti, di alluvioni cui seguono ecatombi di danni e vittime, di deragliamenti che fanno strage di pendolari (in Italia ne abbiamo vista a decine negli ultimi anni di questa roba), il collasso infrastrutturale e quello mediatico non possono essere disgiunti – anche se quest’ultimo rimane meno visibile, meno palpabile -, perché ovunque ci sia una tragedia annunciata o un potere asfittico che affoga nelle sue pastoie burocratiche e di corruttela c’è sempre una classe di “informatori” che ha scelto di guardare dall’altra parte, fare audience, trastullarsi col gossip, seguire i filoni facili che appagano paure e desideri dell’opinione pubblica, puntare sul lasciafarismo piuttosto che su critica e urgenze. Anche stavolta, insomma, con un’opera di ingegneria colossale che si sfarina durante un nubifragio, inghiottendo bambini e turisti, famiglie e lavoratori, che cosa abbiamo visto in tv? Una informazione che, potremmo dire, si dedica solo al playground, al background, e mai all’underground. Che cosa significano queste parole? Una pletora di commentatori e “inviati” (e anche qui si dovrebbero aprire capitoli pietosi per spiegare come si muove e come parla davanti a un microfono la gran parte di questi “inviati”) vengono mandati sul campo (playground) e ci riempiono di valanghe di dettagli, testimonianze, video amatoriali (ripetuti tronfiamente di continuo, ad ogni edizione di tg), parole in libertà, ricordi di chi ha visto, ipotesi, veline di sindaci e ministri che già non perdono occasione per accapigliarsi: strali verbali e iconografici che si conficcano nei nostri occhi, nelle nostre teste con un potenziale fortemente ansiogeno. Poi si passa alla ricostruzione dei fatti, alla filiera della memoria (background), agli sfondi, al controllo dei precedenti, ai pregressi del fatto, e scopriamo all’improvviso che c’è un mondo di regolamenti, convenzioni, concessioni, rapporti economici, inadempienze, forse elargizioni, dubbie posizioni dei singoli, interrogazioni parlamentari di chi si avvedeva di un pericolo in stagioni non sospette, e di tutto questo noi poveri spettatori da zapping salottiero, che cosa ne sapevamo? Chi ce lo ha mai detto? Chi ci ha messo in guardia come cittadini? Adesso si spalancano archivi e cassetti, i “bravi” giornalisti fanno il loro “bel” mestiere, ma davanti a una fila di cadaveri, e in pochi minuti capiamo che avremmo fatto tranquillamente a meno di migliaia di ore di talk show politici, confronti in diretta, becero opinionismo e blablabla dei soliti noti, se qualcuno avesse avuto l’accortezza si spostare il quadrante delle priorità comunicative privilegiando la nostra natura di esseri umani e membri di un consorzio collettivo chiamato Paese. Ecco, l’underground che manca: scavare, smascherare, intervenire, ritrovare la nobiltà di giudizio per chi usa carta e penna o schermo e telecamera per parlare alla gente, fare inchieste, ma prima, aiutare con l’intelligenza più corrosiva, ma prima, fare esercizio di libertà e parresia, ma prima. Senza andarsi a rifugiare, poi, nella nauseante e immane retorica della “macchina dei soccorsi” per dare l’idea di uno Stato che ancora soccorre, crede nel bene comune, ricuce i suoi strappi e riparte. Come se poi, chissà perché, dovessimo vedere in pompieri poliziotti e carabinieri dei cavalieri senza macchia e senza paura, piuttosto che dei professionisti legati a quel tipo di lavoro da precisi obblighi contrattuali e deontologici. Ma per la favoletta da ammannire al popolo spaventato la solidarietà un tanto al chilo, gli “angeli” che ci fanno rialzare, i populisti che ci aizzano contro chi ha sbagliato (che sono sempre “altri”), tutto fa brodo. Siamo in presenza, insomma, di quella corticale trilogia “vittima-salvatore-dignitario” che Ignacio Ramonet già alla fine degli anni ’90, in un libro bellissimo intitolato La tirannia della comunicazione, vedeva come standard della cosiddetta informazione in tempo reale ipotizzando profeticamente come i giornalisti avrebbero documentato l’esplosione di una bomba a Parigi. I danni provocati e la conta dei morti e dei feriti; l’adoperarsi disinteressato per gli altri di pompieri, uomini in divisa, semplici cittadini; le parole rassicuranti che arginano paura e irrazionalità da parte dei detentori dell’ordine e della parola pubblici: non è cambiato nulla. “Il giornalista tende a essere sempre di più un semplice collegamento. E’ il filo che permette di mettere in contatto l’avvenimento con la sua diffusione. Egli non ha il tempo di filtrare, di verificare, di paragonare perché, se perde troppo tempo a farlo, altri colleghi tratteranno l’argomento prima di lui e i suoi superiori glielo rimprovereranno certamente”, scriveva. E, dunque, la dottrina mediatica è il “vedere=capire”, il mero assistere a un avvenimento come cardine dell’auto-informazione, del saltabeccare di canale in portale cercando solo immagini spietate e spezzettate, scioccanti, circoscritte a una grandezza temporale sempre più vicina e soffocante, dove, senza più setacci intelligenti, la funzione mediativa e meditativa del giornalista muta in “una retta”, “un vetro trasparente”, puro vettore di maree attentive e di ciclici standing di fronte a un display. E dove la censura, come dice Ramonet, diventa “democratica”, cioè non basata su soppressione e nascondimenti dei fatti, ma sulla loro sovrabbondanza, sul loro overload. “Il metodo è il seguente: ridurre, radicalmente, la politica al fatto concreto. Infatti l’astratto non ha immagini ed è il suo grande difetto ontologico. Solo il fatto reale si può filmare. Non la realtà” . E in questa illusione di sapere, dentro le logiche mercantili della comunicazione che intrudono l’informazione con tattiche ammaliatrici e circuenti, chi può dire che a Genova sinora sia andata in scena la “realtà”?

Genova, bufera su giornalista tv inglese: “ironia su crollo del ponte”. Genova, bufera su giornalista tv inglese: si sarebbe preso gioco del tragico crollo del ponte Morandi. Gli spettatori sconvolti dalle sue parole, feroci critiche sui social, scrive il 15 agosto 2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Per l'intero popolo italiano, il crollo del ponte Morandi a Genova ha scosso portando dolore e rabbia. Una ferita apertissima soprattutto per le 39 vittime (il bilancio è ancora purtroppo provvisorio) ma anche per i feriti gravi coinvolti nella tragedia, rispetto alla quale un giornalista dell'emittente britannica ITV, Tom Brandby, non avrebbe affatto riservato la dovuta delicatezza nel darne notizia agli spettatori inglesi. In tanti hanno denunciato i giochi di parole usati dal giornalista nell'annunciare il disastro di Genova e per questo è stato bollato come "insensibile", finendo inevitabilmente al centro della polemica. Il presentatore di News at Ten, a quanto pare, non avrebbe riservato la giusta delicatezza al caso di cronaca italiano ma anzi, con tono di scherzo, avrebbe quasi ironizzato sull'accaduto. Un atteggiamento che non è stato affatto gradito dai telespettatori che hanno riservato proprio al giornalista inglese una pioggia di critiche.

LE ACCUSE AL GIORNALISTA TV INGLESE. "Quante volte tutti noi abbiamo guidato su un ponte?": così il giornalista televisivo Tom Brandby ha esordito nel presentare la notizia della tragedia italiana relativa al crollo del ponte Morandi a Genova. "Avete mai pensato che potesse cadere sotto i vostri piedi? Bene, oggi a Genova è successo con conseguenze devastanti", ha proseguito, il tutto condito da un tono scherzoso. Il giornalista, 51 anni, ha inaugurato così il suo recente ritorno in tv, sommerso dalle critiche dei suoi stessi spettatori. Stando a quanto riferito dal quotidiano La Stampa, pare che il cronista in passato sia stato in congedo dalla tv per quattro mesi a causa dell'insonnia e solo di recente sia tornato sul piccolo schermo inglese. Di fronte alle sue parole di scherno, però, gli spettatori sono rimasti senza parole manifestando il proprio sdegno sui social, dove - soprattutto su Twitter - non sono mancate critiche anche pensanti e reazioni contrarie nei confronti del professionista televisivo. In tanti hanno definito le parole del presentatore "disgustose" rispetto alla grave tragedia italiana e chi ha bollato lo stesso giornalista "senza cuore" avanzando la possibilità di una petizione per farlo licenziare.

Genova, tra speculazione e imbecillità: inventata la lettera sulla famiglia morta. Così gli sciacalli del web lucrano sul dolore. Il ponte crollato a Genova la mattina del 14 agosto, scrive Manuela Galletta su giustizianews24.it il 17 agosto 2018. Ci sono tre storie che oggi vogliamo raccontare. Tre storie di sciacallaggio e di imbecillità che i social hanno restituito nelle impietose ore in cui a Genova si consumava l’immagine tragedia di un ponte crollato e di almeno 40 vite spezzate. Di sogni, speranze e sorrisi diventati un tutt’uno con l’impasto di cemento e lamiere che alle 11.30 del 14 agosto s’è schiantato da 45 metri di altezza. Tre storie che dimostrano in maniera plastica quanto sia potente, virulento, lo strumento di Facebook con la sua capacità di diffondere su scala planetaria una semplice notizia e di quanto, al tempo stesso, l’animo umano possa essere gretto nel servirsi di questo network per manipolare, divulgando notizie false, una massa di persone ancora troppo impreparate nell’accogliere, pesare e gestire informazioni di ogni sorta veicolate dalla creatura di Mark Zuckerberg. Ebbene, mentre i vigili del fuoco scavavano sotto le macerie del Ponte Morandi sull’A10, su Facebook è cominciato a rimbalzare uno scritto, dal contenuto verosimile e dalle note commoventi, sulla tragedia che aveva colpito una famiglia che si sarebbe trovata a passare sul cavalcavia dei veleni al momento del cedimento strutturale. Nel lungo testo si dava la notizia della tragica morte – quasi in diretta – di un’intera famiglia: una bimba di 3 mesi, il fratellino di 9 anni e i due genitori. Elena, Jacopo, Amanda e Paolo erano i nomi della felice famiglia risucchiata tra pezzi di cemento e lamiere. Inutile dirlo, quello scritto era un clamoroso falso. Realizzato da qualcuno che, sfruttando le corde della compassione, s’è divertito a fare esercizio di stile mentre i familiari delle vittime vere cercavano disperatamente notizie sui loro cari che non rispondevano più a telefono, mentre i familiari delle vittime vere attendevano, davanti a ciò che restava del ponte Morandi, che i vigili del fuoco restituissero loro almeno i corpi dei parenti da piangere. Roberta Giannino è il nome dell’utente che ha lanciato la commovente e verosimile storie. Il suo volto social? Un’immagine di Minnie. Era il primo segnale che dietro lo scatto della topolina più famosa della storia dei cartoons si celasse in realtà un’altra identità. Il primo segnale per fermarsi a riflettere sulla veridicità della notizia. Invece quello scritto ha ottenuto quasi 15mila condivisioni, complice anche l’espediente del narratore-bambino che si conferma un abile trucco per fare breccia nei cuori più sensibili. Tutti ignari pedine di un ingranaggio di manipolazione che solo la verità drammatica emersa ora dopo dopo da quelle macerie ha smascherato. Ma tant’è: c’è una fetta assai consistente del popolo social che oggi crede per davvero che il ponte Morandi abbia impietosamente fermato le vite di Elena (3 mesi), Jacopo (9 anni), Amanda (37 anni) e Paolo (40 anni). Che ha affidato un pensiero a questa famiglia che non è mai esistita. In questo post, la sera del 14 agosto, ci siamo inciampati pure noi. Seguendo il corso delle condivisioni siamo risaliti al profilo di Roberta Giannino. E lì ci siamo insospettiti. Per alcune ovvietà nello scritto. Ma soprattutto perché a parte la foto di Minnie quel profilo puzzava di falso. Le verifiche pure effettuate sull’identità della presunta famiglia morta, perché siamo giornalisti e se esiste una traccia bisogna sondarla, hanno tutte avuto esito negativo. Oggi il profilo di Roberta Giannino non c’è più. Cancellato, rimosso. Il post sui morti fantasma però campeggia ancora su molte bacheche Facebook. E il suo contenuto è finito col diventare realtà. «Non ci sono parole», concludeva il testo. E’ l’unica parte di esso che ci sentiamo di condividere. Non ci sono parole di fronte ad un esibizionismo, ad uno sciacallaggio di simili proporzioni. Non ci sono parole di fronte ad un animo umano che si fa beffe del dolore vero, reale, di chi sotto a quel ponte ha perso qualcuno che amava, di chi s’è messo a giocare con le parole per la stupida vanità di vedere l’effetto che fa.

Di parole, indignate, ce ne sono state invece migliaia per via dell’annuncio spot che un consorzio piemontese di professionisti, avvocati inclusi, ha affidato a Facebook sempre nella serata drammatica in cui erano in corso le operazioni di recupero delle vittime. «Ciao! Facendo seguito al terribile disastro di Genova, XXX con il suo team legale specializzato nella tutela del diritto e risarcimento del danno relativo a disastri naturali, stradali e di lavoro offre a tutti i cittadini un servizio con intervento immediato a tutela delle persone danneggiate e delle vittime», è l’incipit del post. Poi l’offerta speculativa: «Mettiamo a disposizione delle persone colpite da questa tragedia i nostri professionisti senza anticipare spese o onorari di alcun genere atteso che le stesse verranno addebitate tutte alle compagnie di assicurazioni e/o ai fondi od ai responsabili del disastro. Per le vittime la prestazione è gratuita». 

I selfie di fronte al ponte Morandi di Genova: la nuova meta del “turismo dell’orrore”. Dalla Costa Concordia all'isola del Giglio all'hotel di Rigopiano, da Auschwitz a Chernobyl, i luoghi delle tragedie diventano scenari per scattarsi il selfie perfetto che dica "Io c'ero", in un'immensa spettacolarizzazione del dolore, scrive il 22 Agosto 2018 TPI. Selfie e crollo del ponte di Genova. Il giorno dei funerali aveva creato enorme scalpore il selfie di una ragazza insieme a Matteo Salvini, o quelli con Luigi Di Maio. Ma quelli che stanno facendo discutere in queste ore sono quelli scattati davanti al ponte distrutto. “Turisti dell’orrore” vengono chiamati. Arrivano sul luogo della tragedia per scattarsi un selfie che testimonia il loro passaggio. In questo caso da Genova, e nel momento di massimo dolore. A dare la notizia è GenovaQuotidiana. “C’è chi giunge da città lontane decine e decine di chilometri, chi per giustificarsi dice di aver promesso al bambino la gita sul luogo del disastro, chi fa finta di passare di lì per caso e di scattare col telefonino solo perché, già che è lì… Poi ci sono quelli che arrivano con reflex e cavalletto “tirandosela” da professionisti per poi postare le immagini su questo o quel gruppo di fotografia online”, scrive il quotidiano.

Il turismo dell’orrore. Il ponte Morandi di Genova non è né l’unico né l’ultimo scenario di tragedie preso d’assalto dal cosiddetto “esercito del selfie”. Dalla nave da crociera arenata all’isola del Giglio, la Costa Concordia, ai ai luoghi di tragedie epocali come Chernobyl o i campi di concentramento, la spettacolarizzazione della tragedia è ormai un fenomeno diffusissimo. Anche Rigopiano, dove una valanga sommerse l’hotel Rigopiano-Gran Sasso Resort nel 2017, fu meta di “gite delle domenica”, da parte di curiosi accorsi per vedere ciò che rimaneva del tragico evento. Stessa cosa ad Amatrice e gli altri luoghi del terremoto, dove, ben lontani dalla zona rossa vietata al pubblico, molti hanno scattato selfie e foto ricordo del terremoto che provocò centinaia di vittime nel 2016.

Ponte Morandi, l’esercito dei selfie con tragedia sullo sfondo, scrive il 20 agosto 2018 GenovaQuotidiana. No, non ci sono solo la tipa, per giunta parente di una delle vittime, che ferma Matteo Salvini ai funerali di Stato (e il ministro degli Interni che si concede, mantenendo però un austero viso di circostanza che si addice, magari gli è sembrato, al ritratto della tragedia) e le groupie che circondano garrule Luigi Di Maio dopo le esequie. No, ci sono centinaia e centinaia di turisti dell’orrore, arrivati a sciami martedì e mercoledì e tornati in massa venerdì pomeriggio per fermarsi fino a ieri sera. Sì, perché c’è chi impiega il proprio tempo libero per fare un filmatino zoommato di bassa qualità (perché al luogo del disastro mica ti ci fanno avvicinare) da dietro le griglie dell’Ikea, chi si porta pure l’asta da selfie per pubblicare su Facebook la propria foto con sfondo di tragedia, chi arriva in zona sensibile con tutta la famiglia e viene da pensare che siano gli Addams in persona e che prima o poi spunterà anche Lurch. C’è chi giunge da città lontane decine e decine di chilometri, chi per giustificarsi dice di aver promesso al bambino la gita sul luogo de disastro, chi fa finta di passare di lì per caso e di scattare col telefonino solo perché, già che è lì… Poi ci sono quelli che arrivano con reflex e cavalletto “tirandosela” da professionisti per poi postare le immagini su questo o quel gruppo di fotografia online. Così polizia locale, carabinieri e polizia devono stare attenti che non intralcino il lavoro dei vigili del fuoco e anche che non si mettano in pericolo. Tutto per postare sui social una foto scattata proprio dove sono morte 43 persone. Chissà, forse un giorno la mostreranno ai nipotini dicendo, orgogliosi, “io c’ero”, comprovando agli eredi tutto il cinismo e la stupidità di cui l’uomo è capace.

"L'orrore è che siamo tutti in mano al Caso". Il comico ligure Vergassola: vedevamo il ponte sempre controllato, ci sentivamo sicuri. Invece.., scrive Enza Cusmai, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale". «Sono annichilito. È una tragedia vera. È come se a Milano crollasse il Duomo, è come un attentato terroristico. Lascia tutti sgomenti, ci rende tutti più vulnerabili». Dario Vergassola, comico e attore ligure, spezzino per la precisione, ha il tono triste di chi si sente impotente di fronte all'imponderabile. «Io sul Morandi ci sono passato migliaia di volte. E spesso in auto l'ho attraversato a passo d'uomo. Se fosse crollato in un momento di grande traffico... mi vengono i brividi. E ora sono sbigottito. Come quei centralinisti che faticavano a capire le richieste di aiuto».

Dario, a quel ponte era affezionato?

«Era un passaggio obbligato, per andare al porto, all'aeroporto, in Francia, a Torino. Passavi sempre di lì. Era brutto, per carità, ma era il nostro ponte di Brooklyn, il più alto d'Europa. Un vanto per noi liguri e ora è come se la Liguria fosse spezzata in due, un disastro per la logistica».

Vergassola, lei è un ansioso, ma a Genova ci passava senza problemi sul suo ponte...

«Arrivo dal Sud e ho visto tronconi sospesi, situazioni molto precarie. Invece il Morandi era in continua manutenzione, c'era sempre gente a lavorarci, non era un ponte abbandonato a se stesso. Pensavo che fosse controllato per bene e questo fatto mi dava sicurezza. È come avere un pronto soccorso vicino a casa e ti senti tranquillo perché sai che ti può salvare la vita invece quando ti serve ci vai e muori lo stesso».

La certezza non esiste...

«Una roba così mi ricorda che siamo vivi per caso. Siamo in mano alla casualità. Se uno va in bagno si salva. Se uno si cambia le scarpe e perde tempo ad allacciarsi le stringhe si salva. La fatalità ha salvato alcuni e ne ha fatti morire altri. Un semplice attimo ha cambiato i destini di ragazzi, bambini e di intere famiglie. È un valzer di coincidenze: ma com'è possibile che uno possa perdere la vita per una coincidenza?».

Questi eventi ti rendono vulnerabile?

«Quelle poche certezze che ti danno il Lexotan o le chiacchiere al bar la sera ti vacillano in un attimo. E come se una moto entrasse al ristorante e ti facesse secco in un colpo mentre sei seduto al tavolo».

Vergassola, si avverte il lutto collettivo?

«Mi chiamano amici e parenti e mi chiedono come stai? Ma che diamine, io sono vivo, non ero sul ponte in quell'attimo maledetto. Penso invece ai genitori di quei ragazzi morti, ai bambini, mancano le parole per esprimere il cordoglio. E capisco quei parenti che non vogliono i funerali di Stato. Il dolore è una cosa privata, sarà difficile elaborare questo lutto così ingiusto».

Lo vuole un altro ponte?

«Sì, ma sei mesi, come dicono, per rifarlo mi sembra a occhio un po' pochino. Mi accontenterei di vederlo su in un anno. Ma, basta cemento, meglio l'acciaio, perché si sa che il cemento dopo qualche anno non regge più. Che ironia però: noi avevamo l'Ilva, eravamo leader nella produzione dell'acciaio e invece... Siamo stati letteralmente soffocati dal cemento». 

Un paese che ha bisogno di competenze certe. L’istruzione non può essere considerata un inutile investimento di tempo e di energia. L’attuale svalutazione della scuola e il tracollo politico vanno di pari passo in un mondo dove chi invoca la complessità viene visto con diffidenza e percepito come noioso nel percorso analitico, scrive Severino Salvemini il 17 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". È sorprendente che di fronte alla improvvisazione verso problemi complessi e al pericoloso dilagare del culto dell’incompetenza, il mondo della scuola e dell’università si sia ritratto ad osservare il fenomeno, senza rivendicare con forza la sua missione educativa. Già in primavera i programmi elettorali delle due forze politiche governative brillavano per l’assenza di temi legati alla conoscenza, che dovrebbero invece essere il costrutto prioritario di una società che vuole determinare il futuro dei propri cittadini e che invece erano relegati in un angolo. L’Italia — ci dice il Rapporto di conoscenza 2018 dell’Istat — è uno dei Paesi più ignoranti d’Europa, con solo Grecia e Portogallo che ci battono per analfabetismo e il 27esimo Paese di EU27 per percentuale di laureati. Eppure oggi l’ignoranza non è più un tabù, anzi è quasi un vanto e un programma di vita, essendo stato eletto a valore anti-casta. Di fronte alla scienza e alla istruzione il ragionamento è semplice; tutto ruota intorno ad un principio folle: gli esperti hanno fallito, le élite vanno punite, gli specialisti sono da abbattere, i professori arroganti emarginati. La sintesi del moralismo è questa: meglio incapaci che in mala fede; meglio onesti che responsabili non si sa bene di quale prospettico misfatto. Come scrive Tom Nichols nel suo libro The Death of Experience, l’enorme accesso alla conoscenza offerto da Internet non ha fatto nascere l’alba di un nuovo illuminismo ma «il sorgere di un egualitarismo narcisistico e disinformato», che può sopravanzare il tradizionale sapere consolidato. E allora, oplà: liberiamoci dai soloni che predicano a destra e a manca e sostituiamoli con le persone normali che ci circondano. È l’inganno della semplificazione, che si compiace di una superficialità spacciata come sentimento del popolo. Si è persa ogni coordinata di saggezza, vituperando ogni giorno la scuola e l’università. Come dice Giovanni Floris, nel suo recente appassionato saggio Ultimo banco, la semplificazione è sdrucciolevole e riduzionistica: senza la scuola non ci sarà mai l’occasione per comprendere le zone grigie, come che femminile non vuol dire necessariamente vezzoso e maschile necessariamente rozzo. È sì vero che le fabbriche della conoscenza non riescono più a fornire come una volta gli strumenti di affermazione collettiva e l’ascensore sociale, ma l’educazione è l’unico vero antidoto al populismo ed è l’unico baluardo per offrire ai giovani modelli positivi di autorità, senza i quali rimangono solo cantieri di disprezzo verso le istituzioni. L’istruzione non può essere considerata un inutile investimento di tempo e di energia. L’attuale svalutazione della scuola e il tracollo politico vanno di pari passo in un mondo dove chi invoca la complessità viene visto con diffidenza (perché «la gente non capisce») e percepito come noioso nel percorso analitico (mentre oggi predomina solo la battuta fulminante e spettacolare). Siamo in un Paese che produce poca conoscenza, che la trasmette male e che la dignifica ancora peggio. E invece questo è il problema dei problemi, quello che genera tutti gli altri. Noi abbiamo bisogno di competenze certe, di persone che sanno di cosa parlano, di individui che conoscono quali tasti schiacciare nelle sale di controllo. Non basta l’essere per bene — onestà, onestà, onestà — come criterio per animare l’affidabilità della classe dirigente.

Le scelte cancellate nel Paese che fa e disfa. Tav, Tap, Ilva, Gronda di Genova: il compito della politica è costruire il futuro o distruggere il passato? Scrive Sabino Cassese il 17 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". L’Italia del fare e disfare. Dell’Alta Velocità tra Torino e Lione (Tav) si discute dal 1994 e i lavori preparatori sono iniziati nel 2011; ora è stata avviata una analisi costi benefici per una sua «revisione integrale». Del Gasdotto transadriatico (Tap) si discute dal 2003 e l’opera è iniziata nel 2016; ora il governo esprime dubbi e vuol riaprire la valutazione d’impatto ambientale. Le inchieste sull’impianto Ilva di Taranto sono del 2012, del 2015 il commissariamento, del giugno 2017 l’aggiudicazione alla ArcelorMittal; ora si scoprono «criticità» e si prende in considerazione un annullamento dell’aggiudicazione. Le competenze sul turismo erano state affidate al Ministero dei beni culturali nel 2013. Ora sono state trasferite al Ministero delle politiche agricole e forestali. L’Italia era nota come Paese incapace di decidere: della Gronda di Genova si discute dal 1984; se si fosse fatta, forse non vi sarebbe stato il crollo del viadotto del Polcevera. Ora cerchiamo di conquistare un altro primato: quello di Paese che ritorna sulle sue decisioni, che va avanti e indietro. Questo «va e vieni» di decisioni pone molti interrogativi. In primo luogo, compito della politica è costruire il futuro o distruggere il passato? Quando si vogliono cambiare indirizzi politici, dove ci si deve fermare nella «pars destruens»? Si può riscrivere la storia italiana, o si deve assicurare una certa continuità di orientamenti, specialmente nelle grandi scelte strategiche? Una seconda domanda riguarda l’origine di questa furia demolitrice. È solo frutto del governare per strappi, delle troppe voci, delle forti oscillazioni, dell’assenza di un centro del governo, anche dell’inesperienza, oppure è uno schermo per riempire un vuoto programmatico, come le troppe promesse elettorali che non è possibile mantenere? Occorrerebbe rendersi conto che ogni governo governa per la maggior parte con leggi e istituzioni dei governi precedenti. Una stima fatta poco tempo fa da una importante istituzione americana ha calcolato che, negli otto anni di durata massima del suo mandato, un presidente americano non può modificare più del 9 per cento delle politiche pubbliche. Per questo si parla di continuità dello Stato, pur nella modificazione dei governi. I governi, poi, sono vincolati da accordi internazionali, che debbono rispettare e che non possono modificare unilateralmente. Essi sono anche interessati a stipulare altri accordi, che comportano l’assunzione di ulteriori vincoli. Un esempio recente è quello dei nostri rapporti con la Cina: se vogliamo che il Tesoro cinese compri titoli del debito pubblico italiano, dobbiamo tener conto che il governo cinese è interessato a progetti infrastrutturali lungo le rotte commerciali globali cinesi, che toccano alcuni porti italiani. Dunque, dovremo accettare di costruire importanti opere pubbliche portuali. Molte opere godono di finanziamenti sovranazionali (per lo più europei) o sono state vagliate da organismi europei. Se ci tirassimo indietro sulla Tav, che potremmo dire alle istituzioni europee che hanno contribuito al suo finanziamento (e alla Francia, che ha fatto la sua parte)? La gara per l’aggiudicazione dell’Ilva era fondata su atti vagliati dall’Antitrust europea: possiamo ora avanzare dubbi sul rispetto delle regole di concorrenza? Infine, opere e investimenti sono spesso frutto di interventi di imprese straniere, interventi che sono ben graditi perché portano risorse al nostro Paese. Ma se le autorità italiane rimettono continuamente in discussione le decisioni prese, quale affidamento viene dato agli investitori e imprenditori stranieri? Quanto efficace sarà il nostro tentativo di attirare altri investimenti in un Paese che si rivela così poco affidabile? Ci sono limiti, dunque, a quella che Alberto Asor Rosa ha chiamato — criticandola — la «cancellazione di tutta la storia italiana precedente». Di questo dovrebbe tener conto il presidente del Consiglio dei ministri, che ha dichiarato ieri di voler «dare un segnale di svolta» per «tutte le nostre infrastrutture» (la maggior parte delle quali, sono, però, in gestione pubblica diretta, dello Stato, di Comuni e delle ex Province, e richiedono, quindi, di rifare innanzitutto i conti in casa propria).

Le grandi opere in ostaggio e la politica dei no. Assistiamo nel nostro Paese ad una ostilità viscerale, «di pelle», nei confronti dell’economia moderna, ad una sorta di feticistico rifiuto, scrive Angelo Panebianco il 22 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". Un gruppo di giovani, una domenica qualunque, è impegnato a danneggiare automobili in sosta e a scontrarsi con la polizia. Sono ultrà del calcio inferociti per un rigore (a loro dire) negato dall’arbitro alla loro squadra del cuore. Un altro gruppo di giovani, in un’altra giornata, si dedica invece a sfasciare le vetrine di un McDonald’s e anch’esso si scontra con la polizia. Sono «no global», sono in lotta contro la globalizzazione. Quasi tutti, probabilmente, siamo d’accordo nel deplorare il comportamento di entrambi i gruppi. Probabilmente concordiamo anche nel considerare sia gli ultrà che i no global in questione dei disadattati che scaricano con la violenza le loro frustrazioni. Però, è anche possibile, se non probabile, che alcuni di noi, pur condannando tutti e due i gruppi, siano portati a pensare che ci sia comunque un po’ più di razionalità nella protesta violenta contro la globalizzazione che in quella contro il rigore negato. Sbagliato. Posto che di razionalità ce n’è pochina in entrambi, l’ultrà ne possiede comunque un po’ più del no global. Infatti, l’ultrà, per lo meno, conosce le regole di una partita di calcio, sa che cosa sia un rigore, eccetera. Il no global invece protesta per cose di cui nulla sa e di cui capisce ancora meno. E’ in lotta contro un nome (globalizzazione), non ha la più pallida idea di cosa davvero corrisponda a quel nome o di come funzioni un’economia globalizzata. Disadattato per disadattato, l’ultrà è più razionale del no global. Questa premessa mi serviva per dire che ci sono aspetti della vita pubblica del nostro Paese che non sono spiegabili solo da esperti di politica o da sociologi. Per venirne a capo dovrebbero essere consultati anche gli psichiatri. L’esistenza di una opposizione di massa alle grandi opere (un’opposizione che può benissimo prendere la strada della violenza: vedi il caso dei no Tav) appartiene a questo genere di fenomeni. Nell’intervista del Corriere (17 agosto) al capo dei comitati no Gronda, a colui che aveva definito una «favoletta» la possibilità del crollo del ponte, due aspetti erano degni di nota. In primo luogo il fatto che, anziché parzialmente riscattarsi nell’unico modo possibile, ossia dicendo «sono stato un imbecille e non aprirò mai più bocca su questioni pubbliche», il nostro, confermando di che pasta morale siano fatti i nuovi politicanti, ha preferito scaricare le colpe su altri, sugli «ingegneri» di cui, poverino, si era fidato. Ma l’altro aspetto notevole (almeno per i non genovesi) è che egli, in quella intervista, ricordasse che già nelle manifestazioni del 2008 contro la Gronda partecipassero cinquemila persone. Cinquemila? Davvero un gran numero. Come è possibile che cinquemila persone si mobilitino contro un progetto delle cui ragioni e implicazioni — quasi sicuramente, se non sicuramente — la schiacciante maggioranza di loro nulla sa? Se riusciamo a spiegare questo avremo la chiave per spiegare molto di ciò che un tempo si sarebbe chiamato lo «spirito pubblico» nell’Italia di oggi. Non basta dire che numeri così folti si spiegano soprattutto con il calore che trasmette lo «stare insieme», sentirsi coinvolti in una esperienza comune. Se fosse tutto qui, anziché a protestare contro la Tav, la Gronda, la Tap, e la qualunque, potrebbero andarsene tutti quanti a un concerto di Vasco Rossi, o comunque ad ascoltare buona musica anziché del noioso bla bla pseudo- politico. Se sentite parlare qualcuno dei tanti mobilitati contro le «grandi opere» vi rendete conto che c’è qualcosa di oscuro, di inquietante, qualcosa che si percepisce come del tutto irrazionale, negli atteggiamenti di queste persone. Lasciando da parte l’effetto Nimbi, la comprensibile (deprecabile quanto si vuole ma comprensibile) opposizione di coloro che dicono «non nel mio giardino», è l’opposizione degli altri che va spiegata. Come è potuto accadere che ci siano persone per le quali le grandi opere sono il Male, il Male assoluto? Che cosa fa scattare così tanto disgusto e raccapriccio? Di quale malefizio, e lanciato da chi, sono rimasti vittime costoro? Ascoltando i nemici delle grandi opere, risulta che le motivazioni ufficiali di questa diffusa, e intensa, mobilitazione, siano due: la lotta alla corruzione e la difesa dell’ambiente. Per molti, opera pubblica è sinonimo di corruzione. E più grande è l’opera, più grave è la corruzione. L’unico modo per bloccare il malaffare è smettere di farne. Fu precisamente questa la motivazione ufficiale che spinse la neo-eletta sindaca di Roma a dire no alle Olimpiadi. Se non ci sono appalti per opere pubbliche non ci sono nemmeno mazzette che passano di mano. Suggestionati da trent’anni di continue inchieste giudiziarie e connesso clamore mediatico, convinti (a torto) di vivere nel Paese più corrotto del mondo, molti nemici delle grandi opere credono di lavorare per la «legalità». Ci sono poi quelli che pensano di battersi per la conservazione dell’ambiente, per i quali qualunque opera pubblica di grandi dimensioni è un attentato alla natura, una violenza all’ambiente. Spesso l’oppositore delle grandi opere fa ricorso a entrambe le motivazioni. Non è difficile vederne la matrice comune, la quale consiste nell’ostilità viscerale, «di pelle», nei confronti dell’economia moderna. Se fosse davvero la corruzione il problema, l’oggetto del contendere non sarebbero le grandi opere ma le regole degli appalti. Ciò che si aborre, in realtà, è il passaggio di denaro, anche se legale, coinvolto nella costruzione delle opere pubbliche. Al fondo gioca una sorta di feticistico rifiuto dell’economia monetaria. La «causa» ambientalista è altrettanto pretestuosa della lotta alla corruzione. Ad essere detestata è, in qualunque forma, la manipolazione dell’ambiente, ossia è, né più né meno, la società industriale. Il problema è molto serio. In politica le minoranze rumorose contano più delle maggioranze silenziose. O si trova il modo di dirottarli tutti verso i concerti di chi vi pare oppure questi ci fanno tornare al Medio Evo. All’Alto Medio Evo, a quelli che non è più di moda chiamare i secoli bui.

Ponte Morandi, Oscar Giannino: "Emergenza nazionale, quanti miliardi costerà il disastro all'Italia", scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Il crollo del ponte Morandi a Genova è una "emergenza nazionale" che nessuno sta sottolineando a sufficienza. Oscar Giannino, sulla propria pagina Facebook, sottolinea le conseguenze disastrose per l'Italia legate alla viabilità stravolta dalla sciagura del 14 agosto. Di fatto, scrive il giornalista economico - è stato spezzato "un asse viario essenziale non solo tra Genova Ovest ed Est - che ora rischiano di essere di fatto per anni quasi separate come Berlino ai tempi della Guerra fredda -, ma anche tra il porto di Genova, il maggior scalo di container italiano, e l'intero asse occidentale della E80, che da Lisbona giunge fino al confine orientale dell'Anatolia". Rispetto a prima del disastro, occorreranno almeno 2 ore in più di percorso per completare lo stesso tragitto, obbligando automobilisti e soprattutto gli autisti di Tir "a salire fino a Novi Ligure per poi riscendere verso la A7 e reinstradarsi nella A12, che va verso La Spezia". Risultato: "Un\ collo di bottiglia micidiale per la movimentazione delle merci portuali in partenza e in arrivo" e "un danno non solo per la vita quotidiana dei genovesi ma per le attività economiche locali e nazionali complessivamente valutabile in diversi miliardi di euro l'anno".

Così l'Italia dei regressi rema contro se stessa. L’ Italia che in solitaria strilla alla luna, smonta il suo modello di sviluppo senza chiare opzioni di ricambio, sfida le regole di tutti i giochi lanciando messaggi politici, economici e industriali incongrui rispetto alla realtà che la circonda, rema solo contro sé stessa. A suo rischio, scrive l'1 agosto 2018 Adriana Cerretelli, editorialista del Sole24Ore. No Tav. Tap forse, Ilva chissà. Vogliamo continuare a restare nel novero dei 7 maggiori Paesi industrializzati nel mondo, ricostruire un sistema Paese che ritrovi crescita, produttività e competitività forti e che quindi possa redistribuire risorse, lavoro, benessere e non assistenzialismo oppure no? Vogliamo continuare a restare fra i Grandi d’ Europa non per peso demografico (fin che dura) ma per la qualità delle nostre strutture? Che siano esse civili, economiche, formative, amministrative, giudiziarie. Vogliamo restare fra i Grandi d’ Europa per la coerenza e la serietà dei nostri comportamenti pubblici e privati, in breve per la solidità del nostro sistema e la credibilità di chi lo governa oppure no? Niente provocazioni nè domande retoriche. L’attuale Governo è nato nel segno della discontinuità radicale, che travalica l’assalto alla casta e alle poltrone eccellenti secondo uno “spoil system” che ha ben poco di innovativo. La rottura va molto oltre per perseguire lo stravolgimento dei parametri che sono alla base del modello di sviluppo del Paese: il quale finora è stato quello di tutti i Paesi, europei e non, che all’osso hanno l’ambizione di creare e condividere in modo più o meno equo, prosperità fra i suoi cittadini. Niente di scandaloso nella rottura, se almeno ci fosse un progetto organico alternativo. Non onirismo impastato di decrescita felice, lavoro e redditi per decreto, pauperismo e deindustrializzazione in libertà a prescindere. Una volta, non un secolo fa, l’Italia aveva un mantra: diventare un Paese normale, un interlocutore rispettato tra i partner europei e mondiali. Oggi, non si sa con quanta lucidità e consapevolezza, sembra puntare sull’obiettivo opposto: divergenze, ribellismo confuso e anormalità a cuor leggero, come se la deriva verso l’auto-isolamento non avesse un prezzo pesante da pagare nel mondo dell’interdipendenze intrusive e moltiplicate. A più di due anni dallo strappo, l’inestricato e apparentemente inestricabile rebus chiamato Brexit parla chiarissimo. Nei giorni scorsi Emanuele Macron è stato a Madrid e Lisbona. Motivo? Francia, Spagna e Portogallo stanno tentando di accelerare la reciproca integrazione delle reti energetiche per ottimizzarne utilizzo, prezzi e consumi. Sfruttando la complementarità degli interessi politici ed economici, alla valorizzazione di un possibile blocco regionale che pesi più della somma dei singoli Paesi nei negoziati europei e non. L’ Italia? Anche se il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sembra rassicurante, il Governo sembra mettere ancora in discussione il Tap, il gasdotto che potrebbe convogliare il gas azero in Europa diversificando le fonti di approviggionamento energetico, allentandone la dipendenza preponderante dal gas russo in seguito al raddoppio del contestato Nord Stream 2. Dopo il no nel 1987 al nucleare, che ha contribuito a renderci il paese dove l’industria paga l’energia più cara d’ Europa ora si potrebbe cancellare il Tap non si capisce per quali ragioni concrete. Finirà come sei anni fa con il rigassificatore di Brindisi abbandonato dalla British Gas dopo aver passato 11 anni nell’inutile attesa dei relativi permessi e un danno d’immagine per l’Italia che ha lasciato il segno tra i potenziali investitori esteri? Il mondo va avanti, l’Italia procede a ritroso. Abbiamo (avevamo?) con l’Ilva la più grande acciaieria d’Europa: nel migliore dei casi finirà sotto il controllo di Arcelor-Mittal, il colosso euro-indiano, nel peggiore chiuderà i battenti tra le indicazioni contraddittorie, le “insoddisfazioni” persistenti e le consultazioni in un tavolo allargato a 62 sigle sindacali e altro, organizzate da un ministro forse schiacciato da un gioco più grande di lui. Per l’Italia che si vanta di avere la seconda manifattura d’Europa dopo la Germania, la siderurgia dovrebbe essere un patrimonio irrinunciabile, non un asset esposto con leggerezza alla vendita o addirittura alla chiusura. Ma a tagliarci fuori dall’Europa, dai suoi standard e dalle infrastrutture di trasporto integrato del mercato unico, ci pensa anche il tormentone della Tav. Già le Alpi ci condannano a essere periferia dell’Unione. Invece di scavalcarle con la Torino-Lione e l’alta velocità per il trasporto merci, noi ora preferiamo sigillarne i possibili valichi e trafori. Per obiezioni per lo più localistiche. Non importa se cancellare la Tav significherà stracciare gli accordi sottoscritti con la Francia e l’Unione, pagare penali, distruggere la credibilità del Paese come interlocutore attendibile. Non importa se l’Italia, che esporta l’80% delle sue merci nella Ue, si ritroverà senza un accesso rapido e competitivo al mercato europeo. Magari l’Europa prima o poi finirà in pezzi. Non tira una bella aria a Bruxelles e dintorni: leader deboli e sempre più attenti alla difesa degli interessi nazionali a scapito di quelli collettivi. Però l’Italia che in solitaria strilla alla luna. Magari l’Europa prima o poi finirà in pezzi. Non tira una bella aria a Bruxelles e dintorni: leader deboli e sempre più attenti alla difesa degli interessi nazionali a scapito di quelli collettivi. Però l’Italia che in solitaria strilla alla luna, smonta il suo modello di sviluppo senza chiare opzioni di ricambio, sfida le regole di tutti i giochi lanciando messaggi politici, economici e industriali incongrui rispetto alla realtà che la circonda, rema solo contro sé stessa. A suo rischio. Perché nel 2018 un’autarchia confusionaria non può che portare alla deriva. Trasformarci in un Paese “anormale”. Quindi sempre meno affidabile.

Disastro di Genova: il ponte del Titanic Italia. Per il governo la tragedia è diventata l'occasione per fare propaganda, individuando i colpevoli ancor prima che l'inchiesta cominciasse, scrive Raffaele Leone il 24 agosto 2018 su "Panorama". Se un giornalista di Panorama per superficialità scrivesse una cosa falsa su un cittadino e questo si uccidesse per quella falsità, tenderei a cacciare il giornalista. Poi mi dimetterei anch'io. Mi accollerei la mia parte di responsabilità perchè l'autore dell'articolo fa capo a me. Un morto per un errore giornalistico è troppo per poterlo ripagare soltanto con scuse tardive e un assegno di risarcimento ai familiari. A Genova i morti sono stati quarantatré. Io non conosco i Benetton né i vertici di Autostrade per l'Italia anche se l'azienda ci ha affiancato nel Tour di Panorama d'Italia e ho incontrato il responsabile delle relazioni esterne. La ritengo una collaborazione indovinata e positiva, ma una collaborazione indovinata e positiva non mi impedisce di dire che se dovesse accertarsi che il crollo del ponte è colpa di tecnici e di manager dell'azienda, mi aspetterei le dimissioni di tutti i vertici (la revoca della concessione a quel punto andrebbe probabilmente da sé). Mi aspetterei poi dal giudice una condanna severa nei confronti dei responsabili anche se leggo che il massimo della pena è di cinque anni. Cinque anni per quarantatré morti? Inconcepibile. Come trovo inconcepibile che nel 2018 in Italia una colonna di auto venga inghiottita dal cedimento di un cavalcavia. L'inchiesta e il processo siano accuratissimi senza guardare in faccia nessuno. Confido che i magistrati riescano nell'impresa. Ecco, appunto: i magistrati. Vedere il Tribunale del populismo (con Conte presidente e Di Maio, Salvini, Toninelli giudici a latere), correre a Genova e svolgere il processo davanti alle macerie per direttissima tv, mi ha lasciato interdetto. La strage ha un unico colpevole, gli altri partiti complici, loro autoassolti. Il caso è chiuso. Io non difendo i Benetton (se dovessero risentirsi per questo, pazienza), Autostrade era certo responsabile della sicurezza del ponte, ma se si stravolgono regole basilari nella divisione dei poteri, sul ciglio del baratro non ci sarà soltanto quel camion-simbolo di Genova ma ci finiremo tutti. Non mi sono mai piaciuti i giudici che fanno politica con le inchieste, non mi piacciono i politici che emettono sentenze senza processo. Se poi quei politici sono al governo meno che mai. Ci sono irregolarità nella concessione? Si è fatto un regalo ai privati a spese nostre? Si tolga il segreto alle carte e capiremo più di quanto abbiamo fin qui capito (forse). Ci sono casi di corruzione? Si faccia una denuncia penale. Qualora Autostrade avesse disatteso gli accordi non investendo quel che doveva in sicurezza, la si punisca. Ma dare il caso per risolto quando l'inchiesta non è ancora partita, è stato improprio per quanto "popolare". Certo, sembravano tosti quei quattro dell'Ave Maria: "Basta affari sulla vostra pelle", "Con noi giustizia subito", "Tra speculatori e cittadini stiamo coi cittadini". E infatti ai funerali hanno avuto applausi e selfie. Governare con gli slogan, con la pancia e con le piazze urlanti richiede un nemico sempre pronto da giustiziare in pubblico. Chi volete, Gesù o Barabba? Si sa come andò a finire. I grillini, poi. Quei grillini che stanno grillizzando anche il "nordismo" efficiente e imprenditoriale della Lega di Salvini, quei grillini che se c'è da costruire una strada, un gasdotto, una ferrovia vedono il diavolo (ora che sono al potere un po' meno). Che se potessero nazionalizzare l'intera economia lo farebbero domani. Quei grillini hanno accusato di ogni nefandezza chi voleva una bretella che alleggerisse il ponte Morandi e ora vogliono costruirla fingendo di non ricordare. Quei grillini, con Beppe in testa, definivano una "favoletta" il possibile crollo del ponte e dicevano no alla bretella perché "Autostrade per l'Italia ci ha assicurato che il cavalcavia è sicuro". La stessa azienda che ora è il peggio del peggio, veniva interpellata ed era credibile perché allora serviva così. Il ministro per le infrastrutture Toninelli, uno dei giudici togati sotto al pilone, non può essere accusato di omesso controllo perché è lì da poco. Ma lui e il suo movimento, visto che ritengono la concessione ai Benetton (votata anche dai loro soci leghisti) uno scandalo nazionale e una mangiatoia di regime, che cosa hanno fatto durante gli anni di opposizione? Tra le loro campagne No-Tutto si sono mobilitati per la sicurezza delle autostrade? Hanno mai verificato se l'ente ministeriale preposto a controllare i controllori aveva i mezzi per farlo? Hanno denunciato le omissioni dello Stato? O si sono limitati a interpellare la società solo per farsi dire e per ripetere che il ponte era sicuro? Ministro Toninelli, se il tema era così caldo e lo scandalo così evidente, perché in questi cinque mesi non ha aperto subito un'istruttoria, convocato riunioni, preparato un dossier? Va bene chiudere i porti ai taxi di migranti (lì sto con lei) ma migliaia di chilometri di asfalto che tutti percorriamo erano meno prioritari, visto quel che gridate? Non dico che Autostrade e populisti hanno le stesse responsabilità, ovviamente. Dico che siamo un Paese in cui vale solo la verità che ci fa comodo, un Paese passato dagli eccessi di sfumature della Prima Repubblica all'assenza di sfumature della Terza Repubblica. In questi giorni ho letto di tutto, ho trovato pezzi di verità qui è la, come qui e là ho trovato pezzi di bugie. So che nell'Era populista i distinguo, la moderazione, le autocritiche, i dietrofront vanno nascosti, ma non mando il cervello all'ammasso perché così piace alla maggioranza degli elettori. Ora si torna a parlare di Anas. Volete farci credere che se fosse stata l'Anas a gestirlo, quel ponte sarebbe ancora in piedi? Che se le autostrade fossero rimaste allo Stato i controlli avrebbero evitato la tragedia? Suvvia. Io non sono un ingegnere e non voglio gareggiare con le chiacchiere da spiaggia su stralli e calcestruzzo. Leggo per capire. E ho capito che i tecnici titolati invitavano a ulteriori controlli ma nessuno con toni ultimativi. Da tutti gli esperti - anche da quegli stessi che Toninelli sta mandando a Genova - era arrivata una sequela di "consigliamo ulteriori approfondimenti su alcune criticità", "la forza dei tiranti va riducendosi". Chissà per quante opere attualmente agibili sono in uso formule simili. Nessuno che abbia scritto: "Superato il limite di guardia, c'è il rischio di crollo, per noi va chiuso". Tutti Ponzio Pilato o la singolarità della tecnica di costruzione rendeva arduo capire il livello di usura di un tirante coperto dal cemento come quello di Genova? Magari un po' entrambe le cose. I fatti facciamoli ricostruire ai magistrati, istruiscano un processo, eseguano perizie accuratissime, trovino e condannino i responsabili qualora si convincano della loro colpevolezza. Il governo faccia il governo, corregga quelle che ritiene storture nella concessione, renda efficienti i controlli, valuti l'ipotesi di revoca. L'Italia è un Paese maltrattato. Non le servono né gli ipocriti di ieri né quelli di oggi, le servono pianificazione, sviluppo, competenza, senso della realtà. E un bagno di umiltà da parte di chi banalizza la complessità del governare con slogan, mulini a vento e No-Opere. Signori al governo, se la piazza vuole tutto e subito, se chiede un colpevole a prescindere, se esige la Luna, se non vuole né i vaccini, né l'Ilva, né l'Europa, né il gasdotto, né le ferrovie, ditegli che non è possibile, invece di illuderla. O peggio, di aizzarla. Avere la maggioranza degli italiani al vostro fianco è una grande opportunità che va usata bene. Ma opportunità e opportunismo sono cose diverse.

Quando gestisce il pubblico. Lo scandalo Salerno-Reggio. Avviata nel 1961, i 443 km sono costati un patrimonio tra rattoppi e inchieste, scrive Gianpaolo Iacobini, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". L'autostrada di Stato? Già esiste. E non è un modello che il mondo ci invidia. Il crollo del viadotto Morandi spinge l'Italia sulla strada della nazionalizzazione delle autostrade. Ma per una volta il dibattito può poggiare non solo sui dati empirici propri della politica. Neppure è necessario studiare il Venezuela del duo Chavez-Maduro. Basta guardarsi in casa. Perché nel Belpaese le autostrade statali sono realtà. La rete autostradale nazionale si estende, nel complesso, per circa 6.500 chilometri: di questi 3.020 sono oggetto di concessione in favore di «Autostrade per l'Italia», controllata dai Benetton attraverso «Atlantia spa». E il resto? Diviso tra altri concessionari privati e Anas, le cui quote azionarie dal gennaio 2018 sono nel portafogli della «Ferrovie dello Stato spa», partecipata al 100% dal ministero dell'Economia. Insomma, Stato puro. E proprio Anas detiene una fetta rilevante della rete: 940 km, cui se ne aggiungono altri 364 di raccordi. Si va dal Grande raccordo anulare di Roma (A90, autostrada tangenziale) alla A19 Palermo-Catania, passando per la Salerno-Reggio Calabria, ribattezzata A2 per dissociarne - saggiamente ma sin qui invano - il futuro dal suo passato. Tratte ben note, nell'immaginario collettivo, non certo quali esempi virtuosi: se sul Gra milioni di persone impazziscono nel traffico ogni giorno, la A19 (quella del viadotto Himera, il cui crollo tre anni fa spezzò in due l'Isola) ha una vita travagliata. Mai, però, quanto la ex A3, che sebbene inaugurata in pompa magna nel dicembre del 2016 dal fu premier Paolo Gentiloni, è tutt'altro che completata, a dispetto degli annunci che non sono valsi a chiudere una via crucis cominciata nel 1961, con l'approvazione della progettazione. L'anno dopo l'avvio dei lavori, con Amintore Fanfani che da Palazzo Chigi garantiva: «Entro il 1964 l'opera sarà ultimata». Occorrerà attendere il 1967 per veder entrare in esercizio i primi 125 km, da Salerno a Lagonegro, e il 1974 per poter viaggiare fino a Reggio Calabria: 443 chilometri che costano 368 miliardi di lire, 830.000 lire al metro. Quando arriva il 1987 ci si accorge che le cose non vanno. Al governo c'è il pentapartito guidato da Bettino Craxi: per «lavori di urgenza lungo la A3» (interamente a doppia corsia per senso di marcia e senza corridoio di emergenza) vengono stanziati 1.000 miliardi di lire, che diventano 6.000 nel 1997, con Romano Prodi presidente del consiglio. Nel 1999 il Cipe unifica gli interventi, ma è solo con la Legge Obiettivo del 2001 che si passa alla cantierizzazione. E tra un'inaugurazione e l'altra si giunge al 2016: sulla (si fa per dire) nuova autostrada, che intanto ha cambiato nome e si chiama A2, si dovrebbe viaggiare sicuri. E come sempre gratis. Ma l'assenza di caselli è l'unica certezza: nel giugno del 2017 le Procure di Vibo Valentia e Castrovillari avviano indagini per far luce sulle condizioni di sicurezza della rete in terra calabra. Già un mese prima, nel Reggino, una decina di persone erano finite in manette per presunte frodi nelle pubbliche forniture, in relazione all'ammodernamento della tratta tra Mileto e Rosarno. Non sono le uniche incongruenze: ad una settantina di km di asfalto, i più tortuosi, da Morano a Firmo e da Cosenza ad Altilia, non s'è neppure messo mano, preferendo una robusta manutenzione al loro rifacimento. Lo scorso aprile fa clamore la denuncia del Codacons, che in un esposto lamenta l'esistenza di gallerie non illuminate, segnaletica carente e deviazioni. Anas respinge le accuse: ricorda le ardite opere d'ingegneria per restituire vitalità all'infrastruttura e richiama gli ulteriori investimenti programmati. Sì: perché per l'autostrada nuova di zecca è prevista la spesa di un altro miliardo di euro in 5 anni. Pagano gli italiani. Tutti, non solo quelli in viaggio tra Salerno e Reggio Calabria, una mano sul volante e l'altra a far gli scongiuri: sulla A2 (dati Aci 2016) si verificano in media ogni anno 0,89 incidenti a chilometro, uno dei tassi più alti della rete autostradale. Sul Gra se ne contano 9,94. Oggi, sulle autostrade di Stato, va così.

L'autostrada pubblica è un inferno anche al Nord. La Venezia-Trieste è un cantiere unico da nove anni e il costo del pedaggio continua a salire, scrive Lodovica Bulian, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". Il produttivo ed efficiente Nord rivendica, all'indomani della tragedia di Genova, la possibilità di gestirsi da solo le «sue» autostrade. Un asse tra i governatori leghisti che va dal Friuli Venezia Giulia al Veneto fino alla Lombardia. Sono le Regioni settentrionali che si candidano come modello di efficienza in grado di fare meglio di un certo Stato, vedi la Salerno-Reggio Calabria. Eppure, anche nella locomotiva del Paese le infrastrutture a gestione pubblica non brillano per risultati esemplari. La più martoriata in questi mesi tra esodi estivi e week end da bollino rosso è la A4 Venezia-Trieste, che da nove anni è alle prese con cantieri e lavori per realizzare tutti i lotti della terza corsia. Un'opera da due miliardi di euro che si è trascinata per anni nell'incertezza di finanziamenti, prima di prendere il via. Risultato dell'avvio dei lavori: incolonnamenti, strade a larghezza ridotta, tamponamenti tra tir, tempi di percorrenza infiniti, chiusure, incidenti, anche mortali. È di 48 ore fa la notizia di un incendio che ha distrutto gli uffici del cantiere allestiti in un ex casello. Un inferno lungo 77 chilometri, quelli dove si stanno svolgendo i lavori che termineranno forse nel 2020. La tratta è gestita da Autovie Venete, società partecipata a maggioranza dalla Regione Friuli Venezia Giulia tramite la sua finanziaria, Friulia. Una piccola quota, quasi il 5%, è in mano al Veneto. Una concessione scaduta a marzo 2017 e che ora è in regime di proroga in attesa di un rinnovo, necessario per terminare l'infrastruttura. Lo scorso governo aveva raggiunto un accordo per il riaffidamento della autostrada, senza gara, e fino al 2038, a una newco pubblica di Friuli e Veneto. Ma ora tutto rischia di essere nuovamente in discussione. Di certo ci sono i disagi che hanno subito gli utenti soprattutto negli ultimi tre mesi estivi quando una mole di traffico insostenibile per un'arteria interrotta da continui lavori in corso si è diretto verso le località adriatiche. Da gennaio a giugno, la tratta dell'A4 tra Portogruraro e Palmanova è stata chiusa ben 25 volte, per un totale di oltre 50 ore di stop: a causa dei cantieri, infatti, manca la corsia d'emergenza e in caso di incidente viene chiuso tutto con code chilometrici. E di incidenti ce ne sono ormai in sequenza. Basti pensare che nonostante il limite di velocità ridotto a 60 chilometri all'ora per i tir, il solo 2018, da gennaio a giugno ha registrato 292 sinistri, che hanno causato 3 vittime e centinaia di feriti. Nel 2017 gli incidenti erano stati 701, a fronte dei 631 del 2016. Colpa dell'aumento del traffico, si dice, con 1 milione di veicoli in più 2017. Un segnale positivo per l'economia ma che congestiona la rete. Nei primi cinque mesi del 2018 sono stati registrati quasi 1.800 mezzi pesanti in più al giorno, mentre quelli leggeri sono diminuiti dell'1% proprio a causa dei disagi. E dire che qui dal 1 gennaio scorso sono aumentati anche i pedaggi: costano l'1,88% in più.

“Per ponte Morandi non c’è solo Renzo Piano”: la contro proposta di Italia Nostra. L’associazione che tutela il paesaggio critica il silenzio della Soprintendenza e avanza un’idea, scrive Marco Preve l'11 settembre 2018 su "La Repubblica". Italia Nostra guida la fronda contro l’idea di progetto di Renzo Piano. Se fino ad oggi era soprattutto sui social che ingegneri ed architetti esprimevano perplessità non tanto sull’idea di nuovo ponte del grane architetto genovese quanto sulla procedura fin qui seguita a livello politico amministrativo, ora esce allo scoperto Italia Nostra con una nota critica ma al contempo propositiva del presidente Oreste Rutigliano. “Si procede oggi sulla base della fretta alla forzatura di un’unica soluzione possibile - scrive Italia Nostra -. Dissentiamo. Il ponte Morandi è stato un ponte monumentale vissuto con orgoglio dalla città che identificava in quella struttura il suo “Ponte di Brooklyn”. Il Comunicato prosegue: “Siamo nelle nostre competenze nel reclamare la norma che impone, con la Valutazione di Impatto Ambientale, la scelta tra varie soluzioni possibili. Resta poi evidente che sulla scelta dovrebbe intervenire anche quel potere dello Stato che tutela paesaggio e patrimonio storico, e cioè quella Soprintendenza che vediamo ancora silente. È per questo che oggi chiediamo di valutare anche altre soluzioni che restituiscano a Genova il suo simbolo, la sua grandiosità, il suo orgoglio, rifacendosi al quello stesso modello di ponte, a quella stessa categoria, che tutti ci colpisce, che ogni cittadino del mondo riconosce laddove gli si nominino, oltre al ponte Morandi, il Golden Gate di San Francisco, il ponte di Brooklyn ed il ponte Da Verrrazzano di New York e, da ultimo, quel grande ponte sospeso in acciaio realizzato in Giappone, il ponte sullo stretto di Akashi Kaiky?”. Quindi la proposta: “Si valuti dunque, perlomeno, la soluzione tipologica che corrisponde all’ipotesi di un ponte in acciaio, formato da tre campate sospese, con tre piloni di altezza totale di oltre 100 metri, con il piano autostradale posto a 45 metri dal piano di campagna. I piloni sostengono la soletta su cui transitano i veicoli per mezzo di tiranti, detti stralli, costituiti da robusti cavi d’acciaio. Rispetto alla lunghezza complessiva dell’attraversamento della Val Polcevera, pari a 1100, le tre campate centrali saranno concepite per una lunghezza complessiva di oltre 600 metri, evitando ogni interferenza idrogeologica. Anche questo ponte potrebbe essere realizzato adottando le più moderne tecnologie costruttive, con i massimi standard di sicurezza, di affidabilità, di manutenibilità e di vita nel tempo”. Infine una stoccata: “A Genova, oltre a Fincantieri, c’è anche una grande Scuola Politecnica e in Italia ci sono ancora grandi competenze. Noi ci contiamo”.

Calatrava: vorrei disegnare il ponte di Genova. La Regione: «Grazie, c’è Piano», scrive il 10 settembre 2018 Alessandra Costante su Il Secolo XIX. È un affare da archistar, il progetto del nuovo ponte sul Polcevera. Dopo Renzo Piano, che ha già messo a disposizione il disegno del nuovo viadotto sulla A10, nei giorni scorsi anche Santiago Calatrava, il padre di alcuni dei ponti più famosi (in Italia il ponte Costituzione sul Canal Grande) si è fatto vivo attraverso alcuni suoi contatti italiani con la Regione e il Comune. Anche lui, disponibile a progettare il ponte sul Polcevera. Offerta, però, per il momento gentilmente declinata dall’amministrazione regionale: «È stato spiegato che c’è Renzo Piano e che è genovese». Una questione di genovesità, di territorio e di simboli, insomma.

Renzo Piano e il nuovo ponte per Genova: “Dovrà durare mille anni”. "I muri devono crollare, i ponti mai. Questo ponte deve infiammare il nostro immaginario". Renzo Piano presenta il dopo Ponte Morandi, scrive Antonella Ardito il 7 settembre 2018 su Ingegneri.info. Un ponte genovese, semplice e parsimonioso, in acciaio e di colore bianco e che sia destinato a durare mille anni. Renzo Piano ha presentato ufficialmente il progetto donato alla città di Genova per la costruzione della nuova infrastruttura destinata a sostituire il Ponte Morandi. Accanto all’archistar e ai suoi collaboratori, attorno al plastico che lascia intendere la nuova architettura di collegamento del capoluogo ligure, c’erano nella tarda mattinata di oggi 7 settembre 2018, il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, l’amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, che alla fine della conferenza stampa si è reso protagonista, suo malgrado, della rottura del plastico, l’amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono, il sindaco di Genova, Marco Bucci, e il sottosegretario ai Trasporti, Edoardo Rixi.

L’idea di Renzo Piano per il nuovo ponte. L’architetto ligure ha lavorato sull’idea per la nuova infrastruttura dal 15 agosto, subito dopo la tragedia del Ponte Morandi, su richiesta del governatore Toti e del sindaco di Genova. Dire che il nuovo ponte debba durare mille anni non è una battuta, ma una necessaria esigenza: “Dovrà essere un ponte semplice e parsimonioso – spiega Renzo Piano – ma non banale. Dovrà essere un ponte ‘genovese’ e deve avere qualcosa che ricordi le vittime – ha proseguito – La mia presenza è la cosa meno importante. Questa deve essere un’opera che nasce dall’entusiasmo. Un cantiere è un luogo di coesione e magia dove tutti lavorano assieme. Genova è grande e capace. Genova non si è mai persa. Sarà un ponte più sottile che avrà la propria base sul Polcevera. Quelli che ho presentato non sono schizzi. Sono progetti ragionati. Avrà una sua luminosità con riflettori che di giorno cattureranno la luce del sole per poi fare luce di notte. Il colore sarà il bianco”. Per il ponte l’acciaio lo produrrà l’Arcelor Mittal che ha appena rilevato l’Ilva: preoccupano però i tempi di realizzazione dell’infrastruttura, ma Renzo Piano rassicura: “Costruiremo il ponte quanto prima ma non ci deve essere fretta. Sarà costruito come se fosse una nave. Fatto di componenti che vanno messi assieme. Genova sarà laboratorio d’Italia. Sarà un ponte a 4 corsie da 3,75 metri più le corsie di emergenza”.

Tempi e coordinamento per il nuovo ponte. “Entro ottobre 2019, novembre al massimo, Genova avrà un nuovo ponte sul torrente Polcevera”. L’annuncio porta la firma del presidente della Regione Liguria e commissario per l’emergenza Giovanni Toti che ha anche spiegato come il cantiere per la demolizione delle macerie del Ponte Morandi andrà di pari passo con quello per la ricostruzione. “Sulla demolizione – ha proseguito Toti – nelle ultime ore stiamo lavorando per smontare il Morandi e per non demolire le case sottostanti almeno fino alla costruzione del nuovo ponte. Ma ci stiamo lavorando, vedremo. Non è una cosa semplice. I monitoraggi inizieranno nei prossimi giorni. Per ora l’unica società titolata ad aprire il nuovo cantiere è Autostrade che ha la concessione. Ritengo che con la partecipazione anche di Fincantieri e Piano si possa costruire il ponte”. L’ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, ha spiegato invece come il “cantiere di Sestri Ponente, a Genova, avrà un ruolo centrale nella realizzazione del nuovo ponte. Lì potremo realizzare la struttura d’acciaio. Ci sarà nuovo lavoro e ci saranno assunzioni. Sarà un ponte a chilometro zero. Speriamo di avere presto anche nuovi spazi e un cantiere più grande”.

Il sottosegretario ai Trasporti Edoardo Rixi, all’uscita dal vertice che ha preceduto la conferenza stampa, ha parlato dei tempi del Decreto Genova, che il governo Conte dovrebbe licenziare entro la prossima settimana o almeno prima del salone nautico.

Renzo Piano: «Non solo il ponte, ripensiamo tutta Genova», scrive Cristina Barbetta il 10 settembre 2018 su Vita. Il celebre architetto ha presentato la sua idea per il nuovo ponte e la sua visione di Genova, della zona del Polcevera e di tutta la città, durante l’apertura del Festival della Comunicazione, a Camogli. «Il nuovo ponte sarà come una nave, e sarà semplice e sobrio, come Genova. Dovrà durare 1000 annie rappresentare bene la città, dovrà esserne il ritratto ed elaborare questo lutto terribile». Renzo Piano ha presentato la sua idea di ponte, destinato a sostituire il Morandi, davanti a una platea di 500 persone, in occasione dell’apertura del Festival della Comunicazione a Camogli. «La nuova opera», spiega il celebre architetto genovese, «dev’essere sicura e la manutenzione deve potersi effettuare con molta faciltà. Essendo Genova una città portuale e dovendo il ponte rappresentare bene la città, mi piacerebbe che a costruirlo fosse qualcuno che costruisce navi». Sarà bianco, d’acciaio, e di giorno catturerà l’energia solare tramite pannelli deflettori che la restituiranno di notte, illuminandosi. “Un luogo di luce”, con 22 pilastri, alti dai 30 ai 40 metri, che ricordano la prua di una nave, a cui corrisponderanno 43 antenne luminose, in ricordo di coloro che hanno perso la vita nel crollo. Dalla sommità di ogni stelo si irradierà la luce che formerà una vela. Il ponte, che ogni notte si illuminerà per ricordare le vittime, ha un grande valore simbolico. Durante il suo discorso di apertura Renzo Piano ha parlato di “visioni” , il tema di questa quinta edizione del Festival ligure e ha così esordito: «Avevo preparato un bel discorso sulle visioni, ma poi è successa una cosa terribile, è crollato un ponte a Genova, anzi "il" ponte a Genova, e allora mi sono perso. Un ponte che crolla è una cosa terribile. Crollano i ponti e si costruiscono i muri, quelli fisici e quelli metaforici. Sono tempi bui». «Il ponte non è caduto una volta, ma tre o quattro volte: in primo luogo è caduto fisicamente, poi ha portato con sè 43 vite e tutto il dolore, ha creato 600 sfollati, ha spaccato la città in due…» Il ponte non è caduto una volta, ma tre o quattro volte: in primo luogo è caduto fisicamente, poi ha portato con sè 43 vite e tutto il dolore, ha creato 600 sfollati, ha spaccato la città in due. «Ho pensato però che quello che è successo è collegato alle visioni», prosegue Renzo Piano, «che avvengono perchè ci sono i cambiamenti. Succedono nel momento in cui la forza della necessità ti obbliga a pensare liberamente, non in maniera accademica. E’ l’osservazione della realtà che crea le visioni. Se osservi la realtà e se sei capace di darle forza, poesia e coraggio, allora hai delle visioni. E’ questo il segreto, non c’è nulla di soprannaturale e di magico». «Un architetto si trova sempre a trasformare in costruzione un cambiamento», spiega Renzo Piano. «E allora se è vero che i cambiamenti provocano le idee allora possiamo parlare di Genova, perché lì è successa una cosa terribile». Un architetto si trova sempre a trasformare in costruzione un cambiamento. «Il ponte che è crollato è in mezzo alla città, ne divide l’est dall’ovest, la spacca in due. Se una mano crudele, terribile avesse voluto fare del male avrebbe fatto esattamente quello. Quel 14 agosto è stata una giornata terribile, io da allora non penso ad altro. Il giorno dopo ho parlato con il sindaco e con il governatore che mi hanno chiesto di dare una mano, e ho detto di sì». Il giorno successivo alla presentazione a Camogli, il 7 settembre, il progetto del nuovo ponte è stato presentato da Renzo Piano a Genova durante un vertice in Regione Liguria, cui hanno partecipato Regione, Comune, la società Autostrade per l’Italia e Fincantieri. Per quanto riguarda l’inizio dei lavori l’architetto e senatore a vita dice che bisogna procedere rapidamente, ma non in fretta e indica un tempo di 12-18 mesi, più lungo degli 8 mesi fissati inizialmente da società Autostrade per l’Italia. Sarà un’opera corale, «perchè non voglio sostituirmi né ad ingegneri né ad architetti che saranno chiamati a lavorare sul contesto urbano». La nuova opera avrà una funzione fondamentale di ricordo e elaborazione del lutto: «Questo ponte deve fare sì che nel tempo si ricordi tutto quello che è successo. Ma il ricordo non può essere sofferenza: i lutti non vanno cancellati, devono essere elaborati, metabolizzati, diventare sostanza di te stesso: questo ponte oltre a rispondere alle esigenze della città e della viabilità deve rispondere all’esigenza di rappresentare e di elaborare, di ricordare quanto accaduto». Il cantiere della ricostruzione può diventare per Genova una grande occasione per ritrovare l'energia della coesione dopo questo lutto: i cantieri sono sempre luoghi di pace, perchè costruire è un gesto di pace.  Le visioni di Piano si fondono con Genova, con il futuro della città e dell’area del Valpolcevera: «Sotto quel ponte c’è un’area di Genova importantissima. Ho sempre cercato nel mio ruolo di senatore di parlare e intervenire sulle periferie urbane. La zona del Campasso, del Polcevera, è la più grande occasione di trasformazione urbana che ha Genova perchè lì ci sono zone industriali in trasformazione, zone ferroviarie dismesse, quindi c’è un grande progetto su cui bisognerà fare concorsi, aprire il dibattito. Mi è stato promesso che questo avverrà». Il cantiere della ricostruzione è quello della trasformazione di quella vallata e può diventare per Genova una grande occasione per ritrovare se stessi e l’energia della coesione dopo questo lutto: «I cantieri sono luoghi in cui si sta assieme, sono sempre luoghi di pace, perché costruire è un gesto di pace». Parlando di Genova Renzo Piano ribadisce che la città deve costruire sul costruito, trasformando quello che già c’è, non può espandersi creando nuove periferie. «Non si può pensare di costruire sulle alture, che sono state cementificate e vanno riforestate. Bisogna piantare un milione di alberi! E bisogna anche smettere di costruire sul mare, anzi bisogna liberarlo: il progetto di waterfront è stato fatto proprio per poter riportare acqua vicino alla città». Piano conclude parlando di bellezza, quella bellezza profonda fatta di conoscenza, di comunità, di sapere: «Quando tu costruisci luoghi per questa bellezza fatta di scienza, conoscenza e sapere, di ricerca, di stare assieme, costruisci luoghi che rendono le città migliori, perché questi luoghi fecondano le città. Figuriamoci un ponte. E’ ovvio che un ponte feconda la città, ancora di più. E tutto ciò parla di futuro, perché le visioni parlano di futuro. E chissà se questa bellezza, concepita così, non sia una delle cose che può salvare il mondo. Cambierà il mondo, una persona alla volta, ma riuscirà a farlo».

Se lo Stato ha regalato le concessioni delle Autostrade. Quanto sta accadendo è colpa dei concessionari che non fanno manutenzione e sicurezza e della politica che ha regalato loro una gallina dalle uova d'oro, senza controllare. Maurizio Belpietro il 29 novembre 2019 su Panorama. La colpa dei danni, dei crolli lungo le autostrade italiane è per prima cosa di chi ha costruito male, di chi ha messo poco cemento, di chi non ha fatto i controlli. E’ vero. Il discorso non può limitarsi all’oggi o a questo o quel Governo. Se quesi ponti hanno in evidenza il tondino di acciaio ormai arrugginito, oppure i pezzi di cemento scadente cadono a terra, se non sono state fatte le manutenzioni questo è un discorso di anni, se non decenni. Tuttavia una cosa dobbiamo dirla: il Ponte Morandi è crollato il 14 agosto del 2018 e prima di quello ci furono altri crolli, in Lombardia, Abruzzo, con meno morti ma era il chiaro segnale che ci fosse qualcosa che non funzionava nel sistema delle infrastrutture stradali italiane. Se tu domani mattina ti accorgi che forse nel passato qualcuno non ha fatto manutenzioni e controlli forse ti dai da fare e ti metti a controllare, è un discorso di buon senso, non è politica. In questi giorni le tv stanno trasmettendo le immagini dei piloni delle autostrade attorno a Genova: la A6, la A26, la A10; immagini di strutture rovinate in maniera seria. Ma la questione è che sono immagini già viste, un anno fa. I giornali, dopo lo schianto del Morandi, avevano pubblicato le stesse foto e foto analoghe di altri ponti. Al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ci sarà, c’era qualcuno che aveva il compito di controllare, si o no? E, soprattutto, queste autostrade che sono state date alle concessionarie, sono concessioni o sono regali dello Stato? Io sono convinto della seconda opzione: io sono sicuro che qualcuno ha regalato la sicurezza degli italiani senza controllare. Vorrei ricordare una cosa semplice: il concessionario è colui che riceve dallo Stato una concessione. E’ mai possibile che questa concessione si trasformi in miliardi, molti miliardi, tanto da farne delle società per azioni tra le più redditizie con gli italiani che pagano fior fior di soldi ai caselli e noi ci ritroviamo con le infrastrutture conciate in questo modo? la politica ha responsabilità evidenti, negli anni passati e soprattutto nell’ultimo anno. Ma quella principale è del concessionario che doveva fare investimenti proprio sulle infrastrutture e sulla sicurezza. C’era stato promesso che la concessione a chi gestiva il Ponte Morandi sarebbe stata revocata il giorno dopo, che il percorso era cominciato. Non è successo nulla. Ci abbiamo messo un anno per vedere andare via l’amministratore Delegato di Società Autostrade, un anno ci abbiamo messo per vederlo rimosso. Non ha avuto nemmeno il coraggio di dimettersi il giorno stesso, con tutti quei morti. C’è poi un problema di norme e burocrazia. In situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo, con le colline che franano, i viadotti che crollano, servono azioni rapide. Serve uno che decida e che le cose si possano fare subito; senza attendere le decisioni di un Tar o il ricorso di qualche comitato. Se le cose servono ora si fanno ora, non dopo, quando si contano i morti, che non servono più.

Autostrade e concessioni: quanto costano, quanto si guadagna. Quante sono le concessioni, quanto pagano le 25 società e quanto (in miliardi) ci guadagnano. Barbara Massaro il 26 novembre 2019 su Panorama. Mentre gli italiani rischiano la vita (dopo il Morandi ora il crollo sull'A6 e la chiusura della A26) su una rete autostradale costruita senza tenere in considerazione i rischi idrogeologici di un Paese come il nostro, i 7.488 chilometri di autostrade sono una fonte di business per i 25 rapporti di concessione dati dallo Stato - proprietario della rete - a 24 società differenti.

Quanto guadagnano le società concessionarie. Un business enorme con poche spese e investimenti (nostro malgrado) ma molti utili. Parlando solo di pedaggi - per dirne una - nel 2017, secondo i dati di Aiscat, l'associazione delle concessionarie autostradali, le aziende hanno incassato 8.050 milioni di euro. Per capire come funziona il business bisogna capire chi possiede cosa. L'intera rete autostradale italiana appartiene allo Stato che la controlla attraverso la società Anas spa. Dei quasi 7.500 chilometri, però, solo una piccola parte è gestita direttamente da Anas, nello specifico 954 chilometri: gli unici dove non si paga il pedaggio (Salerno Reggio Calabria; Palermo Catania o grande raccordo anulare di Roma). Tutto quel che non è gestito da Anas è dato in concessione a enti privati o gestito da Anas in collaborazione con regioni o province (come ad esempio la Bre.Be.Mi).

Cosa prevede il contratto tra lo Stato e le concessionarie. La concessione di un determinato tratto autostradale a società private comporta una serie di obblighi come quello di fare manutenzione, costruire eventiali nuovi tratti e riscuotere i pedaggi. Sia i lavori sia gli investimenti sono specificati nel contratto di concessione e i pedaggi sono concordati in accordo con Anas in base a calcoli che comprendono i dati di traffico, la redditività, parte dell’inflazione, la realizzazione degli investimenti, la qualità del servizio.

Nelle casse dello Stato, oltre all'Iva, finisce anche un canone per l'uso dell'infrastruttura. Prendendo l'esempio degli 8.050 milioni del 2017 di questi 1.452 milioni sono andati direttamente allo Stato come Iva e altri 654 milioni come canone. Esistono poi altri cononi integrativi a seconda dell'utilizzo della tratta o di eventuali sub concessione (in questo caso i dati più recenti sono del 2016 e arrivano dal Ministero dei Trasporti). Al netto dell’Iva, nel 2016, lo Stato ha incassato 841,7 milioni dalle autostrade: 135,5 milioni dai canoni di concessione, 630 milioni dalle integrazioni, 19,9 milioni dai canoni di sub-concessione. 

Quanto incassano le concessionarie. Ma quello che le società concessionarie restituiscono allo Stato (e quindi agli italiani) è nulla rispetto al guadagno che mettono in tasca. Ancora nel 2016, rivelano i dati del Ministero dei Trasporti, solo di pedaggi netti sono stati incassati 5,7 miliardi di euro a fronte di 2,9 miliardi di euro di costi di produzione che includono gli stipendi (943 milioni) e le spese per la manutenzione (646 milioni nel 2016). E proprio il tema "manutenzione" è una nota dolente. Tra il 2008 e il 2016, per dirne una, le concessionarie hanno investito 15 miliardi contro i 21,7 che erano stati promessi nei piani finanziari. Soldi messi a budget, ma non spesi e quindi rimasti nei forzieri delle società a costo del rischio di crolli e mal funzionamenti delle autostrade. Ponte Morandi per dirne una o il recente crollo del viadotto sulla Torino Savona. E sono decine i tratti della nostra rete autostradale che sono a rischio crollo e ignari automobilisti ogni giorno passano e ripassano su strade che potrebbero sgretolarsi sotto le loro ruote.

Il caso Atlantia. Ogni volta che qualcosa va storto e la concessionaria non onora l'impegno contrattuale lo Stato ha il diritto di revocare la concessione senza indennizzi. Solo che non lo fa. A oggi anche quando il Governo è a "un passo dalla revoca delle concessioni" - come nel caso del Morandi alla società Atlantia-  sul piatto della bilancia finiscono mille implicazioni che generano rimandi, proroghe e appelli di varia natura che causano un nulla di fatto: per fare un nome a caso per la questione Atlantia-Morandi: Alitalia. Atlantia al momento controlla l’88% di Autostrade per l’Italia. Il 30,2% di Atlantia, però, è di Sintonia, finanziaria lussemburghese di Edizione, la holding della famiglia Benetton che controlla anche Autogrill oltre ai negozi di famiglia. Ansa ha ripreso i dati di bilancio 2013-2017 di Atlantia: in cinque anni l’azienda ha messo via 4,05 miliardi di utili, distribuendone il 93% (3,75 miliardi) agli azionisti. Nello stesso periodo ha speso per la manutenzione solo 2,1 miliardi. Se ai 3,7 miliardi di utili si sommano gli 1,1 miliardi di euro di riserve che la società ha trasferito ai soci, l’incasso per i proprietari sale a 4,8 miliardi di euro in cinque anni. 

Ma chi controlla i viadotti autostradali?  Fondi per il dissesto, speso solo il 10%. Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 da Marco Imarisio su Corriere.it. A ogni emergenza meteo viene giù un pezzo di viadotto ligure. Durante la penultima, era la fine di settembre, dal ponte Bisagno dell’autostrada A12 si è staccato un pluviale, un tubo per lo scolo dell’acqua piovana, che è precipitato in mezzo a una strada della periferia di Genova. Il giorno dopo gli abitanti del quartiere hanno dato vita a un breve corteo per chiedere lumi sulle condizioni di quella striscia di asfalto che scorre sopra le loro teste. Peccato che non ci sia ancora nessuno a cui chiedere, a parte i gestori privati che nel recente passato non hanno certo dato grande prova di sé. Il passaggio «istantaneo» dalla logica dell’emergenza delle infrastrutture a quello della prevenzione annunciato nel trigesimo della tragedia del ponte Morandi dall’allora ministro Danilo Toninelli risulta ancora in corso oggi, a un anno e mezzo di distanza da quella mattina del 14 agosto. Doveva chiamarsi Ansfisa, complicato acronimo di Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e avrebbe dovuto superare la vecchia e poco utilizzata Direzione generale per la vigilanza sui concessionari, carrozza pubblica di limitate risorse e ancor meno potere, impossibilitata com’era a operare veri controlli sulle 7.317 «opere d’arte», ovvero tutti i ponti, i viadotti e i tunnel che rientrano nelle concessioni dei 19 gestori autostradali in teoria monitorati dall’Anac. La vecchia struttura non era certo nata su impulso nostrano, non sia mai. Era frutto dell’applicazione di una direttiva europea del 2008 che imponeva ispezioni ministeriali «altamente dettagliate» su infrastrutture viarie a un soggetto terzo. L’Italia aveva recepito con molta calma, dimenticandosi però i regolamenti attuativi e i soldi per gli ispettori. Adesso cambia tutto, aveva assicurato Toninelli ai genovesi che si erano dati appuntamento in piazza De Ferrari per ricordare le 43 vittime del ponte Morandi. A oggi, è cambiato solo il titolare del dicastero. L’Ansfisa è in attesa del parere del Consiglio di Stato su un regolamento attuativo scritto solo nel luglio 2019, un anno dopo l’annuncio dell’ex ministro. Dovevano essere assunti o spostati nella nuova struttura almeno 500 tra ispettori e dirigenti. Al momento, siamo a zero. C’è un organigramma con vertici già nominati, che in forma ufficiosa parlano di «almeno un anno» per la partenza, e niente sotto. A conferma della consueta risacca che segue i provvedimenti annunciati sull’onda emotiva dei disastri, una specialità italiana. La travagliata nascita della «super task force», il virgolettato è sempre di Toninelli, non è solo una ulteriore conferma di uno dei nostri vizi capitali. È anche la migliore spiegazione possibile del fatto che in Italia non sia mai esistita una mappatura delle infrastrutture a rischio, autostradali o meno. Prima e dopo il ponte Morandi. Manca la volontà dei gestori privati, e ci mancherebbe altro. Manca o mancava ogni forma di controllo pubblico. Al netto delle 28 opere di Autostrade per l’Italia segnalate su tutto il territorio nazionale dagli ispettori della Guardia di Finanza per conto della Procura di Genova, fa ancora fede il rapporto dell’istituto di tecnologia delle costruzioni del Cnr, che risale al giugno del 2018, quando mancava poco più di un mese al crollo del viadotto sul Polcevera. La premessa era chiara. Il nostro sistema di infrastrutture stradali non regge più, perché la maggior parte dei ponti e viadotti italiani è stato costruito tra il 1955 e il 1980. «Hanno superato la durata di vita per la quale sono stati progettati». Incrociando età anagrafica, interventi straordinari e allarmi raccolti dai gestori, il Cnr identifica venti ponti o viadotti che «destano preoccupazione», talvolta sovrapposti alle segnalazioni della magistratura. Ci sono quelli sulla superstrada Milano-Meda in Brianza, c’è il viadotto Manna in Campania e quelli abruzzesi sulla A24/25 danneggiati dal terremoto del 2009. In Sicilia c’è il caso di un altro ponte realizzato da Riccardo Morandi, tra Agrigento e Villaseta, chiuso dal 2017 e con costi di riparazione esorbitanti, almeno trenta milioni di euro. Anche se le cause del crollo del ponte di Genova e di quello della A6 vicino a Savona sono ben diverse una dall’altra, otto alluvioni dal 2010 a oggi e il cedimento di tre strade provinciali negli ultimi cinque anni dimostrano che esiste uno specifico ligure. Se due o più indizi fanno una prova, la «scarsa lingua di terra che orla il mare e chiude la schiena arida dei monti» cantata dal poeta Camillo Sbarbaro, è ormai allo stremo, con la percentuale di frane in proporzione più alta d’Italia. «La nostra morfologia accidentata» spiega il geologo Alfonso Bellini, docente universitario e perito di tutte le Procure liguri, «ci impone strade che per forza di cose tagliano i versanti, collinari e montani». Avrebbero bisogno di continui controlli, ma si torna alla casella di partenza. I soldi non ci sono. I rivi esondano, la terra si inzuppa, i viadotti cedono. Nel rapporto del Cnr sono citati come «preoccupanti» quattro ponti della A6 Torino-Savona, equamente divisi tra Piemonte e Liguria. Quello crollato ieri non era compreso nell’elenco.

Gallerie killer, cedimenti, appalti e poltronifici: così le nostre strade sono diventate un incubo. Il ponte Morandi è solo l'ultimo di una lunga serie di tragedie e inefficienze. E la legge del 2001 sulle responsabilità delle aziende protegge i top manager, che "possono non sapere". Gianfranco Turano il 28 agosto 2018 su L'Espresso. C’è una presunzione di colpevolezza in ogni grande infrastruttura. In Italia ogni strada, ogni ponte, ogni binario sono sospettati di esistere non perché necessari ma come pretesto per creste, tangenti, ruberie. È triste, quando va bene e si finisce in coda. Sa di presa in giro quando si osserva increduli il minischermo del casello che indica l’ennesimo aumento di pedaggio poco prima che la sbarra si alzi e una voce registrata ti dica arrivederci con allegria. È tragico quando la campata del viadotto Morandi a Genova si sbriciola sotto le ruote dei veicoli di passaggio, martedì 14 agosto. Il bilancio delle vittime è da strage terroristica. Il costo politico non è meno pesante. A ragione o a torto, lo paga per intero il centrosinistra, accusato dalla folla ai funerali del 18 agosto e dai social network di comparaggio con il concessionario Autostrade per l’Italia (Aspi). Le scuse tardive dei Benetton hanno messo benzina nel serbatoio di un governo spaccato sulle infrastrutture. È parso che sia stata la linea dura del premier Giuseppe Conte a piegare l’arroganza e il gelo tecnicistico del management di Aspi, guidato da Giovanni Castellucci e Fabio Cerchiai. Conte è un avvocato. Per mestiere sa che un contenzioso sulla revoca della concessione può durare più del suo governo ma ha giocato bene la sua carta. Ha fatto dimenticare che il suo alleato, la Lega, ha governato in sede locale e nazionale alcuni fra i peggiori disastri strutturali e che tutti hanno partecipato a costruire la distruzione, incluso lo stesso premier, consulente ben retribuito delle concessionarie.

La strana alleanza. Questa estate chi ha percorso la Salerno-Reggio Calabria, gestita dall’Anas e dunque dallo Stato, si sarà goduto il solito spettacolo di una mezza dozzina di gallerie che traforano il nulla, con un po’ di terra sparsa in cima a scopo ornamentale. Nella zona fra Mileto e Rosarno gli automobilisti avranno visto che il limite di velocità scende a 80 km/h senza ragione apparente. Una serie di cartelli gialli, lunghi otto righe e non proprio di facile lettura anche rispettando gli 80, spiegano che quel tratto è sotto sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria per l’inchiesta sulla ditta Cavalleri, avviata oltre due anni fa. È possibile che abbiano rubato, quindi bisogna andare piano. Nella stessa zona c’è la “galleria killer” Fremisi-San Rocco, un tunnel nuovo di zecca che ha provocato cinque morti in pochi mesi nel 2016 con relativa inchiesta e dodici indagati. Come si spiega la galleria killer a un turista tedesco? Lui viene da un paese dove le autostrade non si pagano e si comportano con ottusità germanica, ossia da autostrade e non da oggetti di cristalleria. Come si spiega a uno straniero in una domenica di controesodo infernale, che per salire dalla Riviera adriatica bisogna aggirare la voragine di Bologna e che lo stesso accade a Genova, dove ci sono anche i traghetti in arrivo da Corsica e Sardegna? Le grandi opere sono un mondo complicato, pieno di codici e norme in continuo cambiamento, dove ballano cifre a otto o a nove zeri. È un sistema dove è difficile fare cronaca, tra querele sistematiche e budget pubblicitari usati a mo’ di silenziatore. Così il dibattito pubblico si è polarizzato sugli slogan. Di qua c’è il no a tutto, alla Gronda di Genova, al passante di mezzo di Bologna, alla Tirrenica, alla Torino-Lione, al passante ferroviario di Firenze, e via elencando. È la posizione del M5S prima del 4 marzo. Dall’altra parte c’è la Lega e il suo sì a tutto perché l’Italia si sviluppa soltanto con più cemento, più strade ferrate, più acciaio. L’escamotage del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, cioè il calcolo costi-benefici sui progetti in cantiere, serve soltanto per guadagnare tempo e rinviare la resa dei conti nell’esecutivo. Ma il calcolo costi-benefici sulle grandi opere è sempre in perdita. Le principali infrastrutture, dal canale di Suez a Panama all’Eurotunnel, sono costate cifre terrificanti, hanno rovinato i privati che ci hanno investito e hanno sommerso di debiti gli Stati. L’unico calcolo sensato sarebbe: serve o non serve? Ma per questo ci vuole una linea strategica a lungo termine, non un’alluvione di tweet e comparsate tv per vincere le prossime regionali in Abruzzo. La fretta dei politici nel monetizzare i disastri corre in parallelo con la cecità aziendale dell’obiettivo immediato, a scadenza trimestrale, finalizzato al bonus variabile di fine anno. Se lo Stato è il primo colpevole, è difficile trovare innocenti. Dice un progettista con trent’anni di esperienza e qualche no di troppo che non ha certo giovato alla sua carriera: «È un caso da manuale di eterogenesi dei fini. L’antagonismo sistematico degli ambientalisti è stato il migliore alleato di chi non voleva investire».

Rischio erosione. Soltanto in Sicilia, trenta viadotti sono a rischio inclusi i due realizzati da Morandi sulla Agrigento-Porto Empedocle e il Corleone, quello che sembra più problematico. A Catanzaro c’è un altro Morandi, il ponte Bisantis non lontano dagli svincoli nuovi creati nella zona dell’università di Germaneto che hanno già mostrato segni di cedimento. Più a nord c’è il ponte sulla statale 107 che oscilla e si flette in modo pauroso al passaggio dei veicoli: la Procura di Cosenza ha appena aperto un’indagine. L’Anas ha assicurato che è tutto a posto. Ma è la stessa cosa che ha detto l’ingegnere Giovanni Castellucci, ad di Atlantia-Autostrade. Lo ha detto dopo, non prima che crollasse il viadotto sull’A10 («Non mi risulta che il ponte fosse pericoloso»). A Benevento un’altra opera di Morandi è stata chiusa dal sindaco Clemente Mastella. In Abruzzo c’è il ponte di Lanciano, sulla Torino-Savona c’è il viadotto Lodo con i tondini in bella mostra grazie all’erosione del cemento. È un elenco infinito e da dopo Ferragosto centinaia di Comuni italiani con strutture a rischio, reale o presunto, stanno tempestando di telefonate l’Anas che ha dovuto creare una struttura ad hoc. La tragedia di Genova segna la fine della fiducia nei controllori e l’inizio della speranza in un fato benevolo ogni volta che si sale in macchina. Sul fronte delle sanzioni non va molto meglio. Per il crollo del viadotto di Fossano dell’aprile 2017 ci sono dodici indagati. Ci è voluto più di un anno per una perizia tecnica che non ha portato a conclusioni definitive sulle responsabilità. Per il crollo del viadotto sull’A14 ad Ancona il 9 marzo 2017 (due morti) l’inchiesta è in corso con sei indagati dipendenti di Aspi. Anche per il crollo del viadotto di Annone Brianza sulla statale 36 il 28 ottobre 2016 (un morto) sono in corso le indagini. Per il crollo del viadotto Scorciavacche, inaugurato senza collaudo dal top management dell’Anas il 23 dicembre 2014 e collassato una settimana dopo, il gip di Termini Imerese sta valutando le richieste di rinvio a giudizio della Procura. Per la strage sul viadotto dell’Acqualonga ad Avellino, dove un pullman sfondò le barriere dell’A16 (40 morti) il 28 luglio 2013, è in corso il processo che vede fra gli imputati anche Castellucci. Per il cedimento del ponte di Carasco (Genova) sul torrente Sturla il 21 ottobre 2013 (due morti) ci sono state quattro assoluzioni. Il crollo non era prevedibile. Per il crollo sulla provinciale Oliena-Dorgali in Sardegna del 18 novembre 2013, che provocò la morte di un poliziotto di scorta a un’ambulanza, la Procura ha chiuso le indagini ad aprile di quest’anno con tre richieste di rinvio a giudizio. La legge 231 del 2001 sulla responsabilità penale delle aziende ha prodotto una quantità di organi di vigilanza che sono diventati un poltronificio ben pagato per i soliti noti, grandi avvocati, ex magistrati amministrativi o contabili. Sul piano pratico, la 231 ha spesso allontanato la responsabilità dal top management, che ha il diritto di non sapere, per scaricarla sui livelli medi o bassi, nella più classica struttura di governance fantozziana. Del resto, il responsabile per Autostrade della manutenzione sull’A10 è un geometra, come risulta dai documenti interni di Aspi. Si chiama Mauro Moretti ed è solo omonimo dell’ingegnere Moretti. Il numero uno di Fs, e poi di Finmeccanica, è stato condannato in primo grado a sette anni per la strage di Viareggio del 29 giugno 2009 (32 morti). L’appello inizierà il prossimo novembre. Forse per la presunzione di innocenza il Moretti delle Fs è ancora presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato e ha la carta per viaggiare gratis sui treni. A oggi la sentenza più dura è toccata a Sandro Gualano per il disastro di Linate dell’8 ottobre 2001 (118 morti). L’ex ad di Enav è stato condannato in via definitiva a sei anni e sei mesi.

Controlli? No, grazie. Sugli aspetti giuridici della revoca della concessione è intervenuto l’ex magistrato ed ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. Il fondatore dell’Idv ha commentato che la costituzione di parte civile contro Atlantia da parte del ministro attuale è infondata perché proprio il Mit dovrebbe controllare le concessionarie. Toninelli, dottore in giurisprudenza, dovrebbe sapere che a un tribunale non interessano i cambi di maggioranza. I giudici valutano gli atti del governo in continuità e chi non ha controllato o ha controllato male è responsabile per un principio giuridico (culpa in vigilando) vecchio quanto il diritto romano. È anche giusto ricordare che, da ministro delle Infrastrutture (2006-2008), Di Pietro diede il via alla convenzione Anas-Autostrade che conteneva l’adeguamento automatico delle tariffe (70 per cento sull’inflazione reale). Inserita nel decreto Milleproroghe, ultimo atto del governo Prodi bis, la convenzione fu esclusa in extremis e approvata il 18 giugno 2008 dal nuovo Senato a maggioranza Pdl. È un meccanismo con benedizione bipartisan che nessuno è più riuscito a smontare, come pure ha tentato di fare Graziano Delrio, fallendo per i ricorsi ai tribunali dei concessionari. Benetton, Gavio e gli altri imprenditori che gestiscono le strade a pagamento hanno sempre pubblicizzato i loro investimenti a nove zeri. In che misura siano stati fatti è difficile dire. Fino a sei anni fa questi investimenti li controllava l’Anas. Poi, sotto la gestione di Pietro Ciucci, l’ex ente concedente ha voluto farsi concessionario nel tentativo di uscire dal perimetro della pubblica amministrazione. Destinata alla regionalizzazione dalle prime ipotesi federaliste di vent’anni fa, l’Anas si è messa in società con le regioni, attraverso una serie di jont-venture dalla Lombardia al Veneto, dal Molise al Lazio, dall’Umbria alle Marche, che avevano come principale utilità il parcheggio a peso d’oro di pensionati dell’Anas stessa e di usati sicuri della politica locale. Intanto l’Ivca, l’ispettorato vigilanza concessioni autostradali dell’Anas, è passata armi, bagagli e personale al Mit nell’autunno del 2012 cambiando nome in Svca (struttura di vigilanza sulle concessioni autostradali) e mantenendo alla guida Mauro Coletta. I controlli, che già non erano feroci, sono stati ulteriormente ammansiti all’interno di una squadra demotivata dal taglio di stipendio. Nell’agosto 2017 alla Svca è stato nominato il dottore in scienze politiche Vincenzo Cinelli, ex dg per il settore dighe e infrastrutture elettriche, mentre Coletta ha assunto la direzione di controllo sui porti del Mit. È uno degli esempi di quel nocciolo duro di alti dirigenti ministeriali che, di norma, finiscono per contare più dei ministri stessi, qualunque sia il loro orientamento politico.

Controesodo Anas. Il tutti contro tutti fa emergere vecchi rancori fra la parte pubblica, dove gli stipendi sono più bassi, e la parte privata. Un dirigente dell’Anas racconta così il suo esodo estivo sull’A16, la Napoli-Bari gestita da Autostrade. «Il 3 agosto nel beneventano inizia a grandinare. Non si vedeva nulla e non ci si poteva fermare perché non c’è corsia di emergenza. Siamo finiti incolonnati dietro un mezzo di Autostrade che segnalava lavori in corso. Lì sono tutti viadotti con una piazzola di emergenza ogni tanto. Le nostre statali, anche quelle più problematiche come la 106 hanno la corsia di emergenza. D’inverno, alla prima nevicata, i concessionari chiudono l’autostrada e scaricano tutto il traffico sulla nostra rete». Nei giorni di fuoco del viadotto Morandi è tornata più volte l’eventualità di affidare le autostrade di Aspi all’Anas, in caso di revoca della concessione o addirittura di nazionalizzazione. Anche questa sarebbe un’inversione di marcia a 180 gradi e presume un accordo politico fra le forze di governo. Il primo passo operativo è relativamente semplice: annullare l’incorporazione di Anas nel gruppo Fs varata alla fine del 2017 da Delrio. L’Anas grillo-leghista sarebbe più simile al vecchio ente della Prima Repubblica senza averne le forze, dopo anni di destrutturazione dovuta al cosiddetto federalismo stradale previsto dalla legge Bassanini del 2000. Un vecchio dirigente dell’Anas ricorda di quando andò a contrattare la restituzione delle strade agli enti locali. «I liguri erano i più scatenati», dice. «Volevano fino all’ultimo metro di asfalto disponibile e lo volevano subito». Il riflusso è partito già da qualche anno e, ancora una volta, la Liguria ha guidato la devoluzione dei tracciati dopo avere scoperto che sono soltanto spese e contenzioso. Il controesodo da regioni e province ha portato l’Anas vicino ai 30 mila chilometri di strade gestite.

Lega d’asfalto. Prima del 14 agosto, la Lega lo aveva detto chiaro attraverso i suoi governatori di punta. Luca Zaia e Attilio Fontana hanno comunicato: con la Torino-Lione e il gasdotto Tap fate come vi pare, ma le nostre pedemontane vanno completate a qualunque costo e i miliardi che mancano vanno trovati. In Liguria il terzo governatore di centrodestra, il forzista con appoggio della Lega Giovanni Toti, si ritrova in una posizione di forza dopo lo scempio dell’A10. Non solo ha tutte le ragioni di puntare oltre l’emergenza ma sarà complicato per i grillini bloccare anche altre grandi opere di quel quadrante, incluso il terzo valico dell’Av ferroviaria. C’è però un elemento di allarme che è sfuggito al fiume di dichiarazioni successive al 14 agosto. Le grandi opere si fanno a debito. Per finanziare i lavori non ci sono solo i soldi pubblici del Cipe ma un insieme di mutui bancari, di pegni, di obbligazioni emesse da società private (corporate) oppure da enti come nel caso Pedemontana Veneta, con la regione che paga interessi stratosferici sul capitale. Alcuni di questi bond sono quotati e tutti questi strumenti gravano sui bilanci. Imprese e concessionarie sono cariche di debiti che hanno una sostenibilità solo a fronte di margini improbabili, per chi costruisce, e di convenzioni a lunghissima durata, per chi gestisce. Con la crisi delle cooperative di costruzione, di Condotte, di Astaldi, non è esagerato dire che il vigilante di ultima istanza sul sistema grandi opere è la Banca d’Italia. Con una frase che meglio di tutte riassume la vacuità amatoriale del governo, Di Maio ha affermato: «L’Italia non è ricattabile». Come no. La precarietà finanziaria del sistema grandi opere è una bomba a orologeria nei conti già pericolanti dell’intera nazione.

Divorzio miliardario. Nel disastro, tra le foto delle famiglie distrutte e dei bambini travolti dal cemento, è crollato anche l’alibi di un certo capitalismo italiano fatto di imprese che vivono di tariffe. Suona paradossale che il gruppo Benetton, nato dal prodotto, abbia cambiato pelle fino a questo punto: tanta finanza, taglio costi, tariffe e royalties per fare utili. Atlantia ha portato il grosso dei profitti distribuiti alla famiglia (2,7 miliardi nel biennio 2016-2017 e 4,8 miliardi negli ultimi cinque anni). Come disse anni fa Alessandro Benetton a un manager del gruppo: «Ma tu lo sai quanti cugini ho?» Castellucci ha assicurato un considerevole tenore di vita alla seconda e alla terza generazione della famiglia di Ponzano Veneto ed è stato premiato con l’affidamento della pratica Leonardo da Vinci, l’ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino. Una delle sue frasi famose dette in riunione ai suoi manager recita: «Gli italiani non hanno mai fatto una rivoluzione». Dopo il disastro il gruppo ha promesso mezzo miliardo di euro per risarcire le vittime. Tanto o poco che sia, bisogna ricordare che nelle concessioni, secretate per motivi di concorrenza, c’è una clausola che vale molto di più. Si chiama diritto di subentro. Se lo Stato si riprende il suo, cioè l’autostrada, deve pagare un indennizzo al concessionario. L’unico caso pubblico finora è stato quello della Sat, l’autostrada tirrenica. D’accordo con l’Anas e il Mit, i Benetton avevano inserito una clausola di subentro alla scadenza (anno 2046) pari al costo previsto dell’opera (3,8 miliardi di euro). La clausola fu bocciata da una direttiva dell’Ue e cancellata dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Su altre concessioni il subentro è in vigore. Altri costi e altre cause in vista.

Ponte di Genova, «problemi di sicurezza 10 anni prima crollo». Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 da Corriere.it. Il Ponte Morandi, che crollò a Genova il 14 agosto 2018 causando 43 morti, aveva manifestato problemi di sicurezza nei dieci anni precedenti il disastro. È quanto si legge nel rapporto commissionato da Atlantia, secondo quanto riportato dal quotidiano Financial Times che sostiene di aver avuto accesso al documento. Il rapporto era stato presentato lo scorso novembre al Consiglio di amministrazione di Atlantia — la holding che controlla Autostrade per l’Italia, responsabile dell’infrastruttura. Secondo fonti vicine al Cda, scrive il quotidiano economico-finanziario, «la presentazione del rapporto era stata affrettata, senza abbastanza tempo per elaborare i risultati del documento di 87 pagine». Le fonti hanno espresso dubbi sulla decisione di non rendere pubblico il rapporto e hanno affermato che la risposta della società al disastro è stata «disorganizzata», tanto che c’è voluto più di una settimana per organizzare una riunione del board. Un portavoce di Atlantia ha confermato che il rapporto è stato presentato al board il 9 novembre scorso e al comitato di gestione del rischio e che il gruppo ha fatto tutto quello che poteva per reagire al disastro in modo appropriato e tempestivo. «Nessuna analisi o rapporto ha concluso che erano necessari gli interventi urgenti», ha continuato il portavoce, ricordando che «i costi di manutenzione di Autostrade sul ponte Morandi — 9 milioni di euro tra il 2015 e il 2018 — sono stati più alti della media di ogni altro viadotto nella nostra rete stradale». Il dossier, ha proseguito, «è stato consegnato agli investigatori che indagano sul crollo della struttura». Autostrade, scrive ancora il Financial Times, ha pagato ai famigliari delle vittime finora 60 milioni di euro (su un totale di 500 milioni promessi).

L’uomo che deve vigilare su ponti e ferrovie: «Non mi fanno lavorare». Pubblicato martedì, 16 luglio 2019 da Andrea Pasqualetto su Corriere.it. «Era stata annunciata come una rivoluzione copernicana, necessaria, urgente, voluta dal governo dopo il disastro di Genova. E invece, a sei mesi dal mio incarico, siamo ben lontani dall’averne realizzato anche solo una parte. Non ho un ufficio, non c’è un addetto... mi sembra di vivere in un equivoco». La rivoluzione doveva farla lui: Alfredo Principio Mortellaro, l’ex dirigente del Sisde già membro del Consiglio superiore dei lavori pubblici chiamato lo scorso gennaio dal ministro Danilo Toninelli a dirigere la neonata Agenzia nazionale per la sicurezza di ferrovie, strade e autostrade (Ansfisa). Un organismo previsto dal decreto Genova per dare all’Italia una struttura pubblica di garanzia del sistema delle infrastrutture dei trasporti su gomma e rotaia con un’attività ispettiva a tutto campo: «569 dipendenti a regime, 61 da assumere subito... Statuto e regolamento entro 90 giorni (cioè entro marzo, ndr)», sollecitava il decreto vista l’emergenza. Dopo aver lavorato in silenzio per mesi Mortellaro ha deciso di dire la sua. 

Cosa succede, direttore?

«Succede che l’Agenzia non è ancora stata avviata, nonostante gli impegni del governo per la partenza immediata. Non c’è una sede, non ci sono gli organi costitutivi, non è operativo il Regolamento e non c’è lo Statuto che peraltro deve essere deliberato da quel Comitato che non è stato ancora nominato».

Ma non doveva avviarla lei l’Agenzia?

«Io ci ho provato ma mi sono trovato di fronte a un fuoco di sbarramento. Si tratta di creare una struttura complessa che richiede la collaborazione di tutte le parti interessate, in primis il ministero e poi gli enti e i concessionari di strade e autostrade. Fino a oggi molte di queste parti hanno fatto ben poco per avere il nuovo organismo. Anzi, diciamo pure che in alcuni casi lo stanno osteggiando».

Qual è il motivo del fuoco di sbarramento?

«È una questione di potere, di consensi e di soldi. La nascita di un’Agenzia nazionale così importante, che assorbe le attività degli organismi preesistenti preposti alla vigilanza sulla sicurezza ferroviaria e stradale, implementandola, comporta necessariamente un trasferimento di competenze e di risorse umane e finanziarie verso il nuovo soggetto. Questo processo incontra forti resistenze da parte di chi non vuole rinunciare a quelle attività. E questo nonostante le tragedie degli ultimi anni. Genova, Pioltello, Viareggio, solo per citare i casi più clamorosi, hanno dimostrato l’inefficienza di quel sistema. Questo di base, ma qui c’è dell’altro».

Cioè?

«Premessa: per capire bene cosa c’è dietro bisogna innanzitutto conoscere i contenuti del Regolamento dell’Agenzia che è stato predisposto e al quale manca ancora l’autorizzazione del Consiglio di Stato. Questo documento stabilisce il campo d’azione dell’Agenzia e, nello spirito del decreto, è rivoluzionario rispetto al vecchio sistema. Nel senso che l’Agenzia intende verificare la corrispondenza dei piani di gestione delle manutenzioni delle strutture, programmati dai gestori pubblici e privati, alle urgenze evidenziate dalle ispezioni disposte dagli stessi gestori. E vuole anche verificare che le ispezioni siano fatte bene e che gli interventi siano eseguiti. Se si tiene conto che finora la Direzione di vigilanza sui concessionari autostradali del ministero si è occupata prevalentemente di sfalcio erba, rugosità dell’asfalto e lampadine sulle rampe senza intervenire sul controllo della sicurezza strutturale, il cambiamento è radicale».

A non volere l’Agenzia sarebbero il ministero e i concessionari autostradali?

«Preferisco far parlare i fatti. La prima levata di scudi c’e stata quando ho tirato fuori la bozza di Regolamento. Alla mia richiesta di visionare poi i piani di manutenzione, gelo. Hanno risposto solo i gestori pubblici di strade e ferrovie, cioè Anas ed Rfi. Dagli altri non è arrivato nulla e le Direzioni generali del ministero delle Infrastrutture non si sono adoperate adeguatamente per sbloccare la situazione. Resiste lo status quo. L’impressione è che non si vogliano spostare risorse dagli investimenti alle manutenzioni».

Si sente poco supportato dal governo?

«Non certamente dal ministro Toninelli, piuttosto da alcune componenti del ministero. La contraddizione è evidente: da una parte creano l’Agenzia per dare una svolta alla sicurezza del Paese e ne sottolineano l’urgenza nominandomi di corsa direttore, dall’altra non mi mettono a disposizione le risorse minime per iniziare a operare».

Lei ha presieduto la commissione ispettiva del ministero sul crollo del Morandi. Che idea si è fatto?

«Il Morandi è stato costruito con una tecnica particolare e innovativa che non consentiva facili ispezioni ma gli allerta erano stati evidenziati da alcune misurazioni, oltre che dallo stesso Morandi. Il nodo è sempre lo stesso: monitoraggio delle strutture e manutenzioni, che forse Autostrade ha ritardato».

Vede responsabilità del ministero sui mancati controlli?

«Il ministero non aveva l’obbligo della vigilanza strutturale, ahimè. Proprio per questa ragione nasce l’Agenzia, per far entrare nell’alveo pubblico questa importante funzione di controllo. E paradossalmente proprio dal ministero arrivano i maggiori ostacoli al cambiamento».

Modello Genova sia applicato per i 600 cantieri fermi che valgono 54 miliardi. Gianluca Rospi su Il Riformista il 15 Maggio 2020. Dopo 55 giorni di lockdown, si è passati dall’emergenza sanitaria a quella umana, con il rischio di precipitare, non intervenendo subito e concretamente, in una vera e propria depressione socio-economica. Per evitare ciò, oltre a sostenere l’economia con incentivi diretti, occorre agevolare quei settori che sono moltiplicatori keynesiani della spesa pubblica come, per l’Italia, quello delle costruzioni, sul quale si può incidere anche con soli stimoli indiretti, sbloccando i cantieri. Oltre 600 le opere grandi e medie bloccate, per un valore di oltre 54 miliardi, a cui ne vanno aggiunte almeno altrettante piccole; più dell’80% già ferme prima della pandemia, a causa di una burocrazia che blocca il settore degli appalti, in primis grazie al D.lgs 50/2016. È indispensabile pertanto, per far ripartire il Paese, accelerare e semplificare l’iter autorizzativo, utilizzando il principio anglosassone che concede ampia responsabilità all’imprenditore, per poi punire rapidamente i “furbetti”. Ne è esempio il completamento del ponte di Genova, favorito da un modello di gestione, previsto dal D.L. 109/2018 (cd Modello Genova), che ha semplificato e sburocratizzato le procedure amministrative. Creando la figura di un commissario manager, è stato possibile superare le criticità dell’attuale regolamentazione degli appalti, settore bloccato da un codice farraginoso, un’enorme quantità di linee guida ANAC e una ridondanza di pareri che, spesso, confondono e paralizzano i funzionari pubblici. Indispensabile, in questa particolare fase, che il Governo si sforzi nell’annullare ogni forma di burocrazia che possa rallentare il supporto alla liquidità altrimenti, qualsiasi sforzo, pur buono ma privo di effetti immediati, potrebbe addirittura diventare fallimentare. Se l’obiettivo è quindi sbloccare i cantieri e recuperare i miliardi di euro fermi, due le possibilità: riscrivere celermente le regole della burocrazia, sicuramente la migliore ma che richiede tempo e ampio consenso delle forze politiche, o applicare modelli di gestione già collaudati. La scelta non può non cadere sulla seconda opzione: partire da modelli di gestione già collaudati per adeguarli alla situazione attuale. Se guardiamo indietro, uno che ha funzionato bene, come anticipato, è stato il “Modello Genova”, che ha fornito risultati concreti, ricucendo la ferita tra Levante e Ponente in meno di 2 anni. Tempo questo eccezionale, guardando alla realizzazione delle opere infrastrutturali in Italia: dai 3 anni per le opere inferiori a 100mila euro ai 12,2 per quelle superiori a 50milioni, con un ulteriore incremento di un anno per le opere oltre i 100milioni. Più della metà del tempo viene persa nella fase di progettazione e, in particolare, per l’ottenimento di pareri ministeriali e regionali. Avendo contribuito in maniera decisiva alla stesura del D.L. 109/2018, sono convinto che lo stesso, modificato così da garantire meglio la libera concorrenza tra imprese e la celerità delle fasi autorizzative pre-gara, oggi possa essere la soluzione per far ripartire il settore. La sua estensione a tutte le opere bloccate, sarebbe agevolata anche dal fatto che la stessa Commissione Europea, per le attività conseguenti l’emergenza Covid-19, con la comunicazione 2020/C 108 I/01 (GU 1/04/2020), dà la possibilità agli Stati di andare in deroga alla norma quadro dell’UE in materia di appalti pubblici, suggerendo l’utilizzo, in caso di estrema urgenza, di procedure negoziate, senza previa pubblicazione di bando. Procedura, tra l’altro, ammessa anche dal D.lgs 50/2016 art. 63, nella misura strettamente necessaria quando, sempre per ragioni di estrema urgenza, non si possono rispettare i termini prescritti dalle altre procedure. Considerato che ci si trova in una situazione di emergenza, l’uso di metodologie in deroga sarebbe quindi ampiamente plausibile e il D.L. 109/2018, da questo punto di vista, sarebbe un buon modello di riferimento. Come? Intervenendo nella fase di progettazione, attraverso una migliore regolamentazione, e demandando, alla sola fase di progettazione preliminare e definitiva, l’acquisizione dei pareri ministeriali e regionali, attraverso conferenze di servizio a cui far partecipare gli enti interessati, eliminando i passaggi multipli e indicando anche tempi certi per l’ottenimento dei pareri. Ed ancora, rivalutando l’attività di verifica e cantierabilità, affidando al Collaudatore e al Direttore dei Lavori, estranei alla progettazione, tale ruolo per tutte le opere sotto soglia comunitaria. E dando più poteri ai Provveditorati Interregionali alle Opere Pubbliche, che potranno essere abilitati ad esprimere pareri per i progetti superiori ai 25 milioni di euro, nell’ambito delle opere di competenza commissariale. A questo punto, come nel caso del Modello Genova, la nomina del Commissario con poteri speciali per la gestione dell’iter burocratico e la velocizzazione della fase di appalto, con poteri anche di deroga, senza naturalmente ledere la libera concorrenza e che opererebbe in raccordo con i Provveditorati Interregionali delle Opere Pubbliche, ove potrà essere costituita un’autonoma Struttura Commissariale di Missione, potrebbe sicuramente creare quel sistema di velocizzazione e sblocco dei cantieri fermi da anni. Proprio per questi motivi, nei giorni scorsi, ho presentato una proposta di legge che, partendo dal D.L. 109/2018, ha come finalità quella di semplificare e velocizzare le procedure burocratiche delle opere già finanziate ma bloccate da anni.

Un ponte, l’italico genio e l’indifferenza dei media. Domenico Bonaventura, Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it, su Il Riformista l'1 Agosto 2020. “Bad news is good news”, una cattiva notizia è una buona notizia. Siamo tutti capaci di tirare fuori il giornalista che c’è in noi e dare sfogo a uno dei pilastri del giornalismo, appunto. Eppure, ci sarebbe così tanto di buono, in Italia, di cui parlare, da diffondere. Insomma, tutti molto, troppo attenti a indicare col ditino puntato cosa non va bene di qua e cosa è immorale di là. Siamo campioni mondiali di questo sport. Perché se poi in realtà andiamo a scavicchiare, e neanche tanto, troviamo un mare di buone pratiche, ma talmente tante da poter addirittura pensare di costruirci un bel pezzo di futuro. Talmente tante da poter far “schiattare d’invidia” il resto del globo, volendo parafrasare la celebre scena de “Il Ciclone”, in cui Tosca D’Aquino balla ubriaca sul tavolo del ristorante. E non starò qua a parlare delle bellezze artistiche, del sole, del mare, della pizza e della mozzarella (che pure, voglio dire…), stereotipi ormai rancidi e stantii e presenti in tutto il mondo. Voglio parlare delle prove che sappiamo dare ma che non sappiamo riconoscere. Che sappiamo offrire ma che non sappiamo fare nostre. A cui, cioè, non siamo capaci di dare il giusto valore. Dopodomani, 3 agosto, una solenne e composta cerimonia di inaugurazione sancirà la riapertura del Viadotto Genova San Giorgio, conosciuto come Ponte Morandi. Un chilometro e 67 metri di lunghezza distribuiti su 19 campate sorrette da 18 pile in cemento armato di sezione ellittica. Trenta metri di larghezza e 45 di altezza. Parzialmente crollato il 14 agosto 2018, fu tirato giù completamente nel giugno 2019, attraverso un’opera di demolizione calcolata al milligrammo. Sappiamo tutti che il progetto del nuovo viadotto porta la firma di Renzo Piano, uno degli architetti più famosi al mondo, che lo ha donato alla propria città. Webuild (ex Salini-Impregilo) e Fincantieri lo hanno rimesso in piedi in un anno grazie al cosiddetto “modello Genova” – che, per alcuni in maniera fin troppo disinvolta, ha derogato al Codice degli Appalti. Di fermarsi durante l’emergenza Covid non ci hanno neanche pensato. Hanno lavorato giorno e notte, dando al mondo un esempio fulgido di ciò che l’Italia è in grado di fare. Con un’efficienza tale che neanche gli italiani se ne sono accorti, presi come siamo a cercare le bad news col lanternino. Sia i cittadini che media. A parte qualche servizio relegato in coda ai tg e di spalla ai quotidiani (le testate di respiro più “territoriale”, come ad esempio TeleGenova e il Secolo XIX, hanno dato ampio spazio al tema in tutti questi due anni), mi è capitato di vedere davvero poco sulla ricostruzione del ponte. Invece credo che i media, con la loro forza dirompente, avrebbero dovuto piazzarsi sulle rive del Polcevera, proprio come nei giorni successivi al crollo, e fare una cosa che oggi va tanto di moda: narrare. Costruire una narrazione per una volta univoca, non lottizzata, ma finalizzata a un obiettivo.

Avrebbero dovuto seguire passo dopo passo la rinascita di quest’opera, che era la rinascita di una città colpita al cuore in una Nazione colpita al cuore da 43 vite cadute e da scene laceranti. Avrebbero – e mi riferisco soprattutto al servizio pubblico – dovuto dare maggior risalto e visibilità al genio italiano, che per molti pare essersi fermato alle mirabilie di Leonardo e che invece continua a produrre talenti in serie, a macinare idee trasformandole in splendide realtà, ad accompagnarci per mano nel progresso e nel futuro. Forse siamo acerbi per poter pensare a uno storytelling di questo genere che Francia, Giappone e Stati Uniti, per citare le prime tre società che mi vengono in mente, avrebbero senz’altro fatto. O forse siamo impostati in maniera tale da essere certi che tutto valga infinitamente più delle nostre enormi e continue – ma silenti – dimostrazioni di competenza e di capacità. Tant’è. Dopodomani, dopo il passaggio delle Frecce Tricolori e il transito della prima auto, quella del Capo dello Stato, il viadotto verrà aperto al traffico. In quel momento, magari, in molti toccheranno con mano la portata storica, tecnica, sociale e nazionale di questo risultato.

Marco Benedetto per blitzquotidiano.it il 30 aprile 2020. Il ponte di Genova è una lezione per l’Italia. Peccato che pochi se ne siano accorti. Dei principali giornali di mercoledì 29 aprile, solo il Corriere della Sera ha queste parole: “È un modello per il Paese”. Ma le ha dette il presidente della Regione Liguria, il milanese (d’adozione) Giovanni Toti. Ci si sarebbe aspettato che a pronunciarle fosse Giuseppe Conte, presidente del Consiglio. Invece di perdersi fra messe, ramadan e parrucchieri, sarebbe stato meglio che Conte avesse detto: “È la prima volta in Italia. Come avete fatto? Mando subito Vittorio Colao e i suoi 17 espertissimi a vedere come avete fatto e carpirvi il segreto”. Il segreto non è racchiuso in me, gli avrebbe risposto Marco Bucci, sindaco di Genova e commissario alla ricostruzione del ponte. Ma è sotto gli occhi di tutti. Forse non di chi non vuole vedere. Ma basta un minimo di voglia di capire. Che invece non sembra sia molto diffusa. Aggiungendo: è tutta una questione di poteri e procedure. Bucci è entrato in politica da grande, a 58 anni d’età. Prima aveva fatto 30 anni di gavetta in multinazionali della chimica. Profilo medio, direbbe un cacciatore. Altro che il super manager Colao. Ma esperienza dal basso, capacità di decisione e chiarezza di idee. Niente comitati, un uomo solo al comando. E alla fine il ponte è stato completato, venti mesi dopo il crollo del vecchio ponte Morandi, alla vigilia di Ferragosto del 2018. Nemmeno Giulio Cesare avrebbe fatto meglio. Avendo accanto un tizio di nome Renzo Piano. Il quale Renzo Piano avrebbe aggiunto: procedure, chiarezza di competenze e responsabilità, decisione senza retropensieri. Piano è il più grande architetto italiano degli ultimi cent’anni e tra i più bravi al mondo. Vai all’aeroporto di Osaka, in Giappone, o a New York, fra il palazzo del New York Times e il museo di J.P.Morgan, a Parigi al Beaubourg. Sono i rari momenti d’orgoglio per un italiano all’estero. Opere grandiose, alcune come Osaka quasi titaniche. Eppure la semplicità, l’essenzialità ti rapiscono. Senti la differenza. Essenziale si può definire il nuovo ponte sul Polcevera. Piano ha progettato il suo ponte immaginandolo tutto in acciaio. L’acciaio, dicono, è usato nella costruzione dei ponti in tutto il mondo. In Italia non piace. Pare che richieda molto poca manutenzione. Può essere una malignità. Ma colpisce leggere sul Secolo XIX le meraviglie tecnologiche che caratterizzano il nuovo ponte. Renzo Piano ha calcolato tempi e definito metodi. E la tabella di marcia fissata un anno fa finirà per subire un ritardo di qualche settimana, massimo un paio di mesi. In mezzo c’è stata l’apocalisse del Covid-19 o coronavirus che ha bloccato quasi tutta l’Italia. E le burrasche e le piogge che sono la delizia di Genova d’inverno. Ma non c’è da meravigliarsi che il completamento del ponte sia avvenuto quasi in sordina, rispetto alla portata e al significato dell’evento. Se si tratta di mafia, allora si che siamo bravi a parlarne. Il successo di Genova è un qualcosa da sbandierare in tutto il mondo. Lo dico non da genovese della diaspora (ne sono venuto via 50 anni fa e non tornerei indietro). Lo dico da italiano che un po’ il mondo lo ha girato. Che spesso si è dovuto vergognare perché il principale effetto dell’antimafia è che all’estero tutti gli italiani sono mafiosi. Che è consapevole che l’impero romano è caduto 1.600 anni fa. Che Genova era tanto povera che i longobardi ci sono andati due secoli dopo aver preso Pavia. Che le glorie nazionali del passato, Dante, Michelangelo, Raffaello, sono sottoterra da mezzo millennio. O sono andate a lavorare per i re stranieri, vedi Colombo. Dicono che attorno a Vasco de Gama c’erano i marinai genovesi. Ma al servizio non del doge di Genova bensì del re del Portogallo. E al servizio di qualche capitale straniera sono dovute andare le glorie recenti: Meucci, Marconi, tanti Nobel. Una cosa mai vista, a memoria d’uomo, quanto meno a partire dagli anni ’60. Invece tutto quello che siamo stati capaci di rimarcare è stato che attorno a Conte a Genova c’era troppa gente. Fenomeno scontato in qualsiasi evento di quella portata in qualsiasi regime. Come se il completamento in tempo quasi perfetto di un ponte lungo un chilometro fosse come un barbecue su un terrazzo a Palermo. Ci sono, in giro per l’Italia, opere mai terminate. Pensate al Mose che dovrebbe salvare Venezia. Consentitemi un po’ di orgoglio genovese. A Venezia, ogni tanti anni piangono che la città sta per morire. Mezzo secolo fa fu il picco dei lamenti. Ci furono film e canzoni. Poi vendettero gli appartamenti ai ricchi italiani e stranieri, e tutto tacque. Da quarant’anni si trastullano con un progetto di dighe e paratie mobili noto come Mose. Lo Stato italiano ci ha profuso qualche miliardo e ancora non funziona. In compenso, a un certo momento, c’è stata una retata. Ma non è colpa dei veneziani, la colpa è del sistema. Un ente pubblico, strattonato fra le competenze di enti, società civile, ambientalisti e mugugni vari. A Genova, infatti, i due progetti chiave per rilanciare la città e il porto, il terzo valico ferroviario e la bretella autostradale che chiamano gronda. Il terzo valico è stato a lungo ostaggio non solo dei grillini, ma dei pasticci politici, soprattutto a sinistra. La linea ferroviaria dovrebbe essere pronta fra 3 anni, 10 dopo l’avvio dei lavori. Punto d’arrivo sarà Novi Ligure, appendice di Genova oltre Appennino. Come farà il treno iperveloce a arrivare da Novi a Milano ancora non sembra chiaro. Della gronda meglio non parlare. La morale che si può trarre dalle vicende veneziane e genovesi, è: che dove prevalgono calcoli elettorali e confusione decisionale e organizzativa tutto si impantana. Coté giudiziari a parte. Non parlo del Meridione, non parlo di tutti i casi di opere incompiute che sono pietre miliari della storia d’Italia. Ma dovete riconoscere che il successo della ricostruzione del ponte di Genova, ha solo una chiave: procedure snelle, organizzazione chiara. Lo scrivo pur con tutta l’ammirazione per Piano e Bucci che uno può provare. E, alla base, un grande progetto. Tanto che Beppe Grillo ha dovuto tacere. E accantonare il bizantino progetto che all’inizio aveva deciso di sostenere. Avrebbe perso l’amicizia di Piano. E la faccia.

Quel ponte che scavalca la burocrazia. Alessandro Sallusti, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. Ieri l'altro a Genova è stata completata la costruzione del diciottesimo e ultimo pilastro del ponte che andrà a sostituire il Morandi, il cui crollo, nell'agosto del 2018, provocò 43 vittime. L'inaugurazione della nuova struttura, un capolavoro di ingegneristica e di architettura firmato da Renzo Piano, è prevista per giugno, giusto a un anno dall'apertura del cantiere. È la prova che in Italia quando si vuole è possibile fare grandi opere velocemente e bene, che sul Paese non grava una maledizione divina che ci condanna all'immobilismo e allo sperpero. Sapete perché a Genova è stato possibile? Semplice: perché la politica, la magistratura penale e civile, ecologisti, ambientalisti, burocrati, faccendieri, mafiologi, nani e ballerine sono stati tenuti alla larga dalle decisioni e dai lavori. Fuori tutto lo Stato, nella cabina di regia solo i vertici di due grandi imprese italiane, la Salini (privata) e Fincantieri (pubblica), un commissario responsabile di tutto (il sindaco di Genova Marco Bucci) e un supervisore (il governatore della Liguria Giovanni Toti). Fine dell'elenco e delle discussioni su cosa e come agire. A fare ci pensano mille operai che ruotano sul cantiere ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana: da giugno scorso una pausa solo a Natale. Vedrete che quando sarà inaugurato si dirà di un «miracolo a Genova». Io parlerei più di un «modello Genova», che a differenza dei miracoli è cosa umana e ripetibile ovunque, in qualsiasi momento, ed è l'unica strada concreta per rimettere in moto l'economia del Paese. In Italia ci sono ventiquattro grandi opere bloccate da burocrazia e cavilli che valgono quasi 25 miliardi. Il paradosso è che non mancano i soldi, ma i timbri. L'Ance, l'associazione che raduna i Comuni, ha calcolato che un loro sblocco avrebbe un riflesso sull'economia, con l'indotto e i vantaggi, di 86 miliardi e di 380mila posti di lavoro. E allora viene da chiedersi: perché invece di tante chiacchiere non varare ventiquattro modelli «ponte di Genova», o almeno abolire il macchinoso codice degli appalti, limitare l'invadenza delle tante autorità di controllo, togliere le leggi manettare che frenano funzionari e dirigenti pubblici che, per paura, non firmano più neppure un autografo? Qui non servono i miracoli, basterebbe un governo liberale, pragmatico e capace. Purtroppo quello che abbiamo è tutto l'opposto.

Andrea Plebe per “la Stampa”l'11 febbraio 2020. «Siamo tutti genovesi: è il sentimento che leggi negli occhi di chi lavora alla costruzione del Ponte di Genova. E poi lo stupore nel vedere un progetto che, giorno dopo giorno, diventa realtà: è quella la meraviglia del cantiere». L' architetto Renzo Piano ha compiuto l' ultima visita il 2 febbraio, domenica. «Appena ho l' occasione, quando sono a Genova vado a vederlo», dice dallo studio di Parigi. «La domenica, poi, ci passo qualche ora. E tutti i tecnici e le persone che sono con me, anche loro si prendono tempo, nessuno ha fretta, c' è grande partecipazione».

Architetto, il ponte in Valpolcevera sta per vivere un momento importante, il varo della prima campata da 100 metri. Com' è stata la sua ultima visita?

«Comincio sempre dal lato di ponente, dove ho incontrato i responsabili di cantiere di Salini Impregilo, di Fincantieri e del Rina, e da lì abbiamo attraversato la zona a piedi, fino all' altro lato. Siamo stati anche a Certosa, la strada centrale dove mi portava mio padre quando ero bambino, lui era nato lì. È il momento in cui si percepisce l' entusiasmo di fare le cose insieme, c' è sempre chi si ferma a parlare, saldatori, manutentori, gruisti...».

E che cosa accade?

«È scritto nei loro occhi: siamo tutti genovesi, anche se uno viene da Trento, uno dallo Sri Lanka, un terzo da un altro posto ancora. Può apparire un po' romantico, ma è così. Lo avevo già notato nel cantiere navale di Fincantieri, dove sono stati costruiti i pezzi del ponte. Queste sono grandi imprese, che lavorano nel mondo, con personale di ogni nazionalità. Ti fa venire in mente che Genova, anche per la sua natura portuale, è da sempre una città cosmopolita. Ogni tanto, per gioco, gli parlo in genovese, poi mi rendo conto che forse non tutti capiscono...Ma percepisci il senso di appartenenza, l' orgoglio di fare».

Un esempio di come si può lavorare bene insieme, un' occasione rara.

«Il cantiere a Genova è la cartina al tornasole del fatto che questo Paese è capace di imprese straordinarie. A Genova ci sono tutte le competenze ad altissimo livello non dimentichiamo l' Istituto italiano di tecnologia che sta realizzando il sistema robotico di controllo e manutenzione del ponte, Italferr che ha fatto il progetto esecutivo. In Giappone ho realizzato un ponte simile, e ci sono voluti tre anni. Qui lo faremo in meno di uno. Perché diavolo ci vuole un' emergenza per riuscirci? Queste forze si possono mettere insieme sempre, anche per un Progetto Paese».

Che cosa è cambiato in corso d' opera del suo progetto, che fra l' altro lei ha donato alla città?

«Può accadere che, per svariate ragioni, i progetti vengano un po' travisati, ma qui non è accaduto. L' idea progettuale è stata difesa da tutti, in primo luogo dalla struttura commissariale guidata dal sindaco, e anche dalle istituzioni del territorio. È stata difesa la coerenza del progetto, la sua essenzialità e chiarezza, che è parente stretta della sua fattibilità».

Come verranno ricordate le vittime del 14 agosto?

«Attraverso un memoriale a cui sta lavorando l' architetto Stefano Boeri con il suo team, sarà l' inizio del lavoro sul parco della Valpolcevera. Per il 21 giugno, la data indicata dal sindaco, che mi piace molto perché è il solstizio d' estate, il giorno più lungo dell' anno, vedremo i primi risultati. La Valpolcevera ha una storia importante, è il cuore della città metropolitana e costruendo sul costruito avrà la possibilità di svilupparsi, con funzioni miste. Lì c' è una promessa di bellezza, ne sono convinto».

Che impatto emotivo ha su di lei questo cantiere?

«Grande, soprattutto perché segue una tragedia. Costruire è un gesto di pace ed è ancora più forte se è la risposta a una distruzione. Da un punto di vista emotivo c' è un solo altro edificio che mi è capitato di fare con quello spirito, la sede del New York Times, dopo l' 11 Settembre. A Genova il significato è ancora più esplicito, quando vai lì non puoi non ricordare le 43 vittime, le centinaia di sfollati, la città spezzata in due. Il ponte vuol dire riprendere forza, ritrovare il coraggio, questo è il posto che prende nel mio cuore».

Si è anche discusso per il nome, ma è necessario dargliene uno?

«Ho sempre pensato che dovrebbe chiamarsi il Ponte di Genova con la P maiuscola, e basta: in tutto il mondo si sa cosa è successo il 14 agosto 2018. Poi ci penseranno i bambini, a dargli un soprannome, lasciamoli fare e ne troveranno di bellissimi. Alla fine credo che il ponte sarà una presenza lieve, accarezzata dalla luce radente. E lasciamo in pace Morandi, che è stato un grande ingegnere».

Il ponte di Genova ora scavalca di nuovo il Polcevera. Matteo Macor su Repubblica Tv il 10 marzo 2020. Un anno e sette mesi dopo il crollo del ponte Morandi, sul fiume Polcevera, a Genova, si ritorna a volgere lo sguardo in alto. Dopo qualche giorno di rinvio a causa del maltempo, è terminato il sollevamento in quota della campata più lunga del nuovo ponte autostradale: i cento metri di impalcato che permetteranno di scavalcare il letto del torrente, tra le pile 9 e 10, corrispondenti al tratto di Morandi crollato il 14 agosto 2018. Nelle immagini della struttura commissariale, il riassunto delle quasi 24 ore di lavoro con cui i tecnici di Fincantieri Infrastructure hanno coordinato – grazie all’utilizzo di speciali apparecchiature, gli strand jack, capaci di garantire la salita della campata di 5 metri all’ora – le operazioni di sollevamento a quasi 40 metri di altezza di circa 2mila tonnellate di acciaio. “In un momento tanto difficile per tutta l’Italia, - dice Alberto Maestrini, presidente di PerGenova - un nuovo traguardo, concreta testimonianza delle capacità della nostra industria”.

La maxi trave di 100 metri: il nuovo ponte cresce dove crollò il Morandi. Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Erika Dellacasa. All’alba di martedì Genova ha riavuto il secondo tratto del ponte sul Polcevera, «quel» tratto: la parte che il 14 agosto del 2018 è crollata trascinando con sé 43 vite e lasciando la città spezzata e sconvolta. A febbraio il consorzio di imprese che lavora alla ricostruzione aveva già posizionato il primo maxi-impalcato, ma questo è speciale, non soltanto per le operazioni di alta ingegneria che ha richiesto, ma per il suo impatto emotivo. La grande campata da 1.800 tonnellate innalzata martedì scavalca il torrente Polcevera nello stesso punto in cui è crollato il Ponte Morandi ed era impossibile per chi ha assistito alla posa non rivedere le immagini della tragedia, le auto accartocciate, il camion bianco quasi intatto fra le macerie, il furgoncino fermo a pochi passi dal vuoto, lo choc dei sopravvissuti e dei testimoni. «La posa di questa campata ha un altissimo significato simbolico», ha commentato Nicola Maistro, l’amministratore delegato di PerGenova, la joint venture che unisce il gruppo Fincantieri e Salini Impregilo incaricata della ricostruzione. Per portare in quota, ad oltre quaranta metri di altezza, l’impalcato (in parole molto povere, una maxi-trave lunga 100 metri) le maestranze hanno lavorato dalla mattina di lunedì per tutta la notte nonostante la pioggia che ha reso più difficile la movimentazione sul greto del Polcevera. Per prima cosa infatti — spiega Siro Dal Zotto, direttore operativo di Fincantieri Infrastructure — è stato necessario «posare» a sbalzo l’impalcato sul greto utilizzando due carrelloni con 80 ruote ciascuno, quindi sollevare la parte a sbalzo con un traliccio e farlo scorrere. L’impalcato è stato ruotato di 90 gradi per portarlo in asse con i piloni quindi è iniziata nella notte l’azione di sollevamento con martinetti idraulici. Per fortuna non si è alzato il vento, che costituisce il maggior pericolo quando si lavora con carichi sospesi. Il varo della campata è avvenuto con il primo sole ed è ormai con un certo affetto che la città parla di «varo» delle parti del ponte-nave, come l’ha battezzato Renzo Piano. Il nuovo tratto porta lo skyline del ponte sul Polcevera a misurare più di 600 metri e comincia ad essere visibile, grazie alle «ali» della struttura, la forma a carena di nave che l’architetto genovese ha voluto imprimere a questo progetto. Uno scafo d’acciaio nel cielo di Genova. L’ultimo impalcato da 100 metri che sarà posizionato nelle prossime settimane dovrà passare sopra la ferrovia: ogni fase della costruzione del ponte pone nuovi problemi di ingegneria. E anche il cantiere di Genova non è esente dall’allarme coronavirus. «Stiamo lavorando a tempo record», ha detto l’ad di Fincantieri Giuseppe Bono, «in questo frangente così delicato. Assicuro che adotteremo con rigore tutte le misure indicate dalle autorità per tutelare la salute di tutti». Entro giugno il ponte dovrebbe essere terminato: il «modello Genova» con la nomina a commissario del sindaco Marco Bucci sta raccogliendo molti apprezzamenti. «Questa giornata», ha detto il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, «ci fa già immaginare il futuro, le immagini del ponte ci dicono che ce la possiamo fare e ce la faremo, proprio mentre pensiamo a come risolvere i problemi del presente. Il modello Genova è semplice: vuol dire collaborazione e lealtà fra istituzioni, obiettivi comuni, assunzione di responsabilità, poteri per fare le cose».

Suonano le sirene, Genova celebra il varo del nuovo ponte. Salito questa mattina l'ultimo pezzo di impalcato, il viadotto unisce di nuovo i due lati della Valpolcevera al posto del Morandi, che era crollato il 14 agosto del 2018 causando 43 vittime, il presidente del Consiglio Conte parla di una "giornata speciale", "una ferita sanata" e ribadisce: "lo stato non ha mai abbandonato Genova". Nadia Campini il 28 aprile 2020 su La Repubblica. La bandiera di San Giorgio sventola alta sul Polcevera, l'ultimo metro e mezzo di salita dell'impalcato che completa il nuovo ponte di Genova si è compiuto questa mattina, alla presenza del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e della ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli. La trave destinata a coprire gli ultimi 44 metri si è andata a posizionare nello spazio vuoto e dopo 620 giorni dal tragico crollo del ponte Morandi, costato la vita a 43 persone, c'è un nuovo un ponte a unire la parte est con quella ovest della Valpolcevera. Il viadotto, realizzato in acciaio, è lungo 1067 metri ed è composto da 19 campate poste a 40 metri di altezza sorrette da 18 piloni. "Non è una festa - ha ricordato l'architetto Renzo Piano, che lo ha disegnato - ma è un lavoro che si completa con grande orgoglio".  Conte e De Micheli sono arrivati in cantiere con la mascherina, Conte ha parlato di una "giornata speciale"  e ha ribadito che "lo stato non ha mai abbandonato Genova", consapevoli che "questa ferita non potrà essere completamente rimarginata perchè ci sono 43 vittime che non dimentichiamo e i giudizi di responsabilità di quella tragedia non sono ancora completati e devono completarsi". "Genova ci insegna a ripartire insieme", sono state le parole di Conte - non ci fermeremo ad additare nemici. Questa comunità ha saputo riprendere il cammino ed è una luce che dà speranza all'Italia intera". Poco dopo le dodici Conte ha suonato il pulsante che ha dato il via alle sirene del cantiere e a un lungo applauso, al quale hanno fatto eco anche le sirene in porto completando così la cerimonia. Un punto di arrivo tutt'altro che scontato. Dopo la demolizione delle macerie del vecchio ponte Morandi il cantiere per la ricostruzione, affidata al consorzio PerGenova, composto da Salini Impregili e Fincantieri Infrastructure, ha incontrato molte difficoltà, dall'amianto all'incendio di una pila, ma non si è mai fermato, ha lavorato ventiquattro ore su ventiquattro, impiegando mille persone, ed è andato avanti anche in periodo di coronavirus, un operaio è stato trovato positivo, sono state adottate tutte le misure di sicurezza, l'isolamento, le mascherine e il lavoro ha rallentato, ma non si è interrotto. Ieri sera le diciotto pile del nuovo ponte sono state illuminate con il tricolore. Questa mattina il varo. La ministra De Micheli ha confessato la sua "emozione". "Il ponte non è finito - ha detto il sindaco Marco Bucci - ma oggi celebriamo il ricongiungimento delle due parti della valle". E il presidente della Regione Giovanni Toti ne ha parlato come del "simbolo di un Italia che riparte". Dopo il varo di questa mattina si procederà al 'calaggio', l'impalcato sarà posizionato sui sui appoggi definitivi, poi sarà completata la parte superiore, la soletta, l'asfaltatura, per l'inaugurazione si dovrà aspettare l'estate, probabilmente la seconda metà di luglio. Nel frattempo si dovrà anche decidere il nome, ad oggi molte sono state le proposte, da 'ponte43', in memoria delle 43 vittime, a ponte Paganinini, a semplicemente il Ponte di Genova, l'idea lanciata dall'architetto Piano.

Ponte Morandi: dal crollo alla rinascita del nuovo ponte. Concluso il varo. Il Corriere del Giorno il 29 Aprile 2020. I lavori, partiti a marzo del 2019, entrano così in una nuova fase. Che prevedono, già dai prossimi giorni, l’appoggio definitivo sulle diciotto pile a forma di ellisse, la realizzazione della soletta su cui correrà l’asfalto con una unica, lunga gettata e l’installazione delle tecnologie e dei lampioni che, a centro strada, illumineranno il ponte-nave firmato da Renzo Piano. ROMA – Nelle vie e piazze di Genova sono risuonate le note dell’Inno di Mameli e il “Nessun Dorma” della Turandot. Così Salini Impregilo ha salutato il varo dell’ultima campata., colorando il ponte e pile con un fascio luminoso tricolore. Un’iniziativa che rappresenta un omaggio alle istituzioni, ai genovesi e un pensiero commosso per le vittime del crollo. Il suono delle sirene di cantiere e l’eco più lontano e soffuso di quelle del porto: a mezzogiorno in punto di ieri la diciannnovesima campata d’acciaio del nuovo ponte sul Polcevera a Genova ha appena compiuto gli ultimi centimetri che la separavano dal punto finale della sua ascesa, a 40 metri d’altezza, completando i 1.067 metri del nuovo tracciato che ricongiungerà i tronconi della A10, spezzata il 14 agosto del 2018 dal disastroso crollo della pila 9 del ponte Morandi. Adesso il tracciato del nuovo ponte è completato, è lungo 1067 metri. A venti mesi dal crollo del Morandi, che provocò la morte di 43 persone, il nuovo viadotto riunisce le due sponde della valle. Presenti alla cerimonia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, il sindaco di Genova Marco Bucci ed il governatore ligure Giovanni Toti. I lavori, partiti a marzo del 2019, entrano così in una nuova fase. Che prevedono, già dai prossimi giorni, l’appoggio definitivo sulle diciotto pile a forma di ellisse, la realizzazione della soletta su cui correrà l’asfalto con una unica, lunga gettata e l’installazione delle tecnologie e dei lampioni che, a centro strada, illumineranno il ponte-nave firmato da Renzo Piano. “Questo è qualcosa di più di un ponte, è l’esempio di un’Italia che ce la fa a ripartire, la dimostrazione che insieme possiamo fare tante cose”, ha detto il governatore ligure, Giovanni Toti. “Per Genova e per San Giorgio”, ha detto il Sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera, Marco Bucci, ricordando un grido di guerra dell’antica Repubblica marinara, mentre nello stesso momento sventolava sui fianchi della campata un grande vessillo con la croce rossa in campo bianco . “Il ponte non è finito – ha aggiunto il primo cittadino del capoluogo ligure – questo ponte colpisce il cuore e la mente, per lo stile asciutto tipico dei genovesi. Il ponte e’ su, ma non e’ finito: c’e’ ancora tanto lavoro da fare nei prossimi due mesi e mezzo”. “Bisogna centrare il ponte, calarlo sugli appositi piloni, abbassandolo di almeno 25-30 cm. Poi bisognera’ mettere la soletta in calcestruzzo e, a seguire, l’asfalto. Poi monteremo le barriere, i pannelli solari e l’illuminazione. Solo allora potremo inaugurarlo. E – ha concluso il sindaco – il giorno dell’inaugurazione canteremo vittoria”.

Così il viadotto è stato ricostruito in un anno. Cinque motivi per cui una grande opera non si è fermata. Luigi Pastore il 28 aprile 2020 su La Repubblica. La ricostruzione del viadotto di Genova, avvenuta rapidamente e senza mai fermarsi neppure in tempi di Coronavirus, è la dimostrazione che anche in Italia si può. Ci sono almeno cinque motivi per cui questo ponte, i cui lavori sono iniziate un'estate fa, a luglio potrebbe essere percorribile al traffico, esattamente 24 mesi dopo la tragedia del Morandi, anche se non è stato affatto semplice e i problemi sul cammino ci sono stati. In primo luogo, un percorso normativo e organizzativo snello, che di fatto ha sterilizzato la burocrazia, grande nemica delle opere pubbliche in Italia. I lavori sono stati assegnati con una procedura rapida e la loro guida è stata affidata a un commissario operativo, il sindaco di Genova Marco Bucci. Si è parlato di poteri speciali, le abituali procedure sono state alleggerite alquanto e il resto lo ha messo l'iper decisionismo di Bucci, uomo d'azienda prestato alla politica e per sua stessa ammissione allergico alla burocrazia anche quando guida un ente complesso e senza poteri speciali come il Comune di Genova. In secondo luogo ci si è affidati a una società, Rina Consulting, per il project management, in pratica una direzione lavori serrata con una catena di comando e comunicazione agile, che ha portato rapidamente a protocolli operativi e di sicurezza nel cantiere. Organizzazione che è divenuta ancor più stringente dopo l'esplosione del Coronavirus e la necessità di circoscrivere il più possibile, focolai di contagio. In terzo luogo, la concertazione con le parti sindacali e con i comitati dei residenti, per mettere a punto regole sul lavoro e affrontare il tema delicato delle polveri d'amianto che minacciavano la demolizione del vecchio viadotto, avvenuta in una zona estremamente conurbata con quattro direttrici di traffico, una ferroviaria e in un quartiere che ha già pagato a caro prezzo la tragedia con centinaia di sfollati. Quindi, la scelta di affidarsi per il progetto a una firma come quella di Renzo Piano, che ha voluto mettersi a disposizione per la sua città con grandissima passione e ha dato slancio anche emotivo alla ricostruzione, oltrechè regalare il disegno di un nuovo viadotto. Infine, la collaborazione tra istituzioni e parti politiche anche di colore diverso, tra il governo giallorosso e amministrazioni locali di centrodestra, che ha consentito di lavorare con un comune obiettivo per il Paese, perchè disporre nuovamente di questo viadotto non significa solo riunire una città spezzata, ma scongiurare l'isolamento del porto di Genova dal resto del Nord e evitare una paralisi trasportistica destinata a diventare un fardello insostenibile per le imprese, aancor prima che si abbattesse la pandemia.

Se l'ipocrisia rossa frena pure gli appalti. Nicola Porro, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. Sentite questa storia perché ha dell'incredibile su come trattiamo la nostra industria. La settimana scorsa le Tribune titola: Armamento, nuovo schiaffo alla Francia dall'Egitto. In poche parole, dopo decenni di appalti vinti dalle industrie francesi, l'Italia ha conquistato al Cairo due gare davvero importanti. Qualche mese fa ha piazzato con la vecchia Finmeccanica (oggi ahinoi si chiama Leonardo) un miliardo di elicotteri. E in queste ore si sta discutendo un contratto da più di un miliardo per fornire alla loro marina due fregate Fremm costruire da Fincantieri. Su queste navi, che verranno sottratte e poi ricostruite per la nostra marina, interverranno poi le dotazioni di armamenti sempre ad opera del gruppo Finmeccanica. Una bella botta per i francesi. Due miliardi in lavori per due eccellenze italiane che sconfiggono sul campo la concorrenza transalpina. E proprio nel momento in cui Macron pensa di giocare un ruolo geopolitico importante in quell'area geografica. E nel mezzo di un'assurda battaglia legale che si sta conducendo in Europa contro la nostra Fincantieri che si è permessa di comprare i cantieri Stx dai coreani, e che oggi viene messa sul banco degli imputati per posizione dominante. Ma questo è un altro discorso. Non si tratta di una partita di calcio, ma di quel complicato mercato degli armamenti, in cui la vittoria di un appalto da parte di un'azienda italiana vuol dire mantenere una filiera piuttosto lunga in un'industria dove meccanica e ricerca sono fondamentali. Tra l'altro questo è un settore dove non ci si improvvisa: non si va a vendere con la valigetta e il progetto esecutivo. Si deve sottostare a millimetriche normative nazionali, per non fornire armi a Stati che sono considerati canaglia anche attraverso complicate triangolazioni. Ebbene invece di gioire e ringraziare l'opera riservata che starebbe compiendo il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il suo consigliere militare, qua rischiamo di gettare tutto a mare. L'esecutivo sarebbe infatti diviso. L'idea, che Repubblica ieri ha rilanciato, è che non si possa fare affari con il Paese che «nasconde la verità su Giulio Regeni». Mettere insieme le due storie è una roba da pazzi, ma vedrete che la campagna proseguirà. Siamo degli specialisti nel farci del male. Abbiamo perso un contratto favoloso in India e arrestato (e poi totalmente assolto) l'allora presidente della Finmecanica-Agusta per tangenti che nessuno ha mai provato. Abbiamo massacrato Eni e Saipem per presunte tangenti in Nigeria. E oggi discutiamo sull'opportunità di vendere due fregate all'Egitto, scalzando la concorrenza francese. Viviamo in un brutto sogno, che purtroppo passo dopo passo diventa realtà, sulle macerie di un Paese che si sta deindustrializzando.

Autostrade, la De Micheli annuncia: "A gennaio decideremo sulla revoca". Il ministro delle Infrastrutture detta la linea sulle concessioni: "Non faremo espropri proletari, ma le regole siano uguali per tutti". Luca Sablone, Martedì 24/12/2019, su Il Giornale. Paola De Micheli vuole puntualizzare la posizione del governo in merito ad Autostrade: "Nessun esproprio proletario. Nessuna nazionalizzazione o vendetta. Vogliamo solo che le regole siano uguali per tutti". Al centro del discorso il Milleproroghe, che riscrive le procedure in caso di revoca delle concessioni autostradali: "C'è un intervento su due concessioni, la Ragusa-Catania e la Tirrenica. Passeranno ad Anas e saranno completate, come giusto in un Paese normale". Inoltre vengono modificate le modalità di indennizzo in caso di revoca "per tutti i concessionari che non si trovano ancora in questa condizione". Si tratta di una "previsione di legge generale"; l'intento è quello di "parificare le condizioni di tutti i concessionari davanti alla legge". A suo giudizio al momento non è ancora così: "Ci sono 3 o 4 concessioni con condizioni più vantaggiose. Tra queste anche Aspi". Con le nuove regole ai concessionari eventualmente revocati "spetterà la cifra iscritta a bilancio degli investimenti non ammortizzati, oltre a quanto previsto dal codice degli appalti". Comunque per arrivare alla procedura di revoca "ci deve essere un inadempimento grave, una cosa che va dimostrata e condivisa". La revoca ad Aspi è da intendersi come "una procedura separata" sulla quale l'esecutivo giallorosso sta "ancora acquisendo dati". Dopo aver terminato le analisi "tutto il governo approfondirà il se, il come e il quando". Nello specifico a gennaio la maggioranza dovrebbe essere "in grado di prendere una decisione", ma fino a quando non verranno esaminati tutti gli aspetti preferisce non sbilanciarsi.

Posti a rischio. Nell'intervista rilasciata al Corriere della Sera, il ministro delle Infrastrutture ha risposto ad Autostrade, che vorrebbe l'indennizzo calcolato con le vecchie regole corrispondente a circa 23 miliardi di euro: "Questo è un modo per mettere in difficoltà il governo, per vedere se qualcuno in Parlamento vota contro. Non è una modalità di comportamento lineare". Anche perché dietro vi sarebbe un'idea sbagliata: "Gli investimenti non ancora remunerati verranno riconosciuti, oltre come già detto quanto previsto dal codice degli appalti". Ha fatto notare che nella lettera è presente un aspetto grave: "Il concessionario non riconosce il sacrosanto diritto di un governo alla luce di tutto quello che è accaduto di revisionare il modello concessorio ormai vecchio di oltre 15 anni". Aspi dal suo canto dice che si sarebbero 7mila posti a rischio: "Se dovesse accadere non è che le autostrade verranno abbandonate". Il governo dunque avrà il compito di valutare e affrontare "anche questo aspetto senza mettere a rischio i posti di lavoro". La società annuncia ricorsi miliardari, perciò anche la commissione di esperti nominata da Danilo Toninelli spingeva per la rinegoziazione: "Nessuno vuole fare un salto nel buio. E intanto revisioniamo i contratti". La De Micheli dice che ha voluto prendersi il giusto tempo "per fare gli approfondimenti" ma anche perché il suo obiettivo è di "difendere l'interesse pubblico" e lei intende "difenderlo anche da questi rischi".

DAGONEWS il 23 dicembre 2019. Sono in pochi a ricordare che già nel 2006 l’allora ministro delle Infrastrutture Di Pietro cercò di modificare le concessioni autostradali in modo unilaterale. Risultato: la Commissione Europea aprì una procedura di infrazione con una lettera di messa in mora nei confronti dell’Italia, ribadendo che i contratti non possono essere modificati senza un accordo delle parti. Nemmeno se uno dei due contraenti è lo Stato. Prodi, che era Presidente del Consiglio, intervenne subito cercando di dimostrare alla Commissione che in realtà il Governo voleva cercare un accordo con i concessionari autostradali, senza forzature. Nel maggio 2008, quando ormai l’esecutivo era cambiato e a Palazzo Chigi c’era Berlusconi, l’allora Commissario Ue per il Mercato Interno ed i Servizi, l'irlandese Charlie McCreevy, scrisse una lettera di sollecito al Premier italiano invitandolo a trovare una soluzione per chiudere la procedura di infrazione. “Tale soluzione – scrive il Commissario – consiste nel fare in modo che le convenzioni … entrino rapidamente in vigore, concretizzando il presupposto della non modificabilità, in via unilaterale, da parte dello Stato concedente, del regime tariffario per tutta la durata della concessione. … Tale intangibilità di rapporti – in particolare di rapporti che hanno formato oggetto di privatizzazione – è stata, del resto, più volte espressamente riconosciuta dalle autorità italiane”. Berlusconi diede ascolto alla Commissione Ue e diede seguito all’operatività delle Convenzioni autostradali, facendo chiudere la procedura di infrazione. Oggi, a dieci anni di distanza, il Governo sembra voler ricalcare la strada del ministro Di Pietro. Ma al Premier Conte e al ministro De Micheli questa lettera l’avranno mai fatta vedere?

ANSA il 24 dicembre 2019 "Le dichiarazioni di Conte sono una grande strumentalizzazione dei giornali. Io e Giuseppe siamo stati fino alle cinque stanotte a votare la legge di bilancio in Aula e quindi abbiamo potuto vedere quelle prime pagine con titoli strumentalizzati insieme e confermiamo che abbiamo la stessa linea sulle autostrade". Lo afferma il ministro degli Esteri e leader M5S, Luigi Di Maio, ad Avellino. "Non era scontato arrivare fino a qui, ma ce l'abbiamo fatta. La manovra è approvata. È una buona manovra e oggi siamo felici di potervi guardare negli occhi e dirvi che per gli italiani non aumenterà l'IVA". Lo scrive Luigi Di Maio su facebook, sostenendo che "bisogna avere il coraggio di governare per cambiare le cose e noi, a differenza di altri, ci stiamo mettendo la faccia".  "Sì, è vero: non siamo perfetti, ma ci battiamo con tutte le nostre forze per ottenere degli obiettivi onesti. So bene che dovrebbe essere la normalità, ma il tempo ci ha dimostrato che non è sempre stato così per tutti. Questo governo è nato su due promesse che in poco tempo sono diventate fatti: il taglio del numero dei parlamentari e il blocco dell'aumento dell'IVA. Questo è però solo l'inizio di un percorso che deve proseguire, perché abbiamo ancora tanto da fare. Penso prima di tutto alla revoca delle concessioni autostradali, perché anche su questo siamo determinati", conclude. "Ultimo messaggio politico prima degli auguri su autostrade. Punire i responsabili del crollo del ponte è doveroso! Fare leggi improvvisate che fanno fuggire gli investitori internazionali è invece un autogol: niente è più pericoloso del populismo normativo. Ne parleremo a gennaio". Lo scrive su twitter, facendo riferimento al 'dossier' concessioni autostradali, il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. La concessione ad Aspi va tolta o no? "Chiedetelo a Conte, Renzi, Di Maio e Zingaretti. Perchè Di Maio e Conte fino ad agosto avevano la scusa che è colpa di Salvini". E' la risposta dell'ex ministro Matteo Salvini, in visita all'ospedale Buzzi di Milano in occasione del Natale. "Adesso che non c'è più Salvini al governo sono mesi che vanno avanti a litigare anche su questo - ha detto il leader della Lega. Il risultato è che stanno devastando il Paese perchè le concessionarie autostradali non fanno manutenzione. Ovviamente essendo in sospeso non spendono quattrini. Quindi è un altro episodio di irresponsabilità totale da parte dei signori che stanno abusivamente al governo. Se non lo fanno è perchè non sono capaci di farlo o perchè non vogliono farlo o perchè stanno litigando. Ma stanno pagando gli automobilisti italiani perchè la manutenzione è ferma".

Sandra Riccio per ''La Stampa'' il 24 dicembre 2019. Terremoto in Borsa ieri per Atlantia. La società che controlla Autostrade, in una sola giornata, ha bruciato 883 milioni (-4,8% a 21 euro). A spingere in basso le azioni del colosso delle infrastrutture è stata la novità emersa sui contenuti nel decreto Milleproroghe che rendono più semplice la revoca delle concessioni autostradali. L' incertezza ha spinto gli investitori a vendere i titoli. Al centro dell' attenzione ci sono le tensioni con il governo che potrebbero diventare più aspre. A rischio ci sarebbe la solidità della società con possibili riflessi negativi su tutto il comparto nonché sui mercati obbligazionari e sui titoli bancari dell' Europa. Il rischio è che il conto finale vada a carico dei piccoli risparmiatori. A spaventare gli investitori non è soltanto l' ipotesi della revoca della concessione autostradale ma anche la possibilità che Atlantia debba subire un taglio netto dell' eventuale indennizzo (stimato intorno ai 23-25 miliardi) che incasserebbe in caso di revoca. Secondo fonti finanziarie senza indennizzo mancherebbero ad Autostrade per l' Italia le risorse per ripagare circa 10,8 miliardi di debito (salvo accollo del debito da parte dello Stato a spese dei contribuenti quale conseguenza della «nazionalizzazione» della concessione) con il conseguente fallimento della società. A catena l' impatto si ripercuoterebbe sul ripagamento di 5,3 miliardi di debito di AtlantiaSpa (che controlla l' 88% del capitale di Autostrade ed è garante di parte del debito della controllata). L'ammontare di debito complessivo in default (oltre 16 miliardi) avrebbe conseguenze sui mercati obbligazionari e bancari europei visto che la maggior parte del debito è rappresentato da titoli quotati detenuti da grandi investitori di debito internazionali, oltre che da grandi istituzioni finanziarie europee (ad esempio, Banca Europea per gli Investimenti) e italiane (Cassa Depositi e Prestiti, Banca Intesa, Unicredit), oggetto anche di prestiti Ltro della Banca Centrale Europea. E Autostrade per l' Italia ha anche emesso un prestito obbligazionario retail (per euro750 milioni) detenuto da circa 17.000 piccoli risparmiatori italiani. Le agenzie di rating classificherebbero subito il debito di Autostrade per l' Italia e Atlantia al livello «junk», vale a dire spazzatura, con effetti negativi importanti per altre società del Gruppo Atlantia, come Aeroporti di Roma e il Gruppo Abertis, sui loro piani di investimenti e sull' occupazione. Le conseguenze a catena colpirebbero complessivamente un ammontare di debito sui mercati pari a circa 46 miliardi di euro e oltre 31.000 dipendenti. Le norme sono state definite «incostituzionali» e «contrarie alle leggi europee» da Atlantia che si prepara così alla battaglia. In un comunicato diffuso ieri, Autostrade ha fatto sapere di aver «appreso» che il Consiglio dei Ministri avrebbe approvato il 21 dicembre «con la formula salvo intese - quindi ancora modificabile - delle disposizioni in materia di concessioni autostradali finalizzate, tra l' altro, a modificare ex lege alcune clausole della vigente Convenzione Unica di Autostrade per l' Italia (a suo tempo approvata con legge) in ordine alla revoca, decadenza o risoluzione meglio specificate nella bozza di decreto legge». Anche se il testo del decreto non è ancora definitivo, l' ipotesi è che le Camere lo convertano presto in legge, Autostrade ritiene che presenti «rilevanti profili di incostituzionalità e contrarietà a norme europee». Per questo «sta valutando ogni iniziativa» volta alla tutela dei propri diritti, in termini di «legittimità costituzionale e comunitaria». Dopo quanto emerso, gli analisti di Equita hanno tagliato il target price sul titolo, vale a dire le potenzialità di incremento delle quotazioni di Borsa, del 5%. Gli analisti di Banca Akros commentano: «Questa è una cattiva notizia. Non è chiaro come il decreto influenzerà le trattative tra il governo italiano e Atlantia». I rischi «di una lunga battaglia legale» potrebbero tuttavia portare ancora «a un accordo sul contenzioso, dunque a un patteggiamento».

Genova, la ricostruzione del ponte Morandi corre senza burocrazia. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. Anche oggi verrà montata una trave da cinquanta metri, tempo permettendo. Ma cosa vuoi che sia, in fondo si tratta solo dell’impalcato sulle pile 16 e 17, al principio del lato di levante, poco visibile, poco scenografico. Poi è lungo appena la metà di quello che giovedì alle 14 in punto è stato issato a quaranta metri d’altezza, sopra il pilone numero 9, proprio quello che il 14 agosto di due anni fa si sbriciolò come un grissino trascinando sotto alle sue macerie le vite di 43 persone. Quindi, se ne parlerà poco o nulla, così come sta passando sotto silenzio l’imminente completamento delle diciotto arcate di calcestruzzo alte novanta metri dalle fondamenta. Alle cose fatte bene ci si abitua in fretta. Così la costruzione del nuovo ponte di Genova e il costante avanzamento dei lavori stanno diventando una normalità inedita ma non per questo meno piacevole. Alla quale fa da contrappunto la cassa di risonanza che deriva dalle occasioni speciali, come la posa delle tre travi da cento metri che messe una in fila all’altra restituiranno a Genova il filo dell’orizzonte sparito in quella piovosa e tragica mattina di mezza estate. Già ieri faceva una certa impressione passare da via Fillak, la strada che scorreva sotto il ponte Morandi, e rivedere dal basso non più il cielo, ma di nuovo una striscia di asfalto e cemento armato. Non è vero che tutto deve per forza cambiare sempre, a volte è più bello quando le cose tornano come erano prima. La seconda trave sarà decisiva. Perché è quella che attraversa il Polcevera, che ricongiunge il levante al ponente e riempie lo spazio vuoto. L’appuntamento è per l’inizio di marzo. Quasi una soglia psicologica. La metà esatta dell’opera, che segna l’attraversamento del luogo del disastro, del greto del fiume pieno di macerie così enormi che sembravano piramidi. In quel momento, quando l’impalcato verrà fissato in alto, il ponte «sarà di nuovo», come dice Francesco Poma, il direttore dei lavori, dopo una assenza che tutti pensavano sarebbe durata molto di più. Per quanto in corso d’opera, questa impresa forse può già raccontare qualcosa che riguarda tutti noi. Dopo la fase dell’utopia, e degli slogan buoni per i social network, i protagonisti di questa storia hanno intrapreso una strada diversa, che prevede poche parole e molti fatti. Ancora lo scorso ottobre, qui era tutto un annuncio. «Inaugurazione entro marzo 2020!» «Traffico aperto alle auto per fine gennaio» «Posa definitiva dei 1067 metri di impalcato entro Natale 2019!» Per fortuna di tutti, si sono spente le luci dei riflettori, che solleticano le vanità e inducono a lanciare promesse impossibili da mantenere. Anche se quella di Marco Bucci sulla primavera del 2020 come termine ultimo rimane ancora in piedi. Quando la polvere delle celebrazioni e dei troppi tagli di nastro a scopo auto promozionale si è invece posata, non è rimasto altro che sfruttare al meglio una legislazione che più speciale di così non poteva essere. Il celebre decreto-Genova, diventato legge dello Stato il 15 novembre 2018 dopo 77 modifiche, cambi di cifre, riscritture di articoli interi, rappresenta davvero un unicum, una specie di Gronchi rosa dei poteri speciali affidati in ultima istanza a una sola persona, il commissario alla ricostruzione. Nemmeno per i terremoti sono state concesse tante e tali deroghe alle procedure ordinarie. Non è questa la sede per stabilire se davvero si tratta di un caso di ultra-liberismo legislativo entrato nel nostro ordinamento a cavallo dell’onda emotiva generata dalla tragedia del ponte Morandi. Ma il taglio di ogni burocrazia si è rivelato lo strumento più importante per fare in fretta un’opera che doveva essere fatta in fretta, oltre che bene. All’epoca della sua nomina nessuno poteva immaginare che Marco Bucci si rivelasse la persona perfetta per un incarico così gravoso. Il commissario nonché sindaco di Genova è davvero uno dei primi post-politici italiani. Nel senso che di politica, e di diplomazia, non ne sa nulla. In una delle sue prime uscite dopo l’elezione, ebbe un vistoso momento di imbarazzo quando gli venne chiesto cosa pensasse di Paolo Emilio Taviani, che è stato solo il più importante uomo politico genovese dal dopoguerra a oggi. Non lo conosceva. A Bucci sfugge il significato di tutto quello che alimenta il dibattito pubblico e in tal senso è davvero una specie di alieno. Si considera un manager, di scuola americana. La fissità del suo sguardo rivela spesso una determinazione che qualcuno trova ottusa, ma nel caso di specie funziona. In questi mesi ha condotto un pressing esasperante sul Consorzio PerGenova. Le sfuriate del sindaco che grida, come lo chiamano i dipendenti di palazzo Tursi, si sono abbattute anche sulle aziende incaricate della ricostruzione. L’uomo che dietro le spalle veniva etichettato come un vincitore per caso, un mister Magoo della politica, è diventato un Re Mida osannato dall’entourage leghista e da Giovanni Toti il presidente regionale uscente che lo ha «inventato» commissario e ora si gioca la riconferma a colpi di selfie in sua compagnia. Perché conta solo il ponte, niente altro. Il 65 per cento dei liguri lo considera la cosa più importante. E comunque la primavera finisce il 21 giugno.

Giuseppe Filetto per ''la Repubblica'' il 16 febbraio 2020. C' è un viadotto, progettato dall' ingegnere Riccardo Morandi, ancora in piedi e che faceva parte del vecchio ponte crollato il 14 agosto del 2018 e definitivamente demolito il 28 giugno 2019. Si chiama elicoidale, ed è una rampa di collegamento tra la A10, la Savona-Genova, la A7 (Genova-Milano) e la A12 (Genova-Livorno). E quando a giugno prossimo sarà completato il nuovo viadotto sul Polcevera, sarà ancora lo snodo di collegamento tra Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Francia meridionale. E però al ministero delle Infrastrutture temono per la sua stabilità. Anche se, per ovvie ragioni, non lo dicono in chiaro. Si può anche pensare che sia un eccesso di zelo, dopo quanto accaduto, con il crollo e le 43 vittime. Certo è che il ministro Paola De Micheli ha dato un altro mandato (oltre a quelli sulle gallerie e sui viadotti in genere) all' ispettore Placido Migliorino: verificare le condizioni dell' elicoidale, per mettere a tacere soprattutto le preoccupazioni degli abitanti del Campasso, quartiere operaio di Genova con case sotto la struttura. Che temono un altro Morandi. «Il mio ragionamento è semplice - dice l' ispettore - Il nuovo ponte è in fase avanzata di costruzione e verosimilmente sarà in esercizio entro l' estate, non ci vorremmo trovare con la spiacevole sorpresa che la struttura non sia tanto a posto e di dover intervenire con lavori di ripristino che farebbero perdere altro tempo». Qualche preoccupazione rimane. L' elicoidale, che non è stata inserita nel Decreto-Genova, ha la medesima conformazione strutturale degli esili piloni della parte di ponente del vecchio Morandi, demolita come le campate strallate, la 9 (quella della strage), la 10 e la 11 perché "ammalorate". E secondo fonti Spea (società gemella di Autostrade che fino a qualche mese addietro era delegata al monitoraggio) anche l' elicoidale presenterebbe «degrado in prossimità dei cassoni e delle selle gerber», cioè delle sedi dove si appoggiano gli impalcati stradali. La rampa che compie una rotazione completa di 360 gradi è divisa in tre tronconi e nel gergo tecnico di Aspi è individuata come "Viadotto Autostrada Mi-Ge"; "Viadotto di accesso Savona-Genova", "Viadotto di raccordo al viadotto Sv-Mi e viadotto Sv-Ge". A rileggere il report pubblicato a settembre 2019 sul sito della concessionaria, anche le verifiche affidate ad una società esterna dopo l' esautoramento di Spea, hanno dato un punteggio 43 e 50. Di degrado. Su una scala da 10 a 70, già con 40 bisogna intervenire con lavori di manutenzione straordinaria entro 5 anni; con 50 limitare il traffico subito; sopra 60 chiudere completamente. La Direzione di tronco di Genova, che nei giorni scorsi ha incontrato i cittadini e i rappresentanti del Comune, dice che «era già stato attivato il progetto di ripristino dei difetti... L' avvio dei lavori era previsto entro il primo trimestre del 2019... Dalla relazione di ispezione emerge in ogni caso che i difetti non determinano influenze sul comportamento statico complessivo dell' opera stessa ». Nel corso dell' assemblea il direttore del tronco, Mirko Nanni, e il direttore Sviluppo Rete, Alberto Selleri, hanno dato ampia disponibilità a istituire un osservatorio sui lavori, che coinvolga istituzioni e comitati dei cittadini. Migliorino, che gli indagati su crollo del "Morandi" nelle intercettazioni telefoniche chiamavano "il Mastino", ripete di avere un mandato del ministro. «Non so cosa è stato fatto prima - sottolinea - io faccio le mie ispezioni, non mi baso sui report di Autostrade, anche se dopo il crollo del Morandi il monitoraggio è stato affidato ad una società esterna. Voglio vedere con i miei occhi, in che condizioni è quella struttura. Per questo abbiamo concertato l' ispezione con Aspi». E aggiunge: «Non è detto che tutti i viadotti che ha fatto Morandi vengano giù, ma se si dovessero riscontrare difetti o degrado, allora bisognerà intervenire immediatamente. Prima che il nuovo viadotto sia completato».

Ponte Morandi, «i sensori costavano 10mila euro: non vennero aggiustati». Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. «Andò così: nel 2015 si erano rotti i cavi delle fibre ottiche che collegavano i sensori al sistema di monitoraggio del ponte Morandi. L’avevamo installato noi, il sistema, e quindi Autostrade ci ha contattato per capire quanto costasse ripristinarli. Abbiamo fatto un prezzo ma tutto è finito lì».

Non avete quindi riparato i cavi rotti?

«No». L’avranno fatto altri.

«Non credo».

Quale era il prezzo?

«Una cosa contenuta, mi pare diecimila euro».

Quando è crollato il ponte, Alessandro Paravicini pensò naturalmente a quei sensori. La sua società, la romana Tecno.el, li aveva prodotti e sistemati per anni sul viadotto genovese proprio per prevenire rischi legati alla stabilità. Paravicini è così diventato un testimone chiave dell’indagine di Genova sul disastro del 14 agosto 2018, nell’ambito della quale è stato sentito.

Alla notizia del crollo quale fu il suo primo pensiero?

«Pensai che sarebbe stato meglio se il sistema di monitoraggio fosse stato attivo».

Avrebbe potuto evitare il disastro?

«È difficile che il ponte si potesse salvare grazie ai sensori. Si tratta di una struttura isostatica, nella quale l’equilibrio delle forze è particolare. Se una di queste viene a diminuire, il processo di accelerazione del crollo diventa molto veloce e quasi inevitabile. In questi casi i sensori che segnalano il movimento strutturale servono a poco perché i tempi di reazione sono troppo lunghi».

Quali sono normalmente i tempi di reazione?

«Dal momento in cui i sensori registrano la variazione a quello in cui si decide di chiudere il ponte possono passare anche quattro giorni».

Ma allora a cosa servono i sensori?

«A rilevare gli spostamenti nel tempo».

Se il cedimento fosse iniziato tempo prima sarebbe stato captato?

«Sì, in questo caso il sistema sarebbe servito. Ma da quel che è emerso finora mi sembra si tratti di un’ipotesi improbabile. In ogni caso, se era attivo avrebbe potuto dare almeno delle informazioni sulle cause del crollo, agevolando il compito degli inquirenti che le stanno ancora cercando. Il sistema ci avrebbe cioè raccontato se un’ora prima del cedimento era successo qualcosa. Così invece non abbiamo dati».

I sensori hanno mai registrato pericoli?

«No, quando erano funzionanti non hanno mai segnalato importanti variazioni».

Possibile che per risparmiare 10 mila euro abbiano rinunciato a riparare il guasto?

«Non penso proprio che il motivo della rinuncia fosse di natura economica. Forse avevano pensato di far rientrare la spesa nell’intervento più complessivo e strutturale di retrofitting che era stato programmato e che purtroppo non hanno realizzato. Come quando c’è una lavatrice che traballa e non si cambia il pezzo ma si attende di sostituirla interamente».

Sul ponte c’era però di mezzo la sicurezza di chi lo attraversava…

«Era per dire dei ragionamenti che si fanno quando si tratta di fare un investimento, per quanto insignificante possa sembrare».

Quando avete iniziato a lavorare sul ponte Morandi?

«La prima installazione è di poco successiva all’intervento di rinforzo degli stralli della pila 11 (anno 1993, ndr). Era un monitoraggio fatto per la verifica della tesatura dei cavi. Dopodiché il sistema è stato smontato e rimontato più volte, evolvendosi nel tempo, fino all’utilizzo delle fibre ottiche. Ma molti dei punti di misura erano rimasti quelli dell’epoca». La pila 9, quella crollata, aveva dei sensori?

«Certo, erano collegati attraverso le fibre a quelli installati nella 10 e nella 11, dove esisteva il sistema di trasmissione dati. Sono quelli che avrebbero potuto raccontarci cos’è successo quando il ponte è crollato».

Davide Lessi per “la Stampa” il 2 agosto 2020. «C' era uno strano miscuglio nell' aria: sapeva di cemento, di pietra sgretolata e ruggine». L' odore di un ponte appena crollato non si dimentica. «Pioveva tantissimo. E c' era quel mix che non ho mai più sentito". Nei primi minuti della tragedia non si percepisce altro. «Una scena da film: le auto sparpagliate qua e là, il fumo che usciva dai cofani, i tergicristalli che continuavano ad andare. Però non si sentivano lamenti, silenzio assoluto. C' era solo la pioggia che batteva forte». Poi, all' improvviso, una speranza. «Ho visto un ragazzo incastrato tra le lamiere: era cosciente e rispondeva mentre l' autista del camion si stava strozzando con la cintura. Ho capito che mi stavano morendo davanti e che dovevo fare qualcosa». Due anni dopo Alejandro Cordova ricorda tutto di quella mattina. Alla 11.36 del 14 agosto 2018 il ponte Morandi si sbriciola. Pochi minuti dopo lui, che lavorava a non più di 200 metri in linea d' aria dal viadotto, è sul greto del Polcevera. Corre tra le macerie e cerca di aiutare chi è rimasto incastrato nelle auto. Solo dopo sarebbero arrivati i vigili del fuoco e le ambulanze. A 23 anni Alejandro si ritrova a essere tra i primi soccorritori. Un soccorritore "per caso", testimone per una vita intera. "Voglio solo raccontare la verità, dire come sono andate davvero le cose". Da Piazza Montano, cuore del quartiere Sampierdarana, risaliamo la strada che passa sotto il nuovo ponte progettato da Piano. Poi giriamo a destra in un dedalo di viuzze strette. «Ecco, io lavoravo qui», dice Alejandro indicando una porta di legno scuro in via Campi. «Davo una mano a un falegname», racconta. Indossa un cappello a visiera che gli protegge la testa da una pioggerellina afosa. «Quella che sta scendendo ora? Ragazzi, è sì e no il 5 per cento della pioggia che c' era quella mattina. Cadevano dei goccioloni che appena ho messo la testa fuori dall' officina ero fradicio». La cronaca di quelle ore è questa: «Sono arrivato alle 9,30 a lavoro. Alle 11,15 ha iniziato a piovere, una bufera con grandine e vento, sembravano gavettoni lanciati dall' alto. Ha continuato per mezz' ora, nel frattempo il ponte era crollato». Della gravità della situazione Alejandro si accorge in un attimo. E, subito, accende la videocamera dello smartphone. «È caduto giù il ponte di Polcevera. Immagini riprese da Certosa, guardate lì: non c' è più il ponte. Non c' è più il ponte, è venuto giù il ponte», sono le frasi che resteranno registrate in un video che ha fatto la storia di quel maledetto 14 agosto. Alejandro non si limita a filmare: mentre registra va verso la zona della tragedia. Ma a un certo punto trova un cancello a sbarrargli la strada. «Eravamo in tre, non potevamo tirarci indietro. Ci siamo dati forza e abbiamo deciso di saltare». Alejandro mette il cellulare in tasca, lo lascerà lì senza però fermare la registrazione. Di quel file rimarrà un' incredibile testimonianza audio: il sonoro dei primi momenti dopo il crollo. «Arrivati tra le macerie abbiamo iniziato a urlare: "Suonate! Suonate!". Volevamo capire se qualcuno era ancora vivo. Ma nessuno lo faceva, così ci siamo diretti verso le macchine. La botta era stata così forte che tutte le portiere erano incastrate e non riuscivamo ad aprirle». I ricordi si fanno via via più lucidi: «Avrò visto otto vetture. Le persone che erano dentro non riuscivano a rispondermi con le parole ma emettevano dei suoni». Alejandro ricorda ancora i loro volti: «C' era una coppia di anziani in un' utilitaria. E poi quattro ragazzi che erano in viaggio insieme verso la Spagna. A un certo punto ho visto Stella (Stella Boccia, una delle vittime, ndr) che era in auto con il fidanzato. Rispondeva anche lei agli stimoli, apriva gli occhi e cercava di guardarmi. Le ho detto: "Tieni duro, stanno arrivando". Ma i soccorsi sono stati ostacolati dagli automobilisti che si sono fermati a guardare. Ci avranno messo una decina di minuti. Noi nel frattempo abbiamo cercato di aiutare come potevamo. A tutti dicevamo: "Cercate di rimanere vivi!". Poi quando le sirene si sono avvicinate abbiamo deciso di lasciare fare ai professionisti e di andare via». «Se ho rimpianti? I primi giorni sì, ne ho avuti», racconta Alejandro di nuovo davanti a quel cancello. «Ero arrabbiato con me stesso perché avevo provato ad aprire le portiere ma non c' ero riuscito. Nei giorni successivi ci ho ripensato e, davvero, non avrei potuto fare di più. Doveva andare così». Ma non c' è solo fatalismo nei suoi pensieri. «No, non può cadere un ponte del genere, di certo qualcuno ha delle responsabilità». Anche Alejandro, come tanti parenti delle 43 vittime, non parteciperà all' inaugurazione di domani: «Non c' è niente da festeggiare - dice -. E' assurdo pensare che le persone a cui vuoi bene non ci siano più perché è crollato il Morandi». Lo chiamavano il Brooklyn di Genova. «Eravamo certi che sarebbe durato per sempre. Sì, ora ce n' è uno nuovo, ma quella ferita non si cancellerà mai».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 2 agosto 2020. A volte la memoria può essere una condanna. «Dopo due anni la vita, apparentemente, torna quella di prima. Si ricomincia a lavorare, a uscire con gli amici, alle abitudini quotidiane. Ma non è facile, il trauma è sempre vivo e diventa parte di te. Io di quel giorno ricordo tutto, quella scena è conficcata nella mia mente. E il pensiero, troppo spesso, torna al 14 agosto 2018». Quella mattina Davide Capello, 36 anni, vigile del fuoco, un passato tra i pali dei campi di calcio in serie A con il Cagliari e ora allenatore dei portieri dei giovani del Genova, è uscito di casa per andare a ritirare la tessera del tifoso. Savona dista da Genova 56 chilometri e in mezzo c'era il ponte Morandi, collassato proprio mentre lui passava all'altezza della pila numero nove.  «Non lo dimenticherò mai, la ferita è profonda. Non so se riuscirò mai a percorrere il nuovo viadotto. Adesso, a dire il vero, non voglio nemmeno vederlo. Figuriamoci attraversarlo».

Cosa è successo quel giorno?

«Era una mattinata terribile, pioveva a dirotto, tant' è che era stata diramata anche un'allerta meteo. Poi le condizioni sono migliorate e ho deciso di andare a Genova a ritirare la tessera, perché la settimana successiva sarebbe ricominciato il campionato. Quando sono uscito dalla galleria che immetteva sul ponte era tutto normale, non c'erano segnali né avvisaglie della tragedia imminente. Niente calcinacci che si staccavano o vibrazioni particolari. Nel momento in cui sono arrivato all'altezza del pilone numero ho sentito un rumore sordo, ho visto dei detriti che cadevano dall'alto e il pezzo di strada davanti a me che precipitava. Le macchine volavano nel vuoto, sembravano dei fogli di carta sparpagliati dal vento».

Lei è riuscito a fermare l'auto a pochi metri dal baratro.

«Il primo istinto è stato quello di frenare, sperando di fermarmi sul ciglio. Ma a un certo punto la strada sotto di me ha ceduto e sono precipitato. È durato pochi secondi, un tempo comunque più che sufficiente per rendermi conto che sarei morto».

Invece, per fortuna, la sua macchina non è stata inghiottita dalle macerie.

«Si è infilata in un'intercapedine tra la strada e i detriti, una specie di bolla di cemento che mi ha protetto. Non riuscivo ad afferrare il cellulare, il bluetooth dell'auto però funzionava ancora, così ho chiamato i soccorsi, poi mio padre e la mia fidanzata. Sono rimasto lì sotto per una ventina di minuti, finché ho sentito le prime voci. Erano due poliziotti che cercavano di tirarmi fuori ma non riuscivano a raggiungermi, così ho cominciato a scavare e sono uscito sulle mie gambe. Il fatto di essere vigile del fuoco probabilmente mi ha aiutato, anche a mantenere un po' di sangue freddo, a non farmi prendere dal panico».

Le ferite del corpo sono guarite in fretta, quelle dell'anima faticano a rimarginarsi.

«Me la sono cavata con problemi alla schiena, nulla se paragonato al disastro. Ma dentro di me i segni sono ben più profondi. Sono trascorsi due anni, ma capitano sere in cui faccio fatica ad addormentarmi o mi sveglio all'improvviso nel cuore della notte. Tra noi sopravvissuti non ci siamo mai incontrati, io almeno non ho mai voluto farlo: per me è un modo per guardare avanti, per voltare pagina».

Il nuovo ponte però non riesce a guardarlo.

«Non l'ho ancora visto e non ho seguito le tappe della ricostruzione perché ogni volta per me è una ferita che si riapre. Quel viadotto è una cicatrice che si fa sempre sentire. Non so nemmeno che emozioni potrei provare nel rivederlo, mi auguro solo che l'inaugurazione non si trasformi in una festa perché c'è ben poco da festeggiare. Il dolore di chi ha perso una persona cara resta immutato. Per me passare di là e ricordare sempre ciò che è successo è una tragedia, non so se lo riattraverserò ancora né se andrò a vederlo. Dicono che il nuovo viadotto sia il simbolo della rinascita, ma il fallimento è stato il crollo del vecchio ponte. E nulla potrà alleviare tanto dolore».

Ponte Genova, Maurizio Morandi: «Papà non ha colpe sul crollo: anche lui è vittima». Marco Imarisio il 31/7/2020 su Il Corriere della Sera. Il figlio del progettista ricorda la tragedia di Genova del 14 agosto 2018: ora difendo la sua memoria. «Anche mio padre è stato una vittima del ponte». A un certo punto lo dice, con tutto il pudore possibile, chiedendo di evitare ogni paragone con le 43 persone che davvero sono morte sotto le macerie. E si vede che quella frase gli costa fatica. Maurizio Morandi, 80 anni, professore universitario in pensione, è un uomo riservato che non ama certo le frasi ad effetto. Anzi, non ama proprio parlare. Ha atteso fino ad oggi, fino all’ultimo. Adesso che sta per essere inaugurato l’altro ponte di Genova, il tempo per rendere omaggio alla figura di Riccardo Morandi sta per scadere. È ancora uno degli ingegneri e accademici più ammirati e studiati all’estero. Lo era anche qui, fino a quel 14 agosto 2018, quando crollò il viadotto sul Polcevera che fin dal 1967 portava il suo nome. Da allora è diventato quasi sinonimo di quella tragedia. «All’inizio ci sono state persone che hanno cercato di demolire anche il progetto di quell’opera, e il suo autore, descrivendolo come un pasticcione, sostenendo che la colpa fosse sua».

A chi conveniva?

«Dire che era stato sbagliato tutto fin dall’inizio era la strada più facile, perché si gettava la responsabilità addosso a un uomo che era morto da trent’anni e non poteva più rispondere».

Un’operazione vera e propria?

«Un misto di malafede e incompetenza. Cinque giorni dopo il crollo, un giornale titolò a tutta pagina che era scomparso il progetto originario di mio padre. Invece era dov’è sempre stato dal 1992, all’Archivio di Stato, consultabile a piacimento».

Quali sentimenti prova sull’inaugurazione del nuovo ponte?

«Rimane il dolore per le vittime. Dopodiché, trovo encomiabile la velocità con la quale è stato ricostruito. Hanno mantenuto i tempi, dando prova di grande capacità organizzativa, cosa rara in Italia. Un ottimo lavoro».

Le piace?

«Non sono la persona più adatta a dare un parere, per via del cognome che porto. Ho una stima enorme di Renzo Piano, non mi permetterei mai di giudicare una sua opera».

Cosa ha fatto in questi due anni?

«Ho lottato per difendere la memoria di mio padre. Un ottuagenario che si batte per l’onore di un uomo scomparso da trent’anni. Proprio vero che nella vita può succedere di tutto. L’ultima mostra del Beaubourg di Parigi prima della grande ristrutturazione di fine anni Novanta fu dedicata proprio a papà. Un grande dell’ingegneria civile mondiale, diceva la brochure. Mi sembrava impossibile che un uomo studiato e ammirato in tutto il mondo, finisse in un cono d’ombra nel suo Paese».

Pensa di aver vinto la sua battaglia?

«Nel mio piccolo mondo di studiosi e ingegneri, forse sì. Non per merito mio. Ci sono state alcune belle iniziative da parte di tecnici, progettisti, architetti. Ma noi viviamo in una bolla, come tutti. Non mi faccio illusioni. Fuori, questo marchio di infamia persiste, malgrado sia stato chiarito che il progettista non aveva alcuna responsabilità».

Si disse anche che il problema erano i ponti strallati.

«Per carità. Nel mondo ce ne sono migliaia, fatti in quel modo. Bastava fare le ispezioni. Bastava non essere sciatti. Mio padre aveva denunciato più volte l’esigenza di fare manutenzione sul “suo” ponte».

Cosa ricorda di quel giorno?

«Mi chiamò mio figlio, dicendomi che era crollato il Polcevera. Sa, noi non lo abbiamo mai chiamato il Morandi. Il senso di incredulità mi rimase addosso per giorni. Oltre a quello per le vittime, c’è stato anche un dolore più privato. La perdita di un gioiello di famiglia. Era il ponte che papà amava di più. Ne eravamo tutti orgogliosi».

Lei c’era mai passato sopra?

«La prima volta fu all’inaugurazione. Ma non quella con il presidente Saragat, un’altra. C’erano un paio di ministri, il ponte non era ancora completato. Sa, le inaugurazioni a getto continuo non sono certo una invenzione recente…»

Chi era Riccardo Morandi?

«Una persona che aveva al primo posto il lavoro e le cose che lo riguardavano. Ma anche un buon padre, nonostante fosse immerso e preso dai suoi progetti».

Lei ha cercato di seguire le sue orme?

«Fino a un certo punto. Mi sono laureato in ingegneria, per ragioni abbastanza intuibili. Fin da piccolo sapevo che avrei dovuto farlo. Ma ben presto ho capito che avrei preferito fare l’architetto, e ci sono riuscito. Ho insegnato per trent’anni storia dell’architettura e progettazione urbanistica. La mela non è caduta troppo lontano dall’albero, come vede».

Perché suo padre riteneva il ponte Morandi il suo capolavoro?

«Era la dimostrazione dell’importanza che lui attribuiva al paesaggio e al ruolo che una struttura doveva avere nell’ambiente. Volle inserire in una zona spoglia come la Valpolcevera un elemento che desse valore a un posto anonimo, tanto da farlo diventare un luogo».

Ci sono analogie con il progetto di Renzo Piano?

«Hanno seguito strade diverse, come è giusto che sia. Con il suo progetto, mio padre voleva caratterizzare l’ambiente. Quello di Piano prevede un ponte che si inserisca nell’ambiente in maniera non invasiva».

Le dispiace che il Morandi sia stato abbattuto?

«Molto. Non lo nascondo. Alcuni elementi potevano rimanere come testimonianza della vita di quella valle. Si è invece voluto cancellarlo completamente con l’esplosivo. Per noi studiosi era comunque un segno culturale ed architettonico importante. Per le 43 vittime era un segno di lutto. Me ne rendo conto».

Quel giorno c’erano tante persone che piangevano.

«Le lacrime della gente quando hanno demolito il ponte sono un bel testamento della bontà del lavoro di mio padre».

Davvero ritiene suo padre un’altra vittima di quella tragedia?

«Solo in senso figurato, si intende. Non voglio essere blasfemo. Ma nonostante gli sforzi miei e di altri amici, molte persone lo ritengono ancora responsabile del crollo. Una ingiustizia spaventosa. Vorrei tanto che la memoria pubblica di mio padre venisse recuperata. Credo che se lo meriti».

Cosa insegna la vicenda del ponte Morandi?

«Non siamo stati capaci di difendere le opere di ingegno fatte nell’Italia della ricostruzione, della quale il ponte Morandi era un simbolo. Se il nuovo ponte segna l’inizio di un’altra epoca, allora ricordiamoci di averne cura anche dopo, quando si saranno spente le luci della ribalta».

Autostrade, Di Maio e Patuanelli pronti a revocare la concessione ad Atlantia: danno per 23 miliardi. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 25 Dicembre 2019. Dice Luigi Di Maio che la revoca delle concessioni ad Autostrade «è una battaglia di civiltà». In realtà la civiltà di chi governa si misura da come tratta i soldi dei contribuenti, il che fa dei giallorossi una tribù di cannibali. Con quest' ultima mossa Giuseppe Conte e la sua schiera mettono a rischio 23 miliardi di euro appartenenti agli italiani: al confronto, quelli che hanno bruciato sinora in Alitalia e Ilva sono spiccioli. E il conto vero, alla fine, potrebbe essere ancora più caro. È il prezzo da pagare per l' incompetenza al potere. Dopo la tragedia del ponte Morandi i Benetton, primi azionisti di Autostrade tramite la società Atlantia, erano nei guai.

LA MAGISTRATURA. La cosa giusta da fare era lasciar svolgere alla magistratura il proprio lavoro e al termine tirare le somme: qualora fossero state accertate illegalità da parte della concessionaria, la rescissione e la richiesta di risarcimenti sarebbero state giuste e inevitabili. Nel frattempo, la debolezza di Atlantia poteva essere usata per strappare nuovi impegni ai Benetton, i quali, colpiti anche nell' immagine, si erano detti pronti a mettere mano al portafogli. Si è scelta la strada opposta, invece, e la «civiltà» non c' entra. Di Maio e Stefano Patuanelli hanno creduto di poter sfruttare la vulnerabilità dei Benetton per farli intervenire in Alitalia. I ministri grillini, incapaci di mettere in piedi una cordata, ne sarebbero usciti come i salvatori della compagnia. Nel frattempo, al grido di «non possiamo aspettare i tempi della giustizia», Conte e i Cinque Stelle preparavano il meccanismo per ritirare la concessione autostradale, da far scattare nel caso in cui il salvataggio di Alitalia fosse fallito, come puntualmente è accaduto. Così si è giunti alla situazione di queste ore, che vede i legali del gruppo Atlantia pronti a far recedere Autostrade dal contratto, in reazione alla modifica unilaterale imposta dal governo, e chiedere allo Stato un risarcimento tra i 23 e 25 miliardi di euro. Cifra enorme, anche se dovesse essere dimezzata per risarcire i danni del crollo del ponte Morandi. Eppure le probabilità che sia riconosciuta sono concrete. La motivazione con cui il governo vuole togliere la concessione è infatti la stessa alla base del "decreto Genova", mediante il quale Autostrade è stata tagliata fuori dalla ricostruzione del viadotto poiché «non può escludersi» (dice il testo) che il crollo sia dovuto alla sua inadempienza. Tesi che fa a pugni con la certezza del diritto, e infatti il Tar della Liguria ha chiesto l' intervento della Corte costituzionale, ricordando che al momento la responsabilità di Autostrade nel crollo è «meramente potenziale, perché non accertata, nemmeno in via indiziaria». Se la Consulta boccerà quel decreto, è assai probabile che la revoca della concessione abbia la stessa sorte. Con seguente bonifico miliardario da parte dei contribuenti ai Benetton e ai loro soci.

PIAZZA AFFARI. Il resto del danno riguarda la credibilità dell' Italia. Atlantia, che ieri in Borsa ha ceduto il 4,8%, ha 40mila azionisti, tra i quali gli italiani sono una minoranza. Dentro Autostrade ci sono i tedeschi di Allianz (7% del capitale) e i cinesi del gigantesco Silk Road Fund (5%): i loro rappresentanti stanno dipingendo l' Italia come una repubblica delle banane. Il fondo sovrano di Singapore ha inviato una lettera a Conte e ai ministri Gualtieri e De Micheli per lamentare la violazione del principio "pacta sunt servanda" da parte del governo. Investitori simili, che hanno opportunità di guadagno ovunque, se mettono l' Italia nell' elenco dei Paesi inaffidabili la lasciano e non tornano più, oppure pretendono un rendimento molto più alto dai nostri titoli, inclusi quelli che coprono il debito pubblico. Questione di obiettivi, insomma: se il modello è il Venezuela, il caso Autostrade è un successone e Conte, Di Maio e Zingaretti possono battersi le mani. Fausto Carioti

La sfida di Autostrade al governo: «Rescissione e 23 mld di danni». Alla Camera passa la fiducia sulla manovra senza modifiche: «nessun aumento dell’iva, taglio del cuneo fiscale, lotta all’evasione». Fausto Mosca il 24 Dicembre 2019 su Il Dubbio.  Ora Autostrade per l’Italia sfida il governo a viso aperto. Mentre il Consiglio dei ministri si riunisce per discutere di tutti i temi rimasti ancora aperti nel decreto “Milleproroghe”, tra cui spicca proprio l’eventuale revoca delle concessioni autostradali ( da affidare eventualmente ad Anas), Altantia, la società della famiglia Benetton che gestisce Aspi, prende carta e penna e invia una lettera alla Presidenza del Consiglio e ai ministero dei Trasporti e dell’Economia. La missiva, nella sostanza minaccia la maggioranza di chiedere allo Stato un risarcimento di circa 23 miliardi di euro, corrispondente alla parte rimanente della concessione, in scadenza nel 2038. L’indennizzo sarebbe dovuto in ragione dei «molteplici diritti e principi sanciti dalla Costituzione e dal diritto comunitario, incluso il rispetto del principio di affidamento e a tutela del patrimonio della Società e di tutti gli stakeholders», si legge nel testo riportato da “Repubblica”. Dunque, un’eventuale iniziativa del governo «determinerebbe il verificarsi dei presupposti di cui all’art. 9 bis comma 4 della Convenzione Unica e quindi la risoluzione di diritto della stessa», scrive il cda della società concessionaria. Una vera e propria e bomba sul dibattito interno ai partiti di maggioranza, già divisi sul tema, con Italia Viva che ha già espresso la sua opposizione alla revoca delle concessioni. Ma quella di Aspi, secondo la ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, è una minaccia inaccettabile. Ma il più duro con i Benetton è il capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio. «Dopo la morte di 40 persone col Ponte Morandi il minimo che possiamo fare è togliere concessioni a Benetton che non ha fatto manutenzione», dice il leader del partito che da tempo vorrebbe estromettere Atlantia dalla gestione della rete autostradale. «Non è la linea del M5s ma quella del governo. È ora di togliere il bancomat che la politica in precedenza gli aveva concesso», aggiunge perentorio il ministro degli Esteri. Parole concilianti, se paragonate a quelle riportate sul Blog delle Stelle, in cui viene definito «incestuoso», il rapporto «con la politica» della famiglia Benetton. «Il fatto è che Autostrade per l’Italia, sotto l’attento presidio dei Benetton, ha saputo coltivare davvero bene il rapporto con la politica e con il poliedrico mondo dei Boiardi di Stato», si legge. «Un rapporto lubrificato in ogni ingranaggio, utilizzando sapientemente e costantemente l’olio delle nomine. Troppo importante, dal loro punto di vista, difendere in ogni modo un tesoro accumulato grazie ai pedaggi pagati dagli italiani». Risultato: Atlantia crolla in Borsa, con un meno 5 per cento. Ma la contromossa del cda di Aspi mette in agitazione Palazzo Chigi. Se la minaccia dei Benetton fosse fondata, toccherebbe rintracciare oltre 23 miliardi di euro di indennizzo. Quasi una manovra finanziaria, proprio nel giorno in cui la maggioranza è riuscita a portare a casa il primo vero successo del Conte 2: la manovra 2020. Approvata nella tarda serata di ieri alla Camera con 334 sì, 232 no e 4 astenuti il provvedimento presenta parecchie novità per l’anno prossimo: dallo stop all’aumento dell’Iva alle tasse su plastica, zucchero e auto aziendali; dal “bonus Befana”, pensato per incentivare i pagamenti elettronici alla web tax; dal pacchetto di misure per la famiglia al taglio del cuneo fiscale; dalla stretta sui giochi ai rimborsi per i truffati delle banche e alle norme contro le bollette pazze.

 Alberto Sisto per huffingtonpost.it il 26 dicembre 2019. La richiesta di 23 miliardi quale indennizzo in caso di rescissione della convenzione fra Anas e Autostrade per l’Italia per la gestione di circa 3.000 chilometri di strade a pagamento non ha basi legali perché prevede indennizzi abnormi rispetto alla normale prassi commerciale. Il giudizio è contenuto in una Relazione sulle concessioni autostradali approvata dalla Corte dei Conti a fine novembre e resa nota ieri. Nell’indagine si passano in rassegna gli aspetti economici, legali di questi particolari contratti con cui lo stato affida a società private la gestione di infrastrutture, come le autostrade, consentendo alle imprese di ripagarsi con i pedaggi. La concessione è come un contratto di affitto che prevede oneri e diritti per i due contraenti, ad esempio l’obbligo di restituzione integro del bene, regola le modalità della locazione, le tempistiche il pagamento del canone, prevede anche la possibilità che il contratto venga interrotto anzitempo in caso di violazione da parte di uno dei due contraenti. Di queste convenzioni il governo italiano ne ha firmate 25 con 22 società. Sono state messe a punto dal ministero dei Trasporti e da quello dell’Economia e dall’Anas, per il governo, e da stuoli di avvocati e manager per le società e quasi sempre sono state oggetto di contenziosi. Per ogni tratta autostradale, grande o piccola che sia, viene firmata una apposita concessione, seguendo uno schema tipo introdotto nel 2007, con cui si definiscono i lavori da fare all’infrastruttura, il sistema dei pedaggi e altri importanti aspetti, economici e non, come il sistema di controllo sull’attività dei concessionari, le sanzioni e il meccanismo per l’eventuale risoluzione del contratto. La relazione della Corte dei conti arriva sul tavolo del governo, proprio mentre il presidente del consiglio Giuseppe Conte e i suoi ministri stanno decidendo se e come risolvere la concessione firmata con Autostrade per l’Italia, la società del gruppo Benetton, imputandole la responsabilità per il crollo del ponte Morandi a Genova. Ma il governo deve fare i conti con quel contratto che stabilisce, anche in presenza di una responsabilità del concessionario, l’obbligo di un indennizzo enorme e superiore ai venti miliardi a carico dello stato. Così la relazione della Corte dei Conti arriva al governo come una sorta di parere legale firmato dai maggiori esperti di responsabilità erariale.  Per capirsi se il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, desse seguito alla richiesta del gruppo veneto sarebbero i magistrati contabili a dovere accertare e sanzionare l’eventuale danno allo stato per un pagamento non dovuto. Analizzando le clausole, previste dalle convenzioni tipo, i magistrati contabili si sono accorti che “i casi di scioglimento anticipato del rapporto concessorio siano stati oggetto di una disciplina per più aspetti speciale ed eccentrica rispetto a quella legale (in particolare rispetto a quella prevista dal Codice civile e dal codice dei contratti pubblici) e all’apparenza molto sbilanciata dal lato e in favore della concessionaria”. Oltre a prevedere molte cautele e ostacoli crescenti alla risoluzione del contratto, “la convenzione condiziona ogni ipotesi risolutoria al pagamento di una somma pecuniaria che può essere, “assolutamente ingente, se non addirittura insostenibile per l’erario”, senza neanche indicare esplicitamente “violazione degli obblighi di per sé da considerare gravi, quali crolli e disfacimenti”, che possano giustificare un’uscita da parte del concedente, ovvero lo stato. Tutto questo, continua la Relazione, se per un verso, “rivela una qualche ‘cedevolezza’ del contraente pubblico in sede di contrattazione di clausole rilevanti della convenzione, comportando un assetto contrattuale asimmetrico che pone la parte pubblica in una posizione di debolezza, per altro verso, solleva il tema della validità di queste clausole contrattuali alla luce della disciplina legale e, in primo luogo, di quella civilistica”. E qui la corte ricorda che il codice civile “dispone la nullità di patti che escludono o limitano preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave”.  L’autoassoluzione preventiva, del proprietario o dell’affittuario, non è prevista né è prevedibile. Clausole speciali e asimmetriche che i concessionari hanno sempre difeso in virtù della specificità di questo tipo di contratto. Le società autostradali, dicono, devono pianificare investimenti pluridecennali durante i quali grazie ai pedaggi ripagano i prestiti e guadagnano. L’interruzione anticipata del contratto metterebbe la società davanti ad un fallimento certo: senza più poter contare sugli introiti dei caselli dovrebbero continuare a fronteggiare le richieste di rientro dei finanziatori, pagare fornitori e personale. Queste le motivazioni dei concessionari, ricordate dalla corte, per giustificare lo squilibrio nelle clausole di risoluzione a sfavore dello stato e a vantaggio dei concessionari. Una deroga rispetto a quanto previsto dal diritto civile e dal codice degli appalti che secondo Aiscat, l’Associazione dei concessionari, troverebbe il fondamento giuridico anche nell’approvazione legislativa dei contratti oggi in essere. Una tesi che la Corte non fa propria sposando il punto di vista del gruppo di lavoro del ministero delle Infrastrutture e trasporti: “Si è dell’avviso che non valga a ‘salvare’ dette clausole dalla nullità manifesta il fatto che la convenzione sia stata, a suo tempo, approvata per legge, in quanto l’approvazione ha riguardato la fase integrativa della efficacia e non i suoi contenuti”, cioè per legge è stato solo approvato l’allungamento nel tempo di quei contratti non il loro contenuto.

La Corte dei Conti su autostrade: serve equilibrio tra pubblico e privato. Antonio Selvatici il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. «Occorre cogliere l’opportunità d’individuare il punto di equilibrio fra rimunerazione del capitale e tutela degli interessi pubblici e dei consumatori», così la Corte dei Conti nel suo recente documento Le concessioni autostradali approvato a fine novembre e poi inviato anche ai ministeri competenti e al Presidente della Camera e del Senato. La relazione riassume e fotografa una situazione che, già sfogliando le prime pagine, si capisce come sia complicata. Risulta chiaro ed evidente come col tempo si sia creato un abnorme essere economico misto pubblico e privato avvinghiato da norme non chiare, mancanza di controlli, interessi da soddisfare, il tutto fino a formare un pericoloso intreccio d’interessi difficilmente risolvibili in breve tempo. Il relatore consigliere Antonio Mezzera (Presidente Angelo Buscema) tra le considerazioni conclusive inserisce alcuni capoversi che ben inquadrano la situazione: «la ventennale vicenda della privatizzazione delle autostrade ha dimostrato che vi sono state carenze di gestione, soprattutto nei primi tempi». Tali carenze sono state individuate in quattro categorie: le «tariffe, non regolate sinora da un’Autorità indipendente secondo criteri di rigoroso orientamento al costo», a seguire il «capitale non remunerato con criteri trasparenti di mercato», poi «la verifica periodica dell’allineamento delle tariffe ai costi». Infine, non certo per importanza i «controlli degli investimenti, anche attraverso l’accertamento delle capacità realizzative e manutentive». Tagliente una constatazione che fa riflettere: «Costante è risultata, nel tempo, la diminuzione degli investimenti. Peraltro, anche il loro slittamento può favorire il prolungamento dei rapporti, rendendo difficile l’effettuazione di gare per il crescere degli indennizzi richiesti ai subentranti». È noto come il crollo del ponte Morandi di Genova, nel quale sono morte 43 persone, abbia innescato un acceso dibattito politico che vede protagonisti i Cinque stelle, che puntano a fare revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia (Atlantia, società del gruppo Benetton) dei lunghi tratti che storicamente gestisce. Una diatriba che in questi giorni si è nuovamente accesa ed ha portato a nuovi e ripetuti bisticci tra membri della maggioranza. La parte finale della relazione della Corte dei Conti elenca alcune “raccomandazioni” che potrebbero suggerire soluzioni. Probabilmente, la prima non sarà gradita dalle società private concessionarie: «il nuovo sistema tariffario unico di pedaggio elaborato dall’Autorità si prefigge di ridurre la remunerazione del capitale, introdurre parametri d’efficienza più stringenti, restituire parte dei ricavi generati dal traffico oltre le previsioni e indurre al pagamento di penali per i ritardi negli investimenti». La parte conclusiva del documento comprende una frase tanto sibillina quanto chiara, un concetto già precedentemente evidenziato: «evitare la programmazione d’investimenti poco utili o di difficile realizzazione al solo scopo di ottenere una proroga della concessione», più che un monito assomiglia a una notizia di reato già consumato. Chissà se le parti politiche coinvolte nelle animate discussioni (più prudente con un diplomatico “salvo intese” il premier Giuseppe Conte, con una visione più morbida Italia Viva di Matteo Renzi e una più radicale dei Cinque stelle che, come abbiamo visto, da tempo pretendono la revoca della concessione ad Atlantia) prenderanno spunto dalla relazione della Corte dei Conti. E chissà come interpreteranno l’emancipata raccomandazione dei magistrati contabili: «In definitiva, il lento processo di adeguamento ai principi di derivazione europea, anche per la tendenza del passato a privilegiare contingenti esigenze di politica economica, segna oggi un’occasione per ridefinire sia i profili di cooperazione interistituzionale che di positivo raccordo con i soggetti privati interessati». Ci avviciniamo a una svolta dove, tra l’altro, s’incomincia a guardare a certe privatizzazioni con una visione più critica? Alitalia, ex Ilva, Autostrade, ex Tirrenia: tutte privatizzazioni che oggi, a distanza di alcuni anni, sono diventate tra le protagoniste della vita economica del Paese.

Il prezzo del compromesso su Autostrade. I grillini chiedono la revoca immediata, il Pd e Renzi frenano, anche per le penali miliardarie (sulle quali si tratta, di nascosto). Panorama il 4 gennaio 2020. La vicenda di Autostrade intesa sia dal punto di vista aziendale-politico-statale, che da quello più semplicemente "stradale", è una stranezza tutta italiana. Che Atlantia debba lasciare la gestione delle nostre principali arterie automobilistiche appare chiaro a chiunque dal 14 agosto 2018, giorno del crollo del Ponte Morandi. Ma solo nel nostro paese una 40ina di morti per quello che resta uno dei disastri più gravi della storia d'Italia non bastano per lasciare incarichi e soprattutto miliardi di utili, no. Serve altro. Il destino allora ci ha messo del suo facendo piombare in pochi mesi le autostrade della Liguria nel disastro assoluto; andando in ordine cronologico ricordiamo i controlli su alcuni viadotti non proprio sicurissimi della A26, Genova-Gravellona Toce e della A10, Genova-Ventimiglia. A tutto questo va aggiunto l'ultimo episodio, il crollo di alcuni "detriti" (per un peso complessivo di due tonnellate e mezzo, i detriti) di una delle gallerie della A26, in direzione del capoluogo ligure, a causa delle infiltrazioni d'acqua per le piogge incessanti di due settimane fa. Il risultato è che ormai andare nella regione dei fiori è roba da amanti del rischio, oltre che delle code come accaduto in queste ferie natalizie. Che la manutenzione non sia stata fatta o sia stata approssimativa è evidente a tutti, compresi i più strenui sostenitori dei Benetton. In merito ad esempio al crollo nella galleria della A26 Aspi ha fatto sapere che la zona aveva superato gli ultimi controlli fatti poco tempo prima. La richiesta di revoca della concessione è legittima e sacrosanta. Però ci sono delle regole che, piacciano o meno, vanno rispettate. Atlantia infatti ha fatto sapere che un provvedimento del genere prevede delle penali da oltre 20 miliardi di euro. Una cosa chiara a tutti, soprattutto al Governo ed ai suoi ministri, compresi quelli, come Di Maio, che continuano a chiedere l'immediato stop per la società della famiglia Benetton. Peccato però che sotto banco si stia trattando con il "Diavolo" per una cifra vicina agli 8 miliardi, con lo sconto quindi del 60%. Perché purtroppo ci sono delle regole, e migliaia di posti di lavoro in ballo (altro problema da non sottovalutare). Al resto ci pensa e penserà la giustizia ordinaria. Questo Governo anche su Autostrade stia dimostrando tutta la sua pochezza e debolezza: Ilva, Alitalia (dove guarda caso c'è sempre Atlantia di mezzo), Autostrade, problemi seri che meritano risposte e soluzioni altrettanto serie. Invece si va avanti con slogan da una parte e divisioni interne dall'altra, nella faticosa ricerca di scaricare sugli alleati il costo politico: per i grillini qualunque indennizzo ai Benetton sa di beffa, per il Pd e per Renzi rimangiarsi gli accordi con i gestori presi dai loro ministri anni fa sarebbe beffardo. Il prezzo del compromesso lo pagano tutti.

(ANSA il 17 gennaio 2020) - "Non c'è alcun tipo di volontà espropriativa ma solo l'esigenza di assicurare che l'inadempimento degli obblighi assunti determini conseguenze anche per il patrimonio dell'inadempiente così come previsto per la generalità dei consociati e non già un fatto del tutto neutro". Lo ha detto la ministra delle infrastrutture e trasporti Paola De Micheli in audizione alle commissioni affari costituzionali e bilancio della Camera sul Milleproroghe, con riferimento alla norma sulle concessioni autostradali. "La decisione della revoca o meno sulla vicenda Aspi non è stata presa dal Governo. Oggi non c'è una decisione. La sottoscritta sta terminando, insieme agli uffici, di scrivere la relazione finale che presenteremo alla compagine di Governo". Lo ha detto la ministra delle infrastrutture e trasporti Paola De Micheli in audizione alle commissioni riunite affari costituzionali e bilancio della Camera sul decreto Milleproroghe.

Alessandro Barbera per ''la Stampa'' il 17 gennaio 2020. Cinque miliardi e quattrocento milioni di investimenti in quattro anni, più del doppio dei due miliardi e cento milioni realizzati dalla gestione Castellucci. Un miliardo e seicento milioni dedicati alle manutenzioni - quattrocento milioni in più del piano precedente - che permetteranno lavori su cinquecento ponti e centotrenta cavalcavia. Altri cinquecento milioni per il monitoraggio e il miglioramento della rete: software, ponti 5G, droni. E infine mille assunzioni tra ingegneri, tecnici, operai, addetti ai caselli. Il piano industriale di Autostrade presentato ieri dal nuovo amministratore delegato Roberto Tomasi non sembra scritto da un' azienda vicina alla revoca della concessione. Nel governo la spaccatura è seria e il tentativo dei Cinque Stelle di dare una spallata alla società controllata dalla famiglia Benetton per il momento non è riuscito. La presentazione del piano, per quanto pianificato da tempo, è l' occasione perfetta per l' ultimo tentativo di salvare la pelle. Il comunicato diffuso dall' azienda a mercati chiusi dal consiglio di Autostrade per l' Italia è un concentrato di messaggi in codice alla politica. Si inizia dal titolo: «Il consiglio approva le linee guida del piano strategico di trasformazione dell' azienda». Per quanto possibile, Tomasi vuole lasciarsi alle spalle Castellucci e il suo stile poco dialogante per un concessionario pubblico, per di più gestore di un ponte crollato e costato la vita a 43 persone. L' aumento delle spese per la manutenzione pari al «quaranta per cento» è stato deciso «in linea con le interlocuzioni con il ministero dei Trasporti». Autostrade conferma ufficialmente quel che nei palazzi si va dicendo da settimane: nonostante i proclami il telefono fra Tomasi e il ministro Paola De Micheli non ha mai smesso di squillare. Il piano promette l' ammodernamento di ponti, viadotti, cavalcavia, gallerie, pavimentazioni, barriere di sicurezza. Il consiglio indica il potenziamento di «trenta chilometri della rete esistente», sempre entro il 2023. La parte più innovativa del piano sembra l' impegno a realizzare una piattaforma di intelligenza artificiale che consentirà di monitorare 1943 ponti e viadotti. Per verificare le condizioni di viabilità verranno impiegati droni dotati di piani di volo automatico, telecamere ad alta velocità, laser e georadar. Nella nota manca invece qualunque riferimento alla riduzione delle tariffe, che pure è una delle carte decisive della trattativa sottotraccia fra governo e Atlantia. D' altra parte la decisione della maggioranza su cosa fare della concessione di Autostrade è congelata. Verrà affrontato solo dopo il test elettorale del 26 gennaio e poco prima del termine per la conversione in legge del Milleproroghe. Per questo ad Atlantia restano pronti allo scenario peggiore, e mentre si allunga la mano al governo prosegue l' azione di lobbying contro la norma che ha falcidiato il risarcimento in caso di revoca della concessione: dei ventitré miliardi attuali ne resterebbero sette. Ieri, dopo i fondi sovrani cinese e di Singapore - entrambi azionisti del gruppo - anche la tedesca Allianz ha presentato un esposto alla Commissione europea. La De Micheli in Parlamento smentisce volontà espropriative: la situazione «era totalmente sbilanciata» con privilegi «attribuiti per legge ad alcuni concessionari». Il decreto ristabilisce «il giusto equilibrio tra l' interesse pubblico e privato». Se la linea dei Cinque Stelle avrà la meglio, Anas fa sapere di essere pronta a prendere il posto di Autostrade. Riuscirebbe a fare meglio?

Nino Sunseri per ''Libero Quotidiano'' il 17 gennaio 2020. (…)  Nell' azionariato del gruppo ci sono soci di grossa taglia che non si lasceranno espropriare da un' iniziativa del governo italiano forse arbitraria. Infatti dopo il fondo sovrano di Singapore e i cinesi del Silk Road Fund azionisti di Atlantia a muoversi è stata Allianz che ha una quota di Autostrade. Secondo quanto riporta l' Ansa, il colosso tedesco ha presentato alla Commissione Europea un esposto contro la modifica unilaterale dei contratti di concessione autostradale introdotta dal governo con il decreto Milleproroghe. Un cambiamento che apre la strada all' ipotesi di revoca della concessione della società. L'esposto segnala la violazione del principio universale che impone il rispetto dei contratti. Proprio questa rottura fu alla base della procedura di infrazione aperta nel 2006 da Bruxelles nei confronti dell' Italia, quando il ministro Di Pietro modificò i contratti di concessione autostradale per legge.  «Questa misura - recitano la lettera - è ragione di seria preoccupazione per noi e per l' intera comunità degli investitori in quanto compromette del tutto la prevedibilità normativa, scoraggiando gli investimenti e restringendo senza giustificazione la libera circolazione dei capitali». Il ministro De Micheli respinge le accuse sostenendo che il testo del Milleproroghe non contiene «violazioni di sorta». Le iniziative degli azionisti di Atlantia e Aspi evidenziano il profondo malessere degli investitori internazionali che avevano fatto affidamento su regole certe, che adesso rischiano di saltare.

Autostrade, la ministra De Micheli chiese al premier quattro mesi fa di decidere. Una lettera che lo prova. Il Corriere del Giorno il 14 Luglio 2020. Nel documento sono anche elencate le condizioni che verranno poste con tre mesi di ritardo dal Governo Conte ad Autostrade nel famoso ultimatum del 10 luglio, sebbene poi formulate in modo più stringente. A partire “dall’impegno economico complessivo pari a 2.900 milioni”, successivamente rialzato a 3,4, per “una serie di interventi compensativi”; si proseguendo quindi con il “piano straordinario di investimenti pari a 14,5 miliardi, di cui 5,3 nel periodo 2020-2023”; passando per “l’accettazione del modello tariffario Art”, l’Autority dei Trasporti, “con rinuncia al ricorso giurisdizionale sul tema”. Era il 13 marzo quando la ministra dei Trasporti inviò a Conte una lettera “riservata personale” in cui veniva ricostruita la trattativa con Aspi (Autostrade per l’ Italia) e prospettava le due soluzioni che verranno esaminate stasera dal Consiglio dei Ministri: revoca o revisione della concessione. Palazzo Chigi la ignorò totalmente! “Carissimo presidente” iniziava così la lettera della De Micheli, del corposo dossier Autostrade, che il premier Giuseppe Conte difficilmente renderà noto, nel corso del Consiglio dei ministri di stasera chiamato a decidere (se ne sarà capace…) sulla revoca della concessione. Una comunicazione rigorosamente “riservata personale” indirizzata al capo del governo lo scorso 13 marzo, che dimostra inequivocabilmente come la colpa dei ritardi sulla “guerra” ingaggiata con i Benetton, lo veda principalmente responsabile e non “ai due ministri più direttamente competenti” cioè la titolare del Ministero dei Trasporti Paola De Micheli e del Ministero del Tesoro Roberto Gualtieri – sui quali la comunicazione di Palazzo Chigi da giorni tenta di scaricare ogni responsabilità. Una lettera firmata di proprio pugno dal ministro De Micheli , che oggi , dopo quattro mesi di vuoto, e dopo aver ricostruito nei dettagli l’istruttoria condotta dal suo dicastero in seguito al crollo del Ponte Morandi di Genova, e aver illustrato ed analizzato le due opzioni , (revoca o revisione della concessione, accompagnata dalla cessione della quota di controllo di Aspi) verranno poste al vaglio del Cdm dalla ministra Pd con cui chiedeva al premier la convocazione immediata di un vertice di maggioranza per arrivare prima che tutto precipiti ad una decisione rapida e condivisa. Com’è avvenuto. Perché, sollecitava la responsabile dei Trasporti, il problema ha bisogno di essere risolto subito. Togliere le Autostrade ai Benetton potrebbe costare molto caro allo Stato. 23 miliardi cioè più del triplo rispetto ai 7 miliardi che il Governo ha inserito nel Decreto Milleproroghe, abbassando il tetto del risarcimento ad Autostrade, ma unilateralmente. Un vero e proprio avvertimento al premier Giuseppe Conte che cala sul tavolo del Consiglio dei Ministri di questa notte chiamato a capire come chiudere la questione che si è aperta quasi due anni fa a seguito del crollo del Ponte Morandi a Genova. Un avvertimento che arriva dall’Avvocatura dello Stato. A pagina 4 del documento si legge : “Il predetto Organo legale (l’Avvocatura ndr)” evidenzia “come non si possa escludere che, in sede giudiziaria (nazionale o sovranazionale) possa essere riconosciuto il diritto di Aspi all’integrale risarcimento”.  Così la De Micheli scriveva alla fine della lettera: “Rimango in attesa di un tuo urgente riscontro sulle soluzioni prospettate, considerata la necessità di condividere questo, interminabile e complicato lavoro di interlocuzione con le società Aspi ed Atlantia, ma anche con i capi delegazione dei partiti, in seno al governo rappresentativi delle forze parlamentari di maggioranza, anche al fine di avere un quadro chiaro e definitivo in questa fase emergenziale che sta colpendo il nostro Paese sotto il profilo sanitario ed economico, oltre che sul piano delle personali e familiari incertezze e paure che comprensibilmente preoccupano i nostri concittadini”. Giuseppe Conte, ha impiegato quattro mesi, per arrivare ad una decisione che rischia di mettere a serio rischio le sorti del suo governo. 75 giorni dopo, il 27 maggio arriva sulla scrivania del premier la prima lettera ricevuta dalla ministra De Micheli. Il primo riscontro alla lettera arriva quando il presidente del Consiglio convoca il primo vertice di maggioranza sul tema, che però si concluse senza alcuna decisione . Si arriva quindi al 25 giugno, e trascorre invano un altro mese quando i capidelegazione della maggioranza di Governo tornano a riunirsi con Conte, e puntualmente anche questa volta senza alcuna soluzione. Per arrivate all’avviso di sfratto-revoca nel weekend notificato da Palazzo Chigi a mezzo stampa ai Benetton come atto conclusivo. Chi ha potuto avere visione delle carte sostiene che nella prima lettera del 13 marzo c’erano già tutti gli elementi per una decidere immediata, che avrebbe anticipato di ben quattro mesi la decisione finale prevista ed attesa stasera nel Consiglio dei Ministri. La De Micheli ricostruisce tutti i passaggi dell’interlocuzione con il concessionario, affidato a “un Gruppo di lavoro interistituzionale” istituito dal suo predecessore, il senatore grillino Danilo Toninelli, subito dopo il tragico crollo del ponte Morandi.  Gruppo che scrive la ministra “a conclusione delle proprie attività , pur concludendo nel senso delle condizioni per procedere alla risoluzione della Convezione unica del 2007, per grave inadempimento della società concessionaria, aveva tuttavia evidenziato i possibili rischi di contenzioso derivanti dalla risoluzione unilaterale della Convenzione”. Da questo passaggio la relazione della De Micheli rivela date e particolari della trattativa condotta intorno al tavolo attivato “nel mese di luglio 2019” con lo scopo di “acquisire le proposte del concessionario che, in ragione della rilevanza degli interessi pubblico coinvolti, ha visto la partecipazione della Presidenza”. Un passaggio fondamentale, che prova come Conte fin da quando guidava il suo primo governo con la Lega era sempre restato al corrente di tutto. E non solo. Nel documento sono anche elencate le condizioni che verranno poste con tre mesi di ritardo dal Governo Conte ad Autostrade nel famoso ultimatum del 10 luglio, sebbene poi formulate in modo più stringente. A partire “dall’impegno economico complessivo pari a 2.900 milioni”, successivamente rialzato a 3,4, per “una serie di interventi compensativi”; si proseguendo quindi con il “piano straordinario di investimenti pari a 14,5 miliardi, di cui 5,3 nel periodo 2020-2023”; passando per “l’accettazione del modello tariffario Art”, l’Autority dei Trasporti, “con rinuncia al ricorso giurisdizionale sul tema”. Un rapporto preciso e puntuale quello della De Micheli in cui erano contenuti ampi stralci del parere reso dall’Avvocatura generale dello Stato per evidenziare i rischi di una eventuale revoca, ritenuta comunque giuridicamente sostenibile. Se il problema fosse stato affrontato subito, invece di aspettare quattro mesi, sarebbe stata evitata la corsa contro il tempo e  le incognite di una decisione che a questo punto non si può più rinviare. Il premier spinge per la revoca fortemente voluta dal M5S, ma l’Avvocatura dello Stato è perentoria nel sostenere che bisogna procedere con la massima attenzione. Il rischio sul fatto che lo Stato potrebbe essere chiamato a pagare l’intero risarcimento ai Benetton è legato proprio alla debolezza della scelta fatta con il Milleproroghe dal Governo Italiano. 

Adesso la De Micheli traballa? Il M5s vuole la testa della dem. Clima teso nel governo per la lettera che la titolare del Mit inviò al premier a metà marzo: ora i grillini spingono per le dimissioni della dem, accusata di slealtà. Fabio Franchini, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Non c’è pace in casa giallorossa. La lettera datata 13 marzo che il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Paola De Micheli inviò al premier Giuseppe Conte, invitandolo a decidere una volta per tutte sulle concessioni ad Autostrade, ha fatto (ri)scoppiare i dissidi all’interno della maggioranza. E ora il Movimento 5 Stelle spinge per le dimissioni della dem, accusata di slealtà. Ricapitoliamo. Nella giornata di ieri Repubblica ha dato notizia di una missiva che la titolare del Mit scrisse e recapitò all’attenzione di Palazzo Chigi per sciogliere il nodo della concessione alla famiglia Benetton, scegliendo tra revoca e revisione della stessa. Un invito, quello dell’esponente di governo del Partito Democratico, che non fu raccolto dal presidente del Consiglio. L’indiscrezione, ovviamente, ha sollevato un polverone, agitando ulteriormente le acque in cui naviga l’esecutivo Conte e indispettendo non poco lo stesso premier. Ciò detto, nella notte è arrivata l’intesa in consiglio dei ministri: è stato un Cdm difficile, della durata di sei ore. Alla fine però l’accordo c’è: graduale uscita dei Benetton (estromessi dal consiglio di amministrazione di Autostrade per l’Italia) ed ingresso dello Stato, con Cassa Depositi e Prestiti, che salirà fino al 51% come socio di controllo di Aspi. Nei fatti, dunque, nessuna revoca ma un drastico ridimensionamento dei Benetton, che scenderanno sotto al 10%. Adesso però c’è il nodo politico: il M5s vuole la testa di Paola De Micheli. E anche in casa Pd c’è un certo imbarazzo per il fatto che quella lettera è stata portata alla ribalta. Nella giornata di ieri c’è stata una certa tensione, alle celebrazioni del 14 luglio presso l’Ambasciata francese a Roma, tra Conte, Zingaretti, Di Maio e proprio De Micheli. Come riportato da La Stampa, il presidente del Consiglio era più che indisposto per la notizia della missiva, convinto che l'abbia fatta uscire la ministra del piddì: "Pensa di scaricare la colpa su di me?", si sarebbe sfogato il sedicente avvocato del popolo. Prima del Cdm notturno, sia il M5s sia il Pd si sono riuniti in due vertici separati e in quello pentastellato si è parlato molto della responsabile del Mit, accusata di essere stata sleale e per questo meritevole di essere cacciata. Si apre così una nuova ed ennesima frattura all’interno della compagine di governo: questa volta, sulla graticola, ci è finito un ministro del Pd. Vedremo come andrà a finire.

Paoletta l'arciduchessa ne ha fatte di più dei colori Benetton. Scaltra e sempre accorta a proteggere se stessa, ora con Autostrade rischia di restare con il cerino in mano. Paolo Guzzanti il 17 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Ce la farà o non ce la farà, Paoletta nostra l’arciduchessa De Micheli di Piacenza, Parma e Guastalla? Passerà indenne il Ferragosto sulla sua cadrega, o cathedra, o scranno o poltrona di ministra, oppure, fra balli canti e festeggiamenti, la butteranno giù dalla Rupe Tarpea dei ministri che sanno solo creare casini? Difficile dirlo, anzi prevedibile.

LE SUE SCARPINE. Fossimo noi? Se fossimo noi nelle sue scarpine, o anche scarpone sennò sa di vezzeggiativo antifemminista, taglieremmo la corda. Prima che la vengano a prendere col picchetto armato, il prete con l’acquasantiera e i fratoni della Giubilazione che agitano l’incenso. Perché le diamo il consiglio di darsela a gambe finché lo può fare ancora con eleganza? Perché il cerchio, che è piuttosto un cappio, intorno a lei e al suo collo so stringe. Il primo ministro è furibondo e ha alzato la voce a lungo parlando di lei e dello scherzo da prete che gli ha fatto dando alle stampe la famosa lettera riservata con cui lei gli chiedeva di darsi una mossa sul caso Autostrade Benetton, che la sta trascinando nel suo crollo personale.

TOPO GIGIO. Il suo partito, che se non sbagliamo dovrebbe essere il Pd (gran casino identitario, scusate, non è colpa nostra, oggi non riesci a distinguere Topo Gigio da Luigi Di Maio) le dà il bacio della morte attraverso l’irritata difesa della mente lucida del PD Lorenzo Guerini, ministro della Difesa e ventriloquo del povero Zinga che ormai fa il giro delle osterie con la chitarra e il piattino. Guerini ha almeno due teste sulle spalle perché il caso piddino è peggio del cubo di Kubrik, nessuno si ricorda più come si fa a rimetterlo come era prima. Guerini ha difeso la nostra Paola Maria Addolorata Duchessina, più o meno dicendo lasciatela stare, non vedete che è piccola, se avete coraggio scendete in cortile da me che vi faccio vedere io. In politichese ha detto che bisogna piantarla con questa spupazzata pentastellare che divide i buoni dai cattivi, i puri dai peccatori e che insomma Paola De Micheli ha tutto il sostegno del Nazareno: un modo molto scaltro per avvertirla che la messa è finita, è sera ed è l’ora di sloggiare. Scambiamoci un segno di pace, per te è finita, amen. Paola De Micheli ha un difetto e glielo abbiamo ricordato – pazzi come siamo di lei – con sincera simpatia. Il difetto è che passa troppo tempo a pararsi le terga e troppo poco a fare le cose che i tempi convulsi richiedono.

L’AVEVA DETTO. La sua unica preoccupazione è poter dire: ve l’avevo detto, ve l’avevo scritto (a Conte), l’avevo previsto, avevo già avviato i controlli, avevo già imbottigliato l’autostrada per farne conserva di automobilisti, avevo già messo le mani avanti, avevo già sentito i miei legali, mica sono scema, non mi faccio incastrare da questa gabbia di matti. Che le vuoi dire? Nulla. Obiezioni? Zero. Ha ragione lei. Per pararsi, si è parata dalle lombari fino all’attaccatura del ginocchio. Ma l’affare è stato un affaraccio, intendiamo la vicenda Benetton conclusa in un modo astutissimo. Un modo in cui, a chiacchiere sono tutti contenti, ma alla fine qualcuno dovrà restare col cerino acceso e sarà la ministra delle infrastrutture infradito. Perché? Ma perché ha cercato di salvarsi il fondo schiena prima mandando la lettera a Conte e poi dandola alle stampe, provocando un’ondata di marea nel governo. E perché l’ha fatto? Per pararsi. Paraculismo, in linguaggio tecnico. E ha dato prova di anteporre le sue rispettabilissime terga al fronte comune, mandando in bestia il governatore ligure Toti che ha minacciato denunce e l’alleato pentastellare che, per quanto subdolo, non è cretino. I Benetton gridano all’esproprio, ma intanto a nessuno è sfuggito il magico gioco della borsa abbassata a mazzate e poi fatta scattare a molla all’insù, con un discreto acchiappo. I Benetton estromessi, ma non del tutto. Tutto, semmai, è reversibile, Salvo la De Micheli che è irreversibile perché si è ancorata a una soluzione che ha lasciato tutti di malumore, ma fedeli alla consegna di gridare insieme “Banzai!” abbiamo vinto. E Lei non l’ha capito, ha giocato di spariglio, ha gettato il bastone fra le ruote di Conte per eccesso di zelo retroattivo ed è finita nell’angolo. Ha lavorato per far tornare il pubblico al posto del privato, a staccare i ticket dei caselli autostradali ed è felice come una Pasqua. Ma l’intero pasticcio delle autostrade e della mezza cacciata dei Benetton ha messo a nudo la corrosione del rapporto fra PD e M5S che non ha più crema per mitigare le abrasioni. Tutti sanno che si stanno giocando partite di livello altissimo e che questo governo, bene che vada, dovrà subire un rimpasto, ovvero qualche sostituzione e indovinate chi rischia di più in questo momento. La maggioranza ha deciso di nascondersi dietro il tinnire dei calici per un brindisi senza ragione. Tutti gridano evviva e finché dura il frastuono e l’ebbrezza, Paola si salva. Ma poi cadrà la polvere e i duri entreranno in campo. E non sarà un bel momento per chi ha giocato solo d’astuzia.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 17 luglio 2020. L'incidente diplomatico detona martedì notte. Ma è solo il manifestarsi di una rabbia che covava da settimane. Forse mesi. Lorenzo Guerini si lamenta della prima pagina del Fatto. Titolo: «United Dem of Benetton». È mezzanotte. E il pdf è appena arrivata sullo smartphone del ministro della Difesa. Questa di far passare il Pd come gli amici dei Benetton è storia vecchia. I grillini, in passato, avevano addirittura accusato il partito di Nicola Zingaretti di essere a libro paga degli imprenditori veneti. E di aver confezionato, con i propri governi, una serie di misure ad hoc per prolungare la concessione di Autostrade e per aumentare i profitti di Atlantia. Ora che la storia viene di nuovo fuori, nonostante siano alleati, i dem sono indotti a sospettare che ci sia una regìa dietro a quegli attacchi. Una persona: Rocco Casalino. È lui, secondo Guerini e gli altri, a ispirare i titoli a Marco Travaglio. Giuseppe Conte, nella ricostruzione fatta dall'Huffington Post, risponde brutto al suo ministro. Se ha qualcosa di cui lamentarsi, gli consiglia di bussare direttamente all'ufficio del suo portavoce. E, sempre in tema di veline, attacca la titolare delle Infrastrutture e dei Trasporti, «colpevole», secondo il premier, di aver divulgato una lettera riservata, destinata a lui, in cui si metteva al corrente il primo ministro sulle perplessità dell'Avvocatura di Stato circa la revoca della concessione autostradale. Al che è stata proprio la De Micheli che, per discolparsi, ha accusato di nuovo Casalino. È stato lui a far filtrare il pezzo di carta. Sempre lui. E sempre allo scopo di dipingere i dem come amici dei Benetton. Quello dei dem per l'ex concorrente del Grande Fratello, d'altronde, è un odio antico. Che a intervalli regolari affiora. È successo qualche settimana fa, con l'indizione degli Stati Generali dell'Economia. Una passerella messa a punto da Conte con il suo guru della comunicazione che al Pd non è piaciuta affatto. Ma il premier non ha voluto dare retta alle perplessità dell'alleato. Si sente in uno stato di grazia, Conte. Il suo balsamo sono quei sondaggi che lo danno ampiamente in testa, tra i leader, per gradimento personale. E i numeri di una sua ipotetica lista, quotata intorno al 14 per cento. Casalino soffia sul turbo-narcisismo dell'avvocato e ciò fa innervosire i piddini. Che, non è un segreto, stanno brigando per levarsi dai piedi la coppia già in autunno, con l'aiuto di Luigi Di Maio, il quale, ormai si è capito, sta facendo partita a sé. Gli scazzi tra Rocco e i ministri del Partito democratico non sono un fatto nuovo, comunque. Gli attriti si sono manifestati subito, appena poche settimane dopo il giuramento del Conte 2. I dem hanno provato a mettere sotto tutela Casalino, cercando di imporgli due vice capi dell'ufficio stampa che fossero espressione del Pd. Missione fallita. Rocco, per tutta risposta, ha provato a centralizzare la comunicazione del governo, tentando di obbligare i ministri a passare attraverso il suo vaglio prima di uscire sulla stampa. Anche questa operazione è saltata. I dem ce l'hanno mandato (a quel paese) senza tanti complimenti. Sono storie di vecchi rancori. Che nessuno si è dimenticato. E perdonato. Quando due anni fa Casalino, in un messaggio audio, invocò il diritto a farsi due giorni di ferie nonostante il crollo del Ponte Morandi, i piddini lo crocifissero. «A casa, adesso!» (Maurizio Martina). «Che squallore, ma quando se ne va?» (Alessia Morani). «Non è degno di servire le istituzioni» (Anna Ascani). «Un pagliaccio» (Davide Faraone). «Che persona è? Si vergogni» (Teresa Bellanova). «Venga allontanato da Palazzo Chigi» (Andrea Marcucci). È tutta gente che oggi siede al governo o riveste ruoli importanti nella maggioranza. Lo stesso Matteo Renzi è un altro che non ama Casalino. Più volte ne ha chiesto la testa. Specie quando Conte andava in diretta durante il lockdown senza alcun contraddittorio, parlando di provvedimenti che non aveva ancora portato in consiglio dei ministri.  

Autostrade, Conte: "Situazione paradossale, il dossier va chiuso". Autostrade, il "golpe" del Pd nel governo. De Micheli e Gualtieri, il vertice riservato con Conte: M5s fregato di notte. Libero Quotidiano il 15 luglio 2020. Il "golpetto" del Pd nella maggioranza si certifica all'alba. Su Autostrade per l'Italia vince la linea morbida e "trattativista" incarnata dal ministro dell'Economia Roberto Gualtieri e da quella delle Infrastrutture Paola De Micheli, che convincono il premier Giuseppe Conte a recedere dai bellicosi istinti di revoca della concessione ad Atlantia e ai Benetton. Un bello smacco per il Movimento 5 Stelle, che aveva riscoperto "la pancia" cavalcando la linea dura, salvo venire "traditi" dal presidente del Consiglio. Non a caso, il delicatissimo dossier di transizione dentro Aspi dai Benetton (che scenderanno entro l'anno al 10%) a Cassa Depositi e Prestiti (cioè lo Stato, che salirà al 51% controllando di fatto Autostrade) verrà seguita concretamente, nei prossimi mesi, proprio dai ministri Gualtieri e De Micheli. Del Pd. I retroscena descrivono un Luigi Di Maio furioso. "Accusa nemmeno troppo velatamente Conte di aver usato lo strumento della revoca per arrivare ad un accordo, che forse è anche la verità, ma è maldigerita dal Movimento", scrive il Corriere della Sera. Decisivo, per il colpo di mano (sempre che i 5 Stelle contassero che finisse veramente con la revoca, un potenziale disastro economico, legale e occupazionale), il vertice ristretto nel cuore della notte: CdM sospeso e faccia a faccia tra Conte, Gualtieri e De Micheli per analizzare nel dettaglio la resa quasi incondizionata proposta dai Benetton. E mentre i grillini se la prendono con la De Micheli, sa tanto di foglia di fico il passaggio del comunicato ufficiale del Cdm in cui si sottolinea come "il Consiglio dei ministri ha ritenuto di avviare l'iter previsto dalla legge per la formale definizione della transazione, fermo restando che la rinuncia alla revoca potrà avvenire solo in caso di completamento dell'accordo transattivo". Un modo per tutelarsi da improbabili ripensamenti dei Benetton, certo, ma soprattutto un modo per far guadagnare tempo ai 5 Stelle di fronte ai loro elettori. Del tipo: "Tranquilli, la revoca è ancora possibile". Già, ma chi ci crederà ora?

Grillo contro Benetton, una sfida lunga 15 anni. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 14 luglio 2020. Bisogna fare un salto indietro nel tempo per ritrovare le radici del conflitto tra Grillo e la famiglia simbolo del capitalismo all’italiana. La sfida di Grillo ai Benetton precede, se così si può dire, il grillismo. Sì, perché l’ossessione del “garante” nei confronti della famiglia trevigiana e del suo impero, costruito anche con l’aiuto di generosissime concessioni autostradali, affonda le radici negli spettacoli teatrali dell’allora semplice comico genovese. Bisogna fare un salto indietro nel tempo di almeno 15 anni, quando, ancora in esilio dalla Tv, Grillo macina una tournée sold out dopo l’altra. Certo, c’è già stato l’incontro con Gianroberto Casaleggio (avvenuto nel 2004), ma ancora il padre di Davide è solo un manager che si occupa di amplificare il verbo. Il Blog è stato aperto da poco, come catalizzatore dei meet up riuniti sotto la sigla Amici di Beppe Grillo, e il Movimento 5 Stelle non è ancora probabilmente neanche nella mente dei due cofondatori. Ma l’istrione di Genova è già un personaggio pubblico che inizia a trasformare la teatralità in messaggio politico. E i Benetton diventano subito bersaglio dei suoi strali. Questa famiglia «ha svenduto le autostrade italiane ad una società spagnola», dice il comico già nell’aprile del 2006, a Firenze, dove è approdato il suo spettacolo. Chiuse le quinte, Grillo partecipa alle proteste dei comitati locali contro gli inceneritori e prende la parola per un secondo show: dalla pericolosità delle nanoparticelle disperse nell’ambiente a quella dell’azienda di Treviso è un attimo. Da quel momento i Benetton diventeranno il leit motiv della sua propaganda politica, il simbolo di un capitalismo monopolista all’italiana che prolifera grazie ai rapporti di potere. Tanto che Alessandro Di Battista, al confronto con la retorica aggressiva del comico di allora, sembra un’educanda. Qualche anno più tardi, nell’agosto del 2011 – il M5S ha già due anni ma non si è ancora confrontato con le Politiche – mentre il mondo si lecca le ferite per una pesantissima crisi economica e il governo Berlusconi chiede nuovi sacrifici agli italiani, il comico lancia la sua crociata sul web: «I sacrifici? Partiamo dai concessionari, da coloro che usano beni pubblici in concessione per farci una montagna di soldi», scrive. «Benetton ha la concessione di alcuni rami delle autostrade italiane attraverso Atlantia Spa. La domanda da porsi è semplice: “Perché delle società private devono beneficiare di beni dello Stato?”». Qualche settimana dopo, lo spunto arriva dalla battaglia contro il finanziamento ai partiti. Quello pubblico, come quello privato. Ed è proprio a questa seconda categoria che il “garante” dedica un passaggio sul Blog in cui cita l’ormai famigerata famiglia per l’immaginario pentastellato. «Nella lista dei mecenati vi sono privati cittadini come il presidente del Monte dei Paschi di Siena Giuseppe Mussari e cooperative rosse per il Pdmenoelle, costruttori privati per il Pdl, Caltagirone per Casini e Benetton per tutti», scrive Grillo, scagliandosi contro le operazioni di lobbing sui partiti. Perché «Se i finanziamenti pubblici vanno aboliti, lo devono essere anche quelli privati per due categorie di soggetti: i concessionari dello Stato e chi partecipa alle aste pubbliche, per motivi evidenti di conflitto di interessi». Ogni riferimento ai proprietari di Atlantia non è affatto casuale. Nel dicembre del 2012, a pochi mesi dal primo trionfo elettorale del M5S, Grillo chiarisce il programma del suo partito alla folla che lo acclama a Trieste in piazza della Borsa. «Vogliamo scuola, sanità e acqua pubbliche, cemento zero, cibo a km0, energie rinnovabili, una banca nazionalizzata che faccia mediocredito», premette l’ormai leader politico, prima di aggiungere: «Lo Stato deve riprendersi le concessioni che ha dato, come è il caso delle Autostrade ai Benetton». Il concetto viene ribadito un mese dopo, nel gennaio 2013, a Pistoia, in piena campagna elettorale: «Vogliamo uno Stato che faccia lo Stato, che si riprenda le sue concessioni autostradali, invece di dare un miliardo e 300 milioni ai Benetton». A febbraio, il M5S arriverà al 25 per cento. Negli anni, gli attacchi ai controllori di Aspi si susseguono regolarmente. Fino al crollo del ponte Morandi a Genova. «Sono imprenditori oppure parassiti del denaro pubblico?», si chiede Grillo il 16 agosto del 2018, prima di indicare al suo partito, nel frattempo arrivato al governo del Paese con la Lega, la linea definitiva da seguire: le autostrade dovranno essere gratuite, perché già finanziate con le tasche dei contribuenti. «Non abbiamo pagato per decenni le tasse per arricchire Benetton e soci», è la consegna. Che Conte sembra intenzionato a seguire fino in fondo. Penali a parte e irritazioni di Pechino permettendo. Perché la Cina, partner fondamentale dell’Italia e interlocutore privilegiato del Movimento, controlla il 5 per cento di Aspi tramite il fondo governativo Silk Road. E a quanto pare non sembra gradire l’estromissione dei Benetton dalla società autostradale, tanto da provare a fare pressioni sul nostro esecutivo. L’ostacolo più Grosso sul cammino di Grillo.

Le balle – Autostrade. “Chavez! Esproprio!” Anzi, “vincono loro!” Bufale post Benetton. Marco Palombi il 17 luglio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Esproprio venezuelano. No, regalo ai Benetton. Statalismo, dirigismo, ma pure favore agli speculatori di Borsa. A leggere le reazioni all’accordo transattivo (andrà finalizzato entro luglio) tra lo Stato e Atlantia, la holding che controlla Autostrade per l’Italia, c’è da entrare in confusione. Prima di inoltrarci in una parziale rassegna, un breve riassunto dei fatti. Circo barnum – Da Renzi a Salvini, passando per i meglio editorialisti. Gara di sparate sull’intesa con Atlantia: “Rischi di statalismo e dirigismo”.

La cosa dovrebbe funzionare così: Cassa depositi e prestiti entra nel capitale di Aspi col 33% con un aumento di capitale, poi Atlantia vende un altro 20% abbondante a investitori istituzionali graditi a Cdp scendendo sotto il 40%, a quel punto le azioni residue vengono distribuite ai soci di Atlantia. I Benetton a quel punto si ritrovano tra il 10 e il 12% di Autostrade, quota che dovrebbero cedere. Nel frattempo viene rivista la concessione – da tutti, Corte dei Conti in giù, giudicata un regalo illegittimo al concessionario – che regola i 3 mila chilometri di corsie in modo da avere più investimenti e meno pedaggi. Chi vince e chi perde? I Benetton devono rinunciare a un bancomat truccato che gli ha garantito profitti assurdi, però salvano Atlantia dal fallimento (certo con la revoca). Per dare un giudizio completo, però, bisognerà capire quanto sarà valutata Aspi, cioè quanto spenderà Cdp. Tutto troppo facile? Ci pensa il circo Barnum dell’opinione a complicarlo.

Quelli che Chavez. “L’esproprio ai Benetton è clamoroso, non siamo il Venezuela” (l’ex ministro Maurizio Lupi); “Statalismo, imprudenza, indecisione, disprezzo per le regole. Il sostanziale esproprio di Aspi è fare giustizia come lo intendono i 5 Stelle, senza attendere una sentenza” (Antonio Tajani) Ora, è evidente a chiunque che una transazione non è un esproprio. Meno evidente, a giudicare da quasi due anni di dibattito, che il concessionario – da codice civile e da codice della strada – non può non aspettarsi danni se lascia crollare un’infrastruttura (calamità naturali a parte), specie se così ammazza 43 persone.

Quelli confusi/1. “Il titolo Atlantia ha guadagnato il 25%. Qualcuno ieri ha fatto i soldi e festeggiato…”. “ Ieri sera hanno festeggiato i Benetton e sicuramente ci metteranno soldi gli italiani” (Matteo Salvini). Tre giorni fa: “Dichiarare e far perdere a un titolo in Borsa il 15% significa non saper fare bene il proprio mestiere” (Matteo Salvini contro Conte che impoveriva i Benetton).

Quelli confusi/2. “Anas è in grado di gestire tremila km di Autostrade? Francamente io ho dei seri dubbi” (Alessandro Morelli, deputato leghista). Anas?

Quelli confusi/3. “Quel che resta da capire adesso è, per esempio, a chi toccherà gestire il nuovo ponte di Genova, in attesa dei nuovi assetti: se alla Autostrade dei Benetton o ai nuovi azionisti, se intanto arriveranno” (Marcello Sorgi, La Stampa). Sarebbe troppo lungo, qui mancano proprio le basi.

Quelli che i Benetton. “Per capire chi abbia vinto o perso nella battaglia di Autostrade basta guardare come ha reagito la Borsa (…) I Benetton sono i veri vincitori” (M. Belpietro, La Verità). La Borsa ieri ci ha un po’ ripensato: Atlantia è calata del 5%. Per una valutazione meno episodica bisogna tenere a mente almeno questo: quelle azioni valevano oltre 25 euro prima del crollo del Morandi, oltre 22 euro a febbraio, quasi 15 euro a inizio luglio, 13,7 ieri. Atlantia ha a bilancio Aspi per 5,3 miliardi: se la quotazione sarà inferiore ci perderà, sennò guadagnerà, ma comunque dovrà fare a meno del suo asset più rilevante e redditizio.

Quelli che se c’ero io… “Cdp acquista Aspi: i privati dunque non vengono ‘cacciati’, ma vengono pagati. È la soluzione giusta?”. “Io avrei preferito intervenire a monte, su Atlantia: avremmo speso meno per controllare meglio business più ampi” (Matteo Renzi). Se c’era lui i privati non sarebbero stati pagati: forse rimanevano al loro posto visto che sempre ieri ha definito i Benetton “capro espiatorio”. Bella l’idea di far entrare lo Stato in Atlantia cioè, tra le altre cose, nelle autostrade spagnole…

Quelli che i mercati/1. “Le responsabilità sono delle società. Gli azionisti si nominano solo se ci sono profili penali. Qui c’è un problema di reputazione italiana per gli investitori internazionali e ne usciremo certamente danneggiati, al di là di quello che accadrà ad Autostrade” (Giovanni Tria). Al di là di tutto, questo era ministro del governo che avviò la “procedura di caducazione” per Aspi nell’agosto 2018.

Quelli che i mercati/2. “È nell’interesse pubblico che la rete autostradale sia gestita dal settore pubblico?” (Carlo Cottarelli, la Repubblica). Forse andrebbe ricordato che, tolte Italia e Grecia, in tutta Europa funziona così: facciamo come la Germania, no?

Quelli che i mercati/3. “La domanda è se questo segni un’altra tappa del domino dirigista che dovrebbe riportare allo Stato le industrie in perdita, nel segno di un assistenzialismo destinato a entrare in rotta di collisione con le norme europee e a riprodurre un’eredità di inefficienza e di sprechi” (Massimo Franco, Corriere della Sera). Ora però non diventi un’abitudine eh: inefficienze e sprechi vanno bene solo se privati.

Quelli che non è vero. Luciano Benetton ha smentito i virgolettati di Repubblica. Noi gli crediamo e aspettiamo l’annuncio della querela, però almeno una di quelle frasi è un ritratto capolavoro di un pezzo del capitalismo italiano e la citiamo come pezzo letterario: “Ci trattano peggio di una cameriera. Chi caccia una domestica è obbligato a darle 15 giorni di preavviso. A noi, che per mezzo secolo abbiamo contribuito al boom economico dell’Italia, intimano di cedere i beni entro una settimana”. No comment. C’è tutto.

Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 17 luglio 2020. L'investimento nelle autostrade si sta rivelando un affare per i Benetton. Come ha spiegato ieri l'ex premier Matteo Renzi, «Cassa Depositi e Prestiti acquista Autostrade per l'Italia: i privati dunque non vengono cacciati, ma vengono pagati». Il piano B - niente revoca della concessione ma acquisizione della quota di controllo della società da parte di soggetti pubblici - comporta una plusvalenza interessante per il gruppo di Ponzano Veneto. Per ora circolano delle ipotesi di valorizzazione tutte da verificare, ma più che plausibili. Intanto entrerebbe Cassa Depositi con un 33% del capitale di Autostrade per l'Italia (Aspi in sigla) mettendo sul piatto circa 3 miliardi di euro. Un ulteriore 22% del capitale sarebbe collocato presso investitori istituzionali per circa 2,5 miliardi. Dunque Atlantia, la holding dei Benetton, per scendere dall'attuale 88 al 33% in Aspi incasserebbe 5,5 miliardi. Puliti. Sgravandosi per di più di ulteriori 5 miliardi di garanzie prestate alla controllata. Ma la partita finanziaria, quasi sicuramente, non finirebbe qui. Da ambienti vicini alle trattative fra gli imprenditori veneti e Palazzo Chigi, sfociate nell'accordo raggiunto nella notte fra martedì e mercoledì, Atlantia dovrebbe cedere un ulteriore 13%, per scendere al 10. In questa seconda fase alla holding andrebbe un altro miliardo e mezzo scarso. La plusvalenza complessiva realizzata nella fase di disimpegno ammonterebbe per la holding a quasi 7 miliardi. Un bel gruzzolo che tuttavia non finirebbe comunque tutto nelle tasche dei Benetton ai quali fa capo il 30,25 di Atlantia. Dunque, supponendo che la plusvalenza realizzata con la cessione di Autostrade per l'Italia sia destinata interamente a dividendo, agli industriali di Ponzano Veneto andrebbero circa 2 miliardi. Per verificarlo toccherà aspettare il bilancio dell'esercizio 2020. Dunque il prossimo anno. Ma il tesoretto finito a casa Benetton da quando la famiglia ha messo le mani su Autostrade è ben più consistente. Secondo uno studio di Mediobanca, solo dal 2009 al 2018 la famiglia ha incassato qualcosa come 6 miliardi di dividendi. Dai 485 milioni di cedole nel 2009 ai 740 del 2017. Nel 2018, anno in cui crollò il ponte Morandi, è stato staccato un assegno di 518 milioni, mentre l'utile dell'esercizio 2019, pari a 136 milioni, è andato tutto a riserva, per coprire parzialmente le azioni risarcitorie intentate dai parenti delle vittime. Ai 6 miliardi di cedole conteggiate dalla banca d'affari milanese bisogna aggiungere la partita contabile realizzata nei primi anni del controllo Benetton su Autostrade. L'acquisizione dall'Iri avvenne nel 1999, quando Schemaventotto, una società veicolo appositamente costituita dal gruppo di Ponzano per condurre l'operazione, acquisì inizialmente il 30% dell'allora Gruppo Autostrade, sborsando 2,5 miliardi di euro, dei quali 1,3 miliardi di mezzi propri e 1,2 miliardi presi a prestito. Il secondo tempo dell'acquisizione data 2003, quando una ulteriore scatola finanziaria creata da Schemaventotto, la NewCo28, rilevò con un'offerta pubblica d'acquisto, il 54% di Autostrade pagandolo 6,5 miliardi. Ma questa seconda acquisizione venne fatta tutta a leva: NewCo28 incorporò Autostrade scaricandole per intero il debito che aveva acceso proprio per sostenere l'Opa. Secondo la minuziosa ricostruzione dell'operazione fatta da Giuseppe Oddo sul proprio blog, l'operazione si concluse praticamente a costo zero per i Benetton, anzi con una ricca plusvalenza. Schemaventotto tra il 2000 e il 2009 incassò infatti da Autostrade 1,4 miliardi di dividendi, tutti generati da utili, e ne collocò in Borsa il 12% con un incasso di altri 1,2 miliardi. Ripagandosi abbondantemente l'investimento iniziale effettuato con mezzi proprio pari a 1,3 miliardi, a fronte di un introito pulito di 2,6 miliardi di euro. Dunque ai 6 miliardi di dividendi Aspi stimati da Mediobanca andrebbero aggiunti 1,3 miliardi di plusvalenza realizzata nel periodo antecedente il 2009. Cui su potrebbero sommare i 2 miliardi di dividendi pro quota rivenienti dalla cessione parziale della partecipazione di Atlantia in Autostrade per l'Italia. Una cifra che si aggira attorno ai 9 miliardi di euro, sostanzialmente realistica anche considerando che l'ultima tranche da 2 miliardi attiene all'ipotetico dividendo che la famiglia percepirà sull'esercizio 2020 e legato alla discesa della partecipazione Atlantia in Autostrade dall'88 al 10%.  

Eugenio Fatigante per avvenire.it il 17 luglio 2020. Gli entusiasmi dei 5 stelle per questa soluzione della vicenda Autostrade? «Ricordano molto quelli per l'abolizione della povertà», era una delle battute preferite ieri a Montecitorio. Assieme ai tempi, c'è in effetti un enorme punto oscuro che grava sul 'compromesso dell'alba' (com' è stato definito): ma la famiglia Benetton, che ha evitato la revoca della concessione, incasserà soldi - e quanti - con questo accordo? Luigi Di Maio e Stefano Buffagni, esponenti di punta di M5s, ieri hanno voluto ribadirlo in modo secco: «Atlantia non prenderà un soldo pubblico, non è vero che è un grande affare per i Benetton». In realtà, può esser vero il primo punto, ma sul secondo ci sono dubbi. Nel patto manca d'altronde un elemento-chiave per dare un giudizio pieno: a che prezzo avverrà l'entrata di Cdp, con i soldi del risparmio postale degli italiani, nel capitale di Aspi? Per ora si è parlato di almeno 3 miliardi di fondi impiegati, ma potrebbero essere di più, anche per valorizzare la società e i nuovi investimenti che dovrà fare. E, ancora: a che prezzo avverrà la vendita di azioni Aspi ora in mano ad Atlantia (controllata al 30% dai Benetton) ai nuovi investitori graditi a Cdp? Da queste due variabili dipende molto dell'effettiva 'qualità' dell'intesa sancita nel tribolato Cdm di martedì notte. Nell'immediatezza, la famiglia veneta ha manifestato «rammarico» per questo esito della vicenda, entrata in una fase critica dopo il crollo del ponte Morandi a Genova e il suo terribile corollario di 43 vittime. È innegabile che per loro ci sarà un'uscita da un business su cui hanno puntato negli ultimi 20 anni. Eppure malgrado gli entusiasmi grillini - per la famiglia l'uscita da Autostrade/Aspi non sarà una disfatta. Anche senza arrivare all'estremo opposto dei leghisti che, con Massimiliano Fedriga, commentano: «Mi pare una grande vittoria dei Benetton: vendono le azioni, ci guadagnano soldi, penso che abbiano accettato un'operazione per loro assolutamente vantaggiosa. E pagano sempre i cittadini». La verità, come spesso capita, probabilmente sta nel mezzo. Il valore di una futura azione Aspi ora non si può definire. Prima di tutto bisogna attendere la revisione formale della concessione e delle nuove tariffe, elementi in base ai quali si potrà capire il possibile rendimento degli investimenti. Comunque, da azionisti di Atlantia, i Benetton si troveranno in possesso di titoli di una società che, dopo l'innesto di capitali freschi da parte di Cassa depositi e prestiti, sarà più solida e 'appetibile' sui mercati. Quando decideranno di cederli, potrebbero ricavarne un incasso discreto: secondo primissime stime, potrebbe oscillare fra i 3 e i 6 miliardi di euro. Forse anche di più. Somme che, all'interno di Atlantia (oggi la società che controlla Aspi), potranno destinare ad altri investimenti. Giova ricordare che, per rilevare nel 1999 da Iri il 30% delle Autostrade privatizzate, i Benetton tramite la società 'Schema28' versarono allo Stato 2,5 miliardi di euro all'epoca (5mila miliardi di lire). Poi, nel 2003 lanciarono l'Opa totalitaria per 6,4 miliardi, per un esborso totale di quasi 9 miliardi. Certo, per loro rimane il rimpianto per un settore che è stato una gallina dalle uova d'oro: dall'ultima relazione della Corte dei conti emerge che, nel 2017, le gestioni autostradali in genere videro schizzare di un altro 3,3% i ricavi da pedaggi, a 5,9 miliardi, mentre gli investimenti (tutti, non solo Aspi) crollarono del 10%, ad appena 959 milioni.

L’accusa di Cottarelli: “Svendita fuori da regole, Aspi piegata col ricatto”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Mentre il premier Conte e la sarabanda del Movimento annunciava pomposamente di aver chiuso il dossier Autostrade, va agli atti che non ci sarà nessuna revoca ma un accordo tra Governo e famiglia Benetton, siglato telefonicamente dal premier, nella notte. Cassa Depositi e Prestiti acquista Autostrade per l’Italia (Aspi): i privati dunque non vengono “cacciati”, ma vengono pagati. Difficile dire se sia la soluzione giusta senza conoscere i termini del Gentlemen agreement, a cominciare dal prezzo. Chiediamo al Professor Carlo Cottarelli, economista (è visiting professor in Bocconi), influente esperto di macroeconomia (commissario straordinario per la spesa pubblica con il Governo Letta) e presidente del Consiglio incaricato per tre giorni, due anni fa, di aiutarci a capire di più nel pasticciaccio di Autostrade. Ma lui alza le mani in segno di onestà intellettuale: «Qui si deve prima di tutto richiamare Socrate, So di non sapere».

Ma come, lei che ha sempre i volumi e le cifre sotto mano…

«C’è una incertezza da tutti e due i lati. Mi sembra che il governo abbia detto ai Benetton che se non avessero ceduto Autostrade, avrebbe tolto loro la concessione».

E invece non c’è nessuna revoca, o sbaglio?

«Ma alla fine Aspi viene nazionalizzata. Benetton riceve un prezzo inferiore al prezzo di mercato. C’è una compravendita fatta al di fuori delle regole e a prescindere dal chiarimento che era necessario avere in giudizio. Una situazione molto strana».

Come se il Governo, per dirla con Davigo, non avesse voluto perdere tempo ad attendere la sentenza.

«Certamente è una cosa strana dal punto di vista del rapporto pubblico-privato. Le responsabilità vanno accertate nel modo più rapido possibile. Il ponte Morandi è crollato due anni fa, ci sono state vittime. Non è possibile per un verso che si proceda con una giustizia-lumaca come questa, per l’altro che in mancanza di un giudizio di responsabilità ssiproceda per presunzione di colpevolezza».

E che si minacci: “Vi togliamo la concessione”, a meno che non vendiate alle nostre condizioni.

«La revoca è stata agitata come una clava, per far uscire i Benetton. Lo si poteva fare in modo diverso, ripeto: le incognite mentre parliamo sono ancora tante, non si sa quale sarà il prezzo ma certamente senza concessione il valore di Atlantia avrebbe perso tutto. Ma prima di dire che l’interesse pubblico è stato servito, si deve dire a quali condizioni».

Come giudica la gestione di questa vicenda?

«Tutta sbagliata. Prima di tutto bisognava accertare le responsabilità. La questione è stata politicizzata sin dall’inizio, è stato tutto un proclama. E una volta solleticata la pancia, è difficile tornare indietro. Il ponte è stato ricostruito, bene. Ma solo a quel punto si sono posti il problema che qualcuno lo dovrà gestire. E inevitabilmente il gestore doveva essere Autostrade per l’Italia. Ma per salvare la faccia hanno dovuto resettare in fretta e furia una vicenda già ingarbugliata».

La manutenzione, il monitoraggio del ponte Morandi ricadeva su Atlantia? I Benetton sono davvero i cattivi di questa storia?

«È quel che mi chiedo anche io. Puniamo il privato cattivo, ma se ci sono responsabilità accertate. Se avessimo un sistema giudiziario in grado di processare un caso in due anni, come sarebbe opportuno, non staremmo qui a fare questa conversazione dell’assurdo. Bisogna che la politica si ponga il problema della ragionevole durata del processo. In un Paese normale, davanti a un caso così grave, in due anni bisognava aver fatto tutti e tre i gradi di giudizio. E invece…»

Torno sulla domanda; siamo sicuri che Atlantia abbia avuto una responsabilità nelle mancate manutenzioni?

«No, non ne siamo affatto sicuri. E per un motivo preciso: che bisogna andare a vedere il contratto. Bisogna leggere cosa prevedeva per il monitoraggio della stabilità e della manutenzione. Io non ho visto il contratto, che è in gran parte segretato. Si è fatto un contratto di natura privatistica, pur sottoscritto da un ente pubblico, e secondo me non doveva essere segretato».

Perché segretare un contratto così importante come quello che regola la sicurezza delle infrastrutture?

«Ci possono essere dei profili legati alla pubblica sicurezza, ma è ora di fare chiarezza e leggere le carte. La presunzione che la società di gestione delle Autostrade non abbia fatto il proprio dovere ha mosso tutto un dibattito pubblico basato su opinioni in libertà, e non è accettabile muoversi solo sulla base dell’emozione, delle pulsioni».

Serve sempre additare un nemico pubblico.

«Sì ma questa deriva non avrebbe spazio in un Paese in cui la giustizia fa rapidamente il suo corso. Siamo uno stato di diritto con il diritto dimezzato».

Ma i Benetton alla fine rimangono dentro, con il 10%. Si è chiuso un Gentlemen agreement, al telefono?

«Ci sarà stato un agreement di qualche tipo, sotto la minaccia della revoca della concessione, con un onorevole accordo tra le parti».

La trattativa segreta Stato-Atlantia.

«Sì, della quale continuo a non sapere molto: non sappiamo qual è il prezzo di vendita. Non un dettaglio da poco. Non è chiaro per niente che si sia fatto l’interesse pubblico. Non si capisce se Cdp sarà in grado di gestire Aspi. Se il gestore precedente è inadeguato si fa una gara sulla base di una competizione e si valuta».

Troppe opere pubbliche ancora ferme, o incompiute.

«C’è stata prima la mancanza di risorse, poi la mancanza di volontà politica e quindi la mancanza di organizzazione. Le procedure sono complicate, la burocrazia rimane un mostro con troppe teste da tagliare».

Il Dl semplificazione aiuterà?

«Mi sembra possa aiutare, bisogna vederlo però. Perché non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. È un decreto approvato salvo intese. Che va nella direzione giusta, per carità, ma ci si scordi che sia la madre di tutte le riforme. La riduzione della burocrazia in Italia non si fa con un singolo decreto».

Del Dl Semplificazione cosa ha letto?

«Io ho le bozze che circolano. E vorrei parlare delle cose con i documenti davanti. Troppe volte in Italia si fa dibattito pubblico su bozze, su battute, su singole dichiarazioni. La politica per prima parla spesso senza sapere».

Il Governo che va avanti con Dpcm. Le piace?

«L’estensione fino a dicembre dello stato di emergenza sanitaria mi sembra esagerata, soprattutto se l’epidemia è sotto controllo. Si può estendere per un mese, ma la decretazione d’emergenza non si può procrastinare in continuazione».

Dopo aver abolito la povertà Di Maio brucia 20 miliardi per far fuori "gli orribili" Benetton. Claudia Fusani su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Non abbiamo proprio scherzato ma poco ci manca. La famosa “vittoria dello Stato” sugli “orribili” Benetton che per anni hanno “approfittato di un bene dello Stato pensando solo al profitto e non alla sicurezza dei cittadini” si traduce, dopo 48 ore di ubriacature lessicali, in un accordo salvo intese. Cioè ancora tutto da scrivere e definire. I paragoni volano verso Di Maio sul terrazzino di palazzo Chigi quando annunciò al mondo che era stata abolita la povertà. Prima che la propaganda faccia altri danni, la ministra De Micheli (che a dir la verità non ne ha mai fatta) corre ai ripari. Ieri pomeriggio ha chiesto alla Aspi dei Benetton “il piano economico-finanziario”. C’è una data tassativa di consegna: il 23 luglio. Dunque dalla telefonata e dalle mail della lunga notte a palazzo Chigi si passa ad un piano vero e proprio. Nel Piano dovranno «essere riportati puntualmente tutti gli elementi anticipati dal concessionario nella proposta transattiva sottoposta alla valutazione del Consiglio dei ministri del 14 luglio». Tra questi impegni c’è «la volontà di effettuare interventi compensativi senza effetto sulla tariffa per un importo di 3,4 miliardi, un programma di investimenti sulla rete autostradale fino a 14,5 miliardi, una consistente riduzione della tariffa». Nella missiva si legge che «il Mit è in attesa di ricevere il Piano per valutarne la rispondenza alle condizioni definite e accettate da Aspi». Questo è il punto. E mentre ieri il titolo Atlantia, il gruppo di cui i Benetton hanno la maggioranza relativa (30%) e con cui controllano Aspi (con l’88%), tornava a perdere in borsa (-4,80%) dopo il rimbalzo di mercoledì (23%), tecnici e analisti si sono messi a fare un po’ di conti.  Alla fine “la svolta dello Stato” potrebbe costare allo Stato più di venti miliardi. Una statalizzazione molto cara in tempi in cui l’Europa chiede di privatizzare e alleggerire il pubblico. Cassa depositi e prestiti, una volta autorizzata l’operazione, dovrà sborsare 5-6 miliardi. È il valore dell’88% in pancia ad Atlantia e dovrebbe essere lo stesso della transazione, della cessione titoli a Cdp che poi gestirà la quotazione Borsa di Aspi. Cdp terrà per sé il 51% e quindi dovrebbe recuperare nell’arco di una anno circa il trenta per cento dell’investimento. Quello effettivo alla fine sarà intorno ai quattro miliardi. Si tratta dei risparmi dei correntisti di Poste italiane. Sappiamo che Aspi si è impegnata per circa 14,4 miliardi di opere di ristrutturazione (da realizzare entro il 2038, anno in cui scade la concessione) e per altri 3,5 miliardi per abbassare le tariffe e fare opere viarie e strutturali in compensazione. In tutto sono 18 miliardi. Chi dovrà sostenere questi investimenti: la vecchia o la nuova Aspi? «La nuova, è ovvio» tagliano corto dal ministero delle Infrastrutture. «Ma saranno più che compensati dai guadagni sui pedaggi». In attesa del Piano finanziario (il 23 luglio) la lista delle domande aumenta. Con le risposte che mancano. Il capitolo cause, malleva, risarcimenti civili. I Benetton sono stati messi a testa in giù in assenza di uno straccio di prova o condanna. Hanno inanellato una serie di errori di comunicazione (il silenzio durato giorni dopo la tragedia delle 43 vittime) e di scelta del management (hanno impiegato un anno per cacciare l’ex ad di Aspi, il responsabile tecnico delle politiche gestionali, dai mancati controlli alle altre omissioni). «Hanno fatto soldi e non si sono occupati della sicurezza» è l’accusa. Ma quello è compito dei tecnici. Francamente non della dinasty di Treviso. Il punto è questo: il penale è individuale e risponderà chi sarà condannato. Ma chi pagherà il risarcimento civile? La vecchia o la nuova Aspi? Anche questa rischia di essere una cifra importante. Il premier Conte si è molto risentito perché, prima del Consiglio dei ministri, Aspi si era rifiutata di farsi carico della manleva di cause e risarcimenti eventuali a terzi. C’è poi il tanto sbandierato tema della difesa dell’interesse pubblico. Quale investitore straniero o anche italiano vorrà in futuro trattare con uno Stato che costringe un imprenditore a scegliere tra la cessione del controllo della società o la revoca della concessione di cui, nel frattempo, si è cambiato unilateralmente il valore dell’indennizzo (da 23 a 7 miliardi)? Non c’è dubbio che in questo caso l’interesse pubblico non coincide con lo stato di diritto. E però, come dicono i cartelli nel video postato dall’ex ministro Toninelli, è stata “una grande vittoria del Movimento 5 Stelle”.

Da Thyssen ad Autostrade: quando il dolore delle vittime è usato come arma politica. Davide Varì su Il Dubbio il 15 luglio 2020. Dalle pressioni per far marcire in cella i dirigenti della Thyssen alla guerra contro i Benetton in nome delle vittime del ponte Morandi, Ma così la civiltà giuridica naufraga. C’è un libro bello e durissimo – ne abbiamo già scritto sul nostro giornale – che si chiama “Il diritto penale totale” ed è firmato dalla penna lucida e tagliente di Filippo Sgubbi. Al centro del libro c’è quello che l’autore, avvocato e professore di diritto, definisce “abuso del paradigma vittimario”. Una descrizione tanto “spietata” quanto vera che calza a pennello con le vicende dolorosissime del rogo Thyssen e del crollo del ponte Morandi. In entrambe le situazioni, per usare le categorie di Sgubbi, il “paradigma vittimario” sembra agire in modo decisivo, tanto da condizionare scelte politiche ed economiche di vitale importanza per il Paese. Una pressione talmente forte da spingere il capo del governo italiano a consegnare al capo del governo tedesco una lettera scritta dai familiari delle vittime del rogo Thyssen. Una lettera drammatica e rabbiosa – e come può essere altrimenti? – nella quale viene espressa la delusione per la decisione di un giudice tedesco di concedere la semilibertà ai due manager della Thyssen, Harald Espenhanh e Gerald Priegnitz, che avrebbero dovuto scontare cinque anni di carcere. I due manager potranno andare a lavoro ogni giorno e tornare nel penitenziario solo per la notte. Ma ai familiari delle vittime non basta e dunque chiedono implicitamente alla Cancelliera di premere sulla magistratura tedesca affinché i due manager scontino la pena in galera. Una cosa che ovviamente non avverrà mai, ma che pure è stata avallata dal nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Se è infatti comprensibile la rabbia dolorosa di chi ha perso un familiare, è quantomeno misteriosa – forse poco opportuna – la decisione di un premier di farsi portavoce di quella rabbia che, per forza di cose, scavalca i principi della civiltà giuridica. L’altra vicenda, del tutto simile alla prima, riguarda il ponte Morandi. Anche in questo caso la leva del dolore dei familiari, il paradigma vittimario, viene utilizzata come una clava politica: «I Benetton non prendono in giro il presidente del Consiglio, ma i familiari delle vittime del ponte Morandi e tutti gli italiani», ha infatti dichiarato Conte. «Vogliamo la revoca della concessione entro il 14 agosto», hanno fatto eco i familiari che da comitato delle vittime, sembrano essersi trasformati in un vero e proprio soggetto politico. Ma, come direbbe Sgubbi, questa degenerazione del diritto colpisce tutti, anche chi si è ritrovato a urlare “giustizia” chiedendo pene esemplari. Perché «nel diritto penale totale il cittadino si presenta solitamente inerme e con scarso potere difensivo». Immerso in un medioevo che ha contribuito a generare.

Autostrade, trovato l'accordo. I Benetton fuori dal Cda. C'è l'accordo dopo un lungo Consiglio dei ministri. Atlantia è pronta a cedere l'88% a Cassa depositi e prestiti. Valentina Dardari, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Ormai ci siamo, sembra che i Benetton saranno presto fuori. L’accordo per la transazione sarebbe stato trovato e ora mancherebbero solo i dettagli, di cui si occuperanno i ministeri dell’Economia e delle finanze e a quello delle Infrastrutture. Questo quanto pervenuto al termine del Consiglio dei ministri, durato tutta la notte e terminato questa mattina verso le 5.30. Nessuna revoca della concessione ma estromissione graduale dei Benetton, entro un anno fuori del tutto, con ingresso di Cassa Depositi e Prestiti nel capitale di Autostrade per l’Italia. Aspi avrebbe accolto tutte le richieste del governo.

Fuori i Benetton, entro un anno. I due ministeri che dovranno definire i dettagli della transazione si occuperanno dell’uscita graduale dei Benetton dalla società e si adopereranno anche per un nuovo accordo sui vari aspetti della convenzione. Entro il 27 luglio dovrà iniziare anche il dialogo di Cassa depositi e prestiti. Nell’accordo raggiunto, la società Atlantia uscirà quindi in modo graduale da Autostrade e farà il suo ingresso Cassa depositi e prestiti. Al centro della discussione è stata la nuova proposta fatta da Autostrade per l’Italia che il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha presentato. Quest'ultima è stata causa di una sospensione di circa un’ora del Cdm. La proposta è quindi stata esposta al premier Giuseppe Conte. La discussione separata non è però piaciuta alla responsabile dell’Agricoltura, Teresa Bellanova che ha mostrato irritazione per quanto avvenuto.

Accettate tutte le condizioni. Il presidente del Consiglio ha chiesto ad Aspi di accettare in toto le condizioni messe sul tavolo. E così è stato. Dopo una lunga trattativa, alla fine si è arrivati all’accordo tanto sospirato. Entro un anno Atlantia, e di conseguenza i Benetton, uscirà da Aspi, mentre entrerà Cdp con quotazione della società in Borsa. Il governo per il momento si sarebbe quindi salvato in corner. Anche perché, con l’esclusione sia della revoca che della decadenza, il governo evita il rischio di dover pagare pesanti sanzioni, fino a 23 miliardi. Nella bozza ci sarebbe l’entrata dello Stato in Autostrade con un pesante capitale, si parla di circa 4 miliardi di euro, e di conseguenza l’uscita piano piano di Atlantia, che oggi ha l’88%. Aspi dovrebbe poi essere quotata in borsa e dare così la possibilità agli attuali azionisti di maggioranza di vendere le proprie azioni. L’obiettivo dei 5Stelle sarebbe quindi raggiunto: eliminare definitivamente i Benetton.

Le reazioni politiche: chi è contento e chi no. Per nulla soddisfatto il Carroccio che, al Consiglio dei Ministri della notte scorsa su Autostrade per l'Italia, ha così commentato l’accordo: "Mesi di chiacchiere per non cambiare nulla: niente revoca ad Autostrade (nonostante le promesse dei grillini) e solo danni miliardari a viaggiatori e imprese, solo in Liguria per oltre 4 miliardi". La Lega ha voluto sottolineare che quello raggiunto è stato un altro cedimento dei 5Stelle nei confronti del Pd. Giusto per non perdere la poltrona. Questa volta non potranno neanche dire che "è colpa di Salvini", ma tanto i genovesi non dimenticano. Della stessa Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia, che non è per nulla soddisfatta e ha spiegato: "Dopo due anni di perdite di tempo e di annunci la concessione resterà in capo ad Autostrade per l'Italia. Usciranno i Benetton, gradualmente e chissà se definitivamente, ed entra Cassa depositi e prestiti. La soluzione finale individuata dal premier Conte è la nazionalizzazione di Aspi. Un'operazione a perdere, che costerà miliardi di euro allo Stato, che farà perdere miliardi di investimenti, che rappresenterà un ennesimo danno per i cittadini e per le imprese. L'intesa che il Cdm ha trovato dopo sei ore di riunione notturna è lose-lose. Perde lo Stato, perdono gli italiani. Gli unici a tirare un sospiro di sollievo sono i 5 Stelle: si chiude una esilarante querelle, i grillini si rimangiano la parola data sulla revoca, ma salvano la poltrona". Di tutt’altro avviso invece il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, che su Facebook ha postato un commento che loda e fa i complimenti a Conte e al governo. “Contrariamente a coloro che dicevano che era impossibile e che lo Stato avrebbe dovuto pagare chissà quali cifre, Benetton uscirà da Autostrade dove entrerà lo Stato al 51% con Cassa depositi e prestiti. Autostrade sarà una società pubblica. Agli italiani è stato restituito quello che era loro. Ben fatto. Finisce finalmente l'era del privato è sempre bello. Complimenti a Conte e al governo". Su Twitter il deputato di Italia Viva, Michele Anzaldi, no le manda a dire al premier: "Titolo Atlantia in Borsa: ieri -15%, oggi +21%. Mai visto un modo di fare simile, che danneggia i risparmiatori e premia gli speculatori. Gestione Conte spregiudicata e opaca. Bastava chiedere la sospensione del titolo. Consob che fa? Partano gli accertamenti annunciati da Savona". Ha parlato di nazionalizzazione anche Benedetto Della Vedova, segretario di Più Europa. Sottolineando che i contribuenti diventano proprietari invece che controllori. Secondo Della Vedova il governo non ha gestito in modo serio la situazione, in quanto “ci sono stati proclami sudamericani. Si era inizialmente parlato di revoca, poi ci si è accorti che, siccome l'Italia è uno stato di diritto, una revoca ideologica fatta senza alcuna base giuridica avrebbe comportato un costo enorme per i contribuenti. Bisognava da subito accertare le responsabilità, punirle e far pagare fino all'ultimo centesimo i danni provocati". Al momento sembrano più gli scontenti.

Andrea Bassi Rosario Dimito per “il Messaggero” il 16 luglio 2020. Non c'è la revoca. Non c'è una nazionalizzazione in stile Ilva, dove la famiglia Riva è stata estromessa senza contropartite. L'accordo di ieri notte prevede che lo Stato si ricomprerà le autostrade da Atlantia, la società controllata dalla famiglia Benetton. Ieri il titolo di quest'ultima è voltato in Borsa, facendo un più 26%. A cosa ha brindato il mercato? Se quella decisa ieri è una compravendita, l'elemento più importante è il prezzo. Quanto pagheranno la Cassa depositi e prestiti e i soci istituzionali per rilevare la maggioranza di Autostrade? Fino a 48 ore fa, il mercato valutava Aspi poco meno di 5 miliardi. Dunque chi ha comprato azioni a mani basse ieri, si aspetta che il prezzo finale sarà più alto di questa cifra. Di quanto, è presto per dirlo. «Aspettiamo una decina di giorni per fare qualunque commento, auspicando che si formalizzi l'accordo», ha commentato Gianni Mion, presidente di Edizione, la cassaforte in cima alla catena Atlantia e manager di lungo corso del gruppo Benetton. E questo la dice lunga sul fatto che le bocce ancora non si sono fermate in una partita dove la famiglia di Ponzano Veneto è stata costretta a farsi da parte, ma non estromessa del tutto, come aveva minacciato Giuseppe Conte. Il prezzo, si diceva. Verosimilmente sarà oggetto di un braccio di ferro perché nel 2017 Aspi è stata valutata 14,8 miliardi, mentre le trattative partite già da tempo con F2i e Cdp si basavano su una valutazione di 9-10 miliardi. Che la discussione non sarà semplice, lo dimostra anche il fatto che nel comunicato finale di Palazzo Chigi la pistola, anche se ormai appare piuttosto scarica, della revoca, viene tenuta sul tavolo. Per definire il prezzo, Cdp ha bisogno di informazioni che al momento non ha. Quale sarà il prossimo quadro tariffario della nuova convenzione? Detto in altre parole, i pedaggi che incasserà basteranno a pagare i 14,5 miliardi di investimenti e a remunerare i risparmiatori postali che prestano i soldi alla Cdp? La Cassa ha la necessità di avere tutti gli elementi per portare in cda un investimento che sia «profittevole». Autostrade ha ricevuto per anni, sui suoi investimenti, un rendimento dell'11%. Ora che arriva Cdp, questo rendimento sul capitale investito verrebbe ridotto al 7% dalle nuove regole tariffarie dell'Autorità dei trasporti che il governo ha chiesto ad Aspi di adottare. Le trattative, insomma, non saranno semplici. Anche perché, per ora, è stata firmata un'intesa solo di massima. Nelle quattro pagine intestate Definizione della procedura di contestazione della Concessione, frutto di una proposta iniziale di Atlantia e Aspi integrata da un addendum, le parti si impegnano a firmare un memorandum of understanding (mou) entro il 27 luglio cristallizzando le varie fasi del percorso, già abbozzate nelle quattro pagine firmate da Bertazzo e Tomasi. «Auspicabilmente entro il 30 settembre dovrebbe essere definito e concluso sia l'aumento di capitale di Aspi a favore di Cdp per un 33% - si legge nelle carte - sia la vendita di un ulteriore 22% a investitori istituzionali di gradimento di Cdp». Tra questi potrebbe esserci BlackRock ma anche qualche grande fondazione bancaria, magari la stessa Crt che detiene il 4,9% di Atlantia: ha la liquidità e potrebbe voler presidiare l'investimento e le ricadute sul territorio. In questo primo step, l'assetto di Autostrade vedrà la cassa e i fondi al 55%, Atlantia diluita dall'88 al 37% mentre Allianz e Silk Road Fund dal 12 all'8%. Successivamente, in base all'impegno assunto, «è prevista la creazione di un veicolo societario», cioè una nuova Aspi, «e la contestuale quotazione in borsa del veicolo societario nei successivi 6-8 mesi». La nuova Aspi nascerà mediante scissione proporzionale a favore degli azionisti Atlantia: Edizione avrà l'11%, il flottante sarà al 26%, Cdp & alleati al 55%, i due soci minori con l'8%. Tutto ciò che non è specificato, a cominciare dai valori e dalla governance, sarà oggetto di trattative fra le parti. Ieri mattina il cda di Atlantia e nel pomeriggio quello di Aspi hanno preso atto dell'esito della proposta recapitata al governo. Finora dal 13 agosto 2018 a ieri, per le responsabilità del crollo del Ponte, le azioni Atlantia hanno bruciato il 41,7% del valore, pari a 8,5 miliardi di cui 2,55 miliardi a carico di Ponzano Veneto. Come avverrà l'ingresso dello Stato tramite la Cdp? In tre tempi. Dovrebbe essere nazionalizzata Autostrade per l'Italia, passando da Atlantia-Benetton sotto il controllo di una cordata guidata da Cdp. E' l'esito maturato alle 5,30 di mercoledì 15, a Palazzo Chigi, dopo un negoziato no-stop telefonico di sei ore fra i ministri Roberto Gualteri, Paola De Micheli, e i manager Carlo Bertazzo e Roberto Tomasi. Finisce così la vicenda scoppiata con il crollo del ponte e le 43 vittime e proseguita per due anni con la croce messa addosso ai Benetton. Ora si apre una stagione definita sulla carta, ma tutta da scrivere nei contratti con le incognite legate alla politica. Tra gli obiettivi dell'operazione, come descritti nella proposta inviata da Aspi e Atlantia a Palazzo Chigi, «figura la necessità di assicurare la necessaria trasparenza tramite un'operazione di mercato, per dare garanzie agli stakeholders di Atlantia e Autostrade, compresi gli investitori istituzionali e retail, nazionali ed esteri».

(ANSA il 15 luglio 2020) - L'uscita dei Benetton da Autostrade per l'Italia e l'ingresso dello Stato richiede procedure "che si misurano nell'arco di un anno: entro settembre ci sarà un primo passaggio molto rapido di perdita di controllo". Così il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli.

(ANSA il 15 luglio 2020) - Piazza Affari infrange un nuovo diaframma in Piazza Affari, dove guadagna il 25,69% a 14,28 euro, riportandosi ai livelli dello scorso 8 luglio. Recuperati gli 1,7 miliardi di euro persi lunedì scorso (-15,19% a 11,36 euro) dopo la bocciatura del presidente del consiglio Giuseppe Conte alla proposta da 3,4 miliardi di euro di Aspi. Un calo, quello di lunedì, superiore a quello registrato tra il 4 e il 18 marzo scorsi, quando il titolo era precipitato fino a 9,82 euro a seguito dei dati di traffico autostradale e aeroportuale per l'emergenza Covid. Il balzo odierno supera la debacle del 16 agosto 2018 (-22,25%) all'indomani del crollo del Ponte Morandi, ma con un prezzo ben al di sotto dei 18,3 euro di allora.

(AWE/Finanza.comil 15 luglio 2020) - Milano in corsa grazie anche a speranze sul vaccino anti-Covid e ai conti oltre le attese di Goldman Sachs che hanno alimentato gli acquisti anche a Piazza Affari. Il Ftse Mib ha superato di slancio quota 20mila chiudendo a 20.281 punti, in salita del 2,02%. Bene anche lo spread che si mantiene stabile a 165 punti base, con il rendimento del decennale italiano si attesta all'1,2% sul mercato secondario. Altra spinta al mercato italiano è la fumata bianca sul nodo Autostrade con l'accordo nella notte tra governo e Atlantia. Aspi passerà sotto il controllo pubblico con la progressiva uscita di Atlantia attraverso la sottoscrizione di un aumento di capitale riservato da parte di Cdp e l'acquisto di quote partecipative da parte di investitori istituzionali. A Milano il titolo Atlantia ha chiuso a +26,65% a quota 14,49 euro. (...)

Dagoreport il 15 luglio 2020. Chi ha vinto davvero nel duello all’ultimo ponte con i Benetton? Tutti, a partire da Conte, hanno voglia di fingersi trionfatori di una triste sceneggiata durata due anni. Il volpino di Palazzo Chigi ha prima proclamato che quello di Aspi è “un altro dossier ricondotto alla ragione” ma poi si è affrettato a precisare che l’accordo faticosamente raggiunto ieri notte, tra governo e Benetton, "andrà tradotto nei prossimi giorni in un accordo chiaro e trasparente". La verità che “Giuseppi” prima ha alzato la cresta e poi ha dovuto abbassarla, perdendo la faccia. Nell’intervista al “Fatto”, parlando con il suo mentore e grillo parlante Marco Travaglio, aveva baldanzosamente minacciato: “I Benetton ci prendono in giro, così sarà revoca”. E commentando l’irricevibile proposta del gruppo aveva rincarato: “Per me c’è una sola scelta e ce l’hanno imposta loro”. Ma alla fine della pantomina, dopo tanto ciarlare, diurno e notturno, la revoca non c’è stata. Il bau bau di Conte, camuffato come un qualunque scamisados alla Di Battista, è stato apparecchiato non solo per compiacere Travaglio e la linea intransigente del “Fatto”, ma il vero obiettivo era di sorpassare a sinistra il Poltronificio Di Maio per sistemarsi politicamente alla guida del Movimento. Tra l’altro questo scappellamento intransigente e propagandistico di Conte Casalino è arrivato mentre Luigino incontrava Gianni Mion, presidente di “Edizione” e uomo di fiducia della famiglia di magliari veneti, per intavolare una trattativa già apparecchiata da Paola De Micheli. E alla fine la sceneggiata di Conte, come al solito, si è risolta in una ennesima presa per il culo. Intanto, la fatidica parola “revoca” non c’è, sostituita da trattativa. E stamattina la “vittoria” di Conte-Travaglio è stata così accolta in Borsa: il titolo di Atlantia ha guadagnato il 25,69% riportandosi ai livelli dello scorso 8 luglio e recuperando 1,7 miliardi persi lunedì scorso. Perché, accantonando la fatidica revoca, si è evitata la palude di un lungo e incerto strascico legale e giudiziario. E finché c’è trattativa, per i Benetton c’è speranza. Infatti, i giornaloni che sostengono che sarà Cassa depositi a entrare in Autostrade, ma nessuno specifica in quanto tempo. Non basta: non c’è nessun indizio su quanto sarà costretta a sganciare Cdp per rilevare le quote della famiglia Benetton. Ancora: nessun accenno entro quanto tempo verrà sostituito il management di Autostrade per l’Italia (Aspi) e da chi? Infine, nessuno ha un’idea chiara e date precise su come e quando Aspi diventerà una public company. Il ministro dello sviluppo economico, Patuanelli, ha spostato l’orizzonte molto in là: “L'uscita dei Benetton da Autostrade per l'Italia e l'ingresso dello Stato richiede procedure che si misurano nell'arco di un anno: entro settembre ci sarà un primo passaggio molto rapido di perdita di controllo". Segnate in agenda: si parla di un anno, almeno. Qual è la “morale della fava”? Scongiurata la tanto minacciata revoca, ora ci si siede a tavolino e partirà una trattativa lenta, lunga, cavillosa in cui ognuno tirerà l’acqua al suo casello. Ma se Conte ha perso la faccia e il ciuffo per aver fatto il duro, ora può riaccomodarsi in poltrona.

Da corriere.it il 15 luglio 2020. «Ieri è successo qualcosa di assolutamente inedito nella storia politica italiana. Il governo ha affermato un principio, in passato calpestato: le infrastrutture pubbliche sono un bene pubblico prezioso, che deve essere gestito in modo responsabile, garantendo la piena sicurezza dei cittadini e un servizio efficiente». Il premier Giuseppe Conte commenta così l’intesa raggiunta sul dossier Aspi all’alba, al termine di un delicatissimo Consiglio dei ministri. E poi: «È stata scritta una pagina inedita della nostra storia. L’interesse pubblico ha avuto il sopravvento rispetto a un grumo ben consolidato di interessi privati.Ha vinto lo Stato. Hanno vinto i cittadini», aggiunge. Quanto concordato ieri notte nel corso del Consiglio dei ministri tra governo e Benetton «andrà tradotto nei prossimi giorni in un accordo chiaro e trasparente. Questa è l’unica strada che potrà impedire la revoca della concessione». Con l’intesa su Aspi, aggiunge il premier, «avremo tariffe più eque e trasparenti, più efficienza, più controlli, più sicurezza». E infine: «Non spetta al governo accertare le responsabilità penali per il crollo del Ponte Morandi. Questo è compito della magistratura e confidiamo che presto si completino questi accertamenti in modo da rendere giustizia a tutte le vittime di questa tragedia». Perché « ha vinto il rispetto della memoria delle 43 vittime del crollo del Ponte Morandi», aggiunge. «Torna agli italiani ciò che è sempre stato loro, cioè una infrastruttura importante come quella autostradale». Lo ha detto il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli interpellato sull’accordo raggiunto stanotte in consiglio dei ministri tra governo e famiglia Benetton su Autostrade. «È un risultato che solo questo governo poteva portare a casa, soprattutto questo presidente del consiglio. Questa notte — aggiunge il ministro Patuanelli — è stata una notte importante non solo per il governo ma per tutto il Paese, per le vittime del Ponte Morandi, la giustizia la farà la magistratura, ma dal punto di vista etico e politico non potevano lasciare la gestione di autostrade a chi ne ha causato il crollo di una parte importante. Credo che sia un risultato che va affinato nelle prossime ore ma ritengo che sia giusta la presenza dello Stato, il M5S lo dice da sempre: la privatizzazione delle autostrade è stato un suicidio economico oltre che gestionale». E infine: «Siamo soddisfatti, perché abbiamo sempre detto di togliere la gestione autostradale si Benetton, questo è un passaggio importante di quello che è successo stanotte». Trionfante nei toni anche il leader reggente del Movimento: «I Benetton escono da Autostrade per l’Italia ed entra lo Stato: quel che andava fatto è stato fatto — commenta Vito Crimi —. Le istituzioni hanno esercitato fino in fondo il loro ruolo, affinché l’interesse pubblico prevalesse sul privato. Abbiamo ottenuto un risultato straordinario, reso possibile solo grazie alla incrollabile determinazione del Movimento 5 Stelle, che inizialmente qualcuno considerava “follia”». Sulla stessa linea c’è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (M5S): «I Benetton hanno accettato le condizioni del governo — commenta l’ex leader del Movimento —. Lo Stato diventerà il primo azionista di Autostrade, la famiglia Benetton avrà meno del 10% delle quote ed entro qualche mese uscirà definitivamente da Aspi. Questo significa che i Benetton non gestiranno più le nostre autostrade. Era il nostro principale obiettivo. E ce l’abbiamo fatta». E poi: «Dopo molte battaglie, lasciatemi dire che è un ottimo risultato. Impensabile fino a un anno fa, quando nella precedente esperienza di governo c’era chi continuava ogni giorno a mettersi di traverso». Il segretario del Pd Nicola Zingaretti dà totale appoggio alla decisione dell’esecutivo: «Le scelte e i risultati del governo sulla vicenda Aspi sono molto positivi per l’Italia — commenta il leader dem —. La sicurezza e l’interesse pubblico prima di tutto. È stato premiato il lavoro di squadra: la fermezza del premier Conte che ha indicato una strada, il grande impegno di tutti i ministri del Governo, la collaborazione fattiva di tutte le forze di maggioranza anche nei passaggi più difficili». Dura la replica della Lega: «Nessuna revoca (come promesso dai 5Stelle) — tuona il leader del Carroccio, Matteo Salvini —, tanti altri soldi pubblici spesi e, anche oggi, cantieri fermi e le solite code, in Liguria e in mezza Italia. Incapaci o complici?». Molto critica anche la reazione di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia: «Su Autostrade è finita a tarallucci e vino, con un percorso solo immaginato e ancora tutto da fare, da qui a un anno è facile che il governo non sia nemmeno più lo stesso e con il Pd a controllare il ministero dei Trasporti, i Benetton possono dormire su due guanciali. Il contratto capestro stipulato a fine anni ‘90 rimane tale, sulle infrastrutture strategiche continuano a banchettare le oligarchie di casa nostra e gli stranieri. In pratica, hanno evitato la revoca ad Autostrade, «con il favore delle tenebre»».

Autostrade allo Stato, ma l'affare lo fanno i Benetton. Federico Novella il 15 luglio 2020 su Panorama. Nella prima mattina dopo il faticoso accordo in Consiglio dei Ministri, le azioni di Atlantia sono volate alle stelle in Borsa. Segno che secondo il mercato, cioè secondo quelli che muovono i soldi veri, la partita delle Autostrade è stata vinta dai Benetton. A dispetto delle dichiarazioni trionfalistiche di queste ore, "pugno duro di Conte contro la famiglia di Treviso", ci sia perlomeno consentito il beneficio del dubbio su chi ha sferrato il pugno, e chi l'ha incassato. Sicuramente la sberla la prenderanno i contribuenti italiani, visto che quella che doveva essere una cacciata è diventata praticamente un salvataggio. Altro che revoca della concessione: siamo di fronte a null'altro che un ottimo affare per gli azionisti. Anziché pagare per il crollo del ponte Morandi, i Benetton saranno pagati dallo Stato per la cessione delle quote di controllo, eviteranno il default e resteranno comunque nella proprietà. Non sembra esattamente una bastonata, dal momento che stiamo parlando di una tragedia costata la vita a 43 persone a causa di una mancata manutenzione. D'altro canto lo Stato, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, con i nostri soldi, si accinge a comprare una società zeppa di debiti. E almeno in un primo momento dovrà sborsare una montagna di denari per rattoppare le autostrade, curare l'ammodernamento della rete, abbassare i pedaggi e magari risarcire le vittime del crollo del ponte. Se questo è un capolavoro, figuriamoci le fregature. E tutto con buona pace dei cinquestelle, che dopo essersi giocati la faccia sulla Tav, si preparano a trangugiare una dose da cavallo di Tavor sulla pratica Benetton, provocando ulteriori scosse telluriche sulla tenuta dell'esecutivo. Quanto ci costerà l'ingresso di Cdp in Autostrade, nel lungo percorso che dovrebbe sfociare nella public company? Fondamentalmente non lo sappiamo, e non è un particolare da poco. Oggi facciamo finta di nulla – come se sguazzassimo nei soldi – ma è proprio sull'entità del conquibus che si giudicherà il senso dell'operazione: servirà del tempo per calcolare il valore della rete, e potranno esserci brutte sorprese per le tasche dei cittadini quando si tireranno le somme. E poi: quanto tempo occorrerà per portare a compimento il piano partorito in fretta e furia alle prime luci dell'alba, dopo due anni di colpevole immobilismo governativo? Settimane, mesi, anni? E quale compagine dirigenziale sarà chiamata a gestire la società? Sono tutte domande senza risposta: ci raccontano di aver trovato in una notte la formula magica che risolve per sempre la questione autostrade, come il famigerato "Si può fare!" del dottor Frankestein. Ma il percorso è disseminato di buche. Sarebbe stato meglio affrontare la faccenda per tempo, senza ridursi all'ultimo minuto, alla luce del sole: non certo avvolti nelle tenebre d'una notte di mezza estate.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 16 luglio 2020. Per capire chi abbia vinto o perso nella battaglia di Autostrade è sufficiente guardare come ha reagito la Borsa. Dopo la diffusione della notizia dell'accordo trovato in extremis nella notte fra martedì e mercoledì, le azioni di Atlantia, la holding della famiglia Benetton che ha in pancia Aspi, cioè la concessione oggetto della guerra con il governo, sono schizzate all'insù, toccando il record del 26,6 per cento. I titoli nei giorni precedenti erano scesi di molto e a un certo punto, quando Giuseppe Conte aveva minacciato di procedere alla «caducazione», il mercato non era riuscito neppure a fissare un prezzo, come se gli investitori si volessero liberare in fretta di quelle azioni. Dunque, la logica induce a pensare che di fronte alla notizia del passaggio di Autostrade a Cassa depositi e prestiti, la Borsa abbia tirato un respiro di sollievo. Anzi, abbia capito che i Benetton sono i veri vincitori della partita e per questo fondi e speculatori si sono buttati a comprare i titoli di Atlantia. Del resto, non ci vuole molto a capire che dietro al trionfalismo con cui Palazzo Chigi ha presentato l'intesa si nasconde in realtà una vera e propria disfatta del governo. Dopo aver annunciato per mesi intenzioni bellicose, l'esecutivo si è limitato a comunicare che, tempo sei mesi o un anno, si procederà alla riduzione della quota detenuta dai Benetton dentro Autostrade, in modo da trasformare Cassa depositi e prestiti nel principale azionista. Di fatto si tratta di una nazionalizzazione di Autostrade, ma ciò che appare evidente è che il passaggio dal proprietario privato a quello pubblico non sarà senza indennizzo, ma anzi potrebbe costare una cifra esagerata per le casse dello Stato. Il nocciolo della questione, del resto, è sempre stato questo fin dal 14 agosto di due anni fa, cioè quando di fronte all'indignazione dell'Italia intera Giuseppe Conte annunciò che avrebbe tolto ai Benetton la concessione autostradale, senza neppure attendere la pronuncia della magistratura. Cacciare la famiglia di Ponzano avrebbe fatto scattare le pesanti penali previste dal contratto stipulato con lo Stato, consentendo ai magliai veneti di portarsi a casa 23 miliardi, una cifretta mica male per chi era indirettamente accusato di non aver vigilato sulla sicurezza della rete ricevuta in gestione dallo Stato. Per evitare di pagare il risarcimento, tempo fa il governo cambiò la clausola, scendendo da 23 a 7 miliardi, ma il blitz è stato contestato dai Benetton i quali, non senza ragioni, sostengono che non sia possibile cambiare un contratto dopo averlo sottoscritto. Ora però, leggendo ciò che hanno annunciato Conte e compagni, sembrerebbe che i Benetton ci abbiano ripensato e siano pronti a cedere su tutta la linea e cioè a rinunciare al braccio di ferro con il governo, agli aumenti dei pedaggi e anche a pagare pegno e cioè a risarcire lo Stato con 3,4 miliardi. A leggere le condizioni imposte messe in rete da Palazzo Chigi, certo non ci sarebbe alcun motivo per festeggiare e gli investitori non ne avrebbero nessuno per comprare le azioni di una società che rischia di pagare a caro prezzo la partecipazione di Autostrade, cioè privata del suo asset più redditizio e pure costretta a indennizzare lo Stato.Ma in realtà le cose non stanno così, prova ne sia che Enrico Zanetti, ex viceministro dell'Economia ai tempi di Matteo Renzi, ha subito capito dove stesse il trucco. Il governo, annunciando di aver raggiunto l'intesa che costringe i Benetton a scendere all'11% in Autostrade, si è infatti dimenticato di spiegare quanto pagherà alla famiglia dei maglioni a colori Cassa depositi e prestiti. E allo stesso tempo non ha spiegato chi finanzierà gli investimenti previsti per la messa in sicurezza della rete autostradale e chi si farà carico dei debiti pregressi. Da Palazzo Chigi si sono limitati a comunicare che, tempo un anno, e Autostrade sarà scorporata da Atlantia, Cdp diventerà l'azionista di maggioranza con il 51%, mentre i Benetton saranno diluiti all'11 grazie all'ingresso di investitori istituzionali, che molto probabilmente altri non saranno che il fondo F2i, di cui per altro Cassa depositi e prestiti detiene il 14%. In pratica, Cdp si fa carico del problema: ma come? Cioè quanto pagherà ai Benetton? C'è chi dice che la cifra non sarà di quelle da far paura. Possibile. Perché a far paura sarà il debito che Atlantia trasferirà al nuovo ramo d'azienda e gli impegni finanziari per oltre 14 miliardi. Uscendo dall'azionariato è vero che i magliai non saranno più padroni di Autostrade, ma non avranno più né debito né obblighi, perché i guai rimarranno tutti in capo allo Stato. Ciò significa che alla fine i Benetton, che per anni hanno incassato lauti dividendi, escono senza pagare il conto. Chiaro dunque perché la Borsa festeggi? Festeggeremmo anche noi se ci fossimo alleggeriti di una montagna di problemi rimanendo liquidi. Gli unici che però non hanno motivo di festeggiare sono gli italiani, che si ritrovano cornuti e mazziati.  

Toccherà agli italiani pagare i debiti dei Benetton. Nino Sunseri il 16 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Vola Atlantia in Borsa dopo l’accordo raggiunto con il governo per il riassetto di Autostrade che prevede la progressiva uscita della holding della famiglia Benetton dal capitale. Il titolo per tutta la giornata ha marciato a grande velocità ampliando il rialzo minuto dopo minuto. Alla fine ha guadagnato circa il 25% a 14,4 euro annullando le perdite degli ultimi giorni. Un gran sospiro di sollievo perché è stato scongiurato (anche se non del tutto annullato) il rischio della revoca che avrebbe travolto tutto il gruppo. Ma dietro questo rialzo c’è dell’altro. Perché forse, a guardar bene il vero affare lo hanno fatto proprio i Benetton. In un colpo solo si sono liberati di una società che l’avarizia della loro gestione ha ridotto in condizioni non certo ottimali. Perché non ci sono solo le 43 vittime del Ponte Morandi ma anche i 40 ragazzi morti ad Avellino a causa di un pullman con i freni rotti caduto in un burrone. I periti del Tribunale hanno stabilito che una maggiore solidità delle barriere avrebbe sicuramente limitato i danni. Ma non finisce qui. I Benetton restituiscono allo Stato un’azienda fortemente indebitata e con prospettive reddituali decrescenti visto che dovrà tagliare i pedaggi (almeno il 5% in prima battuta) e aumentare considerevolmente gli investimenti e gli indennizzi al territorio. Il forte rialzo di Atlantia nell’aridità di una quotazione di Borsa contiene tutti questi messaggi positivi per i soci di Atlantia. L’intesa raggiunta nella notte a Palazzo Chigi prevede, in estrema sintesi, l’ingresso di Cdp nel capitale di Aspi con una partecipazione del 33% attraverso un aumento di capitale da tre miliardi, la successiva vendita da parte di Atlantia del 22% della concessionaria a investitori istituzionali (graditi a Cassa) per una cifra che deve essere ancora stabilita. Atlantia manterrà una quota dell’11% che potrà monetizzare nella successiva quotazione in Borsa di Autostrade per concentrarsi sulla gestione degli aeroporti (a cominciare da Fiumicino e Ciampino) e sulle attività all’estero. In queste condizioni non è certo un azzardo dire che la furia ideologica impressa dai Cinquestelle a tutta questa vicenda finirà per accollare allo Stato un costo esorbitante. A cominciare dall’enorme debito di Autostrade la cui garanzia miliardi passerà da Atlantia ai nuovi proprietari. A fotografare la situazione è Standard & Poor’ s. Il debito di Aspi, secondo la più nota agenzia di rating mondiale, ammonta a circa 9,8 miliardi di euro, inclusi 7,7 miliardi di obbligazioni di cui 3,9 miliardi garantiti da Atlantia (e domani dalla nuova proprietà). Autostrade ha poi 2,1 miliardi di linee di credito, cui si sommano i 900 milioni messi a disposizione sempre dalla controllante Atlantia, il 24 aprile scorso, a copertura dei fabbisogni finanziari nel piano di cassa per il periodo 2020-2021. E così siamo già abbondantemente sopra i 10 miliardi. E poi ci sono i 7,5 miliardi che il governo ha chiesto fra investimenti e manutenzione sulla rete, destinati a mettere in sicurezza ponti, viadotti, cavalcavia, gallerie, pavimentazioni, barriere di sicurezza. Aggiungiamo il taglio dei pedaggi che farà evaporare almeno 150 milioni di incassi l’anno. Nel calcolo bisogna aggiungere le risorse con cui F2i, Cassa Depositi e i loro alleati dovranno sottoscrivere l’aumento di capitale destinato a portarli in maggioranza. Quanto dovranno investire? Di cifre si comincerà a parlare solo dopo il 27 luglio. Nel frattempo sappiamo che i soci di minoranza di Autostrade (Allianz, Edf, Silk Road) nonostante il pandemonio dell’ultimo mese hanno mantenuto invariato , nell’ultimo aggiornamento di bilancio, il valore di libro delle loro partecipazioni che attribuisce ad Aspi un valore complessivo di 11,4 miliardi. Alla fine il conto per riportare sotto l’ala dello Stato i 2854,6 chilometri di rete in concessione ai Benetton, rischia di essere molto salato. Non meno di 20 miliardi di euro, fra debiti, investimenti in ammodernamento e manutenzione, tagli ai pedaggi e fiche d’ingresso a carico dei nuovi soci per acquisire la quota di controllo in Autostrade . Visto che alla fine paga lo Stato è naturale la soddisfazione dei protagonisti. I Cinquestelle perché Autostrade non sarà più classificabile come parte gruppo Benetton. L’anima “trattativista” del Pd (Gualtieri e De Micheli) che ha ottenuto quello che voleva. Il premier Conte che avrà il suo successo: il 10 giugno all’inaugurazione del nuovo Ponte di Genova potrà dire che lo sta riconsegnando ad Autostrade ma non più ai Benetton.

Tutte le balle di Di Maio sui Benetton e sul Morandi. Prima prometteva la revoca della concessione, poi ha cambiato linea. E ha tradito le promesse ai familiari delle vittime. Domenico Ferrara, Giovedì 16/07/2020 su Il Giornale.  In politica l'opportunismo è un frutto buono per tutte le stagioni. Ne sa qualcosa il ministro Luigi Di Maio che sul caso Benetton è passato da incendiario a pompiere. Il tutto senza ammetterlo però. Perché è qui che sta l'apice della paraculaggine. Dopo aver urlato, minacciato e promesso la revoca della concessione, oggi che la revoca non è andata in porto rilascia al Corriere della Sera un'intervista che presenta dei tratti quasi parossistici. "Beh i Benetton fuori da Autostrade non mi sembra di certo un favore. Certo, serve realismo perche è una operazione di mercato e non è la revoca", dichiara Di Maio. Ma come mai non ha usato la stessa dose di realismo quando col pugno duro dava per certa la revoca? La farsa poi continua quando sostiene: "Guardi che non è un caso che io nelle ultime settimane non abbia parlato di revoca, quindi posso capire che qualcuno nel Movimento 5 Stelle poteva vantare aspettative diverse, ma il presidente del consiglio ha avviato un negoziato per ottenere un risultato, che come le ho già detto io ritengo soddisfacente". Quindi ora Di Maio si accontenta e scarica le responsabilità sul premier? Infine l'apoteosi del voltagabbanismo. Alla domanda: "Ma lei avrebbe preferito la revoca oppure no?", la risposta è: "Sarò per la revoca se questa operazione non porterà un abbassamento delle tariffe e più sicurezza per gli italiani". Insomma, abbiamo scherzato. La revoca non è più un mantra né un grido di battaglia per mostrare la forza del Movimento 5 Stelle. Sembra quasi che Di Maio si sia democristianizzato. Eppure non serve andare troppo indietro nel tempo per rileggere alcune dichiarazioni non proprio moderate. Qualche esempio? Il 16 agosto 2018 il pentastellato affermava: "La nostra intenzione è revocare la concessione ad Autostrade per l'Italia. La posizione del governo è che chi non vuole revocare le concessioni ad Autostrade deve passare sul mio cadavere. C'è un volontà politica chiara. Noi non solo utilizzeremo tutta la procedura per revocare le concessioni, ma daremo anche la multa fino a 150 milioni di euro. Se ci faranno ricorso andremo in tribunale, ma andremo fino in fondo". In quel mese il grillino fa un annuncio al giorno. E tutti dallo stesso tenore: "L'unica strada che il governo seguirà è quella di andare avanti con la procedura di revoca. Le loro scuse servono a poco e non vi è modo di alleviare le sofferenze di una città distrutta dal dolore. Abbiamo fatto una promessa ai familiari delle vittime e a tutti i cittadini rimasti coinvolti nella tragedia di Genova e la onoreremo andando fino in fondo". A distanza di un anno, siamo nel luglio 2019, la musica non cambia. "Su Atlantia c'è una relazione del Mit che parla chiaro, adesso bisogna avviare la procedura di revoca delle concessioni autostradali. Per me devono avere giustizia i morti del ponte Morandi e le loro famiglie". Nel settembre 2019 la sicumera di Di Maio addirittura aumentava sollevata da una sorta di condivisione di strategia da parte del Pd: "Su autostrade andiamo avanti con la volontà di revocare le concessioni ai Benetton, ad un'azienda che non ha mantenuto il ponte Morandi e addirittura ha nascosto le carenze manutentive: mi fa piacere che pure per il Pd questa parola non sia più un tabù". A una iniziativa di Rousseau, il grillino rassicurava la platea di iscritti e amministratori M5s: "Avete visto quello che si è scoperto ieri su ponte Morandi: perizie, documenti falsati, arresti. Spesso ci dite: ma quella cosa non l'avete fatta piu, non è vero! L'iter per la revoca è partito mesi e mesi fa, ma è un iter che bisogna percorrere con molta attenzione per arrivare all'obiettivo". Il 21 novembre Di Maio ci crede ancora: "È un anno che cerchiamo di togliere le concessioni, c'è una battaglia legale, la vinceremo". Anno nuovo stesse promesse. Siamo a gennaio 2020 e Di Maio insiste: "Nel milleproproghe abbiamo inserito la norma sulle concessioni autostradali. Questo decreto dice finalmente che si avvia un percorso per alcune infrastrutture che ci permette di revocare le concessioni ai Benetton". Poi piano piano l'attenzione verso la vicenda scema. Di Maio ne parla poco o quando lo fa usa termini meno perentori. È il preludio di quello che verrà. Delle promesse non mantenute e della vittoria di Pirro, almeno se si considerano le parole del grillino. Alla fine a pagare saranno solo i familiari delle vittime, illusi ancora una volta dalla politica, soli e abbandonati nella loro tragedia.

(ANSA il 16 luglio 2020) - "Autostrade ha un debito complessivo di circa 10 miliardi e, di questi, circa 2 miliardi sono con la Cassa depositi e prestiti. Ne consegue, configurando in qualche modo un paradosso, che Cdp, entrando nel capitale di Aspi (Autostrade per l'Italia) si ricomprerà un suo debito". Lo ha detto il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, durante la trasmissione Coffee Break su La7. Sileoni ha spiegato che "il prezzo di vendita di Aspi, che è il nodo più importante, è ancora tutto da definire, per capire chi ha vinto e chi ha perso. A oggi non è stato fissato il prezzo delle nuove azioni al quale saranno vendute sul mercato. Il valore, infatti, è un rebus. Secondo alcune valutazioni, si dovrebbe attestare fra i 5 e 10 miliardi, mentre i Benetton potrebbero incassare tra i 3 e i 6 miliardi. Ma per ora rimane tutto una incognita".

Quelle accuse dei grillini contro Conte: "Così ti sei piegato ai Benetton". Accuse contro il premier per il risultato finale su Autostrade: "Altro che vittoria. Prima avevi promesso la revoca, questo è un arretramento". Luca Sablone, Giovedì 16/07/2020 su Il Giornale. I grillini fanno il loro gioco: sanno benissimo che il risultato finale sulla questione Autostrade è del tutto diversa da quella auspicata e promessa subito dopo il crollo del Ponte Morandi, ma nonostante ciò esultano e si spacciano per eroi nazionali. La revoca però non c'è stata: dopo una faticosa e turbolenta trattativa durata tutta la notte, il dossier Autostrade si è concluso con l'uscita graduale dei Benetton e l'ingresso di Cassa Depositi e Prestiti in Autostrade al 51%. Dunque la soluzione prevede la transazione della concessione, con l'uscita della famiglia Benetton dall'azionariato di Aspi. È evidente che i pentastellati non hanno avuto l'onestà intellettuale di ammettere il loro fallimento, ma nel corso del Consiglio dei ministri non sono mancati momenti di forte tensione specialmente ai danni del premier Giuseppe Conte. Come riportato dall'edizione odierna de La Repubblica, a raggelare il presidente del Consiglio sarebbe stato Luigi Di Maio. La situazione si sarebbe scaldata in seguito alle parole pronunciate da Dario Franceschini: "Presidente, ti va dato atto che tenendo una posizione ferma hai portato a casa una vittoria per tutti". Una sorta di provocazione che avrebbe innescato immediatamente la reazione da parte del ministro degli Esteri: "Scusa, ma per noi non è una vittoria. Otteniamo un risultato importante, ma sembrerà un arretramento". L'ex capo politico del Movimento 5 Stelle avrebbe fatto notare che effettivamente nei giorni scorsi l'avvocato aveva pronunciato parole tanto dure quanto chiare, chiudendo di fatto ai Benetton: "Non saremo loro soci". Da qui sarebbe nata l'ira del titolare della Farnesina che, seppur senza nominarlo, avrebbe accusato di incoerenza il capo del governo giallorosso: "Solo due giorni fa il governo ha sostenuto pubblicamente la revoca. Io non ne parlavo da un po’, a dire il vero, ma voci autorevoli si sono espresse a favore. Abbiamo alzato l’asticella, poi la tiriamo giù". Di Maio si sarebbe lasciato poi andare a un ulteriore affondo, preoccupato dal malcontento della base grillina a cui era stata promessa la revoca a tutti i costi: "Molti tra i nostri non capiranno. I Benetton restano soci, mentre ci eravamo impegnati con gli italiani per la revoca. Lo so che tra un anno usciranno, ma intanto noi dovremo sopportare le critiche". Pertanto ha chiesto un favore: "Da domattina cercheremo di spiegare noi al nostro mondo cosa è successo, lasciateci fare". Come a dire: Giuseppe, fatti da parte che a risolvere i problemi in casa nostra ci pensiamo noi.

Danilo Toninelli preso a pesci in faccia anche dal Fatto di Travaglio: "Autostrade vittoria sua e del M5s? Ma da ministro, anche lei..." Libero Quotidiano il 16 luglio 2020. Ormai Danilo Toninelli è diventato un disco rotto su Autostrade per l’Italia. Qualsiasi sia la domanda, lui risponde che l’accordo che estrometterà i Benetton da Aspi è una vittoria del premier Giuseppe Conte e del Movimento 5 Stelle. Per tutti gli altri solo insulti e pernacchie, a partire dalla ministra Paola De Micheli: se la vicenda ha avuto esito positivo, il merito è anche suo. Ma non la pensa così Toninelli: “Ha fatto passare un anno prima di chiudere la trattativa, pur avendo tutti gli elementi e le condizioni per farlo”. Come se da sola potesse decidere su una questione così grande: come al solito il grillino vive sulla luna. E persino il Fatto se ne accorge intervistandolo su Autostrade. Al di là dell’auto esaltazione (“nel mio anno da ministro ho posto le basi per la revoca”), Toninelli inciampa su un dettaglio: il Fatto gli fa notare che lui, proprio come la De Micheli che tanto critica, aveva preparato una lettera per affidare nuovamente il ponte ad Aspi. Ovviamente l’ex ministro grillino ha glissato l’argomento, bollandolo come “stupidaggini”. 

Danilo Toninelli, Alessandro Sallusti: "Tontolone, esulta contro i Benetton come un ubriaco molesto". Libero Quotidiano il 16 luglio 2020. Alessandro Sallusti non è per niente fiducioso su Autostrade per l’Italia. Scongiurata la revoca, pur di estromettere la famiglia Benetton la società finirà nelle mani dello Stato. “Che Dio ce la mandi buona”, è il commento del direttore de Il Giornale, che ricorda i precedenti infelici dell’Ilva e di Alitalia. Giuseppe Conte ha deciso di evitare lo scontro frontale e ha trovato un modo per accontentare il M5s che, revoca o non revoca, ambiva soltanto a far fuori i Benetton: “L’hanno capito tutti che è finita così, tutti meno il tontolone Danilo Toninelli, il ministro per caso che innescò tutto questo casino. Ci è voluto un anno per ricomporre in qualche modo i cocci, ma lui essendo tontolone ieri esultava come neppure un ultrà al gol decisivo nella finale di Champions”. Sallusti si riferisce a quel “abbiamo vinto, pagano i Benetton”, che l’ex ministro grillino ha urlato a gran voce sui social: “Sarebbe un incidente da derubricare a fatto di ubriachezza molesta se Toninelli non incarnasse un’anima ancora ben presente nei 5 Stelle e quindi nel governo. Cioè l’anima della politica dell’odio, della vendetta sociale, della frustrazione e dell’incapacità di risolvere i problemi pensando alle conseguenze dei propri atti”. 

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 16 luglio 2020. Toninelli è tornato, disponibile in versione da asporto alla Camera, dove ha dato educatamente del vile all'ex compare di governo Salvini, e in un più pratico formato casalingo grazie a un video che già si candida a reperto di un'epoca. Chiunque abbia conosciuto i tormenti e le fissità metafisiche di questo rivoluzionario incompreso non può che gioirne con noi, riguardando quelle immagini fino allo sfinimento oftalmico. Tony è inquadrato a mezzobusto e tace, affidandosi al linguaggio dei segni. Dapprima sventola entrambi i pollicioni, poi lascia avanzare una singola mano verso la telecamera, come se intimasse: non muovetevi. Mai attesa fu meglio premiata. Toninelli mostra un cartello, «Fuori i Benetton da Autostrade», scritto con un pennarello verde che richiama il colore primario dei loro maglioni. E ne accompagna la visione con quel gesto ondulatorio e sussultorio della mano che si usa per dire «smamma» a qualcuno. Altri ne seguono, di gesti e di cartelli, fino al definitivo «Abbiamo vinto!» corredato dalla tipica esultanza a pugni chiusi dei goleador del passato. La politica a fumetti. Da un momento all'altro ti aspetti che arrivi Braccio di Ferro e sistemi i Benetton una volta per tutte con un cazzottone dei suoi. Toninelli, e qui sta la sua vera grandezza, non lo fa per farsi capire da tutti, ma per capirci finalmente qualcosa lui. E sa benissimo che i Benetton sono ancora dentro Autostrade. Semplicemente aveva finito i cartelli.

DAGOREPORT il 15 luglio 2020.A QUATTRO MESI DAL CROLLO DEL PONTE MORANDI, IL GOVERNO CONTE HA VENDUTO AI BENETTON (TRAMITE UN FONDO DI GESTIONE DI BENI PUBBLICI) UNO STORICO PALAZZONE IN PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE A ROMA PER 150 MILIONIMENTRE CONTE E DI MAIO SEPPELLISCONO SOTTO UN PONTE I BENETTON, VIRGINIA RAGGI, INFILATI I GUANTI BIANCHI, APPARECCHIA LA VENDITA DEL GIGANTESCO E STORICO PALAZZO DI PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE FACENDO GUADAGNARE 228 MILIONI ALLA FAMIGLIA VENETA

SAPETE CHI HA VENDUTO LO STORICO PALAZZO DI PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE AI BENETTON, 4 MESI DOPO IL CROLLO DEL PONTE MORANDI? LA INVESTIRE SGR DI ARTURO NATTINO CHE GESTISCE IMMOBILI PUBBLICI. E CHI È SOCIO AL 11,6% DELLA SGR DI NATTINO? LA REGIA SRL, LA CASSAFORTE DEL RAMO FAMILIARE CHE FA CAPO A SABRINA BENETTON, FIGLIA DELLO SCOMPARSO GILBERTO, CHE DETIENE IL 20% DI EDIZIONE, LA HOLDING DEL GRUPPO (ESSÌ, IL MONDO È DAVVERO PICCOLO…)

2. IL CAMBIO DI DESTINAZIONE IN HOTEL, CON L’AMMINISTRAZIONE GRILLINA, È AVVENUTO A TEMPO RECORD, INCOMPARABILE AGLI ANNI CHE NECESSITANO AI COMUNI MORTALI: IN SEI MESI! 

3. MA COME MAI INVESTIRE SGR DI ARTURO NATTINO, CHE HA LA GESTIONE DEI BENI PUBBLICI, PER VENDERE QUESTO PALAZZO, UNICO A ROMA, NON HA FATTO UN’ASTA INTERNAZIONALE PUBBLICA? HYATT, MANDARIN, PENINSULA, ARMANI, FOUR SEASON AVREBBERO OFFERTO CERTO DI PIÙ DEI 150 MILIONI PAGATI DALL’IMMOBILIARE DEI BENETTON. MA VIENE UN DUBBIO: CHE FINE HA FATTO IL RESTO DEL PATRIMONIO PUBBLICO AFFIDATO A INVESTIRE SGR DI NATTINO UNA DECINA DI ANNI FA? A CHI È FINITO? A CHE PREZZI? AI POSTERI L’ARDUA SENTENZA…FORSE

DAGOREPORT il 15 luglio 2020. Emerge sempre più la "complessità" con cui Arturo Nattino, con Investire SGR, ha venduto a Regia Srl di Benetton (suo socio nella SGR) il gigantesco e storico palazzo di piazza Augusto Imperatore, destinato ad ospitare il nuovo Hotel Bulgari. Il cambio di destinazione, con l’amministrazione grillina della Raggi, è avvenuto a tempo record, incomparabile agli anni che necessitano ai comuni mortali: in sei mesi. Ma chi è l’uomo che ha montato e gestito la transazione? Il Castellucci dell’immobiliare di Benetton: si chiama Mauro Montagner, architetto veneziano, dal 2018 a capo del colosso immobiliare del Gruppo Benetton. Con abilità e svicolando tra i meandri della burocrazia romana, come nessun imprenditore romano riesce a fare, ha portato a casa, con la connivenza di Nattino, un tesoro ai suoi datori di lavoro: il palazzo è stato pagato 150 milioni, la nuova proprietà deve fare 50 milioni di lavori, e si arriva a 200 milioni; il canone è 15 milioni e quindi il 7.5%; un palazzo del genere, con un inquilino così prestigioso dovrebbe avere un canone del 3.5% del valore, quindi vale 428 milioni dopo i lavori. Non male come affare. Ma come mai Nattino per vendere questo palazzo pubblico, unico a Roma, non ha fatto un’asta internazionale trasparente pubblica invitando tutti i grandi operatori che anelano ad avere un hotel 5 stelle a Roma? Hyatt, Mandarin, Peninsula, Armani, Four Season avrebbero offerto certo di più dei 150 milioni pagati dall’immobiliare dei Benetton. Ma viene un dubbio: che fine ha fatto il resto del patrimonio pubblico affidato a Investire Sgr di Nattino una decina di anni fa? A chi è finito? A che prezzi? Ai posteri l’ardua sentenza…forse.

DAGOREPORT il 15 luglio 2020. PER GLI AFFARI, IL BUONGIORNO SI VEDE DAL NATTINO – QUANDO IL PATRIMONIO PUBBLICO DIVENTA UN AFFARE PRIVATO: LEGGETE L’ARTICOLO DEL 2012 DI SERGIO RIZZO SU “INVESTIRE IMMOBILIARE”, LA SOCIETÀ DI NATTINO, PARTECIPATA DAI BENETTON, CHE HA VENDUTO LO STORICO PALAZZO DI PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE AGLI STESSI BENETTON: “DAL 2012 AL 2011 HA ACCUMULATO UTILI NETTI GENERATI DALLE COMMISSIONI PER 59 MILIONI. SOLTANTO UNA DOMANDA A CHI HA AVUTO QUESTA PENSATA (PREMIER  ERA BERLUSCONI, MINISTRO TREMONTI): ERA PROPRIO NECESSARIO RIVOLGERSI A UN INTERMEDIARIO PRIVATO PER GESTIRE UN FONDO DEGLI IMMOBILI PUBBLICI?''

Estratto dell’articolo di Sergio Rizzo per “Sette - Corriere della Sera” – 28 giugno 2012. (…) Sedi storiche. È lecito interrogarsi, per esempio, sull’utilità di una operazione come quella del Fondo immobili pubblici. Di che cosa si tratta? È un fondo immobiliare costituito dallo Stato, dentro al quale sono stati infilati moltissimi immobili di pregio, in prevalenza degli enti previdenziali. Per fare un esempio, ci sono le sedi storiche Inps di Venezia e Firenze, e anche quella di Roma, in piazza Augusto Imperatore. Sono palazzi comprati con i denari dei lavoratori, il che non è certamente un dettaglio. Quel fondo pubblico è diventato dunque proprietario degli immobili degli enti previdenziali, i quali si sono trasformati da padroni in affittuari e pagano canoni profumati. Direte: ma è una partita di giro. Verissimo. Però con un particolare. Il Fip, che ha il compito di “valorizzare” e vendere se possibile quelle proprietà immobiliari statali, è gestito da una società privata. Si chiama “Investire immobiliare” ed è controllata dalla famiglia Nattino in società con la famiglia Benetton. E grazie alla gestione del Fip fa una montagna di soldi. Dal 2002 al 2011 ha accumulato utili netti generati dalle commissioni per 59 milioni e 320 mila euro. Soltanto lo scorso anno, particolarmente fiacco per il mercato immobiliare, la società di Nattino-Benetton ha piazzato 34 immobili per un introito di 195 milioni. Circostanza che ha garantito, c’è scritto nel bilancio, “commissioni nette per 3,5 milioni”. Complimenti. Soltanto una domanda a chi dieci anni fa (premier era Silvio Berlusconi e ministro dell’Economia Giulio Tremonti) ha avuto questa bella pensata: era proprio necessario rivolgersi a un intermediario privato per gestire un fondo degli immobili pubblici? Nello sconfinato panorama delle società statali, dove abbondano anche finanziarie e immobiliari, davvero non ce n’era nemmeno una alla quale affidare l’incarico? Del resto, erano gli stessi anni in cui la Consip, la società che ha il compito di limitare gli sprechi delle pubbliche amministrazioni centralizzando gli acquisti dei beni e servizi, stipulava un bel contratto d’affitto. Quello di uno stabile di 3.600 metri quadrati a Roma di proprietà della tedesca Deka: oggi paga d’affitto 2,3 milioni più Iva l’anno. Cioè 638 euro al metro quadrato al netto dell’imposta. Circa cento euro in più rispetto al canone che l’immobiliarista Sergio Scarpellini incassa dalla Camera per i famosi palazzi Marini che ospitano gli uffici dei deputati. Possibile che in tutta Roma non ci fosse un immobile di proprietà pubblica per metterci dentro la società che deve farci risparmiare? Eppure uno Stato che volesse utilizzare meglio il proprio immenso patrimonio non potrebbe che partire da qua. Imponendo che gli uffici e le società pubbliche non paghino affitti ai privati, limitandosi a occupare immobili demaniali. Intanto si risparmierebbero un sacco di soldi, e non è male. Ci credereste? A quanto pare nemmeno il ministro Piero Giarda è riuscito a scoprire quanti miliardi le pubbliche amministrazioni regalano ai privati per gli affitti.

Dagospia il 14 luglio 2020. A QUATTRO MESI DAL CROLLO DEL PONTE MORANDI, IL GOVERNO CONTE HA VENDUTO AI BENETTON (TRAMITE UN FONDO DI GESTIONE DI BENI PUBBLICI) UNO STORICO PALAZZONE IN PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE A ROMA PER 150 MILIONI (STRANAMENTE GIÀ CON L’AUTORIZZAZIONE PER IL CAMBIO DI DESTINAZIONE D’USO PER FARCI UN ALBERGO). POCHI MESI DOPO BENETTON LO HA AFFITTATO A BULGARI PER 15 MILIONI ALL’ANNO PER DIECI ANNI, UN AFFARONE! - PECCATO CHE QUELL’IMMOBILE ERA STATO MESSO DAL GOVERNO IN UN FONDO PER LA SUA VALORIZZAZIONE. È UNA STORIA CHE RICORDA I PALAZZI COMPRATI DA SCARPELLINI E AFFITTATI AL PARLAMENTO. E ROMPONO IL CAZZO CON LE CONCESSIONI AUTOSTRADALI...

Alberto Di Majo per “il Tempo” il 15 luglio 2020. Il  primo governo guidato da Giuseppe Conte a quattro mesi dal crollo del ponte Morandi ha concesso alla famiglia Benetton un clamoroso affare immobiliare. Gli ha venduto un pezzo di Roma attraverso un fondo pubblico controllato dal ministero dell' Economia rinunciando alla prelazione dei Beni culturali. La tragedia di Genova è del 14 agosto 2018. L' 11 dicembre dello stesso anno, mentre Palazzo Chigi promette di togliere le concessioni ad Aspi, la società Edizione Property, sempre dei Benetton, acquista in via preliminare un super immobile nel centro storico di Roma per 150 milioni. Si tratta dell' enorme edificio (22 mila metri quadrati) che si trova tra piazza Augusto Imperatore, via della Frezza, via di Ripetta, via del Corea e via Soderini: il palazzo è stato costruito tra il 1936 e il 1938 su progetto dell' architetto Vittorio Ballio Morpurgo e si affaccia sull' Ara Pacis e il Mausoleo di Augusto. Secondo le valutazioni delle principali agenzie immobi liari di Roma a giugno 2020 quel palazzo avrebbe un prezzo oscillante fra 187 e 210 milioni di euro, ma all' epoca della transazione i valori erano più alti. L' acquisto effettivo è avvenuto il 20 febbraio 2019 dopo la constatazione del «mancato esercizio della prelazione da parte del ministero dei Beni culturali» (guidato all' epoca da Alberto Bonisoli). Diciamo subito che l' allora ministro in quota 5 Stelle non è stato l' unico a non occuparsi della vicenda, visto che a dicembre 2019 la stessa Edizione Property spa ha comprato un altro immobile (sempre nella stessa piazza) per 120 milioni e anche allora il ministero dei Beni culturali (stavolta guidato dall' esponente dei dem Dario Franceschini) non ha ritenuto di esercitare il diritto di prelazione. Torniamo alla compravendita dell' immobile principale, che un tempo era di proprietà dell' Inps e poi, nel 2005, è finito nel Fondo Immobili Pubblici. Non è mai stato venduto, fino alla fine del 2018. Il 20 luglio di quell' anno, infatti, la società dei Benetton presenta una proposta per acquistare l' edificio. L' offerta 150 milioni. L'11 dicembre la vicenda si avvia a conclusione con la firma del preliminare di vendita e pochi mesi dopo l' operazione conclusa. Ma la storia è soltanto a metà perché il 24 luglio del 2019 Edizione Property spa decide di dare in affitto il palazzo a Bulgari. Il canone è di 15 milioni all' anno per dieci anni (rinnovabile per altri dieci): dunque, in tutto, 150 milioni. Un' operazione con i fiocchi. Un investimento immobiliare ripagato in un decennio. Nell' edificio che una volta era di proprietà dello Stato Bulgari costruirà un albergo di lusso che aprirà nel 2022. «Il nuovo Bulgari Hotel Roma occuperà uno splendido palazzo modernista degli anni '30, affac ciato su due dei tesori più emblematici della città: l'Ara Pacis e il Mausoleo di Augusto, il primo imperatore romano» si legge sul sito della maison di gioielli. Ci saranno oltre 100 camere, in maggioranza suite, un bar di lusso e un ristorante stellato. «Il sapiente connubio di materiali quali il travertino color ocra e i mattoncini in terracotta celebrerà l'estetica dell'Antica Roma augustea, mentre magnifiche collezioni d' arte antica e contemporanea a rotazione impreziosiranno la struttura, evocando il ricco e sfaccettato patrimonio della città eterna, una delle città più belle al mondo, da sempre simbolo di arte e cultura». Il contratto di locazione ad uso alberghiero stipulato tra Edizione Property spa e Bulgari Roma srl è particolare: prevede un «canone minimo garantito» annuale pari, appunto, a 15 milioni più Iva «nel caso in cui il totale dei ricavi realizzato nei dodici mesi di competenza abbia ecceduto l' importo di euro 55 milioni» o un canone di 13.800.000 nel caso i guadagni siano uguali o inferiori a 55 milioni. Il contratto stabilisce, tuttavia, che per i primi trentasei mesi affitto sarà pari al 20% dei ricavi, poi del 23% e per l' anno successivo del 25% «anche in considerazione della necessità per la conduttrice di sviluppare il proprio avviamento e dell' impegno dalla stessa assunto di farsi carico dei lavori della conduttrice». E qui c' è un' altra questione rilevante. Come fa un palazzone di quel genere, nel centro di Roma, pieno di vincoli, a ottenere il cambio di destinazione d' uso per diventare un hotel? Sembrerà un' impresa titanica ad ogni albergatore o aspirante tale. Non in questo caso perché l'immobile stato venduto già con le autorizzazioni necessarie. Un affare, non c'è che dire, soprattutto se si trova in fretta qualcuno che lo affitta a un prezzo che in pochi anni ripaga l'investimento. La domanda per chiedere il permesso di costruire (protocollo QI/2016/197154) per «la trasformazione in struttura turistica» è stata presentata il 14 novembre 2016. Il Campidoglio ha dato il via libera dopo pochi mesi: il permesso n. 193 è del 31/07/2017, previa autorizzazione della Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l' Area Archeologica Centrale di Roma per l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione per cambio di destinazione d' uso. Le opere hanno avuto inizio il 28 febbraio 2018 a seguito della comunicazione di inizio lavori, trasmessa via Pec dal direttore del progetto lo stesso giorno. Un' operazione legittima, ci mancherebbe. Resta sullo sfondo un interrogativo. Ma se già nel luglio del 2017 lo Stato possedeva un palazzo straordinario nel cuore di Roma con tanto di permessi per trasformarlo in albergo, perché il Fondo che doveva gestirlo non lo ha messo a reddito dandolo in affitto e mantenendone la proprietà invece che venderlo alla società del gruppo Benetton facendogli, di fatto, un regalo senza pari? Una questione che suona ancora più inquietante dopo i proclami dei due governi guidati da Conte nei confronti dell' Aspi.

Da iltempo.it il 15 luglio 2020. Lo scoop de Il Tempo sull'affare d'oro permesso ai Benetton nel centro di Roma finisce in Parlamento.  Il deputato di Italia Viva, Michele Anzaldi, ha presentato un'interrogazione al ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, in cui chiede conto al governo dell'affare immobiliare fatto da una società della famiglia a cui lo stesso governo vuole togliere a ogni costo la concessione delle autostrade dopo la tragedia del Ponte Morandi. Anzaldi nella sua interrogazione ripercorre le tappe della vicenda riportata nell'articolo de Il Tempo a firma di Alberto Di Majo. "Secondo quanto ricostruito dal quotidiano “Il Tempo”, la società immobiliare Edizione Property, di proprietà della famiglia Benetton, avrebbe beneficiato di un redditizio affare per un immobile storico a Roma, in piazza Augusto Imperatore, affare autorizzato dal Governo Conte 1, sostenuto da M5s e Lega, proprio pochi mesi dopo la tragedia del Ponte Morandi. Nel dettaglio, a dicembre 2018 Edizione Property ha acquistato dal Fondo Immobili Pubblici per un valore di 150 milioni l’enorme immobile (22mila metri quadri) costruito tra il 1936 e il 1938 su progetto dell’architetto Vittorio Ballio Morpurgo, che si affaccia sull`Ara Pacis e il Mausoleo di Augusto. A luglio 2019 Edizione Property ha dato in affitto l’immobile, per 15 milioni all’anno per dieci anni (rinnovabile per altri dieci), ripagando quindi interamente l’investimento. L’affittuario è Bulgari Roma srl, che trasformerà lo stabile in un albergo di lusso, destinazione d’uso il cui cambio era già stato richiesto e autorizzato dal Comune nel 2017, quindi quando l’immobile era ancora dello Stato, prima della vendita ai Benetton". E così Anzaldi chiede al dicastero del governo guidato da Giuseppe Conte: "se il ministero dell’Economia non ritenga doveroso avviare immediate verifiche sull’operazione immobiliare di piazza Augusto Imperatore, dalla quale la famiglia Benetton ha ricevuto un importante beneficio economico ad opera del governo Conte 1 sostenuto da M5s e Lega, a pochi mesi dalla tragedia del Ponte Morandi". Non solo: "Come il governo ritenga di intervenire, qualora siano ravvisate responsabilità di danni per i conti pubblici, visto che, alla luce della ricostruzione effettuata dal quotidiano “Il Tempo”, per lo Stato non sarebbe stato più conveniente mettere a reddito l’immobile e affittarlo direttamente, anche a seguito del cambio di destinazione d’uso già autorizzato, invece di venderlo ai Benetton". Insomma, fanno la voce grossa ma permettono affari d'oro. Si attendono risposte.

Daniele Autieri per la Repubblica- Roma il 19 luglio 2020. Che il brutto anatroccolo sarebbe diventato un cigno era chiaro a tutti. Ma l' ultima prova che la trasformazione di piazza Augusto Imperatore, consegnata per anni all' incuria da una politica incapace di valorizzare anche i beni più preziosi, sarebbe stata inevitabile, arriva dall' interesse della famiglia Benetton che attraverso la controllata Edizione Property ha acquistato l' ex- palazzo dell' Inps proprio di fronte al mausoleo dell' imperatore Augusto. All' apparenza una vendita tra privati anche se in realtà - a leggere il bilancio della Investire Sgr (la società di gestione del risparmio incaricata della vendita dello stabile) - il Fip ( Fondo immobili pubblici), proprietario del palazzo, è stato promosso dal ministero delle Finanze in attuazione della normativa relativa « alla valorizzazione e privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico». Se il patrimonio del Fip è pubblico ( 1,8 miliardi di euro il suo valore secondo il bilancio di Investire Sgr) e deve essere valorizzato, allora è giusto rivedere la prassi di vendita attraverso la quale il bene è stato ceduto alla Edizione Property, la società controllata da Atlantia (capogruppo della famiglia Benetton). Mentre molti si interrogano sull' equità del prezzo di vendita ( 150 milioni di euro), l' anomalia riguarda anche il doppio ruolo degli imprenditori, interessati tanto come venditori quanto come acquirenti. Investire Sgr, alla quale il Demanio ha affidato la gestione dei beni confluiti nel Fondo immobili pubblici, appare infatti come il salotto dei grandi investitori immobiliari. Anche se Banca Finnat ne detiene la maggioranza (il 50,2% delle quote), tra i principali azionisti figurano Convivio7 ( 17,9%), che fa capo al patron di Luxottica Leonardo Del Vecchio, e Regia srl, controllata invece dai Benetton e che detiene il 20% di Edizione Property. In sostanza, Edizione Property acquista da sé stessa (almeno in parte) il palazzo di piazza Augusto Imperatore. Partner, consapevoli o inconsapevoli dell' operazione, diventano il ministero dei Beni Culturali che rinuncia alla prelazione sull' immobile, e il Comune di Roma che in pochi mesi risponde alla richiesta di cambio di destinazione d' uso dell' immobile. Incredibilmente rispetto ai tempi tradizionali degli uffici capitolini, la domanda di trasformazione in struttura turistica, presentata il 14 novembre del 2016, viene approvata il 31 luglio del 2017. Questo permette al nuovo proprietario, Edizione Property, di chiudere un vantaggioso accordo con Bulgari che proprio su quel palazzo intende aprire uno dei suoi lussuosi hotel, promosso dalla sindaca Virginia Raggi in persona che si è prestata a intervenire in uno spot pubblicitario mentre dialoga con l' amministratore delegato di Bulgari Jean- Christophe Babin e lancia il magnifico hotel che sarà aperto nel 2022. Per Edizione, il contratto prevede un canone di affitto di 15 milioni l' anno per 10 anni ( pari al costo dell' immobile), rinnovabile per altri dieci. Sulla possibilità di un favore fatto alla famiglia Benetton sui beni dello stato, Investire Sgr risponde sottolineando che la vendita dell' immobile ha seguito le prassi previste e che altri potenziali investitori, inizialmente interessati, si sono tirati indietro. Allo stesso modo la società ribadisce che, una volta passati al Fondo immobili pubblici, i beni attendono ad una gestione privatistica. Mentre è ancora da chiarire se anche la Corte dei Conti sarà chiamata a intervenire sulla vicenda, rimane palese l' interesse dei grandi investitori per gli immobili di pregio di piazza Augusto Imperatore. E chiuso l' affare del palazzo Inps, resta adesso da capire quale sarà il prossimo.

Da liberoquotidiano.it il 16 luglio 2020. “Conosco Luciano Benetton e lavoro con lui dal 1980, tra lui e la sua famiglia non ho mai conosciuto persone più oneste”. Oliviero Toscani è il fotografo legato ai Benetton da una lunghissima collaborazione professionale. All’indomani dell’accordo con il governo su Autostrade per l’Italia, Toscani ha parlato con l’Adnkronos e si è schierato ovviamente dalla parte della famiglia: “Nessuno si ricorda, ma nel 1999 le autostrade erano un disastro, nessuno le voleva. L’azienda andava bene, eppure lui e i suoi fratelli si addossarono Autostrade. Purtroppo, sfortunatamente succede, hanno assunto dei manager che hanno la stessa qualità dei nostri politici, sono poco seri. Gli ingegneri e i responsabili non erano all’altezza, anche se naturalmente non tutti, e ci sono andati di mezzo tutti gli altri”. Inoltre Toscani si è detto disgustato dal linciaggio mediatico ai danni dei Benetton: “È un’ingiustizia umana, Luciano ha un’integrità morale e una serietà indiscutibili”. Poi il fotografo se la prende con i detrattori della famiglia: “Adesso la gente gode a dare addosso. Questo è un paese pieno di cattiveria, frustrazione e invidia. Tutto ciò che va bene viene distrutto. Tenetevi i vari Di Battista e Di Maio e andremo lontano”.

I “regali” di Conte e del M5S ai Benetton su Autostrade. Il Corriere del Giorno il 19 Luglio 2020. Il bilancio consolidato 2019 di Autostrade ha chiuso con una perdita di 291, 3 milioni di euro, che si è mangiata un terzo degli utili accantonati negli anni precedenti a riserva. Ne restano ancora 566 milioni, ma non basteranno a coprire la perdita immaginata per il 2020, che potrebbe essere superiore al miliardo di euro. Giuseppe Conte dopo aver annunciato la revoca sulle concessioni ad Autostrade, in un’intervista sul Fatto Quotidiano al “ventriloquo” di Palazzo Chigi e cioè Marco Travaglio, l’indomani il premier non ha dato la revoca della concessione che aveva invece annunciato il giorno prima. Così facendo dodici ore dopo l’annuncio di quell’accordo i Benetton si sono trovati più ricchi di appena…..805 milioni di euro rispetto al giorno precedente. Infatti a seguito della decisione varata dal Consiglio dei Ministri il titolo Atlantia è salito in Borsa in poche ore aumentando del 26,65% , così mettendo in tasca alla sola famiglia Benetton la bellezza di 768,9 milioni di euro. Non a caso tutti i titoli quotati in Borsa delle aziende di cui i Benetton sono soci sono schizzati in alto producendo guadagni non indifferenti. Nella lunga notte di Palazzo Chigi sulla vicenda Autostrade (Aspi), in un primo momento la proposta dei Benetton di vendere l’intera partecipazione in Aspi alla Cassa depositi e prestiti (Cdp) era stata respinta  e poi approvato un piano che prevede la lenta progressiva uscita dal capitale di Aspi della società controllante Atlantia di proprietà Benetton, in favore della stessa Cdp e di nuovi investitori istituzionali. Il Governo Conte così facendo ha trovato un’intesa “facendo perdere però miliardi sul mercato a mezza Italia” come scrive il collega Franco Bechis direttore del quotidiano romano IL TEMPO”. Ora Atlantia non avrà più la partecipazione nella società Autostrade, che verrà inserita in una nuova società che in partenza avrà gli stessi azionisti attuali. Verrà varato dall’assemblea un aumento di capitale riservato a Cdp, che entrerà in parte convertendo in azioni della nuova società il miliardo di euro circa di crediti che vanta nei confronti della società Autostrade. In questa fase la partecipazione di Atlantia e quindi dei Benetton si diluirà, ma resterà ancora di controllo almeno relativo“, conclude Bechis. Il bilancio consolidato 2019 di Autostrade ha chiuso con una perdita di 291, 3 milioni di euro, che si è mangiata un terzo degli utili accantonati negli anni precedenti a riserva. Ne restano ancora 566 milioni, ma non basteranno a coprire la perdita immaginata per il 2020, che potrebbe essere superiore al miliardo di euro. Quindi se come ha deciso il governo Conte , la Cassa depositi e prestiti avrà entro la fine dell’anno la maggioranza di Autostrade per l’Italia (Aspi), spetterà allo Stato ripianare quelle perdite , e considerando che il governo vuole abbassare le tariffe così riducendo il margine operativo della società, lo Stato (cioè i contribuenti) si troverà davanti una nuova voragine di una certa importanza nei conti pubblici , che non è quell’affare della vita immaginato in maniera “ignorante” da Danilo Toninelli e dai vari grillini in festa. Mentre il ministro delle infrastrutture, Paola De Micheli (Pd) indossava i panni della “cattiva” la faccia feroce, in realtà c’era chi faceva gli occhi sdolcinati ai Benetton . La De Micheli con una sua lettera fatta trapelare alla stampa non a caso alla vigilia del consiglio dei ministri, avrà anche sollecitato il 5 marzo una decisione al premier Conte, ma quel giorno che e nelle settimane successive ha tenuto aperto un tavolo con i Benetton facendo richieste anche formali alle quali poi la società si adeguava. Come quella di alzare il livello di risarcimento dovuto dopo il ponte Morandi di Genova per il quale Aspi aveva accantonato nel bilancio 2019 la somma di 2,9 miliardi di euro. A seguito dell’accordo notte tempore con il premier Conte, quella somma verrà adesso integrata di un ulteriore mezzo miliardo arrivando a 3,4 in tutto, compresi i costi di abbattimento e ricostruzione del ponte Morandi. Sono tutti in bilancio di Aspi fra il 2019 e il 2020, quindi praticamente peseranno sulle spalle di chi ne avrà la proprietà entro fine anno, cioè Cdp e quindi lo Stato italiano. I Benetton adesso sono contenti felici di uscire da un vero e proprio inferno che non avrebbe dato loro più utili e metteva a rischio di fare saltare tutto il loro gruppo. Infatti non caso il giorno prima avevano smentito le presunte dichiarazioni contro l’esproprio subito pubblicate da qualche giornale. Perché con questo accordo si sono liberati di un grosso problema scaricandolo ben volentieri sulle spalle dello Stato. E siamo sicuri che passata la sbornia delle prime ore, in seguito Palazzo Chigi festeggerà sempre di meno. Ecco come il M5S (non) risolve i problemi del Paese pur di restare aggrappato alle poltrone del potere raggiunto, dalle quali nessuno sembra volersi distaccare. Tutto ciò sulla pelle ed a spese degli italiani. Siamo passati dall’esigenza di “privatizzare” a quella di “statalizzare”. Invece di andare avanti, mettiamo la retromarcia con grande gioia e soddisfazione dei partiti di sinistra, che sono dei veri “specialisti” nell’incrementare il debito a carico dei cittadini.

Caso Autostrade: una vergogna di Stato. Riccardo Ruggeri, 18 luglio 2020 su Nicolaporro.it. Il 20 agosto 2018, il giorno della cerimonia funebre alla Fiera di Genova, pubblicai un Cameo (sotto, una sintesi). Allora credetti di aver esagerato nell’analisi. Due anni dopo, la realtà è stata molto peggio: una vergogna di Stato. “Il rifiuto ai funerali di Stato di più della metà delle famiglie, è stato un atto culturalmente rivoluzionario. Con quel rifiuto, tutte le persone perbene (la maggioranza assoluta del paese), è come se avessero urlato “Basta!”. Si augurava che non si verificasse il solito balletto delle responsabilità. Atlantia ha “comprato” dallo Stato un business basato su: “pedaggi versus manutenzione”. Il ponte è caduto, la fatalità è tassativamente esclusa (nessun corpo celeste sul Polcevera), resta la mancata manutenzione. Cioè resta Atlantia, in termini di responsabilità civile (il penale riguarda i singoli, teniamolo fuori). Percorrere in auto un’autostrada a pedaggio e cadere in un fiume perché il ponte crolla al tuo passaggio è inammissibile. I ponti possono essere stati mal progettati, aver avuto una cattiva manutenzione, essere invecchiati precocemente, ma il gestore, se del caso li chiude, li ripara, li abbatte. Se non lo fa è colpevole. Punto. Atlantia di questo deve rispondere. Se poi il “controllore” (Ministero) non ha controllato pagherà anche lui. La responsabilità politica è chiara, è a carico dei partiti che hanno governato l’Italia dalla nascita alla morte del Morandi. Soprattutto quelli che hanno concepito quell’ignobile contratto di privatizzazione, una regalia nascosta in un allegato secretato (roba da Venezuela). Dietro al Morandi vedo un pericolo: Mani Pulite. Avendola vissuta non vorrei si ritornasse al balletto di allora, dove l’establishment (coincidente con i Vertici delle grandi aziende corruttrici) prima cercò di farsi passare per concusso, poi trovò i soliti capro espiatori interni, offrendoli in sacrificio a magistrati pigri. Su Repubblica ha parlato il Ceo di Atlantia. Imbarazzante. Gli avrei fatto una sola domanda: “Il vostro core business è la manutenzione. Dateci il documento Politiche di manutenzione per ponti e strade”, i relativi budget divisi per manufatti, i consuntivi, come questi hanno impattato in tutti questi anni su conto economico e su stato patrimoniale di Atlantia. Capiremmo se i lauti dividendi di questi anni non siano altro che manutenzioni mancate. Ripeto parlo del “civile” non del “penale”, dell’azienda non delle persone. Il Governo Conte (era il gialloverde Conte 1, ndr) la smetta di fare dichiarazioni pubbliche roboanti, battute sull’etica, si focalizzi sui quattrini, sul maltolto che deve riportare nelle casse dello Stato. Atlantia deve pagare, e subito, fino all’ultimo euro.” Fine del virgolettato. Questo scrivevo due anni fa, ma  in realtà io sapevo come sarebbe finita. A schifio. Conosco troppo bene come costoro ragionano, come si muovono, i gomitoli di interessi che condividono con il Deep State. Sapevo che la priorità non sarebbe stata “giustizia per i 43 morti” ma “salvare il business e il patrimonio di Atlantia e dei suoi azionisti”. Fra questi c’è la tedesca Allianz, la cinese Belt and Road Initiative! e poi una delle grandi famiglie imprenditoriali italiane. Ovvia la scelta. Sapevo che il modello da applicare sarebbe stato quello classico di Mani Pulite: 1. Silenziare. 2. Buttarla sul penale (con la tiritera della fiducia verso la magistratura che fra qualche lustro condannerà un paio di funzionari). 3. Nel frattempo, Atlantia, Deep State, governo, partiti di maggioranza e di opposizione, Parlamento, confezionano il “pacchetto”. È congegnato in modo che qualsiasi mossa per colpire il colpevole sia preclusa. O perché diventata nel frattempo impraticabile (si affretta a ricordarlo l’Avvocatura di Stato), o perché interverrebbero Strasburgo e la Ue, o perché i Sindacati si oppongono, o perché bisogna proteggere i piccoli azionisti, o perché .. I Media di regime intanto si buttano sul “pacchetto” comunicazionale. Ohibò, è andata proprio così! Sono passati due anni, il “pacchetto” ha dimostrato che ancora una volta il modello Ceo capitalism ha vinto. Questo l’osceno processo: Atlantia ha “comprato” allora nel modo che sappiamo, ha “gestito” nel durante nel modo che sappiamo, “esce” ora nel modo che sappiamo. Una vergogna durata vent’anni, conclusasi con un accordo vergognoso. Ora lo posso dire. Come componente delle élite di questo Paese, io mi vergogno, mi vergogno profondamente di questa ignobile pagliacciata alle spalle di 43 famiglie in attesa di giustizia. Giustizia che mai avranno, anzi se hanno risparmi alla Posta, la pagliacciata sarà finanziata anche con i loro quattrini. Riccardo Ruggeri, 18 luglio 2020

FANNO COME CAZZO GLI PARE. Paolo Baroni per “la Stampa” il 17 luglio 2020. Il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli incalza Autostrade e chiede che la società presenti «entro il 23 luglio» un nuovo piano economico finanziario. Dopo il braccio di ferro di martedì notte che ha prodotto un'intesa di massima con i Benetton il Mit passa subito all'incasso e chiede che la proposta di transazione approvata dal Consiglio dei ministri venga subito tradotta in pratica recependo «puntualmente» tutte le indicazioni del governo a partire dagli impegni economici. Ma non è solo Aspi a scontrarsi con il problema dei piani economico finanziari (Pef) e quindi della revisione delle tariffe: sono in tutto ben 16 (su un totale di 25) le concessionarie inadempienti con piani scaduti da due, tre e addirittura sette anni. Tempo quasi scaduto In base al decreto milleproroghe le società avevano tempo sino al 31 marzo per presentare i nuovi Pef al Ministero delle infrastrutture, mentre entro il 31 luglio dicastero e concessionarie dovevano definire le intese, quindi trasmetterle all'Autorità di regolazione dei trasporti (che dopo l'emanazione del decreto Genova ha riscritto completamente le regole di calcolo degli aumenti) per il visto di conformità e poi al Cipe per il via libera finale. Mancano due settimane alla scadenza, ma tutta la procedura si è arenata. Stando a indiscrezioni, infatti, alla Direzione generale per la vigilanza sulle concessioni autostradali del Mit hanno giudicato «insufficienti» le proposte ricevute. La lista dei ritardatari, oltre ad Aspi, comprende il gruppo Toto per la Strada dei parchi (A24-A25 Roma-L'Aquila-Teramo), su cui poi si è pure innescato il contenzioso sulla messa in sicurezza post-terremoto con tanto di nomina di commissari ad acta, ed il gruppo Gavio (otto concessioni in tutto dalla A4 Torino-Alessandria alla A32 Torino-Bardonecchia, dal Traforo del Frejus all'Asti-Cuneo, all'Autostrada Ligure Toscana all'Autofiori), oltre ad Autovie Venete, Brescia-Padova e Milano Serravalle. Le regole fissate dall'Art Sia chiaro, le nuove regole non garantiscono uno sconto automatico sui pedaggi ma ugualmente possono portare benefici importanti per gli utenti della strada. «Mettono sotto controllo i costi operativi al fine di renderli efficienti, riallineano la remunerazione degli investimenti ai tassi di mercato e solo per le opere effettivamente realizzate, incentivano un reale miglioramento della qualità del servizio e redistribuiscono a beneficio degli utenti i maggiori ricavi da traffico superiore alle previsioni», spiegano dall'Autorità dei trasporti. La novità più importante, che è entrata giocoforza anche nella trattativa all'ultimo sangue tra governo e Aspi, riguarda i costi di costruzione delle opere e fissa al 7,09% (contro l'11% riconosciuto sino a ieri alla società Autostrade) il tasso di remunerazione sul capitale investito, il cosiddetto Wacc, una delle voci che assieme al tetto di inflazione programmata e agli indicatori sulla qualità dei servizi incide sulla tariffa/km. Con i vecchi accordi si era certamente largheggiato un po' troppo. La seconda novità riguarda i costi di gestione e il tasso di efficentamento annuale di ogni singola concessione, il cosiddetto «fattore X»: rispetto al passato, anziché tenere in conto solo dello stato della pavimentazione e del tasso di incidentalità, ora sono 11 i parametri monitorati, compresa la velocità media di percorrenza del flusso veicolare, la fluidità ai caselli, l'adeguatezza strutturale e tecnologica delle infrastrutture e la soddisfazione degli utenti rispetto ai livelli di servizio fissati dal Mit. Infine è previsto un meccanismo di contenimento dei ricavi dei concessionari che trasferisce direttamente agli utenti gli eventuali maggiori ricavi conseguiti dal concessionario per effetto di volumi di traffico superiori alle previsioni. Basta che il livello di ricavi superi del 2% quello previsto che tutta la parte in eccesso va a ridurre i pedaggi. Il nuovo piano di Aspi Uno dei punti critici dello scontro tra governo e società Autostrade riguardava il taglio delle tariffe. Ora sono in tanti a chiedersi quanto scenderanno dunque, di qui a breve, i pedaggi sui 3000 km di rete gestiti da Aspi. «Indicare una percentuale è impossibile - fanno sapere dalla società -. Però si può dire che certamente scenderanno». La ridefinizione del Wacc, infatti, limiterà a un massimo dell'1,75% gli incrementi annuali, ma poi per fare scendere effettivamente i pedaggi, sino eventualmente ad azzerarli in determinati ambiti (come ad esempio è stato ipotizzato per la Liguria) Aspi si è già impegnata a stanziare 1,5 miliardi di euro in cinque anni più altre risorse negli anni a seguire. L'ultimo richiamo Oltre alla conferma dei 3,4 miliardi di interventi compensativi «senza effetto sulla tariffa», ieri il Mit ha chiesto ad Autostrade che nel suo nuovo piano finanziario siano previsti sia «un programma di investimenti sulla rete pari a 14,5 miliardi», sia «una consistente riduzione della tariffa». «Il Mit è in attesa di ricevere il Piano economico finanziario per valutarne la rispondenza alle condizioni definite e accettate da Aspi» è scritto in una nota. In alternativa, come è noto, può ancora scattare la revoca della concessione.

Milena Gabanelli e Fabio Savelli per il ''Corriere della Sera'' il 20 luglio 2020. Alla fine non c'è stata né estromissione, né esproprio. La nuova «Autostrade per l'Italia» che vedrà la luce con la quotazione in borsa non prima di inizio 2021, sarà a controllo pubblico con Cassa depositi e Prestiti che subentra nel capitale rilevando parte delle quote di Atlantia e con soci di suo gradimento. La holding della famiglia Benetton scenderà all'11%, e al momento la loro partecipazione puramente finanziaria vale 1,1 miliardo. Dovranno accontentarsi di contare poco nel nuovo Cda e per due anni non potranno incassare i dividendi (che difficilmente ci saranno visto che il governo intende abbassare le tariffe del 5%). Alla fine di questa complicata trattativa il tema principale però resta sempre lo stesso: come saranno gestiti i 3000 km di autostrade che sono l'oggetto della concessione? Negli accordi firmati martedì notte a Palazzo Chigi c'era la richiesta di manleva pubblica per le eventuali responsabilità di omesso controllo da parte del ministero dei Trasporti per il crollo del viadotto Polcevera. Non è passata. Sono 21 gli indagati al dicastero allora guidato da Danilo Toninelli e ora da Paola De Micheli. Nessuno ha guardato le porcherie che stava facendo il gestore, e lo scalpo simbolico dei Benetton non risolve le tare storiche del sistema delle concessioni. Se un ponte si accartoccia su se stesso e nessuno sa il perché l'esito è uno solo: le autostrade le controlla soltanto chi le ha in concessione. Che siano aziende private - con soci attratti dai dividendi che aumentano più si risparmia sulle manutenzioni - o società pubbliche come l'Anas gestite con scelte clientelari nelle nomine, infarcite di corruzioni e la lunga mano dei partiti ad orientare le strategie. I chilometri di strade italiane date in concessione ai privati e all'Anas sono circa 36.000. In 4 anni sono crollati 5 ponti, ma per i concessionari andava tutto bene fino ad un attimo prima. Lo Stato concede ai gestori l'utilizzo di questi beni pubblici per un determinato periodo di tempo, ma deroga da anni all'attività di verifica. La prova: il Ministero si accorge che una circolare del 1967 impone ai gestori ispezioni trimestrali sulle infiltrazioni d'acqua nelle gallerie. Loro non lo hanno mai fatto, e dopo 50 anni si corre ai ripari ordinando a giugno l'apertura dei cantieri per smontare i rivestimenti interni. La circolazione si paralizza sulla A7, A10, A26, e mette fuori gioco la Liguria. Fino al 2011 l'attività ispettiva era di competenza dell'Anas, poi una legge stabilisce che non poteva essere concessionario insieme allo Stato di alcune tratte, e allo stesso tempo concedente e controllore. Da un giorno all'altro viene quindi trasferito al ministero di Trasporti il personale addetto ai sopralluoghi nei cantieri per la manutenzione ordinaria e straordinaria di ponti, viadotti, gallerie, segnaletica stradale. Nasce così all'interno del Mit una direzione generale incaricata di vigilare su come i privati gestiscono i tratti autostradali. Peccato che in pochi abbiano le competenze per farlo. In un'audizione parlamentare del 7 settembre 2016, l'architetto Mauro Coletta, allora direttore della Vigilanza del ministero delle Infrastrutture sulle concessionarie autostradali confessava: «I dipendenti che si recano in missione per svolgere i sopralluoghi devono anticipare le spese, ma il rimborso arriva dopo quattro-cinque mesi. Ciò crea grossi problemi. Basti pensare che siamo passati da 1.400 ispezioni all'anno nel 2011 a 850 nel 2015». E sempre 800 in media sono rimaste anche negli anni successivi. «Troppo poche» rileva l'Anac a luglio 2019, a fronte dei 7.137 tra ponti, viadotti e gallerie presenti sulle sole autostrade italiane. Per questo l'ex ministro Toninelli decide di trasferire le funzioni di ispezione in un nuovo ente di controllo: l'Ansfisa. Dopo due anni non è ancora operativa. Il ministero dei Trasporti dice a settembre lo sarà. Nel mentre è collassato anche un viadotto su una tratta gestita dai Gavio in Liguria per colpa di una frana. In attesa che decolli l'Agenzia, il Dipartimento di controllo presso il Mit che fa? A fine dicembre 2019 il rapporto della Corte dei Conti è impietoso: «L'attività di controllo è ostacolata, come riconosciuto dallo stesso Ministero, dalla scarsità del personale dedicato e non dotata di qualifiche e competenze in grado di negoziare con la controparte privata». Quando Autostrade fu privatizzata nel '99, controparte per lo Stato era l'Iri, ovvero il suo direttore generale Ciucci, ovvero Anas, di cui diventa dominus poco dopo. Col governo Prodi fu Ciucci a firmare nel 2007, la convenzione che consegna ai Benetton la gallina dalle uova d'oro, e il via libera definitivo arriva l'anno dopo da Berlusconi, con un emendamento che consente di bypassare il parere del nucleo di consulenza per la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Quella convenzione, smontata solo martedì notte, ha consentito ogni anno, fino ad oggi, una crescita delle tariffe pari al 70% dell'inflazione reale anche in presenza di crisi economica, calo del traffico e minori investimenti di quelli programmati. Ciucci si auto-licenzia dalla carica di presidente Anas nel 2015, dopo che sulle strade di Anas, nel giro di tre mesi, era crollato un viadotto sulla statale siciliana e un pilone sulla A19 e c'era stato un cedimento con morto sulla Salerno-Reggio Calabria. Per togliere il disturbo si assegna una buonuscita per mancato preavviso di 1,8 milioni. Con la quotazione in borsa della nuova «Autostrade per l'Italia» lo Stato torna dentro la gestione. Ma non basta il «cappello» pubblico a garantire efficienza. Anas, che fa parte di Ferrovie dello Stato dal 2018, è controllata al 100% dal Tesoro; ebbene nel corso del 2019 aveva l'obbligo di legge di ispezionare 4991 ponti, ne ha controllati 1419. Aveva a disposizione oltre un miliardo per la manutenzione straordinaria, ha speso meno di 200 milioni. Per Anas era tutto regolare e il ministero dei Trasporti non ha obiettato. L'8 aprile, il ponte sul fiume Magra viene giù tutto. Non ci sono stati morti solo perché eravamo in pieno lockdown. Almeno fino a settembre ai controlli deve pensarci il Dipartimento del Mit, e i fondi non gli mancano: 78 milioni ogni anno dagli incassi del canone di concessione. Ma la struttura non è stata attrezzata per spenderli, e così una cinquantina tornano al Mef. Il primo direttore era un architetto, il secondo un filosofo, oggi un economista. Che sia pubblico o privato, il problema si radica nel più alto livello di controllo, che è il Ministero dei Trasporti. E la ministra De Micheli, come tutti i suoi predecessori, non ha competenze ingegneristiche essendo laureata in Scienze politiche, e non ha alle spalle esperienza nell'organizzazione di sistemi complessi come può essere un ministero. Si dirà: si affida alla sua tecnostruttura. Ma in questi 9 anni i tecnici del Mit non hanno certo brillato visti i 21 indagati a Genova. E per questo si rimanda tutto alla nascita dell'Ansfisa, mentre il cittadino che percorre le strade e autostrade non si chiede se il gestore è pubblico o privato, vuole solo arrivare a destinazione sano e salvo.

AUTOSTRADE, gli azionisti di Atlantia replicano con le denunce. CREDIBILITÀ ZERO: Ricorsi a raffica contro la soluzione anti-Benetton del governo. Nino Sunseri il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La soluzione del problema Autostrade non sarà né rapida né indolore. Non a caso è stato comunicato che non verrà rispettata la scadenza di domani per l’accordo che apre la strada all’intervento di Cdp. Facile immaginare che nessuno abbia voglia di firmare un documento che rischia di trascinarlo in tribunale. Gli azionisti di Autostrade e anche quelli di Atlantia sono intenzionati ad aprire il fuoco di carta bollata. E non sono solo gli hedge fund inglesi e americani che hanno annunciato ricorsi a raffica. I nomi sono molto più pesanti considerando che il 12% di Aspi è diviso tra il fondo sovrano cinese Silk Road (dunque il governo di Pechino) e la holding che riunisce interessi di gran blasone in Germania (Allianz) e in Francia (Edf). Per non parlare di quello che succede al piano superiore dove sono presenti, fra gli altri, il governo di Singapore con il suo fondo sovrano e gli americani di Blackrock, il più grande gestore di risparmio del mondo. A tutti il piano voluto dal governo imporrà pesanti perdite e, in qualche caso, come in Autostrade, l’azzeramento del valore della partecipazione. E per che cosa? Per un ricatto che lo Stato italiano ha esercitato sulla famiglia Benetton azionista di riferimento del gruppo. La minaccia è stata esercita agitando la mannaia della revoca della concessione autostradale. Un comportamento più simile ad un avvertimento mafioso che non alle regole di uno stato di diritto. Il problema è molto semplice: nonostante il frastuono della politica, l’indignazione dell’opinione pubblica, il dolore dei familiari delle vittime non c’è ancora nessuna certezza sulle cause del crollo del Ponte Morandi. Il processo, dopo due anni, è ancora in fase istruttoria e dunque lontanissimo dall’accertamento delle responsabilità.. Non a caso il ministro De Micheli, in una lettera che riportava il parere dell’Avvocatura dello Stato, avvertiva Conte dei pericoli di una decisione troppo affrettata. Una revoca intempestiva esponeva lo Stato italiano a penali gigantesche. Da qui la decisione del governo di percorrere la strada alternativa con l’ultimatum ai Benetton di uscire dal casello di Autostrade senza fare tante storie. C’è però un problema: la dinastia trevigiana è azionista solo al 30%. Poi ci sono gli altri che da questo patto verranno gravemente danneggiati e non hanno nessuna intenzione di tacere. I soci di Aspi dopo l’intervento di Cdp vedranno crollare il valore dell’investimento. Senza contare che si troveranno coinvolti in una società i cui guadagni crolleranno per ordine del governo che ha deciso di cambiare in corsa il sistema delle tariffe. Non meno lesivo quello che accadrà ai soci di Atlantia: saranno privati del cespite più importante e per punizione non incasseranno dividendi per due anni. Difficile pensare che forzature tanto gravi passeranno senza reazioni. La credibilità internazionale dell’Italia sarà sicuramente danneggiata. Chi mai vorrà investire in un Paese che cambia le regole per semplici ragioni di opportunità politica. Una tragedia dalle conseguenze impensabili. In questo senso c’è un precedente lontano che vale la pensa ricordare. Risale al 1991 con il fallimento di Federconsorzi. Il Tesoro si rifiutò di onorare i debiti sostenendo che non era una azienda pubblica. Tutti, però, la ritenevano tale. Compresi i dirigenti che nutrivano clientele politiche per conto dei partiti di riferimento (soprattutto Dc e Pci). Le banche e gli altri finanziatori se la legarono al dito. L’anno dopo, nel 1992, la speculazione internazionale avrebbe fatto a pezzi la la lira, spaccato lo Sme e decretato la fine della Prima Repubblica. Fra le cause, oggi purtroppo dimenticate, proprio la perdita di credibilità dell’Italia per via di Federconsorzi.

VIVERE DI RENDITA. Report Rai. PUNTATA DEL 01/10/2004 di Stefania Rimini.

Chi sta incassando i soldi della privatizzazione di Autostrade? AGGIORNAMENTO DEL 25/10/0020.

Chi sta incassando la rendita delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni dei servizi pubblici? Sono i nuovi padroni, che hanno rilevato le spoglie dello Stato imprenditore oppure sono gli utenti, ai quali erano stati prospettati servizi più efficienti e tariffe più basse? Sono i manager degli ex monopoli, con le loro ricche stock options, oppure le casse del Tesoro, ansioso di ridurre il debito pubblico? L'Enel è stato in parte privatizzato e nello stesso tempo il mercato è stato aperto alla concorrenza: quindi tariffe minori e servizi migliori. Invece in Italia continuiamo a pagare la bolletta elettrica più cara d'Europa. Il fatto è che da 15 anni ci stanno prelevando il 7% su ogni singola bolletta per incentivare la produzione di energia rinnovabile e che invece è finito in buona parte nelle tasche dei petrolieri, come per esempio Moratti, il patron dell'Inter. 

Vivere di rendita - Aggiornamento del 15/05/2005: il pedaggio è venduto. IL PEDAGGIO È VENDUTO di Stefania Rimini.

VOCE FUORI DELL'AUTRICE FUORI CAMPO Il compito dell'Anas è quello di controllare che chi gestisce le Autostrade, in questo caso Benetton, faccia gli investimenti che deve fare e che l'utente al casello non paghi più del dovuto. Ma tra Anas e Autostrade di problemi non ce ne sarebbero mai, secondo quanto riferiva un professore che aveva prestato servizio nel Nars, il nucleo di valutazione tecnica delle tariffe, istituito presso il Ministero dell'economia.

MARCO PONTI - ex esperto Nars In tutte le riunioni in cui c'erano Autostrade e Anas presenti, lavorando nel Nars, le loro posizioni, salvo alcuni piccoli dettagli, coincidevano sempre, soprattutto su questa questione chiave di questo meccanismo di difesa degli utenti dagli extraprofitti. Su quello andavano sempre d'accordo contro i poveri utenti che nulla sanno di ciò.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Le tariffe vengono stabilite dall'Anas anche in base al numero di macchine che entrano in autostrada. Meno ne se ne prevedono e più alto sarà il pedaggio. Alcuni parlamentari hanno denunciato il fatto che finora l'Anas ha sbagliato a stimare il traffico, che è risultato molto maggiore del previsto a tutto vantaggio del monopolista privato.

LUIGI ZANDA - senatore Così come è curioso il contributo che l'anno scorso, nel 2003, l'Anas ha concesso alla Società Autostrade di 5 milioni di euro, quindi di 10 miliardi di lire, per una campagna a favore del Telepass.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Ma è vero che l'Amministrazione pubblica ha concesso 5 milioni di euro per promuovere un servizio che avvantaggia la società Autostrade? Quando abbiamo interpellato l'Anas per verificare questa e le altre questioni sollevate in Parlamento, l'Anas si è rifiutato di rispondere.

AUTRICE L'Anas non è interessato a fare l'intervista? al telefono, ufficio stampa Anas Sì sì, l'Anas non è interessato a fare questa intervista.

AUTRICE L'Anas è un ente pubblico, dovrebbe venire a rispondere, non crede? al telefono, ufficio stampa Anas Sì, ma noi abbiamo fatto addirittura un libro su questa cosa. AUTRICE Mi dica lei che cosa dobbiamo dire, che cosa devo riferire al pubblico quando arriveremo al punto di dire "sentiamo che cosa risponde l'Anas". al telefono, ufficio stampa Anas Che rispondiamo a queste questioni nelle sedi deputate, cioè al Parlamento e con documenti ufficiali.

MILENA GABANELLI IN STUDIO L'unico documento ufficiale che è arrivato dall'Anas è stata una querela. Ma ne è arrivata una anche dall'amministratore delegato di autostrade destinato alla sottoscritta e recentemente ritirata, ma anche una citazione per danni a carico della rai degli autori e di un esperto del nars con richiesta di risarcimento per 20 milioni di euro. Nella puntata si sosteneva che la società autostrade aumenta le tariffe a fronte di investimenti promessi e non ancora realizzati. Autostrade invitata a replicare si rifiutò perché impegnata in un'esclusiva con Rai Educational. A distanza di 8 mesi il presidente di Autostrade Gros-Pietro accetta di spiegare a Stefania Rimini le ragioni della società.

AUTRICE Avete ricevuto un contributo dall'Anas per pubblicizzare il servizio del Telepass?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa No, assolutamente no. Nell'estate del 2003 il Ministero invitò le società autostradali a offrire una esenzione semestrale dal canone fisso del Telepass per coloro che sottoscrivevano un nuovo contratto e comunque a ridurre del 10 per cento i pedaggi pagati col Telepass nei giorni festivi di luglio e agosto.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Queste riduzioni ammontarono a 3,7 milioni che il Ministero promise di rimborsare alle società autostradali, mentre queste ultime si addossarono il costo della campagna promozionale che fu di 1 milione. Stiamo parlando comunque di pochi milioni di euro. Il vero nodo della questione pesa centinaia di milioni di euro e riguarda il meccanismo di aumento dei pedaggi.

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. C'è un meccanismo, io non sono entrato nei particolari della formula, però ogni anno ci sarà un aumento che dipenderà dall'inflazione, dalla produttività che noi dobbiamo fare e dai lavori che avremo effettivamente fatto.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Questo meccanismo di aggiustamento delle tariffe si chiama price cap in inglese, cioè "coperchio sul prezzo", perchè serve a far sì che il monopolista non ci guadagni troppo. E ci stanno guadagnando troppo o no? Su questo avevamo riportato l'opinione dell'ex direttore esecutivo della Banca Mondiale.

GIORGIO RAGAZZI - economista Quindi uno si sarebbe atteso, secondo la logica del price cap, che le tariffe venissero congelate o addirittura ridotte in modo da riportare la redditività entro limiti accettabili. AUTRICE All'estero avrebbero fatto così?

GIORGIO RAGAZZI - economista All'estero avrebbero fatto così.

AUTRICE Cioè il meccanismo dovrebbe funzionare così? GIORGIO RAGAZZI - economista Senz'altro.

AUTRICE Invece da noi, no.

GIORGIO RAGAZZI - economista Da noi, evidentemente, non è stato fatto così.

MARCO PONTI - ex esperto Nars Per quello si fa l'aggiustamento dopo 5 anni, si guarda come è andato - perché può anche essere andato male, mica necessariamente è andato bene - e si dice: si torna al livello di profitto normale. E vuol dire: te li tieni se li fai, in modo che sei incentivato a diventare più efficiente, ma dopo cinque anni ridifendo gli utenti riportando a normalità i tuoi profitti.

AUTRICE Questo loro non l'hanno accettato.

MARCO PONTI - ex esperto Nars Loro non l'hanno accettato, cioè che gli utenti non possono essere tosati come pecore.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Tirare in ballo le pecore è costato all'esperto una querela, perché gli avvocati della società Autostrade hanno interpretato la battuta come un'ironia sul mestiere dei Benetton. Ma maglioni e avvocati a parte, possiamo sapere, oggi che il presidente Gros-Pietro ci risponde, perché le tariffe se sono risultate troppo alte non si ritoccano?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. Alla radice della scelta del meccanismo c'è una scelta politica, che è stata fatta nel '97 dal Governo , che è stata rivista, rianalizzata dal Governo e dal Parlamento al momento della privatizzazione nel '99, dopodiché è diventata un contratto e il contratto non si cambia.

AUTRICE Ma se io sono un automobilista, quello che mi interessa capire è se cala il traffico o se aumenta il traffico, io continuerò a pagare la tariffa che è stata decisa prima?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. Sì, la tariffa non tiene conto del volume di traffico che fa parte del rischio imprenditoriale.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Il rischio imprenditoriale finora si è rivelato più che altro un vantaggio imprenditoriale, visto che tra il '97 e il 2002 sono passate 11 mila 500 milioni di vetture- km in più rispetto a quelle previste. Ma siccome i contratti non si modificano, gli extraprofitti oltre a non essere abbassati vengono resi permanenti, almeno fino al prossimo aggiustamento delle tariffe. AUTRICE Del meccanismo di riaggiustamento delle tariffe, se ne riparla tra 10 anni?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. Sì.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Secondo la relazione dei consulenti del Ministero dell'Economia, la società Autostrade tra il '97 e il 2002 per il maggior traffico ha ricavato 520 milioni di euro in più del previsto.

AUTRICE Nel primo quinquennio di convenzione tra Autostrade e Anas ci sono stati degli extra profitti?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. No, non ci sono stati extra profitti però c'è stato un aumento del traffico superiore alle previsioni, che fa parte appunto del rischio imprenditoriale, ma questo aumento del traffico non è stato sufficiente a farci raggiungere la redditività media delle autostrade europee.

AUTRICE Quindi lei dice che non ci sono stati extraprofitti per la società Autostrade nei primi cinque anni di convenzione?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. Esatto.

AUTRICE Non ci sono stati.

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa. No.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Non ci sono stati extra profitti, ma questi soldi in più ricavati sulla sottostima del traffico, come li vogliamo chiamare? Incasso non previsto? Secondo il presidente della società Autostrade i nostri pedaggi sono tra i più bassi d'Europa. Ma le nostre autostrade sono anche tra le più vecchie d'Europa, per cui richiedono manutenzione e investimenti costosi.

PAOLO BRUTTI - senatore Dovevano fare 9 mila, 9 mila e 500 miliardi di investimenti, ne hanno fatti il 10 per cento. Si sono impegnati a farne altri 9 mila e 500, è chiaro che tra queste due cose qualche cosa stanno facendo, sia del vecchio che del nuovo, no? Stanno facendo qualche cosa. Però da quello che noi sappiamo, mentre nel vecchio l'unica opera che si sta veramente cominciando a fare è la Variante di valico, per quello che riguarda i nuovi investimenti erano state fissate delle tappe: allo stato dei fatti non si vede nulla. Cioè non è vero che entro il 2007 noi avremo il passante di Mestre, non è vero che avremo interventi sull'autostrada Adriatica, cioè tutte cose che, se si faranno, oramai slitteranno agli anni 2010, 2011, 2012.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE Non sarà che la Società Autostrade ritarda gli investimenti perché deve prima ripagare i debiti che ha con le banche? E legittimo chiederselo dato che il gruppo Benetton ha acquisito il controllo della società Autostrade tramite la propria controllata Schemaventotto, si può dire senza spendere un euro di tasca propria. Si sono fatti prestare i soldi dalle banche per rastrellare il 70 per cento delle azioni della società Autostrade con un'opa, un'offerta pubblica di acquisto. Poi hanno girato l'indebitamento di Schemaventotto alla stessa società acquistata, che ora ripaga le banche con il flusso dei pedaggi.

GIORGIO RAGAZZI - economista L'Opa, all'inizio del 2003, è stata finanziata con un debito di circa 7 miliardi di euro, interamente messo a carico della Società Autostrade.

VOCE FUORI CAMPO DELL'AUTRICE La società Autostrade ha anche in programma di fare investimenti per 9 miliardi di euro, che devono essere recuperati attraverso i pedaggi.

ANNA DONATI - senatrice Quindi è come se i cittadini che hanno usato la rete di Autostrade spa avessero già pagato quell'investimento - la Variante di valico e anche altri interventi connessi - mentre la realizzazione sta appunto partendo in questi mesi, in queste settimane.

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa C'è un vecchio programma di investimento che era stato stipulato nel '97 quando la società era ancora posseduta dallo Stato, e lì le regole erano diverse perché lo Stato faceva un contratto con se stesso e non si preoccupava tanto delle sofisticazioni di questo contratto quindi prevedeva un programma di investimenti e un programma di aumenti, fisso. Che cosa è successo? Che nel 2000, quando la società è stata privatizzata, gli investimenti previsti nel '97, di quegli investimenti non era stato fatto quasi nulla. Tra il 2000 e il 2002 si è andati avanti pochissimo, perché il principale di questi investimenti, per esempio la Variante di valico, non avevano ancora l'accordo degli enti locali sul percorso, le autorizzazioni eccetera. Noi attualmente siamo al 70 per cento di appalto di questi investimenti e questo programma del '97 valeva 3 miliardi e mezzo di euro e aveva a fronte… AUTRICE Cioè i lavori che dovevate fare…

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa I lavori che si dovevano fare a partire dal '97..

AUTRICE Dal '97 al 2003?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa Dal '97 al 2003. Questo programma attualmente ha già raggiunto un costo di 4 miliardi e 9, cioè è cresciuto del 40 per cento.

AUTRICE A causa dei ritardi?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa A causa dei ritardi perché nel frattempo… naturalmente i ritardi sono connessi anche a modifiche dei lavori che gli enti locali chiedono, le regioni, i comuni eccetera eccetera. Allora noi preferiremmo di gran lunga, siccome questi adattamenti sono dei perfezionamenti che vanno fatti per trovare l'accordo con i territori sarebbe di gran lunga preferibile, come l'esperienza ha insegnato, che gli aumenti scattassero mano a mano che i lavori si riescano a fare però commisurati all'effettivo costo dei lavori, non a un costo teorico previsto nel '97 che non ha più significato. Noi siamo convinti che ci rimettiamo col vecchio sistema.

VOCE DELL'AUTRICE FUORI CAMPO Da un lato hanno guadagnato più del previsto, dall'altro ci dicono che ci rimettono, si dovrebbero consolare gli automobilisti che restano in coda per lavori, perché non sono i soli a rimetterci. La buona notizia è che tutti i nuovi lavori che verranno fatti sulla rete autostradale non incideranno sul pedaggio finché non saranno terminati.

VOCE DELL'AUTRICE FUORI CAMPO Ma quella storia dell'esclusiva che impediva alla società Autostrade di replicare quando a suo tempo era stata invitata a farlo, che fine ha fatto?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa La prima volta noi avevamo un impegno precedente con un altro programma Rai che intendevamo rispettare a meno che non venissimo liberati da quel vincolo, e quindi avevamo chiesto: o di liberarci dal vincolo o posporre la trasmissione sulle autostrade, cosa che non si era potuto fare. Questa volta invece non riteniamo di avere più vincoli e quindi molto volentieri partecipiamo alla trasmissione. AUTRICE Che avevate un'esclusiva, ci avevate scritto, ma questa esclusiva poi è andata in onda?

GIAN MARIA GROS-PIETRO - presidente Autostrade spa No, e infatti è per questo che noi riteniamo di non avere più vincoli. 

Ponte di Genova fuori norma: "Gli addetti ai lavori già lo sapevano". L'errore non sarebbe stato corretto per cercare di ricostruire subito e per evitare di dare vita a ulteriori contenziosi: si va verso il limite di 70 km/h. Luca Sablone, Sabato 18/07/2020 su Il Giornale. Gli automobilisti che percorreranno il nuovo ponte di Genova probabilmente saranno costretti a rispettare il limite di velocità di 70 km/h in direzione Savona: questa la possibile decisione finale, considerando che il tracciato non sarebbe a norma. A rivelarlo è stato Il Sole 24 Ore, secondo cui gli addetti ai lavori erano già al corrente delle criticità, ma la volontà di ricostruire in fretta e il tentativo di evitare di dare vita a ulteriori contenziosi avrebbe portato a non correggere l'errore. Per avere l'ufficialità dei nuovi limiti bisognerà attendere il collaudo di agibilità, in seguito al quale arriveranno le indicazioni di Anas. Il tracciato, trattandosi di una ricostruzione totale, dovrebbe rispettare le norme geometriche di costruzione di nuove strade previste dal Dm Infrastrutture del novembre 2001: il nuovo ponte avrebbe dovuto avere una forma a "S" per garantire curve più "dolci" e una maggiore sicurezza per gli utenti. Invece ricalca quasi perfettamente il vecchio tracciato rettilineo raccordato da curve strette, risalente al 1967, e quindi non rientrava nel campo di applicazione del Dm del 2011. Pertanto, al fine di garantire gli standard di sicurezza richiesti dalle normative, si potrebbe decidere di ridurre la velocità di percorrenza e di stendere un asfalto ad alta aderenza.

Le criticità. Sotto la lente di ingrandimento è finita soprattutto la curva dopo il ponte, verso Savona: si sarebbe dovuto almeno scavare per un centinaio di metri l'attuale galleria Coronata, per raccordarla meglio. Il problema, sfuggito al momento della progettazione di Renzo Piano, era stato già autodenunciato a febbraio 2019 da Italferr al Consiglio superiore dei Lavori pubblici; il mese successivo anche Aspi aveva segnalato in Conferenza dei servizi le non conformità progettuali del nuovo ponte. Tuttavia il Consiglio aveva scelto di non prendere alcuna posizione in merito "per non dare appigli a nuovi contenziosi da parte di Autostrade per l’Italia"; era stato solamente prescritto che l'asfalto fosse ad alta aderenza. Alla luce dell'accordo raggiunto la notte del 14 luglio, Aspi non dovrebbe chiedere una manleva per eventuali incidenti provocati dal tracciato. Aspi dovrà prendere con cautela le indicazioni Anas, visto che l'articolo 14 del Codice della strada attribuisce al gestore della strada la responsabilità di garantirne la sicurezza. Perciò, fa notare il Sole, in caso di futuri incidenti Aspi argomenterebbe di aver fissato i limiti in conformità con le valutazioni dell'Anas. Intanto si attende la conferma ufficiale: i nuovi limiti di velocità potrebbero essere inferiori rispetto a quelli precedentemente previsti.

Federico Capurso per la Stampa il 20 luglio 2020.  Il nuovo ponte di Genova è stato costruito in tempi record, eletto a modello di efficienza e a simbolo del Paese che riparte, tra sfilate ed esaltazioni della politica, ma oltre agli allori si trascinerà dietro anche i vecchi problemi di quel tratto autostradale. Solo due corsie, curve strette in uscita, e sulla velocità massima consentita farà anche peggio rispetto al passato: 80 chilometri orari (forse 70 sulla tratta verso Savona), contro i 90 del ponte Morandi. Ma si doveva far presto. E così, i "ma" sono stati scansati con uno sbuffo. Il progetto regalato da Renzo Piano, infatti, ha mantenuto raggi delle curve e lunghezza dei rettilinei ricalcando quelli del vecchio ponte Morandi. Elementi concepiti negli anni '60, quando venne costruita l'autostrada e non esistevano ancora le norme, più stringenti, previste dal decreto del ministero dei Trasporti del 2001. Tanto da far sorgere il dubbio che il nuovo ponte non sia a norma, proprio mentre ieri mattina iniziavano i collaudi, con 2500 tonnellate distribuite su 56 tir posizionati lungo il tracciato per il primo stress test. Perché tutto si muove su una sottile linea d'ombra: va considerato come il rifacimento di un tracciato già esistente, quindi ancorato alla vecchia legislazione, o come una costruzione totalmente nuova, che deve rispettare le ultime normative ministeriali? Timori «infondati», ribatte la struttura commissariale guidata dal sindaco Marco Bucci. «È a norma. La curva del tracciato era già preesistente», e il nuovo ponte - chiarisce in una nota - «ricalca quell'impostazione, conforme ai vigenti requisiti tecnici». Poi, però, aggiunge: «Non è il commissario, ma il governo e il Parlamento ad aver stabilito di dover operare in estrema urgenza». Insomma, se si dovessero appurare delle colpe, la responsabilità sarebbe di altri. Soprattutto, della fretta. Tale da non far sollevare alcuna obiezione, da parte del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, di fronte al problema sollevato da Italferr a febbraio 2019. E nemmeno il mese dopo, a marzo, quando in Conferenza dei servizi fu Aspi a evidenziare che il progetto non era conforme alla legislazione vigente. Nessuno intervenne. «Assurdo che il nuovo ponte replichi gli stessi problemi di quello vecchio, mal raccordato ai monconi dell'autostrada e con due sole corsie», punge Dario Balotta, presidente dell'Osservatorio nazionale delle liberalizzazioni per infrastrutture e trasporti. «Il Paese ha perso un'occasione drammatica per risolvere problemi già noti, e ha speso più tempo e più soldi per ottenere un risultato peggiore di quello che si avrebbe avuto organizzando una gara pubblica, invece che aggiudicando la ricostruzione per acclamazione al campione nazionale, che oggi ci consegna un'opera storpia». Ammodernare quell'autostrada, però, «avrebbe avuto costi esorbitanti, enormemente più alti rispetto alla soluzione attuale, e i benefici non sarebbero stati tali da giustificarne la spesa», spiega Marco Ponti, professore di economia dei trasporti, più volte consulente del ministero delle Infrastrutture. Questo perché «il traffico si muove di pari passo con il Pil, e se le aspettative sono quelle di una crisi economica». Semmai, puntualizza Ponti, «a Genova si dovrà fare la Gronda». Un progetto già pronto e che, anche sotto la direzione del ministro grillino Danilo Toninelli, ha ricevuto l'ok dei tecnici, ma fermata in attesa della conclusione dello scontro tra lo Stato e Autostrade per l'Italia sulla concessione di quel tratto autostradale. Intanto, sul nuovo ponte poggia ancora un interrogativo pesante circa la sua conformità, mentre corrono verso la fine i lavori.

Inaugurato il nuovo ponte di Genova, Mattarella e Conte: “Ma il dolore non si cancella”. Redazione su Il Riformista il 3 Agosto 2020. Con le frecce tricolori in volo, è stato inaugurato oggi, lunedì 3 agosto, il nuovo ponte San Giorgio di Genova a due anni di distanza dal terribile crollo del 14 agosto 2018 che provocò la morte di 43 persone. Il premier Giuseppe Conte, il sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione Marco Bucci e il governatore della Liguria Giovanni Toti hanno tagliato il nastro per inaugurare il nuovo Ponte. Il tutto  alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Ho condiviso la vostra scelta di vederci qui in Prefettura a Genova e non sul Ponte. Non perché quello che accadrà sul ponte non sia importante: lo è per Genova naturalmente. Ma poiché è un’occasione raccolta e non di frastuono”. Queste le parole di Mattarella nel corso dell’incontro in Prefettura con le famiglie delle vittime del crollo del Morandi, prima dell’inaugurazione del nuovo ponte. Una inaugurazione “per sottolineare pubblicamente e in modo evidente che la ferita non si rimargina, che il dolore non si dimentica; e la solidarietà non viene meno in nessun modo: una cerimonia seriamente sobria, si limita all’essenziale, aprire il nuovo ponte per la città”. “Questo ponte – ha detto il Presidente della Repubblica – non è una cancellazione di quanto è avvenuto, anzi per alcuni aspetti lo comprende, con la lapide che ricorda le vittime. Questo incontro vuole dire a voi che la vicinanza della Repubblica non viene meno”, ma “il nuovo ponte è anche un modo per ricordare la tragedia” a coloro che lo attraverseranno. Parole apprezzate dagli stessi familiari. “Il presidente della Repubblica ha avuto con noi parole affettuose e ci ha garantito che seguirà la vicenda delle vittime del crollo del ponte di Genova e che lo Stato non le dimentica e non dimentica i familiari” ha dichiarato Egle Possetti, presidente comitato parenti vittime del crollo del Morandi, dopo avere incontrato il capo dello Stato, Sergio Mattarella.

LE PAROLE DI CONTE – “Oggi Genova riparte con la sua operosità. L’Italia che sa rialzarsi. Questo Ponte Genova San Giorgio ha funzione di generare nuova fiducia”. Poi l’accenno alla tragedia e al ridimensionamento dei Benetton che prima gestivano il ponte Morandi: “Non esiste ciò che estingue il dolore della perdita di una vita, tanto più a causa della incuria. Il governo ha ritenuto doveroso condurre un procedimento di contestazione, per riportare a un equilibrio il rapporto concessorio. Il nostro obiettivo è e sarà tutelare l’interesse pubblico non necessariamente garantito da precedente concessione”. Per Conte “la ricostruzione del Ponte di Genova è il frutto della virtuosa collaborazione tra politica, amministrazione, imprese e il lavoro. Questo ponte è il frutto della forza del lavoro e dell’energia creativa che del genio italiano: l’architetto Renzo Piano ce lo ha ricordato, dalla sua idea progettuale alla realizzazione è passato poco più di anno e oltre mille persone, lavoratrici e lavoratori, hanno lavorato indefessamente per realizzare quest’opera mirabile. Il merito va alla squadra italiana che ha lavorato con competenza, tenacia, fiducia, mossa dalla necessità di reagire alla tragedia e di ricostruire un’opera che potesse assumere anche il valore di un riscatto. Il ponte che oggi inauguriamo è figlio di questa forza d’animo, della volontà di ricomporre ciò che è stato spezzato ma anche delle competenze e dei talenti. Genova deve ripartire”.

Da corriere.it il 3 agosto 2020. Alle 19.14 di lunedì 3 agosto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, con il taglio del nastro tricolore, ha inaugurato ufficialmente il Ponte San Giorgio a Genova.la cerimonia era iniziata mezz’ora prima con l’inno nazionale e subito dopo la lettura dei nomi delle 43 vittime del crollo del ponte Morandi il 14 agosto 2018 (la diretta qui). A seguire tre minuti di silenzio. La pioggia caduta durante la giornata ha lasciato spazio a un doppio arcobaleno, che ha abbracciato il ponte (la foto sopra è dell’Afp). Il primo a prendere la parola è stato il sindaco di Genova e commissario per la ricostruzione Marco Bucci che ha voluto esprimere un pensiero per le vittime, ricordare chi ha sofferto anche economicamente per il crollo e le centinaia di lavoratori che si sono impegnati per la ricostruzione.

Il progettista Piano. Poi il governatore Giovanni Toti, quindi l’ideatore del progetto, Renzo Piano. Il senatore a vita ha detto «oggi è un giorno di intensa commozione perché questo ponte è figlio di una tragedia e di un lutto. Questo, però, è stato il più bel cantiere che ho mai visto», si è andati avanti «con rapidità ma senza fretta, questo ponte è semplice e forte come Genova». E dunque, anche se «siamo sospesi tra il cordoglio della tragedia e l’orgoglio di aver ricostruito il ponte», la speranza dell’architetto è che questo ponte «sia amato: perché è semplice e forte come questa città».

Il premier. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha esordito dicendo che è «troppo acuto il dolore della tragedia. Ma questo nuovo ponte ci restituisce un’immagine di forza e leggerezza. Questo è il Ponte del frutto creativo del genio italico».

Il sindaco. «Il ponte sarà aperto tra domani 4 agosto sera e dopodomani 5 mattina», prevede Bucci. «Oggi lanciamo un messaggio di fiducia, competenza e speranza. Così si potrebbero fare tutte le infrastrutture d’Italia, a livello di tutti gli altri Paesi europei. Anzi, anche meglio». A chi gli ha chiesto su chi ricadranno i costi del ponte Bucci ha risposto che «la struttura commissariale ha fatto un contratto a corpo. Stiamo facendo l’esame finale dei conti. Se ci sono motivi validi per giustificare extra costi, saranno fatturati ad Aspi, che ha pagato il ponte finora».

Il Presidente e i parenti delle vittime. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha incontrato il Comitato parenti vittime del Ponte Morandi prima della cerimonia in Prefettura: «Vi ringrazio per questo incontro, ci tenevo molto ad incontrarvi — ha detto il capo dello Stato —. La ferita non si rimargina, il dolore non si dimentica e la solidarietà non viene meno in alcun modo. Condivido la vostra scelta di vederci in Prefettura e non sul Ponte, non perché il nuovo Ponte per la città non sia importante ma perché è una occasione di raccolta e non di frastuono. È essenziale aprire il nuovo ponte per la città, ma questo Ponte non cancella quanto avvenuto».

Il governatore. Dal fronte istituzionale, il governatore della liguria Giovanni Toti ha postato su Facebook un «Benvenuto Ponte Genova San Giorgio: unisci la città e portaci verso un futuro migliore!». Per poi aggiungere: «Senza dimenticare mai le 43 vittime. Il loro ricordo ci ha accompagnato in ogni giorno di lavoro e sarà così per sempre. Il primo pensiero in questa giornata è per chi non c’è più, per le loro famiglie che aspettano giustizia, e noi la pretendiamo con loro. Perché quel ponte non doveva cadere e qualcuno dovrà pagare. Ed è per questo che oggi non sarà una festa. Resta però la soddisfazione per l’impresa riuscita grazie al lavoro di donne e uomini che oggi ringrazieremo e che ci hanno fatto rialzare con fierezza e tenacia. Lo avevamo promesso ed è stato così». Toti e Bucci, un tandem che ha accompagnato l’opera nel corso di questi due anni: «Genova non è in ginocchio. Lo avevamo detto con il sindaco Bucci a poche ore dal crollo di Ponte Morandi - ha aggiunto Toti in conferenza stampa - Eravamo stati anche criticati per questo. Invece avevamo ragione e oggi restituiamo a Genova il suo ponte. In quelle parole pronunciate a caldo, con il dolore che esplodeva in noi ma con le maniche già rimboccate per lavorare, c’era tutto l’orgoglio e la tenacia tipica dei genovesi...La collaborazione tra le due strutture è stata importante. Abbiamo lavorato bene insieme. Abbiamo fatto come le coppie di poliziotti, dove c’è quello buono e quello cattivo... - ha ironizzato - Io ho fatto il poliziotto buono, Bucci quello cattivo. Lo si vede anche dal fisico, io sono quello pacioso, lui è il duro».

Zingaretti. «Nel giorno dell’apertura del nuovo Ponte di Genova il mio pensiero va prima di tutto alle vittime e alle loro famiglie. Quella tragedia rimarrà per sempre scolpita nella coscienza collettiva del Paese», ha invece scritto il segretario Pd, Nicola Zingaretti, sempre su Facebook. «Il nuovo Ponte è oggi un simbolo dell’Italia che, nella memoria, ritrova la speranza nel riscatto e nel futuro», ha aggiunto Zingaretti. «Grazie a Renzo Piano, alla sua generosità e a quella di un popolo, gli italiani, che nei momenti difficili, ha sempre saputo ritrovare la concordia e la determinazione per rialzare la testa».

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 3 agosto 2020. «Sì ma è una data simbolica, si va avanti con l'accordo per mandare via i Benetton», è la voce che arriva da un M5s che non ha voglia di parlare dello slittamento della firma di Cassa Depositi e Prestiti come socio di controllo di Autostrade per l'Italia. Ma proprio l'alto valore simbolico dell'inaugurazione del nuovo Ponte San Giorgio spiega l'imbarazzo che c'è tra i Cinque Stelle. Una conclusione del memorandum che non è arrivata in tempo per oggi, giorno del taglio del nastro dell'opera, che sarà riconsegnata dalla gestione commissariale ad Atlantia, società della famiglia di Ponzano Veneto ancora controllante di Aspi. Una serie di ritardi che sanno di beffa. E che macchiano la passerella del premier Giuseppe Conte. Capo di un governo al momento impossibilitato a esibire lo scalpo dei Benetton in pubblica piazza. Un appuntamento a cui si arriva dopo una trattativa serrata, culminata in un Consiglio dei Ministri thriller nella notte tra il 14 e il 15 luglio. Nessuna revoca della concessione, come promesso dal M5s in questi due anni. Ma una diluizione delle quote dei Benetton in Aspi, che sarà controllata quasi totalmente dallo Stato attraverso Cdp. E ora nel Movimento la sensazione è comunque di soddisfazione, seppure sporcata dalla mancata firma in tempo per l'inaugurazione. I grillini cercano di evitare le domande, provano a far passare la notizia in cavalleria, svicolano, non vogliono che gli si rovini la festa. Nelle chat si parla di altro. I soliti problemi interni: Rousseau, gli Stati Generali, il nuovo capo politico, le restituzioni. La cosa è derubricata a «questione formale». Ciò che è importante, dice un senatore, «è che abbiamo trovato il miglior accordo possibile per evitare che i Benetton gestiscano di nuovo Autostrade». E chi fa domande non è né più né meno di qualcuno che, come si suol dire, vuole trovare il pelo nell'uovo. Restano sullo sfondo le perplessità dei grillini su Paola De Micheli, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Forse la meno amata dai pentastellati tra i componenti della compagine di governo. Nel M5s ricordano le parole pronunciate dalla De Micheli in un'intervista a Sky Tg24. «Per il 3 agosto saranno definiti gli accordi tra Cdp e Atlantia, la controllante di Aspi - aveva detto l'esponente del Pd - per quella data avremo definito i dettagli di quel pre accordo che è stato approfondito nel Cdm del 14 luglio». Un programma scombinato dai troppi dubbi sulla questione delle tariffe. Intanto Stefano Giordano, un consigliere comunale di Genova del M5s, ha annunciato che non parteciperà all'inaugurazione in polemica con il governatore Giovanni Toti e il sindaco Enrico Bucci, rei di organizzare «troppe passerelle inutili e offensive». Peccato che anche i grillini a Roma siano preoccupati da un dettaglio, il ritardo della firma di Cdp sul memorandum, che rischia di rovinare la passerella a ministri, sottosegretari e al premier Giuseppe Conte.

Benedetta Vitetta per “Libero quotidiano” il 5 agosto 2020. Una buca nell'asfalto. A ventiquattr' ore esatte dalla cerimonia di inaugurazione col primo passaggio del viadotto fatto dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, il nuovo ponte San Giorgio di Genova, l'ex Morandi, è già da rattoppare. C'è da non crederci, ma purtroppo è quanto accaduto ieri pomeriggio. A pochi minuti dalla riapertura al pubblico - molti quelli che si erano messi in coda per prendere parte all'evento - sono cominciati i primi guai per il nuovo ponte, l'infrastruttura "modello" considerata il simbolo dell'Italia che si rimetteva in piedi dopo la tragedia del 14 agosto 2018 in cui - all'improvviso - il viadotto del Polcevera crollò su se stesso portandosi dietro ben 43 persone. Stando alle prime informazioni, l'avvallamento del manto stradale del nuovo ponte progettato dall'archistar genovese Renzo Piano, sarebbe stato causato dal peso di una delle strutture allestite per la cerimonia di inaugurazione. Ci sarebbe da ridere, ma pensare che da qui alle prossime ore - dopo aver riparato la buca e atteso il tempo affinché l'asfalto si asciughi - sul viadotto transiteranno quotidianamente centinaia di Tir che, di certo, pesano qualche tonnellata in più di una struttura provvisoria poggiata sul ponte per qualche ora, mette i brividi e fa pensare a quanto possa essere sicura la nuova infrastruttura. Realizzata sì in tempi da record, ma forse a ben vedere soltanto in fretta e furia. E senza nemmeno troppi controlli. Basta ricordare la polemica di qualche settimana fa quando si è scoperto che il nuovo viadotto si sarebbe dovuto attraversare a una velocità ridotta rispetto a quella in cui si viaggiava sul ponte Morandi. Passando dai 90 ai 70 km l'ora. E questo perchè, per ridurre i tempi di consegna dell'opera, si è scelto e preferito non modificare una curva del precedente viadotto. E nonostante gli addetti ai lavori fossero a conoscenza della situazione fin dall'inizio, la notizia è stata divulgata soltanto a pochi giorni dalle prove di collaudo. Insomma, a lavori più che ultimati. Una figuraccia che si somma a quest' ultima figuraccia e che è, inevitabile, varcherà i confini nazionali. Mettendoci ancora una volta alla berlina di fronte all'Europa e al mondo. Lo sberleffo finale è stata l'ispezione finale a pochi attimi dalla riapertura da cui è appunto emersa la necessità di una rifinitura della pavimentazione. Una buca da rattoppare. Lavori curati dalla struttura commissariale che sono stati ultimati dai tecnici della società PerGenova. Comunque, dopo due anni e qualche ora di ritardo, il ponte San Giorgio e il tratto di autostrada A10 crollato è tornato in funzione, ancora sotto la gestione da Autostrade (Aspi). E più passano i giorni e più pare che a trattativa tra governo e Atlantia si stia arenando del tutto. I Benetton, anche ieri durante il cda della holding di Ponzano Veneto, Atlantia, hanno confermato l'uscita dalla società concessionaria, ma pensano a «soluzioni alternative» - un'asta internazionale o una public company da quotare in Borsa contenente l'intera quota dell'88% detenuta da Atlantia in Autostrade per l'Italia - viste le «concrete difficoltà» in cui versano le trattative con Cassa Depositi e Prestiti.

Caserta, i pirati dei ponti pericolanti: transitano lo stesso su quelli chiusi al traffico. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea pasqualetto. Un anno fa, mentre il sindaco ingegnere di Orta di Atella ci indicava uno dei ponti che aveva chiuso al traffico «perché pericolante», definendolo «una bomba a orologeria», sopra ci stava passando un trattore. «Eh, quello se ne frega», disse con un mezzo sorriso, come se fosse la norma. Siamo tornati su quel ponte, sotto il quale scorre incessante il fiume di macchine della Statale 7bis della Terra dei fuochi (Caserta). La struttura è rimasta quella, nel senso che non sono stati fatti interventi di manutenzione, stesse buche, stessi calcinacci, stessa struttura malandata. L’accesso è naturalmente sempre vietato e un cartello stradale lo dice chiaro. E non è cambiato neppure il traffico, sia sopra che sotto, anzi, è aumentato. Trattori, macchine, camion, biciclette. «Vedi, questo si stacca e cade giù», dice l’ingegner ed ex sindaco Villano mentre prende in mano un pezzo di cemento del ponte. E giù ci sono automobili e tir che corrono veloci, forse ignari del fatto che ogni tanto un calcinaccio cade giù e talvolta colpisce chi passa. «E’ successo, fortunatamente senza conseguenze per chi guidava”. Già, ci si affida alla dea bendata, in questo angolo d’Italia dove quello dei ponti è forse solo l’ultimo dei pensieri. Ma cosa c’è dietro alle vicende di questo e di un altro ponte che si trovano nello stesso Comune, sulla stessa Statale, entrambi chiusi al traffico un anno fa? Al di là di una certa predisposizione al rischio e alla violazione del codice della strada da parte di chi decide di attraversarli nonostante il divieto, mettendo in pericolo anche gli ignari automobilisti e camionisti che sfrecciano sulla Statale, dietro c’è il mondo dei ponti «fantasma». Parliamo di cavalcavia che hanno una carta d’identità incerta, nel senso che non si sa chi sia il proprietario. Province? Comuni? Consorzi? Anas? In Italia ce ne sono centinaia. Rimanendo a quelli che incrociano le strade gestite dalla società pubblica (circa 30 mila chilometri), l’ultimo aggiornamento parla di 763 strutture. Le ragioni della proprietà indefinita sono da ricercarsi nella lunga storia delle strutture, nel corso della quale spesso subentrano nuovi soggetti, per cui risulta difficile capire chi deve fare cosa. E, nell’incertezza, nessuno fa nulla. Nessuna manutenzione, nessun intervento. Anche perché mettere le mani su un bene immobile che non è di proprietà può creare dei problemi. È quanto successo a Orta. Dove la questione proprietà è finita davanti al Tar della Campania, che proprio di recente ha stabilito che quantomeno non è di Anas. Ma al di là delle beghe giudiziarie, nell’attesa che spunti un gestore, e al di là delle responsabilità sul controllo, delle quali abbiamo ampiamente trattato in un’inchiesta sul Corriere della Sera, i «pirati» dei cavalcavia chiusi ci mettono la loro. Spostano le barriere in cemento che impediscono l’accesso, ignorano i divieti e salgono e scendono dai ponti con grande disinvoltura. Anche perché, in termini di multa, il rischio è minimo. E nessuno, né un vigile, né un poliziotto, né un carabiniere, sembra fare nulla. Ne abbiamo chiesto ragione si vigili urbani. Risponde al telefono Pasquale Pugliese, il comandante di Orto di Atella, 30 mila abitanti: «Io purtroppo non li conosco questi ponti, anche perché mi sono insediato da poco. Aspetti che chiedo...». Un minuto dopo: «Ho chiesto, dobbiamo verificare. Faccio un sopralluogo e domani le dico». Scusi, ma non c’è un vigile che possa saperne qualcosa? «Purtroppo no, qui la situazione non è per niente facile. Ci sono due vigili per 30 mila abitanti e il Comune è stato sciolto per infiltrazioni di camorra. Non c’è personale, capisce? È sparito. Ma adesso vado sul posto e domani le dico tutto». Orta di Atella, Campania, Italia. Un Far West. Nel frattempo pure Villano, l’ex sindaco del Comune sciolto, sale sul ponte con la macchina. E, dal ponte, avverte: «Qui si rischia qualcosa di nefasto».

Anas, 3.500 ponti fuori controllo e 763 senza proprietà. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Andrea Pasqualetto. La società ha un budget di 29 miliardi di euro, eppure nel 2019 le ispezioni obbligatorie per legge si sono fermate al 28%. La lista degli «anonimi» non è mai stata resa nota, ma nel gennaio 2019 Dataroom ne aveva individuato alcuni sulla trafficatissima Statale 7 bis in Campania. A Orta di Atella (Caserta) l’allora sindaco Andrea Villano, professione ingegnere, ne aveva chiusi due al traffico perché nel manto stradale si erano aperte delle grosse fessure e sulla Statale cadevano pezzi di impalcato. Siamo tornati sul posto pochi giorni fa: nessun intervento è stato fatto, i due ponti sono sempre più malandati, i calcinacci continuano a cadere sulla strada, e i buchi sono sempre lì. Eppure per Anas «non sono emerse forti criticità». «Ma se cade il calcestruzzo sulla Statale, com’è possibile che non sia necessario un intervento?», si stupisce l’ingegner Villano, mostrando i pezzi di cemento che si staccano a mano. Mentre sugli stessi cavalcavia, sempre ufficialmente chiusi al traffico, passano auto, camion, trattori. E, sotto, il serpentone delle auto corre incessante. Come va invece sui 14.500 ponti e viadotti che hanno una proprietà certa e Anas deve gestire? Un mese fa sul tavolo della ministra delle Infrastrutture, Paola De Micheli, è arrivato un documento. Era accompagnato da una lettera firmata da Gianni Armani, l’ex amministratore delegato di Anas, il quale, venuto in possesso dei dati sorprendenti sull’attività di sorveglianza, ha voluto informare il governo «per ragioni di sicurezza del Paese», dice. Il documento riporta i dati riguardanti le ispezioni registrate fino a dicembre 2019: quelle sui ponti principali e critici si sono fermate a neppure un terzo del dovuto, le verifiche sulla pavimentazione azzerate e i nuovi camion dotati di laser scanner fermi in magazzino per l’intero anno. Veniamo al dettaglio delle ispezioni. Secondo l’ultimo aggiornamento i ponti da sorvegliare nel 2019 erano 4991. Si tratta delle ispezioni obbligatorie per legge da effettuare da parte di ingegneri qualificati sui viadotti principali (quelli con campata di luce superiore ai 30 metri di lunghezza), e critici (segnalati dai cantonieri per lo stato di salute non ottimale). Nell’anno appena concluso ne sono state fatte 1419, il 28%. Nel 2018 erano state il 56%. Un’attività di fatto dimezzata rispetto all’anno precedente. Significa che oggi Anas potrebbe non conoscere le condizioni in cui si trova il 72% delle sue strutture più delicate. In questo quadro generale devono essere fatti dei distinguo. Ci sono regioni, come Piemonte e Friuli Venezia Giulia, in cui la verifica obbligatoria annuale segna «zero», quando ne erano invece previste rispettivamente 205 e 64. Le Marche ne hanno registrata una su 271, Autostrade Siciliane, zero ispezioni su 348 da fare. L’Autostrada del Mediterraneo, cioè la Salerno-Reggio Calabria, che ha dentro il viadotto Stupino e il viadotto Italia, fra i più alti d’Europa: 7 strutture ispezionate su 574. Sul fronte opposto, invece, la Liguria, dove l’Anas ha passato al setaccio 201 ponti quando avrebbe dovuto ispezionarne solo 18, andando così ben oltre il dovuto, caso unico in Italia. Uno zelo dovuto forse ai disastri che hanno colpito la Regione. Nel corso dell’anno i chilometri di carreggiata da tenere sotto controllo, sono aumentati da 26.373 a oltre 29 mila, a causa del passaggio di diverse strade provinciali nell’alveo di Anas. Per le «ispezioni sulla pavimentazione» che registrano le condizioni dell’asfalto, lo scorso dicembre il sistema sfornava uno zero tondo. Allo scopo di programmare e realizzare gli interventi, nei primi mesi del 2018, era entrato inoltre in funzione il sistema Pms, finalizzato a una manutenzione tempestiva e puntuale delle nostre strade. Prevede l’utilizzo di mezzi mobili attrezzati con laser scanner che verificano l’asfalto, tenuta, rugosità, buche... Nel 2018 ne erano stati acquistati 4 (su un totale di 8 previsti a regime) che avrebbero dovuto battere in lungo e in largo la Penisola. Eppure nel 2019 questa attività sembra essersi fermata. Mancano forse i fondi? No. L’Anas dispone infatti di risorse importanti. Il contratto di programma stipulato con il Ministero delle Infrastrutture aveva stanziato per il quinquennio 2016-2020 23,4 miliardi, aumentati lo scorso anno a 29,9, più della metà per la manutenzione programmata, l’adeguamento e la messa in sicurezza di ponti, gallerie e pavimentazione, al punto da far scrivere alla stessa Anas che «questo ci consentirà di disporre di fondi rilevanti per la manutenzione e la messa in sicurezza della rete autostradale esistente». In più, per il biennio 2019-2020, ben 2,7 miliardi sono stati destinati alla manutenzione straordinaria. Sono stati spesi meno di 200 milioni. Cosa non funziona? La mancanza di un controllo sistematico e trasparente delle strade non può che favorire fenomeni corruttivi. Se non carichi a sistema i risultati delle ispezioni, puoi gestire come ti pare i rapporti con le aziende. È il caso dei funzionari Anas di Catania e degli imprenditori recentemente arrestati in Sicilia per tangenti. Dalle indagini della Guardia di Finanza è emerso fatturavano lavori di manutenzione che venivano eseguiti solo parzialmente, in modo da spartirsi il residuo. Oppure registravano in contabilità la sostituzione di barriere di sicurezza mai avvenuta. A Trieste sono in corso indagini su un sistema di spese gonfiate nella manutenzione delle strade e di mazzette a un paio di dipendenti Anas. A Firenze sono state rinviati a giudizio in 18 per corruzione e abuso d’ufficio, fra cui 4 funzionari Anas. Fra le accuse quella di aver affidato lavori in urgenza senza che ci fosse l’urgenza e affidamenti diretti quando invece necessitava una gara d’appalto. Si trattava di asfaltature, manutenzioni straordinarie di ponti e viadotti. E il Ministero delle Infrastrutture, al quale spetta il controllo dell’attività di Anas, cosa dice? Risponde che, in merito ai propri ponti «si è in attesa da Anas della relazione 2019»; quanto ai cavalcavia anonimi «Anas ha assicurato di aver messo in essere processi di sorveglianza e controllo analoghi a quelli per ponti e cavalcavia di proprietà». Come dire, l’oste ha detto che il suo vino è buono. È il caso di precisare che sui ponti non di proprietà che richiedono manutenzioni urgenti (come il caso della Campania), basta chiedere al Ministero l’autorizzazione ad utilizzare le risorse esistenti. Insomma, chi dovrebbe controllare Anas, il Mit, dice che si fida del controllato. E il controllato, Anas, dice che va tutto bene. A guidare Anas è l’amministratore delegato Massimo Simonini, un manager interno senza esperienza di programmazione e controllo, voluto un anno fa dal ministro Danilo Toninelli. A dicembre era stato sfiduciato dal cda, e poi miracolosamente salvato. Anche Toninelli, che aveva scarse competenze di Infrastrutture, è stato sostituto e al suo posto ora c’è Paola De Micheli. Laurea in scienze politiche, De Micheli è una manager del settore agroalimentare, già sottosegretario all’economia e alla Presidenza del Consiglio e non memorabile commissario straordinario alla ricostruzione del terremoto del Centro Italia. Pure lei si cimenta per la prima volta con le Infrastrutture, e magari ritiene Anas adatta a prendersi la concessione dei 3.000 km di Autostrade.

Autostrade: ecco quali sono le gallerie a rischio crollo. Secondo il dossier del Mit anche la galleria Berté era tra quelle segnalate perché insicure e non a norma. Barbara Massaro il 10 gennaio 2020 su Panorama. Sono 200 le gallerie italiane segnalate dal dossier del Mit come insicure, non a norma o a rischio crolli. Dopo la caduta di parte della volta della galleria Berté (200 tonnellate di calcinacci) alla vigilia di Capodanno quando solo per miracolo non ci sono state vittime, è stato aperto un dossier urgente sullo status delle gallerie autostradali italiani. Il documento è stato elaborato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, organo tecnico del Ministero delle Infrastrutture, e inviato alla direzione del Mit, ad Aspi, ai Vigili del Fuoco e a tutti i Provveditorati dell’Opere Pubbliche.

Quali sono le gallerie a rischio crollo. Oggi si scopre che la galleria Berté sulla A26 già due mesi prima del crollo era stata segnalata dal Consiglio Superiore dei Lavori pubblici al Mit, ad Autostrade, al dipartimento dei vigili del fuoco e ai provveditorati alle Opere pubbliche perché non a norma e a rischio crolli. E dopo il disastro del 30 dicembre l'inchiesta si è allargata a macchia d'olio arrivando al drammatico elenco di 200 gallerie non a norma. Centocinque sono di competenza di Autostrade, mentre 90 di altre società. Sempre sulla A26 tra quelle che compaiono nel dossier ci sono la Turchino, vicino Genova, e più a nord la Mottarone. E ancora sulla A10 la Coronata nei pressi del tristemente noto viadotto Polcevera e ancora in Liguria sono segnalate un'altra decina di tunnel sulla A12 Genova-Rosignano (tra cui sono a rischio la Veilino, la Monte Sperone e la Maddalena) e sulla A7 Genova-Milano la galleria Serravalle. Tra le tratte di competenza Aspi, sono segnalate una decina di tunnel sulle dorsali appenniniche fra Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna. Nel nord est, sulla A23 tra Udine e Tarvisio ci sono la Monreale e la Monte Galletto. Sull'Adriatica la Pedasio e la Castello Grottammare, già chiusa nell'agosto 2018 per un incidente e riaperta dopo sei mesi.

Non solo crolli. Il rischio non è solo quello dei crolli come nel caso della galleria Berté, ma le gallerie non sono sicure perché non dotate di sistemi antincendio adeguati, non hanno corsie di fuga o corsie d'emergenza, sono soggette a infiltrazioni d'acqua e, in generale, non rispondono agli standard di sicurezza richiesti dall'Europa per i tunnel di lunghezza superiore ai 500 mt che dovrebbero essere tutti impermeabilizzati, dotati di corsie d'emergenza e via di fuga, di videosorveglianza, di luci guida in caso di evacuazione e di stanze a tenuta stagna. Si tratta di norme che dovrebbero essere l'adeguamento alla direttiva europea 54 del 2004. Bisogna capire, quindi, perché la direttiva europea recepita nel 2006 che doveva essere applicata entro aprile 2019 non è stata rispettata e definire le responsabilità di chi è stato connivente con questa pericolosa mancanza strutturale della rete autostradale italiana che, in primo luogo mette a rischio la vita di chi viaggia ogni giorno, e poi fa sì che l'Italia possa incorrere nell'ennesima procedura d'infrazione europea che comporta multe e sanzioni (che poi ricadono sulle tasche dei cittadini). Aspi rende noto che il 90% delle gallerie citate nel dossier è in fase di adeguamento.

Tommaso Fregatti e Marco Grasso per “la Stampa” il 10 gennaio 2020. Duecento gallerie "fuorilegge" in tutta Italia. Per la precisione 105 sulla rete in concessione ad Autostrade per l' Italia, 90 alle altre società. L' indagine sul crollo della galleria Bertè, avvenuta il 30 dicembre sulla A26, nei pressi del comune ligure di Masone, potrebbe allargarsi a macchia d' olio, un nuovo ciclone giudiziario che potrebbe abbattersi sulla società concessionaria, già sotto inchiesta per il crollo del Ponte Morandi e per lo scandalo dei falsi report sulla sicurezza dei viadotti. Sotto la lente degli investigatori è finito il mancato adeguamento alla direttiva Ue recepita dall' Italia nel 2006, i cui obiettivi dovevano essere raggiunti nell' aprile del 2019. E il primo censimento operato dalla Guardia di Finanza inquadra una situazione drammatica che, di fatto, accomuna tutti i concessionari. Inchiesta "fotocopia" Il cedimento della galleria sembra avere innescato una reazione a catena, simile al canovaccio dei viadotti autostradali. La Procura di Genova, indagando sul Morandi, scopre che i rapporti sulla sicurezza del viadotto erano dei "copia-incolla": i voti erano sistematicamente "ammorbiditi". Rapidamente, lo sguardo dei magistrati si allarga a un intero sistema, improntato al risparmio dei costi di manutenzione: decine di altri viadotti entrano nelle indagini. E nel mirino finisce un sistema che di fatto si controllava da solo: Autostrade affidava le verifiche, e secondo chi indaga le influenzava, a Spea, società di fatto subordinata. Il problema dei tunnel è che il sistema dei controlli e gli attori coinvolti sono gli stessi. La scala di valutazione dei rischi andava da 10 (valore che indica condizioni ottime) a 70 (voto che impone la chiusura del viadotto o della galleria e lavori immediati. La Bertè, da cui si sono distaccate due tonnellate e mezzo di cemento, aveva ricevuto 40, cioè un rischio di cedimento molto contenuto.

Verso nuove accuse di falso. Il rapporto è stato sequestrato ieri dai militari del Primo Gruppo della Finanza, coordinati dal colonnello Ivan Bixio, e dal Nucleo metropolitano, guidato al colonnello Giampaolo Lo Turco. Gli investigatori hanno acquisito anche altro materiale nella sede di Spea. La distanza tra ciò che era stato certificato e quanto accaduto aprirà quasi certamente una nuova ipotesi di reato di falso. L' antipasto di una serie di accertamenti che investe l' intero sistema dei tunnel: su che base venivano compilati i report di sicurezza? Che tipo di ispezioni venivano condotte? E, soprattutto, qual è la reale condizione della rete di gallerie? Il punto di partenza è la direttiva Ue, che avrebbe dovuto imporre standard di sicurezza più elevati e moderni, in materia di antincendio, illuminazione, vie di fuga, reti di protezione, drenaggio, semafori, ventilazione. Autostrade è largamente inadempiente, e questo potrebbe pesare sul piatto di una eventuale revoca della concessione, o su una maxi-multa. Ma in questa condizione, sottolineano fonti interne, la società è in buona compagnia, e tra gli irregolari c'è Anas. Non è escluso che i magistrati possano contestare responsabilità allo Stato sui mancati controlli e per aver consentito questo andazzo. E ieri in una galleria della A10, ad Arenzano, poco fuori Genova, si è staccata parzialmente un' altra "ondulina". Pensati come rimedi provvisori, per incanalare le infiltrazioni nei tunnel, sono diventati un panorama molto frequente in tutte le gallerie della rete. E questo potrebbe essere oggetto di accertamenti, sul fronte della manutenzione.

Non solo ponti, l'allarme del Ministero: “200 gallerie sono a rischio in Italia”. Le Iene il 10 gennaio 2020.  Sarebbero 200 le gallerie autostradali a rischio in tutta Italia. È quanto trapela da un dossier del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici inviato al ministero delle Infrastrutture e Trasporti. Con Giulio Golia vi abbiamo mostrato le terribili condizioni dei viadotti di Genova dove ci sarebbe anche l’ombra di dossier con dati falsificati. Non solo ponti che tremano e crollano: duecento gallerie autostradali sono a rischio in tutta Italia. È questo il risultato del censimento dopo i controlli partiti in seguito al crollo all’interno della galleria Bertè sulla A26, nei pressi di Masone (Genova). Con Giulio Golia vi abbiamo mostrato lo stato dei viadotti liguri documentando in alcuni casi distacchi di calcinacci e addirittura bulloni. Dopo il crollo della galleria Bertè, il 30 dicembre sulla A26, nei pressi di Masone, le autostrade sono finite nuovamente sotto la lente dopo il dossier del Consiglio superiore dei lavori pubblici acquisito dalla Guardia di Finanza di Genova: 200 gallerie in tutta Italia non sarebbero a norma con i requisiti antincendio tanto che l’Italia rischia una procedura d’infrazione dall’Unione Europea. Ci sono tunnel lunghi oltre 500 metri presentano pericoli di incidenti e crolli. Alcune di queste gallerie sarebbero prive di sistemi di sicurezza, di corsie di emergenza e vie di fuga. In alcuni casi esisterebbero delle prescrizioni per attraversarle come limitare la velocità, aumentare la distanza minima tra i veicoli, vietare il sorpasso, il transito per i mezzi che trasportano merci pericolose, infiammabili e tossici. “Sulla nostra rete è in corso l’adeguamento degli impianti. Nel 90% delle gallerie interessate è stato concluso nel restante i lavori sono in corso di aggiudicazione", replicano da Autostrade per l’Italia. Nella lettera del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici viene fatto riferimento anche alle perquisizioni compiute dalla Guardia di Finanza, a seguito dei 43 morti causati dal crollo del ponte Morandi, sulle barriere antirumore a rischio crollo e sui falsi report dei viadotti ritenuti a rischio. Giulio Golia ha documentato come la società incaricata delle verifiche avrebbe falsificato i dati delle ispezioni in cui emergevano strutture più sicure di quanto in realtà non lo fossero (clicca qui per il servizio). Dalle verifiche sul ponte Morandi sono emersi dettagli che, se fossero veri, sarebbero agghiaccianti: “I report presentavano deficit di informazioni. Si affermavano positivamente i controlli che avevano dato un certo risultato senza che corrispondesse un’ispezione effettiva”, sostiene Francesco Cozzi, procuratore capo di Genova. Nell’elenco dei ponti che sarebbero finiti nell’elenco dei report falsificati ci sarebbe anche il viadotto Bisagno.  “È emerso che i cassoni non sono stati oggetto di ispezione da diversi anni”, racconta il procuratore Cozzi. In procura se ne sono accorti perché negli ultimi anni davano sempre gli stessi risultati. “Io reputo che i tecnici che hanno omesso di fare degli accertamenti si sono uniformati a linee aziendali. Dalle indagini è emerso che in qualche caso gli è stato detto di non fare quei numeri”. Tra i ponti sotto la lente della procura c’è il Pecetti, chiuso qualche settimana fa. Dai documenti emerge una situazione davvero preoccupante: “La relazione risulta falsificata modificando le cifre riportate”, si legge. “Non si può pensare che continui un modo di procedere anche dopo una tragedia di questo tipo. Non c’è nessun elemento che lo giustifichi”, commenta Cozzi. “È accaduta una cosa singolare che per alcuni ponti sottoposti a ispezioni risultano gradi di ammaloramento più intenso rispetto a quello di 3 mesi fa. In alcuni casi si traduce con chiusura immediata”. 

PARLIAMO DELLA LIGURIA.

Arrestato il direttore provinciale dell'Agenzia delle Entrate. Era appena uscito dalla Manuelina a Recco. L'operazione è avvenuta ieri sera. Fermato mentre prendeva la tangente, in manette anche altre tre persone, scrivono Giuseppe Filetto e Stefano Origone l'11 aprile 2017 su "La Repubblica". Arrestato il direttore provinciale dell'Agenzia delle Entrate, Walter Pardini. L'inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e dal sostituto procuratore Massimo Terrile. Le indagini sono affidate al Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. La contestazione è quella di corruzione. L'arresto è avvenuto in flagranza ieri sera alle 23.30 all'uscita del ristorante Manuelina di Recco, dove Pardini avrebbe appena incassato una tangente da 7500 euro da un avvocato e da due commercialisti. I tre professionisti lavorano per un'azienda campana di vigilanza, la Securpol, che ha aperto un contenzioso con il Fisco e che avrebbe trasferito la sua sede a Genova, appositamente per poter avvicinare Pardini.In manette sono finiti i commercialisti Massimo Alfano e Francesco Canzano, e l'avvocato Luigi Pelella, esponente di Forza Italia, tutti napoletani, mentre un ulteriore 57enne professionista genovese è indagato a piede libero in concorso. Per tutta la mattinata si sarebbero protratte le perquisizioni nel suo ufficio in via Fiume. Secondo gli investigatori non sarebbe stata la prima volta che Pardini intascava soldi. Il direttore si era insediato a Genova ai primi di gennaio del 2016 ed era arrivato da Livorno dove aveva ricoperto lo stesso incarico. Le indagini sono partite dopo il trasferimento della sede della società da Napoli a Genova senza alcun apparente motivo. L'azienda aveva un contenzioso fiscale con le Entrate in Campania e, secondo gli investigatori, il cambio di sede sarebbe legato alle promesse ottenute da Pardini per un suo intervento sulla pratica in cambio di soldi. L'Agenzia delle Entrate con un comunicato è intervenuta in merito all'arresto del direttore Pardini. "La direzione regionale della Liguria dell’Agenzia delle Entrate ringrazia e offre la massima collaborazione all’autorità giudiziaria per far piena luce sulla vicenda che ha portato all’arresto del direttore della Direzione Provinciale di Genova, nell’ambito di un’inchiesta per reato di corruzione. Di conseguenza l’Agenzia ha immediatamente adottato la sospensione cautelare dal servizio in attesa del provvedimento dell’Autorità giudiziaria a seguito del quale verranno assunte tutte le misure disciplinari, contrattuali e risarcitorie per tutelare l’istituzione e la dignità dei propri dipendenti che operano onestamente e scrupolosamente. L’Agenzia delle Entrate condanna con risolutezza i comportamenti disonesti, dinanzi al quale adotta con fermezza e celerità sanzioni disciplinari espulsive, e da anni orienta i propri sistemi di controllo interno nell’individuazione e prevenzione di ogni possibile abuso con particolare riferimento ai potenziali comportamenti fraudolenti". Sono choccati e amareggiati i 400 impiegati dell'Agenzia delle Entrate di Genova. I dipendenti sono tenuti al silenzio sulla vicenda, ma qualcosa dalle loro bocche esce, considerazioni generali e raccontano il loro stato d'animo. In tutti c'è grande tristezza. "Quasi ci vergogniamo, perché le battute su di noi ci sono sempre state, però mai era accaduto un fatto tanto grave come l'arresto di un direttore. Noi crediamo che servano leggi più dure contro la corruzione, altrimenti questo sistema non finirà mai". Pardini, lavorava a Genova da solo un anno. Un toscano di Livorno che faceva la spola fra la sua casa a Lucca e l'ufficio di via Fiume, e di cui tutti parlano bene: "Una persona deliziosa e non sto scherzando", dice una impiegata. "Non avremmo mai immaginato un fatto tanto grave - aggiunge un altro dipendente - il direttore sembrava il ritratto del rigore e dell'onestà". Mentre i dipendenti lasciano il palazzo per la pausa pranzo escono anche i finanzieri che hanno perquisito gli uffici di Pardini: con loro portano documenti e il pc del direttore.

In 2 mila alla contromanifestazione, un ferito lieve. Ultradestra a Genova, tensione in piazza: spranghe e molotov sequestrate, scrive Fabio Canessa sabato 11 febbraio 2017 su "Primo Canale”. Un intero quartiere blindato, centinaia di uomini delle forze dell'ordine, piccoli scontri subito sedati e un ferito lieve. E tanti genovesi in strada, almeno 2 mila, per dire no al convegno che le ultradestre europee hanno voluto organizzare a Genova. Un intero quartiere blindato, centinaia di uomini delle forze dell'ordine, piccoli scontri subito sedati e un ferito lieve. E tanti genovesi in strada, almeno 2 mila, per dire no al convegno che le ultradestre europee hanno voluto organizzare a Genova. Un corteo con oltre duemila persone si è mosso da piazza Ragazzi del '99, dove alle 12.30 è iniziato il concentramento, e si è riversato in piazza Sturla. Qui un piccolo gruppo di manifestanti si è scontrato con la polizia, mentre poco distante veniva sequestrato un furgone con spranghe, molotov e altri oggetti atti a offendere. Tensione che poi è calata fino allo scioglimento della manifestazione. Nel frattempo i militanti di estrema destra - un centinaio di persone - si sono incontrati nella sede di Forza Nuova, in via Orlando 2, protetti da imponenti misure di sicurezza. L'allarme era scattato negli scorsi giorni. L'Alliance for peace and freedom, presieduta da Roberto Fiore, leader di Forza Nuova, ha invitato i leader dei maggiori partiti ultranazionalisti europei - Udo Voigt, Yvan Benedetti, Sarmiza Andronic, Nick Griffin - al convegno 'Per l'Europa, per le patrie'. Gli organizzatori hanno tentato in tutti i modi di prenotare la sala di un albergo o di un centro convegni, ma hanno incassato decine di no. Da qui la scelta di riunirsi nella sede genovese di Forza Nuova, un piccolo appartamento nei fondi del palazzo. La risposta antifascista è arrivata con una manifestazione organizzata da Anpi e partecipata da decine di associazioni e forze politiche e sindacali. In rappresentanza delle istituzioni si sono uniti il sindaco Doria e il vicesindaco Bernini con numerosi assessori e presidenti di municipio, alcuni parlamentari liguri tra cui Basso, Pastorino e Quaranta, sigle sindacali (soprattutto Fiom e Cgil) e vari movimenti. Tutti uniti per riaffermare i valori costituzionali e l'antifascismo. Ad accompagnare il corteo sono i canti partigiani e rappresentativi della sinistra (Bella ciao, Fischia il vento). Tanti anche i giovani che spontaneamente si sono uniti. Il presidio si è riunito in piazza Ragazzi del '99, poco sopra la stazione di Sturla. Intorno alle 13.30 si è formato un corteo pacifico che ha percorso via Isonzo e via Sturla per poi raggiungere la piazza. Due cordoni di polizia composti da camionette, cancellate anti sfondamento e decine di agenti hanno protetto l'accesso di via Orlando, uno posizionato a ridosso della strada e un altro a metà di via Caprera. I manifestanti si sono radunati nella parte a levante di piazza Sturla, con l'obiettivo iniziale di mantenere fermo il presidio. Nel frattempo gli agenti della Digos trovano un furgone sospetto: all'interno spranghe, molotov e altri oggetti da guerriglia. Tutto sequestrato: c'è chi non è venuto in pace. Primi momenti di tensione quando un gruppo di manifestanti indipendenti dal corteo lancia bottiglie e fumogeni avanzando di diversi metri e arrivando con la testa del corteo a pochi metri dal cordone di sicurezza. Dopo le 15 da via Sturla giunge un'ambulanza che si fa strada tra la folla. Per farla passare è necessario aprire un varco nella barriera dei mezzi della polizia. Un gruppetto ne approfitta per tentare di sfondare e subito parte una carica di alleggerimento. Qualcuno grida "Basta, basta, pace, pace". Un giovane rimane lievemente ferito da un oggetto volante. Gli agenti restano con gli scudi alzati per qualche minuto, poi arrivano segnali di distensione. È il preludio alla fine della manifestazione: l'Anpi chiama un presidio alla Casa dello studente, ma la maggior parte torna a casa. I militanti di estrema destra hanno raggiunto via Orlando poco dopo le 15.30 scortati dalla polizia, quasi alla chetichella. All'interno Fiore attacca: "Siamo noi le vittime di violenza. A Genova c'è una mentalità mafiosa, peggio di Bagheria". Prima delle 18 il convegno si è concluso senza disordini. La situazione resta monitorata ancora per ore. Poi Sturla e Genova tirano un sospiro di sollievo. Un anno fa, sempre in questa via, si sono sfiorati scontri in occasione dell'inaugurazione della sede di Forza Nuova. Questa volta le contromisure sono state ben più massicce: circa 400 agenti in campo, decine di automezzi, pattuglie della polizia locale e traffico in tilt per ore. E soprattutto, saracinesche serrate nel timore di un altro pomeriggio violento per la città. 

"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso". Il capo della Polizia: "Un'infinità di persone subirono violenze che hanno segnato le loro vite. In questi 16 anni non si è riflettuto a sufficienza. E chiedere scusa a posteriori non è bastato", scrive Carlo Bonini il 19 luglio 2017 su "La Repubblica". Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare. Ma il tempo del G8 di Genova è come fosse rimasto ibernato a quei giorni di luglio di sedici anni fa. Lasciando che la ferita torni a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria: il caso Cucchi, il caso Aldrovandi, il dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge sulla tortura. La Diaz, Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani sono una scimmia assisa sulla cattiva coscienza del Parlamento, che sui fatti e sulle responsabilità di quei giorni rinunciò a indagare con i poteri della commissione di inchiesta in due successive legislature preferendo pavidamente "attendere" il corso della giustizia penale. Sono un fantasma che non ha mai smesso di abitare il secondo piano della palazzina del Dipartimento della Pubblica sicurezza, gli uffici del capo della Polizia. Dove, in quei giorni di luglio del 2001, era Gianni De Gennaro. E dove è oggi Franco Gabrielli. "La nottata non è mai passata - dice - A Genova morì un ragazzo. Ed era la prima volta dopo gli anni della notte della Repubblica che si tornava ad essere uccisi in piazza. A Genova, un'infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori. Dopo dieci anni e dopo le sentenze di condanna definitive per la Diaz e Bolzaneto. Se infatti ciclicamente e invariabilmente si viene risucchiati a quei giorni, se il G8 di Genova è diventato un benchmark cui si è condannati a restare crocefissi, questo vuol dire non solo che non è stato messo un punto. Ma, soprattutto, che il momento di mettere questo punto è arrivato. Per non continuare a dover camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro".

Vuole metterlo lei "il punto"?

"Diciamo che vorrei provare a dare un contributo. Che, quantomeno, aiuti a creare le migliori condizioni perché questo diventi finalmente possibile".

Magari non è mai stato messo un punto, perché la storia, per diventare tale ed essere consegnata al passato, richiede una memoria condivisa e uno sguardo obiettivo. E il racconto del G8 di Genova non ha né l'una, né l'altro. Non trova?

"Spero non suoni ruffiano, ma il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ebbe a scrivere un qualche tempo fa che l'obiettività, in quanto tale, non esiste. Perché neanche una fotografia riesce ad essere testimone imparziale di un evento".

Dunque?

"Dunque, da capo della Polizia, la sola strada che posso percorrere, la sola obiettività che posso riconoscermi, è dichiarare senza ipocrisie cosa penso di ciò che è accaduto nel luglio del 2001 a Genova e di cosa è accaduto nei sedici anni che sono seguiti. Non fosse altro perché sono nella migliore condizione per farlo".

Perché?

"Perché sono libero".

Libero? Da cosa? Da chi?

"Nella vita non basta essere capaci. Spesso ci vuole fortuna. La mia fortuna di poliziotto è che al G8 di Genova non c'ero. Da dirigente della Digos di Roma, quale ero nel 2001, sarei dovuto essere lì. E dico di più. Sarei molto probabilmente finito nel cortile della scuola Diaz. Ma non andò così. L'Ucigos stabilì che io rimanessi a Roma per lavorare al dispositivo di sicurezza che doveva garantire la visita di Bush subito dopo il G8 di Genova. Questo significa che, oggi, non ho niente o nessuno da difendere. Che ho la stessa libertà, e spero che il paragone non suoni sproporzionato, che avvertii la mattina del 7 aprile 2009 quando da neonominato prefetto dell'Aquila mi trovai a gestire la catastrofe del terremoto. Avevo testa e sguardo limpido. Non avevo un passato che mi zavorrava".

E da uomo libero cosa vede dunque?

"Se dovessi dare un giudizio lapidario, direi che a impedire quella che lei definiva la "costruzione della memoria condivisa" è stata la rappresentazione abnorme e strumentale, spesso speculare e contrapposta, di quanto è accaduto. Le faccio due esempi, tra i molti che potrei fare. È falso - e sottolineo falso - che nell'accertamento della verità giudiziaria sui fatti di Genova abbia influito una magistratura ideologizzata. La Polizia italiana non è stata perseguitata dal procuratore Enrico Zucca per motivi ideologici. Non solo perché non è vero. Ma perché i magistrati che si sono occupati nella fase delle indagini e in quella del giudizio di merito di quanto accaduto in quei giorni sono stati decine. E hanno lavorato con imparzialità. Del resto, cosa avrebbe dovuto pensare un pm che, di fronte ad un verbale firmato da 14 poliziotti, scopriva che ad essere identificabili erano solo in 13? Non poteva che pensare che non avesse di fronte funzionari dello Stato ma una consorteria. Detto questo, è altrettanto falso che Genova fu la prova generale di una nuova gestione politica dell'ordine pubblico, orientata alla nuova Italia del nascente berlusconismo. Ricordo a tutti, infatti, che Genova 2001 fu preceduta, in marzo, dai fatti di Napoli in piazza Plebiscito. Dalle retate negli ospedali alla ricerca dei feriti in piazza. Governava il centro-sinistra. Quindi, il problema, non era politico. Ma di una cultura dell'ordine pubblico che scommetteva sul "pattuglione". Una modalità di polizia transitata dalla stagione del centro-sinistra a quella del centro-destra".

Ma della gestione dell'ordine pubblico a Genova che giudizio dà?

"Fu semplicemente una catastrofe. E per una somma di fattori, se vogliamo dirla tutta. Innanzitutto per la scelta sciagurata da parte del vertice del Dipartimento di pubblica sicurezza di esautorare la struttura locale, la Questura di Genova, dalla gestione dell'ordine pubblico. Quindi, per la scelta infelice della città, che per struttura urbanistica rendeva tutto più complicato. E, da ultimo, perché si scommise sulla capacità dei "Disobbedienti" di Casarini e Agnoletto di poter in qualche modo governare e garantire per l'intera piazza. Capacità che dimostrarono purtroppo di non avere. Insomma, la dico in una battuta. A Genova saltò tutto. E saltò tutto da subito. Fino alla scelta esiziale dell'irruzione nella Diaz".

"La Macelleria messicana".

"Si ritenne, sciaguratamente, con la stessa logica cui prima facevo cenno, quella del "pattuglione", che il contrappeso alla devastazione di quei giorni potesse essere un significativo numero di arresti. Illudendosi, per giunta, che un'irruzione di quel genere, con quelle modalità, avrebbe garantito di acquisire anche "prove" per processare le responsabilità dei disordini di piazza. Peccato che il codice di procedura penale avrebbe reso quell'operazione, ancorché non fosse finita come è finita, carta straccia. Ma, soprattutto, peccato che i processi penali non abbiano potuto scrivere una parola decisiva. Né sulla Diaz, né su quanto accaduto complessivamente in quei giorni".

Perché?

"Perché, per sua natura, viva Dio, il processo penale accerta singoli fatti e gli attribuisce singole responsabilità. Al processo penale sfuggono quelle che a me piace definire responsabilità sistemiche. Con un effetto paradossale. Che i latini definivano "summus ius, summa inuria": "massima giustizia per una massima ingiustizia". Vale a dire, che per il G8 di Genova abbiamo assistito a condanne esemplari per la Diaz e a condanne modeste per Bolzaneto, dove l'assenza di una norma che configurasse il reato di tortura e l'improvviso evaporare della catena di comando e di responsabilità che aveva posto le premesse per cui una caserma del reparto mobile della polizia si trasformasse in un "garage Olimpo" ha fatto sì che oggi si continui a parlare di Diaz e pochi ricordino Bolzaneto. Dove, lo dico chiaro, ci fu tortura. Tortura. Per altro, parlando di Bolzaneto, il destino è curioso. Quella caserma, molti anni fa, fu la mia prima destinazione da poliziotto".

Se capisco bene, lei sostiene che la dinamica processuale ha finito inevitabilmente per trasformare la ricerca delle responsabilità per i fatti di Genova in un'italianissima fiera del "capro espiatorio". Sono volati gli stracci, insomma.

"È così. Ma non lo dico - e lo ripeto a scanso di equivoci - per censurare quelle sentenze o il lavoro della magistratura inquirente che sono arrivati dove potevano arrivare e dove la fisiologia del processo penale gli ha consentito di arrivare. Lo dico perché, a proposito di responsabilità sistemiche, da capo della Polizia, penso sempre che quando in una piazza viene fatto un uso abnorme della forza da parte di un reparto mobile la responsabilità vada cercata non soltanto e non tanto a partire dal singolo poliziotto che ha abusato del suo manganello ma, al contrario, dal funzionario o dal dirigente che ha ordinato una carica che non andava ordinata. Ecco, se parliamo di responsabilità sistemiche e dunque vogliamo storicizzare finalmente il G8 di Genova, io non penso che il singolo agente o funzionario possano funzionare da fusibile del sistema. E che, dunque, in caso di corto circuito, si possa semplicemente sostituire quei fusibili che si sono bruciati e poi serenamente dire "andiamo avanti". Lo ripeto. Se vogliamo costruire una memoria condivisa su Genova, se vogliamo mettere un punto, va colmato lo spread fra responsabilità sistemica e responsabilità penale. Quello che ha fatto sì che alcuni abbiano pagato e altri no".

Magari facendo il nome del convitato di pietra di questa conversazione. Gianni De Gennaro, allora capo della Polizia.

"Non ho nessuna difficoltà a farlo, anche se ci lega un antico rapporto personale. E tuttavia con una premessa, che non è necessariamente una clausola di stile. È sempre complicato e soprattutto rischia di suonare supponente dire quello che qualcun altro avrebbe dovuto fare. Anche perché non sempre si conoscono il contesto e gli equilibri in cui determinate decisioni sono state prese. Detto questo, siccome non ho nessuna intenzione di sottrarmi, perché sono un uomo e un capo della Polizia libero, le dico che se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia. Perché ci sono dei momenti in cui è giusto che il vertice compia un gesto necessario a restituire la necessaria fiducia che un cittadino deve avere nell'istituzione cui è affidato in via esclusiva il monopolio legittimo della forza. E, contemporaneamente, a non far sentire le migliaia di donne e uomini poliziotto dei "fusibili" sacrificabili per la difesa di dinamiche e assetti interni all'apparato".

Quanto hanno contribuito l'arrocco di Gianni De Gennaro e le sue mancate dimissioni a quanto è accaduto negli anni successivi? A quel clima di omertà, di dissimulazione nel percorso di accertamento della verità sul G8, che ha allargato il solco tra la Polizia e una parte significativa dell'opinione pubblica?

"Direi in modo importante. E con effetti di lungo termine. Hanno finito con l'imprigionare il dibattito pubblico in un'irricevibile rappresentazione per cui il Paese sarebbe diviso tra un partito della Polizia e un partito dell'anti- Polizia. Facendo perdere di vista la verità. Che la Polizia italiana è sana. Che lo è oggi come lo era in quel luglio del 2001. E lo posso dire perché io sono cresciuto in questa Polizia. Ne sono figlio. Vede, la maledizione di Genova sta proprio qui. Quel che è accaduto dopo Genova, la mancata risposta alla ricerca delle responsabilità sistemiche ha insieme perpetuato il senso di oltraggio nell'opinione pubblica e alimentato le pulsioni che percorrono ogni apparato di Polizia, a qualsiasi latitudine. Il riflesso istintivo a rifiutare di farsi processare, a immaginarsi o peggio viversi come un "corpo separato". È un livello di "tossicità" assolutamente governabile, proprio di ogni polizia democratica e che, come ripeto in ogni occasione ai miei poliziotti, va sorvegliato. Continuamente. E che, proprio per questo, ha assoluto bisogno che questo perverso incantesimo durato sedici anni si spezzi. A maggior ragione alla vigilia di mesi in cui una parte di quei poliziotti che hanno scontato le loro condanne, penali o disciplinari, chiederanno di essere reintegrati e si consumerà l'iter del risarcimento dei danni alle vittime delle violenze del G8. A maggior ragione, aggiungo, per come io penso e immagino la Polizia che ho il privilegio di guidare".

Come la immagina?

"Una Polizia che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge, buona o meno che sia, sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell'opinione pubblica o di quello della magistratura. Una polizia che non deve vivere la mortificazione o lo stillicidio delle sentenze della Corte europea per i diritti dell'Uomo su quei fatti di sedici anni fa. Perché questa è la Polizia che ho conosciuto e che conosco. Io posso solo dire al Paese e alla mia gente, donne e uomini poliziotto, che del lavoro della Polizia sarò io il primo a rispondere. L'ho fatto in questi anni da direttore dell'Aisi, da prefetto dell'Aquila, da capo della Protezione civile e non vedo una sola ragione per non continuare a farlo. Anche perché non ci sarà una nuova Genova".

È una promessa?

"È un fatto. Perché questi sedici anni non sono passati inutilmente. Prima dicevo che la polizia del 2001 era una polizia democratica esattamente come lo è quella di oggi. Ma sono cambiate molte cose nelle nostre routine, nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella gestione dell'ordine pubblico. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c'è stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto. Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano. Non per mettere una toppa quando il danno è fatto. Ecco perché dico che dobbiamo liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro. Consegniamo quel G8 di Genova alla Storia. Perché questo ci renderà tutti più liberi. E quando dico tutti, penso al Paese e alla Polizia che di questo Paese è figlia".

Giuliano Giuliani: «Hanno ucciso mio figlio Carlo e sono impuniti, perché i carabinieri la fanno sempre franca?». Intervista di Giulia Merlo del 22 luglio 2017 su "Il Dubbio" al padre di Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso sedici anni fa durante il G8 di Genova. Sedici anni dopo, a piazza Alimonda, si sono date appuntamento centinaia di persone. Il 20 luglio 2001, in quella stessa piazza rettangolare tagliata da due lingue di strada, moriva Carlo Giuliani, ventitrè anni, durante i giorni di guerriglia urbana in cui si trasformò il G8 di Genova. A ucciderlo, un colpo di pistola sparato con l’arma di ordinanza dal carabiniere Mario Placanica, poi la camionetta dei carabinieri passò due volte sopra il corpo prima di allontanarsi. I giudici stabilirono che Placanica aveva sparato per legittima difesa e il procedimento aperto nei suoi confronti fu archiviato nel 2003: il Gip rilevò «la presenza di cause di giustificazione che escludono la punibilità del fatto» e lo prosciolse per uso legittimo delle armi, oltre che per legittima difesa. La perizia realizzata durante l’istruttoria stabilì che il colpo che ha ucciso Carlo Giuliani fosse stato sparato verso l’alto e fosse rimbalzato su un sasso scagliato da un altro manifestante. L’investimento con il mezzo di servizio, invece, venne spiegato come un tentativo di fuga e i militari testimoniarono di non essersi accorti della presenza del corpo a terra. Quest’anno, in concomitanza con la manifestazione di piazza Alimonda che ricorda i fatti di Genova, le parole del capo della polizia Franco Gabrielli hanno riaperto il dibattito su una morte mai spiegata: «A Genova morì un ragazzo. Ed era la prima volta dopo gli anni della notte della Repubblica che si tornava ad essere uccisi in piazza. A Genova, un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente». Proprio queste parole sono state ricordate, in piazza, dal padre di Carlo, Giuliano. Che ancora non si è rassegnato al velo di silenzio calato sulla morte del figlio.

A sedici anni da quel proiettile sparato in piazza Alimonda, che cosa resta?

«Resta la voglia di verità, che non diminuisce e non demorde. Lo ripeto sempre: io più che giustizia voglio verità. La cosa più scandalosa e dolorosa di questi sedici anni è stata di vederla ostinatamente negata».

Una verità negata dal processo?

«A negarla hanno collaborato magistrati incompetenti e inadeguati, periti che erano autentici…(cancelliamo la parola, ndr), ufficiali dei carabinieri che dovrebbero fare ben altro, ma anche la stampa e l’informazione tutta, che si sono messi al servizio spregiudicato del potere. Noi, però, non smetteremo di chiedere la verità per la morte di Carlo: questo vuole, anzi pretende, tutta la la gente sana che viene ogni anno in piazza Alimonda. Il 20 luglio, in quella piazza vicino al cippo di Carlo, c’erano ottocento persone, e non è una cosa facile di questi tempi: una manifestazione assolutamente pacifica, bella e piena di voglia di verità».

Lei dal palco della commemorazione ha commentato positivamente le parole del capo della Polizia Gabrielli.

«Ma certo, come si fa a non apprezzare le parole di un capo della Polizia che finalmente dice che ciò che è successo al G8 di Genova è stato una vergogna? Io però insisto su un punto: apprezzo queste parole, ma vorrei apprezzare anche la loro attuazione pratica in tante situazioni».

Gabrielli ha anche detto che, se fosse stato al posto del suo predecessore Gianni De Gennaro, si sarebbe dimesso.

«Guardi, in questi anni De Gennaro ha scalato tutte le gerarchie, con incarichi uno dopo l’altro. Ecco, io considero le continue promozioni di De Gennaro persino ridicole per un Paese che vuole considerarsi normale. Come si fa a dire che De Gennaro non fosse responsabile per i fatti del 2001 a Genova? Era il capo della Polizia e, anche se era a Roma, comandava tutto per telefono. Io credo che far passare il responsabile di quel G8 da una poltrona all’altra abbia dell’incredibile. De Gennaro è stato il capo del dell’Interno con Amato, il sobrio Monti lo ha nominato sottosegretario alla Presidenza del consiglio e Letta lo nominò presidente di Finmeccanica, la più grande industria pubblica del Paese, non so bene con quali titoli. Ho chiesto spiegazioni a tanti, ma nessuno mi ha saputo dire perchè».

Secondo lei, le parole di Gabrielli ci avvicinano a quella verità di cui parlava prima?

«Me lo auguro, certo. Perchè il fatto più grave accaduto a Genova, cioè l’uccisione di un ragazzo, non è stato ritenuto degno nemmeno di un processo».

Al contrario di quanto avvenuto con le inchieste sulla Diaz e Bolzaneto?

«Lo ripeto costantemente: su alcuni fatti gravissimi di Genova verità si è fatta, grazie al valore dei magistrati che se ne sono occupati. Non ignoro che Enrico Zucca, Cardona Albini e Petruzzella si sono occupati delle inchieste sulla scuola Diaz e su Bolzaneto, anche a rischio della propria esistenza. Questi magistrati hanno sconfitto il primo giudizio emesso nel 2008, che definiva quelle alla Diaz “perquisizioni legittime” e Bolzaneto “distribuzione di caramelle e cioccolatini”. Sono ricorsi in appello e poi in Cassazione, fino ad arrivare a dire che alla Diaz si è commessa una delle più grandi porcherie di questo Paese, una vera “macelleria messicana”, espressione adoperata non da un pericoloso anarco-insurrezionalista ma dal vicequestore Michelangelo Fournier, che pure faceva parte nel gruppo della Mobile della Polizia, diretto da Vincenzo Canterini. A Bolzaneto altro che cioccolatini e caramelle: vennero perpetrate autentiche torture, tra le più schifose che si possano immaginare».

Sulla morte di suo figlio Carlo, invece, come mai non si è giunti a nulla?

«E’ stato archiviato tutto, sulla base di uno schifoso… (anche qui cancelliamo la parola pronunciata da Giuliani, ndr) elaborato da quattro autentici (altra parola cancellata da noi, ndr). Faccio i nomi: i periti Carlo Torre, Paolo Romanini, Pietro Benedetti e l’esperto di fotografia Nello Balossino. Immagini un po’, un esperto di fotografia che accetta l’invenzione che il carabiniere abbia sparato per aria, quando un filmato mostra chiaramente che, quando spara, la pistola è assolutamente orizzontale e parallela al suolo e quindi il colpo è diretto».

Come è stato possibile?

«Con l’ausilio di foto che potrei definire fuorvianti. Quella più diffusa, anche sulla stampa, è quella scattata da Dylan Martinez e mostra Carlo vicinissimo alla jeep dei carabinieri. Peccato che i filmati mostrino che Carlo era distante quattro metri dalla camionetta quando ha sollevato l’estintore per cercare di difendere gli altri e anche se stesso da una pistola puntata, accompagnata dalle grida «sporchi comunisti vi ammazzo tutti». Ancora, mi chiedo come si possa considerare quello subito dai carabinieri un “attacco terribile dei manifestanti”, quando un filmato della Polizia mostra che dal momento della fuga dei carabinieri allo sparo passano esattamente trentacinque secondi. Un attacco terribile, portato avanti da una cinquantina manifestanti, durato non più di trentacinque secondi? Eppure queste sono state le dichiarazioni degli ufficiali dei carabinieri, che considero persone inadeguate a ricoprire quell’importante ruolo che dovrebbero svolgere».

Sempre dal palco del 20 luglio, lei ha detto che, quando a commettere abusi o addirittura uccisioni sono i carabinieri, «in questo Paese non succede nulla. Non c’è la possibilità di aprire processi nei confronti degli appartenenti all’Arma e questo è un problema che intacca la democrazia». Che cosa intende?

«Innanzitutto specifico, io mi sono riferito ad alcuni reparti dei carabinieri, perchè non generalizzo mai in queste affermazioni. Per spiegarmi le riporto un fatto: la sera di quel 20 luglio, il “Tuscania”, che è uno dei raggruppamenti più famosi dei carabinieri, cantava “Faccetta nera”. Si è scandalizzato qualcuno di questo fatto indegno, che mortifica l’arma alla quale appartengono ed è una sfida alla Costituzione? Secondo fatto: non c’è una vittima che sia stata colpita dai carabinieri che abbia avuto giustizia. Non solo Carlo, il caso più clamoroso degli ultimi anni è quello di Stefano Cucchi. Un ragazzo ammazzato da quattro carabinieri nella caserma è stato giudicato morto per mal nutrizione. Ma si può dire che sia morto per malnutrizione un ragazzo coperto di lividi dalla testa ai piedi? In Italia accade».

Per la Polizia, invece, questa impunità non vale?

«Nei confronti della Polizia i processi ci sono stati: alla Diaz sono cadute delle teste, anche se adesso gliele hanno rimesse sul collo e, nel frattempo, i responsabili sono stati tutti promossi, e mi riferisco non a quelli che hanno picchiato, ma a quelli che hanno elaborato lo schifoso falso di portare delle molotov dentro la scuola per incriminare i manifestanti. I poliziotti della Diaz e di Bolzaneto sono stati condannati, come sono stati condannati gli assassini di Federico Aldrovandi, anche se a pene ridicole di 3 anni e mezzo a testa. Sa, invece, quanti anni hanno preso venticinque manifestanti di Genova, accusati di devastazione e saccheggio? 16 anni, in primo grado. Per fortuna la Cassazione ha ribaltato l’esito del giudizio, assolvendo quindici di quei venticinque, perchè avevano risposto a “cariche violente e ingiustificate dei carabinieri”. Non serve ripeterlo: anche in quel caso nessuna inchiesta contro il comportamento dei carabinieri è stata aperta. Ecco, io questo lo considero un problema per la democrazia».

Gabrielli ha aggiunto che, oggi, un’altra Genova non sarebbe possibile, perchè da quei tragici fatti si sono tratti insegnamenti. Lei ci crede?

«Io voglio crederci, e lo faccio perchè rispetto Gabrielli, non ho di lui alcun giudizio negativo e quindi mi auguro che davvero le sue parole possano essere vere. So per certo che all’interno della Polizia molte cose sono cambiate in questi anni e che è davvero più difficile che un altro G8 accada, ma i rischi ci sono sempre e io mi auguro che le parole trovino assoluta rispondenza nei fatti».

Sono passati sedici anni dalla morte di Carlo. La sua memoria è oggetto di strumentalizzazioni?

«Guardi, al di là di certe sciocchezze che vengono ripetute, la memoria di Carlo rimane. Il giorno dopo l’elezione della giunta di destra, qui a Genova, il sindacato di polizia Coisp ha chiesto di eliminare da Piazza Alimonda il cippo di Carlo. Ecco, il sindaco neoeletto ha risposto nel modo più intelligente possibile, cioè dicendo che non era una priorità della sua giunta. Al netto di queste provocazioni ridicole non mi pare che ci siano strumentalità intorno a questa vicenda».

Cosa resta, oggi, di quel tragico 20 luglio?

«Rimangono tante persone in piazza, senza simboli politici, desiderose di avere un po’ di verità e magari anche un pizzico di giustizia intorno all’uccisione di un ragazzo di ventitrè anni che non meritava di morire così».

Morte Giuliani, consigliere Pd di Ancona: "Sparare e prendere bene la mira". Post su Facebook di Diego Urbisaglia: "Se lì dentro ci fosse mio figlio... Carlo Giuliani non mi mancherai". Deferito alla commissione di garanzia del Pd. Guerini: "Ho chiesto sanzioni". I genitori del giovane morto nel 2001: "Si vergogni". Lui alla fine chiede scusa per "i toni" ma ribadisce: "Il concetto resta", scrive Matteo Pucciarelli il 21 luglio 2017 su "La Repubblica". "Se in quella camionetta ci fosse stato mio figlio, gli avrei detto di prendere bene la mira e sparare". Un post shock su Facebook nell'anniversario della morte di Carlo Giuliani, il giovane morto a Genova 16 anni fa durante il G8, firmato da un consigliere comunale Pd ad Ancona torna ad aprire una ferita mai rimarginata. Diego Urbisaglia, 39 anni, consigliere comunale e provinciale, ha affidato i suoi pensieri a un post non pubblico, visibile solo ai suoi contatti. Non per questo meno scandaloso: "Estate 2001. Ho portato le pizze tutta l'estate per aiutare i miei a pagarmi l'università e per una vacanza che avrei fatto a settembre. Guardavo quelle immagini e dentro di me tra Carlo Giuliani con un estintore in mano e un mio coetaneo in servizio di leva parteggiavo per quest'ultimo". Poi continua: "Oggi nel 2017 che sono padre, se ci fosse mio figlio dentro quella campagnola gli griderei di sparare e di prendere bene la mira. Sì, sono cattivo e senza cuore, ma lì c'era in ballo o la vita di uno o la vita dell'altro. Estintore contro pistola. Non mi mancherai Carlo Giuliani". Dopo il putiferio scatenato dalle sue parole, contattato dall'agenzia Dire, Urbisaglia fa marcia indietro: "Ho già chiesto scusa questa mattina, con un post di rettifica, per le parole e i toni usati. Ho solo fotografato il momento perché all'epoca avevo l'età dei due protagonisti e quel fatto mi segnò molto. Ricordo che mi domandavo 'tu che avresti fatto?'". Parole e retromarcia che non sono state apprezzate nel Pd. Tanto che Urbisaglia viene deferito alla commissione di garanzia. E il coordinatore della segreteria dem, Lorenzo Guerini, chiarisce di aver "chiesto alla commissione competente di assumere senza indugi i provvedimenti sanzionatori previsti dal nostro statuto" perché "quanto detto dal consigliere Urbisaglia è inaccettabile e assolutamente ingiustificabile". Secco Giuliano Giuliani, il padre di Carlo: "Ho ben altro a cui pensare. Queste cose sono da ignorare. Certe frasi non meritano risposta. Non commento queste affermazioni". Anche la mamma Heidi non si risparmia: "Quel signore può vergognarsi!". Durissime le critiche dalle forze politiche alla sinistra del Pd. Il deputato di Mdp Arturo Scotto scrive: "Mi vergogno per lui, spero che qualcuno lo cacci". "È sconcertante - critica il responsabile nazionale Enti Locali di Sinistra Italiana, Paolo Cento - il mio pensiero non può che andare alla famiglia Giuliani, e a quanti lo conobbero, soprattutto in questi giorni a 16 anni da quella catastrofe. Dopo un post come questo mi domando come fa Renzi, segretario del Pd, a non cacciarlo dal partito".

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

I ladri che si lamentano della casta, scrive Maura Munafò su "L'Espresso del 23 ottobre 2015. C'è un articolo davvero interessante che circola molto in queste ore sui social. Lo hanno realizzato i colleghi di SanremoNews e parte dal caso degli arresti al Comune di Sanremo di una trentina di dipendenti (e 196 indagati) che "timbravano" l'ingresso al lavoro e poi andavano a fare lezioni di canottaggio o a farsi gli affari loro. C'era pure chi mandava amici e parenti a timbrare o si segnava lo straordinario e poi rimaneva a casa. Le telecamere della Guardia di Finanza hanno beccato i "furbetti del cartellino" mentre facevano tutto quello che volevano al posto di lavorare e rigorosamente a spese del contribuente. A SanremoNews si sono dilettati a spulciare i profili personali su Facebook degli arrestati, scoprendo tra di loro vari ferventi "anti casta", sempre pronti a lamentarsi del politico ladro che frega i soldi alla gente. Ecco quindi messaggi come: "Io non mi vergogno di essere italiano, mi vergogno solo di essere rappresentato da politici condannati e corrotti che saccheggiano ogni santo giorno uno dei paesi più belli del mondo", oppure ""Papà, tu la paghi la tassa sugli animali?". "Ma certo! - risponde il padre - Con tutti i maiali che mantengo a Roma...". Andare a ficcare il naso in certe pagine è quasi un esercizio antropologico, utile per capire quanto in questo Paese sia radicata la convinzione che ci sia una "casta" di cattivi che vessa un "popolo" di buoni. Talmente è radicata la follia, che persino i ladri sono convinti di essere vittime e mettono sul proprio profilo Facebook foto come questa (la ho presa da una delle persone finite ai domiciliari).

Sanremo: i "Furbetti del cartellino"? Tra i più accaniti anti casta. C'è chi si vergogna dei politici corrotti e chi si lamenta di "Mantenere i maiali a Roma", scrive San Remo News il 23 ottobre 2015. C'è chi si spinge oltre e cita l'astrofisica Margherita Hack con una frase pronunciata a proposito della morale: "Non è necessario avere una religione per avere una morale! Perché se non riesci a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione!" "Io non mi vergogno di essere italiano, mi vergogno solo di essere rappresentato da politici condannati e corrotti che saccheggiano ogni santo giorno uno dei paesi più belli del mondo". Questa frase la si può trovare sul profilo Facebook di una delle persone agli arresti domiciliari da ieri mattina per via dell'operazione Stachanov che ha portato a 43 arresti (35 ai domiciliari, 8 di loro dovranno presentarsi alla Polizia Giudiziaria), effettuati dalla Guardia di Finanza coordinata dalla Procura della Repubblica. Ma non è l'unica. Sono diversi infatti i dipendenti pubblici tra i "Furbetti del cartellino", immortalati dalle telecamere nascoste installate dai militari, che sul proprio profilo Facebook si sono sfogati contro la cosiddetta "casta" di politici. Un altro tra gli arrestati pubblica una vignetta che raffigura un bambino che chiede al padre: "Papà, tu la paghi la tassa sugli animali?". "Ma certo! - risponde il padre - Con tutti i maiali che mantengo a Roma...". C'è chi si spinge oltre e cita l'astrofisica Margherita Hack con una frase pronunciata a proposito della morale: "Non è necessario avere una religione per avere una morale! Perché se non riesci a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione!". C'è chi cita Giovanni Falcone e chi pubblica un post in cui un uomo seduto su una sedia annuncia che passerà una giornata come un politico, cioè non farà un c....C'è anche chi posta il video di un discorso della Senatrice del MoVimento 5 Stelle Paola Taverna che rimprovera il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, di non aver mai lavorato nella propria vita.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo. 

C'ERA UNA VOLTA CLAUDIO BURLANDO...

I 10 anni di re Burlando: spendeva soldi per i rospi e la Liguria era sott'acqua. Fondi sperperati, lavori pubblici affidati a società amiche, piani casa devastanti: è l'eredità del governatore che intasca ancora 8mila euro di stipendio senza far nulla, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Passi l'ululone dal ventre giallo, un rospo lungo (si fa per dire) cinque centimetri che vive in Liguria, nel parco naturale di Montemarcello-Magra: con i 79.900 euro stanziati nel 2009 dalla giunta di Claudio Burlando non si estinguerà più. Ma perché la regione ha buttato 340mila euro dei liguri, gente assalita da crampi quando afferra il portafogli, per tutelare il gulo gulo (volgarmente detto ghiottone) che vive nelle foreste artiche? O la foca monaca, il bisonte europeo, la lince pandina? Perché investire quasi mezzo milione in uno studio sui cetacei mentre la Liguria frana a ogni temporale? E perché Burlando ha destinato 654mila euro a progetti di «educazione alla mondialità» quando i paesi di montagna mendicano 70mila euro per scavare un pozzo d'acqua potabile?L'ingegner Claudio Burlando è così, serio e cocciuto. Un comunista di una volta, non per nulla è grande amico di D'Alema. Quando decide una cosa non si ferma. Gli animali vanno salvati? Soldi per bestie di ogni latitudine. Imbocca uno svincolo contromano, come gli capitò una domenica mattina di otto anni fa? Avanti finché non si rese conto che poteva provocare catastrofi (non aveva né patente né carta d'identità, si fece riconoscere con la tessera scaduta di ex parlamentare). Il mandato scade il 29 marzo? Intasca lo stipendio fino all'insediamento del nuovo consiglio, comprese indennità di carica e di viaggio benché giunte o commissioni non si riuniscano più. «Noi vorremmo lavorare - si è giustificato affranto in nome di tutti i 40 consiglieri - ma gli uffici tecnici e legali lo impediscono». Troppo alto il rischio di ricorsi. E così tocca prendere quei 16mila maledetti euro per due mesi di dolce far niente. A conti fatti, i liguri avrebbero preferito che Burlando fosse stato pagato per non lavorare anche nei precedenti 120 mesi da governatore: almeno non avrebbe fatto danni. Che invece abbondano. Sul Fatto Quotidiano ne ha elencati alcuni Ferruccio Sansa, figlio dell'ex sindaco Adriano su cui il governatore ha scaricato le responsabilità del dissesto idrogeologico. Dunque: Burlando è stato vicesindaco e sindaco di Genova dal 1990 al 1993, anni in cui si contano due alluvioni, e nei due mandati da governatore se ne sono verificate altre quattro. I maligni ricordano pure gli incidenti ferroviari susseguitisi quand'era ministro delle Infrastrutture: caduto il governo (Prodi 1) il buon D'Alema non lo riconfermò. L'autunno scorso, dopo l'alluvione di Genova, Burlando sibilò una frase infelice ai cronisti che lo intervistavano: «Siete una cosa inqualificabile, farete una brutta fine...». Prima di querelarlo, i colleghi toccarono ferro. Burlando esordì in politica da consigliere comunale Pci nel 1981. Massimo Cacciari l'ha paragonato a Sergio Chiamparino: «Possono essere centomila volte renziani, ma non possono rappresentare il cambiamento». Sergio Cofferati ha scandito che «il suo modello è un ciclo che si chiude, gestito con rapporti non più riproducibili tra la finanza e la comunità». Il governatore ha varato un piano casa definito dai Verdi «il più devastante d'Italia». La sua maggioranza in regione ha fatto costruire un porto turistico da mille posti barca alla foce del Magra da una società controllata da Mps nel cui cda sedeva il tesoriere della sua campagna elettorale. Mentre la Regione Liguria metteva in bilancio 5 milioni per lo scolmatore del torrente Fereggiano, la giunta Burlando ne stanziava 1,6 per la pubblicità istituzionale e altri 2 per il Giro d'Italia. Assessore alla Protezione civile era Raffaella Paita, fedelissima del governatore, la quale ha vinto le primarie con una votazione che ha indotto Sergio Cofferati, il grande sconfitto, a stracciare la tessera Pd e far candidare il deputato Luca Pastorino. Che ora toglie il sonno a Matteo Renzi perché i voti da lui sottratti al Pd regalano ottime possibilità all'avversario azzurro, Giovanni Toti. E non parliamo delle inchieste che hanno falcidiato la maggioranza. Burlando stesso è indagato dalla procura di Savona nell'inchiesta sull'inquinamento della centrale a carbone a Vado Ligure della Tirreno Power, società che per anni ha gravitato nell'orbita finanziaria della famiglia De Benedetti. L'accusa è di concorso in disastro ambientale doloso: i fumi dell'impianto avrebbero causato 400 morti. Con lui sono indagati anche gli assessori alla Sanità, Claudio Montaldo, e alle Attività produttive, Renzo Guccinelli, oltre all'eurodeputata Renata Briano, ex assessore all'Ambiente, e una quarantina di persone tra cui due sindaci, funzionari della regione e dirigenti dell'impianto. Altri guai gli piovono dall'inchiesta sulle spese pazze della regione. La procura di Genova ha indagato mezzo consiglio, tra cui due assessori, il presidente e il tesoriere del gruppo Pd, mentre un partito della maggioranza, l'Italia dei valori, è stata spazzato via. Ostriche a Nizza, biglietti per le terme, pasticcini a Ferragosto, pranzi «di lavoro» a Natale e Capodanno, e poi tante voci duplicate e la raccolta a tappeto di scontrini altrui per coprire gli ammanchi. Imbarazzo burlandiano anche per l'uso delle carte di credito degli assessori denunciato alla Corte dei conti da una consigliera di minoranza: pernottamenti romani a 4 stelle, cene, vacanze, acquisti in negozi per bambini. A metà dello scorso aprile, quando i giochi delle primarie Pd erano già fatti, è finita nel registro degli indagati la stessa Raffaella Paita, la candidata fortissimamente voluta da Burlando che pure era stato sconfitto nel congresso regionale. Le accuse sono pesanti: omissione di atti d'ufficio, concorso in disastro colposo, omicidio colposo per la mancata allerta nell'alluvione del novembre 2014. Lei si è detta fiduciosa, Renzi (che altrove ha sollecitato le dimissioni di gente nemmeno indagata, come l'ex ministro Lupi) e Burlando le hanno coperto le spalle e perfino il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, si è chiesto perché «certe indagini esplodono in certe ore». Chissà, magari pure le alluvioni scoppiano a orologeria.

SINISTRA E MORALITA'. CARNEVALATE AI SEGGI.

Si parla delle primarie regionali 2015 e dei voti per eleggere come candidato a presidente della giunta ligure uno che è nato a Sesto Uniti, provincia di Cremona in Lombardia e che è stato sindaco di Bologna. Come per dire: autoctono del territorio.

Primarie Pd in Liguria, solita carnevalata ai seggi. Immigrati e rom che, dopo aver votato, chiedono imbarazzati dove si può ritirare il compenso promesso, scrive Matteo Carnieletto su “Il Giornale”. Una carnevalata. Solo così si possono definire le primarie del Pd in Liguria. Si pensava che, dopo gli scandali legati ai compensi dati a rom e extracomunitari per votare alle consultazioni politiche del partito, la faccenda brogli fosse ormai definitivamente chiusa. Eppure il Pd ci ricasca, presentando il medesimo copione degli anni passati, come ha denunciato Angelo Sanza, responsabile dell'ufficio di presidenza di Centro Democratico:  "File di cinesi e marocchini, persone che chiedono agli imbarazzati scrutatori dove possono ritirare il compenso che gli è stato promesso per il voto". Immigrati pagati per votare questo o quel candidato. Proprio come era successo a Roma nel 2013, quando i rom si presentarono in massa presso le sedi del pd per votare (e votarono senza che nessuno osasse obiettare nulla). Votazioni pilotate, quindi. "Carnevalate", come ha dovuto amaramente definirle lo stesso Sanza. Anche Sergio Cofferati, uno dei tre candidati alle primarie, ha ammesso l'esistenza di "forti irregolarità che riguardano in particolare una presenza assolutamente anomala ed organizzata di intere comunità straniere sia a levante sia a ponente e nelle ultime ore in alcuni seggi di Genova". Raffaella Paita, altra candidata alla Regione, ha candidamente ammesso che "la comunità marocchina nel seggio di Migliarina, almeno da quanto si dice, che abbia votato Cofferati, e su imput della Cgil". Il che spiega come, in realtà, le primarie non siano altro se non il gioco di cordate e correnti che si accordano per smistare i voti su questo o quel candidato. Non sono mancate, ovviamente, le foto. Scattate per testimoniare la propria preferenza e, si spera, ottenere un compenso monetario. È successo a La Spezia, ma anche ad Albenga e a Genova e in molti altri seggi della Liguria.

Primarie Pd, sono ammessi pure i condomini della scala accanto, scrive Alessandro Robecchi su “Il Fatto Quotidiano”. Buone notizie per il Pd: alle primarie liguri non hanno votato il Boia di Riga, né Italo Balbo, né il consigliere militare dell’Imperatore Hiro Hito, quindi l’inquinamento del voto di destra appare limitato e va tutto benissimo. L’equipaggio di cosmonauti alieni che ha votato ad Albenga è stato smascherato: erano quattro tizi dell’Ncd ansiosi di partecipare alla vita interna di un partito diverso dal loro. Pattuglie di scajoliani ai seggi hanno garantito trasparenza e buon andamento delle operazioni di voto. Poi Cofferati se n’è andato, chissà perché. Le cinque paginette della Commissione dei garanti sono illuminanti: da un lato (i garanti del Pd) si ammettono i brogli e dall’altro (il Pd) si spernacchia l’imbrogliato. Non fa una piega. Il consiglio di amministrazione della Coca Cola che corre a votare il presidente della Pepsi non si vedrà mai, e se un giorno alla Samsung facessero le primarie per eleggere i loro vertici, si può star certi che ai dirigenti di Apple sarebbe impedito il voto. In America nessun repubblicano va a votare alle primarie dei democratici. La grande lezione di democrazia e di società aperta che ci viene dal Pd, dunque, è quella che i suoi dirigenti, segretari e candidati governatori possano essere scelti anche dagli avversari politici, speranzosi di qualche accordo o larga intesa. Ma lasciamo stare per un attimo la certificata truffa ai danni di questo o quel candidato, e pensiamo per un attimo al trattamento riservato all’elettore del Pd che va, convinto e determinato, a votare per indicare democraticamente il suo candidato alle regionali. Come si sentirà? Forse come uno che va all’assemblea di condominio e scopre che tutti i condomini dei palazzi vicini potevano votare, e hanno deciso di fargli un garage multipiano in giardino. Ecco. Qualunque onesto, convinto e responsabile elettore del Pd dovrebbe sentirsi un po’ offeso. Ciò riguarda, forse e soprattutto, la stessa filosofia delle primarie, che per anni e anni è stata uno degli argomenti forti del centrosinistra contro il centrodestra. “Noi facciamo i congressi”, “Noi facciamo le primarie”, erano mantra ossessivi sì, ma veritieri: da un lato una destra di proprietà di Berlusconi, e dall’altro una sinistra della base, capace di scegliersi i capi con libera espressione del voto interno. E da qui, una specie di “primato”, se non morale almeno politico: una base consapevole sembrava assai meglio sia delle decisioni prese in villa prima dopo (o durante) le cene eleganti, sia delle consultazioni online grillesche a cui partecipava lo zero virgola degli elettori complessivi del movimento. Ora (non solo la Liguria, ma Roma dopo quel che è emerso dalle inchieste, Napoli nel 2011, il dibattito serrato se farle o no in Campania) quel “primato” non c’è più, e il centrosinistra perde un argomento forte, annichilisce una differenza notevole con i suoi avversari. Il che – essere sempre meno diversi dalla destra – va d’accordo, e parecchio, con la linea politica dell’attuale vertice del partito: una larga intesa perenne, ricercata con costanza, non solo sulle questioni di tattica e strategia politica, di patti segreti, di accordi, ma anche sul piano ideale e sull’idea di democrazia. Il dibattito su quanti elettori del Pd andrebbero un domani con Civati, con Cofferati, con Fassina e forse Landini, o questo o quello, non è troppo appassionante. Ma vedere come quegli elettori reagiranno a una specie di mutazione genetica del loro partito sì, sarà istruttivo e interessante.

Liguria, il pasticcio delle Primarie Pd «Elettori di destra, minacce e soldi». I verbali del consiglio di garanzia del partito sui seggi annullati. Cofferati va dai pm, scrive Erika Dellacasa su “Il Corriere della Sera”. Le 5 pagine con cui la commissione dei garanti ha spiegato l’annullamento del voto delle primarie liguri in 13 seggi, cancellando oltre 4.000 schede, sono costate molte ore di lavoro. È un documento che pesa. Sergio Cofferati, sconfitto da Raffaella Paita, conferma che porterà i verbali in Procura a Genova. Tutte e 28 le segnalazioni di irregolarità sono partite dall’europarlamentare e dai suoi supporter. I garanti hanno scelto una prosa asettica che non attenua l’anomalia di alcuni fatti. Come nel caso del seggio di Santo Stefano al Mare (Imperia): una scrutatrice lamenta «la presenza di un assessore di Pompeiana che chiedeva, recandosi più volte presso il seggio, l’elenco dei votanti per verificare che tutte le persone da lui mandate a votare lo avessero fatto, aggiungendo che in caso contrario avrebbe dovuto “saldare i conti”. Per l’attività inquietante segnalata, il disturbo del voto e la grave dichiarazione espressa, il collegio decide di annullare il voto del seggio». Il sindaco di Pompeiana Rinaldo Boeri aveva firmato nel 2012 un documento a sostegno di Scajola.

I voti comprati e quelli estorti con le minacce. Nel seggio di Moconesi (Tigullio) è a verbale «un pressante controllo del voto e l’interferenza di persone estranee al seggio, appartenenti a liste contrapposte al centrosinistra», che in un caso, «hanno espresso frasi volgari rimanendo a controllare e minacciando e intralciando la libera espressione del voto».

A Lavagna (Tigullio), riportano ancora i garanti, «risultano gravi segnalazioni di due elettrici, e in particolare di una, che parla di euro versati a lei prima dell’ingresso nel seggio ai fini del voto».

Altro caso, a Savona, Albisola Superiore (sindaco Franco Orsi, ex senatore pdl), dove sono stati segnalati al voto «9 soggetti dichiaratamente di centrodestra di cui risultano a verbale i nomi così come risulta a verbale che un’elettrice votando ha dichiarato di essere per il centrodestra».

Il seggio di Savona a Vallepiana è annullato perché «viene segnalato suggerimento di voto espresso e ripetuto» al momento del voto e «la insistente richiesta di consegna ai votanti delle ricevute di versamento».

Nel seggio di Deiva Marina (La Spezia) esponenti di centrodestra davano indicazioni esplicite di voto. I garanti hanno deciso di non annullare il voto degli immigrati in mancanza di prove perché «si compirebbe una discriminazione intollerabile». Accettati quindi i voti dei nigeriani «accompagnati da una donna» a Savona e dei dominicani «accompagnati da un interprete» a La Spezia.

Annullato invece il seggio 8 di La Spezia: oltre alle foto scattate in cabina, un’interprete «spiegava cosa fare» agli stranieri e pagava i 2 euro. Infine, i garanti ricordano che per il seggio di Albenga sono in corso accertamenti dell’autorità giudiziaria mentre dichiara il non luogo a procedere per il quartiere genovese di Certosa, «considerato l’intervento dell’indagine delle forze dell’ordine».

Minacce, foto, truppe cammellate, voti pagati, stranieri e interpreti: la Caporetto Pd vista dai verbali. Il verbale: le motivazioni del Collegio dei garanti del Pd sono uscite ieri sera. Alcune sono gravissime e preludono a una denuncia penale di Cofferati, scrive Jacopo Iacoboni su “La Stampa”. Interpreti per aiutare gli stranieri, e per pagarli. Voti non vidimati, messi lì chissà da chi. Schede già votate prima dell’apertura dei seggi. Minacce. Un assessore che pagava la gente. File di esponenti Ncd. Casi di affluenza del tutto anomala. Etnie in massa, non solo cinesi e ecuadoregni e diversi rom, ma anche nigeriani e domenicani. Il verbale del Collegio dei Garanti per le primarie del Pd, presieduto da Fernanda Contri, è una Caporetto per le primarie, e di sicuro un testo imbarazzante oltre ogni dire per Matteo Renzi. 

A Pietra Ligure (dove Paita aveva vinto col 90 per cento), «viene segnalata un’affluenza anomala, il doppio di quella del Congresso nazionale del Pd 2013 (Bersani). Nulla risulta dal verbale». A Badalucco la segnalazione «si riferisce alla presenza di 25 schede nell’urna prima dell’ora di apertura dei seggi, e in assenza di rappresentanti di lista convocati per le 9». A Imperia (seggio Perinaldo) «risultano schede non vidimate», come a La Spezia, «72 schede», frequenti casi di voti senza il timbro, mesi chissà da chi. A La Spezia, nel seggio 8 del centro, «diverse gravi anomalie, in particolare lo scatto di fotografie all’interno della cabina elettorale». Casi di remunerazione sono documentati, una sfera che potrebbe anche configurare reati: sempre a La Spezia, in un seggio «si segnalava l’accompagnamento di un interprete che spiegava a soggetti non italiani quello che dovevano fare, e che provvedeva per loro a versare i due euro dovuti». 

A Imperia, seggio Santo Stefano al mare, «una scrutatrice lamenta la presenza di un assessore comunale di Pompeiana che chiedeva ripetutamente, recandosi più volte presso il seggio, l’elenco dei votanti per verificare che tutte le persone da lui mandate a votare lo avessero fatto, aggiungendo che in caso contrario avrebbe dovuto “saldare i conti e non voleva essere preso in giro”». È roba da Procura. 

A La Spezia, piazza Brin, numerosi dominicani erano «accompagnati da un interprete». A Marassi ha votato il coordinatore giovani di Ncd. A Savona (seggi di Millesimo, Varazze, Lavagnola) è stata fatta votare gente che non ha versato due euro. A Lavagna due elettrici raccontano di «esser state pagate». Nel Tigullio, seggio Moconesi, persone di centrodestra, invitate ad allontanarsi dal seggio, «hanno espresso frasi volgari rimanendo a controllare e a minacciare, e intralciando la libera espressione del voto». A Beverino e Albisola Superiore, centrodestra in massa. A Savona, Villapiana, c’è stato il «suggerimento di voto espresso e ripetuto all’interno del seggio in sede di votazione, e la insistente richiesta di consegna ai votanti delle ricevute di versamento». A Savona, Oltreletimbro, tanti nigeriani al voto «accompagnati da una donna». La cosa - scrive il Collegio - «può essere considerata positivo sintomo di integrazione, purché il voto sia regolarmente espresso» (il seggio non è stato annullato). Ad Albenga (Paita 1300 voti, Cofferati 200), segnalate tantissime richieste di ricevute di voto: ma il Collegio non ha annullato.  

Foto, minacce e interpreti: i trucchi alle primarie. Nei verbali dei garanti le ragioni per annullare il voto in 13 seggi: l'interferenza di votanti del centrodestra e la denuncia dell'offerta di soldi. Intanto Renzi attacca Cofferati: "In Europa con i voti del Pd", scrive Bruno Persano su “La Repubblica”. Dopo aver lasciato parlare i suoi, Matteo Renzi scende in campo direttamente contro Sergio Cofferati. A due giorni dall'addio del 'Cinese' al Pd, il segretario premier dice: "Cofferati è in Europa con i voti del Partito democratico...Io rispetto la scelta, quando si perde fa male ma non si va via. Se aveva problemi sui valori poteva dirlo sei mesi prima quando sempre io l'ho candidato alle europee e se il partito era alla frutta lo era anche quello che ha preso il 40 per cento". Ma intanto arriva il verbale dei Garanti che hanno deciso di annullare i voti di 13 seggi della regione. C'è chi ha fotografato la scheda nell'urna; chi accompagnava stranieri che neppure conoscevano l'italiano e pagava per loro i due euro necessari per votare; chi ancora addirittura minacciava i votanti e voleva verificare come avessero votato perché "non voglio farmi prendere in giro". Alle primarie del Pd in Liguria è successo anche questo. Le segnalazioni avanzate da Sergio Cofferati alla commissione dei garanti sono state tutte verificate confrontando i verbali dei seggi e ascoltando le testimonianza degli elettori. Tredici sono stati i seggi in cui le votazioni sono state annullate. L'ufficio stampa del Pd Liguria ha diffuso i verbali dei garanti. A cominciare dall'analisi sul seggio 8 di La Spezia, quello dove un gruppetto di cinesi si è presentato per votare. E' stato accertato che un interprete "spiegava ai soggetti non italiani quello che dovevano fare e provvedeva per loro a versare i due euro dovuti". Lo stesso seggio dove un elettore ha scattato la foto alla scheda. E poi c'è stata "l'interferenza". o il voto. di persone del centrodestra, uno dei motivi principali invocati dai Garanti per giustificare l'annullamento delle votazioni nei tredici dei 29 seggi contestati. Nel seggio di Lavagna una elettrice ha dichiarato che qualcuno gli ha donato gli euro necessari per votare prima di entrare nel seggio. O nel seggio di Santo Stefano al Mare dove i garanti hanno annullano il voto perché "una scrutatrice ha lamentato la presenza di un assessore comunale di Pompeiana che "chiedeva ripetutamente l'elenco dei votanti per verificare che tutte le persone da lui mandate a votare lo avessero fatto, aggiungendo che in caso contrario avrebbe dovuto 'saldare i conti e non voleva essere preso in giro". Simili pressioni anche nel seggio di Moconesi dove il voto è stato annullato perché "persone estranee al seggio, appartenenti a liste contrapposte al centrosinistra, addirittura minacciavano i votanti". Tra i seggi dichiarati nulli anche quello Deiva Marina, nello spezzino, a causa del "voto di persone esponenti di lista di centrodestra" che "risulta dal verbale del seggio, così come risulta che da alcuni veniva data indicazione esplicita di voto all'interno del seggio" riscontrando quindi un "tentativo di condizionamento"; i seggi di Millesimo e di Lavagnola, entrambi nel savonese, dove "alcuni votanti non hanno versato il contributo, non avendo quindi diritto al voto". Il Collegio ha riscontrato anche altre irregolarità come la presenza di schede non vidimate all'interno delle urne: nel seggio di Sarzana 48-San Lazzaro ("nell'urna sono state poste 72 schede non vidimate"), nel seggio di Badalucco, nell'imperiese, ("25 schede non vidimate nell'urna prima dell'ora prevista per l'apertura del seggio") e in quello di Perinaldo, sempre nell'estremo ponente ligure ("risultano non vidimate 12 schede tra quelle scrutinate").

Primarie Liguria: foto, soldi e pressioni. Pd rende noti annullamenti in 13 seggi, scrive il 19 gennaio 2015 “Il Fatto Quotidiano”. Pubblicato il verbale del Collegio dei Garanti. Tra le irregolarità rilevate infiltrazioni di persone del centrodestra, versamenti di denaro e scatti dentro la cabina elettorale. “Infiltrazioni” di persone dichiaratamente appartenenti al centrodestra, versamenti di denaro ed espliciti suggerimenti di voti. Sono questi alcuni dei motivi che hanno portato il Collegio dei Garanti all’annullamento del voto in 13 dei 300 seggi in cui si è votato alle primarie del centrosinistra in Liguria, a seguito delle quali l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati ha deciso di lasciare il Partito democratico, in polemica con il “silenzio” che ha circondato le irregolarità durante le consultazioni vinte dall’ex assessore regionale Raffaella Paita. I seggi nei quali i voti sono stati annullati sono quelli di Lavagna, Moconesi, Beverino, Albisola Superiore, Savona Villapiana, Badalucco, Perinaldo, Spezia Centro, Santo Stefano al Mare, Deiva Marina, Sarzana 48, Millesimo, Savona Lavagnola. Le irregolarità nei seggi – Presenza di uomini del centrodestra segnalate nei seggi di Moconesi, La Spezia Beverino, Albisola Superiore, Deiva Marina. Altre anomalie che hanno comportato l’annullamento del voto sono, tra l’altro, il fatto che nel seggio Lavagna una elettrice ha parlato di euro che le sono stati versati prima di entrare nel seggio, il suggerimento di voto espresso e ripetuto all’interno del seggio Savona Villapiana, lo scatto di fotografie all’interno della cabina elettorale La Spezia, seggio 8 - Spezia Centro, tanto da far sospendere per qualche tempo le operazioni di voto e, nello stesso seggio, l’accompagnamento di un interprete che spiegava a non italiani quello che dovevano fare e che provvedeva per loro a versare i due euro dovuti, schede presentate nell’urna prima dell’ora di apertura, schede non vidimate, contributi non versati. In tutto i seggi segnalati per anomalie erano stati 28. Il verbale del Collegio dei Garanti è stato reso noto questa sera ed è stato pubblicato online sul sito del Pd ligure. Alla fine Tovo ha ottenuto 662 voti, Cofferati 23.544 voti, Paita, proclamata vincitrice dall’Ufficio Politico, 26.817. I votanti sono stati 51.376.

Primarie Liguria, Renzi contrattacca Cofferati: Chi perde non va via col pallone, continua “Il Fatto Quotidiano”. Il premier, a Quinta Colonna, ha liquidato il clamoroso addio al partito dell'ex sindaco di Bologna, ha detto: "E’ spiacevole che si cerchi di buttare all’aria il sistema delle primarie. Se aveva problemi sui valori poteva dirlo sei mesi prima, quando sempre io l’ho candidato alle Europee". “Non è che se uno perde va via col pallone”. Così il premier Matteo Renzi, a Quinta Colonna, ha liquidato il clamoroso addio di Sergio Cofferati al partito, in polemica con il “silenzio” che ha circondato le presunte irregolarità durante le primarie liguri vinte dall’ex assessore regionale Raffaella Paita. L’ex sindaco di Bologna, per Renzi, è “un candidato che ha provato la sfida delle primarie” in Liguria, “le ha perse e il giorno dopo ha detto me ne vado dal Pd. Non si fa così”. “Ho grande rispetto per lui”, ha esordito il presidente del Consiglio, che “il cinese” aveva accusato di “non aver avuto neanche il garbo di aspettare la conclusione dei lavori della commissione” prima di proclamare Paita candidata del Pd. “Ma non condivido il modo in cui è uscito da un partito. E’ spiacevole che si cerchi di buttare all’aria il sistema delle primarie”. Poi Renzi ha affondato ulteriormente il colpo, facendo riferimento alla sconfitta che Cofferati attribuisce a un “inquinamento” delle consultazioni e a presunti pagamenti in cambio di voti – ipotesi su cui la procura della Repubblica di Savona ha aperto un fascicolo – e al fatto che l’ex sindacalista è stato eletto europarlamentare con i voti del Pd. “Quando si perde fa male, ma non si va via. Se Cofferati aveva problemi sui valori, poteva dirlo sei mesi prima quando sempre io l’ho candidato alle Europee. E se il partito era alla frutta lo era anche quello che ha preso il 40 per cento“. Il premier ha poi ricordato di aver sentito l’ultima volta l’ex sindaco il 12 dicembre, “giorno dello sciopero generale contro di me a cui partecipava anche Cofferati”. “Ho alzato il telefono e gli ho detto: ‘Non condivido la manifestazione ma ti faccio in bocca al lupo e ti dico che mi farà piacere continuare a dialogare’. Quella è stata l’unica volta che l’ho sentito e l’ho chiamato io”. Da allora, silenzio. Fino alla rottura di venerdì scorso. 

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

MAGISTRATI SENZA VERGOGNA.

I pm offesi si vendicano della vittima, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Uno stimato medico di 65 anni che si è tolto la vita, un figlio che ha subito la gogna, una donna salva per miracolo, una famiglia distrutta. Ma ai magistrati non è bastato. E hanno lanciato una nuova provocazione, una sfida, per tastare quanto forte siano il loro potere e la loro arroganza. E hanno fatto quello che, mai e poi mai, avrebbero dovuto fare: indagare la moglie del pediatra genovese Francesco Menetto per istigazione e agevolazione al suicidio. La donna era con lui nel momento in cui Menetto ha deciso di farla finita, a Genova. Anche lei voleva fare altrettanto, ma poi ha vagato in stato confusionale. Lo avevano deciso per protestare contro la magistratura che aveva rovinato la vita a loro e soprattutto al figlio farmacista, accusato di traffico e di riciclaggio di medicinali rubati. Il figlio era stato arrestato – un’incomprensibile custodia cautelare – e per il famoso pediatra era iniziato un incubo: le foto in prima pagina, l’isolamento e il lavoro, per cui era sempre stato stimato, che iniziava a mancare. Da qui la decisione di dire basta e di scrivere un biglietto inequivocabile: «Magistratura miope a volte uccide». La magistratura aveva una chance per smentire quel biglietto, mostrare che ha anche un volto umano e giusto. Poteva chiedere scusa, dire: abbiamo sbagliato. Invece ha risposto confermando quel biglietto. Il procuratore capo di Monza Carnevali, titolare dell’inchiesta in cui è coinvolto Marco Ballario Menetto, ha commentato liquidando il gesto e le accuse, con un «dicono tutti così» e rincarando la dose con poco sentite scuse. «Non rinnego quella frase – ha detto in un’intervista a Repubblica – noi magistrati siamo nel mirino». Ma la vera offesa, quella più arrogante, arriva ora con la decisione della procura di Genova di aprire un’inchiesta e di indagare anche la moglie del pediatra salva per caso. Diranno che è un atto dovuto, che lo fanno per garantire anche lei e stabilire la verità. Ma la verità è già sotto gli occhi di tutti: quella di una magistratura che si considera onnipotente e se qualcuno osa criticarla, sia pure levandosi la vita, si sente ferita nell’orgoglio. In questo Paese tutti possono essere criticati, accusati, messi al bando: ciò che non si può fare è criticare i magistrati. Loro sono onnipotenti, sono intoccabili, possiedono la verità assoluta. La decisione della procura di Genova di indagare la donna per istigazione al suicidio del marito è una provocazione per tanti motivi. In primo luogo perché aggiunge dolore al dolore: chiunque in una situazione del genere vivrebbe l’accusa come un peso ulteriore, come una messa all’indice che poco c’entra con lo stato di diritto e più con il giudizio divino. Ma è una provocazione anche perché risponde all’accusa rivolta alla magistratura, aumentando la dose di arroganza. Quando una persona si suicida, è quasi sempre impossibile stabilire se qualcuno o qualcosa ti hanno spinto a farlo. È una scelta complessa, dolorosa, che solo una forte semplificazione può far ricadere su un altro che non sia la persona che compie il gesto estremo. Ma in questo caso, il caso del pediatra e di sua moglie, pensare di attribuire la responsabilità alla donna rimasta viva, è pura follia. È come se l’accusassero di essersi salvata, di non essere riuscita all’ultimo momento a suicidarsi. Questa è la sua colpa: non essere morta anche lei. Ma alla procura di Genova si rendono conto di quello che stanno facendo?

Suo figlio è agli arresti, padre si uccide e lascia un messaggio contro i magistrati, scrive “Il Secolo XIX" il 27 aprile 2015. Un tragico, estremo gesto di un padre che nella notte si è tolto la vita gettandosi dal ponte Monumentale, nel centro del capoluogo ligure. Un’inchiesta che ha coinvolto il farmacista Marco Menetto Ballario, figlio del suicida, il pediatra Francesco. E quel messaggio lasciato sull’auto, che ha scatenato reazioni e polemiche: «La magistratura a volte uccide». Una frase che il procuratore di Monza, titolare dell’indagine su un traffico di medicinali in tutta Italia, ha commentato dicendo che «ormai dicono tutti così»; poi a questa affermazione ha fatto seguito quella del viceministro della Giustizia, Costa, che ha parlato di «frase fuori luogo». In serata, intanto, Marco Menetto è stato rimesso in libertà in seguito al suicidio del padre, come ha confermato il suo avvocato, Umberto Pruzzo: «Ho fatto istanza di scarcerazione per i gravi eventi familiari, che è stata accolta. Menetto è rimasto solo: aveva una sorella che è purtroppo deceduta suicida qualche anno fa. Sua madre ha bisogno delle sue cure». In seguito, l’avvocato Pruzzo ha spiegato che «le imputazioni derivano dalle conversazioni telefoniche tra Menetto e un grossista che vende in tutto il Nord e il Centro dell’Italia. Nelle conversazioni si parla di medicinali acquistati dalla Plasmerc Srl, che però non esiste. Il mio assistito non sapeva non esistesse, e che i soldi che lui pagava per i farmaci andassero direttamente al grossista. A riprova di ciò ci sono i bonifici effettuati di due fatture, assolutamente tracciabili e messi in contabilità». Ancora: «Il mio assistito credeva di avere sbagliato a effettuare i bonifici, che gli avrebbero contestato illeciti fiscali, ma assolutamente nulla riferibile ai medicinali, anche perché parliamo di farmaci non ospedalieri, per cui Menetto non aveva licenza di vendita». Comunque, ha concluso l’avvocato, «questa famiglia a Genova è stimata e conosciuta da tutti: parliamo di grandi professionisti senza alcun problema economico e incensurati». Francesco Menetto, 65 anni, noto pediatra, si è gettato nella notte dal Ponte Monumentale, per farla finita. Lasciando nell’auto un biglietto con scritto: «la magistratura miope a volte uccide». Suo figlio, Marco Menetto Ballario, farmacista (socio della Farmacia San Giacomo di via Bixio 9, una delle più note di Carignano) è attualmente agli arresti perché coinvolto con la moglie in un’inchiesta su un traffico di medicinali. Il corpo dell’uomo è stato trovato in via XX Settembre, ormai privo di vita. Nell’auto, con la quale il sessantacinquenne ha raggiunto il ponte monumentale, c’era anche la moglie dell’uomo (e madre del giovane farmacista agli arresti). Sembra che anche la donna avesse il proposito di farla finita, ma sono arrivati in tempo i poliziotti della questura e l’hanno bloccata prima che compisse il tragico gesto. «Ormai dicono tutti così. Non c’è altro da commentare». Questa la dichiarazione del Procuratore Capo della Repubblica di Monza Corrado Carnevali, che ha portato all’intervento del viceministro della Giustizia Enrico Costa: «Di fronte a questo tragico gesto che mi ha profondamente turbato, spero che le parole riportate come pronunciate dal Procuratore, non siano state riportate in modo corretto, perché diversamente sarebbero parole fuori luogo». Il figlio del pediatra che si è ucciso oggi a Genova ha detto alla polizia che i genitori si erano recati da lui, che si trova agli arresti domiciliari su provvedimento della procura di Monza, ieri sera per cena. «Mio padre e mia mamma hanno passato la serata con me - ha detto alla polizia -, abbiamo cenato insieme e abbiamo guardato la televisione. Poi sono andati via dicendo che dovevano fare una visita. Non immaginavo che avessero deciso di togliersi la vita». L’indagine “PharmaConnection” era partita grazie al lavoro degli investigatori di Monza. Complessivamente aveva portato all’arresto di 19 persone (6 in carcere e 13 agli arresti domiciliari), al sequestro di beni mobili, immobili, titoli e conti correnti per circa 23 milioni di euro e a un ingente sequestro di medicinali. A Genova ha toccato, oltre i due farmacisti (Marco Menetto Ballario e la moglie Valentina Drago, 34 anni) anche tre ex dipendenti di un’azienda farmaceutica (estranea alla vicenda). Le accuse contestate alle persone coinvolte vanno dall’associazione per delinquere finalizzata al furto, ricettazione e riciclaggio. Marco Menetto Ballario è indagato dalla procura di Monza perché ritenuto parte di un presunto traffico illecito di farmaci salvavita. Dalle indagini della Procura di Monza e dei carabinieri del Nas di Milano emergerebbe che il farmacista sia responsabile della vendita di farmaci di provenienza illecita e della fornitura ad altri grossisti di documentazioni per operazioni inesistenti.

Gli arrestano il figlio Lui si suicida e accusa, scrive Errico Novi su Il Garantista. 26 aprile 2015. Un ponte nel cuore di Genova. Francesco Menetto ci arriva dopo aver preso la decisione. Ferma, irrevocabile. E non è solo. Con lui c’è sua moglie, pronta a seguire il marito nello stesso destino. Lui si lancia, è l’una di domenica notte, quando arrivano polizia e 118 è troppo tardi: il pediatra 65enne, molto conosciuto nel capoluogo ligure, è deceduto. La donna viene trovata mentre sta suicidarsi anche lei dal “Monumentale”. La salvano per un niente. La disperazione dei due coniugi nasce dall’arresto, risalente allo scorso 2 aprile, del figlio Marco Menetto Ballario, farmacista 36enne accusato dalla Procura di Monza di ricettazione, riciclaggio e altri reati nell’ambito di un presunto giro illecito di farmaci salva-vita. Francesco Menetto lo spiega in ultimo terribile messaggio lasciato sulla macchina prima di gettarsi: «La magistratura miope a volte uccide», c’è scritto. E’ il segno di un dolore profondo, di una lacerazione insanabile, che meriterebbe almeno compassione. Ma il magistrato in questione mostra di averne poca. Si tratta del procuratore della Repubblica di Monza, Corrado Carnevali. Si limita a una dichiarazione, mezza frase. Glaciale, però. «Ormai dicono tutti così. Non c’è altro da commentare». Il biglietto del suicida liquidato come il capriccioso berciare dell’impunito. Difficile aggiungere altro, ha ragione il procuratore Carnevali. Certamente la magistratura milanese è un po’ iperattiva nei confronti di chi l’accusa, in questo periodo. Dopo che Claudio Giardiello ha fatto una strage a Palazzo di Giustizia perché ritenutosi danneggiato da giudice, avvocato e testimone, il riflesso delle toghe, in quel circondario, è evidentemente di rigetto verso chiunque le ritenga colpevoli delle proprie sciagure. C’è una differenza enorme, però: Giardiello ha ucciso tre persone, e tra queste un giudice, appunto, mentre Menetto si è tolto la vita lui. Una differenza che al dottor Carnevali non deve apparire tanto chiara. Marco Menetto, il figlio, conduce un’importante farmacia in zona Carignano, insieme con la moglie Valentina Drago, 34 anni. Poco meno di un mese fa, appunto, viene arrestato su ordine della Procura di Monza. L’inchiesta è materialmente condotta dai Nas di Milano, coordinati dal comandante Paolo Belgi assai noto per aver dato ferocissima caccia al professor Antinori. Alle indagini viene assegnato un nome bello, evocativo: “PharmaConnection”, addirittura. Di che si tratta? Qualcuno avrebbe commissionato il furto di costosissimi medicinali, antitumorali e salva-vita appunto, alcuni da 10mila euro a confezione. Qualcun altro li avrebbe rivenduti, accompagnati da fatture false, in Germania, Olanda, Polonia, Bulgaria e Montenegro. Il farmacista genovese e sua moglie sarebbero uno degli anelli intermedi della catena. Nelle carte che raccolgono il lavoro dei Nas si legge tra l’altro che Menetto Ballario «acquistava farmaci di dubbia provenienza, rivendendoli poi ad altre società quali Pharmazena, con la collaborazione della Drago», cioè della moglie. Dubbia provenienza. L’espressione potrebbe non apparire presupposto sufficiente per un arresto, seppure scontato ai domiciliari. Tanto è vero che la moglie è stata solo denunciata. A Marco invece tocca un provvedimento di custodia cautelare. L’operazione è di dimensioni importanti. Almeno sulla carta. Il danno procurato a 30 milioni di euro. Oltre che per Menetto Ballario, sono scattati provvedimenti restrittivi per altre 18 persone, di cui 6 attualmente detenute in carcere. E si è provveduto a sequestri di beni immobili e mobili (titoli e conti correnti) per 23 milioni di euro, da aggiungersi a un grande quantitativo di questi preziosi medicinali. Sembrerebbe essercene, certo, per quella intestazione così suggestiva, “PharmaConnection”. Un marketing investigativo molto utile, peraltro, in tempi di razionalizzazione delle forze dell’ordine. I Nuclei anti-sofisticazione dei Carabinieri potrebbero non sopravvivere al processo riorganizzativo annunciato da Renzi. Le loro funzioni rischiano di essere assorbite da altri corpi. Chi assorbirà chi, è quesito da sciogliersi anche in base ai numeri: quelli degli arresti, per esempio. Nell’inchiesta monzese, Menetto Ballario e la moglie ci finiscono come detto in quanto presunti intermediari nel commercio illecito di farmaci anti-tumorali. I passaggi sarebbero stati effettuati non con la farmacia di Carignano, tra le più note della zona, ma con una società di vendita all’ingrosso di cui il 36enne è legale rappresentante. Ai committenti sarebbero state anche fornite false documentazioni di copertura. Tutto questo non è ancora provato. Di sicuro determina un ingente sequestro di beni a carico degli indagati. E un pesante colpo alla loro immagine, farmacia compresa. Ci sarà tempo per accertare le responsabilità. Non c’è più tempo invece per rimediare al gesto di Francesco Menetto. Il quale poco prima di togliersi la vita decide di vedere suo figlio per l’ultima vola, insieme con la moglie. E’ lo stesso Marco Menetto a raccontarlo: «Sono stati da me per cena», dice alla polizia. Sono andati a trovarlo in quella casa dove il farmacista è ristretto ai domiciliari: «Mio padre e mia mamma hanno passato la serata qui, dopo aver cenato abbiamo guardato la televisione. Poi sono andati via dicendo che dovevano fare una visita. Non immaginavo che avessero deciso di togliersi la vita». Non immaginava che si sarebbero messi in macchina. E che sulla macchina avrebbero lasciato quel biglietto, con quella frase. Così sgradevole alle orecchie del procuratore Carnevali.

Medico suicida, il figlio esce dal carcere: "Libero, ma a che prezzo?" L'avvocato del farmacista Marco Menetto: "Dovrebbe sentire il senso di colpa chi prende decisioni con tanta fretta" . Il procuratore di Monza ribadisce: non dovremmo indagare?". Il figlio: "Non credo che la magistratura sia responsabile, ma a volte forse si dovrebbe riflettere di più", scrivono Donatella Alfonso, Giuseppe Filetto e Marco Preve su “La Repubblica”. "Adesso sono libero, ma a che prezzo? Ho perso mio padre e stavo per perdere anche mia madre". Lo ha detto il farmacista, figlio del pediatra che si è ucciso ieri dopo aver lasciato un biglietto con la scritta 'La magistratura miope a volte uccide', riferendosi all'inchiesta della procura di Monza su un traffico di farmaci antitumorali che aveva portato all'arresto del figlio e coinvolto la nuora. "Il mio assistito - ha detto il difensore l'avvocato Umberto Pruzzo - non si sente in colpa. Il senso di colpa dovrebbero averlo altri che emettono provvedimenti con tanta fretta".  "Vista la grave situazione familiare si revoca la misura degli arresti domiciliari". E' scritto nell'ordinanza emessa ieri dal gip di Monza che ha revocato gli arresti del farmacista. Il gip, come chiesto dagli avvocati Lina Armonia e Umberto Pruzzo, ha sostituito gli arresti domiciliari con obbligo di firma due volte alla settimana. "Saremmo andati oggi a Monza - hanno spiegato i legali - a presentare l'istanza di scarcerazione, ma purtroppo questo tragico evento ha anticipato i tempi".

Il procuratore insiste: "Non dovremmo indagare?". "Dispiace, dispiace... però sono cose sempre accadute. Ci ricordiamo Mani Pulite e i suicidi eccellenti? Che cosa dovremmo fare noi magistrati, smettere di indagare su chi commette degli illeciti?". Lo afferma il procuratore capo di Monza, Corrado Carnevali, in una intervista al Secolo XIX a proposito del suicidio del medico genovese suicida che ha lasciato scritto: "La magistratura miope a volte uccide". "Mi dispiace per quello che è accaduto, ma ci dobbiamo mettere d'accordo. Vogliamo dei giudici che facciano il loro mestiere, che provino a fare un pò di pulizia in questo Paese? O invece liberi tutti, che ognuno faccia quello che vuole perché se viene scoperto o lui o qualche suo caro potrebbe compiere qualche gesto sciagurato? Il lavoro del Nas è stato impeccabile, vorrei poterlo illustrare a chi crede forse vero quel che c'è scritto su quel bigliettino, che la magistratura è miope. Ormai è diventato l'alibi di tutti coloro che hanno qualche altarino, attaccare i magistrati. Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre", dice Carnevali. "Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono tanti soldi in ballo. Quando arriviamo noi e blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite, chi non può più fare la vita di prima ci attacca", conclude  Carnevali, che  si è detto "sorpreso" per le parole del viceministro della Giustizia Enrico Costa, dopo le polemiche scoppiate in seguito alle sue dichiarazioni sul suicidio del pediatra di Genova, il cui figlio risulta indagato dalla Procura di Monza per un presunto traffico internazionale di farmaci. "Ho espresso il mio dispiacere per la scomparsa del medico genovese - ha detto Carnevali - Le mie parole forse sono state travisate perchè si riferivano alla ormai presa di posizione continua contro la magistratura, di cui mi dispiaccio. Il lavoro dei magistrati è quello di fare indagini, sono i giudici poi a decidere i provvedimenti di custodia". "Comprendiamo - ha aggiunto - che una vicenda giudiziaria possa sconvolgere una famiglia, ma sono rimasto sorpreso delle parole del Viceministro. Se ci fossimo sentiti, avrei avuto modo di spiegarglielo".

Il figlio: "provvedimenti colpiscono incensurati". L’ultima cena prima di buttarsi dal Ponte Monumentale, Francesco Menetto, noto pediatra genovese, l’ha fatta col figlio ancora agli arresti domiciliari. A tavola hanno parlato del 4 aprile, quando la Procura di Monza aveva notificato il mandato per traffico illecito di farmaci. «Questa vicenda ha pesato sull’onore della nostra famiglia - ripete Marco Ballario Menetto, agli arresti domiciliari fino a ieri mattina, quando il gip ha accettato la richiesta dei legali di liberarlo, dopo la morte del padre - ognuno di noi ha una sensibilità diversa, c’è chi rimane razionale e chi no, chi reagisce drammaticamente». Il papà, di 65 anni, sarebbe rimasto sconvolto da quella vicenda, tanto da togliersi la vita e lasciare un biglietto, in cui ha scritto: “La magistratura miope talvolta uccide”. Un’accusa pesante contro i giudici. Domenica sera, intorno alle 20, dopo aver cenato in famiglia, il pediatra ha lasciato la sua villa di via Piaggio, a Castelletto. Ha detto a Marco ed alla nuora, Valentina Drago, che andava a fare un giro con la moglie. La coppia ha preso la Smart, probabilmente hanno girovagato per la città, hanno parlato di quell’inchiesta e quegli arresti che gli avevano sconvolto la vita. Un irreparabile disonore. Anche se non basta tutto questo a spiegare un gesto così estremo. «Sono problematiche che hanno bisogno di uno psichiatra», ammette il figlio. D’altra parte, l’equilibrio della famiglia nel 2013 era stato incrinato da un altro grande lutto: ancora il suicidio dell’altra figlia, avvenuto in Spagna dove la giovane conviveva da tempo con uno del posto. Prima della mezzanotte Francesco Menetto, molto conosciuto a Genova come puericultore (un medico che si occupa di bambini appena nati) ha chiamato il figlio, dicendogli che avrebbe rincasato più tardi, trattenuto da una visita urgente. Intorno all’una della notte, i due coniugi sono stati visti posteggiare la loro auto in via Podestà, a Carignano. Poi il pediatra è salito sul muraglione e l’ha fatta finita. La moglie probabilmente avrebbe dovuto seguirlo, ma gli agenti delle Volanti, chiamati da alcuni passanti, l’hanno trovata in procinto di farlo, in stato confusionale. La polizia l’avrebbe trattenuta mentre era già sul ponte. Anche se gli avvocati di famiglia, Umberto Pruzzo e la moglie Lina Armonia, precisano che probabilmente la donna ha cercato di far desistere il marito, senza riuscirci, e che poi abbia vagato in stato di shock. Alla moglie è stato applicato un Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) ed è stata ricoverata nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Galliera. Un suicidio però programmato da giorni. Dentro l’auto il medico ha lasciato il biglietto e prima di lasciarsi cadere ha mandato un sms al figlio, all’una. Con il quale gli dice: “Apri il cassetto del mobile... lì c’è una busta, è importante...”. Dentro la quale è stata trovata una lettera di scuse, una sorta di testamento e dei soldi in contanti. Marco Ballario Menetto (di 38 anni), però, a quell’ora dormiva, non ha visto il messaggino ed è stato svegliato dalla polizia poco prima delle quattro. Non immaginava che il papà e la mamma avessero in mente un progetto così tragico. «Non potevo immaginare una cosa del genere- ripete - era sconvolto per queste accuse che mi erano piovute addosso». Il farmacista di via Nino Bixio e la moglie, anche lei farmacista, erano finiti agli arresti su mandato della Procura di Monza nell’ambito dell’inchiesta sul traffico illecito di medicinali. Secondo la magistratura avrebbero importato dall’estero farmaci non autorizzati. Stando invece a quanto spiegano i loro legali, si tratterebbe di importazione parallela di prodotti non di marca: “Un’inchiesta destinata a ridimensionarsi”. Comunque, i due coniugi sono stati messi ai domiciliari. Una vicenda che avrebbe sconvolto la famiglia, ma soprattutto il pediatra «Non voglio dare la colpa alla magistratura - ripete Marco Menetto - ma la vicenda è emblematica di come certi provvedimenti dovrebbero essere soppesati, perché colpiscono le persone incensurate che non hanno mai avuto a che fare con la giustizia». Negli scorsi giorni Valentina Drago era stata scarcerata dal Tribunale del Riesame, e secondo quanto spiega l’avvocato Pruzzo i giudici avrebbero ritenuto inconsistenti gli elementi di colpevolezza per giustificare la misura cautelare. Il marito, però, è rimasto agli arresti domiciliari fino a ieri mattina, quando i difensori dopo il suicidio del padre hanno chiesto ed ottenuto dal gip di Monza la revoca del provvedimento.

Pediatra suicida, il pg: «Che dovremmo fare, smettere di indagare?» dall’inviato Marco Menduni del “Il Secolo XIX" «Dispiace, dispiace… però sono cose sempre accadute. Ci ricordiamo di Mani Pulite, dei suicidi eccellenti? Che cosa dovremmo fare noi magistrati? Smettere di indagare su chi commette degli illeciti?»: Corrado Carnevali sta seduto nel suo ufficio al secondo piano del tribunale dietro a una scrivania sepolta dai fascicoli. Da 47 anni è in magistratura, da cinque alla guida della procura brianzola. Non recede di un passo dalla stringata dichiarazione del mattino, appena informato della tragedia di Genova e del biglietto trovato nell’auto del medico suicida: «Ormai dicono tutti così, non c’è altro da dichiarare». Il viceministro della Giustizia Enrico Costa reagisce subito: «Di fronte a questo tragico gesto, che mi ha profondamente turbato, spero che le parole riportate come pronunciate dal procuratore non siano state riportate in modo corretto, perché diversamente sarebbero parole fuori luogo». Carnevali allarga le braccia: «Mi dispiace per quello che è accaduto, ma ci dobbiamo mettere d’accordo. Vogliamo dei giudici che facciano il loro mestiere, che provino a fare un po’ di pulizia in questo Paese? O invece liberi tutti, che ognuno faccia quello che vuole perché se viene scoperto o lui o qualche suo caro potrebbe compiere qualche gesto sciagurato?». Carnevali sfoglia il fascicolo dell’inchiesta. La commenta: «Il lavoro dei Nas è stato impeccabile, vorrei poterlo illustrare a chi crede forse vero quel che c’è scritto su quel bigliettino, che la magistratura è miope. Ormai è diventato l’alibi di tutti coloro che hanno qualche altarino, attaccare i magistrati. Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre». Attacca ancora, il procuratore capo: «Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono soldi, tanti soldi in ballo. Poi, quando arriviamo noi, quando blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite, chi non può più fare la vita di prima ci attacca: mi hanno rovinato i magistrati!». Non parla, Carnevali, solo del suicidio di Genova. La collega dell’inchiesta sul traffico di farmaci, Franca Macchia, è la stessa pm che nelle ultime settimane ha avuto tra le mani il caso di Claudio Giardiello, l’autore della strage nel palazzo di giustizia di Milano. L’inchiesta è toccata a lei, di un altro distretto giudiziario, come le norme impongono quando è coinvolto un magistrato. Coinvolgimento che, stavolta, è significato la morte del giudice Ferdinando Ciampi, ucciso dalle pallottole del killer. Chi la conosce bene, sa quanto per lei è duro dover fare il suo lavoro, quello del pm, quando la vittima è un collega e un amico. Nelle ultime settimane era visibilmente turbata. Ieri mattina la notizia del suicidio di Francesco Menetto l’ha lasciata per qualche minuto senza parole. Dopo, un commento a mezza voce: «Ho saputo, mi hanno informato. E’ un momento terribile di un periodo terribile». Poi chiusa nel suo ufficio, insieme al procuratore capo, infine in macchina verso Milano, per una riunione. Nel chiostro del bel tribunale di Monza tutti la considerano un magistrato di grande esperienza. Sua, insieme al collega Walter Mapelli, l’inchiesta sulla “tangentopoli rossa” che ha travolto l’ex dirigente del Pd Filippo Penati. Ma anche una iper garantista: «Fa sempre tutto con scrupolo fin eccessivo, prima di chiedere una custodia cautelare ci pensa non una ma dieci volte. Dispiace sia capitato a lei». Le dà man forte anche il capitano Paolo Belgi, comandante dei Nas di Milano: «Se c’è un’inchiesta lineare, dove tutte le responsabilità sono state sistemate al loro posto, è questa. La nostra impostazione è stata recepita da un pm di grandissima esperienza e confermata dal gip. Certo, di fronte a queste tragedie c’è tutta la possibile partecipazione umana. Ma noi abbiamo lavorato con scrupolo certosino e non abbiamo commesso errori».

Signor Pm, non dica più queste idiozie, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista”. E’ sempre ingiusto accusare qualcuno per il suicidio di un’altra persona. Il suicidio è una scelta personale, drammatica, coraggiosa e imperscrutabile, che appartiene per intero e intimamente a chi sceglie di togliersi la vita. Il suicidio è un atto senza colpe, anche se evidentemente, per provocare un suicidio, servono un insieme di colpe, errori, incomprensioni, scelte, che in parte sono del protagonista del suicidio, in parte delle persone che interagiscono con lui. E’ assurdo però commentare un suicidio per accusare qualcuno. Anche se il suicida lascia un biglietto nel quale accusa. Tuttavia, al dottor Carnevali, e cioè al Pm che ha ordinato l’arresto del figlio del medico, e che ieri ha commentato la notizia del suicidio con una frase agghiacciante (”tanto ormai dicono tutti così, che è colpa dei magistrati…”) vorremmo consigliare due cose. Primo, di non considerare la morte un incidente del mestiere. Secondo di riflettere sul suo ruolo di un Pm e sull’enorme potere che esercita quando ordina un arresto, o quando incrimina. Sarà un ottimo investigatore, non discuto. Ma immagino che chiunque, da oggi, si augurerà di non incontrarlo mai sulla sua strada, una persona così.

La magistratura: arresti e condanne scontate…

Bossetti a processo. Prove zero, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Massimo Bossetti sarà processato in Corte d’assise il prossimo 3 luglio. Lo ha deciso in un’ora un giudice che ha letto sessantamila pagine in pochi giorni e che ha rifiutato di ripetere in contraddittorio l’esame del dna trovato sul corpo di Yara con il nobile motivo che potrebbero scadere i termini di custodia cautelare dell’imputato. Quel che conta, dunque, più che l’accertamento della verità, è tenere il “mostro” in gabbia. Del resto a che cosa sarebbe servita la porcata di diffondere, alla vigilia dell’udienza, le immagini dell’arresto di Bossetti sul cantiere, con i piedi imprigionati dalla calce, mentre i carabinieri impazziti urlano “prendilo, prendilo! Sta scappando, prendilo!”, se non a dipingere l’immagine della bestia? La prima udienza davanti al Gup inizia sempre con scaramucce procedurali tra difesa e accusa, e quella di ieri mattina al tribunale di Bergamo non ha fatto eccezione. Ma fuori dall’ordinario è stato il fatto che un giudice abbia rifiutato alla difesa lo strumento dell’incidente probatorio per ripetere quell’esame del Dna i cui risultati hanno seminato tanti dubbi tra gli stessi periti del Pubblico ministero. Dovrebbe essere lo stesso magistrato dell’accusa (che tra l’altro, lo prescrive il codice, dovrebbe cercare anche gli elementi a favore dell’indagato ) ad avere interesse a “cristallizzare”, attraverso l’incidente probatorio, la prova di colpevolezza. Ma il fatto stesso che la Procura non abbia mai proposto il rito immediato, dimostra che certezze granitiche in questo processo non ce ne sono e che ci si prepara, dopo un passaggio dal Gup che ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, è pura formalità, a uno scontro in aula nell’ennesimo processo indiziario. Dopo Garlasco e Perugia, ecco Bergamo: è fin troppo facile la previsione di una vera roulette russa cui sarà sottoposto il carpentiere di Mapello, in cui la difesa cercherà “un giudice a Berlino” e l’accusa cercherà di sciorinare elementi di prova complementari (alcuni dei quali già caduti, come la ricerca in computer sulla sessualità delle tredicenni) per supportare la debolezza della “prova regina”, che in realtà è solo indiziaria. C’è una prima questione, che riguarda i diritti dell’indagato. Tutti gli atti preliminari, per tre anni e mezzo, sono stati compiuti “contro ignoti”, quindi senza contraddittorio delle parti. Tra questi anche la perizia fondamentale, quella sul dna, proprio quella che ha portato all’individuazione di Massimo Bossetti e al suo arresto. Messo questo punto fermo, si è passati alla costruzione del contesto: dalle ricerche sul computer alle lampade abbronzanti per poi passare, nel solito crescendo rossiniano del circo mediatico-giudiziario, al furgone e a improbabili testimonianze di signore con la memoria ritardata. Fino alla scandalosa morbosa e spasmodica ricerca nelle lenzuola di famiglia e nelle abitudini sessuali dei coniugi Bossetti. Ah, il contesto! Noi osservatori attenti e non abituati a fare gli zerbini dei Pm ci domandavamo due cose: primo, perché, davanti a una prova granitica come quella del dna, ci si affannasse tanto a perdere tempo con le abbronzature e gli eventuali adulteri, che nulla c’entravano con quel che è successo a una bambina di 13 anni, rapita, spogliata, tagliuzzata, rivestita e lasciata morire di freddo ( forse ) in un prato. Secondo: perché la pubblica accusa con la sua prova certa del dna non adiva subito al rito immediato per arrivare in tempi rapidi a una sentenza di condanna? La risposta è arrivata quando i difensori di Bossetti hanno potuto cominciare a leggere le carte e i risultati delle perizie, e hanno appurato, anche con l’aiuto di una serie di esperti genetisti internazionali, che in quei rilievi c’è stato sicuramente un errore. O forse più di uno, perché non c’è coincidenza tra il dna nucleare e il dna mitocondriale. L’esempio più facile per capire è quello dell’uovo: il tuorlo e l’albume devono avere la stessa origine, non possono essere fratelli separati in culla. Ecco perché quegli esami andrebbero ripetuti, anche se nei fatti questo è impossibile perché il materiale è stato consumato tutto, ed era comunque già deteriorato dalla lunga esposizione del corpo di Yara alle intemperie. Forse, perché anche il luogo e i tempi della morte non sono certi. Sarà un altro dei tanti processi impossibili, quello che verrà celebrato il 3 luglio. Anche per questo Massimo Bossetti non dovrebbe neppure stare in carcere. Comunque andranno le cose, è sicuro che Yara Gambirasio non avrà mai giustizia.

Ma non è sempre così…

L’ex procuratore capo della Repubblica di Genova, Francesco Lalla, con il garbo del magistrato di una volta ma la fermezza di chi sa di essere una persona perbene, si è dimesso da difensore civico della Regione Liguria e ha detto quello che pensa sulle indiscrezioni giudiziarie che lo riguardano, scrive Blitz Quotidiano”. L’inchiesta è in mano alla Procura della Repubblica di Torino, competente per i magistrati della Liguria e è stata promossa dalla Procura di Genova, dove Lalla è stato capo fino al 2010. Non è vero, sostiene Francesco Lalla, che abbia mai chiesto l’assunzione della nuora all’allora presidente della banca Carige poi finito in carcere. Era stata selezionata e lui si limitò a confermare che era stata una buona scelta. La nuora, che già lavorava altrove, fece poi un’altra scelta di lavoro. La riprova è nel fatto che, almeno finora, i magistrati che conducono l’inchiesta sulle malefatte di Berneschi non hanno visto nella conversazione estremi di possibile reato. Tant’è, basta una indiscrezione a fare scoppiare lo scandalo. Sul Secolo XIX di martedì 17 marzo 2015 Marco Grasso ha riportato così le parole che Francesco Lalla, in conferenza stampa, dice di avere detto a Giovanni Berneschi: “Ricordo che in uno dei rari incontri con l’allora presidente Berneschi commentai favorevolmente il fatto che Banca Carige aveva contattato mia nuora che in quel periodo, come adesso, aveva un incarico dirigenziale in una società. Mi sono permesso di dire che Carige aveva fatto una buona scelta, commento inopportuno forse ma umanamente comprensibile. Tra l’altro mia nuora non ha accolto la richiesta di Carige. Preciso di non essere indagato”. Completa Marco Grasso: “Il nome dell’ex capo dei pm genovesi compare in un appunto dell’agenda trovata nell’appartamento di Amelia Tignonsini, ex segretaria personale di Berneschi, del 27 luglio 2009: “Lalla per assunzione Mariani”. «Non ho mai conosciuto la segretaria di Berneschi». Quanto al fatto che negli anni scorsi inchieste-fotocopia a quella che ha portato all’arresto del padre-padrone della banca fossero state archiviate, Lalla ha precisato che «nel periodo in cui è avvenuto quel colloquio Berneschi non aveva alcun accertamento giudiziario in corso per l’ufficio del pubblico ministero». Nel corso dell’incontro, riferisce Marco Grasso, Lalla ha attaccato uno degli autori dell’articolo pubblicato dal Secolo XIX. L’articolo era a firma di Marco Grasso e Matteo Indice. Ha detto Lalla: “A mio parere il giornalista doveva astenersi poiché c’erano interessi personali”. Spiega Marco Grasso: “Il riferimento indiretto è a una querela presentata nel 2010 contro Matteo Indice, che si è conclusa con una condanna in primo grado e ora è in attesa di definizione presso la Corte d’Appello di Torino. La replica di Matteo Indice è stata: “Visto che il riferimento mi tocca personalmente, rispondo che così è comodo. In base a un principio del genere, basterebbe una querela di parte per disinnescare un giornalista scomodo e nessuno potrebbe più scrivere di niente”. Sabato 14 marzo 2015, Marco Grasso e Matteo Indice avevano scritto sul Secolo XIX: “L’archivio di Giovanni Berneschi non spaventa solo la politica. Dal calderone dello scandalo Carige salta fuori un’agendina piena di nomi di alti magistrati e una segretaria che conosce, giustamente, molti segreti. Gli atti sono in un’inchiesta parallela, aperta dalla Procura di Torino, in cui ci sono fra gli altri i nomi dell’ex procuratore capo di Genova Francesco Lalla (novità assoluta), che a Berneschi avrebbe «chiesto l’assunzione per una nipote»; e quello di Roberto Fucigna, che «in veste di presidente di una squadra di volley» (sponsorizzata dalla banca stessa) incontrava l’ex leader dell’istituto in modo «assiduo». Negli stessi anni, rilevano gli investigatori, da giudice per le indagini preliminari archiviò i primi fascicoli su Carige. Fra il 2002 e il 2003 le Fiamme Gialle focalizzarono un giro di false fatture e fondi neri e varie truffe sulle compravendite immobiliari del gruppo creditizio. Episodi molto simili a quelli emersi quando alla Procura di Genova è approdato il nuovo capo Michele Di Lecce. Non solo. Nelle vecchie indagini condotte ai tempi di Lalla e Fucigna, vennero archiviati molti dei personaggi arrestati l’anno scorso su (nuova) richiesta dei pubblici ministeri Nicola Piacente e Silvio Franz”. Queste le repliche di Francesco Lalla e Roberto Fucigna, raccolte dal Secolo XIX: “I discorsi su quell’assunzione? Li ricordo, certo, ma non si trattò d’una richiesta di favori, anzi. Mia nipote alla fine rinunciò volontariamente all’ingresso in Carige, perché aveva altre opportunità. Non pretesi alcuna spintarella” ha detto Lalla. E Fucigna ha spiegato: “Chiedevo solo se era disponibile a sponsorizzare la pallavolo, nient’altro. L’archiviazione dei vecchi rilievi su Carige? La Procura in primis sosteneva non ci fossero elementi per insistere. Oggi con lo sport ho smesso, vado solo allo stadio…”.

Liguria, da Carige al carbone. Le indagini dimenticate e i magistrati nei guai, scrive  di Ferruccio Sansa su "Il Fatto Quotidiano". Indagini poche, condanne pochissime. Il sistema di potere indisturbato. Magistrati e Anm in silenzio. Poi arrivano loro: Michele Di Lecce e Nicola Piacente a Genova, Francantonio Granero a Savona, Roberto Cavallone a Sanremo. Con i nuovi inquirenti la Liguria si è scoperta malata: l’inchiesta Carige ha messo in ginocchio la banca dove sedeva mezza famiglia Scajola; l’indagine sulle spese pazze nella Regione guidata dal centrosinistra ha portato in manette due vicepresidenti della giunta e investito mezzo consiglio. Poi l’arresto di Gino Mamone per appalti da 10 milioni. Quel Mamone indicato in un’informativa della Finanza come possibile contatto tra politica e ’ndrangheta in Liguria (mai però indagato per questo); l’uomo che finanziava l’associazione Maestrale di Claudio Burlando e che i pm sospettano ricattasse il governatore. E ancora, le inchieste di ’ndrangheta che il pm Cavallone ha avviato nel Ponente ligure, dove ogni anno bruciavano duecento locali. Autocombustione? O per finire: l’inchiesta sulla centrale a carbone di Vado Ligure. I periti dell’accusa parlano di 440 morti. Ci sono decine di indagati tra cui Burlando (l’accusa è concorso in disastro ambientale doloso): le ciminiere sputavano veleno da decenni, ma bisognava attendere Granero e i suoi pm. Ha dichiarato Granero alla Commissione Parlamentare per i Rifiuti: “Sono stato soggetto a pressioni, ricatti e pedinamenti… Ero stato in Liguria negli anni 80, quando ho fatto il processo Teardo. Sono tornato dopo trent’anni e ho trovato la stessa situazione, una struttura di poteri trasversali, priva di colore partitico, composta da poche persone, che domina l’attività economica e finanziaria del territorio”. Ecco la magistratura in Liguria: le inchieste che si fanno oggi. E i dubbi su quelle che non si sono fatte ieri. A cominciare dalla Carige. Nel 2002 la Finanza aveva prodotto migliaia di documenti. Scrive oggi il gip: “Per ragioni diverse i procedimenti che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza che fosse esercitata l’azione penale”. In Tribunale c’è chi ricorda che la società assicuratrice della Carige era sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna è in pensione, indagato a Torino per le sponsorizzazioni. Le carte Carige di oggi tirano in ballo altri magistrati : “Il vice procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene fuori…”, dice al telefono Ferdinando Menconi, ex numero uno di Carige Vita Nuova, braccio destro di Giovanni Berneschi, boss della banca per decenni. Pare riferirsi, secondo gli investigatori, al procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico (non indagato) che respinge l’addebito: “Mai frequentato quella gente”. Il gip Adriana Petri così motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite dell’avvocato Andrea Baldini (marito del magistrato Pasqualina Fortunato, ndr), al quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai terminali riservati della Procura”. A Torino, competente per gli atti relativi ai magistrati liguri, si stanno valutando le intercettazioni che parlano dell’ex procuratore aggiunto di La Spezia Maurizio Caporuscio, di Fortunato e perfino di Granero (la sua posizione, però, pare già chiarita). A Torino si sta studiando la posizione di Fucigna e di Francesco Lalla (non indagato), ex procuratore di Genova, che – secondo la segretaria di Berneschi – avrebbe chiesto l’assunzione di una nipote. Una cosa è certa. Nelle intercettazioni Carige si parlava di assunzioni di parenti di magistrati. Che dire poi del caso Festival, il più clamoroso crac della marineria italiana? Centinaia di persone a spasso, un buco di 273 milioni. Tra i consiglieri di Festival, Roberto De Santis, che definiva Massimo D’Alema “suo fratello maggiore” e Raffaele Bozzano, nominato da Burlando nel cda dell’ospedale Gaslini. Tra i pezzi grossi del gruppo, Umberto Ferraro e Marina Acconci, vicini alla sinistra genovese. Tanti di loro erano nei cda di società di brokeraggio in affari con Festival: Italbrokers, società che fa capo a Franco Lazzarini, amico di D’Alema. La collegata Interconsult faceva riferimento a Gianni Pisani, finanziatore di Italiani Europei e scelto dalla Regione per guidare Sviluppo Genova che gestisce miliardi di appalti pubblici. L’inchiesta Festival si è chiusa tra prescrizione e immunità: l’armatore Giorgio Poulides era ambasciatore di Cipro in Vaticano. Il legame tra magistratura e mondo degli affari di centrosinistra a Genova pareva normale: all’epoca il procuratore, i responsabili della Corte d’appello e dell’Ufficio gip vantavano frequentazioni con quel gruppo di potere. Molti giocavano a calcetto insieme. Stima, certo: appena andato in pensione il procuratore Francesco Lalla è stato nominato difensore civico dalla Regione (ieri si è dimesso). Troppe inchieste mai aperte o chiuse negli scaffali. Come quella su un prestito di 50 mila euro. Al centro Fouzi Hadj, imprenditore siriano con affari in Guinea Conakry: in un dossier dell’ong Human Rights Watch fatto proprio dall’Onu, viene indicato come trafficante d’armi. Fouzi a Genova aveva amici nelle istituzioni. Da un fascicolo della Procura di Montecarlo passato poi a Genova emerge che Fouzi intrattiene rapporti con poliziotti. Uno è Oscar Fioriolli, all’epoca questore di Genova, poi di Napoli. Fioriolli ha ricevuto dal siriano 50 mila euro. “Un prestito”, tagliò corto l’alto dirigente. Nelle carte dell’inchiesta si trovano nomi del G8 del 2001, come Spartaco Mortola, all’epoca capo della Digos di Genova. C’è poi Marcellino Melis, capo degli artificieri di Genova, che passò alle cronache per aver perso una prova decisiva nell’inchiesta del G8: la famosa molotov. Melis si occupa per Fouzi di affari tipo la blindatura di un’auto destinata al dittatore della Guinea, Lansana Conté. Ma anche questo fascicolo è finito in prescrizione.

Quei file audio del giudice Fucigna, trema il ramo fallimentare. Consigli poco ortodossi nei colloqui   registrati e depositati ai pm di Savona  - nell'ambito del caso Berneschi - che li hanno inoltrati ai colleghi piemontesi, scrive Marco Preve su “La Repubblica”. UNA serie di colloqui, registrati di nascosto, con l’ex capo dei gip genovesi Roberto Fucigna, consegnati alla procura di Savona e da questa ai colleghi di Torino, rischiano di aprire un nuovo, clamoroso filone d’indagine sulla giustizia genovese e in particolare sulla gestione di alcune procedure fallimentari. E’ l’ultimo retroscena, dal potenziale esplosivo, che investe il tribunale del capoluogo ligure e che va a sovrapporsi e intersecarsi con la tranche della maxi inchiesta su Banca Carige che riguarda le “relazioni pericolose” tra l’ex presidente Giovanni Berneschi e alcuni magistrati. Tra questi, lo stesso Fucigna, ma anche l’ex procuratore capo Francesco Lalla (ne parliamo in questa stessa pagina) e l’ex reggente della procura di La Spezia Maurizio Caporuscio. Una serie di appunti di Berneschi e della sua segretaria, sequestrati nei giorni del suo arresto, e contenenti riferimenti a toghe, imprenditori e società erano stati subito mandati a Torino per competenza. I pm Giancarlo Avenati Bassi e Marco Gianoglio avevano interrogato prima la proprietaria dell’agendina con i nomi e in alcuni casi delle cifre appuntate, ovvero la segretaria di Berneschi, Amelia Tignonsini e in seguito lo stesso ex presidente della banca. Che aveva fornito spiegazioni non solo sui suoi rapporti con Lalla e Fucigna (quest’ultimo assiduo frequentatore del banchiere per ottenere finanziamenti per la squadra di volley di cui era presidente onorario) ma anche su altri nomi e società. Ad esempio la Penelope società legata al petroliere Antonio Desiata (sponsor di Igovolley) che rilevò un capannone dal fallimento della Ga, Genova Archivi, società creata da Desiata con Andrea Pesce (manager corteggiato dalla politica fino a quando è servito e poi abbandonato al fallimento del Savona Calcio e di Transitalia) e che curava l’archiviazione dei documenti della Cassa di Risparmio. A Berneschi è stato chiesto anche di Michele Tecchia, titolare di un’azienda la Emark che stampava pubblicazioni e filigrane per Carige, fallita lo scorso anno. Tecchia, parente di una cancelliera del tribunale, fu anche lui presidente dell’Igovolley sponsorizzato da Carige. Pesce, del quale la segretaria di Berneschi si ricorda appena, a differenza della martellante presenza negli uffici della banca dell’ex giudice, è finito nei guai a Savona per il crack della società di calcio. E proprio in questa procura sono stati consegnati file audio registrati durante delle conversazioni nelle quali Fucigna fornirebbe una serie di indicazioni tecniche, con tanto di nominativi di professionisti ai quali rivolgersi, per cercare di attenuare posizioni debitorie di società in liquidazione e con procedure concordatarie o fallimentari avviate. Uno squarcio su un mondo tanto esclusivo quanto riservato, che dagli avvocati specializzati, attraverso commercialisti, consulenti e parcelle sostanziose, arriva fino alle aule dei tribunali. Le registrazioni sono ora al vaglio dei pm di Torino. Che su Fucigna avevano già un fascicolo aperto riguardante le sue eventuali responsabilità nelle false sponsorizzazioni del volley (due ex presidenti sono a processo per reati fiscali). Ma anche Genova si sta muovendo sul fronte di quelli che sono ormai colleghi in pensione. Il pm Silvio Franz, già sette mesi fa, aveva delegato i finanzieri del nucleo di polizia tributaria ad acquisire «presso le società del Gruppo Carige informazioni in merito ai rapporti di cui... nella agenda nella disponibilità di Amelia Tignonsini segretaria di Berneschi». E gli accertamenti sono quasi conclusi.

Toghe nel mirino: la magistratura tra diritto e politica, scrive Alessandra Di Giuseppe su “Blitz Quotidiano”. Sono passati ventitre anni da quel lontano 1992, l’anno dell’inchiesta “Mani Pulite”, l’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, l’anno del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. A Milano, un pool di magistrati guidati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, tra i quali oltre a Di Pietro figurano Gherardo Colombo e Ilda Boccassini, portano alla luce vicende di corruzione che toccano le più alte sfere del potere politico italiano. La magistratura raggiunge l’apice del consenso popolare, dopo anni di isolamento ed attacchi provenienti da esponenti di partiti politici, soprattutto del partito socialista. Tra un processo mediatico e l’altro, quei giudici diventano degli eroi, paladini della legalità e difensori della democrazia. Dopo quella stagione, oggi assistiamo increduli al tramonto, o meglio, alla “ parabola discendente” della magistratura italiana, con una profonda disaffezione popolare nei confronti delle toghe. La riforma della responsabilità civile dei giudici, introdotta con legge 27 febbraio 2015, n. 18,  è stata accolta con un’alta percentuale di consenso popolare come quando, nel 1987, gli italiani si espressero a favore del referendum popolare sulla medesima questione. Oggi come allora la magistratura appare delegittimata dagli errori giudiziari, dagli episodi di corruzione e dalle correnti politiche al suo interno. Tante, troppe,  le vicende giudiziarie che coinvolgono magistrati.

Luigi Passanisi, presidente del Tar Marche è stato condannato in primo grado a tre anni e sei mesi di reclusione  per corruzione in atti giudiziari per aver «venduto» una sentenza del Tar di Reggio Calabria nel 2005, quando ne era presidente.

Nell’ambito dell’inchiesta sul Mose sono indagati  magistrati della Corte dei Conti, Vittorio Giuseppone, giudici del consiglio di Stato e del Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero garantire la legalità delle opere pubbliche.

Il magistrato del lavoro di La Spezia Maurizio Caporuscio, il procuratore di Savona Francantonio Granero e il magistrato del lavoro a Spezia Pasqualina Fortunato sono indagati per"rivelazione di segreti d’ufficio" nello scandalo che ha travolto la Banca Carige.

16 giudici tributari, otto tra funzionari e impiegati presso Commissioni tributarie arrestati a Napoli  nell'ambito di un blitz anticamorra.

Luigi De Gregori, un giudice della Commissione provinciale tributaria di Roma arrestato in flagrante, mentre intascava una tangente da 6mila euro.

Il giudice Franco Angelo Maria De Bernardi, presidente della II sezione quater, del Tribunale amministrativo regionale del Lazio arrestato per corruzione su ordine della procura di Roma: il magistrato aveva messo su un vero e proprio sistema di corruzione «integrale».

Il pm di Roma Roberto Staffa, titolare di numerosi processi contro la criminalità organizzata, arrestato dai carabinieri e accusato di corruzione, concussione e rivelazione di segreti d’ufficio in cambio di prestazioni sessuali.

Giancarlo Giusti, ex gip del Tribunale di Palmi, il magistrato arrestato dalla squadra mobile di Reggio Calabria nell'operazione condotta contro la cosca Bellocco, già condannato in precedenza a 4 anni di carcere nell'ambito di una inchiesta della Dda di Milano.

A Taranto, il giudice civile Piero Vella arrestato  in flagranza di reato per corruzione in atti giudiziari.  

Pietro Volpe, coordinatore dei Giudici di Pace di Udine arrestato nell’ambito di un’indagine coordinata dalla Procura della repubblica di Bologna e condotta dalla Polizia stradale di Amaro su falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni ucraini che trasportavano abusivamente merce sulla tratta Venezia-Trieste. 

L’ex  presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, indagato nell'ambito di una inchiesta per millantato credito e corruzione in atti giudiziari.

I fenomeni corruttivi pare prolifichino nelle sezioni fallimentari dei Tribunali cosicché è stato coniato il neologismo “fallimento poli”: il 12 giugno 2012 Chiara Schettini, giudice de L’Aquila, ex magistrato del tribunale di Roma viene arrestata con l'accusa di aver pilotato i fallimenti per reati gravissimi: peculato, corruzione e minacce; ”Di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi”, parla così nelle telefonate intercettate dagli inquirenti e durante l’interrogatorio avrebbe affermato: “a Roma era una prassi dividere il compenso con il magistrato, 3 su 4 sono corrotti”.

Condannato definitivamente in Cassazione Sebastiano Puliga,  ex giudice alla sezione fallimentare del tribunale di Firenze per bancarotta fraudolenta aggravata, corruzione in atti giudiziari e falso. 

L’ex procuratore capo di Pinerolo, in provincia di Torino, Giuseppe Marabotto arrestato e accusato di corruzione. L’indagine condotta a Milano dal sostituto procuratore Fabrizio Romanelli riguarda una serie di consulenze affidate dal magistrato a professionisti “amici”.

Uno spaccato devastante, che rende attuali le parole che Giovanni Falcone pronunciò a Milano il 5 novembre 1988, nel corso di una conferenza pubblica: "occorre rendersi conto che l'indipendenza e l'autonomia della magistratura rischia di essere gravemente compromessa se l'azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino. Ora, certi automatismi di carriera e la pretesa inconfessata di considerare il magistrato - solo perché ha vinto un concorso di ammissione in carriera - come idoneo a svolgere qualsiasi funzione (una specie di superuomo infallibile ed incensurabile) sono causa non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura. La inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il CSM ed i consigli giudiziari, ha prodotto un livellamento dei magistrati verso il basso". Il 13 marzo 1991 Giovanni Falcone varcava le soglie del Ministero della Giustizia su invito del Ministro Claudio Martelli, con l’incarico di Direttore degli Affari penali e proponeva una riforma della giustizia che prevedeva: la separazione delle carriere e la regolamentazione della carriera del pubblico ministero che non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, la  razionalizzazione ed il coordinamento dell’attività del pm, l’eliminazione delle correnti politiche, la formazione professionale dei giudici. Le proposte di Falcone di allora sono condivisibili o meno, ma indubbiamente molto attuali, e dopo vent’anni non riprendere quelle idee significa fare un torto non soltanto a lui, ma anche a noi stessi ed ai tanti giudici onesti nel nostro Paese.

Quindi, non è vero, Corrado Carnevali, che «ormai dicono tutti così».

Parliamo della trattativa Stato-Mafia.

Trattativa Stato-mafia: condanna per il maresciallo Masi. È il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo. Ecco la sua storia fino al verdetto della Cassazione, scrive Anna Germoni su Panorama. Saverio Masi, il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato-mafia, e testimone dell'Accusa (è il numero 54 della lista della procura di Palermo) il 24 aprile è stato condannato dalla Cassazione. Dopo una lunga riunione di camera di consiglio, il presidente della Quinta sezione penale del Palazzaccio di Roma ha rigettato in toto il ricorso presentato dall'avvocato dell’ex capo di scorta del dottor Di Matteo, notificando anche il pagamento delle spese processuali. La vicenda risale al 2008 quando Masi lavorava al nucleo investigativo del comando provinciale dell’Arma a Palermo. Con la sua auto privata il militare racconta di eseguire di iniziativa propria un pedinamento. Prende una multa. Per evitare tale contravvenzione scrive che la macchina privata era usata per motivi di servizio. Al comando dei Carabinieri viene chiesta contezza della vicenda e si apre un fascicolo nei confronti del maresciallo dalla procura palermitana. Per i giudici di primo grado, il militare avrebbe falsificato la firma del suo superiore, con le ipotesi di reato di falso materiale, falso ideologico e truffa. Nel 2013 viene condannato dalla corte d’Appello di Palermo a sei mesi di reclusione per falso materiale e truffa. L’avvocato del militare aveva annunciato il ricorso in Cassazione che si è celebrato il 24 aprile, chiedendo l’annullamento senza rinvio per entrambi i reati, perché il fatto non sussiste e insistendo sulla figura chiave del suo assistito, in qualità di testimone della procura di Palermo nel processo Stato-mafia. Strategia difensiva che ha suscitato qualche brusìo da parte dei giudici della Cassazione, vista la non pertinenza del caso con il ricorso pervenuto. Il procuratore generale ha invece chiesto l’assoluzione per la truffa e la condanna di 5 mesi e 10 giorni per falso materiale. Il 24 aprile 2015 il verdetto: i giudici hanno rigettato il ricorso del legale, dell’ex capo scorta del pm Di Matteo, con il pagamento delle spese processuali. Condannato. Ora per il militare, si prospetterebbero provvedimenti di Stato tra cui la degradazione, fino all’espulsione dall’Arma. Ma c'è di più. Il 19 gennaio 2015 scorso il maresciallo Saverio Masi, il suo ex collega Salvatore Fiducia e il loro avvocato Giorgio Carta sono stati rinviati a giudizio per diffamazione. Processo che inizierà il 16 maggio del 2016 davanti al tribunale di Roma. A giudizio anche una serie di giornalisti della tv, della carta stampata, tra loro i direttori de "Il Fatto Quotidiano" Antonio Padellaro e di "Servizio Pubblico" Michele Santoro. Nel 2013, durante una conferenza stampa indetta dal legale di Masi, nel suo studio romano, avevano accusato gli ex vertici del nucleo operativo di Palermo di avere di fatto “ostacolato” le indagini che avrebbero potuto portare all'arresto del boss Matteo Messina Denaro e di Bernardo Provenzano. Prontamente i superiori dell’ex capo scorta di Di Matteo, Giammarco Sottili, Michele Miulli, Fabio Ottaviani e Stefano Sancricca, li avevano denunciati alla procura di Roma per diffamazione. Sulla base di tale esposto, era nato uno scontro tra le due Procure di Roma e di Palermo. I pubblici ministeri del capoluogo siciliano avevano eccepito l’incompetenza a indagare da parte dei colleghi capitolini. Ma la querelle finita davanti alla Cassazione, ha dato ragione alla Procura guidata da Giuseppe Pignatone. Inoltre mentre il fascicolo aperto dai pm palermitani non è ancora concluso dopo querele e contro-denunce tra Masi e gli alti ufficiali dell’Arma, per la mancata cattura di Provenzano, risulta invece che la procura di Bari abbia chiesto già il rinvio a giudizio per diffamazione nei confronti proprio di Masi, accogliendo così favorevolmente l’esposto degli alti ufficiali dell’Arma. Malgrado ciò, il militare continua a girare l’Italia partecipando a convegni di legalità e parlando dei processi in corso.

Trattativa Stato-mafia: il mistero Conso. Una diatriba fra giornalisti. Un ex ministro della Giustizia che nel 1993 revoca il carcere duro per 334 detenuti. E seri dubbi su un intero processo, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da alcuni giorni è scoppiata un'interessante diatriba giuridico-legale tra Massimo Bordin, ex direttore di Radio Radicale (nonché voce di Stampa & regime, la sua rassegna-stampa quotidiana) e Marco Travaglio, condirettore del Fatto quotidiano. Oggetto del contendere è il processo palermitano sulla presunta "trattativa" fra Stato e Cosa nostra, ai tempi delle stragi mafiose del 1992-93, e il ruolo dell'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. La diatriba è importante. Perché riesce a fare emergere elementi importanti, ma sottaciuti, del processo palermitano. Ma prima serve un antefatto: va riassunta la storia della "trattativa", perché troppo spesso se ne parla ipotizzando una scontata consapevolezza del lettore. Secondo la Procura di Palermo, all'inizio degli anni Novanta fu avviato un negoziato segreto fra alcuni boss mafiosi del peso di Totò Riina e Bernardo Provenzano, e alcuni uomini delle istituzioni: importanti politici e alti ufficiali dei carabinieri. L'ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia (poi dedicatosi alla politica attiva) e dopo di lui altri magistrati palermitani, a partire da Nino Di Matteo, hanno ipotizzato che oggetto dell'accordo sarebbe stato la fine della stagione stragista in cambio di un'attenuazione delle misure previste dal 41 bis, l'articolo della norma dell'ordinamento penitenziario che ordina un trattamento particolarmente severo per alcuni detenuti ritenuti pericolosi, come i mafiosi. Il processo è iniziato a Palermo nel maggio 2013 e una decina d'imputati oggi sono a giudizio, accusati chi di attentato a un corpo politico dello Stato, chi di falsa testimonianza. Su questa ipotesi giudiziaria, come del resto quasi su tutto, l'Italia si divide. Bordin è fra quanti guardano con scetticismo le stesse basi logiche e giudiziarie del processo (una piccola schiera cui, per obbligo di trasparenza, sommessamente ci uniamo): a unire costoro è l'idea - forse troppo pragmatica per giustizialisti "puri e duri" - che la politica abbia il compito istituzionale di affrontare anche i più gravi problemi e di risolverli. Del resto, era già stato fatto in passato con "interlocutori" sgradevoli quanto i mafiosi, per esempio con le Brigate rosse. Di più: se la "trattativa" fosse un reato, se lo Stato avesse ceduto e la mafia ne avesse tratto benefici, allora le istituzioni sarebbero colpevoli. Ma non è stato così. Su questo versante, anche celebri giuristi di sinistra come Giovanni Fiandaca sostengono che l'impianto accusatorio del pool di magistrati di Palermo non regga: i comportamenti sotto accusa non sono reato e, soprattutto, nessuno ha mai abrogato o alleggerito il 41 bis. Sull'altro versante, Travaglio è tra i più attivi sostenitori del'lipotesi accusatoria, che a Palermo ha riunito sul banco degli imputati una decina di teste male assortite: boss mafiosi, politici, ex ufficiali dei carabinieri. Per chi è convinto senza ombra di dubbio che la "trattativa" ci sia stata, la commistione tra boss mafiosi e servitori dello Stato è un orrido, illecito connubio, certamente da sanzionare a prescindere dai suoi risultati. Questa parte si fa forte anche di una sentenza di primo grado, pronunciata nel 1998 dal Tribunale di Firenze, alla fine del processo sulla strage dei georgofili (1993): in quella sentenza viene scritto esplicitamente che una "trattativa" ci fu, e che le stragi mafiose di oltre 20 anni fa vennero compiute per costringere lo Stato a venire a patti sul 41 bis. Bene. Su che cosa discutono oggi Bordin e Travaglio? Sul ruolo di Conso, già presidente della Corte costituzionale e soprattutto ministro della Giustizia dal febbraio 1993 al maggio 1994 in due governi di centrosinistra (Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi). Perché l'unico atto di quegli anni che possa essere in qualche modo letto come un possibile cedimento alla mafia riguarda proprio Conso: che il 2 novembre 1993 decise di non rinnovare circa 334 provvedimenti di 41 bis in scadenza. E proprio sul nome di Conso, effettivamente, il mistero s'infittisce. Perché l'ex ministro, personalità specchiata e universalmente apprezzata, malgrado il suo ruolo e le sue azioni, non è sul banco degli imputati a Palermo. Sul punto, lo scambio tra Bordin e Travaglio è vivace. Bordin si domanda (lo fa per radio e sul Foglio) perché Conso, indagato per falsa testimonianza, non sia oggi sotto processo nel processo palermitano. Travaglio gli risponde sul Fatto che questo è reso impossibile dal codice penale, che sempre rinvia (art. 371 bis) quel tipo di procedimenti alla fine del processo. Ora, a Travaglio si potrebbe forse obiettare che Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno dei primi anni Novanta, a Palermo è attualmente imputato proprio per una falsa testimonianza resa in quel procedimento. E che nei suoi confronti la Procura non ha atteso  la fine del processo. Ma sicuramente il tribunale avrà avuto ottime ragioni per differenziare la sorte giudiziaria di Mancino da quella di Conso. Però, e qui andiamo al mistero Conso, la questione in effetti travalica la falsa testimonianza. Se è vero che a Palermo da un anno è sotto processo il negoziato tra mafia e Stato, la domanda è perché non sia imputato di attentato a un corpo politico dello Stato anche Conso, il politico che con il suo atto sul 41 bis (attenzione: scrivo per ipotesi, esclusivamente in base alla logica della pubblica accusa) potrebbe avere ceduto qualcosa alla presunta controparte mafiosa? È proprio in questa anomalia che si rende più evidente la fragilità stessa dell'impianto accusatorio a Palermo. Ovvio, ci sono ragioni di opportunità processuale che possono avere spinto la Procura a evitare di chiamare Conso sul banco degli imputati: la prima è che, trattandosi di un ipotetico reato compiuto da ministro, a giudicarlo potesse/dovesse essere il Tribunale dei ministri e non la Corte d'assise di Palermo. Potrebbero esserci anche ragioni più "politiche": Conso, come s'è detto, è al di sopra di qualsiasi sospetto. Lui stesso, l'11 novembre 2010 parlando alla commissione Stragi, dichiarò di avere agito in piena spontaneità sul 41 bis: “Da parte mia" spiegò l'ex ministro "non c’è mai stato neppure il barlume di una possibilità di trattativa”. Comunque, l’ex Guardasigilli spiegò che la decisione di non rinnovare il 41 bis per i mafiosi in carcere, “fu il frutto di una mia decisione, decisione solitaria, non comunicata ad alcuno, né ai funzionari del ministero, né al Consiglio dei ministri, né al presidente del Consiglio, né al capo del Ros Mario Mori, e nemmeno al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria". E Conso concluse: "La decisione non era un’offerta di tregua né serviva ad aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze e quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Che cosa era cambiato? Totò Riina era stato arrestato, il suo successore Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava più agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”.

Parliamo di Giulio Lampada.

Il calabrese di successo odiato dalla Procura, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. Giulio Lampada è un imprenditore calabrese, che ha avuto successo a Milano. Ma dopo anni di benessere è stato arrestato con l’accusa di essere un capo mafia. Difficile trovare traccia di reato nelle accuse. Su questo torneremo. Oggi vogliamo denunciare il fatto che da quattro anni è sottoposto al regime di custodia cautelare e che il tribunale milanese, pur di non concedergli i domiciliari, raddoppia le perizie. Forse non molti ricorderanno chi è Giulio Lampada, e allora è bene rinfrescare la memoria in proposito. Giulio Lampada è un giovane imprenditore calabrese che, dopo aver per anni gestito un bar davanti al Tribunale di Reggio Calabria, frequentato giornalmente, come è normale sia, da magistrati ed avvocati, che tutti lo avevano per amico e persona per bene, alla fine degli anni Novanta seppe fare con successo il salto verso Milano. In pochi anni, Lampada riuscì ad organizzare varie imprese redditizie, sia nel campo dei giochi permessi e propiziati dallo Stato, sia dei bar e delle caffetterie. È poi perfino ovvio che, dal momento che era riuscito ad ascendere i gradini sociali, diventasse amico di persone in vista, della Milano “bene” e poi, poco a poco, di politici, gente dello spettacolo, magistrati, dirigenti, manager e via dicendo. Così va il mondo e così è sempre andato, anche se ad alcuni possa dispiacere. Però Lampada aveva contro di sé non uno ma ben due peccati originali dai quali non poteva liberarsi facilmente: per un verso, il fatto di essere calabrese e, per di più, a Milano e, ancor per di più, di successo; per altro verso, il fatto di essere imparentato, per mezzo di un matrimonio del fratello, con altra famiglia calabrese nota agli inquirenti come appartenente alla ‘ndrangheta. Ebbene, dopo anni di benessere e di lavoro elargito anche agli altri che con lui collaboravano, Lampada viene inaspettatamente arrestato su richiesta della Procura milanese con l’accusa di essere non solo appartenente a una cosca mafiosa, ma perfino di esserne un capo, un organizzatore, finendo con l’essere coinvolto nelle vicende che hanno interessato il Giudice Giusti, morto suicida poche settimane or sono. Sul merito delle accuse, all’interno delle quali invano si cercherebbero le tracce di un reato – tranne uno, la corruzione di alcuni finanzieri, di cui peraltro egli stesso si è confessato colpevole quale concusso e non quale corruttore – si tornerà fra pochi giorni con più agio. Per ora, occorre evidenziare una vicenda processuale di contorno che però tanto di contorno non è, se si pensa che si riferisce alla sua libertà personale e visto che egli si trova in stato di custodia cautelare da circa quattro anni, protestando sempre la propria innocenza. Infatti, pur dopo numerose e qualificate consulenze disposte d’ufficio dal Tribunale che attestano la sua situazione soggettiva di incompatibilità con il carcere per ragioni gravi di salute di ordine psichico – vere patologie attestate senza ombra di dubbio – il Tribunale di Milano, in sede di riesame, ne ha escogitato una nuova ed inaspettata: disporre una nuova perizia di un altro medico, pochi giorni dopo che il perito d’ufficio nominato dal medesimo Tribunale aveva concluso per la necessità di concedere a Lampada, per oggettive ragioni di salute, gli arresti domiciliari. A mia memoria, una cosa del genere non è mai capitata. È certo successo che un Tribunale chiedesse un approfondimento, un chiarimento sull’esito della perizia, anche per cercare di comprendere meglio la situazione nella sua oggettività. Ma sempre allo stesso perito che abbia effettuato la perizia; mai è invece accaduto che dopo che il perito nominato dal Tribunale concluda nel senso della necessità di concedere la detenzione domiciliare, il Tribunale ne nomini un altro con il medesimo incarico già espletato dal precedente perito. Cosa il Tribunale si aspetta dal nuovo perito? Che forse pensa che possa dire qualcosa di diverso dal collega che l’ha preceduto? E se sì, perché? Ed in che senso? E perché allora non mette in preallarme un terzo perito che si tenga pronto, nel caso in cui decidesse di nominarne ancora un altro? Insomma, un enigma processuale, un rompicapo giudiziario inesplicabile quanto inaspettato che però mette molto in allarme chi abbia a cuore le ragioni del diritto e della giustizia. Infatti, se un Tribunale non si fida del perito da lui stesso nominato al punto da volerne verificare l’attendibilità attraverso la nomina di un altro perito, cosa si potrà salvare dell’operato di entrambi, cosa resterà della credibilità del processo?  E ancora? Che dire della legittimità di un tale operato? Cosa della imparzialità del Tribunale?  Domande tutte che esigono una risposta. Ciascuno dia la propria.

Il delitto di Ilaria Alpi. Parliamo di Giorgio Comerio.

Tutto è iniziato il 26 aprile 2015 con una email info@ ed il nome del suo sito web. “Buon giorno Dr. Antonio Giangrande. Ho letto alcune sue pubblicazioni ove ho trovato, ancora una volta, le false informazioni che mi riguardano. Gradirei che, da qualche parte, emergesse la semplice constatazione della seguente realtà investigativa: dopo 4 anni di indagini sul mio conto e su quello dei miei collaboratori, la magistratura ha potuto appurare, senza ombra di dubbio, che nei miei comportamenti non vi é stato mai alcun atto illecito o penalmente rilevante”.

Sig. Comerio – rispondo - mi dispiace essermi reso corresponsabile per la pubblicazione di notizie, a suo dire false, che riguardano la sua persona. Io non ho dolo diffamatorio nei suoi riguardi. Io mi limito a far diventare storia la cronaca di tutti i giorni. Proprio perché il tempo è galantuomo e non è ideologizzato, io sono sempre pronto a rettificare od integrare quanto da altri scritto e da me riportato. Nel suo caso mi sono limitato a citare gli articoli di “La Repubblica”, Rai 3, ecc. che a loro volta si avvalgono, come fonte, della relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta. In tal caso mi indichi cosa io devo aggiungere a sua difesa, lasciando a lei l’opportunità di dire la sua, sinteticamente, in aggiunta a quanto da me pubblicato, affinchè abbia più efficacia. Non tralasci numero e data del procedimento penale, con il nome del pm che ha chiesto l’archiviazione e il gup che l’ha confermata. O comunque altro atto giudiziario definitivo che la riguardi.

"Egregio Dr. Giangrande, grazie della sollecita risposta. La magistratura non ha mai ravvisato nessun atto penalmente rilevante e, di conseguenza, non si é mai avuto nessun procedimento nei miei riguardi oppure di qualsiasi dei miei collaboratori. Nel mio sito web trova ogni dettaglio, inclusa la copia del mio certificato penale. Non é quindi necessaria alcuna difesa non essendoci mai stata alcuna accusa. Piuttosto sarebbe interessante che Lei riuscisse a pubblicare gli atti relativi alle false e gravissime dichiarazioni del Dott. N. e del Maresciallo S.. Dichiarazioni rilasciate alla commissione di inchiesta ed alla stampa solo per crearsi pubblicità personale. Oppure come mai documenti archiviati presso il tribunale di Reggio Calabria siano stati rubati da ignote mani e poi, giunti misteriosamente  nella redazione di “Repubblica”, non siano stati resi al legittimo proprietario (il Tribunale di Reggio) al fine di arrestare i ladri, ma pubblicati con commenti artatamente falsificati per creare dubbi e discredito. Un cordiale saluto".

Sono andato se suo sito  web ed ho letto: Busto Arsizio - Varese - 3 Febbraio 1945 - Lavora e vive ovunque sia necessario. E quindi ormai é necessario che ognuno di noi si organizzi le sue difese mediatiche. Sul web non esiste un elenco dei cittadini assolti, oppure di quelli semplicemente indagati e che si sono dimostrati innocenti. Giornalisti alla sola ricerca dello scoop considerano un indagato poco più di un fantasma al quale non dare ascolto. E poi di solito, già che ci sono, lo condannano in partenza. La presunzione di innocenza non esiste né sulla stampa e neppure sul web. Sul mio conto é facile trovare illazioni senza alcun fondamento, notizie riportate e modificate, informazioni del tutto inventate. Dopo anni di indagini condotte da diverse procure non é stato trovato alcun atto penalmente rilevante nel mio comportamento in tutta la mia vita ed in quella dei miei collaboratori tecnici. Per questo motivo potete scaricare il mio certificato "carichi pendenti" che conferma l'assenza di ogni e qualsiasi procedimento in corso - Agosto 2013 - Sul web troverete anche diversi file artatamente modificati e video-montaggi realizzati da G. "Tino" S., un truffatore abituale attualmente sotto processo in Tunisia per gravi minacce.

La macchina del fango si realizza con la correlazione fra due fatti (o quasi fatti) del tutto scollegati fra di loro. Viene realizzata da giornalisti senza nessuna professionalità, veri e propri " faccendieri" della disinformazione. La notizia di partenza é spesso attribuita a "pentiti" ( conclamati delinquenti a caccia di uno sconto di pena ) oppure a "informazioni dalla procura di responsabili che desiderano restare dell'anonimato". Ovvero gli stessi giornalisti cialtroni e spocchiosi buffoni che si inventano gli informatori anonimi. Esempio: Trovata sulla nave "Jolly Rosso" una carta nautica "ODM" con segnate la posizioni delle navi affondate. Da chi: dal Comandante Natale de Grazia morto il 12 Dicembre 1995. Le informazioni manipolate: Ma la società ODM é nata.. due anni dopo. E via di seguito. Cartina, ovviamente sparita dagli atti ma disponibile, in file .pdf, da "il Manifesto". Inviatami, con esemplare correttezza, da Andrea Palladino. Miracoli dell'elettronica. Visto che la cartina, in realtà, nessuno l'ha mai vista. Che esista solo come file .pdf? Ma quando è che andrà in galera chi la guida, questa "macchina del fango"?

1 - Carta in bianco e nero dell'ammiragliato inglese (diciture in inglese e non in Italiano);

2 - Carta molto datata: tutte le carte nautiche utilizzate, anni dopo, dall'ODM erano a colori e non in bianco e nero;

3 - Profondità in Pathom (braccia inglesi) e non in metri;

4 - Altezze in feet e non in metri;

5 - La calligrafia che ha scritto sul lato sinistro " CARTINA ODM" in stampatello sembra essere la stessa che ha scritto il nome delle navi ipoteticamente affondate nelle aree indicate. Comerio non avrebbe certo avuto la necessità di scrivere, su una sua carta, "cartina ODM" ... oltre che piuttosto illogico segnare comunque delle aree e tenere a bordo della Jolly Rosso la carta stessa...Piuttosto potrebbe essere la stessa calligrafia del De Grazia.. o di altri.. Sono elencati i nomi e descritti i fatti che hanno dato modo al procuratore Francesco Neri, a seguito di una denuncia del dott. Ferrigno di Greenpeace, di avviare una colossale inchiesta che mi ha coinvolto pesantemente rovinando un decennio della mia vita. Basta leggere con attenzione i documenti della Commissione Bicamerale.

Eppure la Stampa di sinistra ha una certa idea del personaggio.

Comerio, l’ingegnere dei rifiuti e il certificato di morte di Ilaria Alpi, scrive Antonella Beccaria. Nato nel 1945 a Busto Arsizio, in provincia di Varese, su Giorgio Comerio, ingegnere e imprenditore di professione, alcune informazioni le forniscono i carabinieri che hanno a lungo indagato su di lui. E queste informazioni raccontano che «è persona di intelligenza spiccata, sicuramente massone, appartenente ai servizi segreti argentini e legato ai più grossi finanzieri mondiali, e in particolare europei [...]. Sarebbe stato espulso dal Principato di Monaco il 24 marzo 1983 e avrebbe avuto problemi con la giustizia belga per truffa e altro [oltre a essere stato] arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri». Di lui, però, si parlerà molto poco fino a un certo punto: progetterà e promuoverà sistemi per lo smaltimento di rifiuti in mare aperto nel sostanziale anonimato, al di fuori del circuito degli addetti ai lavori. Il suo nome però finisce sulle pagine dei giornali nel 1995 (e vi rimarrà fino a oggi), quando un pubblico ministero di Reggio Calabria, Francesco Neri (oggi sostituto procuratore generale), dispone una perquisizione a San Bovio di Garlasco, in provincia di Pavia, a casa di Comerio. Qui viene trovata un’agenda del 1987 che, nel giorno dell’affondamento della Rigel, una delle navi dei veleni, riporta un’annotazione, “lost ship” (“nave perduta”, anche se l’ingegnere sosterrà che si deve leggere come “nave affondata”). Inoltre furono rinvenute anche due cartellette. In una di esse, su cui era stata scritta la parola “Somalia”, ci sarebbe stato il certificato di morte di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa insieme al suo operatore, Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Il clamore del ritrovamento fu notevole e fu letto come una conferma della pista su cui l’inviata della Rai stava indagando: smaltimento illegale di rifiuti nel Corno d’Africa. E a far pensare che l’ingegnere lombardo fosse coinvolto nei traffici di scorie (non solo in Somalia) ci sarebbero stati altri documenti, tra cui alcune mappe, oltre l’agenda che ricordava l’affondamento della Rigel. Giorgio Comerio, a fine 2009, ha diffuso un memoriale per dare la sua versione a proposito delle ipotesi investigative che in questi anni lo hanno chiamato in causa. Secondo lui sono “fantasie” dei pubblici ministeri e, come riportato da Repubblica l’8 dicembre scorso, «l’unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera». Mai avuto a che fare, insomma, con alcun traffico illecito e, anzi, parlando di sé alla terza persona singolare, aggiunge ancora: «Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e [...] alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All’epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano [...]. La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell’ambiente e mai contro». Eppure, quella legge – che scrive con l’iniziale maiuscola – di lui racconta un’altra storia. Seguendo il percorso intrapreso dal pubblico ministero Neri, questa storia inizia a Ispra, sul lago Maggiore, al Ccr, il Centro Comune di Ricerca. Che dal 1977 al 1988 riceve supporto da dodici nazioni – Italia, Francia, Stati Uniti, Belgio, Canada, Australia, Giappone, Inghilterra, Svezia, Germania Ovest, Olanda e Svizzera – per cimentarsi con una serie di piani, tra cui uno chiamato Dodos, altro acronimo che sta per Deep Ocean Data Operating. Per usare una terminologia meno scientifica ma più esplicita, l’obiettivo era «lo stoccaggio di scorie radioattive in ambiente naturale terrestre o marino». A pronunciare queste parole fu il responsabile del Ccr, Charles Nicholas Murray, quando nel 1995 raccontò alla magistratura la sostanza della storia: si intendeva ricorrere a missili penetratori dentro cui venivano stipati i rifiuti da infossare nei fondali marini. In questo progetto, il ruolo di Comerio sarebbe stato nello specifico quello di progettare una boa che consentisse di controllare i siluri via satellite. Ma poi non se ne fa più nulla perché – ufficialmente – sarebbero emerse varie difficoltà, tra cui un ipotetico rischio di attentati terroristici. Solo che a un certo punto, dal centro di Ispra, scomparve un componente elettronico della boa e gli inquirenti di Reggio Calabria sospettarono che dietro a quella sparizione ci fosse l’imprenditore di Garlasco. Inoltre, secondo la loro ricostruzione, sarebbe stato coinvolto anche lo stesso Murray. Per quanto nel suo memoriale Comerio sostenga che tutti i test siano stati fatti in pieno oceano, sempre a Reggio Calabria sono custoditi i video – resi pubblici dell’Espresso nel 2008 – che sembrano dimostrare che qualche esperimento sia stato condotto anche nel Mar Ligure, almeno per quanto riguarda la boa. Anche se poi – secondo un’informativa dei carabinieri datata 1995 – i missili sarebbero stati lanciati in mare non per provare la tecnologia, ma per vere e proprie attività di smaltimento in quarantacinque nazioni che comprendono, tra gli altri Paesi, Iraq, Egitto, ex Jugoslavia, Kenya, Sudan, Sierra Leone, America centrale e l’arcipelago delle Filippine. Fin qua arriviamo all’inizio degli anni Novanta. Il pezzo successivo della storia – una storia complicatissima, fatta di intercettazioni, testimoni, ritrattazioni e accuse incrociate – racconta di una trattativa giunta a compimento nel settembre 1994, sei mesi dopo l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, tra la Odm [Oceanic Disposal Management, società fondata da Giorgio Comerio] e Ali Mahdi, il presidente ad interim somalo imparentato per via della cugina, Fatima, moglie di Giancarlo Marocchino, di cui si è parlato in un precedente pezzo. Ali Mahdi però smentisce l’esistenza della trattativa e se la prende con il pubblico ministero Neri, che viene querelato (ma la faccenda finirà per essere archiviata). A proposito però del presunto accordo, scrive ancora L’Espresso nel 2005, prendendo come fonte sempre un’informativa dell’Arma: «Le condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia [parlano] di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno. Il Comerio”, continuano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte [di] Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera” [...]. Un accordo verso cui [...] Ali Mahdi mostra grande attenzione, come dimostra il fax in lingua inglese che il 17 giugno 1994 invia su carta intestata della Repubblica somala al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. All’interno, spiegano i carabinieri, “il presidente gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Da quel momento, si legge nell’informativa, partirà un lavorìo di fax e incontri, proposte e iniziative. Fino all’accordo conclusivo e il passaggio alla fase due: quella operativa». Mentre oggi si prospetta la possibilità che il caso Alpi-Hrovatin venga riaperto dopo il rifiuto di archiviare l’indagine a carico Ali Rage Ahmed, soprannominato “Gelle”, il principale accusatore dell’unico condannato per il duplice delitto di Mogadisco perché ritenuto non più affidabile, ci sono altri fatti poco rassicuranti che emergono in questa vicenda. Oltre ai documenti (compreso il certificato della morte della giornalista rinvenuto a casa di Comerio) trasmessi dalla procura di Reggio Calabria a quella di Roma e mai arrivati – gli stessi documenti che la commissione Taormina non ha trovato -, le vicende degli smaltimenti illegali e delle navi dei veleni hanno compreso vicende come l’episodio del 3 giugno 2008 raccontato a Riccardo Bocca da Lorenzo Gatto, l’avvocato di Francesco Neri, ai tempi della querela di Ali Mahdi contro il magistrato calabrese. «Sono andato in Procura a Reggio per cercare ancora il certificato di Alpi e ho notato un’altra anomalia: lo scatolone numero nove, quello che contiene il primo e il secondo volume di informazioni del Sismi, era aperto sul lato destro. L’ho segnalato al pm di turno e al cancelliere capo, i quali hanno riconosciuto che era staccato l’adesivo. Il cancelliere capo, allora, mi ha invitato a verificare se riuscissi a sfilare documenti, e l’ho fatto senza difficoltà: ho estratto sei fogli, chiedendo che la questione venisse messa a verbale». Ma ci sono anche altre vittime che vanno ricordate. Tra queste, c’è la morte di Natale De Grazia, il capitano di corvetta che faceva parte del pool calabrese che indagava sui rifiuti, morto il 12 dicembre 1995 senza che si capisse esattamente cosa gli accadde. Arresto cardiaco, disse l’autopsia, ma la moglie dell’ufficiale, stroncato mentre andava a La Spezia per alcuni accertamenti, fin dall’inizio si batté facendo rilevare tutte le incongruenze intorno al decesso di suo marito. Poi però giunse l’archiviazione delle indagini sui presunti stoccaggi abusivi e la trasmissione – per errore – di alcuni fascicoli alla procura di Lamezia Terme, dove le carte giudiziarie stanziarono per tre anni senza ragione. Dal palazzo di giustizia di Paola, un anno fa, si è ripartiti, pur concentrandosi soprattutto sullo spiaggiamento della motonave Rosso (ex Jolly Rosso), arenatasi sulla spiaggia di Formiciche, nei pressi di Amantea, in provincia di Cosenza. Ma il quadro che si va ricostruendo, pur con una focale differente, riporta in auge quando già emerso nelle inchieste precedenti, sia a livelli di nomi che di fatti. Non a caso dunque sembra giungere una notizia: Francesco Neri – è stato annunciato il mese scorso-– l’estate prossima riceverà il premio CalabriAmbiente perché – ha dichiarato Beatrice Barillaro, presidentessa del Wwf Calabria – si vuole tributare «un riconoscimento doveroso per chi, come Neri, si batte quotidianamente e a rischio della propria incolumità per affermare le ragioni della legalità e della difesa dell’ambiente e della salute dei cittadini». Una notizia che giunge proprio mentre la prima commissione del Csm ha deciso di procedere contro il magistrato per “incompatibilità ambientale” chiedendone il trasferimento d’ufficio.

Navi dei veleni, atti desecretati: da traffico di scorie a costruzione di gommoni per i migranti: ecco chi è Giorgio Comerio, scrive invece Andrea Tornago su “Il Fatto Quotidiano”. L’uomo che la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Gaetano Pecorella ha cercato a lungo, ora è in Tunisia. E se negli anni '90 si occupava di “inabissamento in mare di rifiuti radioattivi”, il suo nome torna, dieci anni dopo, legato alla fornitura di imbarcazioni destinate all'immigrazione clandestina dal Nord Africa. Negli anni ’90 progettava di affondare le scorie radioattive sui fondali marini. Ora è in Tunisia, dov’è fuggito dopo una condanna passata in giudicato per tentata estorsione. Si fa chiamare De Angeli. E il servizio segreto rivela, nei documenti desecretati sui traffici di rifiuti, quale sarebbe la sua reale attività nel paese nordafricano. Giorgio Comerio è la figura chiave di tanti misteri sui traffici di armi e veleni. L’uomo che la Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella ha cercato a lungo, fino a progettare una missione in Tunisia, annullata poi per problemi di sicurezza. Finora della sua nuova vita si sapeva poco: solo la zona in cui operava, quella di Bizerte, nel nord del Paese, e i suoi interessi nella società Avionav, che produrrebbe velivoli leggeri. Ma una nota dell’Aisi, ex Sisde (il servizio segreto civile) declassificata dal 23 maggio, riferisce di averlo trovato impegnato in ben altre occupazioni: contatti con trafficanti di armi, stupefacenti, e di migranti verso l’Europa. Comerio sarebbe amministratore della ditta Cnt – Costructions navales tunisiennes e disporrebbe “di un cantiere per la costruzione di barche e gommoni nella località mineraria di Zaribah”. “Nel corso di attività informativa diretta nei confronti di un’organizzazione criminale transnazionale – scrive l’intelligence italiana nel maggio del 2010 – volta a verificare il coinvolgimento di cittadini italiani nella fornitura di imbarcazioni destinate all’immigrazione clandestina dal Nord Africa, è emerso il ruolo di rilievo di un cittadino italiano residente in Tunisia successivamente identificato in Comerio Giorgio, il quale sarebbe stato coinvolto anche in un presunto traffico di stupefacenti e armi”. Le informazioni si riferiscono al periodo tra gennaio 2007 e aprile 2008 e sarebbero state già allora “riferite alla polizia di Stato e al comando generale dell’arma dei Carabinieri”. Comerio, però, è risultato sempre “irreperibile” tanto che nel gennaio 2012 il giudice dell’esecuzione del tribunale di Bolzano è stato costretto a dichiarare estinta la pena a 4 anni di reclusione – ridotta a un anno dall’indulto – per decorso del tempo. La difficoltà della autorità italiane nel catturare Comerio appare però singolare alla luce dei contatti da lui avuti con i servizi segreti. Rapporti che sono sempre stati negati dai vertici delle agenzie, ma che emergono nei documenti declassificati. Almeno due incontri ravvicinati tra Comerio e l’intelligence militare hanno contorni poco chiari. Il direttore del Sismi, nel 2005, riferiva alla Commissione Alpi-Hrovatin: “Su iniziativa promossa dal II reparto della guardia di finanza, il predetto Comerio è stato attenzionato nel mese di luglio 2001 dalla scrivente Divisione, risultando tuttavia assolutamente inadeguato a divenire fonte, o a qualsiasi titolo collaboratore, della Divisione stessa”. Un interessamento che aveva suscitato la curiosità del presidente della Commissione d’inchiesta sui rifiuti, Gaetano Pecorella, che nel 2011 ne aveva chiesto ragione al direttore del servizio. Ma i rapporti dell’imprenditore di Busto Arsizio con il Sismi sono anche più antichi. Comerio, considerato dal Sisde in un appunto del 2003 “sedicente appartenente ai servizi segreti, noto faccendiere italiano presumibilmente legato alla vicenda delle cosiddette “navi a perdere” e al centro di una serie di vicende legate alla Somalia”, è stato in contatto fin dalla fine degli anni ’80 con una fonte della Prima divisione del servizio militare, che all’epoca aveva rapporti di lavoro con Comerio. Comerio e la Oceanic disposal management (Odm), una delle sue società, sono stati al centro delle indagini del nucleo investigativo del corpo forestale dello Stato nel ’95 sull’affondamento delle “navi a perdere” nel Mediterraneo. I contatti della Odm, che si occupava di “inabissamento in mare di rifiuti radioattivi”, arrivavano fino ai Paesi dell’Est Europa. Secondo una nota desecretata del Sismi, inviata alla Ottava divisione nel febbraio del ’95, i titolari dell’azienda sarebbero stati “in procinto di andare a Mosca per sottoscrivere un contratto con i russi, i quali sono molto interessati all’eliminazione clandestina delle scorie radioattive”. Il nome di Comerio emerge anche in relazione all’affondameto di navi considerate coinvolte in traffico di materiale bellico e radioattivo (anche se l’inchiesta è stata archiviata): la motonave Rigel, affondata il 21 settembre 1987 al largo delle coste calabresi (sull’agenda di Comerio di quell’anno, sequestrato nel maggio ’95 dal gruppo di investigatori di cui faceva parte il capitano Natale De Grazia, venne trovato l’appunto “Lost the Ship” – “Persa la nave”) e la motonave Rosso spiaggiata ad Amantea nel dicembre del ’90, su cui si concentra, in molti dei documenti desecretati, l’interesse dei servizi.

20 marzo 1994: come muore una giornalista italiana. Senza perché, continua Gianni Cirone. Il presidente della Commissione parlamentare, l’avvocato Carlo Taormina, ora privilegia la tesi dell’assassinio eseguito da terroristi islamici. L’indagine viene così dirottata dalla pista del traffico illegale di residui radioattivi. Fu uccisa il 20 marzo 1994, a Mogadiscio. Con lei perse la vita anche l’operatore, Miran Hrovatin. Il suo nome era Ilaria Alpi, inviata per il Tg3 in Somalia. Da allora, molti altri giornalisti sono stati eliminati, rapiti, soppressi in zone di guerra o, come si dice oggi, in aree soggette a “missioni di pace”. Troppi nomi, tanti. Una tendenza che andata consolidandosi nell’ultimo decennio. Ormai una consuetudine che deve far riflettere. Nel caso di Ilaria Alpi, però, ciò che colpisce è l’ingannevole quadro che per anni si è andato ricomponendo intorno alla sua morte. Uno scenario tuttora in movimento, a ben 11 anni di distanza dall’evento. Ricostruire la vicenda, adesso, significa rivolgere l’attenzione verso una così ampia mole di documentazione che appare improbo riproporre in questa sede: una Commissione parlamentare di inchiesta è stata costituita per fare luce sui mandanti dell’agguato. Al tempo stesso, comunque, il filo della matassa può essere ripreso da recenti articoli, pubblicati su alcuni settimanali, prova del fatto che il “caso Alpi” resta all’ordine del giorno soprattutto grazie al lavoro di altri giornalisti. In questo senso, è prezioso il contributo che Riccardo Bocca ha sostanziato con un’inchiesta corposa su l’Espresso. Nello scorso mese di gennaio, alcuni suoi articoli danno un colpo al già traballante dispositivo, di silenzio e omissioni, scattato immediatamente dopo l’esecuzione della giornalista e del suo operatore. Cosa indica, in sé, questo scossone? Un accostamento, anzi un nesso, ed è interessante ripercorrerlo riga per riga. Il nesso dovrebbe unire le indagini sull’omicidio dei due giornalisti del Tg3 alle indagini svolte su un ingegnere italiano, Giorgio Comerio. Secondo attività investigativa, questo professionista sarebbe stato al centro di un vasto traffico di rifiuti radioattivi, con altri faccendieri, malavitosi, trafficanti d’armi. La vicenda proviene da Reggio Calabria ma, incredibilmente, sembra coinvolgere numerosi governi, europei e non, con l’ausilio di apparati dello Stato obbedienti a logiche estranee alle istituzioni. E’ stata la Procura di Reggio Calabria a indagare su tale intreccio, negli anni ’90, e l’archiviazione ha rappresentato l’esito conclusivo delle indagini. I magistrati volevano dimostrare che numerose navi, caricate di scorie radioattive, venivano fatte affondare volutamente in mare. I rifiuti speciali erano trasportati dall’Europa all’Africa. In più, si usufruiva del Odm (Oceanic disposal management), un sistema che utilizzava siluri carichi di scorie da far perdere nei fondali. Al termine dell’inchiesta nessuna incriminazione ma, nelle informative riservate della Procura di Reggio Calabria, il segno dello stretto nesso coi fatti somali. Ebbene, non appena è riemersa la portata della suddetta inchiesta, la Commissione parlamentare d’inchiesta viene scossa. Improvvisamente, e con un precisione madornale, sono apparse da nulla foto satellitari che mostrerebbero lo scenario dell’agguato. Immagini che giungono, solo adesso, dalla profondità di quel 1994. Ma c’è di più e Domenico D’Amati, avvocato della famiglia Alpi, dice la sua: “Fornire falsi indizi su soggetti sospetti, per screditare l’indagine o inventarsi nuove piste per allungare i tempi. La riprova che gli interessi in ballo sono enormi, e ancora oggi c’è chi teme che vengano svelati”. Ma è possibile ritenere la pista calabrese lo snodo della morte di Ilaria Alpi? Settembre 1999. Francesco Gangemi, per poche settimane sindaco di Reggio Calabria nel 1992, cugino dell’omonimo Francesco condannato a 10 anni per camorra, direttore del mensile calabrese Il dibattito, mensile attualmente sequestrato con conseguente arresto del direttore, accusato di pressioni su magistrati dell’Antimafia di Reggio Calabria per conto di una lobby di potere che voleva influenzare inchieste su politici e mafiosi locali. Sei anni fa questa rivista pubblica un’inchiesta a puntate, intitolata “Chi ha ucciso Ilaria Alpi?”. La premessa è di Gangemi, che scrive: “Fin dai primi passi di questa mia lunga strada, che immagino irta di ostacoli e contraccolpi, voglio informare i nostri lettori e le autorità che eventuali rappresaglie che dovessi subire non sarebbero certo riconducibili alla ’ndrangheta o ad altre organizzazioni criminali, ma ai servizi segreti deviati e assoggettati a taluni magistrati inadempienti ai loro doveri d’ufficio e al governo, che rimane il fulcro delle operazioni sporche che stanno inginocchiando l’umanità intera a fronte di vantaggi di varia natura”. In realtà Gangemi pubblica non pochi documenti segreti dell’inchiesta reggina: notizie, rivelazioni, illeciti, che indicano il sistema occulto volto allo smaltimento delle scorie nucleari, e ancora indizi sull’intera vicenda Alpi. Si vedano le dichiarazioni, del luglio 1995, del teste denominato Alfa-Alfa (Aldo Anghessa, ndr) che al sostituto procuratore di Reggio Calabria, Francesco Neri, e al capitano di corvetta, Natale De Grazia, consulente deceduto dopo in circostanze sospette, dice: “A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e (...) materiali strategici nucleari (…). Si ha certezza che lo smaltimento può avvenire con tre distinte modalità: l’interramento in località del sud Italia in vecchie cave o di scariche, l’affondamento di navi normalmente in zone extraterritoriali o lo smaltimento presso paesi del Terzo mondo come (...) il Libano, la Somalia fino al 1992, la Nigeria e il Sahara ex spagnolo (...)”. In merito ai traffici, secondo Anghessa, “sono sicuramente gestiti a livello di vertice da soggetti iscritti a logge massoniche italiane ed estere (…). E’ opportuno far rilevare (…) che nell’occasione del sequestro di 29,5 chili di uranio effettuato a Zurigo furono fermati dalla polizia elvetica otto individui tra i quali due italiani. Uno di questi è Pietro Tanca, il quale ha affermato: ‘Io sono qui non per ritirare denaro (se ricordo bene 18 milioni di dollari), ma per verificare l’esistenza del denaro di competenza della parte politica italiana che copre l’operazione’. I nostri tentativi per capire quale fosse la parte politica cui si riferiva sono stati vani, anche per la proterva azione della Polizia elvetica, che anziché collaborare ha scientificamente ostacolato le indagini”. Su Tanca, Anghessa aggiunge che “appena rilasciato dalla Polizia elvetica e rientrato in Italia è stato arrestato su ordine di custodia cautelare emesso dal gip Felice Casson”. Chi è Aldo Anghessa? E’ personaggio discusso. Ammette di essere protagonista di azioni di intelligence e, in quel momento, agli arresti domiciliari, è indagato per traffico di armi e materiale nucleare. Anghessa dà nomi, particolari, indirizzi, e fa balenare l’operatività di una rete di coperture istituzionali a livello internazionale. A riguardo cita Guido Garelli, arrestato in un’inchiesta sui traffici nocivi, spesso citato nell’inchiesta Alpi. Garelli, per Anghessa è “riconducibile a un organo di informazione dello Stato (…) era uso chiamare numeri telefonici di basi militari italiane e aveva pass Nato per entrare e uscire in basi militari italiane”. Secondo Alfa-Alfa, ci sarebbe poi Elio Sacchetto, “tessera P2, arrestato nel 1988 assieme al Garelli”, e dunque Giorgio Comerio, titolare del sistema di affondamento delle scorie con missili, ma anche protagonista di indagini delicate come quella sul naufragio della nave Rigel o sullo spiaggiamento della motonave Rosso, dove la Capitaneria di porto trova copia del suo progetto Odm. Sul mensile che dirige, il profilo di Comerio viene così presentato da Gangemi: “La Procura di Reggio Calabria ha accertato l’esistenza di un brutto affare collegato allo scarico dei rifiuti in Somalia, proprio dove la giornalista Ilaria Alpi si era recata per cercare la verità che altri hanno insabbiato, uccidendola per la seconda volta. La ‘cosa’ girava sotto gli occhi consapevoli del governo somalo allora in carica, e a farla girare ci pensava il faccendiere Giorgio Comerio, considerato nell’ambiente della raffinata criminalità collegata ai servizi segreti e ai governi europei, e non solo europei, la mente eccelsa a disposizione dei primi ministri che avessero avuto interessi particolari nel traffico illecito a livello interplanetario”. Affermazioni molto pesanti, anche se l’analisi che emerge dai carabinieri di Reggio Calabria non è certo una passeggiata. Secondo l’Arma “Comerio è al centro (...) di un’organizzazione mondiale dedita allo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi nell’ambito di uno scenario inquietante, ove si muovono soggetti senza scrupoli, compresi uomini di governo di tutte le latitudini che pur di trarne vantaggi economici non stanno esitando a mettere in pericolo l’incolumità dell’intera popolazione mondiale”. “Nella sua abitazione – affermano gli investigatori – è stata sequestrata una cartella gialla, tra le altre, contraddistinta dal numero 31 ed intestata alla ‘Somalia’. All’interno vi era custodita documentazione inerente al progetto Odm relativo ai siti marini somali. In particolare le cartine indicano due ampie zone di mare, di cui una a nord e l’altra al centro della suddetta nazione. La prima zona è indicata con sei punti di affondamento” il primo dei quali è situato “leggermente a sud rispetto allo specchio d’acqua antistante la città di Tohin”. Rilevamento chiave, che si somma alle dichiarazioni, del novembre scorso, da parte del maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, davanti la Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti: “Comerio era l’unico a inabissare lì rifiuti radioattivi”. Esiste agli atti un fax di un membro dell’Autorità del servizio mondiale per i diritti umani di Bosso, Ali Islam Haji Yusuf, che si rivolge al dipartimento del nord-est somalo dell’Onu denunciando che “al largo della città di Tohin, del distretto di Alula, nella regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando un’operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei container dal contenuto sconosciuto”. Per i carabinieri, questo lavoro “stava creando tensione fra la popolazione locale, che è ostile al seppellimento in mare di rifiuti tossici e radioattivi”. Da qui la richiesta di aiuto di Haji Yusuf, richiesta di cui sono rimasti sconosciuti gli sviluppi. Per l’Arma, però, è sicuro che il primo sito di affondamento indicato nella mappa di Comerio è “in prossimità della zona segnalata lo scorso novembre da Haji Yusuf (...). Evidentemente, Comerio è già operativo in dette acque. (…) Non deve meravigliare il fatto che al posto dei penetratori il Comerio stia utilizzando le trivelle, in quanto quest’ultima soluzione è stata sempre l’alternativa alla prima nell’ambito del progetto Odm”. A casa di Comerio i magistrati trovano una cartella targata ‘Somalia’: comunicazioni fra il possessore e le autorità somale. Tra queste, una lettera inviata al mediatore Pietro Pagliariccio, alias Giampiero, in cui, su carta intestata dell’Odm, Comerio “lo informa – affermano gli inquirenti – che la sua società è disponibile a pagare 10 mila marchi tedeschi ad ogni lancio (di missili-penetratori, ndr) quale importo extra” rispetto “alle condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia, che è di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno”. Comerio, affermano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte del presidente ad interim Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera”. L’accordo c’è. Un accordo a cui tiene molto il presidente ad interim, Ali Mahdi che il 17 giugno 1994 invia un fax, in lingua inglese e su carta intestata della Repubblica somala, al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. “Il presidente – dicono i carabinieri – gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Dall’accordo si deve passare solo alla fase operativa. Ilaria Alpi si era avvicinata a tutto questo? Se non del tutto vero, estremamente verosimile. Come ricorda Gangemi, riferendosi agli atti della magistratura di Reggio Calabria, “il fascicolo 18 con gli atti relativi alla Somalia contiene pure il certificato di morte della Alpi”. Inoltre, Fadouma Mohamed Mamud, figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio, il 16 giugno del ’99 dichiara a verbale: “Ilaria mi aveva dichiarato che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa (...) di cui non dovevo parlare con nessuno (...). Si interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste della Somalia, che venivano scaricate sulle nostre coste, sul mare dei rifiuti tossici”. Inutile ricordare, a questo punto, che del materiale della giornalista del Tg3 è rimasto solo la parte meno interessante. Spariscono gli appunti (mancano ben tre block notes), spariscono fogli contenenti numeri telefonici. Cosa accade nella Commissione parlamentare d’indagine a seguito di tali rivelazioni? La deposizione del pm Neri “smentisce nettamente ipotesi di collegamento fra inchiesta su traffico di rifiuti e omicidio della giornalista”. Accade questo. Accade cioè che, in una nota, Enzo Fragalà, membro della Commissione, smentisce seccamente il nesso. “La commissione – afferma Fragalà – non consentirà ad alcuno di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità con teoremi astrusi. Ai colleghi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sta sicuramente a cuore la ricerca della verità sull’omicidio dei due colleghi. La deposizione del pm della Procura di Palmi, dottor Francesco Neri, ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, fa definitivamente chiarezza sui tentativi di depistaggio attuati nei confronti della Commissione stessa e smentisce, oltre ogni ragionevole dubbio, l’ipotesi avanzata attraverso alcune inchieste giornalistiche, non supportate da prove, su presunte relazioni fra l’omicidio della giornalista del Tg3 e l’inchiesta, condotta a Palmi, sul traffico di rifiuti. Le nette parole del pm Neri a questo proposito debbono essere di monito a chi pensa di poter condizionare il lavoro della Commissione parlamentare utilizzandolo per fini propri o per supportare astrusi teoremi preconcetti. La Commissione andrà avanti, come sempre senza perdere di vista l’obiettivo finale che è quello di far luce sull’omicidio dei due operatori dell’informazione e non permetterà a chicchessia di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità”. Dunque, tutto falso. Falso quanto scritto da Riccardo Bocca su l’Espresso, e qui in parte riportato, falso quanto sostenuto dall’inchiesta della procura calabrese nelle sue parti di congiunzione con il nome di Ilaria Alpi. Avverranno altre cose. Ad esempio la perquisizione subita da alcuni giornalisti, tra cui Maurizio Torrealta, collega del Tg3 di Ilaria Alpi, stabilita nell’ambito di accertamenti dalla Commissione parlamentare. Anche qui, il membro Fragalà ricorda, a chi ha protestato per l’iniziativa, che “assolutamente ineccepibili” sono da ritenere metodo e merito delle perquisizioni, decise “unanimemente” dall’ufficio di presidenza della Commissione. E mentre si parla di innumerevoli tentativi di depistaggio, si è in attesa di conoscere dove porterà la “al qaedizzazione” dell’omicidio di Ilaria Alpi e del suo operatore. Il presidente della Commissione, Carlo Taormina, sente di aver fiutato un’ottima pista. Per adesso, dunque, non resta che ricordare quel 20 marzo 1994. Colpi a bruciapelo sulle teste pensanti dei due reporter. I loro corpi flosci come sacchi, in fondo ad un vano bagagli di un auto privata che, in un attimo, li conduce via da quel loro ultimo luogo terreno. Senza perché.

Omicidio Alpi-Hrovatin: Giorgio Comerio, baluardo sulla strada della verità, scrive Claudio Cordova su “Strill”– Gaetano Pecorella è, almeno a parole, chiarissimo e assai deciso: “Per capire se la morte della giornalista Ilaria Alpi sia collegabile ai traffici di rifiuti radioattivi bisogna trovare e ascoltare Giorgio Comerio”. Pecorella, presidente della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei rifiuti, ha, negli scorsi giorni, annunciato il proposito dell’organismo bicamerale di riaprire le indagini sulla morte della giornalista della Rai, giustiziata a Mogadiscio, in Somalia, il 20 marzo del 1994, insieme al proprio operatore, Miran Hrovatin. Questo il primo lancio dell’agenzia Ansa, del 20 marzo 1994: “La giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo operatore, del quale non si conosce ancora il nome, sono stati uccisi oggi pomeriggio a Mogadiscio nord in circostanze non ancora chiarite. Lo ha reso noto Giancarlo Marocchino, un autotrasportatore italiano che vive a Mogadiscio da dieci anni”. Un agguato condotto da sette sicari. Da lì a pochi giorni Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarebbero tornati in Italia, dato che proprio in quel periodo era previsto il rientro in Patria del contingente italiano impegnato nella missione di pace “Restore Hope” in Somalia, costata al Paese 1400 miliardi di lire. Ilaria Alpi è inviata in Somalia, per conto del Tg3, come corrispondente di guerra. Ma non si limita al “compitino”, a registrare, pedissequamente, i bollettini del comando militare, ma si mette a indagare su presunti traffici di armi e, soprattutto, di scorie radioattive. Ascolta le testimonianze della gente, visita i luoghi sospetti, si avvicina anche ai tanti signori della guerra che, in quegli anni, ma non solo, regnano in Somalia. Fa la giornalista. Da anni vi è il sospetto che il movente dell’esecuzione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sia stato proprio quanto i due reporter avrebbero scoperto in Africa. Sospetti alimentati, nel tempo, nonostante una verità giudiziaria che ha condannato, in via definitiva, un unico uomo, somalo, ritenuto uno dei componenti del commando, che sarebbe stato composto da circa sette uomini. Nessuna verità, nessuna specificazione sulle ragioni che avrebbero portato alla morte dei due reporter del Tg3. Verità (assai presunte) e specificazioni (assai labili) che arrivano, invece, da una Commissione, istituita proprio per far luce sul duplice omicidio, presieduta, negli scorsi anni, dall’avvocato Carlo Taormina, a quel tempo deputato di Forza Italia. La Commissione sul duplice delitto Alpi-Hrovatin arriverà alla conclusione che i reporter sarebbero stati uccisi per errore nel corso di un tentativo di sequestro finito male. Resta più di qualche dubbio sulla relazione finale del presidente Carlo Taormina: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, una donna e un uomo, sono due giornalisti, sono disarmati, vengono assaliti da un commando composto da numerosi uomini armati fino ai denti. Insomma, qualora il vero obiettivo del gruppo di fuoco fosse stato rapire i due giornalisti, non avrebbero fatto fatica ad avere la meglio. Ilaria Alpi, per giunta, viene uccisa con un colpo d’arma da fuoco alla testa: una modalità che lascerebbe presagire una vera e propria esecuzione. Alcuni deputati di minoranza, tra cui Raffaello De Brasi, Rosi Bindi, Deiana Elettra e Carmen Motta lanciarono contro Taormina un vero e proprio atto d’accusa. Secondo i parlamentari, Taormina avrebbe fatto un uso personale e politico della Commissione, strumentalizzando il lavoro finale per dare addosso alla sinistra, poco prima delle elezioni politiche, addossandole la colpa di un complotto contro la verità. Il padre di Ilaria Alpi, Giorgio, morirà nell’estate del 2010. Senza conoscere, probabilmente, la verità sulla morte della figlia. Oggi, invece, a distanza di ben diciassette anni, un altro avvocato, Gaetano Pecorella, in qualità di presidente della Commissione sulle Ecomafie, afferma di volerci vedere chiaro e indica nell’audizione dell’ingegnere Giorgio Comerio un passaggio chiave per l’accertamento della verità. Ma perché la deposizione di Comerio sarebbe così importante per stabilire se il duplice omicidio Alpi-Hrovatin sia da ricondurre alle vicende del traffico internazionale di scorie radioattive? Comerio, oggi vicino ai settant’anni, nel 1993 fonda la Oceanic Disposal Management (ODM), una società registrata alle Isole Vergini Britanniche. La ODM, con sede a Lugano, ma con diramazioni a Mosca e in Africa, si occupa di qualcosa di molto particolare: si occupa dello smaltimento delle scorie nucleari. Comerio propone agli Stati di mezzo mondo la sua idea: inabissare le scorie in acque dai fondali profondi e soffici le scorie, inserendole all’interno di grossi e pesanti penetratori, che, arrivando a pesare fino a duecento chili, una volta sganciati in mare, acquisterebbero una velocità tale da permettere la penetrazione nei fondali. I quarantadue Stati a cui Comerio propone la propria idea, ovviamente, rifiutano, ma, secondo molti, l’ingegnere originario di Garlasco avrebbe messo in atto, occultamente, i propri propositi. Secondo Legambiente “Comerio e i suoi soci avrebbero gestito, dietro il paravento dei “penetratori”, un traffico internazionale di rifiuti radioattivi caricati su diverse “carrette” dei mari fatte poi affondare, dolosamente, nel Mediterraneo”. Personaggio assai particolare, Giorgio Comerio: negli anni ’80 partecipa alla battaglia delle isole Falkland tra Inghilterra e Argentina; iscritto alla Loggia di Montecarlo, ha anche alcuni problemi con la giustizia venendo arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri. Sarebbe un elemento legato ai servizi segreti e, in passato, socio dell’avvocato David Mills, condannato in primo e secondo grado per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza in favore di Silvio Berlusconi e “salvato”, in Cassazione, dalla prescrizione. Ma ecco il dato più inquietante. Negli scorsi anni, su ordine della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, la casa di Comerio viene perquisita. All’interno di un cassetto, il Capitano della Marina Militare, Natale De Grazia, elemento di spicco del pool investigativo, morto in circostanze assai sospette proprio mentre indagava sulle “navi dei veleni”, trova qualcosa. Un’agenda. Alla data 21 settembre 1987 c’è una strana scritta: “lost the ship”. La frase, tradotta, significa “la nave è persa”. Vengono disposti degli accertamenti che svelano un particolare assai interessante, ancorché grave: il 21 settembre 1987 nel mondo affonda una sola nave. La Rigel, fatta colare a picco, dolosamente, a largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria. Ma nell’abitazione di Comerio, gli investigatori trovano dei fascicoli che, in copertina, hanno nomi di Stati africani. Tra questi vi è anche la Somalia. E all’interno della cartella vi è il certificato di morte di Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio, capitale della Somalia. Viene disposta l’acquisizione del documento che, però, in seguito scomparirà dai faldoni di indagine, venendo probabilmente trafugato. Nessuno ha mai potuto chiedere a Comerio cosa ci facesse, all’interno di un cassetto della sua scrivania, quel documento: non è mai stato possibile ascoltarlo in Commissione. In un’intervista a Riccardo Bocca per L’Espresso, il magistrato Francesco Neri, a quel tempo titolare delle indagini sulle navi dei veleni, afferma: “Il giorno che interrogai Comerio mi disse: questi rifiuti non si possono buttare nell’atmosfera con gli Shuttle perché esplodono. È pericoloso interrarli perché i gas che si sprigionano coi terremoti possono provocare catastrofi ancora peggiori. Quindi l’unico posto è il mare. Ha continuato dicendo che lui li gettava con boe oceaniche di rilevamento e coi satelliti che controllavano il sito. Affermava di aver scelto, tutto sommato, il modo meno criminale di disfarsene. Questa fu la sua difesa…”. Anche per questo sarebbe assai interessante ascoltare, su tali vicende, l’invisibile Giorgio Comerio, da sempre abile a comparire e scomparire a proprio piacimento. Le ultime notizie lo darebbero in Tunisia.

Camera. Commissione Bicamerale d’inchiesta: Ciclo Rifiuti. Seduta del 12/12/2012. Audizione del redattore della rivista on line www.strill.it, Claudio Cordova.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'approfondimento che la Commissione sta portando avanti sulle cosiddette navi a perdere, l'audizione del dottor Claudio Cordova. Avverto il nostro ospite che della presente audizione sarà redatto un resoconto stenografico e che, se lo riterrà opportuno, i lavori della Commissione proseguiranno in seduta segreta, invitandolo comunque a rinviare eventuali interventi di natura riservata alla parte finale della seduta. Cedo la parola al dottor Cordova per avere una valutazione anche sul questo rapporto tramite e-mail con Comerio. Prima che i colleghi della Commissione le pongano alcune domande, le chiedo se, nel frattempo, sa dove si trova Comerio e se ha avuto contratti o relazioni con lui, in modo da avere un quadro rispetto a questo tema.

DANIELA MAZZUCONI. Prima che il dottor Cordova cominci a parlare, posso intervenire? Nel suo articolo lei scrive: «Esclusivo. Giorgio Comerio: "Pronto a collaborare per ricerca verità, ma tra me e Ilaria Alpi link impossibili"». Lei è, dunque, entrato in contatto con Comerio. Sarebbe utile capire come è entrato in contatto con lui e chi è stato l'intermediario. Può aver avuto solo un incontro di carattere informatico, ma qualcuno avrà funto da intermediario. Vorrei sapere se lei sa dove oggi si trova Comerio e, dal momento che mi pare di capire che forse il contatto non è stato diretto, ma solo mediato informaticamente, se lei è certo dell'identità della persona che le ha risposto. Trattandosi di una persona che tutti cercano e che ha compiuto azioni non esattamente positive nella vita, ci chiediamo se siamo di fronte a una mistificazione, oppure se lei ha la prova che dall'altra parte del mondo, non so dove, ci fosse il signor Comerio e che fosse lui a rispondere alle sue domande.

PRESIDENTE. Ringrazio la senatrice Mazzuconi, che ha completato la domanda, e do la parola al dottor Cordova.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Innanzitutto svolgo una premessa per consentirvi di capire le motivazioni da cui nasce questa intervista. Più o meno dal 2009 mi sono interessato alle tematiche delle navi dei veleni, o comunque dello smaltimento illecito di rifiuti in Calabria. Io vivo a Reggio Calabria, ma mi sono occupato anche, per esempio, del caso della Pertusola Sud di Crotone, che tutti conoscerete. Sono temi a me molto cari. La genesi di questa intervista deriva proprio dalle dichiarazioni a mezzo stampa - tenete presente che sono passati quasi due anni, ragion per cui compirò alcune piccole imprecisioni - del presidente della Commissione sul ciclo dei rifiuti, il quale affermava che Comerio avrebbe potuto essere utile all'eventuale riapertura delle indagini sul caso di Ilaria Alpi. Io scrissi un articolo sulla base di quelle dichiarazioni, riportando un buon numero di informazioni in mio possesso. Ho scritto un libro sul tema delle ecomafie, sulle navi dei veleni e anche su altri temi. Ho, dunque, una buona dimestichezza con l'argomento. La questione molto singolare - l'articolo è, se non ricordo male, del 6 febbraio 2011 - è che, quasi nell'immediatezza, all'indirizzo della redazione del sito per il quale lavoravo allora, ma per il quale ora non lavoro più, www.strill.it, arrivò, da un indirizzo che eventualmente potrò fornire, se la Commissione riterrà opportuno acquisire il dato, un'e-mail di smentita a firma di Giorgio Comerio. Mi confrontai ovviamente con il mio direttore del tempo e decidemmo di pubblicare integralmente la smentita. Mi lasciò molto perplesso la tempistica, nel senso che fu veramente un'e-mail pressoché immediata. Il fatto che il sito internet per il quale lavoravo avesse un taglio regionale e si occupasse di fatto di questioni calabresi su tutto il territorio regionale lo rendeva difficile da comprendere. Abbiamo elaborato tante ipotesi, alcune veramente grottesche. A un dato punto arrivammo anche a pensare, dal punto di vista tecnico, che questo signore potesse avere un programma che, ogniqualvolta veniva inserito un documento su internet in cui veniva nominato, gli arrivasse una notifica. Come ripeto, fu una risposta molto immediata. Pubblicammo, dunque, la replica di Comerio e poi, dal punto di vista giornalistico, confrontandomi con il direttore, stabilimmo di vedere se, al di là di questa scarna smentita, intendesse aggiungere di più. Lo contattai, questa volta dalla mia e-mail personale e non da quella della redazione, e questa persona rispose, sostenendo in parte quanto ha poi ripetuto anche nell'intervista, ovverosia che quelle a suo carico erano tutte macchinazioni. Ricordo che in un passaggio precedente all'e-mail che poi io mandai con l'elenco delle domande, lui mi allegò un memoriale, un testo, che aveva spedito e che era stato pubblicato sul Financial Times. Dopodiché, io elaborai un elenco di domande e lo mandai all'indirizzo che avevo. Anche in questo caso ho atteso non moltissimo e alcuni giorni dopo l'articolo originario, quello che ha dato il via a tutto il confronto epistolare, pubblicammo questa intervista. Come è possibile verificare, anche per evitare che questa persona potesse nuovamente strumentalizzare la questione, l'assemblai effettuando un vero copia e incolla. Probabilmente troverete anche alcuni errori grammaticali. Non avevo corretto nulla. Questo è quanto. Ricordo che successivamente l'ultimo scambio di e-mail fu quando io mandai il link, una volta pubblicata l'intervista, e lui mi ringraziò, facendomi notare che non c'era stato alcun tipo di alterazione dei propri convincimenti.

DORINA BIANCHI. Essendo io calabrese di Crotone, conosco benissimo la testata. Da quanto lei riferisce, lei non ha mai avuto contatti vocali...

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No, né, tantomeno, personali, ovviamente. Dubito che si trovi in Italia.

DORINA BIANCHI. Tutto è avvenuto tramite e-mail, dunque. Al di là dell'immediatezza della risposta iniziale, a distanza di quanto tempo avete avuto l'intervista?

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Tre o quattro giorni dopo. Credo che l'articolo originario fosse dei primi giorni di febbraio e l'intervista - correggetemi, se sbaglio - del 6 febbraio. Comunque erano i primi dieci giorni di febbraio.

DORINA BIANCHI. Voi avete avuto la percezione che comunque fosse realmente lui?

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. La persona che ha scritto, al di là dell'indirizzo, che ha un dominio straniero, che già potrebbe rappresentare un'indicazione, ha fornito una serie di informazioni e di passaggi, dal suo punto di vista, per carità, piuttosto dettagliati. D'altra parte, abbiamo avuto alcuni dubbi, ovviamente. Poi, però, abbiamo considerato che per fornire una risposta tanto immediata qualcuno si sarebbe dovuto spacciare per una persona che, come ricordava la senatrice, ha notevoli problemi. Io non mi metterei nei panni di una persona con tutti questi problemi. Credo che sia verosimile che dall'altra parte del computer ci fosse Comerio in persona o comunque qualcuno incaricato per conto di Comerio.

DORINA BIANCHI. Come lei ha riferito, strill ha una redazione prettamente calabrese, presente in Calabria. Avete avuto nel tempo altri contatti con Comerio?

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No. Ci siamo occupati altre volte di questi temi, ma contatti non ne abbiamo più avuti.

DORINA BIANCHI. Non avete avuto altri contatti. È stato un unicum.

DANIELA MAZZUCONI. È verosimile pensare, però, che qualcuno in Calabria abbia compulsato il materiale che voi, di volta in volta, mettevate nel sito e abbia agito da ponte oppure, secondo lei, l'accesso al sito della vostra redazione è stato diretto dal corrispondente remoto? È una curiosità. Sarebbe interessante capirlo, perché una testata diffusa solo in Calabria normalmente non viene consultata neanche nelle altre regioni italiane. Potrebbe anche essere che qualcuno abbia visto e poi abbia agito da tramite. Ciò sarebbe inquietante, perché significherebbe che qualcuno nel sito conosce e ha contatti con Comerio.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. All'interno del sito no. Se si intende un calabrese, come accennavo prima, la velocità con cui è arrivata la smentita - non posso essere precisissimo, perché è passato un po' di tempo, ma siamo nell'ordine di poche ore - ci lasciò intendere, ma è una mia illazione, anche perché non ho competenze informatiche così approfondite, che questo personaggio potesse avere un sorta di programma che, ogniqualvolta lui venisse nominato, gli segnalava gli aggiornamenti. È un'ipotesi che abbiamo formulato noi, perché ci ha veramente sorpreso la velocità della risposta. Abbiamo svolto lo stesso ragionamento. Noi ci occupiamo di Calabria ed è capitato più volte che ci occupassimo anche di questi temi, che abbracciano ambiti molto più ampi, ma non al punto da dover avere Comerio come abituale lettore.

PRESIDENTE. Le vorrei chiedere di comunicarci l'indirizzo e-mail di Comerio. Nell'intervista, verso la fine, attraverso le domande che voi avete rivolto a Comerio, cui lui ha risposto, alla fine si chiede: «Lei pensa di apparire o di scomparire di nuovo?». Comerio ha risposto: «Io non debbo né apparire, né scomparire». Secondo un suo rapporto avuto tramite e-mail - visto che non ha avuto la possibilità di parlargli - che impressione, che valutazione si è creato rispetto al personaggio? Se non ha problemi di scomparire o di apparire, perché si pone in questa condizione?

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Io credo che la Commissione conosca anche meglio di me - io ne ho scritto nel mio libro - i tipi di coinvolgimenti, cointeressenze e appoggi di cui, secondo atti di indagine, può aver goduto in passato, e non so se anche oggi, Comerio. Sicuramente la mia opinione è che sia un personaggio degno di attenzione. Lui sostiene di essere di fatto una persona libera, cioè di non avere alcun mandato che lo obblighi a dover comparire di fronte a qualsiasi Autorità. Io non ho elementi per smentire o confermare questa notizia, ma sicuramente, per quanto è a mia conoscenza e che ho messo anche per iscritto, è un personaggio che quantomeno in passato ha goduto di diverse cointeressenze.

PRESIDENTE. Ha avuto anche una condanna.

DORINA BIANCHI. Alla domanda che ha richiamato il presidente, cioè «scomparirà un'altra volta?», Comerio risponde: «Non dipende da me, ma da voi». A quanto pare, però, è scomparso comunque. Non si è fatto più risentire.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No, non si è fatto più risentire. Ora vado più a intuito. Non ho memoria di un articolo specifico. Come strill, anche io, con il sito di cui ora sono direttore, mi sono occupato di questa tematica, proprio perché, come accennavo in apertura, è una tematica che mi sta molto a cuore. Se la sua apparizione è stato un unicum, di Comerio si è continuato a trattare anche da parte mia. Ne parleremo anche nei prossimi giorni, perché proprio domani, per inciso, cade l'anniversario della morte di un altro personaggio, Natale De Grazia, il capitano che indagava sulle navi dei veleni. Cerchiamo spesso di approfondire o di ricordare quello è avvenuto con riferimento a queste tematiche. Con riferimento, invece, all'indirizzo e-mail, ve lo fornirò, ma forse è il caso di segretare questo passaggio. Valutate voi.

PRESIDENTE. Dispongo la disattivazione dell'impianto audio. (I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta).

PRESIDENTE. Dispongo la riattivazione dell'impianto audio. (I lavori della Commissione proseguono in seduta pubblica).

DORINA BIANCHI. Non so se possiamo riferire quanto ci è stato comunicato stamattina sulla morte di De Grazia. Noi oggi abbiamo ricevuto una relazione sulla presunta causa di morte di De Grazia, dalla quale pare che non ci sia stato un problema di tipo cardiaco, ma di tipo tossico. Lo cito per riallacciarmi al tema.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Anche gli ambientalisti e i familiari hanno sostenuto che le motivazioni stesse per le quali De Grazie fu insignito della medaglia dal Presidente della Repubblica era che si lasciavano intendere, purtroppo, storie molto oscure. Io ovviamente non sapevo di questo passaggio.

PRESIDENTE. La ringraziamo. Se ha nell'immediato ulteriori contatti con Comerio, ce lo faccia sapere.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Sicuramente. Grazie.

PRESIDENTE. Ringraziando il nostro ospite, dichiaro conclusa l'audizione.

La relazione della Commissione Ecomafie: il ruolo oscuro dei Servizi, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" - Il dato numerico più esplicativo per corroborare le conclusioni cui arriva la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti è il 500. Sono ben 500 i milioni di lire che il Sismi (i Servizi Segreti militari) spenderà, solo nel 1994, per i servizi d'intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi. Con la relazione sulle "navi dei veleni", la Commissione di Gaetano Pecorella mette un punto fermo sul ruolo che gli 007 italiani avrebbero potuto svolgere nelle oscure vicende che riguardano lo smaltimento di scorie. 308 pagine quelle redatte da Pecorella e da Alessandro Bratti che mettono nero su bianco alcuni dei sospetti più inquietanti che le associazioni ambientaliste (su tutte Legambiente) sollevano da molti anni. Secondo un dossier di Legambiente, infatti, gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero 88. E tutto nasce, nel 1994, proprio da una denuncia dell'associazione ambientalista alla magistratura reggina sull'interramento di rifiuti in Aspromonte. Si formerà così un pool di investigatori, composto, tra gli altri, dal pm Francesco Neri e dal Capitano di Corvetta, Natale De Grazia, che, ben presto, allarga i propri orizzonti. Contemporaneamente allo svolgimento degli accertamenti sulle caratteristiche del territorio calabrese, giunse alla procura di Reggio Calabria la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele perché sospettata di trasportare materiale radioattivo (scorie di rame di altoforno). La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività non era stata riscontrata. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo: "Questo dato – è scritto nella relazione -  è stato rappresentato dal dottor Neri come particolarmente inquietante perché poteva far presumere che la nave si fosse disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria". Il tema, dunque, è quello delle "navi a perdere", in cui un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall'ingegner Giorgio Comerio che, con la sua ODM, avrebbe progettato (e secondo qualcuno realizzato) un sistema di smaltimento di scorie radioattive nei fondali soffici e profondi. L'abitazione di Comerio verrà anche perquisita proprio da Natale De Grazia, che ritroverà un serie molto lunga di dati: "Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (...) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l'autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi. Si accertava così che soci nell'affare erano tale Paleologo Mastrogiovanni (presunto principe dell'Impero di Bisanzio) e tale Dino Viccica, uomo ricchissimo che avrebbe dovuto finanziare l'operazione «Sierra Leone» (...) Al riguardo il console onorario della Sierra Leone sentito in merito ha confermato che il Comerio ha concluso l'affare con i governanti di detti Stati corrompendo un ministro. (...)»". Proprio con riferimento alla figura di Comerio arrivano i passaggi più interessanti, allorquando si parlerà dei presunti rapporti che Giorgio Comerio avrebbe avuto con gli stabilimenti Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli), che per anni saranno sospettati per un eventuale coinvolgimento nei traffici di scorie. Dal racconto di uno dei funzionari: "Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l'Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (...) Addirittura nella strategia dell'ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell'ente. Il Comerio infatti ha offerto all'ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi". L'Enea peraltro sarebbe stata infiltrata dalla massoneria: "Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell'ambito dell'Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici". La relazione di Pecorella e Bratti, però, punta l'attenzione anche sulla sospetta morte di Natale De Grazia, proprio mentre si recava a La Spezia (uno dei porti-chiave dei traffici) per svolgere delle indagini non meglio identificate: "Deve sin d'ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso. La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell'indagine". Più volte la relazione parlerà di misteri, contraddizioni e passaggi per certi versi inspiegabili. A parte l'audizione di una fonte anonima, infatti, non troverà conferme la circostanza secondo cui De Grazia stesse andando a La Spezia per indagare sul conto di una nave, la Latvia, diversa dalle più famose Rigel e Rosso, su cui, finora, si è puntata l'attenzione. Dal racconto della fonte: "(...) sulla nave di Capo Spartivento il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con Tassi con riferimento ad un'altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell'area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. (...) Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, (...) È stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. (...) questa nave era rimasta ormeggiata prima ad un molo prospiciente il comando Nato dell'Alto Tirreno a La Spezia, quindi nell'area del San Bartolomeo proprio sotto la discarica Pitelli ed era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia (...). Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia. Questo era uno dei lavori che abbiamo fatto io e l'ispettore Tassi del Corpo forestale". Ma una delle peculiarità dell'indagine condotta dal dottor Neri sarà certamente quella della costante interlocuzione con il Sismi al quale vennero richieste informazioni e documenti sia su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta (traffico di rifiuti radioattivi, traffico di armi, affondamenti di navi). Sui rapporti con il Sismi riferirà anche il maresciallo Moschitta, uno dei compagni dell'ultimo viaggio di Natale De Grazia: "Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (...) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l'evaso Licio Gelli". Ma la presenza dei Servizi non sarebbe stata solo corretta e leale. Nel corso delle tante audizioni ascoltate dalla Commissione, infatti, sarà prospettato un ulteriore ipotetico interessamento dei Servizi all'indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla Procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria. Dalle dichiarazioni del Colonnello Rino Martini, del Corpo Forestale dello Stato: "In quel periodo, si verificarono due episodi. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un'altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent'anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell'autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c'era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo".  Gli inquirenti si accorgeranno di essere spesso, spessissimo, osservati o pedinati. Sospetti condivisi anche dal maresciallo Moschitta: "Il muro di gomma su cui inevitabilmente andava a cozzare l'attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria ha rappresentato il principale ostacolo da abbattere per poter entrare nei meandri del fenomeno in esame. È sembrato che forze occulte di non facile identificazione controllassero passo passo gli investigatori nel corso delle diverse attività svolte. In effetti, sentivamo che c'era qualcosa. Qualcuno ci pedinava, però nessuno si manifestava. [...] Parlo di impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi. Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava". I Servizi entrano un po' ovunque. Nelle dichiarazioni (giudicate inattendibili) del collaboratore di giustizia Francesco Fonti, ma anche nello spiaggiamento, ad Amantea, della Motonave Rosso. Significative, in tal senso, le contraddittorie dichiarazioni del Comandante della Capitaneria di porto di Vibo Valentia Giuseppe Bellantone. Questi sentito all'epoca dai magistrati nel corso dell'inchiesta che gli stessi stavano svolgendo sulle "navi a perdere", dichiarerà testualmente: "Ricordo che destò la mia curiosità la circostanza riferitami di un continuo andirivieni di persone e di mezzi in particolare nelle ore notturne. Effettivamente mi venne riferito che si erano recati a bordo militari dell'Arma dei carabinieri nonché agenti dei servizi segreti". Proprio al fine di chiarire questi aspetti la Commissione sentirà l'ex comandante Giuseppe Bellantone, che rilascerà dichiarazioni in parte diverse, ridimensionando il significato delle espressioni usate all'epoca della sua escussione da parte dei magistrati di Reggio Calabria: "Io voglio precisare che non ho mai detto che ci fossero agenti dei servizi segreti. Ho detto che ho avuto l'impressione che ci fossero dei rappresentanti dei servizi segreti, a causa del modo di fare che questi soggetti avevano, del loro modo di presentarsi, girare attorno e guardare (...) io avevo il mio personale che andava a bordo, che girava e guardava. Il personale della Guardia di finanza controllava allo stesso modo. Qualcuno mi diede questa notizia, ma io non la approfondii. Ho avuto anch'io l'impressione che ci fosse qualcosa, ma non ho approfondito la questione. Mi sarà stato riferito da qualcuno dei miei uomini, oppure da qualcuno della Guardia di finanza o dei Carabinieri che erano lì sul posto, ma non saprei dirvi con precisione chi mi ha detto quelle cose (...) Qualcuno me lo ha riferito, però se lei mi chiede di chi si trattava, non so risponderle. Non posso ricordarmelo. Se lo avessi ricordato, lo avrei detto anche al magistrato". A parlare dell'interessamento dei Servizi Segreti sarà anche il dottor Alberto Cisterna, magistrato che, dopo la morte di De Grazia e lo sfaldamento del pool, erediterà le indagini di Neri.  Secondo quanto riferito dal magistrato i servizi gli chiesero espressamente di proseguire quella collaborazione che già avevano prestato allorquando le indagini erano coordinate dal sostituto procuratore circondariale Francesco Neri: "Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti; questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell'attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione, ma comunque vedo in una nota di una dichiarazione alla stampa del collega Neri confermare il dato che il Sismi avesse collaborato nella prima parte. Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo, fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava, quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D'accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro". E sull'azione dei Servizi non sarà particolarmente utile neanche l'audizione del direttore del Sismi dell'epoca, il generale Sergio Siracusa, attualmente consigliere del Consiglio di Stato: ""Il servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (...) nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c'è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l'attività svolta, vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell'Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia" dirà Siracusa che escluderà inoltre qualsiasi coinvolgimento con Comerio precisando che l'attività svolta dal Sismi con riferimento a Comerio era esclusivamente di carattere informativo, nell'ambito della collaborazione che il Sismi aveva avviato con la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Quanto al capitano De Grazia, dichiarerà di avere appreso della vicenda leggendo i resoconti della Commissione. Testualmente: "Non avevo cognizione a quei tempi della morte in quelle circostanze, della sua attività che stava svolgendo insieme ad altri del nucleo di polizia giudiziaria in questo specifico settore". Una circostanza che la stessa Commissione definisce "particolare" e che spinge i relatori Pecorella e Bratti a conclusioni assai dure: "Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l'oggetto sia per l'estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali. Ne è un esempio significativo l'indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull'apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d'azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta "ignoranza ufficiale" dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sè appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite".

"Su di me dette e scritte solo fantasie". Il memoriale dell'affondatore di veleni, scrivono Anna Maria De Luca e Paolo Griseri su “La Repubblica” l'08 dicembre 2009. La nave "Mare Oceano" che ha condotto le ricerche sulle navi dei veleni. Ecco il memoriale di Giorgio Comerio, l'uomo al centro delle inchieste delle procure italiane sul traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in Parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito "noto trafficante". Comerio ci ha inviato il testo per posta elettronica. Si tratta delle tesi difensive che lo stesso Comerio intende sostenere per replicare a quelle che lui definisce "fantasie" e che sono state invece oggetto delle inchieste dei pm. Nel memoriale Comerio dà le sue spiegazioni sui punti più controversi della sua attività dalla Somalia connection alla scoperta del certificato di morte di Ilaria Alpi ritrovato tra le sue carte. E poi ancora: l'agenda con la scritta "lost ship" annotata proprio il giorno in cui affondò la "Rigel", al largo di Reggio Calabria, una delle presunte navi dei veleni. Comerio inizia spiegando i suoi progetti di affondamento dei rifiuti tossi sotto i fondali marini, portati avanti con i governi di mezzo mondo: "La tecnologia Free Fall penetror's - scrive - è stata sviluppata dagli Stati Membri della Comunità europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, Svizzera e Canada per un investimento totale di circa 300.000.000 dollari USA. La tecnologia è una libera proprietà comune di tutti i cittadini delle nazioni che hanno investito su questo. I risultati sono pubblici e disponibili. E' possibile acquistare numerosi volumi a Parigi, in una libreria specializzata in tecnologia, che mostrano tutti gli studi e le analisi effettuate nell'Oceano Atlantico e dove si possono trovare anche le immagini delle testate penetratrici. Ma gli studi non sono stati continuati a causa della indisponibilità di fondi". In realtà il sistema di affondamento dei rifiuti con siluri sarebbe stato bloccato perché una convenzione internazionale vieta questa pratica. Comerio contesta questa versione spiegando che la rinuncia a utilizzare il sistema "non ha niente a che fare con la London Dumping Convention che in quel periodo non era in vigore e non era stata firmata da diverse nazioni come Stati Uniti, Australia, Russia, ecc". Addirittura, aggiunge, "la Federazione Russa per diversi anni (ma anche ora?) ha disperso rifiuti radioattivi incapsulati in elementi di cemento nel mare di Barents e Kara, vicino all'isola Novaja Zemija. Nessuno poteva fermare quella attività". Infatti, sostiene Comerio, "la London Dumping Convention riguardava solo lo smaltimento illegale dei rifiuti in mare e non un sistema ben realizzato e sicuro per depositare penetratori sotto il letto del mare in zone sicure, con una precisa mappatura subacquea e test di prova per la procedura". Comerio iniziò quindi in quegli anni la sua attività "ma solo dopo aver ricevuto una risposta positiva circa l'uso dei Free Fall Penetrators". La risposta veniva "da un consulente di diritto internazionale con sede a Locarno (Svizzera). Solo a quel punto iniziai l'attività di marketing offrendo la tecnologia (e non i servizi di dumping) agli enti governativi interessati". Comerio definisce l'uso della Free Fall Penetrators "un modo per risolvere il livello medio dello smaltimento dei rifiuti radioattivi (composto da elementi radiologici ospedalieri, tute di lavoro ecc ma non da elementi ad alta energia). Una soluzione capace di ridurre la dipendenza dall'uso del petrolio e dai signori del petrolio". E racconta come "la tecnologia sia stata presentata ufficialmente dall'European Joint Research Centre in numerosi eventi pubblici dedicati alla tecnologia, mostrando i modelli, immagini, video, diagrammi, per vendere l'uso di un certo numero di elementi hardware che compongono il sistema, sia ai privati che alle società". Niente di illegale quindi, secondo l'autore del memoriale, perché "è stata una strategia finanziaria della Comunità europea per provare a recuperare un minimo degli investimenti fatti, incassando royalties dallo sviluppo dei diversi elementi di tecnologia che compongono il sistema di smaltimento. Con nessun risultato. Uno dei team leader di quel periodo, il prof. Dr. Avogadro, potrebbe confermarlo". In questo quadro Comerio si definisce "uno dei diversi fornitori di elementi che compongono il sistema: "Ho venduto al Jrc la boa in grado di raccogliere dati sott'acqua e di trasmettere tutte le informazioni da un satellite ad una stazione centrale di controllo che si trova in Germania". Anni dopo Giorgio Comerio fonda Odm, "come un provider che offre la sua tecnologia solo a organi di Governo o a società governative. Odm non è mai stato in contatto con soggetti privati, ma solo con le istituzioni nazionali tramite le ambasciate. Odm non è mai stato coinvolto in alcuna attività illegale. L'attività iniziale di marketing è stata fatta presso l'Ufficio del Lugano, illegalmente attaccato dagli attivisti di Greenpeace. Ogni tipo di documento è stato analizzato dalla polizia svizzera e dal Procuratore di Lugano e, dopo due settimane di dettagliate analisi, la Corte svizzera ha riconosciuto che l'attività Odm era solo un legal marketing preliminare senza connessioni con qualsiasi tipo di attività illegale o criminale. In seguito gli attivisti di Greenpeace tedeschi sono stati condannati dalla Corte di Lugano. L'attività di marketing è stata realizzata contattando solo le ambasciate delle possibili nazioni interessate. Senza alcun risultato (testualmente with no result at all). Dopo questi eventi l'ufficio Odm è stato chiuso e l'attività di marketing è stata stoppata". Questa versione dei fatti contrasta con il fatto che Comerio è stato accusato dalla magistratura italiana di aver partecipato, in realtà, a un vasto traffico di armi e veleni. Ecco le risposte che l'accusato ha voluto fornirci. Comerio inizia dicendo che "la fantasia italiana è uno sport nazionale" e che "copie dei documenti di Comerio sono stati presi in consegna, come 'corpo del reatò da parte della procura di Catanzaro e delle copie sono state "diffuse" da attivisti di Greenpeace su testate "specializzate" come "Cuore", "Il Manifesto", "L'Espresso", ecc ecc. Risultato: una serie di fantastiche "connessioni" riportate dalla stampa italiana". E le affronta una per una. Somalia connection. Comerio dice che la tecnologia Odm era pubblica e totalmente disponibile sul web in diverse lingue. Senza segreti, nessun modo di agire "sotto il tavolo". E spiega: "Odm è stato avvicinato da un gran numero di studenti, ricercatori e anche uomini d'affari. Uno di loro ha proposto di prendere contatto con il Governo somalo. Ma prima di prendere qualsiasi contatto con l'ambasciata somala, Odm ha chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera) un chiarimento sul governo della Somalia. La risposta è stata negativa. Al momento sembrava non ci fossero ufficiali in ricognizione per conto del Governo. Così Odm non ha proceduto in ulteriori contatti con l'uomo d'affari privato".

Ilaria Alpi connection. Scrive Comerio: "Si tratta di una pura falsità. Sembra che in casa mia sia stato trovato un inesistente certificato di morte della signorina Alpi. L'unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera".

"Jolly Rosso". "Sulla stampa è stata pubblicata una storia divertente. A bordo della Jolly Rosso sarebbe stata trovata una mappa dei fondali del mare realizzata da Odm con possibili sedi di dumping nel mare Mediterraneo. Ma nessuna delle autorità ha mai mostrato questa mappa. Del tutto normale. Odm ha iniziato la sua attività anni dopo lo spiaggiamento della Jolly Rosso, e non sono stati individuati luoghi valutati da Odm come aree di smaltimento nel mare Mediterraneo".

La connessione "Rigel" e la differenza tra "Lost" e "affondato". "Per Greenpeace e la Procura di Palermo c'è una connessione tra Comerio e una nave "Rigel" scomparsa presso l'isola di Ustica. Il motivo? Dentro una delle agende del signor Comerio è stata scritta la frase 'perso la navè nella settimana nella quale sembra scomparsa una nave nei pressi di Ustica .. In effetti il signor Comerio a quel tempo perso il traghetto dalla Gran Bretagna alla Francia. (Vela da St. Peter Port - Guernsey - a St. Malo - Francia). Era abbastanza difficile da spiegare che "perso" non significa "sommerso" .. Dopo mesi di indagini la connessione con Comerio è stata abbandonata".

Affondamenti illegali nel Mediterraneo. È il capitolo più scottante nelle vicende che lo riguardano. Comerio risponde in modo articolato e parlando in terza persona. "Per un certo numero di giornalisti - scrive - lo scarico dei rifiuti illegali nel Mediterraneo era legato ai piani di ODM". Ma questo, dice, è falso per diverse ragioni: "Prima di tutto nelle mappe del ODM tra le possibili aree di smaltimento non c'era nessuno punto nel Mar Mediterraneo. Tutti i settori considerati erano solo in oceano aperto. In secondo luogo: il signor Comerio non è mai stato in contatto con elementi criminali: non vi è alcuna prova di un contatto del genere in tutta la sua vita. In terzo luogo, per un lungo periodo il signor Comerio ha lavorato con la sua società Georadar proprio per smascherare le discariche di rifiuti chimici pericolosi. Georarad ha goduto di importanti citazioni in letteratura scientifica. È stata citata su riviste e nei servizi della Rai3 Lombardia. La tecnologia Georadar è stata presentata dal dottor Comerio al Collegio degli ingegneri di Milano con positivi riscontri. Quella stessa tecnologia è stata utilizzata dalle Ferrovie, da Enel, Sirti, Agip e da importanti società in Italia, Svizzera e Germania. Le attività di Georadar sono iniziate nel 1988-89". Grazie a quella tecnologia (un sistema di indagine sotterranea), Comerio sostiene di "essere stato incaricato di collaborare con i giudici di Milano Antonio Di Pietro e Francesco Greco. Con il primo per scoprire alcuni fusti nascosti in diverse località del Nord Italia, con il secondo durante le indagini su un rapimento".

Nel memoriale si aggiunge che "Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e ha collaborato alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All'epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano". Ecco dunque la conclusione: "La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell'ambiente e mai contro".

GENOVA ALLUVIONATA.

Alluvione a Genova: ennesimo nubifragio killer, scrive “Panorama”. Notte tra giovedì 9 e venerdì 10 ottobre 2014. Genova di nuovo allagata: dopo l'acqua, rabbia e polemiche. Dopo la paura la città tenta il recupero, con forza e dignità. Si è ripetuto il disastro del 2011. Pioggia di accuse sulle istituzioni. Come nel 2011, con la Protezione Civile (già travolta dalle polemiche per quanto accaduto) che ha confermato l'allerta 2 - la più alta - fino alle 24 di lunedì: Genova ha vissuto la sua seconda notte di terrore sotto vere e proprie bombe d'acqua che hanno allagato molte zone della città trasformando le strade in torrenti ed hanno invaso di nuovo scantinati e negozi. Sottopassi chiusi, viabilità critica. In Valbisagno Protezione Civile, vigili del fuoco e polizia municipale hanno fatto scattare l'allerta massima suonando le sirene per segnalare il pericolo perchè i torrenti avevano superato i livelli di guardia. I momenti di grande criticità si sono registrati tra le 2 e le 3 nel ponente dove gli allagamenti hanno interessato Sestri, Voltri, Pegli, Multedo e Borzoli dove è esondato il Rio Ruscarolo. A Voltri il torrente Leira, a Pegli il Varenna, a Cornigliano il Polcevera hanno superato i livelli di guardia. Alcuni automobilisti, che si sono trovati nelle strade allagate, sono saliti sui tettucci delle vetture e sono stati soccorsi dai vigili del fuoco. Intorno alle 3 in Valbisagno, dove due notti fa c'e' stata l'esondazione che ha provocato anche un morto, i torrenti Fereggiano e Bisagno hanno sfiorato gli argini facendo temere per una nuova alluvione. Gli abitanti della zona, terrorizzati ed esasperati, hanno tempestato di telefonate centralini di forze dell'ordine e vigili del fuoco. In alcune zone della città, dove le strade sono in pendenza, la quantità d'acqua caduta ha avuto la forza di trascinare via cassonetti per i rifiuti e di spostare anche alcune auto. Intorno alle 3:30 i temporali sono cessati e sono rimaste precipitazioni sparse. Per evitare che gli automobilisti in transito sull'autostrada potessero raggiungere la zona della Valbisagno, è stato chiuso il casello di Genova est. La forte perturbazione si è poi spostata a levante su Recco, Portofino, Rapallo, Chiavari. A Rapallo il torrente Boate, nel centro della città è a rischio esondazione. Situazione critica anche per il fiume Entella e il torrente Lavagna. I cittadini, e soprattutto tanti giovani, si sono però riversati nelle strade per raccogliere fango e detriti, cercare di liberare negozi, case e spazi devastati dalla potenza dell'acqua. La città tenta il recupero, con forza e dignità. Tutto è iniziato nella notte tra giovedì e venerdì, quando a esondare con le forti piogge è stato non solo il Rio Feregiano (responsabile della precedente alluvione), ma anche il torrente Bisagno e lo Sturla. Un morto, a Borgo Incrociati, nei pressi di una fermata dell’autobus: si tratta di Antonio Campanella, un infermiere di 57 anni residente nella zona di Brignole, investito dalla piena probabilmente mentre stava rientrando a casa dal lavoro. Nella mattinata di ieri, dopo che nella notte in una sola ora (dalle 22 alle 23) erano caduti nell'area già satura d'acqua del Bisagno circa 150 mm di pioggia, come comunicato dall'Arpal, lo scenario presentatosi agli occhi dei cittadini è esattamente quello di tre anni fa: vie allagate, auto travolte dalla piena e danni ingenti a case ed esercizi pubblici, con larga parte di Genova paralizzata, mentre il servizio ferroviario è ripreso regolarmente anche se si è registrato nel pomeriggio il deragliamento del treno Genova-Torino (con due passeggeri contusi), uscito dai binari nella frazione di Fegino probabilmente per una frana. E sono subito scoppiate le polemiche: "L'allerta meteo per l'alluvione non è stata data perchè le valutazioni dell'Arpal basate su modelli matematici non hanno segnalato l'allarme" ha dichiarato l'assessore regionale alla protezione civile Raffaella Paita. La situazione dunque resta molto critica (anche per effetto delle non felici previsioni meteo), con zone prive di corrente elettrica e strade ostruite dai detriti, mentre già stanno montando le polemiche per il nuovo disastro ambientale. Le autorità hanno disposto la sospensione delle scuole e dei mercati cittadini, con l'invito alla popolazione di muoversi solo in caso di strettissima necessità. Mentre la Procura ha già aperto un fascicolo per omicidio colposo in relazione alla morte di Antonio Campanella, il sindaco Marco Doria ha puntato il dito contro la burocrazia: "Basta ricorsi che frenano i lavori per la messa in sicurezza del Bisagno", ha affermato il primo cittadino riferendosi ai necessari interventi sul torrente in un tratto tra la stazione di Brignole e la Questura, che sono fermi da anni - pur essendoci già il finanziamento - a causa di un ricorso al Tar da parte dell'impresa arrivata seconda nella gara d'appalto. Le giustificazioni del Comune non fermano però la rabbia e l'indignazione dei cittadini, con alcuni residenti del quartiere Fereggiano che hanno aggredito e insultato polizia municipale e tecnici della protezione civile. Da parte loro, i Vigili del Fuoco hanno invece già fatto sapere di aver proceduto al momento a più di 250 interventi. Nel frattempo la Cgil ha annullato lo sciopero generale precedentemente indetto a Genova per la giornata di mercoledì 15 ottobre.

Ancora un'alluvione a Genova: un morto e città travolta da acqua. Ecco i precedenti, scrive Luca Romano su “Il Giornale”.

10 OTTOBRE 2014. Ancora vittime del maltempo. Un uomo è morto durante l’alluvione che questa notte ha colpito Genova, dove nel corso della notte sono esondati Bisagno, Fereggiano, Sturla e Scrivia e parte della città è stata travolta dall’acqua e dal fango. Così, per l’ennesima volta, l’Italia è costretta a piangere morti legati al maltempo e a contare ingenti danni. Ecco alcune delle tragedie che hanno devastato, negli ultimi tempi, altre zone del Paese.

3 SETTEMBRE 2014. Un nubifragio si abbatte sul Gargano, provocando due vittime, un giovane di 24 anni e un 70enne. La zona più colpita è quella tra Peschici e Vieste ma i danni si contano anche in altri centri del foggiano.

3 AGOSTO 2014. Tragedia durante la "festa degli uomini" sulle colline del trevigiano. Una bomba d’acqua scatena l’inferno sulla sagra: a Refrontolo, dopo l’esondazione del torrente Lierza, alla fine si contano quattro vittime e diversi feriti.

3 MAGGIO 2014. Un’alluvione colpisce le Marche, provocando due morti a Senigallia. Centinaia gli interventi per allagamenti, frane e smottamenti, evacuazioni di edifici pubblici e privati, soccorso ad automobilisti rimasti bloccati.

7 OTTOBRE 2013. Tragedia a Ginosa, nel tarantino, dove a causa del maltempo che si è abbattuto nella zona e in altre cittadine vicine, muoiono quattro persone travolte da acqua e fango. Grossi danni alle strutture e alle aziende.

5 OTTOBRE 2013. Un uomo insieme al figlio di 6 anni vengono trascinati all’interno della loro auto dal torrente Fratello, a Massa Marittima, in piena a causa di un violento nubifragio. L’unica a salvarsi è la moglie dell’uomo, che riesce a scendere dall’auto prima della tragedia.

28 NOVEMBRE 2012. Alluvione a Carrara e Ortonovo. Nessun morto, ma molti danni per l’esondazione di torrenti. Intere zone allagate.

12 NOVEMBRE 2012. È di sei vittime il tragico bilancio di un’alluvione in Toscana. La zona più colpita è quella di Grosseto, dove alcuni torrenti e il fiume Albegna straripano. Frane, sfollati e zone isolate anche in altre zone della Regione.

11 NOVEMBRE 2011. Forte alluvione a Massa e Carrara. Una persona muore colta da malore a causa dell’allagamento della sua abitazione.

22 NOVEMBRE 2011. Un’alluvione mette in ginocchio Barcellona pozzo di Gotto, Meri e Saponara. Proprio a Saponara tre persone vengono inghiottite dal fiume di fango che si abbatte sulla frazione di Scarcelli. Il più piccolo delle vittime aveva appena dieci anni, Luca Vinci. Uccisi dalle tonnellate di fango anche Luigi Valla e Giuseppe Valla, padre e figlio, rispettivamente di 55 e 28 anni.

4 NOVEMBRE 2011. Sei persone perdono la vita nel nubifragio di Genova. Un’autentica ondata di fango si abbatte sulla città e in particolare nelle zone adiacente al rio Fereggiano e allo Sturla.

25 OTTOBRE 2011. Dodici vittime nell’alluvione che devasta lo spezzino e la lunigiana. Le Cinque terre vengono messe in ginocchio: tra i comuni più colpiti Monterosso al mare, Vernazza, Pignone, Rocchetta di Vara. In Toscana, danni pesanti ad Aulla, Pontremoli e Villafranca.

2 OTTOBRE 2009. Scaletta Zanclea, Santo Stefano Briga, Giampilieri e Messina sud vengono ridotte in ginocchio da frane, crolli e allagamenti. Giampilieri viene devastata. Nel piccolo comune frana infatti un intero costone roccioso. Il bilancio delle vittime è pesantissimo: 37 morti, tantissimi i feriti, oltre mille sfollati e danni per milioni di euro. Strade e case invase dal fango, interi viali allagati, auto sommerse dai detriti.

3 LUGLIO 2006. Un violento nubifragio si verifica a Vibo Valentia, dove nel giro di pochi minuti la pioggia invade il centro e la zona marina di Vibo Valentia. I morti sono quattro, tra cui un bambino di 15 mesi.

9 SETTEMBRE 2000. Alluvione a Soverato. L’ondata assassina arriva poco prima delle 5 e sorprende nel sonno tutto il campeggio de ’Le Giarè, dove insieme ai turisti c’erano tanti disabili organizzati in una specie di colonia. Il bilancio è di 12 morti. Il teatro della tragedia è il camping Le Giare, alle porte dei Soverato, una trentina di chilometri da Catanzaro lungo la jonica.

I colpevoli dell’alluvione di Genova, scrive Domenico Ferrara. Vi pare normale che un’opera pubblica di messa in sicurezza possa essere bloccata dalla magistratura e possa subire ritardi di anni? L’alluvione di Genova, con i danni e il morto che ha causato, invece è figlia proprio di questo. Della lentezza della giustizia amministrativa e della burocrazia macchinosa. Perché, come ha spiegato il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando – cui ha fatto eco il sindaco di Genova Marco Doria – erano tre anni che le istituzioni avevano le mani legate e non potevano disporre e attuare il completamento dell’intervento predisposto. “Questi lavori costituiscono l’intervento più importante per la messa in sicurezza del Bisagno. È prevista la sostituzione della copertura del torrente con un aumento considerevole della sezione che consentirebbe il passaggio di un flusso di acqua maggiore, scongiurando le esondazioni. Ci sono tante zone della Liguria in cui si devono fare interventi grossi e molti li abbiamo fatti, a Varazze, Borghetto, Murialdo, a La Spezia, sul Fereggiano e sullo Sturla. Ma questo sul Bisagno è il più grosso e siamo “piantati” da tre anni. Ci sono, pronti e disponibili, 35 milioni. Se li avessimo spesi e l’opera fosse stata realizzata, ieri sera avremmo salvato tante attività economiche e forse anche una vita umana”. Invece non li hanno spesi e non hanno realizzato l’opera. Perché tutto è stato bloccato da un ricorso presentato da alcune imprese in merito alla gara d’appalto. Tre anni fa vengono bloccati i lavori di messa in sicurezza e parte l’iter giudiziario. Il Tar Liguria accoglie il ricorso e azzera la gara. Passa un anno per arrivare al contro-ricorso in Consiglio di Stato. Quest’ultimo stabilisce che il Tar Liguria non era competente e passa la palla al Tar del Lazio. Che nel luglio 2014 mette la parola fine ribaltando il verdetto. Peccato che da luglio nulla è partito. E non si sa perché. E comunque ormai è troppo tardi.

A Genova il Tar uccide più dell'alluvione. È dal 7 ottobre 1970, il giorno della grande alluvione cantata da De Andrè in Dolcenera, che i genovesi ogni volta che piove più del normale sperano non succeda ancora, scrive Alessandro Rocchi su “Il Giornale”. Ne uccide più la burocrazia che le alluvioni. Sette morti in tre anni aspettando un timbro da un giudice che consenta di mettere in sicurezza Genova. Trentacinque milioni inutilizzati, il cantiere sul Bisagno fermo dal 2010. Perché? Perché la ditta arrivata seconda nell'appalto per rifare la copertura del torrente e consentire che vi passi più acqua, si è rivolta prima al Tar della Liguria, poi al Consiglio di Stato e infine al Tar del Lazio bloccando così i cantieri. In questa alluvione che ha devastato una città già piegata, molto ha fatto il maltempo eccezionale ma peggio ha fatto la politica. Neppure il tempo di piangere l'ennesimo morto ed è già partito lo scarico di responsabilità. Il sindaco Marco Doria, principe rosso un po' «Forrest Gump» un po' professore, ricordando quanto accaduto al suo predecessore Marta Vincenzi, a processo per i sei morti del Fereggiano, ha gettato sulla Regione la colpa del mancato allarme. E pazienza se da giorni la città sembra battuta dai monsoni. Un sindaco talmente tranquillo da essere seduto in prima fila al teatro Carlo Felice mentre a un chilometro di distanza la sua città finiva sott'acqua. Il presidente della Regione, Claudio Burlando, un volpone della politica che da decenni, su poltrone diverse, impera su Genova, accusa i modelli matematici usati dalla società regionale di previsioni meteo che ha lanciato l'allarme ieri, 12 ore dopo il disastro. È dal 7 ottobre 1970, il giorno della grande alluvione cantata da De Andrè in Dolcenera , che i genovesi ogni volta che piove un po' più del normale, guardano su e sperano non succeda ancora. Quarantaquattro anni di immobilismo, di tentativi abortiti, di deviatori pensati, disegnati e mai realizzati perché magari avrebbero scaricato in mare dove ora c'è uno stabilimento balneare di gran moda. Quasi mezzo secolo a parlare, scrivere, sognare progetti bellissimi come l'affresco per il porto presentato da Renzo Piano la settimana scorsa. Tratti appena accennati per un progetto - ironia tragica - che vuole avvicinare ancor più la città al suo mare, all'acqua. Una vita a chiedere soldi, a ipotizzare lavori, ma fermi sempre sulla stessa piastrella. E quando finalmente qualcosa si è mosso con il progetto per mettere in sicurezza il Bisagno, il torrente che sembra un fiume e scorre accanto a case, scuole, stadio, perfino il cimitero, ecco la burocrazia a rallentare tutto. Una prima parte dei lavori, quella verso la Foce è stata fatta, ma quando bisognava fare il resto per non rendere inutile lo sforzo, ecco lo stop, i cavilli. Giudici amministrativi attenti a rispettare i loro tempi, le loro ferie, a consultare i loro libri, che non possono fare prima, impiegare meno di tre anni per dire un sì o un no. E se qualcuno nel frattempo muore, sicuramente la colpa è stata e sarà della pioggia.

I lavori per la messa in sicurezza del Bisagno sono stati bloccati da tre sentenze del Tar. E’ tempo di cercare colpe e responsabilità a Genova, il giorno dopo l’alluvione che ha messo in ginocchio la città, facendo anche una vittima. Intanto la Procura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo per la morte di Antonio Campanella, scrive "Blitz Quotidiano". L’imputato principale è il torrente Bisagno, che ha rotto gli argini inondando parte dell’abitato. Ma il torrente Bisagno doveva essere messo in sicurezza da tempo e, scrive Sergio Rame sul Giornale, qualcuno ha bloccato quei lavori: Da tre anni i lavori per la messa in sicurezza del torrente Bisagno nella zona della Foce sono bloccati. Ben tre sentenze amministrative – del Tar Liguria, del Consiglio di Stato e del Tar Lazio – hanno, infatti, paralizzato l’intervento. È a causa del Tar che il torrente Bisagno scorre all’aperto fino alla zona di Borgo Incrociati, dove si incanala in un tunnel sotterraneo per poi finire in mare, alla Foce.

Un ritardo che ha mandato su tutte le furie il governatore ligure: “Questi lavori costituiscono l’intervento più importante per la messa in sicurezza del Bisagno – tuona il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando – eppure le tre sentenze amministrative hanno affermato ognuna il contrario dell’altra”. Da progetto è prevista la sostituzione della copertura del torrente con un aumento considerevole della sezione in modo da consentire il passaggio di un flusso di acqua maggiore scongiurando le esondazioni a Borgo Incrociati. I 35 milioni di euro necessari all’intervento sono pronti e disponibili. “Se li avessimo spesi e l’opera fosse stata realizzata – conclude Burlando – ieri sera avremmo salvato tante attività economiche e forse anche vita umana”.

Sotto accusa però non ci sono solo i giudici amministrativi. Scrive Rame che anche la Protezione Civile potrebbe avere le sue gatte da pelare, con l’accusa di non aver lanciato in tempo l’allerta: Nell’ambito degli accertamenti, il procuratore di Genova Michele Di Lecce che, insieme al pm Gabriella Dotto, intendono chiarire “per quale motivo i cittadini genovesi non sono stati allertati dagli organi preposti sulle reali condizioni meteo”. Dovrà essere, dunque, chiarita la causa della “totale assenza di comunicazione”. Sotto la lente dunque gli organi della Protezione Civile. Proprio domani si sarebbe dovuta inaugurare la nuova sala di Protezione Civile con il piano per prevenire ciò che è avvenuto nella notte. Alcuni residenti delle zone più colpite dall’alluvione hanno contestato la protezione civile perché non avrebbe preso per tempo i provvedimenti necessari limitandosi a emanare un avviso per possibili temporali.

A questo proposito, anche il sindaco Marco Doria tenta di scaricare le responsabilità lontano dal Comune: “Non doveva essere il Comune a lanciare l’allerta meteo dopo cinque giorni di pioggia – tuona il sindaco di Genova, Marco Doria, ai microfoni di SkyTg24 – il Comune di Genova, in assenza di una allerta meteo, aveva comunque alcune pattuglie sul territorio per monitorare la situazione”.

“Noi facciamo ciò che la legge prevede che dobbiamo fare” dice il giudice Giuseppe Caruso, presidente della Seconda sezione del Tar Liguria, intervistato da Giuseppe Filetto di Repubblica. È il magistrato che ha seguito il contenzioso relativo alla modifica della copertura del Bisagno, il torrente che nel ’70 fece 44 vittime e che negli ultimi tre anni è esondato due volte. Un appalto da 35 milioni di euro che dovrebbe consentire una portata di 850 metri cubi di acqua al secondo.

Il premier Matteo Renzi ritiene «sconcertante che le opere pubbliche siano bloccate dalla burocrazia».

«Il giudice fa rispettare le regole. Regole che si dà la stessa amministrazione appaltante, con l’emanazione dei bandi di gara».

In molti però lamentano che spesso i giudici si sostituiscano agli amministratori.

«Non stabiliamo noi chi deve vincere una gara o meno. Se poi arrivano dieci ricorsi, non possiamo fare altro che valutarli».

In generale, si dice che i ritardi nelle opere pubbliche siano dovuti ai procedimenti che si fermano al Tar.

«Nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 ho detto che il Tar è l’estremo soggetto che compare alla fine dello spettacolo, come ultimo attore, e si prende pure i fischi. Ma posso affermare che noi, come Tar Liguria, evadiamo i procedimenti entro un anno, un anno e mezzo: senza dubbio, per i singoli appalti, sono tempi inferiori a quelli di tutta Europa, perfino più celeri di Francia e Germania. Non lo dico io, ma i dati inconfutabili. Se poi qualcuno vuole fare demagogia, la faccia pure».

Secondo lei, per gli appalti del Bisagno, un’opera urgente e fondamentale, non sono troppi tre anni?

«La decisione del Tar Liguria è di oltre un anno fa, dopo il ricorso presentato nel luglio 2012 da dieci ditte (su quindici partecipanti) escluse dalla gara. Secondo le motivazioni di chi ha fatto l’appalto, non avrebbero potuto partecipare alle varianti. Le loro offerte non potevano essere ammesse, poiché avrebbero comportato modifiche ai progetti. Abbiamo chiesto una consulenza agli esperti del Politecnico di Milano: ci hanno detto che le varianti erano necessarie. Perciò abbiamo accolto il loro ricorso».

L’avvocato Daniele Granara, che assiste diverse associazioni ambientaliste, fa notare che «i provvedimenti non sono mai stati sospesi, né dal Tar né dal Consiglio di Stato, e gli amministratori, se avessero voluto, avrebbero potuto iniziare i lavori». E però, in pendenza di ricorso, si è fermato tutto in attesa che si pronunciassero il Tar Liguria, il Consiglio di Stato, il Tar Lazio… Non è un iter un po’ troppo lungo?

«Nel caso in questione, c’è stato un problema di competenze su una vicenda molto complessa. Devo ammettere che se non ci fosse stato, sarebbe stato meglio. Purtroppo, non è andata così».

Come è andata?

«Prima della sentenza di primo grado del Tar Liguria nessuno aveva eccepito le competenze. Dopo il nostro provvedimento, che ha accolto il ricorso delle ditte escluse dalla gara, il Consiglio di Stato ha stabilito che la competenza non è più nostra, ma del Tar Lazio. Parliamo di un’opera realizzata in Liguria dalla Regione Liguria. La sentenza può essere discutibile, ma deve essere rispettata».

“Mi chiedo a cosa sono servite le morti delle mie bambine, di mia moglie. Nulla, a nulla. Odio Genova, è una città condannata. Ogni volta che piove si muore. E nessuno può farci nulla". Flamur Djala ha perso le figlie Gioia e Gianissa e la moglie Shpresa nell'alluvione del 4 novembre 2011. Sono state travolte dal torrente e scaraventate in un sottoscala pieno d’acqua di una palazzina dove hanno trovato una morte terribile insieme ad altre due mamme. Da allora, però non è stato fatto niente. Il suo sfogo è riportato dal Corriere della Sera. A distanza di quasi tre anni, un'altra alluvione ha messo in ginocchio la città e ucciso un uomo. Flamur vive sempre nella casa vicina a via Fereggiano, con Juri e l’altro fratello Andrea, che non lo lasciano mai solo. "Fosse per me non ci sarei più, sarei da un’altra parte. Vado avanti per loro. Abbiamo viaggiato tanto in questi anni, dalla nostra Scutari alla Grecia fino a qui. Sempre insieme. Non posso abbandonarli". Per Flamur, che tre anni fa ha perso tutto, "è una maledizione", "ogni volta è uguale all’altra". Fango ovunque, case allagate, macchine accartocciate: e ancora morte.

"Le mie fabbriche devastate per la seconda volta in 3 anni". I danni subiti dal capoluogo ligure ancora più pesanti di quelli del 2011, scrive Antonio Borrelli su “Il Giornale”. Come si può continuare a vivere in un'Italia così, dove non il maltempo ma soprattutto la burocrazia devasta e uccide? È la disperata domanda che pongono i genovesi in queste ore. È anche l'urlo di rabbia di un settore commerciale pugnalato al petto per l'ennesima volta e ormai sfiancato. «Per noi le sensazioni peggiori si hanno dopo. È nei giorni successivi, quando le strade vengono ripulite dal fango, che inizia il vero dramma. Sembra che tutto torni come prima, come se nulla fosse successo. È in quel momento che gli esercenti vengono lasciati soli a sé stessi, in balìa del proprio destino». A parlare è Roberto Panizza, imprenditore nel settore della gastronomia e produzione di pesto genovese. La sua è un'impresa in forte espansione, che parte dal mercato locale per affacciarsi oltre confine. Oggi ha cinque aziende, di cui quattro aperte negli ultimi 4 anni, tutte a Genova. Ma oggi sono tutte sommerse da acqua e fango o con danni. La conformazione urbana della città ha fatto sì che alcune fossero condannate dall'alluvione, altre venissero parzialmente risparmiate. «Stiamo ancora valutando i danni - continua Panizza - ma parliamo di 350 mila, 400 mila euro da sborsare». Il manager e i suoi collaboratori c'erano già passati, così come tutti i proprietari di attività nell'area: «Dopo l'alluvione del 2011 chiudemmo per un mese, facemmo gli interventi di ristrutturazione e acquistammo nuovi macchinari, per una spesa complessiva di circa 150 mila euro. Quest'anno andrà decisamente peggio, la situazione è molto più grave, il Bisagno ha davvero portato con sé di tutto». Questa volta, però, le Istituzioni dello Stato non possono essere risparmiate e tutto il sistema è sotto accusa. «Nel 2011 ci dissero che erano stati stanziati 30 milioni di euro. In verità bruscolini, ma quantomeno sarebbero stati fatti gli interventi primari e oggi non saremmo in questa situazione drammatica. Ma non sono mai arrivati«. Sì, perché ancora una volta qualcosa si è inceppato in quella macchina arrugginita chiamata burocrazia che non riesce ad essere oliata nemmeno nei casi di catastrofi naturali. Con le dovute proporzioni da caso a caso, la situazione di Panizza è emblematica, comune a tutti i commercianti genovesi e liguri colpiti dal cataclisma. La Confcommercio conferma al Giornale che le conseguenze saranno peggiori di 3 anni fa. Da una stima parziale si parla già di 1700 tra imprese ed esercizi colpiti, nel 2011 furono 1300. Migliaia di lavoratori sul lastrico ed altrettante famiglie che stanno perdendo tutto in poche ore. Per conservare ancora speranza e dignità, i negozianti si sono addirittura inventati i «saldi del fango». Nei mercatini si trovano scarpe, biancheria per la casa, abiti infangati ma a basso costo. Un'economia che sta crollando. Tre anni fa l'intero indotto del commercio subì un danno complessivo di 100 milioni di euro, questa volta la confederazione dei commercianti ne ha stimati già 140. Milioni che forse mai arriveranno, bloccati ancora una volta nella ruggine del sistema.

Il sindaco di Genova, Marco Doria, è stato pesantemente contestato dai commercianti del centro storico durante un sopralluogo alle zone alluvionate. «Pagliacci, ancora parlate, dimezzatevi gli stipendi», hanno detto i commercianti. «Prendi la pala e pulisci», ha detto un altro. Il sindaco è stato anche offeso. «Vai a casa gli è stato detto», scrive “Il Corriere della Sera”. Vicino al sindaco anche la polizia. Nonostante le offese ricevute e le accuse il sindaco continua a incontrare i commercianti che gli hanno anche detto: «Non pulite neppure i tombini». Un giovane gli ha urlato: «Se fossi stato il sindaco mi sarei incatenato a Roma, la gente è rovinata e voi la Tasi la mandate comunque a Roma. Siete spazzatura». Altri gli hanno gridato: «Hai paura? Verrà anche il momento che prenderete gli schiaffi». Un commerciante anziano, che ha subito diverse alluvioni, lo ha implorato: «Fate qualcosa».Alcuni commercianti di via Bobbio, in Val Bisagno, colpita dall’esondazione del torrente, hanno ammassato in strada le merci deteriorate dall’acqua e altre macerie sgomberate dai loro negozi, formando delle barricate per protesta nei confronti delle istituzioni. Le macerie hanno bloccato il traffico. È intervenuta la polizia per garantire l’ordine. Infine, sono state fatte intervenire due ruspe che hanno liberato la strada.

Alluvione, urla e fischi contro il sindaco: "Vai a casa". Marco Doria incontra i negozianti alluvionati del centro. Una pioggia di insulti lo sommerge: 'Pagliacci. Vieni anche tu a spalare'. Barricate per la strada e lancio di bottiglie contro i vigili urbani, scrive Bruno Persano su “La Repubblica”. I commercianti contestano il sindaco di Genova I commercianti alluvionati sono esasperati. Quando il sindaco di Genova scende in strada e li incontra nelle strade del centro, scoppia la rivolta: "Pagliacci, ancora parlate, dimezzatevi gli stipendi", gli gridano dietro i negozianti del centro. "Prendi la pala e pulisci", ha detto un altro. Vai a casa. Lo accusano, i negozianti, di non averli avvisati dell'imminente alluvione. Scortato dala polizia, il sindaco continua il sopralluogo: visita il mercato Orientale, via Colombo, le traverse di via XX Settembre sommerse da uno strato di fango. Parla con la gente ma ottiene come risposta solo critiche e insulti: "Non pulite neppure i tombini". Un giovane gli urla: "Se fossi stato il sindaco mi sarei incatenato a Roma, la gente è rovinata e voi la Tasi la mandate comunque a Roma. Siete spazzatura". Altri gli gridano: "Hai paura? Verrà anche il momento che prenderete gli schiaffi". Un commerciante anziano, alla sua terza alluvione, lo implora: "Fate qualcosa". Contro l'amministrazione  la città è inferocita. I genovesi accusano il Comune e la protezione civile di non averli avvertiti dell'iminente alluvione. Nessun messaggio di allerta è stao diramato nelle ore precedenti alla bomba d'acqua. Il primo e unico avviso è stato lanciato per sms, e solo ai cittadini iscritti al sistema di allarme telefonico, alle 23.19. Annuciava di "prestare massima attenzione nella zona della val Bisagno", mentre il torrente era già esondato e un uomo era affogato  travolto dalla furia delle acque. La rabbia della gente era già esplosa la mattina successiva all'alluvione, in via Fereggiano, dove appena tre anni fa sono morte sei persone per lo straripamento del torrente. La gente se l'era presa contro i vigili urbani che nell'occasione rappresentavano il Comune. Insulti, manate sulle carrozzerie delle auto della municipale, il lunotto di un furgone dei vigili infranto dal lancio di una bottiglia. E ieri sera in via Bobbio, a Staglieno, la rabbia è esplosa ancora. Un centinaio di commercianti e residenti hanno rovesciato sulla strada quintali di merce infangata. Sono due giorni che attendono i camion della spazzatura per liberare le case e i magazzini della spazzatura "e nessuno si è ancora visto", gridavano i genovesi contro le auto della polizia accorse per riportare l'ordine nel quartiere. "Tante promesse, nessun  mantenuta. E' ora di dire basta", ripetevano ai poliziotti.

Lo Stato è impotente. Nelle condizioni attuali, come s'è visto giovedì a Genova, non è in grado di tutelare le vite dei cittadini. E la Protezione civile è senza mezzi, è come se mi avessero mandato sul fronte con una scatola di aspirine per una guerra non voluta da me". Il capo della Protezione civile è in auto in viaggio da Brescia a Milano quando risponde alle domande di Repubblica, sotto (manco a farlo apposta) un violento acquazzone. "Qui piove come dio la manda", sbotta.

Franco Gabrielli, di chi è la colpa dei morti e dei danni provocati dai disastri ambientali?

"Una previsione meteo è stata sbagliata, ma da qui a crocifiggere chi ha sbagliato ne corre. La colpa di Genova, e di tutte le calamità che stanno accadendo, è del grande deficit culturale del nostro Paese sul tema della protezione civile".

Può fare qualche esempio, magari riferito al mondo dei politici?

"Nel 2013 il governo s'è dimenticato di finanziare il Fen, il Fondo per l'emergenza nazionale. Lo ha fatto poi nel 2014 stanziando 70 milioni di euro.

Sono tanti o pochi?

"Lo sa a quanto ammontano i danni accertati per 14 delle 21 emergenze nazionali dichiarate negli ultimi tre anni?"

Lo dica lei.

"Due miliardi e 300 milioni, un miliardo e 900 i danni pubblici, gli altri subiti dai privati".

È per questo che dice che lo Stato è impotente, non in grado di tutelare le vite dei cittadini in caso di disastri provocati dal maltempo?

"Io pongo il problema che in questo Paese, a distanza di 30 mesi da quando sono stati stanziati i fondi, si stia ancora dietro alla carta bollata, quando giovedì un uomo è morto e una città è andata sotto. I 35 milioni per il torrente Bisagno, non spesi per una girandola di ricorsi dopo l'assegnazione della gara, è uno scandalo della burocrazia pubblica. In questo caso, legato ai lunghi tempi della giustizia amministrativa".

Alluvione a Genova: sperperi e appalti inutili, 20 anni di cantieri mai finiti. La catena delle responsabilità: promesse, ricorsi, pagamenti inutili e lavori mai eseguiti, scrive di Marco Imarisio (inviato del “Il Corriere della Sera”). La galleria che doveva salvare la città è diventata il magazzino delle canoe. Alle spalle del bagno Squash, nascosto alla vista dei turisti da una fila di cabine azzurre, c’è un reperto di archeologia urbana che ben rappresenta il fallimento ventennale di qualunque prevenzione idrogeologica genovese. Alla fine degli anni Ottanta l’apertura del cantiere sul mare che doveva costruire lo scolmatore del rio Fereggiano era stato benedetto anche dal vescovo, tanta era l’aspettativa per l’opera salvifica che avrebbe dovuto finalmente liberare tutti dalle insidie di quel micidiale torrente, che nel 2011 si sarebbe portato via sei vite umane e anche la scorsa notte ha fatto la sua parte nel coprire di fango interi quartieri. Il prezzo era anche modico, cinquanta miliardi dell’epoca. Oggi è una distesa di sterpaglie e fango dove non si avventura nessuno, con i primi dieci metri utilizzati come ripostiglio delle barche dei bagnanti. Qualcuno dice che ci hanno dimenticato dentro una ruspa, tanta era la fretta di chiuderlo. Il primo chilometro era quasi finito. Ne mancavano altri sei. Ma nel 1991, agli albori di Tangentopoli, finiscono in manette due assessori socialisti della giunta a forma di pentapartito guidata da Cesare Campart. L’accusa è di corruzione per l’appalto dello scolmatore. Verranno assolti entrambi, nel 2001. Il cantiere intanto si ferma. Con l’aria che tira in quegli anni, nessuno ha voglia di andarsi a cercare rogne. La chiusura ufficiale viene decretata dal commissario prefettizio Vittorio Stelo. Al suo successore, il sindaco Adriano Sansa, tocca l’ingrato compito di dare l’avvio alla liquidazione. Comincia un salasso per le casse del Comune andato avanti fino a oggi. Nove miliardi di vecchie lire, circa 4,5 milioni di euro, intascati dalle ditte vincitrici dell’appalto, pagate per non eseguire i lavori. L’ultima rata è è dell’11 giugno 2013, 624mila euro versati alla Astaldi. L’epopea dello scolmatore del Fereggiano finisce in archivio. Nel 1998 comincia quella ben più ambiziosa del Bisagno. L’allargamento delle sue volte sotterranee viene diviso in tre parti. La prima viene portata a termine, seppure con un aggravio di spesa da 20 milioni di euro da aggiungere ai 50 iniziali. L’appalto da 35 milioni per la seconda fase viene assegnato nel gennaio 2012. Le aziende uscite sconfitte dalla gara fanno ricorso al Tar della Liguria. Nell’elenco delle presunte irregolarità è citata una differenza di 2,5 centimetri nello spessore delle canne laterali tra il progetto originale e i parametri fissati dal bando. Nel 2013 la gara viene annullata. Nel 2014 viene stabilita l’incompetenza del Tar genovese. A luglio il Tar del Lazio riporta tutto alla casella di partenza decretando la regolarità della gara iniziale. Al netto di nuovi e possibili ricorsi, i lavori devono ancora iniziare. La rimozione del «tappo» che non fa dormire una città intera appartiene però alla terza parte dell’opera. Il costo previsto supera i cento milioni, al momento difficili da trovare. Senza queste due opere Genova lotta a mani nude con la sua stessa natura. Nel sottosuolo della città scorrono 107 rivi tombati sui quali si è costruito di tutto. In questa precarietà territoriale ogni acquazzone genera un errore. L’ultimo disastro ha due colpevoli dichiarati, anche se forse è ingiusto definirli in questo modo. I tecnici dell’Arpal, l’agenzia regionale dell’ambiente incaricata delle previsioni del tempo, avevano indovinato le alluvioni del 2009, 2010, 2011. «Questa non l’abbiamo beccata» hanno detto ieri a Claudio Burlando. Sono loro che alle 18 di giovedì invitano Raffaella Paita, da due mesi assessore alla Protezione civile e da molto tempo candidata alla guida della Regione, a tornare a casa tranquilla. L’Arpal non è il consueto carrozzone. Viaggia sotto organico, 15 dipendenti su una pianta che almeno in teoria ne prevede 25. Il settore di Protezione civile ed Emergenze della Regione non ha un dirigente responsabile dal febbraio 2012, ed è forse questo l’appiglio per la contesa politica destinata a crescere su quest’ultima tragedia. Il defunto scolmatore del Fereggiano è stato sostituito con un nuovo progetto. Approvato lo scorso 27 marzo, sposta la galleria principale di qualche centinaio di metri e lo porta sotto il livello del mare. I termini per la presentazione delle offerte sono scaduti venerdì, proprio il giorno dopo la nuova alluvione. Si sono fatte avanti venti aziende. Pronti a partire. Il «vecchio» tunnel doveva terminare la sua corsa sulla battigia che divide i bagni Squash e Marinetta. Oggi in quel punto sorge un campo di beach volley.

Alluvione Genova: perché la città è di nuovo allagata. L'intervista di Nadia Francalacci su Panorama con Carlo Malgarotto, presidente dell'Ordine dei Geologi della Liguria: "Tante parole, pochi fatti". Il Comune di Genova lancia un appello agli "Angeli del fango": "Le persone che intendono prestare la loro opera volontaria nelle zone colpite dall'alluvione devono rivolgersi ai 5 Municipi cittadini". L’Amministrazione comunale si sta preparando alla nuova ondata di piena del torrente Bisagno, prevista nella mattinata e alle nuove forti precipitazioni che sono state annunciate per il pomeriggio. Sono trascorsi solamente tre anni e il capoluogo ligure è piombato nuovamente nell’incubo alluvione. Proprio come nel 2011, la città è stata sommersa da metri e metri di acqua che hanno distrutto case, strutture pubbliche e seminato morte: un uomo di 57 anni ha perso la vita mentre stava aspettando l’autobus alla fermata. La tragedia che si è consumata nel 2011 non ha insegnato nulla? Sono stati effettuati interventi per evitare il ripetersi di queste inondazioni? Lo abbiamo chiesto a Carlo Malgarotto, Presidente Ordine dei Geologi della Liguria.

Quanto accaduto in queste ore è la “fotocopia” di quanto avvenuto tre anni fa. Gli enti preposti non hanno effettuato interventi mirati per scongiurare nuovi allagamenti?

«No, non sono stati effettuati interventi strutturali importanti tali da evitare o quanto meno arginare l’esondazione dei torrenti e fermare o rallentare l’arrivo a valle dell’acqua. Dopo l’alluvione del 2011, sono state organizzate solamente alcune tavole rotonde dove il comune ha preso contatto con esperti del territorio. Ma di fatto, questi incontri, non hanno portato a niente di fattivo e concreto. In sostanza molte parole, nessun fatto. Purtroppo gli alvei dei torrenti che attraversano Genova sono stati ridotti e cementificati con una urbanizzazione incontrollata che è la causa di queste inondazioni devastanti. Ma non è la sola causa».

Quali sono le altre cause?

«Purtroppo a monte, nelle zone periferiche che sovrastano Genova, esistono boschi che in realtà non sono aree boschive bensì campi abbandonati dove sono nate spontaneamente piante infestanti, acacie, che hanno ricoperto vecchi muretti a secco. Questi trattengono l’acqua inizialmente per poi rilasciarla tutta insieme creando vere e proprie “cascate” sul territorio sottostante».

Secondo lei, in che modo sarebbe opportuno intervenire sul territorio e sulla città di Genova?

«Innanzitutto sarebbe opportuno che il Comune e la Regione si sedessero allo stesso tavolo e dialogassero mettendo in campo, con i tecnici e esperti, un serio piano di interventi. Ad esempio, occorrerà prendere in seria considerazione il ripristino degli alvei originari dei fiumi. Questo potrebbe essere il primo passo concreto perché si possa evitare l’allagamento della città. Un altro intervento necessario deve essere fatto a monte, nei paesi delle aree collinari. Comuni e Regione Liguria dovrebbero cominciare a realizzare invasi e pozzi artesiani in grado di accogliere l’acqua piovana e ridurre la portata dei torrenti. L’acqua piovana raccolta in questi invasi o pozzi, potrà essere utilizzata in un periodo successivo anche dai privati per l’irrigazione dei giardini o per un qualsiasi uso domestico. Inoltre è fondamentale arare molti dei terreni che sono stati per anni coltivati ed oggi sono abbandonati. Questi terreni hanno sviluppato come “una crosta” impermeabile all’acqua che la fa scivolare a valle. Quindi occorre rendere nuovamente permeabile il terreno. Un altro “step” da fare che per altro è gratuito, è quello di instituire sul territorio dei presidi di esperti, di geologi, che costantemente monitorizzino le aree in questione e che siano in grado di sviluppare piani di intervento mirati che possono eventualmente attirare anche investitori. Un po’ come stiamo facendo in queste settimane con il Parco delle Cinqueterre».

Secondo lei quanto tempo occorrerà per sviluppare questi piani di intervento?

«Circa una decina di anni. Alcuni interventi, ripeto, sono a costo zero e si possono effettuare immediatamente con risultati sicuramente più che ottimi».

Genova alluvionata: 3 cose da fare subito. L'Ordine regionale dei geologi della Liguria: spostare le abitazioni o almeno ridurre le acque in arrivo e fare un nuova legge di difesa del suolo, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. In Liguria il 98% dei comuni ha parte del territorio a rischio idrogeologico per un totale di circa 100mila persone che vivono in "zone rosse''. Sono i dati elaborati da Coldiretti dopo l'ondata di maltempo che ha colpito per la seconda volta in tre anni, la Liguria e Genova. Ma il pericolo frane e smottamenti non riguarda solo la Regione Liguria ma l'intera penisola dove ci sono ben 6633 comuni con aree a rischio idrogeologico (l'82% del totale) e con oltre 5 milioni di cittadini che vivono o lavorano in aree considerate ''pericolose per frane ed alluvioni''.''A questa situazione - denuncia la Coldiretti - non è estraneo il fatto che un modello di sviluppo sbagliato ha tagliato del 15% le campagne e fatto perdere, negli ultimi 20 anni, 2,15 milioni di ettari di terra coltivata determinante nel mitigare il rischio idrogeologico”. “Ogni giorno - conclude la Coldiretti - viene sottratta terra agricola per un equivalente di circa 400 campi da calcio (288 ettari) che vengono abbandonati o occupati dal cemento che non riesce ad assorbire la violenta caduta dell'acqua''. Abbiamo intervistato Carlo Malgagrotto , Presidente dell’Ordine Regionale dei Geologi della Liguria, chiedendo quali sono le tre cose da fare urgentemente per salvare Genova e la riviera ligure. Unica soluzione per avere il rischio zero è spostare fisicamente i fabbricati in area non esondabile, lasciando finalmente liberi i torrenti e fiumi. "Sembra una “mission impossibile” ma l'uomo ne sa fare anche di più difficili. Inoltre in tutta Europa si demoliscono e ricostruiscono interi quartieri, possiamo farlo anche qui" dice Malagrotto. Se non si interviene sui fabbricati, allora bisogna necessariamente ridurre il quantitativo di acque che arriva. "Bisogna partire dalle colline, cercando di trattenere l'acqua per ritardarne l'arrivo e diluire nel tempo la piena riducendo l'altezza dell'acqua, non essendoci lo spazio per grandi aree di laminazione bisogna necessariamente pensare a tanti piccoli interventi, a partire da vasche di raccolta delle acque dei tetti, alla verifica e sistemazione delle strade, all'incentivazione della manutenzione delle aree incolte, al vero presidio idrogeologico del territorio, fatto da geologi e non da vigili urbani come adesso (con tutto il rispetto per i vigili urbani che però fanno un altro lavoro), fondamentale è sedersi insieme a un tavolo, politici e tecnici e trovare le soluzioni senza compromessi, non si può più aspettare. Questi tavoli tecnici possono evidenziare anche altre soluzioni, qui ho riportato “a caldo” le prime idee", illustra il presidente. Serve senza dubbio una nuova legge di difesa del suolo, "che abbia la capacità anche di rendere operative subito le proprie disposizioni, la Commissione Difesa del Suolo del Consiglio Nazionale dei Geologi e degli Ordini Regionali dei Geologi, che ho l'onore e onere di coordinare, sta redigendo una proposta di legge in tal senso, scritta e pensata da chi il territorio lo conosce davvero, nel suo intimo", conclude Malagrotto.

Dopo l'ennesima alluvione verificatasi questa notte a Genova, la Cgia torna a denunciare ancora una volta lo "scandalo" dell'utilizzo delle imposte ambientali pagate dai contribuenti italiani, scrive “LaPresse”. Soldi, è bene ricordarlo, che le Amministrazioni pubbliche dovrebbero impiegare per finanziare la realizzazione delle opere di protezione ambientale: invece, da più di venti anni vengono quasi totalmente utilizzati per "coprire" altre voci di spesa. Denuncia il segretario della CGIA, Giuseppe Bortolussi: "Spesso ci sentiamo dire che questi disastri si verificano anche perché non ci sono le risorse per realizzare gli interventi di manutenzione del territorio e di messa in sicurezza dei corsi d'acqua. Purtroppo, le cose non stanno così. Nel 2012 le imprese e le famiglie italiane hanno versato all'Erario, alle Regioni e agli Enti locali la bellezza di quasi 47,2 miliardi di euro di tasse ambientali. Di questo importo, solo 463 milioni di euro, pari allo 0,98 per cento, sono stati destinati alle attività di salvaguardia ambientale per le quali sono state introdotte, vale a dire le opere e gli interventi per la messa in sicurezza del nostro territorio. I rimanenti 46,7 miliardi, invece, sono stati impiegati per altre finalità". Purtroppo, questa situazione si trascina dall'inizio degli anni '90. "Si pensi che in più di 20 anni - conclude Bortolussi - gli italiani hanno versato ben 847,3 miliardi di euro di tasse verdi: ebbene, solo 7,3 miliardi sono stati effettivamente destinati alla protezione dell'ambiente. Un'anomalia tutta italiana che qualcuno, soprattutto dopo l'ultima calamità accaduta a Genova, dovrebbe, almeno politicamente, darne conto". E' bene che i contribuenti sappiano che tutta quella sequela di imposte spesso sconosciute che "sborsano" quando fanno il pieno all'autovettura e quando pagano la bolletta della luce o del gas/metano, il bollo dell'auto o l'assicurazione dell'auto, non vanno a sostenere le attività di salvaguardia ambientale per le quali sono state introdotte, bensì a finanziare altre voci di spesa.

A Genova il fallimento di un’intera classe dirigente, scrive Carlo Stagnaro per leoniblog.it riportato da “L’Intraprendente”. Purtroppo ci sono disastri destinati a rimanere senza colpevoli. L’alluvione di Genova, che ancora una volta ha ucciso, appartiene a questa categoria. Ciò non significa che non vi siano responsabilità profonde e diffuse. Naturalmente ci saranno inchieste e accuse, ma sarebbe ingiusto imputare il disastro, del tutto o prevalentemente, al sindaco o al presidente della regione o al prefetto o a chi volete voi. La principale causa della tragedia – che avrebbe potuto essere anche molto più grave se la furia della pioggia si fosse scatenata di giorno anzichè di notte – è l’acqua caduta dal cielo, con intensità e per una durata del tutto eccezionali. Stante la situazione genovese, era fisiologico che le onde di piena uscissero dal letto dei torrenti e combinassero dei guai. Quello che non era e non è fisiologico è, piuttosto, qualcos’altro, che non è riconducibile a specifici individui, ma che dipende da una responsabilità condivisa dalle classi dirigenti regionali e cittadine degli ultimi decenni. Quello che non era e non è fisiologico, cioè, è il sistematico fallimento dell’intera catena della prevenzione e gestione del rischio idrogeologico. Partendo dal fondo e andando a ritroso, gli allagamenti sono avvenuti nella totale assenza di misure di crisis management; è mancata la capacità di anticipare quello che sarebbe stato un evento estremo e di lanciare gli opportuni allerta; la manutenzione degli alvei dei torrenti e dei versanti sulle alture è stata assente; e soprattutto, come ha scritto il direttore del Secolo XIX, Alessandro Cassinis, sull’edizione di ieri del quotidiano ligure, resta l’amaro in bocca per il fatto che “tre anni dopo l’alluvione del 2011 non è cambiato nulla”. La situazione sarebbe ancora peggiore se un enorme aiuto non fosse arrivato dall’unico vero servizio pubblico che ha garantito continuità e granularità delle notizie: la stampa locale e soprattutto l’emittente televisiva (privata) Primocanale, che con le sue dirette è diventata la principale fonte d’informazione cittadina (complimenti e grazie a Luigi Leone, Mario Paternostro, Francesca Baraghini e a tutti i loro colleghi). Tutto ciò, ripeto, non è “colpa” di questo o di quello, se non nella misura in cui questo e quello sono stati complici dello dello status quo e non sono riusciti a cambiare le cose, raddrizzando tutto quello che è andato storto. Anche a prescindere dall’efficacia dell’allarme e dunque della risposta, va da sè che l’impressionante sequenza di alluvioni che hanno investito Genova negli ultimi decenni denuncia la totale assenza della prevenzione del rischio idrogeologico. Che la copertura del Bisagno – e degli altri torrenti che attraversano la città – sia una bomba pronta a esplodere ogni tre per due lo sanno anche i sassi, e lo sanno virtualmente da sempre. Perchè, allora, non si fa niente? Le risposte standard sono due, entrambe vere ed entrambe, al tempo stesso, false: troppa burocrazia e pochi soldi. La burocrazia è, evidentemente, una piaga. Gli stessi lavori che finalmente avrebbero dovuto mettersi in moto dopo l’evento del 2011 sono tuttora fermi al Tar. Questo non è un problema di Genova, ma un problema italiano: il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, lo ha detto senza mezzi termini. L’idea che i soldi siano stanziati, i progetti approvati, e che la città sia ostaggio della magistratura fa ribollire il sangue, all’indomani della tragedia. Ma – e questo è il dramma – appariva perfettamente tollerabile fino al giorno prima. Anzi, più che tollerabile: voluta e inseguita, se è vero come è vero che ogni volta che si muove una ruspa nasce un comitato di cittadini, naturalmente preoccupati per l’ambiente, pronti a sdraiarsi sulla strada e avviare cause infinite. Per giunta, è necessario fare uno sforzo e restare freddi: un anno o tre anni di ritardo sono una piccola frazione dei trenta o quarant’anni passati invano, nella consapevolezza dei rischi esistenti, e nell’assenza delle opere che avrebbero potuto – se non risolvere – quanto meno ridurre i rischi. Perché anche questo va detto: Genova è costruita come è costruita, per una molteplicità di ragioni e in virtù della sua storia. Quindi, o si radono al suolo interi quartieri (per inciso: il condominio maledetto di via Fereggiano 2, dove persero la vita 5 persone nel 2011, è  ancora, ovviamente, al suo posto, e anche giovedì notte, ovviamente, è andato sott’acqua). Oppure bisogna convivere con un rischio che può solo essere gestito. Per esempio realizzando il canale scolmatore di cui si parla da decenni. Il che conduce al tema dei soldi. Certo, mancano i soldi: o, almeno, mancano se si pensa di cavarli dal nulla dall’oggi al domani (e speriamo che il governo riesca a trovare qualche finanziamento, perchè altrimenti ogni anno continuerà a essere un tiro di dadi). Ma i soldi non mancano oggi: mancano sempre. La scomoda verità è che i soldi non è che non ci fossero: è che sono stati spesi altrove, dando (legittimamente) la priorità ad altre spese. Quali? Basta guardare il bilancio del comune di Genova (o, se è per questo, della regione Liguria) per avere la risposta. Genova e la Liguria non hanno capacità di investire nel territorio perchè da anni hanno abdicato a questo ruolo, preferendo utilizzare ogni euro disponibile per mantenere giganteschi centri d’impiego scarsamente produttivi. Per fare un solo esempio: le società partecipate dal comune di Genova, Amt e Aster in primis, sono carrozzoni succhiasoldi che potrebbero svolgere (meglio) le stesse funzioni a un costo significativamente inferiore. Parte della differenza avrebbe potuto essere usata per finanziare le opere necessarie. Il caso dell’Arpal è eloquente. L’agenzia è sotto accusa per non aver saputo prevedere la tempesta o, meglio, per l’incredibile tiramolla “lancio-o-non-lancio-l’allarme” che si è trascinato per tutta la giornata di giovedì, concludendosi con un messaggio tranquillizzante a poche ore dall’Apocalisse (la vicenda è ricostruita oggi sul Secolo da Daniele Grillo e Matteo Indice). Onestamente non so se si tratti di un’accusa sostenibile: non ho le competenze per valutare i modelli utilizzati. Quello che però è evidente è che Arpal è una struttura che come minimo si contraddistingue per una pessima organizzazione del lavoro. Qualche amico mi dice che sia sotto organico: forse è vero, forse servirebbe “sangue fresco”. Ma certamente non manca sangue ben retribuito: Arpal, che ha ricavi per circa 26 milioni di euro e perdite per 1,2, ha spese per il personale pari a circa 16 milioni, di cui grosso modo un terzo serve a remunerare 49 dirigenti (ringrazio Alessandro Pitto per la segnalazione). Tali dirigenti avranno pure eccellenti competenze professionali, ma faticano a far filare la macchina: o almeno così pare a guardare il tasso di assenteismo del 21%, con punte in alcuni uffici del 50%. Uno dice: sì, ma che ci fai coi 5, 10 o 20 milioni di euro annui che potresti risparmiare? Sono poca roba, rispetto all’enormità degli investimenti richiesti. Vero. Ma a) una seria spending review su tutte le partecipate e gli stessi enti pubblici potrebbe far emergere molto più di questo, e soprattutto b) 5, 10 o 20 milioni sono probabilmente pochi, ma l’integrale di 5, 10 o 20 milioni all’anno per 5, 10 o 20 anni fornisce esattamente quelle risorse che sono mancate e che oggi vengono (inevitabilmente e persino giustamente) chieste a Roma. Allora la triste verità di Genova è che qui si è preferito pagare stipendi a fare investimenti, nascondendosi ogni volta dietro un dito di per sé perfettamente ragionevole, all’apparenza. Ma il risultato di questa prolungata politica di elargizione è che oggi la città (e, invero, la regione: l’entroterra è una teoria ininterrotta di frane) è del tutto impreparata ad affrontare l’emergenza, e l’emergenza stessa coincide con la normalità. Purtroppo, vale quello che valeva tre anni fa: shit happens, bisogna esserne coscienti e sapere che non ci si può fare nulla. Ma c’è molto che possiamo fare per limitarne le conseguenze, e l’aver sistematicamente dato la precedenza sugli investimenti a spese correnti di dubbia utilità è un clamoroso fallimento collettivo delle classi dirigenti genovesi e liguri.

FATEVI AMICO UN LIGURE.

Con precise informazioni condite di vivace ironia, Claudio Paglieri - scrittore e giornalista del quotidiano genovese Il Secolo XIX - ci conduce alla scoperta della sua regione, la Liguria, ma soprattutto della gente che la abita. Il libro - sottotitolo ossimorico Guida ai migliori difetti e alle peggiori virtù - esce nella collana «Le guide xenofobe» dell'editore Sonda di Casale Monferrato (Al). L'autore si diverte a descrivere un popolo che conosce bene. I Liguri sono gente di montagna, più che di mare, quanto meno per il carattere: introversi, diffidenti, brontoloni e, ovviamente, tirchi. Luoghi comuni? Paglieri, che è ligure doc, sembra assecondare la vulgata, offrendo dati storici e antropologici a suffragio delle sue divertite tesi. Anche se - si trova ad ammettere a un certo punto - «nonostante tutto vale la pena riuscire a farsi amico un ligure: occorreranno anni di fatica e duro lavoro e nonostante i vostri sforzi il ghiaccio potrebbe non sciogliersi mai: ma se dovesse infine succedere, il ligure vi regalerà un'amicizia davvero speciale, profonda, mai fasulla».

"Gliela faremo pagare carissima". E' il lapidario commento, un po' avaro di parole senza dubbio, di Antonio Ricci, il papà del popolarissimo Gabibbo e creatore di fortunati programmi (da Drive In a Striscia la notizia) per le reti Fininvest, scrive Enzo Mastrorilli su “Il Corriere della Sera”. Oggetto dell'ira di Ricci è la battuta con cui Didi Leoni, giornalista del Tg5, nell'edizione delle 13, ha concluso la notizia dell'apertura al pubblico della "Lanterna", la torre faro simbolo di Genova, che festeggia i 500 anni: "L'ingresso è ovviamente gratuito, conoscendo la proverbiale tirchieria dei genovesi". Aggiunge Ricci, tra il serio e il faceto, nella sua replica: "I liguri non sono tirchi, ma molto vendicativi. Sono una mafia vera: da tutti i punti vitali ne spunta uno. Al momento non mi viene in mente nessuna rappresaglia particolare, ma gliela faremo pagare. Carissima". Più soft la replica di Adriano Sansa, sindaco di Genova: "Questi stilemi hanno qualcosa di vero. Ogni città, come ha il suo dialetto, ha anche la sua caratteristica. Genova ha la parsimonia, dovuta alla tradizione di città di mare e di mercanti abituati a valutare con oculatezza il bene della moneta. Contemporaneamente, però, occorre rammentare anche che è stata la città, nella storia, che vanta il primato per ospedali e ospizi: un tratto di civiltà non da poco. Con il ministro dei Beni culturali siamo saliti in cima alla Lanterna e Paolucci ha ricordato, osservando la città dall'alto, che Genova è stata una capitale d'Europa e che questo lo si vede ancora oggi per la sua struttura che è militare. Dal porto container di Voltri a ponente, alla città vecchia, al porto delle crociere e dei traghetti, e così via". E il primo cittadino della "Superba" conclude: "Non so se per visitare il faro si dovrà in seguito pagare il biglietto, ma resta il fatto che da là in cima si gode di una vista... impagabile. Comunque sarà bene che tutti ricordino che Genova è una città ospitale, viva e di grande cultura (tra l' altro, la stagione del teatro "Carlo Felice", uno tra i più grandi e belli, s'inaugura con la "Traviata"), e per niente taccagna o tirchia, che dir si voglia".

LA TRIBÙ, articolo di Gianni Silvestri tratto da "Il Giornale" di Giovedì 9 marzo 2006. Il vero genovese d’oggi? Desidera soltanto che il suo nemico perda. Riflessioni sul popolo genovese. L’individualismo esiste come non mai e inevitabilmente porta alla disastrosa cultura del «maniman». La discussione avviata sul Giornale da alcuni lettori, sull'odierna esistenza di un popolo ligure e, in caso affermativo, se questo popolo può essere considerato una nazione meritevole di indipendenza all'interno del territorio italiano, se esiste una identità ligure ed altre dotte questioni che investono le nostre tradizioni, mi ha fatto sorgere la necessità di esprimere alcune considerazioni su Genova ed i genovesi che da tempo mi corrono per la mente. Molte di queste mie riflessioni potranno forse apparire un poco severe o immeritate ma sono sempre stato convinto che sia meglio dire pane al pane che avvolgere i problemi o le proprie convinzioni in un involucro «politicamente corretto». Premetto che pur nato a Genova, posso essere considerato da taluni puristi un «meticcio». Mio padre, ancorché abbia vissuto a Genova sin da ragazzo, era nativo di Verona. Io ho sempre abitato a Genova anche se ho passato fuori Liguria la maggior parte della mia vita lavorativa. Proprio per questa ragione avendo un poco frequentato altri «popoli», essendo cioè uscito dall'ambito ligure per molta parte della mia vita, mi ritengo sufficientemente titolato ad esprimere qualche considerazione sul «popolo ligure» ed in particolare su quello genovese. Non so se esiste più il popolo ligure, credo di no. Forse è esistito. Dall'attuale Catalogna sino alle Alpi Apuane, coloro che abitano questa mezzaluna sulle rive del Mediterraneo, hanno un qualcosa di simile. Nel dialetto, nel modo di vivere e di mangiare, in qualcosa che ciascuno di noi sente entro di sé ma non sa cosa sia. Esistono invece ancora una serie di «tribù» liguri e fra queste una delle più importanti è quella genovese. I genovesi, in passato, come tutti sanno, dopo i secoli bui del Medioevo si sono costituiti in repubblica, hanno combattuto, conquistato, governato molti territori del Mediterraneo, imponendosi per la loro intraprendenza ed abilità nel commercio e nella finanza. Non erano certo «mammolette». Probabilmente aveva avuto ragione Dante Alighieri nello scrivere quello che ha scritto su di noi. Nell'isola greca di Ikaria, assai vicina alla famosa isola di Chio (Scio) governata per secoli dai Genovesi, un antico canto popolare maledice i genovesi conquistatori. Pensando a tutto questo mi sono chiesto e mi chiedo «ci sono ancora genovesi di tale stampo»? Se si, dove sono andati? Dove si sono nascosti? Sono forse emigrati in altre parti d'Italia? Forse. Perchè? Mi faccio queste domande perché in città, da lungo tempo, da troppo tempo, non ne vedo più. I genovesi sono sicuramente strana gente. Hanno qualità personali invidiabili. Possiedono in massima parte quelle doti che hanno consentito agli abitanti di altre parti del mondo di fare grande una nazione. Alludo agli inglesi ed alla Gran Bretagna. Eppure questa magnifica «dotazione» con il tempo si è svilita. Le qualità dei genovesi, nel corso di 60-70 anni, sono diventate difetti e palla al piede della città. Questa, specialmente negli ultimi 20 anni, dopo aver perduto circa 200 mila abitanti, sta vivacchiando senza obiettivi e, sperando di essere smentito, speranze. È di questo che desidero sostanzialmente parlare con queste righe. Come dicevo, i genovesi sono certamente di non facile approccio e individualisti come non mai. Questo individualismo, un tempo superba leva per intraprendere, per rischiare, per vedere avanti, da almeno una sessantina d'anni si è trasformato nel culto del «maniman». Il genovese odierno non vuole vincere una sfida, una competizione, vuole solo che non vinca il suo avversario. Da questo modo di sentire, di vivere,sono discese e discendono quasi tutte le calamità che si sono abbattute sulla città. L'immobilismo regna sovrano. Al presente codesto immobilismo viene mascherato anche con il nome di condivisione. Non si fanno le cose che dovrebbero essere fatte nell'interesse della comunità, perché non si vuole che il proponente dell'opera o dell'iniziativa ne tragga lustro. Coloro che hanno amministrato e amministrano tuttora la città incarnano perfettamente questo nefasto spirito. Qualche riga più addietro mi chiedevo se esistono ancora i genovesi di antico stampo e se si, dove sono andati. Non lo so per certo, però ho il sospetto che molti siano emigrati a Milano. Infatti se vuoi vivere e lavorare con una buona prospettiva devi andartene da Genova. Certo abbandoni il buon clima ed il mare, ma così ti suggerisce il buon senso. Le grandi industrie, non ostacolate in ciò dalle istituzioni locali, hanno da tempo lasciato Genova. Le grandi famiglie genovesi, simili agli oligarchi di un tempo, hanno venduto per fare cassa, per il solo proprio tornaconto e senza fare, come adesso è moda dire, sistema. Dove sono i Costa, i Bruzzo, i Piaggio, i Fassio, i Ravano i Gaslini e molti altri? Adesso un giovane non può fare altro che emigrare, sempre che non ambisca il posto fisso nei carrozzoni comunali o statali e sempre che non conosca qualcuno che possa presentarlo alla piccola oligarchia attualmente regnante sullo status quo. Status quo di cui tutti si lamentano (il mugugno è libero si dice qua) ma che a tutto questo popolo, sotto sotto, conviene perché gli evita la fatica di mettersi in gioco. Conviene ai politici perché assicura loro il piccolo prestigio della carica, laute prebende e non li impegna nelle decisioni sulle quali potrebbero giocarsi il posto. Conviene agli imprenditori, fatte salve alcune lodevoli eccezioni, perché evitano di pompare denaro nelle loro aziende per innovarle, per cercare nuovi mercati, per creare prodotti ad alto contenuto tecnologico e consente loro di attendere le «provvidenze» dello Stato (casse integrazioni, contributi europei e non, leggi speciali ecc.). Conviene, purtroppo, anche al personale dipendente ed ai giovani che, drogati da decenni di immobilismo, non hanno più la capacità di ricercare, sacrificandosi, nuove possibilità di lavoro, premiando la mobilità (andare dove il lavoro c'è) o di fare lavori ritenuti non premianti (meglio fare qualcosa, ancorché non esaltante, che ti dia uno stipendio e nel contempo ti consenta di guardarti intorno, piuttosto che attendere qualcosa che non c'è). Conviene, paradossalmente, anche ai pensionati, i soli esenti da colpe, che hanno «già dato» cioè, i quali si trovano a vivere in una città «immobile» ma per loro forse più vivibile. Confrontiamoci, per esempio con altre realtà. Prendiamo Milano, pur facendo le debite proporzioni, dove cioè molti genovesi di buono stampo sono emigrati. Gli amministratori di quella città decidono le opere da fare e vivaddio le fanno (metropolitane, passanti ferroviari, fiere, Scala, edifici fieristici, teatri, inceneritori ecc.) senza attendere la manna dello Stato. Agiscono come faceva Napoleone che ordinava l'attacco anche se i suoi generali gli comunicavano che l'esercito non era ancora pronto, perché diceva, «tanto le salmerie ci seguiranno». Anche un grande presidente della mia società, quando lavoravo, agiva sempre in quella maniera e vinceva le sue battaglie. Pensate, la famosa Ici a Milano è da sempre al 5 per mille e non al 6,2 o simili come a Genova. Come faranno a Milano? Come farà il Sindaco di Milano a mantenere l'ATM in pareggio? Quando sono particolarmente propenso a riflettere sulla nostra città, mi chiedo sempre: perché aziende importanti a livello nazionale non hanno mai ipotizzato di trasferire le loro sedi direzionali a Genova? Nella nostra città troverebbero risorse qualificate, ottimo clima e ... purtroppo null'altro. Quelle che avevamo ce le siamo fatte scappare (ultima a fuggire Eridania). Quando dobbiamo volare all'estero facciamo un'ora e più di macchina per recarci a Malpensa, Linate, Nizza e anche a Orio al Serio o a Pisa. Proviamo un momento ad immaginare se tra Milano e Genova ci fosse una autostrada a tre corsie o più ed un treno ad alta velocità che consentissero di andare, da centro città a centro città, in un'ora. Autostrada e treno costruiti in cinque anni di lavori non ostacolati da velleitarie richieste di qualche piccolo comune o da qualche falsa remora ambientale sponsorizzata da politici in cerca di visibilità. Forse il flusso di popolo che lavora e che, anche ogni giorno, sale verso Milano dalla nostra città, potrebbe invertirsi. Una dote particolare che contraddistingue i Genovesi e li rende unici è l'essere riservati, fraternamente burberi, di poche parole e con tendenza all'understatement (stare sotto le righe, dico bene?). A Genova non è facile vivere per uno straniero (in determinate circostanze per un genovese della Foce è straniero un genovese di S.P.d'Arena e viceversa). La città è fatta a strati e gli abitanti dei diversi strati non comunicano fra loro se non per questioni essenziali, lavoro per esempio. Dicono che sia così anche a Boston (Mass., Usa). Farsi amico un genovese molte volte richiede un'intera vita. È difficile entrare in casa sua, in confidenza. Quando però il genovese ti addotta come amico, questo è per sempre. Non ti tradirà più e ti aiuterà in ogni occasione della tua vita. Non è vero che è costituzionalmente avaro, è solo attento, «interessato » come usiamo dire in dialetto. Se ti è amico è capace di generosità fuori del comune. Da questa riservatezza e chiusura del suo carattere, derivano affidabilità, sostanziale onestà, voglia di lavorare, schiettezza nei rapporti personali. Come detto prima, quando ho riferito della degenerazione del nostro individualismo, anche queste ultime qualità che i genovesi possiedono e che ho adesso illustrato, si sono trasformate, da qualche tempo, in pesanti difetti. In moltissime occasioni il genovese riservato o un poco burbero e di poche parole si trasforma in scostante personaggio a cui tutto è dovuto e che nulla vi concede. Non mi piace generalizzare, ma molte, troppe volte, per esempio, nei nostri esercizi commerciali, il cliente deve presentarsi come suole dirsi, con il cappello in mano, per mettere a proprio agio il venditore, anziché il contrario. La cura del cliente non pare una cosa importante. Emblematico in proposito è quanto una volta accadde a mia moglie in quel di Portofino. Visitando con amici americani un negozio di abbigliamento sulla via, una vendeuse locale, ritenendo che nessuno della compagnia parlasse italiano, se ne uscì con l'infelice battuta «entrano, guardano e non comprano mai niente!». Al che, mia moglie, qualificatasi per quello che era e cioè italiana, le rispose per le rime. Ebbene questo atteggiamento è tuttora presente in molti di noi malgrado sia grandemente nocivo al nostro interesse. Penso però che solo una sana analisi di coscienza ed un rinnovato, pragmatico, impegno di tutti possa consentire il superamento dei beceri paletti posti allo sviluppo della città ed alla speranza, dalle ideologie falsamente sociali e conservatrici. L'occasione fortunatamente adesso c'è per dimostrare che la città non sta morendo. È il cosiddetto «affresco» che Renzo Piano ci ha regalato, da cantierizzare subito e realizzare entro 5,7 anni, pena il declassamento e l'emarginazione definitiva. Genova deve gettare il cuore oltre l'ostacolo, come faceva Napoleone. Le salmerie seguiranno, siatene certi.

FINANZA E GIUSTIZIA.

«L’archiviazione, falla al più presto per il mio amico Berneschi». Anche l’avvocato Andrea Baldini nelle intercettazioni della maxitruffa: il banchiere lo pressava perché facesse chiudere il caso, scrive Cristina Lorenzi su “La Nazione”. Un pasticciaccio brutto che ha coinvolto banchieri, magistrati, avvocati, professionisti. L’arresto di Giovanni Berneschi, ex presidente di Carige e vice della Cassa di risparmio di Carrara, e di altre sei persone per una presunta truffa ai danni della banca ha avuto come effetto domino una ricaduta su procuratori e avvocati della nostra zona coinvolti dalle intercettazioni telefoniche a ambientali. Nello specifico Berneschi avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio, attraverso la gentile intercessione dell’avvocato di Pontremoli Andrea Baldini e della moglie di quest’ultimo Pasqualina Fortunato, detta Lilly, giudice del lavoro alla Spezia. Casus belli il nostro articolo sulla cronaca di Carrara della Nazione attraverso cui lo stesso Berneschi sarebbe venuto a sapere di essere indagato in seguito a una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Poli denunciò alla Procura, e sul nostro giornale, di essere stato rovinato, fino al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia, circa 2 miliardi di lire, dallo stesso Berneschi, da Araldo Michelini, funzionario di Carige, e dal figlio di quest’ultimo il commercialista Enrico, adesso irraggiungibile. Dalle intercettazioni emerge che Baldini sarebbe stato incaricato da Berneschi di informasi a che punto era in Procura la denuncia di Poli. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: «Sono andato a parlare con Caporuscio...il quale procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer sì... sì la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l’ha data solo perchè son io eh!...». Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. «Grazie all’intervento di Lilly (sua moglie, ndr) è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi». Non si sa se le dichiarazioni di Baldini abbiano riscontri di verità o se, come riferisce di lato lo stesso avvocato, abbia «raccontato un sacco di balle per rassicurare una persona depressa, agitata e instabile», di fatto sulla denuncia per truffa di Poli dalla Procura della Spezia era già partita la tanto attesa richiesta di archiviazione. Richiesta che non avrebbe nemmeno avuto bisogno di tante spinte dal momento che Poli riferisce di fatti avvenuti 20 anni fa e quindi facilmente soggetti a prescrizione. Tuttavia la denuncia sembra bruciasse particolarmente a Berneschi visto che lo stesso Baldini si prende la briga di rassicurarlo: «E’ il più bel giudice che c’è a Spezia... intelligente e buona. Vado da lei a parlarle e le dico Oriana... il mio amico Berneschi... C’è l’archiviazione, falla al più presto possibile. Lei lo archivia e a questo punto siamo liberi di fare tutto quello che vuoi». E Berneschi risposte: «Il giornalista che scriva quattro righe. Sulla diffamazione gli voglio far paura eh». Con Berneschi, 77 anni, sono finiti nei guai anche l’ex numero uno di Carige Vita, Ferdinando Menconi, 67 anni, l’imprenditore immobiliare Ernesto Cavallini, 66, sono tutti e tre ai domiciliari. L’avvocato svizzero Davide Enderlin, 42 anni, l’imprenditore Sandro Calloni (61), il commercialista Andrea Vallebuona (51) e la nuora di Berneschi Francesca Amisano (48) sono invece in carcere. Le ipotesi di reato vanno dalla truffa al riciclaggio.

Carige - Indagine su 4 magistrati talpe di Berneschi: nomi e dettagli, scrive “Oggi Notizie”. Se nei giorni scorsi si diceva che era partita la caccia alla cosiddetta talpa in Procura che avrebbe aiutato Giovanni Berneschi, quando era presidente del Cda di Carige Spa a portare a termine la truffa e il riciclaggio ai danni della stessa banca, ora, mentre le indagini procedono serrate, ecco che si scopre come le talpe, in realtà, sarebbero state almeno quattro, e le procure coinvolte tre. La Procura di Torino ha infatti ricevuto da quella di Genova gli atti relativi a sospetti contatti tra magistrati vicini a Berneschi. Le procure interessate sono quella di La Spezia, Savona e Milano. Nello specifico Berneschi, secondo quanto emerge dalle indagini della Guardia di finanza di Genova nel merito della presunta truffa a Carige e Carige Vita Nuova, attraverso l'avvocato di Pontermoli Andrea Baldini e la moglie di quest'ultimo, Pasqualina Fortunato, detta Lilly, magistrato del lavoro a Spezia, avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio. A Savona il procuratore Francantonio Granero, procuratore capo, il cui figlio Gianluigi Granero è consigliere del Cda di Carisa, avrebbe offerto suggerimenti processuali a Berneschi nell'ambito del crack Geo Costruzioni in cui risulta indagato. A Genova l'ex vice presidente di Carige Vita Nuova Ferdinando Menconi avrebbe assunto informazioni da un "vice procuratore" sull'indagine sulla Carige. Tutto ciò si evince dalle intercettazioni telefoniche e ambientali sviluppate dalla Finanza (coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Piacente e dal sostituto Silvio Franz). A La Spezia Berneschi aveva appreso il primo marzo del 2013 da un articolo della Nazione di essere indagato in seguito ad una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Un funzionario di Carige lo avrebbe portato alla rovina, giungendo al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia. E lui, ad un passo dal tracollo, aveva denunciato tutti, anche Berneschi. Baldini era stato incaricato di informarsi sul caso. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: "Sono andato a parlare con Caporuscio... procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer si... si la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l'ha data solo perchè son io eh!... Cossu... mi son consultato con lui dico... inc.le... io mi appoggio a Gianardi... va benissimo?". Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. "Grazie all'intervento di Lilly (sua moglie) - dice - è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi". A Savona, Berneschi è coindagato nell'ambito del crack della Geo Costruzioni. Convocato per un interrogatorio e si era avvalso della facoltà di non rispondere. Dell'episodio l'11 novembre 2013 Berneschi riferisce a Baldini, i finanzieri annotano: "Sono andato a Savona e il giudice mi dice: ma... non risponda per favore (si sente Berneschi ridere) si avvalga della facoltà di non... solo per far casini... e gli ho detto giudice lo dice lei, però se permette le dico anche fuori verbale dico due tre cose...  quindi, non ho risposto però però gli ho già detto tutto...". Il giudice è il procuratore Francantonio Granero titolare dell'inchiesta sul crack Geo Costruzioni con Ubaldo Pelosi. Poi Genova. Ferdinando Menconi il 13 febbraio del 2014 dice al telefono: "Il vice procuratore di Genova... mio carissimo amico mi ha detto te non sei... stattene fuori" invitandolo a discostarsi dagli affari in e con Carige. Qualche giorno prima, in un'altra conversazione, Menconi dice: "Ma comunque io credo che a Genova sorprese... c'è il procuratore capo... già procuratore capo momentaneamente... di Di Lecce... che tra l'altro lui mi ha detto che è di sinistra, di magistratura democratica... aver fatto una domanda, allora fra un anno e mezzo va in pensione... chiedo a lui... quello che lo è già stato due anni adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè e tutto... non credo... non credo... poi tutto può.. in quest'Italia, figurati...". Il procuratore di Genova Michele Di Lecce ha affermato di avere inviato questi atti a Torino, procura competente su presunti reati commessi da magistrati liguri.

Carige e lo scandalo talpe, indagine su 4 giudici, scrive "Il Secolo XIX". L’inchiesta sulla maxi-truffa a Carige si trasforma in uno tsunami per pezzi da Novanta della magistratura ligure. La Procura di Genova invia infatti a Torino tutte le intercettazioni nelle quali banchieri, immobiliaristi e prestanome arrestati giovedì scorso, chiamano in causa almeno quattro fra giudici e pm quali presunte “sponde” nella loro ricerca di protezioni e informazioni segrete. È un passaggio cruciale, che si consuma mentre vengono depositate nuove carte nel fascicolo che ha portato ai domiciliari in particolare l’ex presidente di Carige Giovanni Berneschi, l’ex numero uno del comparto assicurativo Carige Vita Ferdinando Menconi e l’immobiliarista Ernesto Cavallini. I primi due, secondo l’accusa, erano soci occulti dell’imprenditore, e facevano comprare a Carige Vita immobili e società di Cavallini a prezzi spropositati; poi si dividevano la “cresta”, che nascondevano all’estero tramite vari prestanome. Dai nuovi documenti si capisce meglio quali erano, potenzialmente, «le inquietanti entrature» di Berneschi e Menconi «in ambienti giudiziari in tutta la Liguria». Partendo da Genova, il primo magistrato su cui si concentrano gli accertamenti è l’attuale procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico. È Menconi a circoscriverne la figura parlando con Walter Malavasi, che di Carige Assicurazioni è stato condirettore generale. Non lo nomina direttamente, ma definisce «carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato» il magistrato che ha retto la Procura genovese prima dell’insediamento di Michele di Lecce, e che attualmente gli fa da vice. Solo Scolastico corrisponde a quel ritratto e al Secolo XIX risponde: «Non si fa mai il mio nome; inoltre, io ho la scorta e si potranno facilmente verificare i miei movimenti. Conoscere Menconi? In Liguria si può sapere chi sono i massimi dirigenti di una banca, ma escluso un rapporto di frequentazione come quello descritto in quelle conversazioni». «Situazione delicatissima», per sua stessa ammissione, è quella dell’attuale procuratore capo della Spezia Maurizio Caporuscio. Un colloquio telefonico fra l’avvocato spezzino Andrea Baldini (ex componente cda Carige) e Berneschi rivelerebbe come proprio Caporuscio fece in modo che fosse fornita all’ex numero uno dell’istituto genovese la copia d’una denuncia «riservata», che l’imprenditore Gianfranco Poli sporse contro lo stesso Berneschi per truffa. Non solo. Sempre Baldini spiega a Berneschi che grazie all’intercessione «della Lilly» (per i finanzieri si tratta di sua moglie Pasqualina Fortunato, magistrato del lavoro di nuovo alla Spezia) la Procura chiederà l’archiviazione del fascicolo. «Al momento non voglio aggiungere altro - conclude Caporuscio - risponderò a chi mi verrà a chiedere conto». Baldini rifiuta invece commenti su di lui e la moglie: «Siete molto cari - dice al telefono - arrivederci e tante grazie». In un altro stralcio si fa riferimento a un terzo magistrato spezzino, una donna dal nome forse travisato nelle registrazioni, che avrebbe favorito l’archiviazione. L’ultimo capitolo preso in esame sul fronte toghe chiama in causa capo dei pm savonesi Francantonio Granero. Berneschi, discutendo con il manager Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio cui doveva essere sottoposto a Savona, dov’è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che Granero gli avrebbe suggerito di non rispondere. E ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi Granero, membro del cda della Cassa di risparmio di Savona (controllata da Carige). «Tutto falso - replica Francantonio Granero - e sporgerò querela semplicemente perché non l’ho mai incontrato».

Talpa in Procura anche Torino indaga su Carige. Si cerca chi anticipava le mosse degli inquirenti. Nelle carte sequestrate il piano “Mungi la mucca”. Teodoro Chiarelli su “La Stampa”. La caccia alla talpa può partire. Gli atti sull’informatore all’interno della procura di Genova sul quale potevano contare l’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi, e l’ex boss della controllata Carige Vita Nuova, Ferdinando Menconi, arrestati con altre 5 persone per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio, sono in partenza per la procura di Torino, competente sui magistrati del capoluogo ligure. Lo conferma il procuratore capo, Michele Di Lecce, che ha affidato il coordinamento delle indagini dalla Guardia di Finanza all’aggiunto Nicola Piacente e al pm Silvio Franz. «Devo uscirne perché sento odore di procure - dice, intercettato, Menconi -. Ho delle previsioni... il viceprocuratore di Genova, mio carissimo amico, mi ha detto... stattene fuori». Menconi però si sente le spalle coperte e qualche tempo dopo parlerà dei magistrati che hanno in mano l’inchiesta Carige: «Quello lì - dice riferendosi al pm Silvio Franz - sogna di risolvere un problema che non ha risolto in sette anni, in realtà non risolve un cazzo». Previsione errata: passa qualche mese, Menconi viene arrestato. Nelle 122 pagine dell’ordinanza del gip Adriana Petri ci sono anche altri riferimenti. Primo novembre 2013, Berneschi dice all’avvocato toscano Andrea B.: «Devi farmi un piacere, devi vedere se a Genova c’è qualche contenitore a nome mio, mi segui? Mi hai capito?». Risponde il legale: «No, per ora mi risulta che è tutto contro ignoti».  Ed ecco la telefonata fra Menconi e Sandro Maria Calloni, prestanome di Berneschi: «Lo trasmettono due miei amici che son venuti qua due volte... il capo della sala operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi... gli dai un nome e un numero, data di nascita, nome e cognome ti leggono la vita e tutto... Prima avevo anche la Legione Carabinieri, l’Investigativa qui di via... dove c’è la Questura... Il numero uno... a prendere il cappuccino più volte... poi lo abbiamo aiutato... andato ai Servizi... Ma quello là, l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico chi è questo testa di cazzo, sai quello che minacciava... l’han buttato fuori». La gestione disinvolta e truffaldina ha finito per creare una voragine nei conti, mentre il titolo in Borsa è crollato nel giro di due anni, bruciando i risparmi di migliaia di piccoli azionisti. Duecento di questi hanno promosso una class action e si sono affidati all’avvocato Mirella Viale dello studio legale bolognese Galgano. Ieri la sesta sezione del tribunale civile di Genova avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità dell’iniziativa: si è invece dichiarata incompetente, rimandando la questione alla prima sezione. Se ne riparla fra una decina di giorni.  Sempre ieri la nuora di Berneschi, Francesca Amisano, è stata interrogata per due ore in carcere dal Gip. «Ha risposto a tutte le domande - dice il suo avvocato, Enrico Scopesi - Ha detto di non sapere nulla della provenienza del denaro. E di essersi limitata a eseguire regolari operazioni di compravendita». Il lavoro degli inquirenti, intanto, si allarga. Durante le ultime perquisizioni nelle case degli indagati sono stati trovati appunti, accordi e anche il business plan dell’operazione “Mungi la Mucca”, quella che secondo gli inquirenti ha portato Banca Carige, guidata dall’ex padre-padrone Berneschi, a ripianare i debiti del ramo assicurativo, nominare ad Menconi e farlo diventare filtro di acquisizioni supervalutate. L’operazione serviva per costituire le plusvalenze che, tramite la società dell’immobiliarista Ernesto Cavallini, finivano in Svizzera.  “Mungi la Mucca”, appunto. Ossia Carige Vita Nuova che comprava alberghi, quote societarie, società intere, proprietà immobiliari che venivano stimate da un commercialista che era anche consulente di Carige (Andrea Vallebuona, arrestato) che provvedeva a gonfiarne il prezzo. Nell’inchiesta ci sono altri quattro indagati per riciclaggio in concorso: le mogli di Menconi (Adriana Westerweel) e Calloni (Maria Imelda Bellini Dominguez), il commercialista Alfredo Averna, collega di Vallebuona (arrestato) e l’avvocato Ippolito Giorgi di Vistarino. Nell’inchiesta “madre” su Carige, nata dalla relazione di Bankitalia, ci sono invece una decina di indagati: ostacolo alla vigilanza e falso in bilancio.  

Carige, nel 2002 inchieste archiviate. Il gruppo era sponsor della squadra del GIP.

Dall'ordinanza che ha portato all'arresto dell'ex presidente Berneschi emergono rapporti strettissimi con giudici e forze dell'ordine. Entrature grazie alle quali poteva verificare l'esistenza di procedimenti a suo carico e addirittura condizionarne l'andamento. E sui dipendenti a rischio diceva: "Quelli si mandano via", scrive Ferruccio Sansa da Il Fatto Quotidiano di sabato 24 maggio 2014. “Sento odore di Procure… io c’ho delle previsioni… il vice procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene fuori…”, così dice al telefono Ferdinando Menconi, ex numero uno di Carige Vita Nuova e braccio destro di Giovanni Berneschi indicato dai suoi amici come il “Magro”. A Genova vacilla anche il Palazzo di Giustizia. Si apre il capitolo sui rapporti della magistratura con un potere per anni risparmiato dalle inchieste. E la Liguria si scopre malata fino al midollo. Sono finiti in manette gli uomini che hanno dominato la regione, quelli cui tutti – a destra e a sinistra – baciavano la pantofola. Prima Claudio Scajola, re del Ponente. Poi Luigi Grillo, che dominava a Levante. Quindi Giovanni Berneschi, che con la sua Carige (dove sedevano mezza famiglia Scajola, amici del centrosinistra e uomini della Curia) teneva i cordoni della borsa e distribuiva centinaia di milioni di finanziamenti (come all’operazione immobiliare degli Erzelli, voluta dal centrosinistra e sponsorizzata da Giorgio Napolitano). Intanto l’amico Ior comprava – e rivendeva – cento milioni di bond Carige. Liguria, primatista di scandali. Qui sono in ginocchio la Lega di Francesco Belsito e l’Idv di Giovanni Paladini e Marylin Fusco. Quasi mezzo consiglio regionale è nei guai per i rimborsi. Le “entrature” negli ambienti giudiziari – Ora tocca alla magistratura. Come mostra l’ordinanza che ha portato all’arresto di Berneschi, Menconi e altre cinque persone (ci sono dieci nuovi indagati). Così il gip Adriana Petri motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite dell’avvocato Andrea Baldini (originario di Pontremoli, marito di magistrato e considerato vicino alla famiglia del suo concittadino, il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, ndr), al quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai terminali riservati della Procura”. Il 28 ottobre 2013 Berneschi chiama Baldini: “Devi vedere se a Genova ci sono contenitori (fascicoli, ndr) a nome mio”. E Baldini: “Qui non c’è ancora aperto niente!… No, per ora non c’è… Da quello che mi risulta dalla persona che si è mossa, è tutto contro ignoti”. Interpol, carabinieri, servizi: solo millanterie? – Ce n’è anche per carabinieri, Interpol e servizi. “Menconi – annota il gip – cita le sue numerose conoscenze presso esponenti di vertice delle varie forze pubbliche”. Ecco l’intercettazione: “…se poi ricade nel penale… gli viene trascritto all’Interpol e lo ricevono anche là! Lo trasmettono due miei amici… son venuti qua due volte… il Capo della Sala Operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi… prima c’avevo anche la Legione Carabinieri… c’è l’Investigativa dei carabinieri, il numero uno… a prendere il cappuccino più volte… poi lo abbiamo aiutato… andato ai Servizi… ma quello là che fa l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico…”. Millanterie? I magistrati sono convinti di no. Scrive il gip: “Per ragioni diverse i procedimenti penali che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza che fosse esercitata l’azione penale”. Quali sono le “ragioni diverse”? In Tribunale c’è chi ricorda che proprio la società assicuratrice della Carige, guidata da Menconi e Berneschi, era sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 – dopo un lavoro immane del Gico – archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna oggi è in pensione, indagato a Torino per presunte false sponsorizzazioni della sua squadra. Tra i cronisti c’è chi ricorda le reprimende di passati vertici della Procura in occasione di inchieste giornalistiche su imprenditori legati al centrosinistra e soci di Carige, che erano sponsor della squadra di Fucigna oltre ad avere legami di amicizia con gli allora vertici della Procura e della Corte d’Appello. I vertici del Palazzo di Giustizia ora sono cambiati. I 140 dipendenti? “Quelli si mandano via” – Ma le carte genovesi contengono altro. A cominciare dalle operazioni che avrebbero provocato a Carige un danno di 34 milioni. Con il padre padrone della banca che, secondo le accuse, spenna la sua creatura come un pollo: “Vengano a far tutte le indagini che vogliono… non mi possono accusare di riciclaggio, perché è una vita, da 35 anni che accumulo”. Così ecco, a sentire la Finanza e i pm Nicola Piacente e Silvio Franz, il tentativo di Berneschi di ripescare il consuocero morto per usarlo come prestanome quando scopre di essere indagato per altri 13 milioni scudati: “Va bene, io approfitterò del tuo cognome”. La donna (arrestata) si allarma: “Nonno, per favore, qualsiasi cosa ne parliamo un attimino”. Intanto, sostiene l’accusa, la “banda del magro” avrebbe investito dalle Canarie alla Cina, soprattutto nei porti. Fino al progetto di trasferirsi a Panama. Pagine che faranno rabbrividire i dipendenti Carige. Mentre la “banda del magro”, incassati 34 milioni, si scanna per consulenze da 200mila euro, la Carige Vita Nuova rischiava di licenziare: “L’ideale… è che società così… vadano in commissariamento, il commissario manda via i dipendenti… mi preoccupa il fatto c’ha 140 persone…”, dice Menconi. Berneschi, annota il gip, non sembra preoccuparsi: “Quabielli si mandano via”. Il commercialista Vallebuona: “Io i milioni in tasca li ho infilati” -  Ecco in 127 pagine il ritratto dell’Italia delle banche, della Liguria del potere. Con frasi inconsapevolmente geniali, come quando Berneschi definisce Menconi “testa di pera”. Come quando parla dei milioni come di “ragazze” e poi di “vecchie un po’ rincoglionite”. Come la “banda del magro”. O quella breve autobiografia stile Blade Runner del commercialista Andrea Vallebuona: “Io qualche cazzatina nella mia vita l’ho fatta… passare un confine con duecentomila… milioni in tasca infilati, io l’ho fatto, morendo di paura… ho capito che poi certe cose era meglio non farle, però le ho imparate sulla mia pelle”. O forse su quella dei dipendenti Carige.

Carige e i regali allo Ior, "Anche il Papa chiamò per avere spiegazioni". Dalle intercettazioni spuntano gli affari con la banca vaticana Il manager: "Assunte 28 persone tra parenti o amanti di giudici", scrivono Giuseppe Filetto e Marco Preve su “La Repubblica”. Anche papa Francesco ha "indagato" su Carige e lo Ior. Le intercettazioni dell'inchiesta che ha portato agli arresti l'ex presidente della banca genovese, confermano l'esistenza di quell'asse bancario Genova-Vaticano che nasconde ancora segreti. Rivelano un inquietante intreccio di rapporti tra l'istituto diretto dal vicepresidente nazionale dell'Abi Giovanni Berneschi e la magistratura ligure: "C'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri o amanti di magistrati liguri " dice Ferdinando Menconi ex ad del comparto assicurativo anche lui ai domiciliari. In un'intercettazione dell'11 novembre del 2013, racconta il verbale dei finanzieri della tributaria che "Berneschi parla di papa Francesco che avrebbe chiamato i tre vescovi del ponente ligure a Roma per chiarire la faccenda legata allo Ior. Due giorni fa Berneschi dice di aver ricevuto monsignor Luigi Molinari il quale per conto di Bagnasco (Angelo, cardinale di Genova e presidente Cei, ndr) voleva sapere cosa era successo tra la Fondazione e lo Ior". Si tratta dell'operazione del 2010 voluta dal presidente di Fondazione Carige Flavio Repetto (nemico giurato di Berneschi). In pratica 100 milioni di euro di obbligazioni acquistate dallo Ior che però non si trasformarono in azioni come preventivato e vennero poco dopo rilevate dalla Fondazione la quale, peraltro, non incassò i diritti visto che "aveva deliberato di metterli a disposizione dello Ior". Berneschi si confida con l'attuale vicepresidente della Fondazione Roberto Rommelli: "Lo Ior, non puoi regalare da 7 a 9 milioni al... Papa, no, non c'entra il Papa.. a Bertone, mi segui?". Sull'operazione il ministero delle Finanze ha chiesto chiarimenti, anche alla luce delle elargizioni, 2008 e 2010, della Fondazione ad ambienti vicini al cardinale Tarcisio Bertone: 300mila euro alla Lux Vide per i dvd della fiction La Bibbia e 90mila euro per le stole dei vescovi. Dal sacro al profano, ossia le relazioni "proibite" tra il potente banchiere e i magistrati. L'episodio più inquietante è quello che riguarda La Spezia. Berneschi utilizza l'avvocato Andrea Baldini, ex consigliere Carige, affinché si interessi della querela presentata contro di lui da un imprenditore della Val di Magra, Gian Paolo Poli. Il legale lo aggiorna: "Sono andato a parlare con Caporuscio (Maurizio, procuratore capo, ndr) e gli ho detto... ehm ... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi vediamo subito! ... ha aperto il computer sì ... sì la pratica è qua, è nelle mani di (segue nome di un pm, ndr) quindi è riservatissima... me l'ha data solo perché son io eh!". Baldini informerà successivamente Berneschi che è stata chiesta l'archiviazione e lui andrà dalla gip che "tra l'altro è una f...". La moglie, il giudice Pasqualina Fortunato, interviene nel colloquio spiegando che non è riuscita a convincere una segretaria ad ottenere informazioni e allora ha detto al marito: "Andrè, va a parlà tu cò Maurizio direttamente". Altro fronte imbarazzante quello genovese dove Menconi al telefono con un amico spera che l'attuale procuratore capo Michele Di Lecce vada presto in pensione e spiega che gli è stato detto da "quello che (procuratore) lo è già stato due anni e adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè". Il riferimento sembra essere a Vincenzo Scolastico, unico ad aver ricoperto la funzione, che però nega categoricamente tale frequentazione. Sembra invece pura millanteria il riferimento ad un colloquio che Berneschi dice di aver avuto con il procuratore di Savona Francantonio Granero (il figlio Gianluigi è consigliere della controllata Carisa) quando il banchiere venne indagato per la prima volta. Granero nega di aver mai incontrato Berneschi. Parlando della polemica tra la Coop e Esselunga che a Genova incontrò grandi difficoltà ad aprire un punto vendita, Menconi dice "l'artefice del rinvio è stato Berneschi... la sinistra, c'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri, amanti di magistrati liguri". Berneschi racconta invece di quando fu processato e assolto per la scalata alla Bnl: "Sulla pratica Bnl... non ho sbindato di una virgola, però ... se avessi avuto paura e dicevo "eh si quelli dell'Unipol mi hanno fatto delle pressioni" il signor Cimbri (Carlo, ad Unipol, ndr) era morto".

Anche l’Ing De Benedetti è intoccabile, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Anche mia nonna invecchiando si fece un po’ più dura. Ma mai quanto Carlo De Benedetti. La sua è una parabola micidiale. Sembra quel cartone animato, Cattivissimo me. Nella fiction il cattivone è un buono, ha solo l’aria dello spregiudicato delinquente. Deb, l’Ing, Cdb, insomma il Nostro, invece sta diventando proprio cattivello. Proviamo a citare i suoi ultimi bersagli. «A Marchionne darei un voto 4 in sincerità, a Romiti zero, a Elkann il voto dei nipoti. Colaninno? Un poveraccio. Agnelli? Un pessimo imprenditore. Il Vaticano una fogna. Tronchetti? Un incapace». E poi ancora sulla gestione Telecom da parte di Mtp: «La comunicazione è fatta bene, la rapina ancora meglio». Ma guai a replicare. Ci ha provato, incautamente, Tronchetti e si è beccato una querela e un’inchiesta da parte della Procura di Milano per diffamazione a mezzo stampa, con annessa aggravante della continuità del reato. Insomma Mtp rischia il carcere perchè Carletto non tollera la seguente frase: «Se anche io raccontassi – si legge nell’avviso di conclusioni indagini, in riferimento ad una dichiarazione rilasciata all’Ansa da Tronchetti – la storia delle persone attraverso i luoghi comuni e gli slogan, potrei dire che l’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, che fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che finì dentro per le vicende di Tangentopoli…». Abbiamo cercato di ricostruire punto per punto i casi citati da Tronchetti per capire dove ci fosse la diffamazione o il sanguinario insulto da dover lavare con una pena massima, comprese le aggravanti, di sette anni.

LO SCANDALO LEGATO ALLE POSTE. Se c’è una cosa sicura come il sole sono le tangenti pagate dalla Olivetti, guidata da De Benedetti, per fornire apparecchiature alle Poste. Non è un luogo comune, è una certezza. E a confessarlo, assumendosene la responsabilità, è lo stesso De Benedetti. In questo senso Tronchetti è fin troppo generoso. Una domenica mattina, in piena bufera Tangentopoli, Deb si presenta in una caserma dei carabinieri (è il 16 maggio del 1993) e ammette davanti a Di Pietro di aver pagato stecche per una ventina di miliardi di lire, di cui solo 10 per forniture alle Poste. Presenta un memoriale in cui racconta la rava e la fava. Repubblica, di sua proprietà, in un famoso titolo detta la linea della casa: «Era un clima da racket, o pagavi o non lavoravi». De Benedetti pagò. Eccome. Solo dopo un paio di giorni rilascia un’intervista al Wall Street Journal, sperando, forse, che De Pietro non avesse il tempo di leggerla, o non capisse l’inglese. La reporter, Lisa Bannon, nota: «De Benedetti non chiede scusa per le tangenti pagate e dice che lo rifarebbe, perchè queste erano le regole del gioco negli anni 80». Cdb, tra le virgolette, dichiara: «Lo rifarei con lo stesso disgusto con cui l’ho fatto negli anni passati». Insomma è il contesto che gli fa fare quelle cose brutte. Ohibò. Chissà se oggi, per fare un esempio, l’Expo può ispirare medesime giustificazioni. Il filo tra concussione e corruzione è sempre sottile. Come quello che c’è tra dichiarazione spontanee e paracule. Cdb all’epoca disse di essersi liberato da un macigno nel fornire il suo dossier a Di Pietro. Eppure nel medesimo documento scrive, riguardo alle tangenti alle Poste: «Ho visto che è circolato il nome Olivetti». Inoltre avevano già pizzicato tal Lo Moro, il grande collettore delle mazzette Olivetti. Insomma il cerchio si stava chiudendo. La dichiarazione è spontanea, ma giusto un attimo prima…Quanto è valso all’Olivetti di De Benedetti sottoporsi a questo racket? In cinque anni circa 600 miliardi di lire. Nel 1987 Ivrea fatturava 2 miliardi con le Poste, l’anno dopo 205 miliardi. Già nel 1983 Olivetti aveva predisposto una bella voce di bilancio per l’abbisogna. La dicitura era: spese non documentate. Insomma si erano preparati contabilmente a subire quei mascalzoni dei politici. Indro Montanelli su questo giornale scrisse: «Forse i piccoli e indifesi devono subire, ma per i grandi che avrebbero avuto tutti i mezzi – compresi i più autorevoli organi di stampa – per resistervi, la corsa al Principe era non solo voluttuaria, ma anche voluttuosa». Tronchetti non si preoccupi, la memoria sulle tangenti viene e va all’Ing. Due settimane prima della consegna del memoriale a Di Pietro, lo stesso Ingegnere davanti all’assemblea degli azionisti e in conferenza stampa giurava: «Non ho mai pagato tangenti». Dopo due settimane mise nero su bianco il contrario. In seguito Cdb provò a difendersi: queste cose «si dicono prima ai magistrati e poi alla stampa». Ahi ahi ahi, non ci siamo anche con questa. Circa dieci anni prima, il 16 giugno del 1985, lo stesso Ingegnere, meno rispettoso evidentemente delle prerogative della magistratura, urlò al mondo intero: «Per l’affare Sme mi hanno chiesto tangenti». Dopo qualche settimana fu ovviamente convocato dal magistrato Pasquale Lapadura all’oscuro di tutto, che dopo poco archiviò. Come la mettiamo con la storiella delle tangenti che prima si raccontano ai magistrati e poi alla stampa? Qualcuno può forse contestare che «la vicenda di apparecchiature alle Poste» non sia stata scandalosa? E soprattutto qualcuno ha il coraggio di slegarla da Carlo De Benedetti, dopo che proprio lui ammise tutto con un memoriale e un’intervista cazzuta al Wall Strett Journal?

L’INGEGNERE FINÌ DENTRO PER TANGENTOPOLI. Anche questa affermazione è vera. Della tangentopoli postale abbiamo abbondantemente parlato. Sergio Luciano, in un’intervista per la Stampa, il 18 maggio del 1993 chiese al Nostro: «Oltre che fornire prodotti alle Poste, l’Olivetti ha avuto molti altri rapporti con la pubblica amministrazione. Ha dovuto pagare anche per questo? Risposta di Cdb: «Non posso rispondere, c’è il segreto istruttorio». Bene così. Poche settimane prima uno dei manager di punta delle sue aziende (la Sasib) aveva ammesso di aver pagato due miliardi estero su estero a Dc e Psi, relativamente ad alcuni appalti per la metro milanese. Si parlò di stecche per i pc dei magistrati e del sistema informatico dell’Inps. Ma il punto fondamentale è: l’Ingegnere finì o non finì in galera? Per una giornata, per una benedetta giornata, la risposta è sì. A Roma, a Regina Coeli. Dal memoriale, cosiddetto spontaneo, sono passati solo sei mesi. Il 31 ottobre del 1993 due magistrati romani, Maria Cordova e il gip Augusta Iannini, spiccano un mandato di cattura. A Milano l’Ing è indagato; a Roma temono che possa inquinare le prove o reiterare il reato. La Repubblica ci dice che entra in carcere con doppiopetto grigio e camicia celeste e che, dopo le formalità del caso e l’ufficio matricola, gli verrà consentito di mantenere la fede al dito. Il cronista, con enorme sprezzo del pericolo, nota come lo psicologo di Regina Coeli «sia rimasto colpito dalla chiacchierata con De Benedetti e che alla fine i due si sono salutati come vecchi amici». Più dura la Iannini che spiega i motivi del provvedimento per la «pericolosità sociale» e il rischio di reiterazione del reato. Il pm lamenta che ci sono fatti nuovi: macchinari scadenti accatastati al ministero. Gli arresti si tramutano dopo poco in domiciliari. Il processo finirà con assoluzioni e prescrizioni. Ma una cosa è certa: l’Ing tecnicamente dentro c’è finito. E lo diciamo senza alcun compiacimento. La Iannini recentemente alla nostra Anna Maria Greco ha detto: «L’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della Procura nel confronti dell’Ingenger De Benedetti è abbondantemente motivata, mettendo in luce una serie di elementi esistenti a carico dell’indagato» che nell’interrogatorio di garanzia aveva ammesso di aver pagato «alcuni miliardi per corrompere al ministero delle Poste chi aveva garantito all’Olivetti l’acquisto di telescriventi obsolete». Comprendiamo sia duro ricordare l’episodio alla ex tessera numero uno del Pd, come all’epoca fu duro per Eugenio Scalfari ammettere che De Benedetti non fosse quel «cavaliere solitario non intaccato da nessuna macchia e nessun compromesso» che il direttorone sperava.

DE BENEDETTI È STATO DISCUSSO PER MOLTI BILANCI OLIVETTI. La parola discusso è il minimo che si possa dire. L’ingegnere De Benedetti è stato indagato per false comunicazioni sociali, falso in bilancio e insider trading. E se non fosse stato per le cosiddette (proprio dal gruppo De Benedetti) leggi ad personam fatte da Silvio Berlusconi, oggi probabilmente avrebbe la fedina penale meno linda. Un po’ di discussione la concediamo dunque? Sarebbe erroneo dire che l’Olivetti sia tecnicamente fallita. Ma che i suoi bilanci siano stati un colabrodo questo è provato. Nell’estate del ’96 succede il patatrac. Negli ultimi tre anni Ivrea aveva perso ai livelli di un ubriaco al tavolo della roulette: 3mila miliardi di lire. Nel settembre del 1995, l’ubriaco aveva chiesto ai soci risorse fresche per 2.250 miliardi. A luglio del 1996 l’Ingegnere si dimette da amministratore delegato per lasciare il posto a Francesco Caio che si porta con sè come capo della finanza Renzo Francesconi. Dopo poche settimane di lavoro i due capiscono che le cose sono peggio del previsto, l’azienda è in coma etilico, e vogliono nuovi quattrini e un piano di salvataggio da parte di Mediobanca. Caio mette nero su bianco le sue considerazioni pessime sui conti. Il titolo crolla. La semestrale post aumento di capitale brucia 440 miliardi. L’uomo dei numeri sbatte la porta e dice: «Sul piano strategico si possono fare mediazioni, sui numeri e la cassa, no». La Procura di Ivrea e la Consob iniziano ad indagare. Che sta succedendo nei bilanci di Olivetti? Passa qualche settimana e i giudici di Torino aprono un fascicolo per insider trading. L’Ing. avrebbe venduto allo scoperto titoli Olivetti prima della semestrale, per poi ricomprarli a valori più bassi dopo la stessa. Giulio Anselmi sulla prima del Corriere della Sera il 18 settembre di quell’anno scrive: «Tutti ricordano nel caso Olivetti quattro bilanci consecutivi accompagnati da promesse di pareggio. C’è da stupirsi se diffidando della trasparenza contabile delle aziende italiane si dà credito ai giudici». E ancora «il dato più grave e sconcertante è il fatto che l’ipotesi di enormi perdite occulte nei conti del gruppo di Ivrea non sia apparsa immediatamente inverosimile, ma sia stata considerata da tutti, analisti finanziari, banchieri, gestori di patrimoni tristemente possibile fino a prova contraria». La storia finisce con un patteggiamento per l’insider trading che gli costerà 50 milioni. Anche la partita del falso in bilancio si conclude con un patteggiamento. Ma la sentenza nel 2003 viene revocata. Sapete perchè? Grazie alla revisione del reato di falso in bilancio introdotta nel 2002 da Berlusconi. E non diteci che sui bilanci di Deb e sui falsi non ci sia stata alcuna discussione. Tronchetti, se proprio vogliamo, si è dimenticato il caso di insider. Su cui la discussione si è chiusa con un patteggiamento.

DE BENEDETTI COINVOLTO NELLA BANCAROTTA DEL BANCO AMBROSIANO. Vi diciamo subito che questa vicenda è davvero intricata. E a beneficio degli avvocati dell’Ingegnere che, come si è capito, sono dal grilletto facile, bisogna dire che il Nostro alla fine ne è uscito pulito. Chiaro? Pulito. Assolto dalla Cassazione. Ma il punto resta. Tutto si può dire tranne che l’Ing. non sia stato coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano. Se non si può dire neanche questo, bisognerebbe fare una legge speciale per la quale appena si nomina l’Ing. si inizi a cospargere di petali il suolo e si declami: bello, bravo e buono. Vi risparmiamo i dettagli. Ma la cosa è semplice. De Benedetti fa un passaggio veloce nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Ci rimane, come vicepresidente e azionista, per una sessantina di giorni. Lui sostiene di esserne uscito senza una lira di plusvalenza. L’universo mondo pensa che abbia realizzato un guadagno di 30 miliardi. Peppino Turani dalla Repubblica sintetizzò: «Calvi si è dichiarato pronto a riacquistare le sue azioni (51,5 miliardi più gli interessi) e a comprare le azioni Brioschi, di futura emissione, per 32 miliardi. De Benedetti non ha potuto rifiutare l’affare». I magistrati di Milano prima ipotizzano l’estorsione: Deb sapeva dei conti in profondo rosso del Banco e per il suo silenzio e uscita di scena, si è fatto profumatamente liquidare. La tesi viene respinta dal Tribunale. Ma si insinua un nuovo reato: la bancarotta fraudolenta. L’Ing. si fa liquidare sapendo del prossimo fallimento della banca. Viene condannato in primo grado a sei anni, in secondo ridotti a quattro. La Cassazione casserà per una illogicità procedurale. Ma è netta, poichè neanche rinvia ad un possibile riesame. De Benedetti ne esce pulito. Per scappare dal Banco ci mette 65 giorni, per liberarsi da questo gorgo giudiziario nove anni. Vi risparmiamo le dure critiche ai giudici che lo hanno condannato, alle insinuazioni e alle ispezioni che sono state fatte ai magistrati dell’accusa. Tutto troppo simile al caso Berlusconi, con la drammatica differenza del diverso esito in Cassazione. E allora si può dire che l’Ingegnere sia stato coinvolto nella bancarotta dell’Ambrosiano? Decidete voi. Con una postilla d’obbligo (prima di sparare, avvocati dell’Ing., leggete): e cioè De Benedetti è stato alla fine assolto. Buon per lui.

DE BENEDETTI FU ALLONTANATO DA FIAT. Un signore che conosce bene la Fiat di quegli anni, per averci lavorato, mi dice: «nel 1976, quando De Benedetti diventa amministratore delegato della Fiat e azionista al 5%, i soci erano debolissimi. Io non so se l’Ingegnere avesse in mano le carte per una scalata, di cui pure molto si parlò. In molti, all’epoca, pensavano che un golpe in Fiat si potesse fare. Anzi si può dire che ci furono solo due grandi manager Fiat che non ebbero questa ambizione: Romiti e Valletta. D’altronde De Benedetti poi, in Société Générale de Belgique, una scalata dalle modalità simili la mise in piedi». l nostro resterà al Lingotto per una centinaio di giorni e ne uscirà con un bel gruzzoletto. Appena arrivato non perde tempo, va dall’Avvocato, allora presidente del gruppo, e gli dice: «Bisogna mandare via 20mila persone e 500-700 dirigenti». L’avvocato fece un rapido passaggio per i palazzi romani tornò a Torino e replicò: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile un’operazione del genere». Chi allontana chi, allora? Cesare Romiti, l’uomo di Mediobanca in Fiat e anch’egli amministratore delegato del gruppo in quegli anni (due galli in un pollaio, che sciocchezza) in un’intervista rilasciata nel 2013 dice: «De Benedetti piaceva all’Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti antipatici: diceva in giro di essere il primo azionista individuale di Fiat. Cosa vera perchè gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene la sua azienda, la Gilardini. Quando poi mi disse che bisognava cacciare via i dirigenti a lasciare a casa 50mila persone, l’Avvocato rispose: «Mi spiace non si può fare». «Allora me ne vado». «Va bene se ne vada» fu la risposta». E sulla possibile scalata, Romiti dice: «Non escludo che ci pensasse». Scalata o non scalata, anche in questo caso, come in quello del Banco Ambrosiano, è sempre difficile stabilire la verità. Ci sono sfumature che si giocano e nascondono in conversazioni che rimarranno sempre private. Ma pensare che De Benedetti, con le sue idee, potesse essere accettato e anestetizzato in azienda dall’Avvocato è davvero difficile.

POVERA LA MIA GENOVA.

Cene ed escort in cambio di appalti. Da una parte dirigenti e funzionari dell’Amiu, la municipalizzata per i rifiuti del Comune di Genova, dall’altra imprenditori a caccia d’appalti, scrive Sebastiano Solano su “Libero Quotidiano”. . È questo lo spaccato che emerge dalle carte dell’inchiesta «Albatros», affidata ai pm Paola Calleri e Francesco Albini Cardona, che hanno iscritto sul registro degli indagati una cinquantina di persone. Per loro, a vario titolo, le accuse sono di corruzione, truffa, traffico illecito di rifiuti, turbativa d’asta. Secondo la procura di Genova, dirigenti e funzionari dell’Amiu avrebbero affidato alla Eco-Ge di Gino Mamone diversi appalti per la pulizia della città nel post-alluvione e per lo smaltimento dei rifiuti in cambio di cene e incontri piccanti. Ipotesi che, come racconta La Repubblica di Genova, troverebbero conferma nelle fatture - in mano agli inquirenti - emesse dal ristorante “Il Fattore” e dall’albergo “Il Cavallino San Marziano”, dove secondo la procura si sarebbero tenuti gli incontri tra i funzionari della municipalizzata e alcune escort.  «Una notte indimenticabile, da favola...», avrebbe commentato uno dei funzionari, al telefono con un altro indagato. Sarebbero stati almeno quattro gli incontri a luci rosse accertati dagli investigatori, ma nulla ancora è trapelato riguardo i fruitori delle prestazioni. Nel mirino dei magistrati genovesi ci sono, in particolare, una dozzina di appalti affidati alla Eco-Ge di Gino Mamone, che a sua volta avrebbe poi subappaltato i lavori ad altre tre ditte, tra cui la ImpreAres e la Ares International, che fanno capo al fratello Vincenzo. I fratelli Mamone risultano tra gli indagati. Insieme a loro, tra gli altri, sei dipendenti dell’Amiu: il direttore tecnico del Settore Raccolta Rifiuti, Massimo Bizzi; Roberta Malatesta, segretaria di Bizzi; Corrado Gondona, capo dell'Ufficio Legale ed anche del Settore Acquisti, Appalti e Gare; il responsabile dell'impianto di Sardorella, dove confluisce la spazzatura differenziata, separata e inviata ai consorzi che lavorano il recupero, Tonito Magnasco; Enrico Lastrico, pensionato dallo scorso giugno, ma fino allora direttore dei Servizi Integrati Esterni; e Angelo Santo, capo della rimessa-officina della Volpara. I Mamone si sarebbero aggiudicati. Tra gli indagati, infine, c’è anche l’ammini-stratore delegato della Swich-1988 Maurizio Dufour, che ha avuto un appalto dall’Amiu la raccolta dei rifiuti ingombranti in tutta Genova. Secondo i magistrati, le aziende non solo si sarebbero aggiudicati gli appalti mediante il pagamento di tangenti, seppur sotto forma di cene e incontri a sfondo sessuale, ma non avrebbero rispettato il capitolato d’appalto. Da quanto emerge dai documenti in mano alla procura, infatti, i rifiuti sarebbero stati smaltiti illegalmente, ossia tutti insieme, senza nessuna distinzione tra rifiuti soldi urbani e rifiuti classificati come ‘speciali’. L’Amiu, con una nota stampa, ha precisato come tra gli indagati «non vi è alcuna delle figure apicali dell’azienda», nonché di confidare nell’operato della magistratura. Dello stesso tenore il commento di Doria, che si è limitato a garantire «piena collaborazione agli inquirenti». Letteralmente furiosa, invece, la reazione della capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale, Lilli Mauro, che raggiunta al telefono tuona: «Non posso credere che in tutti questi anni nessuno si sia accorto di niente. Possibile che la sinistra, che governa la città da più di 20 anni, non si sia accorta mai di nulla?». La capogruppo è un fiume in piena, ma l’inchiesta non sembra averla colta di sorpresa. E di fatti poco dopo aggiunge: «Quando la Vincenzi (Marta, predecessore di Doria, ndr) denunciava infiltrazioni che erano dannose per lo sviluppo della città, le chiesi di presentarsi davanti ai giudici e riferire loro tutto ciò di cui era a conoscenza. Questo per dire che l’intera vicenda è qualcosa di già annunciato, è impossibile che nemmeno l’assessore all’Ambiente non si sia mai accorto di questo incredibile sperpero di soldi pubblici. Noi come Forza Italia chiediamo chiarezza ai magistrati, ma soprattutto alla giunta, che ci deve spiegare come tutto ciò sia potuto accadere».

Ed ancora. Calunnia e falso: l'ex sindaco Pd di Genova Marta Vincenzi è indagata per la gestione della terribile alluvione del 4 novembre 2011 in cui morirono sei persone, continua “Libero Quotidiano”. A quanto riferisce il Secolo XIX, secondo i pm genovesi l'ex sindaco e il suo staff di tecnici e amministratori, tutti già iscritti nel registro degli indagati, avrebbero fabbricato dei verbali farsi per scagionare da ogni responsabilità l'amministrazione. "E' stato duro rivivere quei momenti, ma sono serena - ha ripetuto ieri la Vincenzi dall'uscita dalla Procura, dove è stata ascoltata dai magistrati - . Ho visto cose, atti di cui non ero a conoscenza". Come dire: l'ex primo cittadino si è fidata troppo di chi le stava intorno. "Mi sono fidata dei collaboratori" - La linea difensiva della Vincenzi, però, non convince i magistrati. Nel mirino ci sarebbero almeno due verbali. Il primo avrebbe letteralmente "inventato" la presenza di un volontario della Protezione civile appostata sul torrente Fereggiano poco prima che le acque debordassero (presenza obbligatoria, da regolamento), quando la sentinella era da tutt'altra parte. Altro "falso" l'ora della dell'esondazione del torrente: non alle 12.53, la verità, ma le 12.15. Particolari finalizzati ad "evitare responsabilità politiche e penali a Palazzo Tursi e alla Protezione civile". "In quelle ore mi è venuto in mente di tutto, ma l’ultima cosa cui potevo pensare era di manomettere delle prove. La mia testa era altrove. Alle scelte che avevo preso, compresa la mancata chiusura delle scuole", confida la Vincenzi in un rigurgito di rimorso. Il 4 novembre dell'ex sindaco si divise tra un convegno in mattinata, il blitz in prefettura e l'arrivo alla centrale operativa al Matitone. E sulla presunta riunione della falsificazione dei verbali. l'ex sindaco giura: "Non ho mai partecipato ad alcun incontro di quel genere. Ho appreso il dettaglio di quanto accaduto dai miei collaboratori. Mi dissero che era andata così, mi sono fidata". 

Lei era quella che attribuì il disastro causato dall'alluvione del 4 novembre 2011 nella città di Genova alle vittime e alla Protezione Civile, scrive ancora “Libero Quotidiano”. Farfugliando che i soccorsi "erano stati intempestivi" e che le persone "non si sarebbero dovute avvicinare a luoghi pericolosi vista la situazione". L'allora sindaco di Genova, Cara Vincenzi, non pare però avere rimorsi. Tanto che sarò tra poco nelle librerie un volume scritto dalla medesima, sugli "itinerari pop di Genova".  Il libro - Percorsi interessanti, itinerari turistici alla scoperta della città, quella stessa in balia delle calamità per le quali la Vincenzi era stata indagata per danno colposo e omicidio colposo. Forse tra le "vie interessanti" non è compreso il Rio Foreggiano, via nella quale persero la vita 6 persone, tra cui due bambine di 1 e 8 anni a causa dell'inondazione. Eppure lei quella tragedia dovrebbe ricordarsela bene. Secondo l'inchiesta aperta a seguito dei fatti, la Vincenzi non solo avrebbe contribuito a falsificare il documento sui fatti del 4 novembre cambiando gli orari di esondazione del fiume - come riportato su lintraprendente.it - ma avrebbe anche mentito sulla sua stessa presenza nel centro operativo dal quale la situazione avrebbe dovuto essere monitorata: la Marta Vincenzi, infatti, era al Matitone – questo il nome del centro operativo – già dalla mattina e aveva visto in prima persona crescere il fiume, e quindi avrebbe avuto tutto il tempo per intervenire ed evitare la strage. Il libro, che si chiama "Guida alla Genova pop"  e sarà pubblicato dalla casa editrice De Ferrari, sarà presto in vendita.

TARANTO E VADO LIGURE. C’E’ INQUINAMENTO ED INQUINAMENTO. E’ SALUBRE SE E’ DI SINISTRA.

“I vari servizi giornalistici dedicati negli ultimi giorni da Panorama, il Giornale e dai telegiornali Mediaset alla centrale elettrica Tirreno Power di Vado Ligure lanciano con ampio rilievo accuse infondate e palesemente strumentali nei confronti di Carlo De Benedetti e del gruppo Cir”. E’ quanto precisa in una nota il portavoce Cir. “La centrale non è di Carlo De Benedetti. Né lui né alcun rappresentante di Cir hanno ruoli in Tirreno Power. L'impianto è stato costruito dall’azienda elettrica di Stato alla fine degli anni ’60 e gestito dall’ex monopolista pubblico per oltre 30 anni, fino al 2002. Uno degli azionisti di Tirreno Power, con una quota di minoranza del 39% detenuta indirettamente, è Sorgenia (società controllata da Cir). Sorgenia non gestisce in alcun modo la centrale di Vado Ligure". "Carlo De Benedetti -continua la nota - , inoltre, non è più azionista del gruppo Cir. Nonostante ciò sia De Benedetti sia il gruppo Cir sono chiamati in causa strumentalmente con informazioni errate o distorte, fingendo di ignorare peraltro che nella proprietà di Tirreno Power ci sono altre società che non vengono quasi mai citate. Quanto alle accuse sull’impatto ambientale dell’impianto - senza entrare nel merito delle indiscrezioni relative all’inchiesta giudiziaria in corso sulla centrale - si ricorda che la società Tirreno Power ha sempre dichiarato di operare nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali”.

Centrale di Vado: dieci domande a De Benedetti, scrive “Il Secolo XIX”. Dieci domande rivolte all’ingegner Carlo De Benedetti, socio forte della Tirreno Power attraverso Sorgenia, firmate da personaggi autorevoli sul progetto di ampliamento della centrale a carbone di Vado Ligure. Le domande sono contenute in una lettera che domani verrà pubblicata su diverse testate nazionali. A De Benedetti (che attraverso Sorgenia detiene il 78% di Energia Italiana, a sua volta proprietaria del 50% di Tirreno Power, mentre l’altro 50% e in mano a EblAcea, società detenuta per il 70% da GdfSuez e per il 30% da Acea) viene chiesto perché l’azienda si ostina a procedere a questo intervento «contro ogni logica democratica (contro il volere del 90% della cittadinanza, dei Partiti, di tutti i Comuni, della Regione, dell’Ordine dei Medici, di tutto l’Associazionismo) e ambientale (dopo 40 anni di dati drammatici in termini di mortalità e di inquinamento nella nostra città, con migliaia di morti in più rispetto alla media regionale)». Le dieci domande sono state raccolte in un documento frutto del lavoro di sintesi di molti esperti, amministratori, medici, giornalisti, associazioni e comitati. Tra questi figurano Margherita Hack, Beppe Grillo, Maurizio Maggiani, Luigi De Magistris, Oliviero Beha, Ferdinando Imposimato e ancora Sergio Staino, Angelo Bonelli, Massimo Carlotto, Lella Costa, Marco Pannella, Don Andrea Gallo, Lidia Ravera, Paolo Ferrero, Vittorio Agnoletto, Ennio Remondino, Bruno Gambarotta, Patrizia Gentilini, Giovanni Impastato e Mimmo Lombezzi. «Perché non volete ammettere» si chiede fra l’altro a De Benedetti «che le centrali a carbone uccidono? Perché mistificate la realtà dicendo che avete il “carbone pulito” (concetto smentito dalle principali ricerche internazionali), così giocando con la vita della gente?». E ancora: «perché continuate a propagandare con ogni mezzo di comunicazione che il Vostro progetto di ampliamento della centrale e di ristrutturazione dei gruppi 3 e 4 esistenti diminuirebbe l’inquinamento, mentre ricerche scientifiche indipendenti dimostrano esattamente il contrario?».

La lettera pone a De Benedetti 10 domande sul perchè la sua ditta Tirreno Power vuole ampliare la centrale a carbone di Savona, contro ogni logica democratica (contro il volere del 90% della cittadinanza, dei Partiti, di tutti i Comuni, della Regione, dell'Ordine dei Medici, di tutto l'Associazionismo) e ambientale (dopo 40 anni di dati drammatici in termini di mortalità e di inquinamento nella nostra città, con migliaia di morti in più rispetto alla media regionale), un documento frutto del faticoso lavoro di sintesi di molti esperti, amministratori, medici, giornalisti, associazioni e comitati. E' una battaglia di civiltà, e per la vita. Da settembre la dirigenza Tirreno Power vuole decidere per l'ampliamento, incurante della contrarietà della comunità savonese.

10 DOMANDE ALL’ING. DE BENEDETTI SULLA CENTRALE A CARBONE TIRRENO POWER DI SAVONA.

Egr. ing. Carlo De Benedetti, a Lei che si vanta di essere la tessera numero uno del Partito Democratico, poniamo 10 questioni in merito alla Sua decisione di ampliare la centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure (Savona), da Lei controllata attraverso CIR Sorgenia, con tutte le conseguenze in termini di mortalità prematura della popolazione e nonostante la quasi totale contrarietà di cittadini, istituzioni, partiti, associazioni, medici e biologi. 10 le domande, alle quali Le chiediamo di dare risposta:

1) CONTRARIETA’ DELLA CITTA’ AL PROGETTO - perché vi ostinate a perseverare nel vostro progetto di ampliamento, in spregio alla contrarietà dell’85%-90% della popolazione savonese, quella dei partiti (tra cui anche il PD), della Regione, dei Sindaci, dei Consigli comunali, delle Circoscrizioni, dell’Ordine dei Medici, di tutto l’associazionismo provinciale, delle principali personalità della società civile? E’ questo il personale concetto di democrazia del tesserato numero uno del Partito Democratico? Tutto questo non va contro non solo ai valori fondanti sanciti nello Statuto del PD, ma anche ai più elementari principi di democrazia del nostro paese? Hanno approvato delibere contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power tutti i comuni interessati: i Comuni di Savona, Vado Ligure, Quiliano, Bergeggi, Spotorno, Noli, Finale Ligure, Balestrino, Vezzi Portio, Albissola Marina, Celle Ligure, Altare, Carcare, Cairo.

2) DI CARBONE SI MUORE - perché Lei e la dirigenza Tirreno Power non volete ammettere che le centrali a carbone uccidono? Perché mistificate la realtà dicendo che avete il “carbone pulito” (concetto smentito dalle principali ricerche internazionali), così giocando con la vita della gente? Secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici di Savona “in tutta la provincia di Savona (con dati che peggiorano quanto più ci si avvicina alla centrale) diversi tumori e altre patologie vascolari, aumentano drammaticamente rispetto alla media nazionale (in particolare i tumori al polmone, vescica e laringe, le patologie cardiovascolari come infarti, emorragie cerebrali, ictus ed altre)”. Le ricordiamo che in provincia di Savona in 16 anni sono morte circa 2.664 persone in più rispetto all’atteso (in base ai tassi standardizzati di mortalità della Liguria). I calcoli commissionati dalla Comunità Europea asseriscono che nel nostro territorio savonese abbiamo valori di inquinamento fra i più alti in Italia, cui si associa una significativa riduzione dell’aspettativa di vita (la speranza di vita in Liguria è ridotta di quasi un anno per via dell’inquinamento). Ricordiamo che, secondo un’altra ricerca, a Vado Ligure il tumore maligno al polmone colpisce il 30% in più degli uomini rispetto al resto della Provincia. Per le malattie ischemiche del cuore, a Vado le donne fanno registrare il 71,9% di casi in più rispetto alla media regionale, mentre per le malattie respiratorie croniche ostruttive, a Vado gli uomini fanno registrare il 150% (centocinquanta) in più sulla Regione.

3) IL CARBONE PRINCIPALE MINACCIA CONTRO IL CLIMA - perché, in collaborazione con il Governo, volete perseverare con il Vostro dannoso progetto di ampliamento della centrale a carbone, quando questo va ancora di più contro gli importantissimi accordi presi dall’Italia e dagli altri Stati nel protocollo di Kyoto? Il carbone rappresenta la prima minaccia per l’equilibrio climatico mondiale: oltre un terzo delle emissioni mondiali di CO2 si devono all’uso di carbone, che è il combustibile fossile con le più alte emissioni specifiche di gas serra, circa il triplo del gas. Greenpeace denuncia che “il Governo italiano è contro il Protocollo di Kyoto, che obbliga il Paese a ridurre i gas serra del 6,5% rispetto al 1990. A oggi le emissioni sono aumentate del 10% e il Governo, già inadempiente e in disaccordo con gli impegni presi, continua ad autorizzare nuovi impianti a carbone, come la nuova centrale Enel a Civitavecchia e l’ampliamento di quella di Vado Ligure (la quale quindi aumenterà notevolmente la produzione di CO2). Il carbone porterà maggiori profitti nelle casse degli amministratori delle centrali, ma saranno i cittadini italiani a pagare le multe per Kyoto”.

4) IMPIANTI NON ALLINEATI ALLE NORMATIVE - perché continuate a far funzionare i gruppi 3 e 4 della centrale, nonostante non siano allineati alle norme IPPC dell’Unione Europea, alla direttiva 96/61/CE, e al decreto legislativo 59/05, e nonostante siano privi della certificazione AIA? Perché il solo fatto che il Governo abbia prorogato i tempi per la valutazione dell’istruttoria per la certificazione AIA della Vostra centrale (che dovrà recepire le normative europee e italiane in materia, sulle quali non vi siete ancora allineati), vi fa sentire in diritto di definirvi su tutti i giornali ancora formalmente a norma, quando in realtà siete sostanzialmente e moralmente inadempienti da 40 anni verso la comunità savonese per i livelli di inquinamento che state producendo? Perché evidenziate sempre sui giornali che siete in possesso del V.I.A. ministeriale (al quale peraltro si oppone il V.I.A. regionale negativo, approvato dalla Regione Liguria) senza invece mai segnalare alla cittadinanza che non siete allineati rispetto alle principali leggi in materia ? Ricordiamo che il V.I.A. ministeriale è soltanto una Valutazione d'Impatto Ambientale gestito da un organo di nomina politica, fra l’altro dichiarato illegittimo 3 mesi fa dalla Corte dei Conti, e contro il quale la Regione Liguria ha fatto ricorso. E ancora: perché, come dice l’ex Assessore Regionale all’Ambiente, “non vi siete conformati alle disposizioni regionali in materia, né al Piano Energetico Regionale, né al Piano Regionale di risanamento della qualità dell’aria?”. Perché secondo i medici del MODA “non si è più discusso della completa metanizzazione degli impianti che la città attende da più di 20 anni, come votato dagli enti locali savonesi fino al 2007 (compreso il Comune di Savona) e come indicava l’Istituto Superiore di Sanità già nel 1988?” Anche il Segretario Provinciale del PD (del suo Partito) ha dichiarato in questi giorni ai giornali: “Tirreno Power sta dicendo e facendo di tutto meno che l’unica cosa che dovrebbe fare: i monitoraggi, la copertura dei parchi e in generale investimenti per diminuire l’impatto del carbone sul territorio (…) Di questo progetto non ce n’è bisogno, non è in sintonia con i tempi (…) Da anni continuiamo a parlare di cose che avrebbero già dovuto essere fatte e la Tirreno Power non ha fatto (...) Si usa sempre la logica ricattatoria occupazionale per non fare! È ora di finirla (…) È questione di credibilità: mi spiace ma Tirreno Power non è più un interlocutore affidabile”.

5) MAGGIOR INQUINAMENTO CON IL PROGETTO DI AMPLIAMENTO - perché continuate a propagandare con ogni mezzo di comunicazione che il Vostro progetto di ampliamento della centrale e di ristrutturazione dei gruppi 3 e 4 esistenti diminuirebbe l’inquinamento, mentre ricerche scientifiche indipendenti dimostrano esattamente il contrario? Sui giornali avete dichiarato che volete investire e mettere a norma la centrale esistente (affermazione che peraltro, secondo molti esperti, non corrisponde alla verità in quanto le modifiche che apportereste ai gruppi 3 e 4 sarebbero insufficienti), ma che non lo farete se non si concede in cambio anche l’ampliamento della centrale stessa. Da quando vale il ricatto per cui si seguono le leggi solo se si concede qualcosa in cambio? Perché deve valere per Lei questa deroga che non è concessa ai singoli cittadini? Una società come Tirreno Power che ha prodotto 100 milioni di euro di utili netti all'anno non è forse economicamente in grado di allinearsi alle normative europee? E perché riproporre l’eterno ricatto delle centinaia di milioni di investimento e di 40 nuovi posti di lavoro, da mettere sull’altro piatto della bilancia rispetto ai danni ambientali e ai tassi di mortalità? La Provincia di Savona su questo tema ha già storicamente pagato prezzi molto alti, con conflitti laceranti tra salute e lavoro, e non ha bisogno di essere sottoposta a una nuova prova di forza. Ricordiamo inoltre che, come dice il Presidente Regionale di Italia Nostra “realizzare l’ampliamento porterebbe Vado ad una potenza complessiva di 1880 MW, al terzo posto in Italia (dopo Montalto di Castro e Brindisi). Ci deve essere un limite al gravame su un territorio, e questo limite a Vado (dopo decenni di industrializzazione in buona parte scomparsa ma che ha lasciato altre pesantissime eredità negative sul territorio) è certamente già stato superato”. Secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici “gli attuali gruppi 3 e 4 a carbone della centrale (risalenti agli anni ’60 del secolo scorso e obsoleti da decenni), una volta ristrutturati secondo il Vostro progetto di ampliamento (propagandato come un adeguamento secondo le migliori tecnologie), emetteranno, per ogni Megawatt installato, 3,4 volte in più ossidi di zolfo, 2,5 volte in più ossidi di azoto, il doppio delle polveri primarie rispetto al nuovo gruppo, dimostrazione evidentissima che, pur disponendo di una tecnologia meno inquinante, questa non sarà applicata in modo significativo a tutti i gruppi a carbone, ma solo a uno, al gruppo nuovo”. E’ evidente che solo finalmente con un ampio confronto con i Comuni, la Regione, i comitati, e con l’ausilio di esperti indipendenti (e solo dopo aver rinunciato al progetto di ampliamento), si potrà valutare se l’adeguamento alla legge 59/05 (che prevede l’utilizzo delle migliori tecnologie esistenti) sarà fattibile in modo significativo nella ristrutturazione dei vecchi gruppi 3 e 4, o se (come sostengono efficacemente molte personalità autorevoli in materia) tali gruppi invece risulteranno non più ristrutturabili.

6) CENTRALE COME INCENERITORE - rispondono al vero le voci che si stanno diffondendo, secondo le quali un vostro obiettivo potrebbe essere quello di usare i gruppi a carbone anche per bruciare i combustibili derivati da rifiuti (CDR), utilizzando quindi la centrale anche come inceneritore? Questo (la gente non lo sa, ma voi ben lo sapete) aggraverebbe in modo devastante la situazione, perché ai fumi velenosi derivanti dal carbone (polveri sottili e ultrasottili, metalli pesanti, diossine, solfati, nitrati, ecc, oltre che radiazioni superiori a quelle delle centrali nucleari) si aggiungerebbero altre pericolosissime emissioni di diossine, polveri, e metalli pesanti.

7) INSUFFICIENTE MISURAZIONE DEI LIVELLI DI INQUINAMENTO - perché accetta il paradosso che il controllo delle emissioni dalle ciminiere della Sua centrale a carbone sia eseguito dalla stessa Tirreno Power (per cui gli inquinatori sono i CONTROLLORI DI SE STESSI, senza che sia prevista alcuna verifica da parte di enti terzi) e non invece da un Ente Pubblico, il quale finalmente dopo decenni potrebbe garantire la cittadinanza sui reali livelli di inquinamento? Per quanto riguarda invece le centraline esterne alla centrale, secondo il referente scientifico dell’Ordine dei Medici “i dati sull’inquinamento vengono misurati dall’ARPAL in modo superficiale, obsoleto e insufficiente (per numero e dislocazione delle postazioni, e per tipologia di inquinanti misurati)”. Come può peraltro la comunità savonese avere fiducia nell’ARPAL, un’agenzia la cui intera dirigenza è indagata dalla Procura della Repubblica di Genova per falso, turbativa d’asta ed altri gravissimi capi d’accusa? Come si può dire, ing. De Benedetti, che l’inquinamento è sotto controllo, quando si sceglie di non misurare efficacemente le polveri inquinanti?

8) RIFIUTO DEL CONFRONTO - perché i Responsabili della centrale rifiutano da anni qualsiasi confronto pubblico con l’Ordine dei Medici, con i Medici per l’Ambiente e più in generale con la cittadinanza, lasciando alle migliori agenzie pubblicitarie una massiccia comunicazione fatta di slogan facilmente smentibili dai dati scientifici (“abbiamo la tecnologia”, “carbone pulito”, “ampliamo per migliorare l’aria”)? Anche questo, ing. De Benedetti, è il Suo personale concetto di democrazia, oppure è solo perché ben sapete che il vostro progetto non può reggere il confronto con le principali istituzioni mediche locali? Perché su questo tema si è messo in atto da decenni a Savona un fruttuoso e perverso meccanismo misto: da un lato si ‘addolcisce’ (si promette, si sostiene, si sponsorizza…) e dall’altro si minaccia? Sono state minacciate di ritorsioni di vario tipo (“ti faccio licenziare”, “ti querelo”, “ti massacro politicamente”, ed altre pressioni) varie categorie di persone che avevano tentato di spiegare la verità, inclusi importanti amministratori locali, medici e giornalisti.

9) SOVRAPPRODUZIONE - perché volete perseverare con il Vostro dannoso progetto di ampliamento, in una città come Savona che NON ha bisogno di nuova energia elettrica, dato che la Centrale già attualmente produce una quantità di energia superiore di ben 5 (cinque) volte a quella che viene consumata in tutta la Provincia? Perché, ing. De Benedetti, deve essere di nuovo la Provincia di Savona a essere martoriata e sottoposta ai Vostri interessi economici, una Provincia che da anni sta cercando faticosamente di sviluppare la sua importante e strategica vocazione turistica? Ricordiamo che in Liguria (che secondo studi della UE è una delle regioni più inquinate d’Italia), una terra tanto bella a livello paesaggistico e naturalistico quanto devastata dalle industrie e dal cemento, vi sono già ben 3 centrali a carbone (il 27% di quelle rimaste in funzione in Italia), peraltro pericolosamente vicine a città densamente abitate.

10) ENERGIE RINNOVABILI - perché volete perseverare nella produzione di energia dal carbone (una produzione più economica, usata ancora tra moltissime critiche in altri Stati, ma estremamente dannosa per la salute e per questo con un consumo in continua riduzione in Europa), senza investire significativamente nel metano e soprattutto nelle energie rinnovabili realmente pulite? Come ha detto il Premio Nobel Carlo Rubbia proprio sul suo giornale, ‘La Repubblica’: “Il carbone è la fonte energetica più inquinante, più pericolosa per la salute dell'umanità. La CO2 dura in media fino a 30.000 anni. Il ritorno al carbone sarebbe drammatico, disastroso…”.

In sintesi, perché Lei che si dichiara il primo tesserato del PD, calpesta buona parte dei principi e dei valori propri del centrosinistra (e presenti nello Statuto del PD): rispetto della volontà popolare, rispetto della vita umana, rispetto e cura per l'ambiente, confronto e dibattito nelle decisioni, adeguamento alle normative dell’Unione Europea, adeguamento alle leggi non come merce di scambio, considerazione delle opinioni degli esperti e degli organi medici competenti, sviluppo delle energie rinnovabili, ecc.? Non conviene con noi, ing. De Benedetti, che il rispetto per la vita e per l’ambiente non può e non deve far parte di un mero gioco di interessi politici ed economici, ma deve invece far parte dei valori primari ed inalienabili di ogni popolo civile? Produrre energia non è un fine ma un mezzo per far funzionare la società in cui viviamo: è etico e doveroso investire capitali per produrre energia con le metodiche meno inquinanti possibili, compatibili con la salute dei cittadini, evitando il combustibile più inquinante di tutti che è il carbone. Nessun calcolo economico può giustificare la richiesta di perpetuare lo scempio ambientale e le morti premature causate dalla combustione del carbone. Le chiediamo quindi di rispettare la volontà della nostra comunità, desistendo dal Suo progetto di ampliamento della centrale a carbone e riducendo fortemente i livelli di inquinamento adeguando la centrale alle migliori tecnologie esistenti, così come previsto dalla legge. Certi di una sua Risposta, Le porgiamo distinti saluti. Firmatari savonesi: PAOLO FRANCESCHI (pneumologo, referente scientifico dell’Ordine dei Medici Savona) AUGUSTO PERSEO (Presidente Comitato ‘Amare Vado’) ADOLFO MACCHIOLI (prete) AGOSTINO TORCELLO (medico pneumologo, MODA Savona) ANTONINO FRISONE (ex Comandante del Porto di Savona, ex Ammiraglio) BRUNO MARENGO (Presidente Provinciale ANPI Savona, ex Sindaco) CARLO TONARELLI (medico, scrittore, ambientalista, Consigliere Comunale) CARLO VASCONI (Portavoce Provinciale dei Verdi) CLAUDIO GIANETTO (Segretario Provinciale PdCI Savona) CLAUDIO PORCHIA (giornalista) DARIO FRANCHELLO (Presidente del Parco del Beigua) DAVIDE CAVIGLIA (Presidente Provinciale ACLI Savona) DAVIDE MONTINO (docente universitario) ELIO BERTI (attore, Direttore artistico dell’associazione Timoteo) ENZO MOTTA (Presidente del circolo Pirandello) FABIO RINAUDO (musicista, Presidente associazione Corelli) FRANCESCA MARZADORI (Portavoce UAAR Savona) GIAMPIETRO FILIPPI (ex Assessore all’Ambiente della Provincia di Savona) GIANCARLO ONNIS (Presidente Legambiente Savona) GIANFRANCO GERVINO (Portavoce di ‘Uniti per la salute’) GIORGIO AMICO (scrittore) GIOVANNI DURANTE (Presidente Provinciale ARCI Savona) MARCELLO ZINOLA (Segretario Ordine dei giornalisti liguri) MARCO CAVIGLIONE (medico ambientalista ISDE, Consigliere Provinciale) MARCO MOLINARI (giornalista) MARCO RAVERA (Segretario Provinciale Rifondazione Comunista di Savona) MAURIZIO LOSCHI (Referente Provinciale Medicina Democratica) NICOLA STELLA (giornalista) PIERO BORGNA (Capogruppo Consiglio Comunale Vado “Viva con Caviglia”) RENATO ALLEGRA (vicepresidente NuovoFilmstudio) RICCARDO CICCIONE (Ufficiale Marina mercantile Direttore settore macchine) ROBERTO CUNEO (Presidente Regionale Italia Nostra) ROBERTO MELONE (Portavoce del Comitato Acqua Pubblica Savona) ROSARIO TUVE’ (Coordinatore Provinciale Italia dei Valori) SAMUELE RAGO (Segretario Provinciale ANPI Savona) SERGIO ACQUILINO (Portavoce provinciale Sinistra Ecologia Libertà Savona) SIMONE GAGGINO (Coordinatore di Banca Etica di Savona-Imperia) STEFANO MILANO (titolare libreria UBIK) STEFANO SARTI (Presidente Legambiente Liguria) VALERIA ROSSI (giornalista) VIRGINIO FADDA (biologo, MODA Savona) VIVIANA PANUNZIO (Portavoce Emergency Savona) WALTER MASSA (Presidente ARCI Liguria) Comuni che hanno approvato delibere contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power: I Comuni di Savona, Vado Ligure, Quiliano, Bergeggi, Spotorno, Noli, Finale Ligure, Balestrino, Vezzi Portio, Albissola Marina, Celle Ligure, Altare, Carcare, Cairo Montenotte. Associazioni savonesi che hanno firmato la lettera contro l’ampliamento della centrale Tirreno Power, e a favore di un suo adeguamento alle normative: ARCI, ACLI, Emergency, Libera, Meetup di Beppe Grillo, Rete Lilliput, Unione Donne in Italia, Donne in Nero, Legambiente, Greenpeace, ANPI, Italia Nostra, UAAR, Comitato Acqua Pubblica, Uniti per la Salute, Amare Vado, Banca Etica, GaSSa acquisto solidale, Vivere Vado, Medicina democratica, Libreria UBIK, NuovoFilmstudio, Altromondo, Centro culturale P.Impastato, Associazione Energie Rinnovabili Vallebormida, ecc.

Ringraziamo vivamente tutti gli esperti, i medici, i biologi, gli amministratori, i giornalisti, i comitati che si sono pazientemente adoperati nello stilare questo documento. Iniziativa a cura della libreria UBIK.

La legge è uguale per tutti?

A Vado Ligure, alle porte di Savona, si registrano mille morti in più per cancro rispetto ai parametri scientifici presi a riferimento, scrive “Il Radar”. Secondo un’altra fonte, l’Istituto tumori di Genova, nel decennio 1988-98 a Vado sono morte di cancro 112 persone su 100mila contro una media nazionale di 54, più del doppio. Tutti puntano il dito sulla centrale a carbone della Tirreno Power, che, come riporta Il Giornale, da quarant’anni brucia fino a 4.000 tonnellate di carbone al giorno. La storia va avanti dal 1971, quando Enel inaugura la centrale che produce energia elettrica. Trent’anni dopo, nel novembre 2002, l’impianto passa a Tirreno Power, una cordata di imprenditori tra i quali primeggia Carlo De Benedetti. La procura di Savona apre un fascicolo per omicidio colposo, lesioni colpose e disastro ambientale. Niente sequestri, niente arresti, niente confische. In Liguria la Tirreno Power (che è il quarto produttore elettrico nazionale) sfrutta un ampio sostegno trasversale, un intreccio tra politica e imprenditoria che fa da scudo alla gigantesca centrale, una delle 13 ancora alimentate a carbone in Italia. Governa la sinistra e tutti devono stare zitti, soprattutto se c’è De Benedetti di mezzo…

Ciò che vale per l’Ilva non conta se c’è di mezzo De Benedetti, scrive “Tempi”. A Vado Ligure, vicino a Savona, «si registrano mille morti in più per cancro rispetto ai parametri scientifici presi a riferimento. (…) I cittadini, gli ambientalisti, gli esperti, la magistratura, perfino la curia puntano il dito sulla centrale a carbone della Tirreno Power, che da quarant’anni brucia fino a 4.000 tonnellate di carbone al giorno». Così si legge in un articolo pubblicato dal Giornale e scritto dall’inviato Stefano Filippi, che sembra raccontare una storia simile all’Ilva, ma con differenze importanti. Nel 2002 l’impianto inaugurato da Enel nel 1971 passa a Tirreno Power, «una cordata di imprenditori tra i quali primeggia Carlo De Benedetti, che però non ne ha il controllo». Nonostante le riconversioni a gas di due gruppi termici, le unità a carbone bruciano ancora e ci vuole Greenpeace «per attirare l’attenzione sulle due enormi ciminiere bianche e rosse che scaricano nell’aria enormi quantità di polveri sottili: è il luglio 2009». La procura di Savona «apre un fascicolo per omicidio colposo, lesioni colpose e disastro ambientale» e viene realizzata una consulenza da tre esperti depositata a fine giugno. Ma se a Taranto, per l’Ilva, sono scattati dalla magistratura provvedimenti clamorosi, in Liguria «niente sequestri, niente arresti, niente confische»: «Mancano ancora conferme sui legami tra emissioni della centrale termica ed effetti sulla salute pubblica». La differenza di trattamento tra Ilva e Tirreno Power è forse dovuta a «un intreccio tra politica e imprenditoria». A Vado Ligure, infatti, la sinistra governa da sempre ma soprattutto nella centrale è fortemente implicato Carlo De Benedetti. L’editore di Espresso e Repubblica, tessera numero uno del Pd, «controlla il 39 per cento della centrale attraverso Sorgenia (gruppo Cir). Tirreno Power appartiene a due società al 50 per cento: da un lato i francesi del gruppo Gdf Suez, dall’altro Energia Italiana Spa. Le cui quote sono così ripartite: 78 per cento a Sorgenia, 11 per cento ciascuna alle multiutility quotate Hera e Iren, ex aziende municipalizzate di città storicamente in mano alla sinistra come Torino, Genova, Bologna e l’intera dorsale emiliano-romagnola». Anche Legambiente è «socia di De Benedetti: ha il 10 per cento della società Sorgenia MenoWatt che si occupa di soluzioni per l’efficienza energetica». Sta qui il motivo della disparità di trattamento tra Tirreno Power e Ilva?

Vado Ligure? Repubblica tace, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Tra l’Ilva di Taranto e la centrale elettrica di Vado Ligure non ci sono soltanto mille chilometri di autostrada. In Liguria la magistratura ha operato sino a oggi senza clamori. Niente sequestri né arresti alla tarantina, per intenderci. Eppure non è stato smentito dalla Procura che una perizia abbia stimato, fra il 2000 e il 2008, un deciso aumento della mortalità nella popolazione: si parla di mille morti in più. I magistrati indagano per disastro ambientale e omicidio colposo. A Taranto e a Vado Ligure il copione è identico: impresa inquinante e magistratura inquirente. Il caso savonese è ancora agli inizi, ma le «cimitiere» e i fumi lenti e inesorabili che si scorgono dal Golfo dei poeti sarebbero un buon motivo per un’incursione giornalistica nella terra di Ponente, dove tramonta la dignità del lavoro soffocata da capitalisti senza scrupoli. E la fantasia dei cronisti della Repubblica potrebbe sfogarsi in rivoli di inchiostro colpevolista, della stessa risma di quello iniettato per mesi nell’opinione pubblica per il caso di Taranto e dei Riva condannati preventivi. Invece niente, sull’impianto della Tirreno Power, di cui dal 2002 la Sorgenia del gruppo Cir è stata importante azionista, neppure una riga. Anche dal 19 settembre, quando il Secolo XIX riporta la notizia della relazione dei periti della procura, La Repubblica tace. Evidentemente la notizia sfugge all’occhio selettivo del Grande Editore. Non solo quel giorno, ma anche in quelli successivi. Vado Ligure? Non esiste. Dato che il garantismo è estraneo alla logica dei due pesi e delle due misure, va detto si parla di una perizia di parte: nessuna verità rivelata. E si dovranno attendere le controdeduzioni dell’azienda, perché De Benedetti ha il sacrosanto diritto di difendersi. E va detto anche che secondo l’Assocarboni quasi un terzo della domanda di energia europea viene soddisfatta dal carbone. Ma intanto La Repubblica impone la regola del silenzio. A Taranto, cari colleghi, avete lanciato i sassi di un’intifada indegna perché faziosa e ideologica. Mille chilometri a nord, invece, non solo deponete le armi, ma riponete le penne perché avete deciso che i cittadini non devono sapere. Vado Ligure non esiste. Adriano Sofri, per citarne uno, non ha trovato ancora il tempo per una passeggiata tra gli abitanti di questo paesino a due passi da Genova. Tra «le rovine ciclopiche dell’Ilva», invece, Sofri c’è stato a più riprese. Ogni volta ha ritratto «l’inferno dell’archeologia contemporanea» dove i Riva, ha stabilito Sofri con l’inoppugnabile certezza che non abbisogna di processi, sono responsabili di aver «prosciugato la cassaforte dell’Ilva trasferendone le risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie». E a chi dice che le bonifiche del territorio costerebbero un paio di centinaia di miliardi di euro, ecco servita la rampogna sofriana: «Non è una cifra, è un’amara barzelletta». Il 31 marzo, sotto il titolo «L’aprile crudele dell’Ilva», l’editorialista fa di conto: «I lavori indispensabili a mettere in ordine lo stabilimento costerebbero poco meno dei 10 miliardi del cosiddetto salvataggio di Cipro». A Vado Ligure, Sofri lo attendono ancora. Prima o poi arriverà. Intanto intervista i dipendenti dalla fabbrica pugliese: «Dicono gli operai più anziani che una volta che l’Ilva fosse disertata e smantellata [...] si scoprirebbe quale irredimibile discarica tossica abbia via via sedimentato il suolo su cui poggia lo stabilimento, e i canali dai quali avvelena i mari». E a metà settembre, quando in seguito al maxisequestro preventivo i Riva annunciano la chiusura di alcuni stabilimenti, Sofri impugna la penna contro «la ritorsione che vuol mettere questi lavoratori contro quelli dell’Ilva tarantina, e gli uni e gli altri contro procura e gip di Taranto». Sofri mobilita persino Papa Francesco: «Se fossi il papa visiterei le discariche dell’Ilva». Il titolo dell’articolo, manco a dirlo, è «La pelle degli operai». Non è omerico come quello del 5 giugno: «L’Iliade di Taranto». Chissà se a Repubblica qualcuno si accorgerà dell’Odissea di Vado Ligure: anche lì gli abitanti hanno qualcosa da raccontare. Gli operai della Tirreno Power hanno una pelle pure loro, prima o poi l’impeto operaistico sofriano soffierà sulle loro sofferenze. Oppure no? C’è poi il procuratore di Torino Raffaele Guariniello, quello della condanna dell’Eternit , il fautore della Procura nazionale per i reati ambientali. Guariniello finisce su Repubblica tv per la seguente dichiarazione: «La sentenza Eternit ha delle analogie con il caso di Taranto, per il quale potrebbe essere un precedente». Applausi. Quando però il 17 agosto lo stesso Guariniello partecipa all’evento organizzato dalla rete ambientalista «Fermiamo il carbone» contro la centrale di Vado Ligure, sul lungomare di Zinola non compare nessun cronista della Repubblica. Silenzio. Come non citare poi la fanfara anti-Ilva del vicedirettore Massimo Giannini, che a Ballarò si scaglia contro il «capitalismo rapace e irresponsabile» dell’Ilva, dove «la gente muore e i mesoteliomi aumentano del 400 per cento l’anno», e poi esalta i magistrati: «Invece di dire che la magistratura è la responsabile dei nostri guai, dovremmo ringraziarla». Finora, va detto, i ringraziamenti di Giannini alla procura savonese non sono pervenuti. Per chiudere il cerchio debenedettiano tocca menzionare Roberto Saviano. Lo scorso 6 dicembre sulle colonne dell’Espresso descrive la sua «prima volta alla Camera». All’ingresso scorge un corteo di operai dell’Ilva, che manifestano «per il loro diritto al lavoro compromesso da politiche inadeguate, distratte, ladre». Poi aggiunge con tono profetico: «Ma la cosa più triste è che le uniche forze economiche nel nostro paese in grado di rilevare l’Ilva, di bonificarla e di rimetterla sul mercato sarebbero proprio le organizzazioni criminali». Per Saviano quella città è lo «specchio del paese Italia» che «paga le conseguenze di politiche industriali dissennate», mentre è sempre più urgente «immaginare un umanesimo che possa difendersi dall’aggressività del profitto». E dell’Editore. Applausi.

Così la Liguria rossa copre l'azienda tossica dell'Ingegner De Benedetti. Enti locali, sindacati, ambientalisti: De Benedetti, socio della centrale di Vado Ligure, gode di ampie coperture. Anche se il caso è simile all'Ilva, nell'inchiesta nessuna svolta, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Era il 1985, e Carlo De Benedetti acquisì in saldo il gruppo Sme dall'Iri prodiana in fase di privatizzazioni. L'operazione poi saltò, ma è un'altra storia. Nel 2002 è andata molto meglio all'Ingegnere con la liberalizzazione dell'energia. Perché è così che l'editore di Repubblica e l'Espresso ha consolidato la presenza nel settore: comprando alcuni impianti dall'Enel (cioè dal Tesoro) in base alle «lenzuolate» del ministro Pier Luigi Bersani. Tra queste centrali c'era quella di Vado Ligure, contestatissima perché alimentata a carbone. Come l'acciaieria Ilva di Taranto. Secondo i periti della procura della Repubblica di Savona, la centrale di Vado inquina e uccide. Le indagini procedono con grande prudenza senza i clamorosi provvedimenti di Taranto. Amicizie e buone coperture accompagnano il tesserato numero 1 del Partito democratico in questa avventura imprenditoriale. A partire dai sindacati, preoccupati per i posti di lavoro. Legambiente ha il 10 per cento di Sorgenia MenoWatt, società della galassia debenedettiana. E poi gli enti locali: mentre le altre due centrali termoelettriche a carbone liguri (a Genova e La Spezia) faticano a ottenere permessi per ampliamenti e ristrutturazioni, quella di Vado ha avuto i via libera richiesti. Dei quattro gruppi produttivi, i due che vanno a carbone non sono ancora stati riconvertiti. Tirreno Power, società proprietaria dell'impianto (De Benedetti ne controlla il 50 per cento), promette interventi per abbattere le emissioni delle due ciminiere. Oggi Tirreno Power è attenta a non coinvolgere De Benedetti nella propria attività. Ogni volta che si cita l'impianto di Vado e le indagini della magistratura savonese, piovono le precisazioni: l'Ingegnere è un semplice azionista di minoranza attraverso la società Sorgenia (gruppo Cir). Non andò così nel 2002, ai tempi dell'acquisizione dall'Enel. «Interpower al gruppo Cir», titolava Repubblica attribuendo il successo alla «cordata messa a punto dalla Cir» e in particolare «ai rapporti personali tra Carlo De Benedetti e Gerard Mestrallet, numero uno della Suez». Come andarono le cose? Per liberalizzare il mercato dell'energia, Bersani impose a Enel di non produrre più del 50 per cento dell'elettricità italiana. La società guidata da Piero Gnudi mise dunque sul mercato una capacità pari a 15 gigawatt divisa in tre Genco (Generation company). La Genco 1 chiamata Eurogen (7 gw) andò a Edipower e la seconda, Elettrogen, agli spagnoli di Endesa (5,5 gw). Alla gara per la terza Genco, Interpower (2,611 gw), furono presentate 19 manifestazioni di interesse da ogni parte del mondo ridotte a quattro offerte non vincolanti. Ma al dunque, giunse una sola offerta vincolante: quella della cordata Cir. L'Enel voleva un miliardo di euro, valore calcolato dall'advisor Mediobanca. De Benedetti offrì poco più di 800 milioni. Enel e governo (allora guidato da Silvio Berlusconi) chiesero un rilancio. I tempi giocavano a favore dell'Ingegnere, perché il decreto Bersani imponeva alla cessione una scadenza che si avvicinava. Enel avrebbe potuto azzerare la gara e chiedere un altro anno di tempo, come previsto in caso di offerta considerata non congrua. Ma Antitrust e Authority dell'energia non erano favorevoli. Alla fine il prezzo fu di 874 milioni, compresi 323 di debiti accollati. La cifra corrisponde a circa 336 milioni di euro per gigawatt. Enel incassò complessivamente 8,3 miliardi dalla cessione di 15 gw: all'incirca 550 milioni per gw. Significa che, per rilevare la Genco 3, De Benedetti ha sborsato in proporzione molto meno delle cordate per Genco 1 e 2. L'Ingegnere agiva attraverso la società Energia, di cui controllava il 74 per cento. I suoi partner nell'operazione furono Acea, municipalizzata del comune di Roma (allora il sindaco era Walter Veltroni) e i belgi di Electrabel (gruppo Suez), vecchi avversari quando l'Ingegnere tentò la scalata alla Société Générale de Belgique: Mestrallet ne era il presidente. Ma i due nel frattempo erano diventati buoni amici grazie alla comune frequentazione dell'Ert (European round table), associazione che riunisce i maggiori manager europei.

LIGURIA MASSONE.

La Massoneria, definita anche Arte Reale, è un’istituzione iniziatica e di fratellanza a base etica e morale. Essa, dunque, si propone come patto etico-morale tra persone libere. Un patto da intendersi non come un’operatività socio-politica, ma come tensione collettiva, di tutti gli affiliati alla massoneria, alla via di perfezionamento delle più elevate condizioni dell’umanità. La Massoneria supera le barriere etniche, religiose, ideologiche e politiche sulla base delle antiche regole stabilite nelle Costituzioni dei liberi muratori del 1723 e alle quali tutte le istituzioni massoniche del mondo fanno riferimento, anche se con alcune differenze dovute a tradizioni locali e storiche. Essa, dal suo sorgere, è costituita da logge, cioè gruppi organizzati di persone che operano insieme con gli stessi scopi e ideali, seguiti da ogni massone del mondo. In questo senso la massoneria è considerata dai suoi aderenti universale, pur nelle sue complesse diversità interne. Vivono tra noi, in segreto, e sanno riconoscersi da una stretta di mano. Quello che per molti è solo un gesto di routine, magari più vigoroso, distratto oppure prolungato, per loro è invece un segnale. Il tocco d’una o due dita sul polso è il segno rivelatore della fratellanza e in diverse varianti dice tutto in un istante, anche l’appartenenza a uno dei tre livelli alla base della piramide: l’apprendista, il compagno o il maestro. Se l’altro fa finta di niente o è sorpreso, non si fa che lasciar cadere l’esca. Ma non succede quasi mai. Perché di rado un iniziato si sbaglia, pure al primo incontro. Anche questa è la Massoneria.

«Per comprendere cosa sia veramente, bisogna viverla», dice senza lasciare varchi il sito internet di uno dei due “ordini” in cui l’associazione iniziatica si divide in Italia. Cosa sia davvero e cosa rappresenti per Genova, se lo stanno chiedendo in tanti dopo la morte dell’avvocato Giuseppe Anania, già gran maestro e personaggio di primo piano a livello nazionale, al cui funerale la Chiesa ha rifiutato di celebrare l’eucarestia. E Genova è un crocevia non secondario nel panorama italiano. Perché le logge, di recente, qui sono cresciute con un consistente numero d’iniziazioni e in un decennio l’età media è scesa da 54 a 44 anni. Pochi giorni fa, nella sede del capoluogo ligure, è stato iniziato un ventenne.

I partiti convincono sempre meno, scrive “Il Secolo XIX”, la religione ha poco “appeal” sui giovani più ambiziosi, l’associazionismo attira pochino, e in questo vuoto c’è una “fede” che sta facendo proseliti e conquista sempre più consenso specie tra neo laureati: la massoneria. È un dato che si registra a livello nazionale e che nel savonese sta suscitando curiosità e sorpresa. «È così, tanti giovani si stanno avvicinando, i motivi possono essere molteplici ma di sicuro c’entra il fatto che la politica e i partiti dei problemi della società se ne occupano sempre meno mentre per la nostra Istituzione i dogmi della società sono centrali e prioritari: la vita, gli obiettivi dell’umanità, il dialogo tra i popoli, verso dove andiamo - dice “Renzo” Brunetti, avvocato e storico massone savonese che ebbe il privilegio di ricoprire il ruolo di pubblico ministero nel processo massonico che giudicò Licio Gelli, il gran maestro che tra gli anni Settanta e Ottanta diede vita alla loggia “deviata” Propaganda Due (P2) - è per questo che a mio parere la massoneria funge da richiamo tra i giovani in cerca di risposte e questo aspetto sarà anche oggetto dell’intervento del nostro Gran Segretario nell’annuale convegno di Rimini che faremo a fine marzo come Grande Oriente d’Italia, l’Obbedienza a cui appartengo da sempre». Fare numeri è difficile perché la riservatezza, com’è noto, è una peculiarità massonica ma si stima che non sia esagerato parlare di decine e decine di giovani savonesi che nell’ultimo anno hanno mosso passi verso il Grande Oriente d’Italia, l’obbedienza maggioritaria che vanta 22 mila iscritti in Italia e ben 9 logge in provincia di Savona, o verso la Gran Loggia d’Italia che di iscritti ne annovera sugli 8 mila in Italia e di logge savonesi ne ha ben 6. Poi ci sarebbe il capitolo di gruppi e gruppuscoli minori, nati da scissioni e costole di altre logge, ma hanno numeri così esigui che sono difficili da seguire e conteggiare. Un po’ meno esiguo è poi il contingente savonese che frequenta logge francesi, considerato che nella sola Nizza ce ne sono decine e molto ben organizzate. Difficile dire quanti siano i massoni in provincia ma un dato è certo: il savonese, così come l’imperiese, è una delle aree dove storicamente “cappucci” e “grembiuli” raccolgono più adepti. Una stima verosimile parlava dello 0,2% della popolazione iscritta a una loggia, significa che nel savonese su 300 mila abitanti ci sarebbero circa 600-650 “fratelli muratori” con predominanza nel “Goi”, il Grande Oriente d’Italia (sui 300-330 iscritti), seguito dalla Gran Loggia d’Italia (230 circa), l’obbedienza che consente anche alle donne di partecipare (a differenza del Goi). E di templi - luoghi dove un paio di volte al mese si tengono le “tornate” (incontri) - se ne contano almeno 7 in provincia, con alcuni storici come quello di via Quarda Superiore a Savona (mascherato, come si faceva un tempo, dalla targa di un’associazione culturale, la “Cornelli”) a quello del centro storico di Albenga, in via Oddo, a quello più recente di Coasco, frazione di Villanova d’Albenga, dove si raduna la loggia “George Washington” del Goi nata da una costola dell’ingauna “Mazzini”.

Parlare dei primissimi anni della Massoneria genovese non è semplice, scrive Glauco Berrettoni su “Il Culturista”, in quanto siamo in presenza di una penuria di fonti documentarie, sia per quanto concerne le indagini delle pubbliche autorità della Serenissima, sia, paradossalmente, anche per quanto concerne quelle della curia arcivescovile, che non ha conservato documentazioni né sulle attività delle logge, né su eventuali censure o processi per eresia. Gli stessi documenti citati dalle due fonti classiche cui si rifanno in parte il Francovich ed il Farinella, cioè gli studi di primo Novecento del Belgrano e del Levati, sono spesso ormai inutilizzabili, in quanto le indicazioni archivistiche non sono sufficienti a individuare gli originali oppure, addirittura, questi ultimi non si trovano più. Per approcciare il problema bisogna tener presente che ci troviamo dinanzi ad una Repubblica ormai preda delle ambizioni di francesi, spagnoli e sabaudi, che cercava di sopravvivere con una politica internazionale che teneva costantemente presenti i vari scenari che potevano presentarsi a seguito di un sistema di alleanze foriero di ripercussioni: non dimentichiamoci, infatti, che solo nel 1684 Genova aveva subito un gravissimo bombardamento ad opera dei francesi e che, nel 1746, verrà occupata dagli austriaci che la terranno sino alla rivolta di Balilla. In realtà, alla metà del Settecento, Genova stava vivendo una grave crisi non solo politica (pensiamo anche ai problemi con la Corsica che causeranno la rivolta di Paolo del 1755 e la costringeranno a venderla alla Francia nel 1764, ma anche socio-economica e culturale, a causa da un sostanziale immobilismo e dalla penuria di quelle riforme che invece, in altre parti d’Italia (soprattutto in quelle asburgiche), stavano contrassegnando l’azione dell’Illuminismo. Ma se l’Illuminismo non riusciva in quell’opera di modernizzazione che, a Genova, sarebbe stata oltre modo indispensabile, a livello di élites sociali e culturali si notava una certa “francesizzazione” modo di vivere e di pensare: non è un caso, ad esempio, che si abbia notizia di società segrete o riservate, caratterizzate da una certa esclusività sociale dei membri, costituite per costituire una vera e propria lobby politica oppure, al contrario, per avere modo di riunirsi per discutere dei recenti argomenti culturali: nel primo caso, ricordiamo l’esistenza di una Confraternita del Divino Amore, composta soprattutto da politici della Serenissima e che aveva un indirizzo filo-gesuita e filo-asburgico; nel secondo, ricordiamo invece la presenza, in città, si società che si erano formate prendendo, come modello, le “sociétés hédonistiques” francesi, tipiche di quegli e spesso confuse con associazioni cripto-massoniche o politicamente radicali come quella de I Cavalieri del Giubilo. La cosa è complicata dal fatto che, molto spesso, queste società finiscono col fare da copertura alle logge, cosa che rende arduo comprendere se ed eventualmente sino a che punto esistessero piani diversi di appartenenza oppure se, al contrario, fossero la stessa loggia camuffata da società maggiormente tollerata. Genova, da questo punto di vista, non fa eccezione. Ecco, infatti, che se in data 1736 o 1738 abbiamo la notizia (riportata dal Lavati purtroppo priva di indicazioni sulla fonte), abbiamo un cronista che riporta l’esistenza, in Liguria, di logge massoniche caratterizzate da giuramenti di segretezza e dall’esclusione delle donne, che potevano mettere in pericolo la moralità pubblica ma che erano ben lontane dal costituire un pericolo per lo Stato, trattandosi di società in cui non parlava di politica e che, in fondo, si limitavano a svolgere “riti ridicolosi ma sostenuti con gravità”, da informazioni della polizia apprendiamo dell’esistenza, in città, di due compagnie di persone civili denominate Compagnia della Felicità e composte, però, da uomini e donne: le logge felicitarie, quindi, si erano date una costituzione sulla base dell’Ordre de la Félicité nato in Francia nel 1742-43. Le due Compagnie si riunivano in Carignano, vicino al noviziato dei gesuiti, nella stessa area che poi sarà caratterizzata dalla certa presenza di logge massoniche, in due case abitate da un pittore e da un lavorante presso il Monte di Pietà: degli affiliati sappiamo ben poco, tranne che non avrebbe dovuto farne parte alcun aristocratico e che si trattava di persone di non elevata estrazione sociale, tranne la donna , figlia di un “Giustiniani l’Ebreo” ed il proprietario di un’abitazione, tale Giovio. Se si trattasse o meno di logge massoniche o se al loro interno una parte degli aderenti si riunisse anche in quanto massoni o se, invece, fossero solo “società di piacere” non è ancora chiaro. È certa, invece, la presenza di vere e proprie logge massoniche negli anni successivi, anche grazie alla presenza di logge militari o di militari, anche stranieri, che si riunivano in Liguria: nel 1745 sappiamo di un certo Beniamin Obbel, iniziato muratore a “Novi nel genovesato”, in una loggia composta da alti ufficiali tedeschi e ungheresi. Non è un caso l’anno: il 1745, nel pieno della Guerra di Successione Austriaca che vedrà, nel 1746, la già citata occupazione austriaca della città. Che le logge non fossero più, in quegli anni, un caso isolato, lo apprendiamo anche da una pastorale redatta dal Vescovo di Ventimiglia, il benedettino Pier Maria Giustiniani nel 1747: in questa Instruzione pastorale intorno alla Società di Francs Maçons, o sia de liberi muratori, l’autore, con specifici riguardi al ponente ligure ed alla zona di Bordighera in particolare, deplorava la diffusione della mala pianta massonica e il fatto che i liberi muratori, mangiando carne il venerdì, non tenessero in alcun conto gli insegnamenti cristiani, che accogliessero fra di loro persone di ogni religione e che contestassero il principio di autorità. Del resto, la proliferazione della Muratoria nella Repubblica non deve stupirci perché, essendo passata Genova dalla parte filo-francese, la presenza in città e su tutto il territorio di militari francesi ormai alleati significava, contemporaneamente, la diffusione delle logge sul territorio. Si spiega, così, il perché delle indagini della polizia, nel 1749, proprio in quelle due logge “felicitarie” già citate (ma fino a che punto possono essere considerate vera e propria Massoneria? La domanda è ancora inevasa) in quel di Carignano: il fondatore era stato un colonnello francese in forza alle truppe corse a difesa della Repubblica, che aveva fatto proseliti fra i genovesi, iniziando, fra gli altri, un aiutante maggiore ed un chirurgo, le logge, inoltre, vedevano la presenza anche di un ufficiale del Regno di Napoli, probabilmente in rappresentanza della Massoneria napoletana. Dal resoconto della polizia, inoltre, sappiamo che questa società felicitaria era in apparenza dedita ai passatempi galanti, che aveva anche un obiettivo filantropico, che si intratteneva su argomenti vari e che erano ammesse le donne. Inoltre, apprendiamo che la loggia si era data il gergo marinaresco proprio dell’ordine felicitario francese, ricavandolo dalla fraseologia marinara: invece di Apprendista, Compagno e Maestro, usavano i termini di Mozzo (o Novizio), Padrone, Capitano e Ammiraglio; i gradi, inoltre, si distinguevano attraverso il numero dei canapi portati sulla bottoniera della marsina. Accanto a queste due logge felicitarie, sappiamo dell’esistenza di una loggia ospitata nella casa del Magnifico Saluzzo, dal nome della Stella, dalla Stella d’Oro o d’argento portata dai suoi membri: aperta anch’essa alle donne, aveva anche’essa origini francesi e militari, ma era stata subito aperta a tutti: ne facevano parte, fra gli altri diversi esponenti del ceto patrizio come Leandro Lomellini, i fratelli Giulio e Lorenzo Assereto, Luca Clavarino. Infine sappiamo dell’esistenza di un’altra loggia, di cui ignoriamo il nome: la polizia, infatti, era risalita all’argentiere Silvestro Pissarello che aveva confessato di aver eseguito una piccola cazzuola d’argento sul modello di un originale portato dalla Francia. Il momento particolarmente delicato della politica genovese e la condanna della Massoneria ribadita da papa Benedetto XIV nel 1751, inducevano il governo della città a sequestrare tutti gli emblemi ritrovati nelle logge ed ammonire gli aderenti scoperti dalla polizia: misure tutto sommato decisamente blande e che fanno comprendere senza ombra di dubbio che la Repubblica non considerava la Muratoria un pericolo per le Istituzioni. Nemmeno la comparsa, nello stesso anno, di un falso documento costruito a tavolino dalla curia genovese e attribuito ad un massone ritornato in seno alla Chiesa in punto di morte e contenente massime politicamente sovversive e moralmente condannabili dalla dottrina romana, avrebbe fatto mutare atteggiamento alla Repubblica: cosa interessante, inoltre, che questo stesso documento fornirà il pretesto per la repressione antimassonica scatenata a Napoli nel 1776 da Carlo III di Borbone con l’appoggio del pontefice. Questo atteggiamento da parte delle Istituzioni avrà, come conseguenza, l’ulteriore diffusione della fratellanza: nel 1762 l’Inquisizione premerà sul governo della Repubblica perché inasprisse la repressione antimassonica ma, ancora una volta, ci si limiterà all’espulsione di qualche straniero e all’ammonizione degli aderenti. Neppure la richiesta dell’Inquisizione di avere in consegna i massoni recidivi del 1751 avrà successo: la Repubblica ribadirà il netto confine fra potere civile e potere religioso, proibendo all’Inquisizione ecclesiastica di occuparsi, da lì in avanti, di Massoneria.

La “massoneria dei fiori” agli esordi degli anni ’90 era finita sotto i riflettori dell’opinione pubblica con una schioppettante inchiesta di Claudio Sabelli Fioretti, sulle pagine nazionali de Il Secolo XIX, agli albori del “terzo millennio” può invece dormire sonni tranquilli, scrive “Trucioli”. Gli organi di stampa, anche quelli locali, hanno “tolto il disturbo”. E fratelli, fratellanza, sono risorti più forti e temuti di prima. Nuove affiliazioni, neo apprendisti muratori, altri maestri venerabili, altre alleanze, nuovi tempi massonici. Immancabili le agapi. Da cosa deriva l’ufficiosa convinzione? Intanto dagli amici di ieri che, a Trucioli Savonesi, non mancano. E dagli amici di “oltre frontiera” che sembrano, assai bene informati. Peccato che sia assente “carta canta”. E azzardarci, seppure al condizionale con gli ultimi elenchi, non ci sembra corretto. Possiamo dire che dagli elenchi in possesso dei cugini francesi (tra Montecarlo e Nizza), a prima vista il numero complessivo della Provincia di Imperia è cresciuto robustamente. Si è soprattutto ristrutturato. L’incremento riguarda sia la zona di Porto Maurizio-Oneglia e dintorni, sia Sanremo-Ventimiglia e dintorni. Tra le adesioni le libere professioni sono al primo posto, seguono i “travet” di parecchi enti pubblici, gli imprenditori, i politici che però appaiono assai guardinghi dando fiducia non alle logge un tempo note come “formaggini” o “formaggiai”, ma nei “gruppi che contano” e che assicurano più discrezione anche negli incontri canonici, di rito. C’è chi ha preferito addirittura emigrare. Sicuramente questa vocazione per l’esoterismoche già aveva fatto notizia, andrebbe meglio studiata, magari dai sociologi. Nella pagina che riportiamo in tre parti, Sabelli Fioretti (oggi scrittore di successo e invitato speciale della televisione), aveva avuto la collaborazione di Claudio Donzella (sempre al Decimonono) e Loredana Demer. Ecco alcuni spunti dell’articolo di apertura. Dopo gli scoop del Secolo XIX la discussione (gennaio 1990) era se rendere pubblici o meno tutti i nomi sia degli aderenti a Palazzo Giustiniani, sia a Piazza del Gesù. Togliersi il “cappuccio”? Scrivevano Sabelli Fioretti e Donzella: Giacomo Gavino, maestro venerabile della Hiram, di Piazza del Gesù, annuncia: Stiamo studiando di fare qualcosa, ma a braccetto con quelli di Palazzo Giustiniani… E Natalino De Francisi, maestro venerabile della Cremieux, volto noto del foro: "Sono favorevole alla pubblicizzazione delle liste". E ancora, in alcune città dell’imperiese, ricordavano i giornalisti, i massoni del Ponente hanno deciso di sospendere le loro assemblee per non essere individuati. Non potevano neppure mancare le “chicche-ricordo”, come quando Armando Federici  e Armando Pagani, due massoni di Ventimiglia, recandosi a far visita ad una loggia francese, furono fermati alla frontiera dai poliziotti che, preoccupati da una serie di gagliardetti, di sciabole e cappucci neri, li avevano scambiati per neofascisti. Oppure, ricordavano i bravi giornalisti del Decimonono "i tentativi vani di iscrivere il consigliere comunale socialista Paolo Lezzi, per due volte presentato e per due volte bocciato sotto una gragnola di palle nere. O quando a Diano Marina decisero di fare una loggia tutta targata democrazia cristiana con Brunendo, Adolfo, Contestabile, Folco, Lavaggi.  Per lo parlare di quella loggia di Ventimiglia che si sfasciò per questioni di donne dopo che un fratello “rubò” la moglie di un altro fratello". Altri curiosi episodi davvero immemorabili. Dal Secolo XIX: "L’episodio più spettacolare  fu la campagna antimassoni a Ventimiglia, con Franco Molinari consigliere comunale. Nel luglio 1985, dopo aver letto i nomi dei massoni pubblicata dalla commissione sulla P 2 , presieduta da Tina Anselmi,  dove figurava il nome dell’ex sindaco Albino Balestra, tappezzarono di manifesti la città. Intervenne persino il vescovo, Angelo Verardo, che in una omelia disse che a Ventimiglia ”comandavano soprattutto la massoneria ed i soldi”. Albino Balestra fu premiato e rieletto sindaco, ma l’estroso Franco Molinari si presentò in consiglio comunale con un cappuccio nero in testa e con un cartello; al microfono gridava: "Fuori i massoni dal consiglio comunale". Qualche altro gustoso ricordo. Balestra sindaco e Tito Barbè, comunista, capo dell’opposizione. Balestra dice a Barbé, fratello di loggia: "Domani in consiglio comunale attaccami duro sulla prima, sulla seconda e sulla terza delibera. Dimmi di tutto e che mi denunci e mi mandi in galera. Se fai molto casino all’ultima pratica, che è quella più importante, va via liscia come l’olio". Sempre a Ventimiglia,  annotavano Sabelli Fioretti e Donzella, è sorta la lista civica “Gens Nova”, talmente ricca di iscritti alle due obbedienze da far pensare ad una vera e propria formazione politica della massoneria stessa. Due altre testimonianze raccolte dai trio di giornalisti-coraggio. La prima: "Se non metti il mio nome sul giornale, vi diamo il nome di dieci nostri fratelli iscritti in modo molto riservato". La seconda. La testimonianza del collega di redazione del Decimonono, Francesco Bianchi, allora 46 anni, caposervizio a Imperia in un periodo di grande diffusione del glorioso quotidiano ligure oggi in serio declino di copie vendute. "So tante cose della massoneria del ponente ligure perché c’ero anch’io li dentro – dichiarò Bianchi - , siamo passati come meteore e non sono il solo. Entrai perché a quei tempi era quasi una setta, segreta, con un alone misterioso. Se ad un giornalista capita l’occasione di mettere in naso in un’associazione di tale genere cosa fa? Alla curiosità è subentrato subito un interesse sincero. Affascinato dagli interrogativi dell’essenza dell’uomo…la storia del cappuccio esiste, è vero, ma lo si usa in circostanze davvero limitate…La mia loggia era la Angelo Silvio Novaro, ci riunivamo saltuariamente a Diano Marina e Sanremo. Frequenti gli incontri con i fratelli francesi e inglesi, ma anche visite dall’America…Si è vero qualche volta si parlava di affari e la cosa mi disturbava parecchio…perché accanto a persone di alta cultura, trovavi imprenditori o pseudo tali di pochi scrupoli e questo mi deluse parecchio….ma aggiungo che i gradi inferiori della massoneria non sono a conoscenza di ciò che accade ai livelli superiori…lasciai la loggia  quando da Roma arrivò una “balaustra” (cioè una comunicazione ufficiale) che ci invitava ad appoggiare nelle imminenti elezioni la Democrazia Cristiana. Me ne andai in sordina, senza sbattere la porta".

Le opere di bene dei “massoni dei fiori”. Viaggio tra i “fratelli” imperiesi e sanremesi. Dopo 19 anni cosa è cambiato? di Luciano Corrado su “Trucioli Savonesi”. Sono trascorsi 19 anni, manca poco più di un mese quando Il Secolo XIX, con l’inviato speciale Claudio Sabelli Fioretti (oggi scrittore di fama, spesso ospite delle televisioni nazionali) scriveva uno dei suoi reportage di “grinta”. Seguendo le tracce e le puntate scritte dalla redazione di Savona (la prima in Italia a pubblicare l’elenco di tutti in fratelli in loggia delle tre obbedienze italiane, grazie ad un’inchiesta dell’allora sostituto procuratore della Repubblica, Filippo Maffeo, ora in servizio alla Procura di Imperia), il quotidiano ligure, diretto all’epoca da Carlo Rognoni, vice direttori Arturo Meli e Gaetano Rizzato, ora direttore del quotidiano Libertà di Piacenza, decise di scandagliare quel mondo sempre avvolto in un alone di mistero, di apparente segretezza o riservatezza. Come accadde a Savona, Il Secolo XIX tentò di ricostruire potere, segreti e scissioni della massoneria nel Ponente Ligure. Il primo titolo ad effetto  fece scalpore e fu un tutto esaurito, nonostante il previsto aumento di copie: Ecco i “fratelli dei fiori”. Catenaccio: C’era anche la strana loggia dei formaggini.  Da allora non si è più saputo nulla né dei “formaggiai”, né degli assai più potenti e discreti “muratori” che contano davvero ed hanno potere. C’è soltanto da osservare che la buona tradizione massonica suggerisce che i figli succedano ai padri, i nipoti succedano ai nonni. Una tradizione famigliare da rispettare, non un obbligo. Una “libera scelta”. E ancora, la cronaca si era occupata pochi anni fa dell’inaugurazione del nuovo tempio di Sanremo all’obbedienza di Piazza del Gesù. Più recente il nuovo tempio di Albenga. Non sappiamo, invece, se la “fratellanza” sia riuscita a conquistare nell’imperiese quelle posizioni dominanti da sempre teatro di “lotte furibonde” (senza morti). Non sappiamo se il “proselitismo” ha proseguito, per piazza del Gesù, anche in campo femminile. Non sappiamo se il dominio quasi assoluto del gruppo Scajola abbia ridimensionato le interferenze massoniche, oppure ci sia una tregua più o meno armata, più o meno consenziente. Di certo esistono alcuni sodalizi, tra gruppi e persone, a macchia di leopardo. A Savona, ad esempio, già negli anni ottanta - come abbiamo documentato nelle precedenti puntate con la pubblicazione di logge e di iscritti seguendo gli atti depositati durante l’inchiesta Teardo e soci – una rappresentante del gentil sesso era arrivato al ruolo di maestro venerabile. Le inchieste di Maffeo prima e quella dei giudici di Teardo dopo, portarono scompiglio, chiusura di logge, parecchi aderenti andati “in sonno”, ma con l’inizio degli anni 2000 la “forza massonica” ha ripreso tutto il suo potere (Asl, uffici pubblici, grandi aziende, ospedali, banche, professioni più prestigiose, primariati). Cosa scoprì, nel suo viaggio imperiese, Sabelli Fioretti? Intanto può essere utile accennare al presente. Oggi è impensabile che in un mondo di mass-media che il più noto prof. Sartori ha recentemente definito a La 7, "imbottito di sonnifero, di cloroformio, timoroso, dalla carta stampata alle reti televisive", azzardare un’intrusione cosi spettacolare. Nei veri santuari del potere. Alcuni spaccati dell’articolo scritto da Sabelli: "Il vice direttore dei controllori comunali del Casinò, Luigi Garfì, viene misteriosamente gambizzato. Interrogato dai carabinieri comincia a raccontare il suo imbarazzo a lavorare al Casinò, dopo il blitz del 1981 (quando finirono in galera una cinquantina di croupiers accusati di aver rubato cento miliardi in dieci anni). Garfì si aspettava che Antonio Semeria, presidente del Casinò, licenziasse Franco Felici, capo di Garfì e di tutti i controllori comunali. E invece no. Perché? “Probabilmente è dipeso dalle aderenze politiche e di loggia” spiega Garfì. E racconta di essere lui stesso massone, ma di obbedienza opposta a quella di Felici e Semeria. Appartiene infatti alla Loggia Internazionale obbedienza Piazza del Gesù". Sempre dall’articolo di Sabelli Fioretti: "Garfì denuncia anche una campagna di demonizzazione condotta contro di lui dai giornalisti Renato Olivieri e Roberto Basso su commissione (presunta) della massoneria di palazzo Giustiniani (quella più numerosa in Italia e che processo per “tradimento” Licio Gelli). Alla stessa loggia cui appartenevano insieme al sindaco democristiano Osvaldo Vento, all’assessore democristiano Stefano Accinelli, all’assessore repubblicano Gianfranco Cavalli….". Sempre dalle colonne del Decimonono e dalla penna di Sabelli Fioretti: "Il fatto è che i massoni della Riviera sono fra i più litigiosi, scissionisti e volubili della penisola. Cosi le logge nascono, si frantumano, scompaiono….Per non parlare di Osvaldo Vento che contemporaneamente approfittando delle segretezza, militava in una loggia di Albenga (palazzo Giustiniani) e nel “Centro sociologico” di Sanremo (piazza del Gesù)". Un bis di quello già visto a Savona dove erano 5-6 i big che militavano contemporaneamente in due obbedienze contrapposte. Senza contare che l’allora big ligure socialista Alberto Teardo, presidente della Regione, era iscritto a tre logge contemporaneamente (P 2 compresa). Sabelli Fioretti racconta poi di Arimondo Arimondi, commerciante di latticini, che fondò una “loggia selvaggia” che mise insieme un centinaio di fratelli. Tra essi il notaio Nicolò Temesio, il capo ufficio stampa del casinò Ito Rusigni. Persino il direttore della sede di Diano Marina della Banca Popolare di Novara che "un giorno si licenziò e si mise a fare il rapinatore. Oggi è latitante in America Latina". Il giornalista descrive poi la storia (anni sessanta) della loggia coperta di Piazza del Gesù, la Carducci, che aveva il problema dei “comunisti fratelli”. Il maestro generale Ghinazzi (vedi precedenti puntate di Trucioli) era di estrema destra e non voleva comunisti. Ma in loggia ad Imperia c’erano Gino Ginatta, Sergio Grignolino, detto Gheppeù, Tito Barbè, Giulio Ferrari, detto “o bordeluso”, comunisti ufficiali. La Carducci, sempre secondo la ricostruzione storica di Sabelli, affiliava Nando Ziveri (medico), Elio Nicoli (proprietario dell’albergo Moranti), Pietro Montresor (albergo Belsoggiorno), Vincenzo Cutini (ginecologo), proprietario della clinica Villa Atena. Italo Bernardi, Mario Moretti dipendente dell’archivio notarile, Gustavo Latini (avvocato), Giuseppe Birone (farmacista), Ildebrando Arpaia, Italo Bernardi, Antonietta Rubino, Carlo Arese, Renato Boeri (ristorante La Caravella). Sempre Il Secolo XIX del 14 gennaio 1990: "Cremieux, uno dei leader storici della massoneria sanremese, insieme a Vanessa, padre del consigliere comunale repubblicano, a Ferdinando Toselli, al socialdemocratico Guido Giorni e Gianfranco Cavalli si trasferirono da Corso Inglesi 100 sede della Carducci, a via Vesco, sede del tempio dei cugini di Palazzo Giustiniani. Oggi - scriveva 19 anni fa – gli iscritti alle logge di Palazzo Giustiniani (sono cinque a Sanremo, Cremieux, Mazzini, Mimosa, Conti, Guglielmi) ci tengono a far notare come il travaso avvenga in una sola direzione e mai in quella contraria….Nel 1977 per esempio Giampiero Lanza insieme al fratello Onorato, oggi consigliere democristiano e candidato di Leo Pippione alla sua successione nella poltrona di sindaco, fondo una loggia (Piazza del Gesù) insieme a Stefano Accinelli, assessore comunale Dc, al sindaco Osvaldo Vento, all’ispettore del casinò, Stefano Ferlito, al socialdemocratico di Coldirodi, Zumbo e ad Italo Ruscigni. Pochi mesi dopo scoppiarono litigi tra tutte le logge di Piazza del Gesù e molti (tra questi Accinelli, i due Lanza e Ferlito) se ne andarono dall’altra parte dove incontrarono, oltre a quelli già nominati, anche il croupier Dino Lupi, il consigliere comunale liberale Natale De Francisi, insieme al segretario del suo partito Ragni.…Al “Centro sociologico” rimasero comunque alcuni pezzi da novanta come Giovanni Parodi, esponente di spicco della Dc sanremese…Vincenzo Barli, ex segretario cittadino Dc, il geometra Giorgio Pistone, repubblicano; Bruno Giri, capogruppo democristiano al Comune…". Concludeva Sabelli Fioretti il suo servizio che occupava un’intera pagina nazionale dedicata a “Fatti & Idee”: "Ma la “massoneria dei fiori” non è forte abbastanza da accontentare tutti, non tanto da superata il P.T.A, il partito traversale degli affari, il partito della corruzione e delle tangenti, quello sì forte e impunito". Con libro di Ferruccio Sansa e Marco Preve è arrivato all’ordine del giorno anche “Il partito del cemento”. Infine Sabelli: "La massoneria, al più, serve come rete di salvataggio per coloro che cadono, perché non affoghino,, perché riescano a risorgere. In fondo sono proprio i massoni a dire che fanno tante opere di bene". La “massoneria dei fiori story”. Una ricostruzione di avvenimenti accaduti, 18 anni or sono, sconosciuti ad un generazione, dimenticati dai più, ignorati da tanti. Nessun processo-bis, ma una “memoria storica”. Scrive Luciano Corrado su “Trucioli Savonesi”. Tutto iniziò quando l’allora sostituto procuratore della Repubblica di Savona, un giovane schivo, ma determinato, Filippo Maffeo (già consigliere comunale della Dc a Loano, figlio di un’onesta famiglia di immigrati, titolari di un negozio fotografico) decise per la prima volta in Italia di far perquisire alcune sedi di logge massoniche, apparentemente segrete e comunque molto riservate. Era un sabato, 21 novembre 1981. Il magistrato si recò di persona con agenti della squadra mobile e della Uigos. Suonarono in via Famagosta, a Savona, dove aveva ufficialmente sede un Circolo Culturale, frequentato da personaggi di spicco del mondo dell’imprenditoria, della Finanza e da qualche politico anche a livello della Regione. Tra gli altri Alberto Teardo ed altri esponenti del Psi e della Dc. A catena emersero, dopo i documenti trovati, la scoperta di altre logge dove non mancavano funzionari pubblici ai quali era fatto divieto di appartenere ad associazione segrete, anche se la nuova e più severa legge (come reato) arriverà solo in un secondo tempo, a seguito della P 2. Cosa c’entra il lavoro del dottor Maffeo (da anni è sostituto procuratore ad Imperia, dopo un periodo ad Albenga, come pretore capo facenti funzioni) con le vicende imperiesi? Seguendo le inchieste giornalistiche dell’allora inviato speciale de Il Secolo XIX, Claudio Sabelli Fioretti, emerge che "secondo alcuni documenti sequestrati nella casa di Arenzano di Mirto Cassanello, capo degli ispettori della massoneria ligure, anche il procuratore della Repubblica di Sanremo, Vincenzo Testa, sarebbe affiliato ad una loggia di Ventimiglia, la Oberdan". Scriveva Sabelli Fioretti sul Secolo XIX: "La notizia pubblicata domenica sul Secolo XIX ha creato notevole sconcerto negli ambienti politici e giudiziari, anche se le voci della sua affiliazione alla massoneria circolavano da tempo. Un antefatto, sempre dall’articolo di Sabelli Fioretti: "Il 22 marzo 1986 l’associazione ecologica Pro Natura Riviera dei Fiori aveva mandato un esposto al pretore di Ventimiglia denunciando una villetta chalet in calcestruzzo…stessa denuncia da parte della sezione di Bordighera di Italia Nostra. Il 9 luglio il senatore comunista Lorenzo Gianotti rivolse un’interpellanza al ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, parlando di “costruzione abusiva di edificio in cemento e mattoni”. Perché scomodare un ministro, si chiedeva il giornalista, per uno dei tanti abusi di cui è ricca la nostra Italia? Il senatore Gianotti lo scrisse nell’interrogazione stessa: "La costruzione abusiva, probabilmente su territorio demaniale, risulta di proprietà del procuratore della Repubblica di Sanremo". C’erano molte imprecisione, faceva notare Claudio Sabelli Fioretti, nel suo servizio, il casotto, ad esempio, non era formalmente del magistrato Testa. Inizialmente era di un avvocato, Luigi Borgogno che lo concesse in uso alla famiglia del magistrato. Poi l’11 ottobre 1985 l’aveva venduto definitivamente alla moglie di Testa, Lorenza Cartagenova. Il terreno non era demaniale, ma di Pio Domenico, uno dei proprietari dei terreni su cui era sorto il complesso residenziale di Nervia." Il ministro Vassalli rispose di "aver dato disposizione di seguire l’ter del procedimento penale al termine del quale mi riservo di esaminare la posizione del dottor Testa, al fine di verificare se il suo comportamento nella vicenda sia suscettibile di valutazione sotto il profilo disciplinare". Il tutto (abuso) si è concluso, informava il quotidiano ligure, con una provvidenziale amnistia. E "il brutto casotto della famiglia Testa è ancora sulla spiaggia di Nervia, ormai legalmente". Sabelli Fioretti proseguiva: "Vincenzo Testa, 66 anni, un padre, Giovanni che fu cancelliere al tribunale di Genova, una moglie, Lorenza della buona borghesia intemelia (suo padre era medico), due figlie di cui una Ornella, lavora con lui alla cancelleria della Procura….Testa ha vissuto tutta la sua vita a Ventimiglia. Tra Ventimiglia e Sanremo (tranne due anni di praticantato a Mondovì) si è sviluppata tutta la sua carriera giudiziaria, prima di pretore e poi di procuratore della Repubblica". E ancora: "…Testa personaggio di basso profilo, una carriera vissuta nell’ombra, lontano dai riflettori della mondanità, delle grandi manifestazioni, estraneo alle polemiche e riottoso a comparire sulle pagine dei quotidiani. Negli archivi dei giornali non si trova nulla su di lui, se non la storia recente del casotto sulla spiaggia di Nervia". A questo punto l’inviato speciale racconta particolari curiosi: "Per scoprire qualcosa di più su questa famiglia…si viene a sapere che la moglie, come le first ladies americane, è impegnata nella beneficenza, gli amici con alcuni dei quali ama pranzi e cene al ristorante, feste private, sono Cesare Caldarelli, grande costruttore e presidente dell’Autoporto di Ventimiglia; Felice Muraglia, avvocato molto vicino al leader democristiano Manfredo Manfredi; Gianni Locatelli, detto Carluccio lo sporcaccione, proprietario del più costoso ristorante di Sanremo; Luigi Fortunato, pure lui magistrato; Renato Russo, ex segretario comunale di Ventimiglia, fondatore di un paio di logge del Ponente Ligure; Silvio Damiani, capo dell’Ufficio Licenze e commercio del Comune di Ventimiglia". Sempre dal testo dell’articolo del Secolo XIX del 10 aprile 1990: "Proprio a causa di queste amicizie, Stefano Accinelli, ex assessore al Comune di Sanremo ed imputato nello scandalo del Casinò, ha tentato di trascinare, come testimone, lo stesso Testa, su suggerimento del suo avvocato, il radicale Mauro Mellini, per giustificare il suo comportamento “pro Merlo” durante la gara d’appalto per l’aggiudicazione della gestione del Casinò. Durante un incontro in casa Testa, Accinelli credette di capire che anche Testa fosse favorevole a Merlo. Ma a Milano i giudici non hanno ammesso la testimonianza del procuratore della Repubblica." Claudio Sabelli Fioretti faceva notare che Vincenzo Testa era rimasto fuori dalle polemiche nonostante Sanremo, negli anni, sia stata squassata da due grandi scandali. Quel del 1981 che ha visto alla sbarra un centinaio di persone accusate di aver rubato in una decina d’anni, 100 miliardi al casinò; e quello del 1983 che portò in galera quasi tutta la giunta comunale, sindaco in testa, sotto il sospetto di aver tramato per consegnare il Casinò alla mafia. Fuori dalle aule di giustizia i comunisti sanremesi protestavano perché i loro esposti contro gli amministratori comunali andavano dapprima a rilento e poi svanivano nel nulla. Come quello contro Nando Zivieri, medico di Sanremo e maestro venerabile della loggia massonica Carducci, del quale Luigi Ivaldi, leader carismatico della sinistra sanremese, aveva denunciato gravi reati, in qualità di presidente della commissione medica di accertamento della invalidità.

"Quella Massoneria usata dai Fratelli di Sangue… tra troppi silenzi" è il reportage di “hovistocosechevoiumani”. La Massoneria non è più, da tempo, quella di Mazzini e Garibaldi. Ed in Italia la Massoneria è stata strumento ed è strumento di affermazione di un Potere diverso da quello dello Stato. Vuoi di volontà straniere (a partire dall’UK), vuoi del grande Potere finanziario internazionale, vuoi dei Poteri criminali nel vero senso del termine, mafiosi ed eversivi. La pagina mai chiusa della Loggia Massonica P2 di Licio Gelli, strumento di intreccio di Potere criminale che vedeva l’allora Cosa Nostra – dominante tra le mafie italiane – sedere al tavolo dei convenuti, si è evoluta ed ha fatto ricchezza dei punti deboli che permisero di scoprirla e colpirla. In parallelo, e sempre di più, è stata la ‘Ndrangheta ad usare, attraverso “i santisti”, la massoneria per costruire e rafforzare rapporti e collaborazioni (un “dettaglio” sfuggito a Saviano nel suo monologo sulla ‘ndrangheta). Le inchieste in cui è emerso ed emerge il peso della Massoneria nella “colonizzazione” da parte delle mafie delle regioni del centro-nord Italia sono molteplici. E’ nell’ambito dei rapporti massonici che gli uomini di mafia, i fratelli di sangue, consolidano le alleanze con i professionisti, i colletti bianchi e, spesso, anche con uomini dei settori di controllo, come agenti delle forze dell’ordine e magistrati, per garantirsi sodali e coperture per il grande riciclaggio, il controllo di appalti e concessioni pubbliche…La Massoneria avrebbe potuto (e potrebbe) spezzare via questo uso distorto dei propri Templi, pubblicando la lista dei propri iscritti; ma invece rifiuta questo atto… Ogni ordine massonico rigetta questa pratica, nel nome delle proprie origini (come se oggi avesse senso, davanti alle garanzie Costituzionali, comportarsi da “carbonari”). Non prendere quindi atto di questo uso a fini criminali e quindi non impedirlo è, di fatto, garantire quelle coperture che la criminalità finanziaria e mafiosa cerca. Non si tratta quindi di Massoneria deviata o meno, ma di Massoneria punto e basta. Anzi, per essere più precisi, dei responsabili dei diversi Ordini, perché omettono di vedere e di provvedere. Omettono di prendere atto che la riservatezza delle proprie affiliazioni permette di coprire l’indicibile e così non si accorge che vi sono confratelli che partecipano a qualche riunione ove si scolpiscono le tavole ma ad altre no, perché si recano in altri Templi, magari oltre il confine, oppure in Templi mimetizzati in capannoni di Ortofrutta come nell’area artigianale a Villanova d’Albenga (per citare uno dei casi liguri, in quella terra savonese che fu – ed in parte è ancora – roccaforte del gruppo “teardiano”). Ed infatti la Liguria come la Calabria, l’Emilia-Romagna (con in primis Reggio Emilia e Bologna) come la Sicilia, la Lombardia come la Campania sono terre dove il potere massonico pesa, si fa soffocante in ogni settore, a partire da quello della Sanità, dei Lavori Pubblici e della Finanza. Un potere massonico che fonde e si fonde con quell’altra sorta di loggia chiamata Opus Dei… Un potere massonico che alimenta quei conflitti di interessi che piegano la gestione della cosa pubblica agli interessi privati… Un potere massonico che garantisce i contatti con i vertici della gestione finanziaria a chi, indossato grembiulino e cappuccio, non si nota essere un fratello di sangue, un uomo d’onore… un mafioso! Questa è la storia e questo è il presente che, al di là delle parole sulla “pulizia”, si riproduce. D’altronde le antiche figure mitologiche delle mafie (i cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso) sono stati sostituiti dall’uso (abuso) di figure massoniche quali Mazzini, Garibaldi, Lamarmora. Anche le inchieste recenti al nord, così come le risultanze investigative, hanno messo in luce questo legame pesante. Prendiamo due esempi, uno a Savona ed uno a Pavia. Nel primo caso è il boss dei Piromalli, Antonio Fameli, ad essere uomo del Tempio; nel secondo caso il boss massone è Pino Neri. E questi signori non li ha cacciati nessuno dalle Logge! A Savona, uno dei più potenti massoni è un avvocato, si chiama Paolo Marson, ed impegnato in politica piace al centrosinistra ed al centrodestra. A Genova tra i più potenti massoni vi sono di nuovo alcuni avvocati come Giuseppe Anania (grande maestro aggiunto del Governo dell’Ordine – GOI) o i fratelli Muscolo. Persone quindi che contano, che sono influenti e che soprattutto sanno chi siano certi personaggi… quei personaggi che usano l’ambiente massonico per i loro rapporti e affari che nulla avrebbero a che vedere con una Massoneria “pura”. Professionisti, oltre che massoni, che sanno, quindi, ma che non si esprimono… che dalla loro posizione non chiedono pubblicamente che le Logge si ripuliscano e si tutelino da certi usi distorti attraverso l’unico strumento che può permetterlo: la trasparenza! Perché? Perché anche alla luce di quanto sta emergendo? Adesso la Massoneria in Liguria è tornata alla ribalta. Da una parte per l’inchiesta sulle concessioni agli stabilimenti balneari ad Alassio, dove con alcune perquisizioni sono spuntati, oltre ad ombrelloni e sdraio, simboli massonici ed i grembiulini… Dall’altra parte per quanto avevamo già scritto, in tempi ormai lontani (2005), in merito all’appartenenza massonica dei Mamone. In allora avevamo indicato l’iscrizione alla Loggia di Rito Scozzese Antico Accettato di Vincenzo Mamone, così come dei legami con massoni ex teardiani e piduisti, tra Genova, Savona e Sanremo, così come nella vicina Costa Azzurra, a Montecarlo. Avevamo indicato i rapporti con i “potenti” di questa regione, così come le “protezioni eccellenti” di cui i Mamone (insieme ai Gullace, Raso e Fazzari) godevano. Ora, grazie ad una giornalista che si è infiltrata in una Loggia, il cui racconto è stato ripreso da Marco Preve su “La Repubblica”, si è scoperto che iscritti alla Loggia “Alberto Fortis” sono, con Vincenzo Mamone, anche il fratello Gino, il padre Luigi, oltre al figlio di Vincenzo, ovvero Luigi jr. Con loro iscritti i vertici della CONFAPI, ovvero la Confederazione delle piccole e medie imprese. Sede della loggia una delle società dei Mamone, ovvero uno dei tasselli di quell’impero al centro di molteplici inchieste che brevemente schematizziamo: corruzione (con rinvio a giudizio), turbativa d’asta (per il controllo degli appalti con un cartello di imprese di mezza Italia), false fatturazioni… ma soprattutto indicati dalla DIA, sin dai primi anni 2000, come famiglia della ‘ndrangheta che, nel febbraio di quest’anno, è stata segnalata alla DDA per il tentativo di corruzione di un pm della Procura di Genova. Imparentati con i Raso e, attraverso cerimonie religiose, ai Gullace e Fazzari (cosca Gullace-Raso-Albanese legata ai Piromalli) e con contatti con i Fotia (cosca Morabito-Palamara-Bruzzaniti) e con gli Stefanelli (cosca Stefanelli-Giovinazzo), oltre che con l’Onofrio Garcea (“sgrarro” ora latitante della cosca Bonovata e legato ai Macrì). Ebbene, Luigi Mamone, il capofamiglia, cosa ha dichiarato a Repubblica sulla Loggia massonica? Semplice: “Era un modo per passare il tempo, per far quattro chiacchiere, bere una bottiglia di vino, come al circolo”. Prendiamo atto… per loro la Massoneria sarebbe solo questo, nemmeno scolpire le tavole… Chissà come la prendono quelli che invece credono che la Massoneria sia una cosa seria. Chissà se faranno pulizia e renderanno pubblici gli elenchi (così come sono… senza epurarli dai nomi importanti) così da dimostrare che sono pronti a mettere fuori certi signori. Noi attendiamo una risposta, soprattutto da quegli massoni (e avvocati) importanti di Genova e Savona che certamente non vorranno confondersi con gente di certi “circoli”.

Ecco gli articoli di Marco Preve su La Repubblica”.

20.11.2010. La loggia massonica dei Mamone e Confapi. La “società” genovese del rito scozzese ha il suo tempio negli uffici delle aziende dei fratelli Mamone. Oltreché gli stessi imprenditori, ne fanno parte anche dirigenti di Confapi e del Cad, Centro d’ascolto del disagio, e poi professionisti e impiegati. Lo squarcio sul mondo della massoneria arriva da una giornalista “infiltrata”. Maria Teresa Falbo, ex ufficio stampa Confapi. Una giornalista infiltrata svela l’esistenza – e gli appartenenti – di una loggia che ha sede a Fegino proprio nella sede di alcune delle società dei Mamone, fratelli di sangue e, in questo caso, anche di obbedienza. Il tempio che ospitano è frequentato anche da numerosi dirigenti di Confapi, l’associazione di categoria che rappresenta le piccole e medie imprese. Se qualcuno pensava che i massoni liguri fossero “in sonno”, due casi attualissimi dimostrano che i “fratelli” sono ben svegli. La prima vicenda che raccontiamo oggi è relativa all’elenco ufficiale di una loggia genovese, la “Alberto Fortis”, un “muratore” dei primi dell’800. Lo scoop è di Maria Teresa Falbo, scrittrice e giornalista romana specializzata in cultura e teatro. Il suo Babilonia swing è una pubblicazione cartacea spedita a mille destinatari scelti, ed è consultabile sull’omonimo sito Internet dove si può leggere il suo reportage. Mentre lavorava come ufficio stampa per Confapi Liguria a cavallo del 2009 e del 2010, alla Falbo fu proposto di entrare nella massoneria. “Quando mi venne fatta la proposta- spiega – pensai subito alla possibilità di poter raccontare questo mondo dall’interno”. Dopo quattro mesi di attesa Maria Teresa Falbo viene accolta nella loggia appartenente all’obbedienza del Supremo Consiglio d’Italia e San Marino del 33° e Ultimo Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato. La sua sorellanza avviene con una cerimonia in cui viene incappucciata (“io non potevo vedere e quando me lo tolsero gli altri avevano i cappucci neri con i buchi per gli occhi”) e invitata a pronunciare le formule di rito nei locali di via Fegino 3. Della loggia fanno parte i padroni di casa, i fratelli Vincenzo e Gino Mamone (quest’ultimo a capo della Ecoge, sotto processo per corruzione e indagato per turbativa d’asta e false fatturazioni in un’altra inchiesta), il padre Luigi e il nipote con lo stesso nome. Vincenzo Mamone, la cui ex moglie alcuni anni fa, attraverso la Casa della Legalità aveva raccontato, ma senza poterla documentare, della sua appartenenza alla massoneria e dei suoi viaggi di “fratellanza” a Sanremo e Montecarlo, è anche uno dei dirigenti di Confapi. E della Loggia fanno parte altri vertici di Confapi: Luigi Mamone, Pietro Capalbo, Raffaele Martino e poi il direttore Roberto Parodi. “Ricordo la signora Falbo- dice Parodi – ha lavorato per noi per qualche tempo poi il rapporto si è interrotto. Non sapevo nulla dell’articolo. Noi massoni siamo un potere occulto? Macché, e poi guardi che gli elenchi della loggia sono pubblici. Vederli? Mah credo non siano così facilmente reperibili”. Da quest’anno Confapi, dopo una battaglia di ricorsi al Tar contro Confindustria è tra l’altro presente nel consiglio della Camera di Commercio con Giuseppe De Gregori, avvocato albergatore, ed è un’associazione sempre più importante nella provincia di Genova. Inoltre, alcuni esponenti di Confapi fanno anche parte del Cad, i Centri di Ascolto del Disagio, associazione nazionale di volontariato (ma a Genova scrive lettere anti moschea al sindaco, organizza corsi di lingue a pagamento e offre attestazioni energetiche) presieduta in Liguria da Enrico Sivori, radici democristiane e diverse militanze in quell’area politica. Ultimi tentativi (entrambi abortiti dopo annunci e conferenze stampa) di Sivori e degli amici della loggia e di Confapi quelli di dar vita alla Lista Centro per Biasotti alle ultime Regionali e poi di far decollare in Liguria la lista “Noi nord” del sottosegretario Vincenzo Scotti. Pare che i duemila iscritti fossero legati alle aziende Confapi e ai volontari del Cad, e il partito a maggio aveva già trovato la sua sede: nell’ospitale tempio massonico di via Fegino.

21.11.2010. Mamone: “Sì, casa nostra è una loggia ma siamo solo un circolo di amici”. Il patriarca della famiglia di imprenditori minimizza: “Ci si vede solo per bere una bottiglia di vino”. “Loggia? Ma no è solo un circolo”. Guardi che è uno degli stessi affiliati ad aver detto che nei vostri uffici c’era il tempio, la signora Maria Teresa Falbo. “E allora, mica è un reato. Era un modo per passare il tempo, per far quattro chiacchiere, bere una bottiglia di vino, come al circolo”. Luigi Mamone, 75 anni, è il padre dei fratelli Vincenzo e Gino, imprenditori a capo di un impero delle bonifiche industriali, grandi fatturati, decine di dipendenti e alcuni guai giudiziari per Gino (a processo per corruzione e indagato per turbativa d’asta). Tutta la famiglia, come rivelato ieri da Repubblica, appartiene alla loggia massonica “Aberto Fortis” del rito scozzese che ha il tempio proprio negli uffici delle loro società in via Fegino. A squarciare il velo di segretezza della massoneria genovese è stata appunto la scrittrice e giornalista Maria Teresa Falbo che sul sito Babiloniaswing ha raccontato il cerimoniale dell’iniziazione e i nomi dei principali affiliati. Tra i quali, oltre ai Mamone, ci sono anche i vertici di Confapi, l’associazione delle piccole medie imprese che, quasi dal nulla, in pochi anni ha saputo crearsi uno spazio importante nel capoluogo ligure fino ad occupare, pochi mesi fa, dopo una dura battaglia a colpi di ricorsi alla giustizia amministrativa, un seggio nel consiglio della Camera di Commercio. “E’ vero ci sono anche quelli di Confapi – prosegue Luigi Mamone – ma non c’è nulla di male. Ripeto, è come un circolo tra amici, e adesso manco ci si vede più tanto”.

21.11.2010. Alassio, la spiaggia dei massoni, dodici indagati e sospetti di mazzette. L’inchiesta sulle concessioni facili: parla il Gran Maestro. Fracchia: “Avere in casa un grembiule non è un reato. E comunque non si indaga su questo”. La riviera dei massoni? È ad Alassio, uno dei comuni a maggior tasso di avvisi di garanzia per i politici della Liguria. Un’inchiesta della procura di Savona si sta occupando di uno dei nervi scoperti dell’economia ligure: la privatizzazione delle spiagge mascherata da gestione pubblica. Ma mentre la polizia giudiziaria, la guardia di finanza e gli ispettori dell’Agenzia delle Entrate, cercavano di capire perché uno dei tratti di costa più cari d’Italia non rendesse quasi nulla alle casse comunali, ecco saltar fuori la massoneria. Intendiamoci, non che cappucci e grembiuli siano una novità in questa zona. Trent’anni fa il ponente savonese era il cuore della massoneria legata all’allora presidente della Regione, il socialista Alberto Teardo coinvolto nella prima tangentopoli italiana. Uno dei nomi dei “fratelli” dell’epoca è quello di Gianpaolo Fracchia, già vicesindaco, assessore, e vicepresidente regionale dell’Udc. Oggi, uno dei 12 indagati per il caso spiagge è suo figlio Gianemanuele Fracchia. Altra coincidenza curiosa, il giudice istruttore dell’epoca era Francantonio Granero che oggi guida le indagini nella sua veste di procuratore capo. “È vero, in casa di mio figlio la polizia ha trovato un grembiule da massone ma non è un reato, non si indaga su quello e sinceramente mi sembra che si voglia creare un caso dove non esista” spiega Gianpaolo Fracchia, ex consigliere di Gescomare, la società partecipata dal Comune che controllava le 14 spiagge libere “attrezzate” affidate dal Comune a cooperative e società. La Gescomare da un anno è stata sostituita dalla “Bagni di mare”, società in house al centro dell’inchiesta della procura. Gli indagati sono 12, tra i quali assessori, funzionari, dirigenti della società e sub concessionari. Come Gianemanuele Fracchia. L’ombra della massoneria si è così allungata sull’inchiesta e si è parlato della nascita di una nuova loggia. “Macché nuova – sbotta il Gran Maestro Fracchia senior – esiste da dieci anni e non c’è niente di segreto. Se vuole la invito a partecipare a una riunione”. In realtà pare che gli inquirenti non ritengano affatto secondari i rapporti di loggia in questa vicenda. Il dato di partenza, per la procura, è che le 14 cooperative commettono occupazioni abusive visto che il Comune la concessione l’ha data alla “Bagni di mare” (l’amministratore delegato Corrado Barbero, indagato, si è dimesso da segretario locale della Lega Nord) e il codice della navigazione non prevede sub concessioni. E poi il canone complessivo incassato per 14 spiagge è di appena 200 mila euro, in una città in cui il costo uno stabilimento balneare privato di medie dimensioni supera i due milioni di euro. L’Agenzia delle Entrate ritiene che almeno un milione e mezzo di euro proveniente dall’affitto di lettini e ombrelloni si sia smarrito sulla sabbia invece di arrivare nelle casse del Comune. Se sia solo evasione fiscale o ci siano invece anche rivoli di tangenti è quanto vogliono capire gli investigatori. Tra le accuse contestate c’è quella di peculato: i soldi provenienti della gestione di un bene pubblico sono finiti in tasche diverse da quelle previste dalla legge. E poi ci sono gli aspetti burocratici relativi alle pratiche di affidamento delle spiagge. Sempre gli stessi soggetti, con buona pace di gare e bandi. Roba da amici, insomma. O da fratelli.

Massoneria e ‘ndrangheta, spunta l’“avvocaticchio”, scrive Marco Grasso su “Il Secolo XIX”. Ufficialmente la ’ndrangheta non esiste in Liguria, dopo che il tribunale ha assolto gli imputati per il processo Maglio 3. Eppure riferimenti alle famiglie toccate dalle inchieste genovesi continuano a comparire nelle indagini più delicate condotte dalla Dda di Reggio Calabria. L’ultima in ordine di tempo è quella che ha portato alla scoperta della Sacra Corona, una struttura compresa all’interno che ha il compito di connettere i clan con la massoneria e la politica. È in questo contesto che viene fuori il nome di Giuseppe Raso, detto l’avvocaticchio, esponente della famiglia Raso-Gullace-Albanese di Cittanova, e indagato sotto la Lanterna per le attività in comune con il savonese Carmelo Gullace. Non solo. Dalle carte emerge l’ombra di una talpa all’interno delle forze dell’ordine, un contatto in grado di riconoscere che un numero di targa appartiene «a quelli della Dia di Genova». Nel corso dell’operazione Saggezza, culminata con sessantasei richieste di misura cautelare pochi giorni fa, i magistrati di Reggio Calabria e i carabinieri del Ros hanno portato alla luce una gerarchia parallela all’interno della malapianta, una sorta di mafia dei colletti bianchi. Secondo gli inquirenti si chiama Sacra Corona ed è l’anello di congiunzione con le logge massoniche e la porta per entrare in contatto con la politica e l’economica. È in questo ambito che gli investigatori incappano in Giuseppe Raso, ritenuto il «capolocale di Canolo», figura per cui il gip Adriana Trapani ha disposto gli arresti domiciliari. Ma chi è Raso? Il suo nome compare in un fascicolo in mano al pm genovese Giovanni Arena che riguarda le infiltrazioni mafiose nel Ponente ligure.

Massoneria, giudici e politica l'inchiesta che fa tremare Savona.

Massoneria, 'ndrangheta, forze dell'ordine, magistratura, politica, professionisti, scrive “La Repubblica”. L'arresto del 73enne Antonio Fameli (imprenditore calabrese di Loano considerato dalla Dia un personaggio molto vicino al clan dei Piromalli) da parte della procura di Savona apre una faglia giudiziaria nella provincia che potrebbe preludere a un vero e proprio terremoto. L'inchiesta del pm Danilo Ceccarelli presenta comunque un'insidia. La prima è riuscire a districarsi tra le millanterie e le verità di Fameli che si è sempre mosso con disinvoltura tra arresti, denunce e amicizie con questori e alti ufficiali dei carabinieri. Proprio per questa ragione è stato trasmesso a Torino, per competenza territoriale, un fascicolo con intercettazioni e attività investigative legate al nome di Vincenzo Scolastico, oggi procuratore aggiunto a Genova dove guida la direzione Distrettuale Antimafia, e fino a tre anni fa capo della procura di Savona. Confusamente, in un paio di occasioni Fameli, parlando con familiari e conoscenti cita il nome del magistrato, come se tra i due ci fosse un rapporto di conoscenza e confidenza. Non solo. Scrive il gip nella richiesta di misura cautelare: «Fameli si muove su una linea ambigua e pericolosa, contattando continuamente appartenenti all'arma dei carabinieri...della Finanza e tentando ripetutamente contatti e il coinvolgimento del procuratore Scolastico». Dal canto suo, l'aggiunto respinge ogni insinuazione: «Mai incontrato Fameli, quando ero a Savona lo indagai per due volte per truffa facendolo condannare e chiedendo per lui l'applicazione delle misure antimafia. Se lui si è proposto come confidente è questione che riguarda la polizia giudiziaria». I carabinieri citati nel passaggio non sono nomi da poco. Il primo è Pierluigi Stendardo, maresciallo dell'Arma a lungo nell'anticrimine e poi Angelo Piccolo, negli scorsi decenni braccio destro del colonnello Michele Riccio, capo dei Ros condannato per la sua gestione disinvolta del reparto. Tra gli indagati dell'inchiesta Fameli c'è anche l'avvocato di Varazze Claudia Marsala, difensore sia di Fameli che di Riccio e moglie di Stendardo. Altro elemento importante è la presenza, in qualità di difensore di un'altra indagata (la segretaria di Fameli), dell'avvocato Tiziana Parenti, ex parlamentare di Forza Italia, ma come pm a Savona protagonista di un duro scontro con l'allora procuratore capo Russo, vicenda in cui Riccio e Fameli furono coinvolti. Insomma, dietro ai reati di riciclaggio, evasione, esportazione di capitali per un ammontare di dieci milioni di euro (la procura ha ottenuto il sequestro di 44 unità immobiliari) c'è un sottobosco di legami, vecchi e nuovi, il cui disvelarsi può riservare sorprese. Ad esempio il coinvolgimento di Carlo Ciccione, commercialista finito in manette un anno fa a Genova per l'inchiesta sulla truffa alle banche attraverso i mutui assieme a Nicodemo e Cristiano La Rosa, padre e figlio di origine calabrese. Altro nome di peso tra gli indagati è quello del notaio di Alassio Elpidio Valentino, che avrebbe aiutato Fameli in maniera «fraudolenta» nelle sue attività finanziarie illegali. Il notaio (protagonista anche della vita mondana alassina, il Secolo XIX di Savona racconta delle feste da lui organizzate cui partecipavano, tra gli altri, l'ex sindaco Marco Melgrati e il pm Alberto Landolfi), a ottobre nel suo studio aveva ricevuto la visita della Digos alla ricerca di documenti di Andrea Nucera, imprenditore immobiliare di origine calabrese latitante da mesi perché inseguito da un ordine di cattura per bancarotta.

Massoneria, boom di nuove iscrizioni, scrive “Il Secolo XIX”.  I partiti convincono sempre meno, la religione ha poco “appeal” sui giovani più ambiziosi, l’associazionismo attira pochino, e in questo vuoto c’è una “fede” che sta facendo proseliti e conquista sempre più consenso specie tra neo laureati: la massoneria. È un dato che si registra a livello nazionale e che nel savonese sta suscitando curiosità e sorpresa. «È così, tanti giovani si stanno avvicinando, i motivi possono essere molteplici ma di sicuro c’entra il fatto che la politica e i partiti dei problemi della società se ne occupano sempre meno mentre per la nostra Istituzione i dogmi della società sono centrali e prioritari: la vita, gli obiettivi dell’umanità, il dialogo tra i popoli, verso dove andiamo - dice “Renzo” Brunetti, avvocato e storico massone savonese che ebbe il privilegio di ricoprire il ruolo di pubblico ministero nel processo massonico che giudicò Licio Gelli, il gran maestro che tra gli anni Settanta e Ottanta diede vita alla loggia “deviata” Propaganda Due (P2) - è per questo che a mio parere la massoneria funge da richiamo tra i giovani in cerca di risposte e questo aspetto sarà anche oggetto dell’intervento del nostro Gran Segretario nell’annuale convegno di Rimini che faremo a fine marzo come Grande Oriente d’Italia, l’Obbedienza a cui appartengo da sempre». Fare numeri è difficile perché la riservatezza, com’è noto, è una peculiarità massonica ma si stima che non sia esagerato parlare di decine e decine di giovani savonesi che nell’ultimo anno hanno mosso passi verso il Grande Oriente d’Italia, l’obbedienza maggioritaria che vanta 22 mila iscritti in Italia e ben 9 logge in provincia di Savona, o verso la Gran Loggia d’Italia che di iscritti ne annovera sugli 8 mila in Italia e di logge savonesi ne ha ben 6. Poi ci sarebbe il capitolo di gruppi e gruppuscoli minori, nati da scissioni e costole di altre logge, ma hanno numeri così esigui che sono difficili da seguire e conteggiare. Un po’ meno esiguo è poi il contingente savonese che frequenta logge francesi, considerato che nella sola Nizza ce ne sono decine e molto ben organizzate. Difficile dire quanti siano i massoni in provincia ma un dato è certo: il savonese, così come l’imperiese, è una delle aree dove storicamente “cappucci” e “grembiuli” raccolgono più adepti. Una stima verosimile parlava dello 0,2% della popolazione iscritta a una loggia, significa che nel savonese su 300 mila abitanti ci sarebbero circa 600-650 “fratelli muratori” con predominanza nel “Goi”, il Grande Oriente d’Italia (sui 300-330 iscritti), seguito dalla Gran Loggia d’Italia (230 circa), l’obbedienza che consente anche alle donne di partecipare (a differenza del Goi).

E di templi - luoghi dove un paio di volte al mese si tengono le “tornate” (incontri) - se ne contano almeno 7 in provincia, con alcuni storici come quello di via Quarda Superiore a Savona (mascherato, come si faceva un tempo, dalla targa di un’associazione culturale, la “Cornelli”) a quello del centro storico di Albenga, in via Oddo, a quello più recente di Coasco, frazione di Villanova d’Albenga, dove si raduna la loggia “George Washington” del Goi nata da una costola dell’ingauna “Mazzini”.

Massoni e logge savonesi. Pagine di “storia” del 1984. I primi due rapporti giudiziari dei carabinieri al giudice istruttore Granero, scrive “Trucioli Savonesi”. Lungo il percorso della Teardo story, che iniziò a ottobre 1981, con le prime indagini e deflagrò nel giugno 1983, ci siamo occupati della massoneria, dando soprattutto la “parola” al contenuto della motivazione delle sentenze. La sintesi era: massoneria e massoni non possono, non devono essere accomunati tutti, senza distinzione di ruoli, nel calderone dell’illegalità. Non si può fare di ogni erba un fascio, criminalizzare senza accertare responsabilità penali individuali. Fu soprattutto il giudice relatore del collegio giudicante, Vincenzo Ferro, che scrisse le parole più esplicite e chiare. Con un’analisi approfondita. Proseguendo il nostro viaggio storico, senza pretese, da questa puntata inizieremo a riportare i passi salienti dei rapporti giudiziari, allegati al processo, trasmessi al giudice istruttore capo, Francantonio Granero, dai carabinieri e dalla polizia. I verbali di interrogatorio di alcuni massoni. Documenti riguardanti il ruolo delle logge e della massoneria, savonese, imperiese e ligure. Con agganci nazionali, persino nell’entourage (allora) del Quirinale e della Camera dei Deputati. Oltre all’indagine originaria sulla massoneria, tra le prime in Italia, dell’allora pubblico ministero Filippo Maffeo. Con sequestri, verbali, interrogatori, perquisizioni in alcune sedi di logge, ad opera della polizia (Bianchi e Branda). In questo capitolo, la prima parte dei rapporti, che recano il numero 425/53 di protocollo 1983, trasmessi in data 15 febbraio 1984 e 12 marzo 1984 (ad arresti avvenuti) nel procedimento penale, si legge, contro Alberto Teardo ed altri. I due rapporti del Gruppo Carabinieri di Savona erano firmati dall’allora ten. Col. Nicolò Bozzo, comandante, già braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Trattandosi di “rapporti”, non di sentenze, avvertiamo il lettore che esso può contenere alcune piccole imprecisioni e comunque non vuole essere un giudizio di condanna nei confronti delle persone citate, a prescindere da quelli che saranno successivamente le sentenze passate in giudicato (per alcuni di essi, una netta minoranza). In questi giorni, tra l’altro, è stata annunciata un’iniziativa a livello nazionale per la pubblicazione di tutti gli elenchi dei massoni italiani, molti dei quali sono già contenuti in libri e pubblicazioni. Resta da vedere se si tratta di un documento aggiornato. E cosa si scriverà per quanto riguarda gli elenchi della Provincia di Savona e Imperia. Trucioli, nelle prossime puntate, pubblicherà gli elenchi allegati all’inchiesta. Ovvero solo documenti ufficiali. ECCO IL CONTENTUTO PIU’ SIGNIFICATIVO DEL RAPPORTO BOZZO. La massoneria in provincia di Savona ha radici e tradizioni profonde. Il penultimo Gran Maestro del “Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani”, generale Ennio Battelli, peraltro strenuo difensore di Licio Gelli, è residente in Andora. La loggia locale Sabazia, dodici anni fa, ha celebrato il centenario della sua fondazione alla presenza dell’allora Gran Maestro Venerabile, Lino Salvini, membro del Psi fiorentino e sotto la cui “Grande Maestranza” fu costituita la P 2. Tra Varazze, Andora, Cairo Montenotte, sono “operanti”, secondo gli elementi informativi acquisiti da questo comando, le seguenti logge “scoperte”, suddivise in “Obbedienze”, tutte comunque legate ad una struttura di vertice denominata “Rito” della quale possono far parte i maestri venerabili del 33° grado di entrambe le due confessioni…Grande Oriente e Gran Loggia d’Italia…che hanno avuto diatribe anche su proprietà immobiliari storiche….vedi dichiarazioni rese da Carlo Rondoni. Il Grande Oriente d’Italia, con sede a Roma, a Savona è presente con la “XX Settembre, piazza Saliferi 2, che ha avuto come “maestro venerabile”, Giuseppe Bolzoni, Mauro Testa sindaco di Albenga…;la “Aldo Scarfi” con Nicolò Aonzo “maestro venerabile”…;la “Sabazia”, in via Quarda Superiore che ha avuto tra i suoi affiliati più noti l’avvocato Renzo Brunetti, già segretario provinciale del Pri, il geometra Danilo Sandigliano consigliere comunale del Psi ad Albenga, Giampiero Mentil, avvocato, esponente del Pri e già assessore regionale, Aldo Ingaramo, già direttore a Savona del nuovo Banco Ambrosiano. La “Cheope”, Savona, piazza Saliferi 2 con Primo Renato Levo, maestro venerabile, Bonaventura Alessi consigliere comunale a Savona, Emilio Martinengo primario di cardiologia al San Paolo, Angelo Canepa, consigliere provinciale. La “Priamar”, Savona, via Quarda Superiore, con Arnaldo Menato, architetto, maestro venerabile. La “Giuseppe Mazzini”, a Villanova d’Albenga, col medico Giuseppe Giuliano, maestro venerabile. La “Luigi Pirandello”, a Villanova d’Albenga, con Franco Puricelli, titolare dell’Ops (Organizzazione pubblicitaria stradale), maestro venerabile. La “Cesare Abba” di Cairo Montenotte, piazza Abba, con l’imprenditore Alessandro Stanislao Sambin, maestro venerabile. La “Canalicum” di Cairo Montenotte, per la quale sono in corso aggiornamenti. La Gran Loggia d’Italia, con sede a Roma, in piazza del Gesù, che ha tra i propri affiliati anche donne, ha un Ispettorato per la provincia di Savona in via Pia 9. Lelio Pedaggi è ispettore provinciale. Nella loggia “Anton Gino Domenichini”, di via Pia 9, Delfino Molino è maestro venerabile, con Gianfranco Sangalli, assessore provinciale del Psi, l’avvocato Umberto Ramella, segretario provinciale del Psdi, con Federico Bertone, ingegnere; con Giovanni Daga, impiegato del Comune di Savona, con Paolo Caviglia, con Dina Garzoglio, vedova dell’avvocato Enzo Mazza, già presidente della Carisa e maestro venerabile della loggia “Mistral” di Savona. La Loggia “Figli della Vittoria Italica”, Savona, via Pia 9 con Renata De Nicolai maestro venerabile ed esponente del Pli, Stelvio Imassi, consigliere del Psi a Savona, Ivaldo Lorenzo, vice presidente della Carisa; Massimo De Domenicis che faceva parte anche della loggia XX Settembre; Ettore Ghilardi che era iscritto anche alla “Silentium ed Opus”, Angelo Nari, ex sindaco Dc di Calizzano, già consigliere regionale e presidente della Carisa. Della loggia “Silentium ed Opus” era maestro venerabile Lelio Pedaggi, con Pier Guido Vivani, avvocato e con Umberto Ramella difensore di Gianfranco Sangalli. Con Domenico Abrate, già presidente Dc della provincia, con il farmacista di Spotorno Nicolò Citriniti, pure esponente Dc, con Ettore Ghilardi già iscritti a “Figli della Vittoria Italica”. Loggia “Mistral”, con sede a Savona, in via Famagosta, poi trasferita a Genova, Raffaele Giuffrè, maestro venerabile ed esponente Dc, Alberto Teardo fino al 1975, Lino Truffelli consigliere comunale Dc a Savona; Giandomenico Bianco, funzionario dell’Unione Industriali; Augusto Accinelli, consigliere comunale del Pli a Varazze; Carlo Rondoni, della direzione Provinciale delle Poste; Stefano Clematis, funzionario della Provincia; Mario Vagnola, console onorario di Malta e operatore marittimo. Loggia “Eleuteria”, già le “Agavi”, Giorgio Finocchio, avvocato e maestro venerabile; Paolo Caviglia, Lorenzo Bottino (sindaco di Finale), Federico Casanova, petroliere, Gaetano Brancatelli, direttore di Finauto a Finale; Pietro De Rossi, già direttore della Motorizzazione civile; Renzo Ghiringhelli, direttore della Carisa a Ceriale. Loggia “Spartos”, già “Le Ginestre”, di Borghetto S. Spirito, con Gianfranco Moreno; Ubaldo Pastorino, consigliere del Psi; Roberto Roveraro, assessore del Psi iscritto solo alle “Ginestre”, come pure Osvaldo Pignocca, assessore a Loano del Psi, lo stesso dicasi per Brosito Bugliolo. Loggia “Ligustica”, già le “Acacie” di Albenga. Giuseppe Rondoni maestro venerabile, Angelo Mosso, sindaco di Villanova, Piero Rebagliati, geometra di Antonio Fameli, Vincenzo Papalia, già capo del personale del Santa Corona Augusto Guglieri dipendente del comm Carlo Pallavicini, di Andora, suocero del questore Arrigo Molinari; Giancarlo Jeri, già segretario del Comune di Albenga e poi di Taggia; Gianfranco Sasso, ex assessore del Psi, già iscritto solo alle ”Acacie”, come pure Antonio Fameli, agente immobiliare. Loggia “Phoenix”, già “Le Palme” di Loano, Mario Condorelli maestro Venerabile. Loggia “Keramos”, di Albisola Marina, che fa capo al notaio Enzo Motta e a Giuseppe Maria Rosso, dissidente del Grande Oriente d’Italia. Per la cronaca ricordiamo di aver già dato ampio risalto all’intervista all’avvocato Renzo Brunetti, la sera che ha tenuto una conferenza ai giovani di “Libera” e “Rete Lilliput”, a Savona. Intervista che aveva registrato un “record” di lettori-navigatori.

La Spezia, crocevia radioattivo e di veleni, tra Servizi, mafie e massoni. A La Spezia vi sono due record, anzi tre. Il primo è nella zona intorno al Porto Militare dove vi è la più alta percentuale di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Il secondo è zona intorno alla Discarica di Pitelli dove vi è la più alta percentuale di tumori infantili. Il terzo è generale, per tutta la provincia, e vede il record mondiale per malati per amianto di mesotelioma in rapporto alla popolazione. Davanti a tutto questo la Procura non nota nulla, figuriamoci la politica ed i funzionari pubblici...scrive “La Casa Della Legalità”. Qui, come nella Lunigiana, il peso della Massoneria è ancora forte, anzi è determinante. Quindi certe cose non le si deve guardare, anzi bisogna starci ben alla larga. Alcuni magistrati ci avevano provato ed alla fine se traffici & affari sporchi sono rimasti saldi in quella terra spezzina, sono i magistrati che se ne sono dovuti andare. Ed è da qui che occorre partire, da quella rete di Potere che, trasversale, veramente come vi fosse a giostrare il tutto un abile Architetto dell'Universo, vede una commistione tra lecito e illecito, tra decenza ed indecenza, con protagonisti imprenditori, amministratori pubblici, funzionari, mafiosi e Servizi. Certo c'è un porto, ci sono i cantieri navali... c'è l'Arsenale e l'area militare... Vero, ma vi è di più a La Spezia. Vi è un crocevia tra terra e mare, vi sono aree e spazi da riempire, con cosa poco importa, a quale costo (ambientale e sociale) nemmeno. Qui la 'ndrangheta, con la copertura dei Servizi, aveva uno degli snodi per i traffici dei veleni e soprattutto per le navi dei veleni, quelle verso l'Africa e quelle a perdere, destinate agli affondamenti. La Spezia era un nodo centrale per i servizi a basso costo offerti dalla 'ndrangheta alle grandi industrie del nord per far sparire quei rifiuti tossici che per essere smaltiti regolarmente avrebbero comportato costi assai più elevati. E poi ci sono i servizi, sempre a basso costo, che la 'ndrangheta poteva fornire per far sparire i rifiuti radioattivi... ed i Militari di questi ne hanno tanti! Così a La Spezia dove prima dell'esplodere degli scandali facevano base anche i Messina con le loro flotte di navi, è il porto della Zanobia e della Rigel... è il porto dove una banchina era "a disposizione" e dove i Servizi permettevano di accedere con i camion pieni di veleni da far sparire interrati altrove, affondati nei loro fusti o container quando non con le stesse navi su cui venivano stipati... o condotti in Africa con quel viaggio di rifiuti ed armi coperto dalla nota "cooperazione internazionale". Qui avevano snodo rifiuti tossici delle grandi imprese del nord, a partire da quelle chimiche, i rifiuti dell'Acna di Cengio avevano un lascia-passare. Qui una parte finiva in Porto su quella banchina fantasma, altri, insieme alle ceneri delle Centrali Enel, finivano nella Discarica di Pitelli. Ed è di lì che iniziarono ad indagare i magistrati spezzini che poi dovettero spostasi altrove. In quella Discarica dove per fermarli, per non farli arrivare in quell'angolo dove interrati non vi erano solo i rifiuti tossici ma anche quelli radioattivi, fu posto il Segreto di Stato. Tra la Discarica ed il Porto, con quella banchina fantasma, dove certi carichi venivano lasciati passare senza controllo alcuno, vi era un imprenditore che con i suoi camion era il signore dei rifiuti: Orazio Duvia. E nei traffici di Duvia si individuarono non solo gli illeciti ambientali ma anche le compiacenze dei politici e dei funzionari pubblici. Compiacenze pagate con tangenti. Quasi tutto ormai è prescritto, i reati dei colletti bianchi, dei politici e funzionari, praticamente tutti! Altri stralciati e archiviati, pur davanti alle prove... troppo tempo ci hanno messo i magistrati in quella corsa ad ostacoli infiniti posti davanti al loro lavoro da ogni dove per garantire l'impunità. Basti pensare che uno dei funzionari della Provincia coinvolti, su cui sono stati accertati dal Corpo Forestale dello Stato e dalla Procura molteplici reati e per cui è scattato il rinvio a giudizio, è stato chiamato all'Arpal. Ma qui a La Spezia, la terra dove ancora oggi le bonifiche non si è ancora capito bene come vengano compiute (e controllate), come dimostra l'ex area IP - dove a lavorare vi era inizialmente l'Eco.Ge dei Mamone che però poi venne beccata dalle Procure per quei viaggi nel sud Piemonte a scaricare -, e dove per coprire le emissioni dal terreno "bonificato" si usava acqua e profumo di gelsomino... perché anche se l'aria continua ad essere irrespirabile qui deve sorgere al più presto un bel centro commerciale! Quando la Discarica di Pitelli venne posta sotto sequestro dalla Procura, si mescolano la questione bonifiche con quella dei viaggi dei veleni. Infatti non vi era più quel posto sicuro, sulla collina di Pitelli o nel Porto, per far "scomparire" le terre della bonifica di Seveso. Così quei camion, si racconta, siano stati dirottati altrove. Verso il Tigullio, una terra già protagonista per la Rifiuti Connection Ligure dei primi anni Novanta gestita dalla 'ndrangheta, tra miriadi di vecchie Cave e le miniere di Libiola con i fiumi gialli che escono dalle gallerie, insieme ad odori nauseabondi (ma su questo torneremo a breve). Altri carichi provenienti da Seveso sarebbero ancora stipati nei vecchi depositi militari del porto... si dice finirono a Garlasco. Ed è proprio a Garlasco che, indagando sulle navi dei veleni, arriva il Capitano De Grazia. Va a perquisire la villa dell'ing. Giorgio Comerio. Qui vengono trovati e sequestrati materiali scottanti. Si trovano i documenti, divisi in cartelline, una per ogni Paese meta dei viaggi delle navi dei veleni. Sono i paesi dell'Africa dove le navi portavano rifiuti tossici e armi. Sono documenti sulle famose navi "a perdere"... in una delle cartelline viene anche trovato il certificato di morte di Ilaria Alpi! Tra i materiali sequestrati in quella casa di Garlasco, di Comerio, c'è anche una videocassetta "promozionale" di uno dei progetti di Comerio & C: i missili "penetrator". Sono quei missili che si proponeva di sparare sui fondali marini per smaltire le scorie nucleari. Un progetto della Odm (Oceanic disposal management), promosso presso i governi e persino via internet... per chiunque voglia smaltire le scorie in fondo al mare. Un progetto le cui carte verranno ritrovate anche a bordo della Jolly Rosso, perché per rendere efficiente quel progetto serve una grande nave che possa predisporre i singoli siluri e poi spararli da fuori bordo. Un progetto folle che per fortuna verrà fermato... Un progetto le cui prove generali partirono proprio da La Spezia, da quel porto...  Oggi i progetti dei signori dei rifiuti tossici e delle scorie nucleari sono cambiati in parte. La Liguria resta sempre la base logistica per le rotte illecite, come anche resta terra di interramento. Gli stessi protagonisti di allora sono sempre qui e se le Cave di allora gli sono state sequestrate ne hanno di nuove, con regolari concessioni rilasciate dai funzionari pubblici a partire dalla Direzione Ambiente della Regione Liguria... come per il caso dei Fazzari-Gullace. Le rotte lungo i mari invece sono cambiate. Buona parte dei rifiuti che le grandi ditte del nord vogliono smaltire senza pagare i costi di trattamenti regolari per tutelare salute e ambiente, ora viaggiano verso la Cina e di lì tornano indietro sotto forma di giocattoli, materiali vari e abbigliamenti tossici. Altri vengono gettati in fondo al mare, ancora. Ma non più sulle grandi navi... troppi controlli, meglio i porticcioli turistici, dove - grazie alle Leggi promosse da Burlando durante il Governo Prodi - è il titolare della concessione che effettua i controlli, detiene e compila i registri delle imbarcazioni che entrano, si fermano o partono. E se per caso una barca affonda, da un lato il proprietario potrà rifarsi tranquillamente con l'assicurazione mentre altri avranno affondato ciò di cui dovevano sbarazzarsi. Ma questa è un'altra storia su cui torneremo, come torneremo sul nuovo grande progetto, che ancora parte da vecchie conoscenze, come il Comerio, e sempre da società svizzere, magari legate a colossi come la Duferco, che stanno programmando di costruire degli inceneritori speciali, per bruciare le scorie nucleari, nei balcani, al di là dell'Atriatico, nella terra di origine di Jack Rock Mazreku, già legato a Comerio, ieri in Somalia, poi dal Jolly Rosso ed oggi alla testa della società che gestisce il Porto di Lavagna, che pur se non ha permesso di soggiorno si sposta tranquillo, con la sua limousine targata Corpo Diplomatico! Questo intanto è uno spaccato di quanto sia importante La Spezia per certi traffici. Questo per capire che in quel porto, dove è ancora forte la presenza nei cantieri navali di Cosa Nostra, e dove continua ad esserci una impenetrabile nebbia ad avvolgere le banchine, i depositi e l'area militare, si nascondono molti dei misteri e degli affari indicibili di questo Paese, così come su quelle colline, in quella Discarica di Pitelli e nelle altre sparse nel territorio che continuano ad emettere nell'aria (e nell'acqua?!?) di tutto e di più, mentre i controlli non vedono! Ma d'altro canto siamo in Liguria, la base logistica, l'approdo al mare e dal mare, la terra di colline cosparse di Cave da riempire, crocevia perfetto per i traffici di morte, tra armi, scorie e rifiuti tossici. La salute non conta, la bellezza e qualità ambientale nemmeno, già devastata e piegate dalle colate di cemento... e perché sia così e nessuno osi discutere è bastato porre sotto il completo controllo politico l'Azienda Regionale della Sanità e l'Agenzia Regionale per l'Ambiente, così tutto può procedere senza ostacoli... come quei fiumi gialli fosforescenti che scendono dalla vecchia miniera sulle alture sino al mare di Sestri Levante.

LIGURIA MAFIOSA.

Da tempo, in Italia, le mafie hanno perso la loro dimensione territoriale, essenzialmente circoscritta alle Regioni meridionali, per essere presenti e attive a livello nazionale (e internazionale), scrive Paola Picollo su “Oltre Gomorra”. Atti giudiziari, acquisizioni investigative, le relazioni della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) e della DIA (Direzione Investigativa Antimafia), i rapporti della Commissione parlamentare antimafia parlano chiaro: la mafia non può più essere considerata un “affare del Sud”. Tuttavia, persiste un sistema culturale che continua a relegare la criminalità organizzata ad una “questione meridionale” rendendo, così, estremamente difficile, in territori lontani dalle Regioni a tradizionale concentrazione mafiosa, fare attività e informazione antimafia: attività e informazione che, però, sono quanto mai necessarie per acquisire maggiore consapevolezza della realtà che ci sta attorno. Non c’è territorio, in Italia, che possa dirsi completamente “immune” dal virus mafioso, neppure al Nord, da cui proviene circa il 59,49% delle segnalazioni giunte alla DIA. Prendiamo in considerazione una Regione del Nord. Parliamo, per esempio, della Liguria. L’ultima relazione pubblicata dalla DIA dedica diverse pagine alle evidenti infiltrazioni delle associazioni mafiose in Liguria. Ma il rapporto della DIA non è certamente un caso isolato: da anni, gli investigatori e gli inquirenti impegnati nella lotta alla mafia (prima fra tutte il pm Anna Canepa, a lungo impegnata nell’Antimafia, prima in Sicilia e, poi, in Liguria) lanciano l’allarme sulla piaga criminale che sta affliggendo la Regione. Ne emerge una realtà delinquenziale caratterizzata dalla presenza di organizzazioni mafiose di origine calabrese, siciliana, campana e pugliese. Eccole qui, tutte presenti, non ne manca neppure una: Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra Corona Unita. In Liguria, queste organizzazioni mafiose sono più orientate ad ottenere la conquista dei mercati e dei riferimenti logico-strategici per la gestione dei traffici illeciti, piuttosto che ad ottenere un diretto ed immediato controllo del territorio. La mafia siciliana di Cosa Nostra è presente e attiva soprattutto a Genova e Imperia. I siciliani fanno riferimento alla famiglia di Caltanissetta facente capo a Giuseppe, “Piddu”, Madonia e alle famiglie Emmanuello e Monachello. Uno degli esponenti “di spicco” della mafia siciliana, a Genova, è Rosario Caci, 52 anni, appartenente alla “decina” dei Fiandaca-Emmanuello del clan Madonia, condannato a 17 anni di carcere per traffico di stupefacenti (ma coinvolto anche in diverse inchieste sulla prostituzione) che, fino a pochi mesi fa, risiedeva indisturbato nell’appartamento al civico 4 di Vico Mele, in pieno centro storico, malgrado la Corte di Assise di Appello di Caltanissetta avesse decretato, con ordinanza del 2005, la confisca dell’appartamento e dei suoi beni. Pare che, finalmente, si sia trasferito, dopo le proteste delle associazioni per la legalità e le ripetute denunce ma, in realtà, si sente dire in giro che le chiavi di casa le ha ancora in mano lui, così come il controllo sulla zona. L’esistenza del sodalizio armato nel territorio genovese è principalmente finalizzato alla commissione di omicidi e al controllo (con metodi di intimidazione e violenza) dei mercati locali di stupefacenti e del gioco d’azzardo: narcotraffico e totonero sono gli affari principali gestiti da Costa Nostra in Liguria. La ‘ndrangheta (che viene definita nel rapporto annuale della Commissione parlamentare antimafia “una grande holding economico-criminale, che mantiene come un tratto costante il controllo maniacale, quasi ossessivo, del territorio e delle strutture sociali ed economiche”) ha il controllo del Ponente Ligure, dove è presente sin dagli anni ’70, quando si inserì prepotentemente nella “guerra” per la floricoltura e i cantieri stradali. Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana e Busalla sono i cinque “locali” (le unità territoriali minime di riferimento) attraverso i quali la ‘ndrangheta agisce in Liguria e, grazie alla posizione geografica favorevole, coordina anche l’attività con i locali di Mentone, Marsiglia, Nizza e Tolosa in Francia. Inoltre, è stata accertata, con varie indagini, la presenza di un organismo detto “camera di controllo” avente il compito di coordinare le presenze, gli arrivi e i transiti: in Liguria, questo compito lo svolge il locale di Ventimiglia. Si tratta di una sorta di struttura di collegamento in grado di assicurare stabilità di rapporti, sinergie logistiche ed operative integrate e il sostegno ad attività di vario tipo (traffico di droga, usura, riciclaggio ecc…). Infatti, attraverso le sue strutture rigidamente organizzate, la ‘ndrangheta svolge soprattutto attività di supporto logistico (per latitanti, investimenti, riciclaggio) alla “casa madre” del Sud. Ma la ‘ndrangheta non si limita solo al supporto logistico per le attività illecite (benché pare sia quella l’attività prevalente nel Ponente Ligure): infatti, ricordiamo come essa abbia, ormai da decenni, conquistato la leadership incontrastata nel settore del traffico internazionale di stupefacenti. Genova è il porto principale, punto di collegamento tra Nord e Sud, in cui arrivano i carichi di cocaina dall’Europa e dal Sudamerica (nel 1994, è stata porto di introduzione del più grosso carico di cocaina: 5mila kg, arrivati dal Sudamerica per conto di un cartello colombiano-siculo-calabrese). La ‘ndrangheta ha, poi, il controllo del gioco d’azzardo, dello sfruttamento della prostituzione, dello smaltimento dei rifiuti, partecipa in società ed imprese anche commerciali e pratica regolarmente l’estorsione. Ma è il mattone il suo investimento preferito. Sempre maggiore risulta essere la sua penetrazione nell’economia legale e nel mercato edile attraverso il riciclaggio di denaro e lo strumento dell’appalto. Gli investigatori e gli inquirenti impegnati nella lotta alla mafia sottolineano un punto: “la mafia si radica in profondità quando comincia a reinvestire sul territorio i proventi dei reati”.E’ il caso della Liguria dove, soprattutto tra Savona e Imperia, sono stati registrati diversi casi di imprese vicine ad ambienti mafiosi che hanno realizzato importanti progetti. La ditta di costruzioni Co.For. srl dei fratelli Giovanni ed Antonino Guarnaccia, di Reggio Calabria, protagonista della risistemazione del pennello a mare a Celle Ligure, in località Punta Bouffou (ma che vanta importanti interventi anche a Varazze, Cogoleto, Campo Ligure e nell’Imperiese) è stata oggetto di denunce su presunti legami con la criminalità organizzata, a causa del gran numero di appalti vinti e del fatto che operasse liberamente anche in mancanza di un certificato antimafia. Nel 2007, la Co.For. srl è stata posta sotto sequestro e sono state arrestate 15 persone. Sotto sequestro è stata messa anche un’altra ditta riconducibile ai fratelli Guarnaccia, la Icem srl. Sigilli anche alla Edil-Moviter, alla Costruzioni Generali srl e alla Facere, riconducibili a Salvatore Domenico Tassone, imprenditore di Polistena (RC) ritenuto in contatto con alcune cosche della ‘ndrangheta. Beni rurali e palazzine in costruzione su tre piani sulle colline del Tigullio sono state confiscate dalle Fiamme Gialle, che hanno così incastrato Carmine Griffo, originario di Patronà, in provincia di Catanzaro ed esponente della cosca locale, arrivato in Liguria nel 1992 e da allora gestore di alberghi e night. Colpire i patrimoni è una delle strade fondamentali per poter rendere davvero efficace la lotta alla mafia. Gli investigatori starebbero vagliando l’effettiva esistenza di permeabilità con alcune aree del mondo imprenditoriale e politico. E, poi, c’è la camorra, radicata soprattutto a La Spezia e Massa, dove gestisce il gioco d’azzardo all’interno di bische clandestine e la proprietà delle apparecchiature video-poker da installare negli esercizi pubblici: una strategia affaristica, questa, che muove miliardi. La gente ignora che perde il 90% del proprio denaro, dando così un apporto sostanzioso alle organizzazioni criminali. I capi delegano a gruppi criminali le attività più rischiose, come lo spaccio di stupefacenti, investendo, poi, i profitti nel gioco d’azzardo, che permette una grossa resa economica e il minimo rischio sotto il profilo penale. A Sanremo, la camorra si occupa di contraffazione (attività portata avanti attraverso lo sfruttamento della manodopera extracomunitaria, principalmente senegalese) e detiene il monopolio dei mercati, così come a Ventimiglia. Forte è la sua presenza soprattutto nella zona portuale di Genova dove è stata registrata una intensa attività di contrabbando internazionale: un grande profitto è ricavato, infatti, dal traffico di auto verso i Paesi extracomunitari attraverso gli snodi portuali liguri. Importante e sostanziosa è anche l’attività di riciclaggio e reinvestimento di denaro svolta nella Riviera di Ponente e in Costa Azzurra. Insomma, la presenza mafiosa sul territorio ligure è viva, comprovata, non può essere negata e rappresenta un allarme che non si può sottovalutare, tanto più che aumentano i casi di delitti di sangue. Eppure, in Liguria, la maggioranza delle persone ritiene che il fenomeno mafioso non la riguardi, che sia un “affare del Sud”. La cultura dell’antimafia, in Liguria, non c’è o è molto poca, complice anche una informazione che relega le notizie al riguardo in poche righe sulle pagine di cronaca locale. Tuttavia c’è chi, come magistrati, alcuni giornalisti ed esponenti politici e le associazioni per la legalità, si batte quotidianamente affinché cresca la sensibilità su quanto il fenomeno mafioso sia radicato sul territorio. Averne consapevolezza è condizione essenziale per poterlo sconfiggere. Appalti e cantieri, la mafia inquina i porti del Nord, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Marghera, Monfalcone, La Spezia e Ancona. I prestanome. Le famiglie palermitane che vanno verso Nord. La famiglia Galatolo e i cantieri navali hanno sempre avuto ottimi rapporti. Mai ufficiali, perché i Galatolo sono tra le più importanti dinastie mafiose dell’Acquasanta di Palermo, ma continui e proficui, almeno dal secondo Dopoguerra. Gaetano Galatolo, detto “Tanu Alati”, già nei primi anni Cinquanta era noto per essere il maggiore fornitore di manodopera ai cantieri navali di Palermo. Nessuno dei dirigenti del porto però sapeva chi fosse, si diceva. Eppure quel Gaetano Galatolo per la Polizia è già un osservato speciale, e il suo nome esce con prepotenza in una delle prime faide interne alla mafia siciliana, cioè lo scontro tra la “mafia dei cantieri”, rappresentata proprio da Galatolo, e la “mafia dei giardini”, che teneva sotto scacco i sistemi di irrigazione e il mercato ortofrutticolo di via Guglielmo il Buono e le concessioni per gli spazi del mercato stesso. Tanu Alati viene ucciso nel 1955, ma la dinastia dei Galatolo continua a fare affari nella cantieristica navale, rimane fedele a Totò Riina, e nonostante gli arresti i capitali e i patrimoni dei padrini rimangono in circolazione e si trasferiscono anche nei porti del Nord Italia. Avvalendosi negli anni di insospettabili prestanome. Ultimo in ordine di tempo, venuto alla luce nelle scorse settimane dopo un’operazione della Direzione Investigativa Antimafia, sarebbe Giuseppe Corradengo, palermitano, originario proprio dell’Acquasanta e nome noto nel settore della cantieristica navale, riconosciuto come il “re delle coibentazioni". A lui la procura di Palermo contesta il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Corradengo, da vent’anni, ottiene diverse commesse sia nei cantieri navali di Palermo, sia nel resto d’Italia, su tutti Monfalcone, Marghera, Ancona e La Spezia. Una spartizione di lavori e appalti che sarebbe emersa in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Fontana, nipote prediletto dei Galatolo: «Alla fine degli anni ’90 – ha messo a verbale Fontana – quando le indagini si erano fatte più stringenti, i Fontana e i Galatolo decisero di spostare i loro interessi lontano dalla Sicilia». Così i lavori delle due famiglie sarebbero entrati anche «nei cantieri del Nord». Basti pensare, che in appena tre anni, dal 2003 al 2005, le società navali che fanno capo a Giuseppe Corradengo erano riuscite ad aggiudicarsi lavori per 7,3 milioni nei cantieri della Spezia, Marghera, Ancona e Riva Trigoso. Così, ha spiegato il collaboratore di giustizia Angelo Fontana agli inquirenti. I Fontana si sarebbero affidati all’imprenditore Rosario Viola, mentre i Galatolo si sarebbero affidati proprio a Corradengo, grazie al suo pregresso rapporto con Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, accusato di alcuni grandi delitti compiuti a Palermo come quelli del generale Dalla Chiesa, del giudice Rocco Chinnici e del capo della mobile Ninni Cassarà. Una carriera fulminante quella di Corradengo, che da operaio dei Cantieri navali di Palermo si “trasforma” in imprenditore e dominus di imprese come “Nuova Navalcoibent” ed “Euro Coibenti” su cui sarebbero confluiti i capitali mafiosi. Tanto che l’indagine ha portato allo scoperto che interi settori delle lavorazioni navali erano gestiti in regime di quasi monopolio, da imprese che sarebbero riuscite a riciclare ingenti capitali di origine illecita. Un sistema che da Palermo si è poi propagato nei cantieri navali liguri e veneti. Alcuni dei lavori fra i bacini di Marghera, Monfalcone, La Spezia e Ancona nelle mani delle imprese di Corradengo, e degli altri tre presunti prestanome coinvolti, Domenico Passarello, Vincenzo Procida e Rosario Viola, sono stati eseguiti anche per conto di Fincantieri. Fincantieri che alla notizia degli arresti ha tenuto subito a precisare che l’ente è parte lesa. Un sistema “classico” quello che sarebbe stato messo in atto per ottenere i lavori: oltre alle intimidazioni nei confronti dei concorrenti, «si davano bustarelle – afferma ancora il collaboratore di giustizia Fontana – di 10mila, 16mila euro per prendere lavori di 800mila, tutte in nero». Un filone d’indagine, quello che potrebbe configurare un sistema corruttivo diffuso, ancora coperto dal riserbo. Tredici anni fa a Palermo si chiuse un processo con numerose condanne riguardo gli stessi metodi. «Ora siamo alla seconda puntata» ha dichiarato il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, commentando l’operazione della scorsa settimana che ha portato al sequestro delle tre aziende (due di Palermo, Eurocoibeti e Savemar, e una con sede a La Spezia, la Nuova Navalcoibent). Eppure tra le imprese coinvolte nell’operazione dell’antimafia, la stessa Fincantieri e il porto di Marghera una spia d’allarme si era già accesa attorno al tema lavoro: Eurocoibenti, aggiudicataria degli appalti per la coibentazione in lana di vetro delle cabine delle navi, aveva lavorato nel porto fino a febbraio 2012, quando era stata messa in liquidazione. Dopo un anno di cassa integrazione straordinaria, i 106 dipendenti dell'azienda sono stati licenziati poco più di un mese fa. Ma già nel 2011 si contavano i primi esposti dei sindacati e le prime proteste dei lavoratori per alcuni appalti aggiudicati dalle imprese al massimo ribasso e conseguente scarsa osservanza delle leggi sulla sicurezza sul lavoro. Un settore, quello della cantieristica navale, che ha sempre attirato su di sé le attenzioni delle cosche. Se infatti già negli anni Cinquanta i Galatolo erano noti dalle parti dei cantieri palermitani, gli affari di Cosa Nostra nei porti e nei cantieri navali italiani sono andati progressivamente espandendosi. «Se, dunque, l'interesse dell'associazione mafiosa per la cantieristica navale palermitana poteva essere considerato un dato acquisito – hanno scritto nella richiesta i pm Vittorio Teresi e Pierangelo Padova – la presente indagine, per converso, ha consentito di scandagliare, in concreto e forse per la prima volta, la proteiforme capacità dell'associazione medesima di estendere il proprio ambito di influenza ben al di là dei confini regionali siciliani e di infiltrarsi, in particolare grazie all'opera di soggetti in apparenza “puliti”, nella cantieristica navale di molte regioni del Centro-Nord Italia». Soggetti insospettabili e “puliti” che continuano a inquinare la vita economica del Paese.

SI PARLA DI MAFIA... MA IL PD NON C’ERA.

Un’interessante tavola rotonda ha affrontato l’imminente esigenza, anche qui in Liguria di una legge di contrasto e prevenzione alla mafia, scrive Antonio Briuglia su “Trucioli Savonesi”. Il titolo “Liguria ora si vede la mafia in casa” faceva già intendere come, non solo in Liguria ma anche nella nostra città, Savona, con gli ultimi arresti e le vicende legate a inchieste che partono anche da lontano, l’emergenza sia ormai sotto gli occhi di tutti, anche di coloro che sino ad ora negavano l’emergenza di una criminalità organizzata di casa nostra, anche quando qualche incendio colpiva mezzi o attrezzature di qualche impresa. L’incontro ha avuto relatori come Marco Piombo, presidente del WWF, che ha esposto il duro lavoro svolto dall’associazione che in questo momento sta esaminando ben 40 progetti in tutta la Provincia. Progetti che contrastano spudoratamente leggi urbanistiche con l’avvallo delle stesse amministrazioni e che sempre più frequentemente diventano occasioni di riciclaggio di finanziamenti poco leciti. Relatori come Mario Molinari, direttore di Savona New, che ha ribadito come a Savona si continui , nonostante l’evidenza , a registrare l’atteggiamento di chi sostiene che tutto sia tranquillo. Di come le amministrazioni siano ancora troppo latitanti, anche in manifestazioni pubbliche come il Convegno del Priamar sullo stesso tema, dove presenti erano solo Zunino di Rifondazione e la Debenedetti della Lista Cinque Stelle, come se agli altri la cosa non toccasse. Di come, a Savona, nomi illustri legati alle famiglie di mafia compaiano su cartelli di cantieri savonesi molto conosciuti tra i quali quelli di Arte. Di come le inchieste di quei pochi giornalisti, che con dedizione e con impegno si adoperano per rendere pubblico ciò che tutti sanno ma che tacciono con atteggiamento omertoso, siano frutto di fatica ma anche causa di conseguenze personali. Relatori come Christian Abbondanza della Casa della Legalità, che fino a poco tempo fa fu etichettato, proprio per le sue denuncie circa l’esistenza della mafia in Liguria, come “visionario”. Ha raccontato, con precisione di dettagli, come la mafia di nuova generazione abbia sorpassato quella dei colletti bianchi, di come possa essersi insinuata nel sistema, sostenuta da una classe politica che sempre più gli apre la porta, lasciando che condizioni il voto e che il territorio sia non solo depredato ma gestito da coloro che ormai sfuggono ad ogni controllo . Ha riferito alla folta e interessata platea come non solo il centro destra faccia notoriamente affari con le mafie ma anche il centro sinistra con le sue cooperative edili, come tutti scendano a patti, sostenendo di fatto un economia nera, quella delle speculazioni finanziarie, dei project- financing, o dell’alienazione dei beni pubblici che le mafie preferiscono acquistare al posto di quelli già confiscati. Ha spiegato come i circuiti degli affari delle mafie passino, anche in Liguria, dai Comuni alle banche e alle imprese, ma prima decisi altrove. Con non poco imbarazzo il moderatore, giornalista del Secolo XIX, Bruno Lugaro ha dovuto ammettere il suo rincrescimento per l’assenza dell’ospite d’onore: l’onorevole Andrea Orlando, responsabile Giustizia del PD e membro della Commissione Antimafia. Sicuramente impegni più importanti sopraggiunti all’ultimo momento, saranno arrivati a giustificazione dell’assenza, ma la cosa più evidente e inquietante è che anche il PD savonese non c’era. Il PD non c’era. Non c’era il Sindaco Berruti ma neanche i suoi amministratori, a parlare ad esempio di una legge regionale dal loro partito presentata e che forse avrebbe avuto una buona occasione per essere discussa in pubblico se non altro per avere un’occasione di analisi. Il PD non c’era, ma come in un tacito accordo, non c’erano neanche i rappresentanti delle altre forze politiche che in Comune lo sostengono, forse troppo impegnati a preoccuparsi di future dotazioni personali come segretarie, cellulari o uffici spaziosi senza i quali la macchina comunale sembra rischiare di non andare avanti. Eppure il caso Drocchi e Fotia non è così lontano da pensare che l’immaginario collettivo abbia potuto già rimuoverlo. E’ invece la testimonianza evidente di come la malavita sia arrivata a condizionare, da tempo, gli appalti, anche quelli pubblici, tanto da spingere il nuovo Procuratore Capo Granero a costituire, a Savona, un pool antimafia che lavori, in sintonia con le indagini del Procuratore Canepa, sulle infiltrazioni nella politica, nella pubblica amministrazione e nell’economia del nostro territorio. Invano Lugaro ha aspettato. Invano ha sperato in una telefonata, arrivata indiscutibilmente troppo tardi. Riappropriarsi del diritto di essere cittadini. Tutti i relatori hanno condiviso l’idea che la trasparenza degli atti amministrativi e delle azioni di governo, sia strumento fondamentale per vigilare e garantire la legalità e di come questo debba permettere a qualsiasi cittadino di interessarsi, controllare, facendo in modo di interrompere questo meccanismo di consensi e complicità. Gli unici Consiglieri Comunali presenti erano quelli della Lista Cinque Stelle, a testimoniare che qualcosa di nuovo a Savona è nato. Un’opposizione nuova, un modo di fare politica ma soprattutto di volersi sentire cittadini di diritto, di tornare a esercitare una partecipazione vera là dove le vecchie logiche della partitocrazia hanno, di fatto , esautorato i cittadini dalle decisioni che li coinvolgono. Anche qui, una nuova primavera uscita dai movimenti, dalla rete, dalle piazze di quest’ultima stagione, a Savona come in tutta Italia. Quello di cui la classe politica savonese, quella dei vincitori e quella dei vinti non sembra essersi accorta. Una classe politica che, ancora troppo distratta da accordi sulla lottizzazione dei posti di potere sembra essere arrivata al capolinea della credibilità. Le occasioni pubbliche d’incontro con la popolazione, con i movimenti e i comitati, con i nuovi mezzi d’informazione, ultima quella di giovedì sera in una libreria che è ormai diventata laboratorio culturale, vengono puntualmente evitate se non usate come platee per fare strumentali e opportunistiche comparse. Occasioni come questa sulla mafia, dove le inchieste di blogger come Abbondanza si rivelano tutto fuor che “ visionarie”, non vengono colte. Ignorare i blog, i social network, la rete o il giornalismo d’inchiesta, interessante e prezioso come quello di Molinari, significa rimanere arroccati nel Palazzo, rinunciare al confronto, al dialogo, ostinarsi a vivere una dimensione politica surreale, mentre anche i savonesi hanno riscoperto la voglia di informarsi, di ragionare e di discutere . A nulla vale presenziare alle manifestazioni pubbliche organizzate in piazza dai movimenti, ultima quella contro il Carbone, dove il Sindaco ed alcuni Assessori hanno fatto bella presenza, cavalcando con una certa ipocrisia politica, una protesta che nei fatti a loro è, a dir poco, estranea. A nulla serve “attaccare cappelli” su iniziative proposte da questo o dal quel gruppo di cittadini, magari di donne di sinistra che chiedono, inutilmente e da troppo tempo, nuove regole per la loro partecipazione alla vita politica, se poi la spartizione dei posti di potere condiziona e appiattisce le donne alla sottomissione di decisioni prese dal potere maschile che impera nelle segreterie di partito. A Savona qualcosa di nuovo è nato fuori dagli organismi dei partiti. Una nuova voglia di condivisione, di battaglie partecipate, di voglia di parlare, di dialogare, di informarsi. Una realtà che vede il lavoro dei movimenti e l’informazione sulla rete andare avanti in modo sempre più intenso ed efficace, perché con buona pace di qualche assessore PD, che troppo bene emula Ministri PDL al Governo, i blog non si possono zittire, né orientare, come troppo spesso si fa con la carta stampata. Non si può “fare il culo agli editori”, tradendo nervosismi e atteggiamenti spropositatamente intimidatori. I blog sono una risorsa di libertà di espressione e d’informazione, sostenuti solo da appassionato volontariato e che si voglia o no, continueranno a scrivere.

Arriva da inquirenti ed esperti la mappa delle famiglie, ventuno in particolare, che operano nell’ambito della criminalità di stampo mafioso in Liguria, scrive “Il Vostro Giornale”. Quasi tutte della ‘ndrangheta e qualcuna della nuova camorra e della mafia siciliana che con la criminalità organizzata calabrese hanno stretto buoni rapporti di affari. In provincia di Savona, sono due le ‘ndrine al lavoro: la famiglia Gullace, specializzata nelle estorsioni che ha radici a Cittanova (Reggio Calabria) e la famiglia Stefanelli, proveniente da Oppido Mamertina e Africo, imprenditori. In provincia di Imperia sono le famiglie del Reggino, della Piana, di S. Luca, Seminara e Palmi a fare la parte del leone: i Palamara impegnati nel traffico di stupefacenti, i Pellegrino-Barilaro, imprenditori nel settore del movimento terra e edile, i Maffodda di Palmi che hanno base ad Arma di Taggia e gli Sgrò di Palmi, imprenditori edili fanno affari con i Tagliamento (Napoli), imprenditori immobiliari. Tra l’altro, proprio a Seminara (Reggio Calabria), terra della sanguinosa faida tra i Pellegrino e i Gioffré, nel 2007 i carabinieri avviarono un’indagine sui condizionamenti che la cosca Gioffré operava sull’amministrazione comunale. A Genova lavora nel commercio il gruppo Gangemi, il cui capobastone presiede il locale di ‘ndrangheta mentre il gruppo Nucera-Rodà controlla il locale di Lavagna ed è impegnato nel settore alberghiero. A questi due locali fanno riferimento i Monachella-Morso (gioco d’azzardo), i siciliani Fiandaca (ex fedelissimi dei Madonia, ristoratori in Liguria), i Macrì di Mammola (Reggio Calabria), i Caci (prostituzione e riciclaggio), i siciliani Lo Iacono (lavori stradali e edilizia), i campani Agiollieri legati al clan camorrista Gionta, impegnati nel commercio ma anche i Facchineri e i potenti Canfarotta di Palermo che tanto denaro investono nel campo immobiliare. Alla Spezia il locale di ‘ndrangheta di Sarzana è guidato dai Romeo, provenienti da Roghudi (Reggio Calabria), imprenditori immobiliari come i De Masi di Sinopoli. Al locale fanno riferimento i campani Di Donna, che si occupano di videopoker e estorsioni.

La mafia in Liguria non esiste! Scrive sarcasticamente “Bevera e dintorni”. Parola di Alberto Landolfi sostituto procuratore a Savona, altre braccia strappate all'agricoltura! Le discoteche, gli escavatori, gli stabilimenti balneari che bruciano sono un fatto irrilevante. La commissione parlamentare antimafia? Una realtà scomoda da ignorare! Quando ci si imbatte in una dichiarazione di questo tipo, fatta da un personaggio che ricopre un ruolo del genere, verrebbe da abbassare le braccia, di darsi definitivamente per vinti. E' esattamente quello che vogliono. Bisogna al contrario reagire. Bisogna informarsi ed informare. Nelle giornate libere bisogna occuparsi di personaggi come il p.m. Landolfi. Portarlo in giro per la Liguria. Fargli vedere un po' di quella realtà, che dal buio del Suo ufficio....stenta a scorgere!

Nota dell'Ufficio di presidenza della Casa della Legalità di Genova:"Nel savonese, ma in tutta la Liguria non abbiamo problemi legati alla criminalità organizzata. Esistono forse solo dei rigurgiti legati ai vincoli esistenti tra qualche famiglia ancora residente qui con nuclei malavitosi, ma senza conseguenze. L'humus caratteriale dei liguri non ha permesso a quel tipo di cultura di attecchire in queste zone"...

Non c'è niente da dire, Landolfi ci sta benissimo in quella Procura perennemente "in sonno". Anzi ci è sempre stato benissimo, perché al di là di uscite spettacolari, anche con tanto di elicottero, il suo lavoro di contrasto alla cosche mafiose si è sempre caratterizzato per calendarizzazioni propedeutiche alle salvifiche prescrizioni. Siamo in quella Procura che cercò di ostacolare in ogni modo il giudice Del Gaudio nell'inchiesta sul clan di Alberto Teardo, il potente piduista craxiano, ex Presidente della Regione Liguria, come anche ostacolò il Procuratore Acquarone nell'inchiesta sul "Fallimento Perfetto" dell'Ilva di Savona che spianò la strada alla grande speculazione immobiliare dei nostri giorni nel cuore della città della torretta. D'altronde se nella Provincia di Savona non è ancora stato individuato il "locale" della ‘ndrangheta, punto centrale degli interessi non solo regionali delle cosche calabresi, una ragione ci sarà pure! Ma già dai tempi della Rifiuti Connection in Liguria il buon Landolfi si caratterizzo per non andare in fondo a quanto scoperto sulle Cave dei veleni gestite dalla ‘ndrangheta. Così come rispose in modo al quanto sgarbato alla Commissione d'Inchiesta. Così anche come non si accorge dei traffici ed affari del potente clan Gullace-Raso-Albanese. Così non si è accorto che i beni sequestrati ai Fazzari (imparentati e legati al Carmelo Gullace), in parte gli sono stati restituiti ed in parte gli sono stati lasciati nella totale disponibilità (come la villetta che doveva essere demolita già nei primi anni Novanta). Così non si è accorto dell'infiltrazione nell'economia locale dei Fameli come dei Nucera. Non si è accorto delle attività della famiglia Fotia con i movimenti terra, così come non si è accorto nemmeno che a vincere appalti (anche irregolari!) nel savonese vi era una società dei fratelli Guarnaccia, la Co.For. tanto che per sequestrarla ha provveduto la DDA di Reggio Calabria. E così via... lui non si è accorto e quando si è accorto di qualcosa tutto è arrivato alla prescrizione. Anche sull'humus culturale il Landolfi dimostra di non conoscere la realtà. La Liguria è divenuta una regione tra le più omertose dell'intero Paese. Questo non solo perché vi sono interi paesi o quartieri delle città in cui le mafie, sfruttando la grande migrazione, hanno trapiantato intere comunità, riproducendo qui quelle dinamiche sociali ad esse favorevoli, ma anche perché vi è un blocco di potere, trasversalmente protetto e animato, che si fonda sulla clientela ed il ricatto, così da ridurre a sudditi silenti e fedeli quegli individui non più cittadini. Il fatto che ad esempio vi siano porzioni di territorio, come nell'imperiese dove gli incendi dolosi sono più frequenti e numerosi che in Calabria ed in Sicilia (dato nascosto tenacemente delle Autorità!), e le vittime non denunciano... non significa che va tutto bene, ma che vi è la paura di denunciare perché non si sa da che parte stanno coloro a cui si denuncia, in un sistema di commistioni e collusioni devastante ed in certi contesti palpabile. E così è per il pizzo e l'usura, per esempio, piaghe presenti ma che le persone non hanno il coraggio di denunciare, anche perché spesso, si sentono ripetere da coloro i quali dovrebbero perseguire i "carnefici" che questi "carnefici" non esistono. Il negare la presenza ed il potere di infiltrazione delle mafie è il primo esempio, dovrebbe saperlo Landolfi, di quella cultura prediletta proprio dalle mafie. In conclusione potremmo dire che Landolfi ama l'ambiente "scolastico" probabilmente... e che è anche certo che con un lavoro così non rischia nemmeno procedimenti disciplinari. Peccato che ci siano atti dei reparti investigativi e delle Commissioni d'Inchiesta, nonché atti giudiziari di altre Procure che dicono e provano l'esatto opposto di quanto lui va dicendo nelle scuole savonesi. Non solo: la supponenza con la quale viene dichiaro che il problema non esiste, rappresenta una mancanza di rispetto disdicevole verso quei colleghi magistrati e quegli agenti dei reparti investigativi, che ogni giorno lavorano, con fatica, per sconfiggere quelle ramificazioni delle mafie che in Liguria riciclano il denaro sporco, inquinano l'economia, gli appalti, le pubbliche amministrazioni e promuovono, molto spesso, quelle ondate speculative che stanno devastando il territorio. Quindi, se scherzando possiamo fare delle battute, parlando sul serio dobbiamo dire che è davvero stata una brutta lezione ed un pessimo esempio per quei ragazzi che sono la speranza di domani e che, come diceva nonno Nino, possono essere le "sentinelle della Legalità"! Come abbiamo sempre detto l'autonomia e indipendenza della Magistratura è come la libertà, se uno non vuole esercitarla e preferisce chinare la schiena ed il capo, voltarsi dall'altra parte, è come se non ci fosse. Ed ecco che il panorama di questa realtà ci offre un esempio davvero emblematico. Il Secolo XIX - Savona - 02.10.2008, dibattito al liceo Della Rovere. Mafia e camorra: il pm fa lezione agli studenti. Il sostituto procuratore Alberto Landolfi incontrerà oggi i ragazzi: «Ma qui da noi non esistono problemi». «NEL SAVONESE, ma in tutta la Liguria non abbiamo problemi legati alla criminalità organizzata. Esistono forse solo dei rigurgiti legati ai vincoli esistenti tra qualche famiglia ancora residente qui con nuclei malavitosi, ma senza conseguenze. L'humus caratteriale dei liguri non ha permesso a quel tipo di cultura di attecchire in queste zone».Alberto Landolfi, sostituto procuratore alla procura di Savona, localizza in maniera estremamente precisa e attenta il fenomeno della criminalità organizzata (mafia e camorra) sui quali oggi interverrà al liceo statale "Della Rovere". L'appuntamento con gli studenti del liceo è per le ore 10, alunni ai quali il magistrato ha accettato di parlare di mafia e camorra in maniera generale, con particolare attenzione alle differenze tra i due sistemi criminali «che sono estremamente diversi»sia per quanto concerne le caratteristiche e le peculiarità. Si annuncia quindi un dibattito particolarmente acceso sull'argomento di attualità in Italia e sul quale da qualche anno le giovani generazioni sono interessate e pronte a schierarsi sul piano delle idee e delle posizioni. In Sicilia, Calabria e Campania sono sempre più frequenti le manifestazioni di protesta dei giovani nei confronti di mafia e camorra, «anche se bisogna evitare il rischio di innamoramenti sbagliati» aggiunge il pm Landolfi «visto che spesso possono essere attratti da un mondo alternativo al loro». Mafia e camorra, ma non solo, saranno i temi cardini dell'intervento di Landolfi che però non può mancare nei riferimenti anche alla situazione locale. E se il pm ribadisce di non essersi imbattuto in questi ultimi anni in fenomeni del genere nel savonese («qualcosa c'era stato, ma verso la fine degli anni ‘80 e gli inizi del ‘90»), individua anche nella «predisposizione culturale dei liguri» la ragione principale dell'essiccamento sul nascere del fenomeno:«La gente di questa terra è litigiosa, si arrabbia, ma non accetta la cultura della violenza. Anzi la rifugge e sa reagire». Al Della Rovere,oggi,l'argomento però sarà di grande attualità e interesse e forse in grado di regalare al pubblico ministero e agli insegnati uno spaccato del pensiero giovanile savonese sul problema.

Ma il fulcro della mafia ligure è nel Savonese, scrive Christian Abbondanza - Casa della Legalità – Onlus su “Il Secolo XIX”. Con le ultime operazioni antimafia in Liguria chi sosteneva che questo territorio fosse “indenne” da certe presenze è stato smentito. Vi è però il rischio che le mafie riescano a “deviare” le attenzioni su alcuni sacrificabili per tutelare quello che per loro conta: gli affari. Ecco cosa potrebbe celarsi dietro agli episodi eclatanti del ponente ligure che hanno fatto uscire dall’invisibilità tanto perseguita le cosche calabresi. Per evitarlo non basta l’azione dei giudici, ma serve l’attenzione sociale e mediatica, capace di far emergere quanto è avvolto dal silenzio, non solo per aiutare le indagini ma anche per far sentire un rigetto sociale verso le mafie e le loro indicibili alleanze e coperture. Il negazionismo che per lunghi anni ha avvolto la presenza e l’attività delle mafie in Liguria sembra finalmente andato in soffitta, o quanto meno chi persevera nel negare è ormai smentito categoricamente da fatti eclatanti che si susseguono. Negli ultimi due anni si sono resi evidenti infatti, anche i Liguria, i due volti delle mafie. Quello più prettamente criminale e quello invece degli “affari”. Oggi, quanto per anni scritto dalla DIA (Direzione Investigativa Antimafia), dai Rapporti della Guardia di Finanza e persino riportato nelle Relazioni dalla Commissione Parlamentare Antimafia, viene giorno dopo giorno confermato da inchieste e fatti. Quei nomi come i Fogliani, i Fameli, i Gullace e Raso, i Fazzari, i Mamone, i Tagliamento, i Nucera, i Maurici, i Calvo ed i Fiandaca con tutta la banda dei “gelesi”, così come i Morabito, i Pellegrino, i Macrì, gli Stefanelli-Giovinazzo e altri ancora, non sono più fantasmi o “ectoplasmi”, ma sono sempre più oggetto di attenzioni investigative, inchieste, procedimenti e/o provvedimenti giudiziari. Da ponente a levante, le famiglie della ‘Ndrangheta, come quelle di Cosa Nostra, della Camorra, della Sacra Corona Unita e delle mafie straniere, sono da lungo tempo note. Così come sono noti i rapporti e le collaborazioni tra la criminalità straniera e le cosche italiane e la straordinaria capacità di coordinamento tra loro delle diverse organizzazioni mafiose italiane, atta a spartirsi territori, traffici e affari, garantendo una “pax” capace di evitare scontri (come quelli conosciuti nei primi anni Novanta) che provocherebbero allarme sociale e quindi attenzione giudiziaria, oltre che mediatica. Ed in questa terra le mafie hanno sempre avuto un doppio volto, quello prettamente criminale (capace di attrarre maggiori attenzioni) e quello di infiltrazione nell’economia legale e negli appalti, per il grande riciclaggio e l’accumulazione di ricchezza “pulita” grazie al soffocamento della concorrenza (per via della disponibilità costante di risorse, oltre che attraverso corruzione o, al bisogno, delle intimidazioni e della violenza). E’ così che la Liguria è divenuta terra di conquista nei decenni passati e di radicamento e presenza conclamata della cosche mafiose, con le nuove generazioni dalla fedina penale linda e reti di prestanome senza macchia. Un radicamento che ha portato le cosche ad avere anche il controllo del territorio in alcune zone delle diverse province, anche se in modo non eclatante come in altre zone del Paese. Lo sfruttamento della prostituzione, il traffico ed il controllo del mercato della droga, il racket e l’usura, il contrabbando, la contraffazione, il gioco d’azzardo ed i traffici di armi da un lato, le false bonifiche ambientali ed i traffici illeciti di rifiuti tossici, il caporalato, le forniture di calcestruzzo depotenziato e l’infiltrazione negli appalti pubblici dall’altro lato, facevano e fanno da contraltare alle grandi operazioni di riciclaggio che ha visto grandi settori di conquista nell’edilizia, nel settore commerciale e della ristorazione, per citarne i principali e conclamati. Tutto questo avveniva in un crescendo di omertà e insabbiamento sociale che non è mai stato tanto simile a quello delle loro terre di origine. Il perché è semplice: così come è avvenuto nelle altre regioni del centro nord qualcuno ha aperto la porta di ingresso alle mafie anche in Liguria. Questo è avvenuto per avere servizi e manodopera a basso costo (utili ad imprese e pubbliche amministrazioni) e perché portavano e portano “soldi” del cui odore non importava e non importa nulla. La spregiudicatezza sociale, economica e politica è stata la principale alleata delle organizzazioni mafiose. Tanto è vero che le denunce per usura ed estorsione, così come le segnalazioni di movimenti sospetti da parte di notai, commercialisti e banche, sono chimere in questa terra. Tanto è vero che le Pubbliche Amministrazioni, così come grandi imprese - a partire dai colossi della Lega delle Cooperative – non hanno mai disdegnato fare affari con quelli che definivano (e definiscono ancora) come “noti imprenditori” pur essendo da anni citati dai reparti investigativi dello Stato come soggetti legati o appartenenti alle organizzazioni mafiose. Da due anni le inchieste stanno stringendo il cerchio, soprattutto l’attività svolta dalla DIA e della Guardia di Finanza ha prodotto materiale, per gli inquirenti delle Procure e per le sezioni di prevenzione dei Tribunali, che sta producendo l’apertura di molteplici procedimenti ed in molti casi ha già fatto scattare provvedimenti di confisca, di sequestri e sorveglianza speciale, oltre che anche ad arresti. Ciò è avvenuto sia per il contrasto e la prevenzione del settore prettamente “criminale” sia puntando le attenzioni e gli approfondimenti sui cosiddetti “imprenditori” espressione delle diverse famiglie mafiose. Ma attenzione: le mafie sanno reagire e le strategie per evitare che il recinto gli si chiuda intorno sono ben collaudate. Infatti le mafie non vivono per compiere atti prettamente “criminali”... la loro principale vocazione è quella degli “affari” e, per questo, le mafie hanno rapporti, di convivenza, contiguità e complicità con pezzi del Potere politico (trasversalmente) ed economico, per questa prima di tutto corrompono, comprano, acquisiscono e fanno valere il controllo di importanti “pacchetti” di voti. Per coprire il grande riciclaggio e le grandi speculazioni, che gli garantiscono di farsi sempre più “impresa”, hanno necessità di coperture e sono pronti, per tutelare questi affari ed i loro referenti ed amici della politica, delle pubbliche amministrazioni, del tessuto economico e finanziario ed anche dei settori di controllo, ad usare uomini-cerniera e collettori insospettabili, ma anche di sacrificare pezzi della loro organizzazione - quelli più prettamente “criminali” -. Questa strategia è quella che ha sempre permesso alle organizzazioni mafiose di sopravvivere all’azione repressiva dello Stato. E questa strategia sembra proprio quella adottata in Liguria. Vediamo alcuni elementi ed alcune coincidenze che ci portano a mettere in guardia su questo punto. Dal 2005 la nostra organizzazione punta i riflettori su alcuni dei soggetti, a partire da quelli legati e appartenenti a Cosa Nostra ed alla ‘Ndrangheta, attivi in Liguria, ed in particolare su quelle famiglie (Mamone, Gullace-Fazzari, Fameli, Fogliani, Fotia, Calvo, Nucera, Pellegrino, Maurici ed i “gelesi”, per citare i principali) che hanno rapporti con le Pubbliche Amministrazioni, le società partecipate ed importanti imprese. Abbiamo documentato ampiamente le attività ed i rapporti di detti soggetti con la Pubblica Amministrazione, la politica ed i soggetti economici e finanziari, fornendo una mappatura completa che si affiancava a quella sulle attività più prettamente “criminali”. Buona parte di quanto da noi segnalato alle autorità competenti e di quanto pubblicato con le inchieste sul nostro sito internet www.casadellalegalita.org (e con quello della sezione di Imperia www.beveraedintorni.com) trovato conferma dalle attività dei reparti investigativi, nei riscontri, ed in procedimenti avviati dalle Procure, di cui alcuni già arrivati a confisca e sequestro. Dal 2008, in particolare, si sono palesate le attività di inchiesta della Procura di Genova, ma anche quelle della Procura di Sanremo e poi Savona, oltre che di Milano, Lodi, Caltanissetta, Palermo e Reggio Calabria in merito ad alcuni soggetti ed affari posti in essere dai medesimi soggetti operanti in Liguria anche nelle regioni meridionali ed in Lombardia. Queste inchieste oltre che colpire soggetti e attività prettamente criminali hanno puntato alla cosiddetta “mafia pulita”, quella delle imprese ben inserite nell’economia “legale” e nei lavori, nelle forniture ed appalti pubblici, sino anche a svelare i rapporti che vi sono stati per condizionare il voto a Genova in occasione delle ultime elezioni amministrative. In parallelo a tutto questo è stato ampio lo spazio dato dalla stampa locale e nazionale (a partire proprio dal giornalismo di inchiesta de Il Secolo XIX), oltre che dalla pubblicazione del libro-inchiesta di Ferruccio Sansa e Marco Preve, “Il Partito del Cemento”, che indicava proprio, per “voce” di uno dei giudici della DDA di Genova (ora alla Procura Nazionale Antimafia), la dott.ssa Anna Canepa, che la mafia non è solo quella che spara, che incendia ed usa violenza ma è anche, e soprattutto al nord, una mafia di “colletti bianchi”, ben mimetizzata, che opera per riciclare l’enorme ricchezza “nera” in quelle grandi e piccole speculazioni, a partire da quelle del cemento, verso cui le pubbliche amministrazioni si sono viste, trasversalmente, chine. Ed è mentre questa attenzione sociale, mediatica e giudiziaria si faceva sempre più pressante che vi è stato un fuoriuscire dall’invisibilità di alcune delle famiglie di mafia nell’estremo ponente Ligure. Un fatto anomalo perché irrazionale ed illogico: dopo aver conquistato una mimetizzazione quasi perfetta, che gli garantiva non solo affari - dai movimenti terra ai traffici rifiuti, dal Casinò alla rete di racket e infiltrazione nel settore commerciale -, le organizzazioni mafiose decidono di rendersi visibili con attentati incendiari, spari e minacce... In altre parole: la ‘ndrangheta ha mostrato il volto cruento, fatto di atti eclatanti che hanno attirato l’attenzione, in una particolare zona... Lo fanno proprio in quel territorio che storicamente è stato indicato come la sede della “camera di compensazione” della ‘ndrangheta in Liguria – dove conta su “locali” (sedi di coordinamento delle ‘ndrine attive sul territorio) seminati in tutte le province della regione -. La ‘ndrangheta si è resa evidente, quasi come a dire: siamo qui, colpiteci. Ed allora viene da riflettere e rimettere in fila alcuni dei principali (e noti) elementi, partendo da un presupposto che ci venne insegnato da Antonino Caponnetto: le mafie sopportano molto meno l’attenzione che si punta su di loro ed i loro affari, rispetto ai provvedimenti restrittivi. E vediamo ora il dettaglio. I Mamone a Genova sono sotto scacco delle inchieste, tanto da essersi spinti nel tentativo di corrompere un pubblico ministero ed aver spostato buona parte dei loro lavori in Emilia Romagna. I Gullace-Fazzari sono sotto attenzione per le attività che impunemente hanno potuto portare avanti dopo la stagione dei sequestri, dei grandi traffici di droga e di rifiuti. I Fameli in una zona, così come i Nucera in altro territorio, famiglie di ‘ndrangheta, sono divenuti soggetti economici di primo piano nei rispettivi ambiti di azione, ma nonostante questo restano attenzionati. I Fotia così come anche i Fogliani hanno visto puntati su di loro riflettori che mai avevano visto prima. Anche nello spezzino si stanno battendo al tappeto cantieri e intrecci. In contemporanea la Procura di Savona usciva dalla stagione del “lungo sonno” in cui le inchieste eccellenti e quelle che riguardavano determinati soggetti e affari restavano immobili e finivano nel nulla se non in prescrizione. E questi fatti cosa ci dicono? Che il vero fulcro della presenza della ‘ndrangheta in Liguria non è più Ventimiglia e più in generale l’imperiese (se non per il ruolo di collettore con quel territorio ed i soggetti di oltre confine, della Costa Azzurra). Il fulcro appare essersi ormai consolidato nel savonese, dove non è un caso che quelle famiglie mafiose con i loro affari - che poi si diramavano e si diramano ben oltre al solo territorio della provincia di Savona, per raggiungere l’imperiese e Genova - godevano e godono di contatti ed amicizie eccellenti, frequentazioni di insospettabili e dove hanno mantenuto sempre un bassissimo profilo “criminale”, ovvero senza particolari episodi capaci di generare allarme sociale. Il fatto che il clan dei Pellegrino sia stato fermato (in buona parte) con la recente Operazione della Procura di Sanremo è certamente un segnale importante, ma ci pare, per le dinamiche di evoluzione degli episodi criminali che hanno caratterizzato in questi 2 anni quel territorio tra Bordighera, Sanremo e Ventimiglia, un “consegnare” parte del braccio dell’organizzazione per salvaguardare la parte “pesante” e influente. Insomma, una sorta di “dazio” che la ‘ndrangheta ha voluto pagare per consolidare quell’immagine per cui la mafia è prettamente quella che incendia e spara, che usa violenza e non invece, quindi, quella delle “imprese” in rapporti costanti, consolidati, con il potere politico, amministrativo, economico e finanziario. Occorre senz’altro colpire il “braccio” che esegue le attività più prettamente “criminali”, ma senza perdere di vista, con azioni di denuncia e repressione, quelle famiglie che operano negli altri territori della Liguria in stretto rapporto con le Amministrazioni Pubbliche, le banche e le grandi imprese, condizionando – come si è dimostrato ampiamente – non solo l’economia pulita (che viene soffocata) ma anche le stesse scelte democratiche, con cosche che sono sempre più impegnate, anche qui, come nelle terre di origine, per condizionare il voto e quindi la gestione della cosa pubblica. D’altronde la Liguria è quella regione dove, non dimentichiamolo, il potere massonico è ben consolidato e capace di condizionare economia, politica ed anche i settori di controllo, sino nell’ambito all’autorità giudiziaria. Ed è proprio attraverso lo spazio all’interno della massoneria - e garantito dalla massoneria - che le diverse famiglie mafiose hanno avuto che si sono tessuti quei rapporti e quelle coperture indicibili - su cui noi, alcuni elementi li abbiamo raccolti e riferiti a chi di dovere -. Si può comprendere, quindi, non solo perché questo legame con gli ambienti massonici sia protetto da assoluta riservatezza ma anche il fatto che per coprire questo sia imposto, a chi lo ha stretto, di tutelare il silenzio e l’omertà più assoluta, anche quindi sacrificando qualcuno, pur di proteggere gli alti livelli. La risposta dei reparti investigativi, comunque, non si è fatta attendere, visto che proprio l’altro giorno la DIA è andata a colpire il patrimonio di un noto “imprenditore” spezzino, impegnato in asse con le organizzazioni mafiose, tra Emilia Romagna e l’Est europeo. Ma il rischio è che sia l’attenzione sociale a finire vittima di questa azione di “distrazione”, ed allora occorre ribadire la necessità di segnalare e denunciare gli episodi e gli elementi sospetti che si evidenziano nei cantieri, così come nelle forniture, nel rilascio di licenze e concessioni, nei contributi e finanziamenti così come nelle varianti urbanistiche ed approvazioni di progetti milionari. Perché se viene meno l’attenzione sociale vi è il conseguente rischio che venga meno anche quella giudiziaria, non perché i magistrati si facciano condizionare, ma perché, qui, come più in generale nel centro-nord Italia, qualcuno potrebbe cogliere al volo questa “distrazione” perché, pur consci della forte presenza delle mafie, alcuni considerino (o, per meglio dire, preferiscono considerare per non avere problemi) non possibile procedere su quei filoni che colpendo le organizzazioni mafiose andrebbero anche a mettere in discussione equilibri politici, economici ed istituzionali, mentre altri potrebbero addirittura cedere alla vecchia “immagine” per cui”è mafia” quando vi sono episodi violenti ed eclatanti e non sia invece mafia quella fatta attraverso società, imprese ed affari. Se il tentativo della ‘ndrangheta è veramente quello di “deviare” l’attenzione, sperando che ci si accontenti di qualche elemento di basso livello dell’organizzazione criminale, la risposta deve essere quindi prima di tutto sociale e deve vedere sia i cittadini impegnati nel rompere definitivamente la cappa di omertà. Questo significa che occorre farsi, da cittadini, “sentinelle” sui territori capaci di segnalare quanto necessario ed utile alle indagini, così come significa che il mondo dell’informazione deve continuare a puntare le attenzioni su quei soggetti e quegli affari apparentemente “puliti” ma in realtà sporchi o quanto meno non trasparenti e corretti. E’ infatti nell’assenza di trasparenza della gestione della cosa pubblica, così come del territorio e dell’economia, che le mafie sono favorite nella loro attività di infiltrazione, radicamento e consolidamento, ed in Liguria, grande parte delle società partecipate sono enormi “buchi neri” dove la trasparenza e correttezza della gestione è pressoché cancellata totalmente. Se oggi sappiamo che le mafie, anche in quegli elementi più “violenti”, possono essere colpite, non vi è più scusante per cedere alla paura, così come se oggi sappiamo dagli Atti ufficiali che boss e uomini delle cosche, da Genova sino all’imperiese, hanno goduto di amicizie nelle Pubbliche Amministrazioni (funzionari, tecnici e politici), non occorre che si attendano sanzioni penali (difficili da raggiungere in questi casi, come ci diceva già Paolo Borsellino), ma serve una chiara e inequivocabile azione di rigetto verso qui politici e quelle pubbliche amministrazioni in quanto cittadini, perché sul piano della “responsabilità politica” - che è quella che ci interessa e compete - non vi sono attenuanti per amicizie, protezioni ed aiuti a uomini delle cosche. Se invece ci si accontenterà dell’azione repressiva verso il “braccio” delle mafie, verso gli elementi che si rendono evidenti con atti eclatanti - ovvero verso quegli elementi che le mafie stesse sono pronte a “consegnare” (e consegnano) per salvare i propri grandi affari, tutelando le alleanze e coperture -, allora si renderà sempre più forte e consolidata la presenza mafiosa. La responsabilità, quindi, non è solo dei giudici, ma, soprattutto adesso, dei cittadini, delle comunità e del mondo dell’informazione che può e deve trovare il coraggio di indicare chi é da indicare, senza reticenze ed a 360 gradi. Così come grande responsabilità è riposta nelle imprese che devono, una volta per tutte, rigettare i “lavori” e “servizi” a basso costo offerti in subappalto e come forniture dalle società di famiglie di mafia, indicate come tali da anni ed anni nei rapporti investigativi. E, attenzione, significa anche che una responsabilità prima è nei partiti, tutti i partiti, che devono ripulirsi e non limitarsi a vedere le convivenze, contiguità e complicità degli altri, ma anche quelle del proprio partito, perché in Liguria, come altrove, le mafie non hanno rapporti solo con una parte, bensì li hanno trasversalmente, con le Amministrazioni di centrodestra e con quelle di centrosinistra, indistintamente!

Legambiente: "Mafia nel cemento. Liguria capitale del Nord". A Imperia, Genova e Savona il primato dei reati. Quasi 1.800 le infrazioni monitorate, più della Lombardia, il doppio del Veneto. La relazione dell'Antimafia: "Qui la criminalità si muove in modo sommerso",scrive Massimo Calandri su “La Repubblica”. Il recente scioglimento per infiltrazioni mafiose di due Comuni liguri è un primato vergognoso. Ma è solo la punta di un iceberg - tra malavita, corruzione e abusivismo edilizio - che fa di questa regione la peggiore di tutta l'Italia del Nord. Da Spezia a Ventimiglia è stato registrato il più alto numero di reati di quella che in maniera efficace è stata definita la Cemento Spa: 1.797 negli ultimi quattro anni monitorati, dal 2006 al 2010. Più della Lombardia, quasi il doppio del Veneto. Un quarto degli illeciti del settentrione del paese è commesso in Liguria. E nella classifica delle province più "corrotte", i primi tre posti sono di Imperia, poi Genova e Savona. La denuncia contro chi sta saccheggiando il Nord e lo impoverisce da un punto di vista economico, sociale e culturale, è ribadita in un clamoroso dossier di Lega Ambiente ("Cemento Spa", appunto) che accenna appena al recente arresto imperiese di Francesco Caltagirone Bellavista, fermato per truffa aggravata ai danni dello Stato in un'inchiesta sul nuovo porto d'Imperia che coinvolge anche l'ex ministro Claudio Scajola. Perché non c'è bisogno di quell'ultimo scandalo per essere consapevoli di quanto questa terra sia diventata crocevia di imbrogli, di riciclaggio, di speculazioni, di distorsioni ambientali. Lega Ambiente, che per due anni consecutivi - ma senza riscontri fra i pubblici amministratori - aveva rifilato la "bandiera nera" al mega-porto imperiese, non fa tante chiacchiere. Si limita a sottolineare numeri, nomi, circostanze precise. E dunque, la Liguria è la regione con il più alto numero di reati: rappresentano il 25,2% di quelli accertati complessivamente in quattro anni nelle regioni del Nord, con 2.641 persone denunciate e 337 sequestri. L'incidenza è di 33 reati ogni 100 chilometri quadrati. Niente male, per chi fino a qualche anno fa negava - anche nelle sentenze dei tribunali - una qualsiasi presenza mafiosa da queste parti. Invece la criminalità organizzata prospera, ed investe nel cemento. Nell'inquietante capitolo intitolato "le betoniere dei clan", gli autori del dossier ricordano che da quando - vent'anni fa - entrata in vigore la nuova normativa, sono tre i comuni chiusi per mafia: Bardonecchia nel '95, poi Bordighera lo scorso anno e Ventimiglia qualche settimana fa. Il radicamento della 'ndrangheta è del resto confermato dalla direzione Nazionale Antimafia, che ha concentrato la sua attenzione su Genova, Ventimiglia, Sarzana e Lavagna. Esiste una speciale classifica sugli illeciti in materia edilizia, e qui i liguri si comportano da veri fuoriclasse del crimine: Imperia vince con largo margine (453 infrazioni accertate, il 7,8% del totale), Genova però non si tira indietro (401), e poi Savona (398). La Spezia non è poi molto lontana, tredicesima (140). Davanti a Bologna, tanto per intenderci. Mentre in una città come Torino sono stati commessi meno di un terzo degli illeciti genovesi. Se ancora non basta, vale la pena di citare la Dna: "In Liguria la mafia, piuttosto che con gesti eclatanti e visibili, si muove in maniera sommersa spendendo la fama conquistata altrove: ha dimostrato la subdola capacità di infiltrazione, in particolare della 'ndrangheta, venuta a patti con numerosi soggetti disponibili a percorrere la più remunerativa via dell'alleanza e del compromesso, piuttosto che quella della libera competizione secondo le regole". Ma non è solo una questione di mafie, denuncia Lega Ambiente. "L'abusivismo edilizio classico continua a sfregiare tutto il territorio italiano e non solo il Meridione, come solitamente viene raccontato". L'associazione cita le stime del Centro ricerche Economiche e Sociologiche: "Nell'ultimo anno sono stati 26.500 gli abusi censiti, numero che assorbe ben 18.000 nuove costruzioni. Lo scorso 29 febbraio, solo un esempio, ad Arcola, vicino alla Spezia, il Corpo Forestale dello Stato ha sequestrato un complesso immobiliare (residenziale e commerciale) in un'area ad alto rischio idrogeologico, nonostante la Regione avesse imposto nell'area il divieto assoluto di edificazione dopo i danni arrecati dall'alluvione del 25 ottobre 2011".

Emergenza mafia, la conta dei beni, sequestrati 41 immobili e 15 aziende. Dopo lo scioglimento dei Comuni di Bordighera e Ventimiglia e le dimissioni del sindaco di Vallecrosia i dati sulle confische confermano la gravità del fenomeno, scrive Giulia Destefanis” su “La Repubblica”. Prima lo scioglimento dei comuni di Bordighera e Ventimiglia, venerdì le dimissioni del sindaco di Vallecrosia. Tre centri, a pochi chilometri l'uno dall'altro, travolti dalle accuse di infiltrazioni mafiose. E così, sull'insediamento della criminalità organizzata in Liguria, è ormai difficile fare orecchie da mercante. A rivelarlo sono anche i dati sui beni confiscati e riconsegnati alla società civile: "Ce ne sono 41, più 15 aziende, e sono in tutte le province liguri", spiega il viceprefetto Dario Caputo, tra i responsabili dell'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati. "Non sono numeri paragonabili a quelli del Sud - continua - ma sono il simbolo della presenza mafiosa sul territorio e, dunque, essendo in crescita, portano a stime non ottimistiche sul futuro". Partendo da Ponente, in provincia di Imperia ci sono 4 beni, così come a Savona. E spostandosi a Levante i numeri non diminuiscono, anzi: in provincia di Genova sono 17, 16 a La Spezia. "Di questi, 23 sono già stati consegnati a enti locali, pubblici o privati". Sono diventati case famiglia, alloggi popolari, centri di accoglienza. "Ma ce ne sono 18 su cui stiamo ancora facendo valutazioni. Molti presentano criticità, come proprietà indivise o inagibilità: prima dobbiamo risolverle, poi possiamo pensare a chi assegnarli". Poi, accanto ai beni "improduttivi", c'è tutto il capitolo delle aziende e delle attività commerciali: un tema ancora più caldo perché, come spiega Patrizia Bellotto della Cgil Genova, "la confisca tira in ballo anche il destino dei lavoratori. Non sono previsti ammortizzatori sociali, e così, se l'azienda è in crisi, si perdono posti. E il messaggio che passa è che le mafie danno un lavoro, lo Stato lo toglie". In Liguria ci sono 15 aziende. Solo in due casi lo Stato è riuscito a rimetterle in piedi dopo la confisca. Si tratta di due bar, entrambi a Genova, in zone centralissime. "Su altre 5 sono in corso le valutazioni - spiega Caputo - molte sono gravate da ipoteca bancaria, spesso un problema insormontabile che sfocia nella messa in vendita del bene". Le altre 8, invece, sono già inattive o in via di chiusura. Un dramma per molti lavoratori, accanto ai quali la Cgil e Libera Liguria stanno combattendo una battaglia importante.

I clan intercettati: «Magistrato corrotto con diecimila euro», scrive Marco Grasso su “Il Secolo XIX”.  Il pericolo più temuto dagli inquirenti impegnati nella lotta alla criminalità organizzata si materializza nelle parole di Giuseppe “Peppino” Marcianò, boss indiscusso della ’ndrangheta di Ventimiglia «rispettato» ai massimi livelli della malapianta, nonché parente dei killer di Francesco Fortugno: c’è un «magistrato di Genova» a libro paga, un uomo delle istituzioni che per «10mila euro» è disposto a «vendere i propri servigi». È una frase che raggela gli investigatori e i magistrati della Direzione distrettuale antimafia genovese, coordinati dal procuratore Michele Di Lecce, che ieri hanno concluso una delle più importanti operazioni contro la criminalità organizzata nel Ponente ligure, in particolare tra Ventimiglia e Bordighera. Quindici arresti, altrettanti indagati, politici liguri coinvolti a cui, per la prima volta, potrebbe essere contestato il concorso esterno in associazione mafiosa. E infine il giallo: il sospetto alimentato dalle intercettazioni che ci sia u magistrato pagato per attenuare una «misura di sorveglianza speciale» nei confronti di un mafioso. Il referente dei clan, scrive il giudice per le indagini preliminari Massimo Cusatti, «non è stato identificato». L’intercettazione è già stata segnalata alla Procura di Torino, competente in caso di indagini che riguardano pm o giudici liguri. Anche se, sottolinea il gip, «non si tratta di profili attinenti alla contestazione associativa in esame, tenuto conto che le due vicende riflettono, piuttosto, fenomeni corruttivi svincolati dall’aura di capo ‘ndrangheta ascritta a Marcianò». In altre parole, a Genova esiste un magistrato corrotto, ma non legato direttamente (stando agli indizi raccolti) alle cosche.

Un presidente di tribunale ai domiciliari per corruzione in favore dei clan. Prefetti che chiudono gli occhi e nascondono il problema. Vertici delle procure sostituiti nella soddisfazione generale dei pm. È quanto emerge dall'audizione in commissione antimafia di due procuratori liguri. Che AgoraVox pubblica integralmente. Due ore e quarantacinque pagine. Tanto dura l'audizione in commissione parlamentare antimafia di Anna Canepa e Antonio Patrono, due tra i più attivi magistrati liguri. Hanno raccontato gli affari delle mafie in Liguria, del gioco d'azzardo e dei Casinò, i morti ammazzati, il cemento di Matteo Messina Denaro e delle famiglie calabresi che volvano imporre i loro autisti a uno dei più grandi imprenditori edili della Liguria, Piergiorio Parodi, ricattandolo a colpi di fucile sulla sua auto. Ma raccontano anche altro, molto altro i due magistrati. Raccontano che in Liguria le infiltrazioni criminali "hanno purtroppo interessato anche settori della magistratura". Il presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, già a lungo presidente del Tribunale di Sanremo, è finito ai domiciliari accusato di corruzione per avere agevolato dei detenuti legati ai clan. Proprio a Sanremo due anni fa è stato sostituito il Procuratore Capo, Mariano Gagliano, con viva soddisfazione degli altri magistrati. Da quando il procuratore Roberto Cavallone ha preso il suo posto le indagini antimafia in quel distretto giudiziario hanno subito una brusca accelerata. "Non posso quindi che salutare con estremo favore il nuovo ordinamento giudiziario che ha consentito il cambio di capi di alcuni uffici", confessa la Canepa. Anche alcuni prefetti, di nomina governativa, cercavano di minimizzare il fenomeno, alcuni i magistrati li definiscono "ritardatari". E Walter Veltroni denuncia che dopo avere partecipato a una puntata di Annozero in cui disse che in Liguria c'è la mafia "ho ricevuto risposte piccate dai prefetti di alcune città liguri".

Mafie in provincia di Imperia. Rimosso il prefetto “miope” che non vide le infiltrazioni, scrive “Agoravox”. Disse che a Bordighera, dove venivano minacciati assessori e sindaco, non c’erano infiltrazioni mafiose. Ma Maroni ha sciolto lo stesso il Comune, e lo ha trasferito. È l’ultima puntata di un cortocircuito istituzionale in una provincia che sembra sempre di più la Sicilia di Leonardo Sciascia. In provincia di Imperia c’è la mafia. Ci sono i Pellegrino e i Barilaro a cui, meno di due mesi e mezzo fa sono stati sequestrati tutti i beni – quelli che il Tribunale di Imperia ha ritenuto riconducibili ai fratelli pregiudicati Michele, Maurizio e Roberto Pellegrino – tra i quali anche tre ville. I Pellegrino sarebbero legati anche alla cosca Santaiti-Seminara di Gioffrè, in provincia di Reggio Calabria. E sono sotto processo a Imperia per le minacce agli assessori del comune di Bordighera, dove fanno affari insieme ai Valente e ai De Marte, imputati con Maurizio Pellegrino per un’estorsione all’agriturismo di un piccolo paesino tra Sanremo e Ventimiglia. In provincia di Imperia c’è la famiglia Mafodda, che opera da più di vent’anni ad Arma di Taggia, nel territorio tra Imperia e Sanremo. Il più anziano dei tre fratelli Mafodda è stato appena processato e condannato per tentato omicidio, ma la loro prima condanna risale al 1993: una delle prime condanne in Liguria per mafia. E oggi, nel territorio di Imperia, le cosche continuano a fare le stesse cose di vent’anni fa: incendi ed estorsioni. In provincia di Imperia c’è l’hashish che arriva da navi su cui i corrieri della droga ne imbarcano con loro trecento chili per volta. Ci sono i capi ‘Ndrangheta di Ventimiglia, che mal sopportano i metodi spicci dei Pellegrino e dei Barilaro che stanno mandando in fumo tutta l’attività di “mimetizzazione” che hanno portato avanti per anni. In provincia di Imperia, tra Sanremo e Diano Marina, ci sono altre famiglie calabresi, legate dagli stessi rapporti di parentela tipici della 'Ndrangheta. Per esempio i Ventre, occupati, secondo gli investigatori, "nelle atività illecite tipiche delle cosche, in particolare il traffico di sostanze stupefacenti". In provincia d'Imperia c'è un casinò, quello di Sanremo, in mano alla Camorra napoletana: il suo ex direttore generale è imputato per distrazione patrimoniale. Sono decenni che il casinò di Sanremo è nel mirino delle mafie. Negli anni Ottanta fu Nitto Santapaola, boss di Cosa nostra, a tentare di scalarlo, ma i magistrati di Milano sventarono l’operazione. Dagli arresti riuscì a sfuggire un amico di Santapaola, Gaetano Corallo, il boss di Catania rinviato a giudizio nell’89 per il suo ruolo di collegamento mafioso con il mondo del gioco, poi condannato a sette anni e mezzo. Lo stesso che nel 1983 fu trovato in compagnia di Marcello Dell’Utri quando andarono ad arrestarlo in casa. Oggi suo figlio Francesco vive alle Antille, a Saint Maarten, dove ha messo in piedi, con una lunga catena di società off-shore, la prima concessionaria italiana di slot machine, la Atlantis World (oggi Betplus), che da sola vale il trenta per cento del mercato e fattura più della Fiat. Nel consiglio d’amministrazione della rappresentante italiana di questa società con sede a Saint Lucia (la stessa isola della fiduciaria che possiede la casa di Montecarlo in cui vive il cognato di Fini, Giancarlo Tulliani) sedeva anche Amedeo Laboccetta, ex consigliere campano di An, oggi parlamentare Pdl, che invitò Gianfranco Fini in vacanza a Saint Marteen e che di Corallo si definisce amico. E sempre per l’Atlantis ha lavorato l’avvocato Giancarlo Lanna, già commissario della federazione napoletana di An e oggi parte del comitato esecutivo della fondazione Farefuturo. A Imperia il presidente del Tribunale, Gianfranco Boccalatte, che per tanti anni ha presieduto anche il Tribunale di Sanremo, è stato arrestato ai domiciliari il 19 maggio scorso con l’accusa di corruzione per avere agevolato dei detenuti legati ai clan. In provincia di Imperia c’è un prefetto, o meglio, c’era. Si chiama Francesco Di Menna. Il ministro Maroni l’ha rimosso la settimana scorsa con la scusa di una promozione a Roma negli uffici del Viminale. Ma per capire meglio cos’è successo bisogna tornare indietro di pochi mesi. Di Menna, prima di essere trasferito, era appena riuscito a sottoscrivere, in qualità di prefetto, un “Patto di legalità” con i presidenti dell’Unione degli industriali, l’amministrazione provinciale e i sindaci di Imperia e Sanremo. Ma il 21 maggio scorso aveva inviato al ministero la sua relazione su Bordighera, su cui pendeva una richiesta di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, in cui difendeva il comune: nessun condizionamento mafioso, diceva Di Menna. Maroni, però, non la pensava allo stesso modo. Le indagini dei carabinieri avevano evidenziato pressioni, da parte dei Pellegrino e dei Barilaro, sul sindaco del paese e su due assessori, Marco Sferrazza e Ugo Ingenito, anche per ottenere l’apertura di una sala giochi (il processo è in corso in queste settimane). Secondo gli investigatori la famiglia Pellegrino aveva “assunto una posizione egemone” nel settore imprenditoriale degli scavi del movimento terra, arrivando ad aggiudicarsi appalti e sub-appalti anche per lavori pubblici. I clan vogliono lavorare a tutti i costi, anche minacciando gli imprenditori. Ed estorcendoli. Il 25 maggio dell’anno scorso una macchina ha affiancato quella di Pier Giorgio Parodi, geometra, uno dei più grandi imprenditori edili della Liguria. Lui ha riconosciuto gli uomini nell’altra macchina: avevano lavorato con lui per anni. Con uno di loro aveva avuto una discussione la mattina stessa. Ma non si è voluto fermare. Allora i due, Ettore Castellana e Nunzio Rondi, oggi sotto processo a Imperia, hanno imbracciato un fucile e hanno iniziato a sparare contro l’auto di Parodi. Pretendevano che l’imprenditore facesse lavorare, nel movimento terra per i lavori del porto di Ventimiglia, i camion provenienti dalla Calabria: un euro e mezzo per ogni tonnellata di materiale movimentato. In tutto, ai camionisti calabresi sarebbe andato più di mezzo milione di euro. Parodi, invece di denunciare gli estorsori e l’attentato, è sceso a patti. E quando i pm l’hanno chiamato in Procura, ha negato. Solo dopo essere stato messo davanti al racconto di un testimone che aveva assistito alla scena è stato costretto ad ammettere tutto. “Non li ho denunciati perché lavoravo con queste persone da decenni”, ha detto Parodi in Tribunale. “Qualche settimana dopo sono anche venuti nel mio ufficio a chiedere scusa”. Gentili. Le conclusioni del ministro dell’Interno non possono essere più chiare: a Bordighera c’erano “forme di ingerenza da parte della criminalità organizzata” anche per influenzare “la libera determinazione degli organi elettivi”. Ma l’ex prefetto Di Menna non era d’accordo: per lui c’erano solo “irregolarità di tipo amministrativo, senza ingiustificati favoritismi” nei confronti dei Pellegrino e dei Barilaro. Adesso però lui è stato trasferito, mentre Bordighera, dal 10 marzo, è il primo comune del Nord-Ovest sciolto per infiltrazioni mafiose dopo Bordonecchia, in provincia di Torino, sciolto nel lontano 1995. “Sono servitore dello Stato – ha detto Di Menna – e da tale mi comporto. Peraltro tornare a Roma, dove sono stato impiegato al Ministero per trent’anni, mi rende felice. Avrei solo voluto, prima di andare via, concludere alcuni accordi e protocolli in provincia”. Eppure, fuori dagli enigmatici meccanismi di avvicendamento del Viminale, pare di assistere all’ultima puntata di uno strano garbuglio istituzionale imperiese. Di Menna era arrivato a Imperia a inizio 2010, dopo l’arresto del presidente del Tribunale e l’azzeramento dei vertici della procura della città salutato con entusiasmo – come emerge dal verbale dell’audizione in commissione antimafia del procuratore Anna Canepa pubblicato a luglio da Agoravox – da tanti pm. Poi è stato rimosso il questore, accusato anche lui da alcuni di sottovalutare i fenomeni mafiosi sul territorio. Ora è la volta del prefetto che non vide infiltrazioni mafiose nel comune in cui gli ‘Ndranghetisti minacciavano sindaci e assessori. Al suo posto è arrivata Fiamma Spena, una donna partenopea con una lunghissima esperienza nel contrasto alle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione, sia come prefetto in diverse procure del Sud che come commissario di comuni sciolti per mafia (Acerra, Ottaviano, Marcianise) e coordinatrice di diverse commissioni ispettive. Che ora dovrà confrontarsi con una provincia che sembra sempre di più la Sicilia di Leonardo Sciascia. “Come diavolo mandano uno come lui in una zona come questa? Qui ci vuole discrezione, amico mio; naso, tranquillità di mente, calma: questo ci vuole… E mandano uno che ha il fuoco di Farfarello…”.

VENTIMIGLIA. Non ci posso credere. Un articolo de “Il Corriere della Sera” dice che un giovane a bordo di uno scooter con il tricolore in mano saluta il «ritorno alla legalità» a Ventimiglia. Così un anonimo cittadino ha voluto manifestare tutto il suo apprezzamento per la notizia dello scioglimento del Consiglio comunale di Ventimiglia per sospette infiltrazione mafiose. La decisione è stata presa oggi dal Consiglio dei Ministri su proposta del ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri. Dunque questa volta tocca ad una città al confine con la Francia e non al solito comune del Sud infestato dalla mafia. E a riprova che la mafia ormai non conosce confini nella stessa seduta il Consiglio dei ministri ha voltato la proroga dello scioglimento del Consiglio comunale di Condofuri, in provincia di Reggio Calabria. Una decisione che era nell'aria tanto che qualche mese fa il sindaco Gaetano Scullino aveva annunciato la volontà di non ripresentarsi alle prossime elezioni in primavera pur respingendo il marchio «Ventimiglia città di mafia». «Sono assolutamente sereno -aveva detto- perché insieme alla mia amministrazione abbiamo sempre operato nel rispetto delle leggi, in assoluta trasparenza, senza il benché minimo condizionamento e con un unico obiettivo, concretizzare una grande svolta per la mia città. Quindi sono fiducioso, anche se lo ammetto un po’ stressato, visto che è da un anno che ci rivoltano come un calzino». Dopo la decisione del Consiglio dei Ministri il sindaco ha atteso qualche ora prima di rilasciare un commento. «Sono arrabbiato, oltre che profondamente deluso dalle istituzioni - ha detto- ho speso cinque anni della mia vita, lavorando dieci ore al giorno, solo per fare gli interessi della città di Ventimiglia, e vengo ripagato con questa moneta. Un verdetto che ritengo ingiusto, maledettamente ingiusto». Sferzante il suo ex compagno di partito ed ex capogruppo del Pdl, Franco Ventrella, che bolla Scullino, come «il nostro Schettino che ha portato la nave a naufragare». Ventrella si era dimesso, nel giugno scorso, assieme ad altri 3 consiglieri sempre del Pdl. Ma c'è anche chi esprime stupore ed amarezza come l'attuale capogruppo del Pdl, Giovanni Ascheri: «Chiaramente un pò di amarezza c'è sicuramente. Il sindaco non l'ho ancora sentito, ma dovremmo vederci più tardi per fare il punto». Secondo il direttore generale del Comune, Marco Prestileo «non possiamo che prendere atto di questa decisione e non possiamo che rispettarla». Una parola in favore del sindaco arriva dall'opposizione. Il consigliere comunale del Pd Franco Paganelli si dice «dispiaciuto, soprattutto per la città e mi spiace anche come amico del sindaco. Quanto alle valutazioni politiche lasciamole al partito». Per Sonia Viale, ex sottosegretario all'interno oggi commissario politico della lega Nord a Ventimiglia «è necessario il rispetto per l'operato delle istituzioni da parte della politica che deve prendere atto come in questo momento è giusta una pausa di riflessione per capire come sia possibile che tutto questo sia accaduto senza che la politica se ne accorgesse». Nel tempo Ventimiglia sarebbe diventata una delle basi operative della 'ndrangheta al Nord che avrebbe messo le mani sui settori dell'edilizia, del movimento terra e soprattutto del riciclaggio di denaro sporco nelle sale giochi. Ma la peculiarità di Ventimiglia è l'essere anche città frontaliera, comoda base di transito per latitanti. Nelle carte che hanno portato allo scioglimento si fanno i nomi dei «calabresi in affari al nord» con le mani in pasta negli appalti pubblici e nella gestione di slot machine. A Ventimiglia, come a Bordighera, si sono poi moltiplicati gli incendi dolosi di bar e automobili, con tanto di tariffario. Secondo la procura nazionale antimafia: «è stata accertata l'esistenza di una sorta di tariffario per l'esecuzione di tali attentati che va dai 700 ai 1000 euro, destinato come compenso a coloro che materialmente operano». E poi le frequentazioni a rischio di personaggi pubblici e politici fotografati a feste di battesimo e a matrimoni. Con la decisione del Consiglio dei Ministri si interrompe anticipatamente la legislatura del Consiglio comunale eletto nel 2007 e che avrebbe comunque concluso il proprio mandato in primavera. Per l'ordinaria amministrazione e in vista delle nuove elezioni ora dovrà essere nominato un commissario prefettizio. Ventimiglia è la seconda città della provincia di Imperia sciolta per mafia. A marzo era stato il turno del comune di Bordighera.

BORDIGHERA. Dal “Corriere della Sera” si legge che il Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell'Interno, Roberto Maroni, il 10 marzo 2011 ha sciolto il consiglio comunale di Bordighera (Imperia) per infiltrazioni mafiose. Si tratta del primo caso in Liguria di una pubblica amministrazione sottoposta a questo provvedimento. La richiesta di scioglimento era stata avanzata dai carabinieri, che avevano compilato un dossier dal quale emergeva l'ipotesi di un collegamento tra alcuni politici e la malavita organizzata. Il Comune era governato da una coalizione di centrodestra e a seguito delle indagini la giunta venne azzerata e il sindaco ne formò un'altra. Erano emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori per ottenere l'apertura di una sala giochi e altri favori. Vennero arresati otto imprenditori, membri di alcune famiglie di origine calabrese (Pellegrino, Valente, De Marte, Barilaro) alcuni dei quali ritenuti «contigui» alla 'ndrangheta. L'ipotesi investigativa è che alcuni politici fossero stati eletti con voto di scambio. Secondo “Repubblica” assessori eletti con i voti della 'ndrangheta. Appalti più che sospetti. Ricatti e minacce di morte ai consiglieri comunali. Un agguato mortale ai carabinieri sventato appena in tempo. E poi armi, aggressioni, il racket della prostituzione e quello del gioco d'azzardo. Il Comune di Bordighera, una delle perle liguri della Riviera dei Fiori, è stato ufficialmente sciolto per "infiltrazioni mafiose" dal Consiglio dei Ministri, che ha accolto la proposta presentata dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Commissariato, così come accaduto con Desio. L'allarme era stato lanciato dai carabinieri del nucleo operativo di Imperia con una clamorosa e dettagliata relazione. Alle stesse conclusioni era giunta la commissione prefettizia che per quattro mesi aveva messo le tende negli uffici pubblici della cittadina imperiese, concentrando la propria attenzione su di una mezza dozzina di appalti sospetti, in particolare legati al ripascimento delle spiagge e agli interventi successivi all'alluvione che aveva devastato le coste liguri nel 2006. Sono lavori più o meno direttamente gestiti dalla ditta facente capo alla famiglia calabrese dei Pellegrino, attualmente sotto processo per una brutta storia di estorsioni. Il clan avrebbe garantito l'elezione di alcuni stretti collaboratori del sindaco, secondo quanto emerso anche da una parallela indagine penale. Gli investigatori avevano puntato l'indice anche sulle facilità con cui un night di Bordighera - gestito dalla famiglia Pellegrino- avrebbe ottenuto dagli amministratori pubblici l'affiliazione ad associazioni sportive e culturali per superare garbugli burocratici e fiscali. Ma nel conto ci sono naturalmente anche le confessioni fatte dagli stessi eletti agli inquirenti. E le notti trascorse da questi con la pistola sotto il cuscino, per la paura di ritorsioni. Le minacce e i ricatti provati, le pistolettate per chi decideva a chi affidare i riempimenti dei cantieri.  Una cittadina bellissima e tormentata, Bordighera, da troppo tempo intossicata da un'aria pesante. La mafia nella Riviera dei Fiori è purtroppo storia vecchia, legata all'insediamento - a partire dagli anni Sessanta - di alcuni esponenti della 'ndrangheta mandati al confino. All'inizio dell'anno erano stati arrestati Michele ed Alessandro Macrì, calabresi, trovati in possesso di una pistola calibro 6.35 con matricola abrasa: "Quelli devono morire", li avevano sentiti ringhiare al telefono. Dove quelli stava per i carabinieri, colpevoli di aver redatto la relazione con cui già a giugno chiedevano lo scioglimento del Comune. Nell'autunno erano stati fermati altri quattro calabresi con una pistola. Volevano uccidere, avevano spiegato gli investigatori. L'obiettivo è rimasto sconosciuto, ma il loro avvocato no: Marco Bosio, lo stesso della famiglia Pellegrino. Bosio è anche il cognome del sindaco Pdl, l'architetto Giovanni: "Sono stanco di difendere quest'amministrazione dalle voci maligne. Dopo la denuncia dei carabinieri abbiamo cambiato la giunta. Il resto sono chiacchiere", ha ripetuto per mesi il primo cittadino. Chiacchiere come l'amicizia su facebook di uno dei rampolli dei Pellegrino, Giovanni, con gli assessori di Bordighera, con il consigliere regionale Eugenio Minasso e con il deputato Alessio Saso. Chiacchiere? Donatella Albano, consigliera comunale d'opposizione, l'ha sempre pensata diversamente. Mesi fa si era opposta all'apertura di una sala-giochi farcita di slot machines, naturalmente gestita dai Pellegrino. Da allora ha ricevuto solo minacce. Le avevano spedito un santino bruciacchiato di San Michele Arcangelo. Quello usato nelle affiliazione della 'ndrangheta. Adesso finalmente può respirare. "Forse è davvero finita", commenta.

Bordighera, infiltrazioni mafiose. Si dimette il padre del sottosegretario. E' l'assessore al Bilancio il primo a lasciare la giunta comunale dopo l'informativa dei carabinieri che avanza sospetti su possibili condizionamenti e voti di scambio. Sonia Viale, figlia del dimissionario e vice di Tremonti, rimanda al vertice leghista. Il responsabile della giustizia del Pd, Andrea Orlando, chiede "di investigare a fondo". Lascia anche un consigliere comunale del Pdl. Sfiora il governo il terremoto politico che scuote Bordighera, scrive "La Repubblica". Dopo i sospetti di infiltrazioni mafiose si dimette Giulio Viale, assessore leghista al Bilancio e padre di Sonia Viale, sottosegretario all'Economia. Viale ha scelto di farsi da parte dopo la notizia dell'invio al prefetto di Imperia, Francesco Paolo Di Menna, di un’informativa dei carabinieri  su possibili infiltrazioni mafiosi e voti di scambio. Viale ha rassegnato le dimissioni alla segreteria nazionale del partito. Sonia Viale, che in precedenza era stata una delle collaboratrici più vicine all'ex ministro della giustizia Roberto Castelli, dal canto suo, ha chiarito che ogni decisione sarà demandata alla direzione del partito. Anche un esponente del Pdl, il consigliere incaricato alle manifestazioni, Alessandro Panetta, ha annunciato che abbandonare il suo incarico all'interno dell'amministrazione comunale. Sulla vicenda di Bordighera aveva già lanciato un preoccupato allarme il responsabile della giustizia del Pd, Andrea Orlando, che ha sottolineato la necessità di investigare a fondo sulle possibili infiltrazioni mafiose nella provincia di Imperia. L'informativa inviata dai carabinieri del comando provinciale al prefetto Francescopaolo Di Menna è giunta al termine delle indagini che hanno portato agli arresti di otto persone a Bordighera, legate al gioco d'azzardo, alcune di queste considerate "contigue" alla 'ndrangheta. Secondo le dichiarazioni di alcuni assessori comunali, gli arrestati avrebbero esercitato pressioni sul sindaco e su assessori per ottenere l'apertura di una sala giochi ed altri favori.

I carabinieri al prefetto: infiltrazione in consiglio comunale, l'assemblea va sciolta. Infiltrazioni mafiose. Il consiglio comunale di Bordighera deve essere sciolto perché sotto scacco dalla ‘ndrangheta calabrese, responsabile, negli ultimi mesi, di una serie di attentati incendiari a bar e imprese, scrive "La Stampa". A chiederlo al prefetto sono stati i carabinieri, che hanno individuato «elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata e forme di condizionamento degli stessi amministratori in grado di compromettere la libera determinazione e il regolare funzionamento dei servizi». Il «prepensionamento» del primo cittadino è ormai in atto. E Bosio ripete: «Siamo persone perbene, nessuno è indagato, nessuna collusione con il malaffare». Il sindaco deve aver capito che la sua strada è segnata: l’assessore della Lega Nord, che lo appoggia da sempre, Giulio Viale, padre del sottosegretario all’Economia, Sonia, si è dimesso rimettendo il mandato al partito. A non mollare la poltrona, invece, è Rocco Fonti, che da assessore si è permesso di andare a raccontare, secondo il gip, frottole al pubblico ministero. Il gip lo ha scritto nero su bianco: ha tenuto un «comportamento menzognero», ma lui non se ne va e il sindaco lo tiene in giunta. Bordighera in mano alla malavita? Roba da far rivoltare nella tomba la Regina Margherita di Savoia, che in questa città della Riviera aveva finito con serenità i suoi giorni. Nella loro relazione i carabinieri del colonnello Franco Cancelli hanno preso spunto da una serie di informative degli ultimi quattro anni riguardanti «stranezze amministrative» mai approdate allo status di violazioni penali e dall’inchiesta del procuratore Roberto Cavallone, che all’inizio del mese ha arrestato tre esponenti della famiglia Pellegrino, imprenditori del settore movimento terra. I tre si erano rivolti a due assessori contrari al fatto che aprissero due sale slot a Bordighera, ammiccando: «Però quando avete avuto bisogno dei nostri voti noi vi abbiamo aiutato». Nel feudo del centrodestra della Liguria, dove le percentuali di vittoria elettorale sono bulgare da oltre un ventennio, il Pdl «aveva bisogno» di quei voti? Ad avere bisogno erano i politici o chi dava loro il voto? Di sicuro, ci sono le foto di sindaco e un onorevole Pdl immortalati in diverse occasioni con esponenti della famiglia in questione, con informative relativa a finanziamenti elettorali (legittimi), incontri, cene, aperitivi. A mettere in imbarazzo il sindaco c’è anche il fatto che uno degli assessori minacciati dai Pellegrino avesse riferito a un carabiniere che lui, il sindaco, alle sale slot era favorevole perché aveva «favori da rendere». Inoltre, nel rapporto al prefetto l’Arma ha allegato intercettazioni telefoniche tra imprenditori e malavitosi. Argomento delle conversazioni: affari di politici dediti all’imprenditoria. Ancora, il misterioso dissolversi della richiesta di chiusura di un circolo privato che poi si era rivelato essere un luogo di incontro tra clienti e prostitute. Infine, la ciliegina è arrivata l’altra sera. I carabinieri hanno chiesto lo scioglimento di un consiglio comunale che ha votato compatto la fiducia al sindaco. E nel Pdl hanno iniziato a fare la lista per le prossime elezioni.

MAGISTROPOLI.

MAGISTRATO ARRESTATO.

«Il mio modo di essere giudice era quello di avere sempre il centralino intasato e la sala d’attesa piena di gente: questa era la mia etica, e me la tengo, perché faceva parte della mia persona ascoltare tutti. Evidentemente altri non condividevano il mio modo di interpretare il ruolo del giudice, ed è questa la ragione principale della mia condanna. Forse sarebbe stato più opportuno ricorrere ad un provvedimento disciplinare...». Questo dice Boccalatte a Paolo Isaia su “Il Secolo XIX”. Nelle parole dell’ex presidente dei tribunali di Imperia e Sanremo Gianfranco Boccalatte c’è l’analisi delle vicenda giudiziaria iniziata con un avviso di garanzia nel gennaio 2011 e terminata, lo scorso 20 dicembre 2011, con la sua condanna con rito abbreviato a 3 anni e 8 mesi per corruzione in atti giudiziari e millantato credito. Per questa inchiesta Boccalatte è rimasto agli arresti domiciliari dal 19 maggio 2011 all’8 febbraio di quest’anno; rimane tuttora indagato per il reato di peculato, vicenda della quale non può logicamente parlare. Ma ora può dire la sua sulla sentenza del gup del tribunale di Torino Francesco Gianfrotta. Boccalatte è seduto accanto ai suoi difensori, gli avvocati Enzo Lepre e Roberto Ottolini. I quali, mercoledì scorso, hanno presentato ricorso alla Corte d’Appello contro la condanna di primo grado. Per i due legali, e per l’ex presidente, il provvedimento del giudice per le udienze preliminari torinese Gianfrotta, «con il massimo rispetto dell’autorità giudiziaria, è sconvolgente». Mentre il ricorso in appello, lungo ben 95 pagine, rappresenta «la nostra verità». Boccalatte esordisce con una considerazione alla quale, e lo si vede dall’espressione con la quale la pronuncia, tiene davvero molto. «Quando ho potuto leggere gli atti ho scoperto che a Sanremo, per questa storia, è successo di tutto: giudici che ascoltano o interrogano altri giudici, e avvocati. Sapere che sono stati sentiti dei colleghi e degli avvocati, e in maniera per così dire “penetrante”, sia pure con il fine di valutare le prove di un mio eventuale coinvolgimento, mi è dispiaciuto enormemente». L’ex presidente, e i due legali, sottolineano come «nel quadro generale della sentenza che abbiamo impugnato emerge una personalità che non corrisponde alla realtà, quella di un giudice che si trovava in difficoltà economiche, pieno di debiti, con i vizi dell’alcol e del gioco. Tutte falsità. Non solo, la sentenza è incoerente al suo interno, perché non cita passaggi di denaro. Si dice che c’è stata corruzione, c’è stata millanteria, ma non ci sono i frutti né della corruzione, né della millanteria. E nella stessa sentenza si dice che Boccalatte non ha mai millantato nulla. Allora sembra incredibile che sia stato condannato a 3 ani e 8 mesi.». Per i due difensori la tesi è che quanto emerso dalle indagini, a partire dai colloqui in macchina tra il giudice Boccalatte e l’autista Giuseppe Fasolo, condannato in concorso a 3 anni, sia stato letto solo in chiave accusatoria. «Il processo è stato celebrato con rito abbreviato, e non è stata possibile la trascrizione delle intercettazioni ambientali. Ma la lettura dei brogliacci rivela come le parole dette durante un viaggio o nell’arco della giornata abbiano una successione stranissima, come se fossero stati riversati solo i brani che interessano. È perlomeno bizzarro, e a questo punto chiediamo la riapertura dell’istruttoria, come impone sia la delicatezza della vicenda che la posizione rivestita dal nostro cliente, affinché in sede di appello vengano sentite tutte le intercettazioni. Così come chiediamo che Fasolo venga ascoltato in aula, va capito come si sia sviluppata la sua testimonianza: se è un millantatore, ed ha concorso alla corruzione, come mai in nessun momento ha detto “io ho dato dei soldi al presidente Boccalatte, o il presidente mi ha chiesto dei soldi». Su questo punto, Boccalatte, ricordando i suoi 44 anni di lavoro al servizio della giustizia, ribadisce: «Non ho mai chiesto né ricevuto denaro. Tutto riporta solo al mio modo essere un giudice. Con il senno di poi consiglierei a chiunque di tenere la porta chiusa, e non fare come me, che sono sempre stato disponibile ad ascoltare tutti. Ma questo senza mai commettere alcun illecito penale».

Imperia. Arrestato presidente del tribunale. Così dall’articolo di La Repubblica del 19 maggio 2011. Il magistrato è accusato di corruzione. Avrebbe concesso sconti di pena e altri favori ad esponenti della criminalità organizzata locale. Sotto la lente di ingrandimento anche successioni, assegnazioni in aste giudiziarie, fallimenti e dispute per questioni di eredità. Arrestato il presidente del tribunale, Gianfranco Boccalatte. Il magistrato era accusato di corruzione nell'ambito di una inchiesta che, alla fine di gennaio, aveva portato in carcere il suo autista. L'ordine di arresto è giunto dal procuratore capo della Procura di Torino Giancarlo Caselli competente per indagini su magistrati di altri distretti. In aspettativa dal servizio, e in attesa di un trasferimento a Firenze che di recente gli era stato concesso, Boccalatte era accusato di avere concesso sconti di pena ed altri favori ad esponenti della criminalità organizzata locale. Nell'ambito della stessa inchiesta, i carabinieri hanno anche arrestato due pregiudicati per millantato credito. Concessi al magistrato gli arresti domiciliari. Sono centinaia i provvedimenti esaminati da Gianfranco Boccalatte al vaglio degli investigatori. Sotto la lente di ingrandimento, in questi mesi, sono finite non solo le decisioni in merito alle misure di prevenzione, ma anche tutta una serie di sentenze e pronunciamenti in sede civile. Dalle successioni alle assegnazioni in aste giudiziarie, dai fallimenti alle dispute per questioni di eredità, sino ai contenziosi per tutta una serie di insoluti ed altre inadempienze a contratti.

Finisce nella bufera il Palazzo di Giustizia di Imperia, scrive “TGcom24” . Il presidente del tribunale, Gianfranco Boccalatte, è stato indagato nell'ambito di un'inchiesta per millantato credito e corruzione in atti giudiziari, per cui il suo autista, Giuseppe Fasolo, è stato portato in carcere. Nel mirino ci sono presunti favori a tre sorvegliati speciali di origine calabrese legati alla 'ndrangheta e indagati nella stessa inchiesta. L'indagine è coordinata dalla procura di Torino, competente sui magistrati della Liguria, e viene condotta dai carabinieri del capoluogo piemontese insieme ai colleghi di Imperia, che hanno fatto irruzione in tribunale, acquisendo diversa documentazione e perquisendo l'ufficio di Fasolo. Nel mirino del procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli, che segue la vicenda in prima persona, ci sarebbero dunque presunti favori concessi a tre sorvegliati speciali. Secondo l'accusa, avrebbero ottenuto riduzioni o attenuazioni di pena. Provvedimenti che, di norma, vengono assunti dal presidente del Tribunale. Per questo motivo a finire nel registro degli indagati è stato Boccalatte, mentre sempre secondo gli inquirenti il suo autista, assolto in passato dall'accusa di ricettazioni di corpi di reato quando prestava servizio al tribunale di Sanremo, avrebbe agito come mediatore. "Il presidente Boccalatte è stato iscritto nel registro degli indagati per chiarire ogni dubbio", ha spiegato il procuratore Caselli. "Nei suoi confronti sono stati fatti vari accertamenti - ha aggiunto il magistrato - e lui ha offerto ampia collaborazione". Tra i reati contestato al suo autista, l'unico ad essere finito in carcere, c'è anche quello di millantato credito. Per l'operazione eseguita è stato chiesto anche l'appoggio del tribunale di Sanremo. Quattro avvocati, tre della provincia di Imperia e uno del foro di Genova, sono stati ascoltati come persone informate dei fatti. L'inchiesta è ancora coperta dal massimo riserbo. Presidente del tribunale di Imperia dal 2009, Boccalatte, 67 anni, è molto noto in Riviera, dove è stato in predicato per diventare sindaco di Sanremo e, più di recente, presidente del Casinò della Città dei Fiori. Da tempo la zona di Imperia è stata teatro di episodi come roghi di auto e camion incendiati. Sono diverse le inchieste che sono state aperte per fare chiarezza sul voto di scambio tra politici locali e clan. A Donatella Albano, consigliere comunale del Pd a Bordighera, è stata concessa la scorta dopo essere stata minacciata per la sua contrarietà a slot machine e le sue denunce su infiltrazioni malavitose.  

Il presidente del tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, è stato indagato dalla procura di Torino, competente per territorio, nell’ambito dell’inchiesta per corruzione e millantato credito che, il 18 gennaio 2011, ha portato in carcere l’autista dello stesso giudice, Giuseppe Fasolo, in servizio al tribunale di Imperia, scrive “Il Giornale”. A dare l’annuncio è stato il procuratore della Repubblica di Torino, Giancarlo Caselli, lo stesso giorno in una conferenza stampa che si è tenuta al comando provinciale dei carabinieri di Imperia. Caselli ha sottolineato che per chiarire oltre ogni dubbio tutti i risvolti della vicenda, «è stato necessariamente iscritto nel registro degli indagati anche il presidente del tribunale di Imperia. Nei confronti del presidente si è proceduto a vari accertamenti, per l’esecuzione dei quali il presidente stesso ha prestato ampia collaborazione». Procedono i carabinieri di Torino in unione con quelli di Imperia nell’attività di indagine, sono impegnati vari magistrati della procura di Torino «così da assicurare», ha concluso il procuratore, «insieme alla contestualità dei diversi accertamenti, la rapidità dei medesimi». In tribunale a Imperia c’è stato un blitz dei carabinieri, nel corso del quale è stata acquisita diversa documentazione ed è stato perquisito anche l’ufficio di Fasolo. Nella stessa indagine risulterebbero indagate altre tre persone in stato di libertà. Quanto all’autista Fasolo, sembra che promettesse la soluzione di guai giudiziari, millantando determinate conoscenze e probabilmente in cambio di denaro.

Misure preventive e di sorveglianza speciale nel mirino degli investigatori, chiamati a verificare la presenza di eventuali anomalie che possano confermare l'ipotesi di corruzione, che ha visto finire nei guai il presidente del Tribunale di Imperia, scrive “Riviera24”.  Sono incentrate; da una parte sulle misure di prevenzione disposte dal tribunale di Imperia; dall'altra sulle misure di esecuzione pena, disposte dal Tribunale di Sorveglianza di Genova, le indagini della Procura della Repubblica di Torino, che hanno fatto finire sotto inchiesta il presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte e un magistrato del Tribunale di Sorveglianza del capoluogo, nell'ambito dell'inchiesta per millantato credito e corruzione in atti giudiziari, che ha portato in carcere Giuseppe Fasolo, autista del giudice imperiese, considerato l'intermediario tra magistrati e delinquenti. Nella stessa indagine sono stati indagati anche tre pregiudicati (L.Z., N.S. e R.S.), tutti di origine calabrese, ma abitanti nella zona di Sanremo e sono stati ascoltati come persone informate quattro avvocati: 3 del Foro di Sanremo, uno del Foro di Genova. Obiettivo degli investigatori – che hanno perquisito gli uffici di Fasolo e Boccalatte, presso il Palazzo di Giustizia di Imperia – è quello di smascherare eventuali anomalie nei provvedimenti relativi ai due ambiti di competenza, che possano confermare l'ipotesi di corruzione, secondo la quale: col tramite di Fasolo venivano accordati 'sconti' o 'premi' ai detenuti e riduzioni a chi, in stato di libertà, veniva sottoposto a misure di prevenzione. In questo caso, può risultare utile sapere che sono alcune decine (su un centinaio di soggetti iscritti nella 'lista nera' della Procura), le misure di prevenzione chieste, a cavallo tra il 2009 e il 2010, dal procuratore di Sanremo, Roberto Cavallone al tribunale di Imperia, nei confronti di altrettanti personaggi dell'estremo ponente ligure ritenuti pericolosi sotto il profilo criminale. Tra tutti, un caso risulterebbe anomalo in maniera piuttosto clamorosa. Si tratta della misura di prevenzione (consistente nell'obbligo di soggiorno) chiesta, nel febbraio del 2009, nei confronti del 'capo bastone' della 'ndrangheta, Antonio Palamara, la quale venne accordata dal tribunale di Imperia, ma revocata circa tre mesi dopo dalla Corte di Appello di Genova. 'Aspettiamo gli esiti di questa inchiesta – ha commentato il Procuratore di Sanremo, Cavallone – sperando che Boccalatte possa chiarire la sua posizione. Da parte mia posso dire di non aver mai avuto segnali di favoritismi'. Le indagini, condotte dai carabinieri di Torino e Imperia, sono coordinate da Gian Carlo Caselli, procuratore capo di Torino (la Procura competente per i reati commessi o subiti da magistrati liguri), che si avvale della collaborazione di altri tre magistrati del suo staff, tra cui il procuratore aggiunto Anna Maria Loreto. L'attività investigativa si è concretizzata attraverso numerose intercettazioni telefoniche e ambientali.

ACCANIMENTO O SE LA CERCA?

Studio Aperto su Mediaset delle ore 12.25 del 2 settembre 2012 fa un servizio su Alberto Landolfi. “Imbarazzo su un PM di Genova. Una sua foto su Facebook mentre imbraccia un mitra gli sta costando il nomignolo di PM "Rambo". Magistrato di punta della procura di Savona, poi distaccato in Bosnia Erzegovina per oltre un anno come esperto di criminalità. Ora il Pubblico Ministero Alberto Landolfi finisce al centro di una polemica proprio alla vigilia del suo rientro in ruolo in Italia alla Procura Antimafia di Genova a causa di alcune foto pubblicate su face book. A rivelarlo è il quotidiano il Secolo XIX che lo definisce il PM Rambo, spiegando che alcune fotografie, nelle quali il magistrato imbraccia fucili e mostra il saluto a tre dita tipico degli ultrà nazionalisti serbi, sono oggetto di un accertamento da parte della Procura generale. Secondo il quotidiano la polemica riguarda l’opportunità per un rappresentante dello stato, un magistrato, di riprodurre sia pure per scherzo come specificato nella didascalia della foto un gesto simbolo delle milizie che seminarono il terrore fra gli albanesi in Kossovo e che ancora oggi viene interpretato come segno di riconoscimento di gruppi violenti come ad esempio gli ultrà serbi che proprio a Genova bloccarono la partita della nazionale. Alberto Landolfi raggiunto in vacanza dal Secolo XIX spiega che la vicenda si risolverà in un nulla di fatto, perché il gesto a tre dita è un gesto mutuato dalla religione ortodossa e che la foto col fucile risale a 10 anni fa durante un safari nel quale, tra l’altro, non venne sparato neppure un colpo. Inoltre gli accertamenti non riguarderebbero proprio quelle foto, ma altre scattate in un locale e finite in un collage pubblicitario per le quali, sostiene il magistrato, è stata già riconosciuta la violazione della sua stessa privacy".

Questo signore è un magistrato scrive Mario Molinari su “Savona News”. Si chiama Alberto Landolfi, è stato a lungo Pm a Savona dove girava con una robusta scorta armata. Il 2 settembre 2012 il Secolo XIX lo ritrae in prima pagina mentre imbraccia sorridente un fucile d’assalto e nelle pagine interne mentre prende la mira con un’altro fucile - di precisione e grosso calibro, con tanto di gambe d’appoggio come una mitragliatrice pesante - mentre a torso nudo prende la mira contro un imprecisato bersaglio, visto che si trova al chiuso di una stanza sotto un paio di macabri trofei di caccia. Questo signore dopo una lunga e remunerata trasferta in Bosnia - dove si è prodotto in ulteriori foto mentre esegue un saluto cetnico - è Magistrato di Cassazione Ognuno è ancora libero di farsi poi la propria opinione.

Posta su Facebook il saluto cetnico. E' un giudice italiano in missione in Bosnia. Si tratta di Alberto Landolfi, ex pm antimafia a Savona, ora a Mostar, la città di genocidi e pulizie etniche. E' in missione come esperto criminale della polizia europea, ma sul social network posta la foto in cui fa il gesto simbolo degli ultranazionalisti serbi. Questo è quanto scrive  Ferruccio Sansa su Il Fatto Quotidiano del 24 gennaio 2012. Il magistrato fa il saluto. Cetnico. Peccato che il pm presti servizio a Mostar, la città di genocidi e pulizie etniche. E che abbia messo l’immagine nella sua bacheca Facebook accessibile su internet. Appena comparsa la fotografia aveva suscitato polemiche. Si vedono due signori aitanti in costume da bagno che mostrano le tre dita. Il saluto cetnico, però, non è un gesto da compagnoni, ma ha un (pesante) significato: è uno dei simboli degli ultranazionalisti serbi. Il gesto minaccioso mostrato da ‘Ivan il Terribile’, il tifoso serbo che scatenò i disordini durante la partita tra Italia e Serbia (annullata a Genova nel 2010). Pollice, indice e medio, come gli amici della Tigre Arkan, protagonista di alcune delle più terribili pagine della guerra Jugoslava. Così qualcuno ha scavato per capire chi è il signore fotografato. E la sorpresa è stata grande: Alberto Landolfi per anni è stato pm dell’Antimafia a Savona, poi a Genova. Prima di andare in missione in Bosnia Erzegovina, a Mostar, presso la European Police Mission nella sua veste di Criminal Justice Expert. Ma com’è possibile che un magistrato impegnato in una città dove l’odio etnico cova ancora sotto le macerie esponga un’immagine in cui compie il saluto dei cetnici? Giorni dopo aver pubblicato la sua foto su internet, il magistrato ha aggiunto un commento: “Un po’ serbi … ma scherzavamo”. Una spiegazione che a Mostar potrebbe risultare ancora più scomoda della fotografia. Ma nella galleria di Landolfi ecco anche immagini del magistrato a torso nudo che mostra muscoli e tatuaggi e imbraccia un fucile da guerra. Poi informazioni sulle grandi passioni di Landolfi, come le Porsche. Non è la prima volta che Landolfi è oggetto di polemiche per le sue immagini in libera circolazione. Due anni fa il pm dell’Antimafia si era fatto ritrarre in un manifesto pubblicitario della Ruinart, casa produttrice di champagne, e della discoteca “La Suerte” di Laigueglia. Foto (finite su Repubblica) che ritraevano un contesto non esattamente istituzionale: nelle serate tutte divertimento e bollicine accanto a Landolfi con maglietta attillata appaiono rappresentanti locali dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Capitaneria di Porto. Poi politici, come Silvano Montaldo, all’epoca vicesindaco di Laigueglia. Uno degli uomini di fiducia di Claudio Scajola che lo volle in Finmeccanica così come nella Carige (la Cassa di Risparmio di Genova e Imperia dove siedono diversi membri della famiglia dell’ex ministro). Insieme con tanti esponenti istituzionali le foto mostravano statuarie e biondissime bellezze dell’Est, le ragazze immagine del privé della discoteca. Landolfi si difese a suon di querele, sostenendo anche di non aver autorizzato l’uso della sua immagine per motivi pubblicitari. Insomma, sarebbe tutto avvenuto a sua insaputa. Le foto di Landolfi emergono proprio nei giorni in cui altre immagini scomode suscitano un terremoto. È una storia diversa, certo, parliamo del filmato di Mario Vattani mentre canta canzoni fascio-rock a Casa Pound. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi aveva annunciato l’apertura di un’indagine interna e ieri sera il console è tornato in Italia da Osaka, Giappone. Le sanzioni contro di lui, a parte quelle pecunarie, potrebbero arrivare a un sospensione di diversi mesi dall’incarico.

Ma anche “La Repubblica” si è interessata a Alberto Landolfi. Antimafia e foto spot per lo champagne. Fanno discutere le notti rivierasche alla discoteca la Suerte del pm Landolfi. Le feste nel privè con esponenti delle forze dell'ordine, politici e ragazze immagine è il resoconto di Marco Preve. Pochi marchi possono vantare come "testimonial" un pm dell'antimafia attualmente impegnato in missione nella ex Jugoslavia. Chi può permetterselo è, invece, la Ruinart, prestigiosa casa francese produttrice di un altrettanto esclusivo champagne. Capita, infatti, che sulle pagine del sito Philarmonica, società che promuove vini di classe, compaia anche il sostituto procuratore Alberto Landolfi, una carriera quasi ventennale nella procura di Savona, nel 2010 per poche settimane in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Genova prima partire per Mostar, in Bosnia, per ricoprire il ruolo di "justice criminal expert". Landolfi, riccioli brizzolati, maglietta bianca attillata e abbronzatura invidiabile, appare a sorpresa in un collage fotografico che reclamizza la Ruinart, e lo si vede brindare sorridente con in mano un calice pieno del prezioso rosè (70 euro per 0,75 lt). E' probabile che il magistrato non sapesse che la sua immagine sarebbe stata utilizzata a scopi pubblicitari, e la spiegazione dell'equivoco è semplice. La pagina on line in questione è, infatti, legata a una particolare promozione dello champagne. La scorsa estate, come recita la didascalia dello spot "Ogni sabato alla discoteca La Suerte, di Laigueglia, una bottiglia di Ruinart accoglierà gli ospiti del privé". Infatti, accanto a Landolfi nella foto compare anche Arcangelo Pisella, il titolare della Suerte, la discoteca più nota della riviera di ponente. La foto delle bollicine è, tra l'altro, solo l'ennesima di una serie di immagini e video girati negli ultimi due anni nelle effervescenti notti estive della Suerte. Il pm dell'antimafia così come rappresentanti locali dei carabinieri, della guardia di finanza e della Capitaneria sono stati immortalati in compagnia di Pisella, di statuarie e biondissime ragazze immagine provenienti dall'est Europa e di politici. Ospite d'onore ad alcune delle serate più trendy nell'ormai celebre privè era anche Silvano Montaldo, commercialista di professione, che oltreché essere vicesindaco di Laigueglia è uno degli uomini di fiducia di Claudio Scajola che lo volle in Finmeccanica così come in Carige e commissario o liquidatore in aziende di mezza Italia. Le calde notti della Suerte e soprattutto le ultime fotografie (alcune già rese note dagli attivisti del sito della Casa della Legalità querelata da Landolfi per i commenti che accompagnavano le immagini) stanno comunque suscitando scalpore negli ambienti istituzionali savonesi e non solo. Colpisce, infatti, il concentrato di poteri raccolti, anzi abbracciati come dimostrano le foto, al vulcanico patron della Suerte oppure al fianco delle attraenti ragazze in minigonna. Specie considerando il fatto che i locali notturni, al pari di altre imprese commerciali sono comunque soggette a controlli e verifiche di varia natura sia per quanto riguarda gli aspetti amministrativi, che quelli fiscali, che l'ordine pubblico. Così come capita che l'operato di enti ed amministrazioni diventi oggetto di indagine per la polizia giudiziaria o la magistratura. Pare che il fotoservizio sia stato anche segnalato alla procura di Savona che, però, coinvolgendo la questione un magistrato fino a poco tempo prima in servizio negli stessi uffici, non potrebbe far altro che dirottare il tutto alla competente procura di Torino (dove già pende la querela di Landolfi a Christian Abbondanza della Casa della Legalità) oppure al Csm per eventuali aspetti disciplinari e deontologici.

Per questo, come racconta IVG, La procura Generale di Genova ha aperto un fascicolo interno sulle notti in discoteca del pm savonese Alberto Landolfi. La notizia arriva dalle pagine di Repubblica che, con tanto di foto e video, pone l’accento sulle serate allegre del pm dell’antimafia attualmente impegnato in missione nella ex Jugoslavia. Scatti di Landolfi sorridente e abbronzatissimo con tanto di champagne Ruinart in mano, utilizzati on line a scopi pubblicitari e che vedono il pm nelle vesti di testimonial probabilmente inconsapevole del prestigioso champagne, sorseggiato all’interno della discoteca La Suerte di Laigueglia, di cui sembra essere un cliente abituale. Questa foto, tra l’altro, sarebbe solo l’ennesima di una serie di immagini e video girati negli ultimi due anni nelle effervescenti notti estive del locale laiguegliese. “Il pm dell’antimafia – si legge su Repubblica – così come rappresentanti locali dei carabinieri, della guardia di finanza e della Capitaneria sono stati immortalati in compagnia del titolare de La Suerte Pisella, di statuarie e biondissime ragazze immagine provenienti dall’est Europa e di politici. Ospite d’onore ad alcune delle serate più trendy nell’ormai celebre privè era anche Silvano Montaldo, vicesindaco di Laigueglia e uno degli uomini di fiducia di Claudio Scajola”. Tutte immagini che stanno creando scalpore negli ambienti istituzionali savonesi e non solo. Alberto Landolfi ha alle spalle una carriera quasi ventennale nella procura di Savona, nel 2010 per poche settimane in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Genova per poi partire per Mostar, in Bosnia, per ricoprire il ruolo di “justice criminal expert”. Pochi marchi possono vantare come "testimonial" un pm dell'antimafia attualmente impegnato in missione nella ex Jugoslavia. Chi può permetterselo è, invece, la Ruinart, prestigiosa casa francese produttrice di un altrettanto esclusivo champagne. Capita, infatti, che sulle pagine del sito Philarmonica, società che promuove vini di classe, compaia anche il sostituto procuratore Alberto Landolfi, una carriera quasi ventennale nella procura di Savona, nel 2010 per poche settimane in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Genova prima partire per Mostar, in Bosnia, per ricoprire il ruolo di "justice criminal expert". Landolfi, riccioli brizzolati, maglietta bianca attillata e abbronzatura invidiabile, appare a sorpresa in un collage fotografico che reclamizza la Ruinart, e lo si vede brindare sorridente con in mano un calice pieno del prezioso rosè (70 euro per 0,75 lt). E' probabile che il magistrato non sapesse che la sua immagine sarebbe stata utilizzata a scopi pubblicitari, e la spiegazione dell'equivoco è semplice. La pagina on line in questione è, infatti, legata a una particolare promozione dello champagne. La scorsa estate, come recita la didascalia dello spot "Ogni sabato alla discoteca La Suerte, di Laigueglia, una bottiglia di Ruinart accoglierà gli ospiti del privé". Infatti, accanto a Landolfi nella foto compare anche Arcangelo Pisella, il titolare della Suerte, la discoteca più nota della riviera di ponente. La foto delle bollicine è, tra l'altro, solo l'ennesima di una serie di immagini e video girati negli ultimi due anni nelle effervescenti notti estive della Suerte. Il pm dell'antimafia così come rappresentanti locali dei carabinieri, della guardia di finanza e della Capitaneria sono stati immortalati in compagnia di Pisella, di statuarie e biondissime ragazze immagine provenienti dall'est Europa e di politici. Ospite d'onore ad alcune delle serate più trendy nell'ormai celebre privè era anche Silvano Montaldo, commercialista di professione, che oltreché essere vicesindaco di Laigueglia è uno degli uomini di fiducia di Claudio Scajola che lo volle in Finmeccanica così come in Carige e commissario o liquidatore in aziende di mezza Italia. Le calde notti della Suerte e soprattutto le ultime fotografie (alcune già rese note dagli attivisti del sito della Casa della Legalità querelata da Landolfi per i commenti che accompagnavano le immagini) stanno comunque suscitando scalpore negli ambienti istituzionali savonesi e non solo. Colpisce, infatti, il concentrato di poteri raccolti, anzi abbracciati come dimostrano le foto, al vulcanico patron della Suerte oppure al fianco delle attraenti ragazze in minigonna. Specie considerando il fatto che i locali notturni, al pari di altre imprese commerciali sono comunque soggette a controlli e verifiche di varia natura sia per quanto riguarda gli aspetti amministrativi, che quelli fiscali, che l'ordine pubblico. Così come capita che l'operato di enti ed amministrazioni diventi oggetto di indagine per la polizia giudiziaria o la magistratura. Pare che il fotoservizio sia stato anche segnalato alla procura di Savona che, però, coinvolgendo la questione un magistrato fino a poco tempo prima in servizio negli stessi uffici, non potrebbe far altro che dirottare il tutto alla competente procura di Torino (dove già pende la querela di Landolfi a Christian Abbondanza della Casa della Legalità) oppure al Csm per eventuali aspetti disciplinari e deontologici. 

FILMATO IL VANDALO: E' UN GIUDICE.

Clamoroso da “Il Corriere della Sera”. Un vicino: l'ho ripreso mentre mette fuori uso la mia serratura. Il questore Filippo Piritore prova a giocare d'anticipo con il procuratore reggente di Genova, Vincenzo Scolastico: «È una faccenda delicata...» premette per introdurre l'argomento. Le cose stanno così, spiega: sulla sua scrivania è arrivata una denuncia per danneggiamento che rischia di mettere in imbarazzo il palazzo di giustizia genovese. Un tizio che vive in un bel palazzo del centro città, dice, si è presentato al commissariato e ha firmato la denuncia contro un vicino di casa allegando al verbale anche le registrazioni di una telecamera nascosta piazzata sulla porta di casa. Detto così sembra un fatto di poco conto. Routine. Ma c' è l'altra faccia della medaglia: il nome del denunciato. Si chiama Ezio Castaldi ed è un sostituto procuratore generale. Sarebbe lui l'uomo che si vede trafficare per incollare fino a rendere inservibile la serratura del vicino. La Procura ha fatto più del possibile perché la notizia rimanesse riservata anche perché della faccenda comunque si dovrà occupare per competenza uno dei pubblici ministeri torinesi di Giancarlo Caselli. Sarebbe bastato disfarsi del fascicolo e la questione, sul fronte genovese, si sarebbe chiusa lì. L'operazione è riuscita per qualche giorno ma alla fine le voci di corridoio sono state più veloci della trasmissione degli atti e così ieri Il secolo XIX ha rivelato quanto bastava per scatenare la caccia al nome. Tempo qualche ora ed eccola l'identità del presunto condomino-vandalo: una sorpresa «incredibile» per chiunque lo conosca, la fama indiscussa di «persona mite», «buona», «disponibile». Un insospettabile che più non si può. Ora, delle due l' una: o l'esasperazione per chissà quale bega di condominio gli ha fatto perdere la testa e l' equilibrio, oppure non è lui l'uomo che la telecamera nascosta riprende, checché ne dicano il denunciante e gli altri che hanno dato un'occhiata alle immagini e sono pronti a giurare che quel tizio sia davvero il sostituto procuratore generale Ezio Castaldi. Il suo margine di difesa è legato proprio ai frame del filmato, alla loro nitidezza. La scena ripresa lo mostrerebbe avvicinarsi alla porta del vicino e mettersi all' opera per danneggiare con la colla la serratura. Tutto credendosi al sicuro dopo aver coperto l'occhio della telecamera con la giacca. Ma l'astio e le liti evidentemente erano così imponenti che quel vicino aveva escogitato un piano per fregare il «nemico». Aveva lasciato in bella vista la telecamera oscurata con la giacca ma ne aveva piazzata una seconda, così minuscola da non essere notata. Una trappola. Le immagini raccontano i dettagli della colla impastata per bloccare la serratura e quelli per assicurarsi l'impunità. E soprattutto rivelano la premeditazione e il un rancore profondo coltivato verso chi vive in quell'appartamento. Il sostituto pg in questi giorni non si è fatto vedere a Palazzo, nessuna comunicazione con il procuratore Scolastico che ricorda del passaggio delle carte a Torino e dice «è una cosa delicata ed è ancora tutto in corso di accertamento. Preferisco non dire nulla». Anche il questore fa scena muta: «La sola cosa che posso dire è che devo mantenere il riserbo». In procura ieri il nome di Castaldi era un segreto di Pulcinella. La storia era sulla bocca di magistrati, avvocati, cancellieri, segretari, periti... C' è chi se l'è fatta raccontare dieci volte prima di ipotizzare che magari c' è davvero lui in quel benedetto filmato. Proprio lui, equilibrato come pochi, capace di stare dalla parte della polizia nel processo contro i vandali del G8 di Genova del 2001 e di sostenere l'accusa (in un ruolo marginale) contro i poliziotti nei fatti della Diaz. Equilibrato e mite. Fino a filmato contrario.

LA SPEZIA, MAGISTRATO INDAGATO HA BUCATO LE GOMME A UNA COLLEGA.

Un giudice del tribunale di La Spezia è stato indagato per aver tagliato le gomme dell'auto di una collega. Il procedimento aperto dalla procura di Torino, competente per i reati che riguardano i magistrati della Liguria. L'episodio quando nel parcheggio sotterraneo del tribunale spezzino la donna scoprì il danneggiamento all'auto. Da lì partirono le indagini, con tanto di telecamere poste dalla polizia giudiziaria. Passò un altro mese e nuovamente la donna trovò le gomme bucate. Ma a questo punto le telecamere hanno inchiodato il giudice che stava danneggiando l'auto della collega. Ora dovrà rispondere di danneggiamento aggravato. Si tratterebbe, di un vecchio rancore risalente ad alcuni anni fa: il magistrato rischia una condanna penale, ma anche un provvedimento cautelare di sospensione. Tutti i processi che lo vedono coinvolto potrebbero ricominciare daccapo. Si rischia così anche la prescrizione di alcuni reati.

Giulio Cesare Cipolletta, il giudice indagato per aver tagliato le gomme dell’automobile di una collega, ha chiesto il trasferimento. Il magistrato avrebbe formalizzato la richiesta di applicazione extradistrettuale e cioè di essere destinato per un certo periodo di tempo ad altro tribunale. Un apprezzabile beau geste che servirà anche a rasserenare il clima a palazzo di giustizia dove si vive con malcelato imbarazzo il conflitto tra i due giudici sfociato nell’episodio di danneggiamento all’interno del garage dove le telecamere hanno immortalato il magistrato mentre con un punteruolo forava le gomme dell’auto della collega. La richiesta che avrebbe formulato il giudice Cipolletta riguarda l’assegnazione pro tempore ad un diverso tribunale. Quello dell’applicazione extradistrettuale è un istituto al quale si fa spesso ricorso per rimpinguare palazzi di giustizia sotto organico in particolare nel sud con assegnazione di magistrati esperti per un periodo di solito di sei mesi che in alcuni casi vengono anche prorogati. Inutile cercare conferme sulla richiesta di trasferimento avanzata pare lunedì. Il presidente facente funzione del tribunale, Vincenzo Faravino, non conferma né smentisce la notizia che gira nei corridoi del palazzo di giustizia. Certo è molto probabile che il Consiglio Superiore della Magistratura apra un procedimento nei confronti di Giulio Cesare Cipolletta e sarà compito dell’organo di autogoverno della magistratura stabilire se, ed eventualmente quando, adottare dei provvedimenti disciplinari nei suoi confronti. Intanto l’inchiesta promossa dal Procuratore aggiunto di Torino, Francesco Saluzzo, va avanti e lì’indagato, interrogato nei giorni scorsi, si è presentato nel capoluogo piemontese e davanti al magistrato che lo interrogava si è avvalso della facoltà di non rispondere mentre da parte sua la collega, che lavora al tribunale civile, avrebbe raccontato i vari danneggiamenti subiti dalla sua vettura. In quattro occasioni il giudice avrebbe riportato danni all’auto lasciata parcheggiata all’interno del posteggio riservato ai magistrati nel seminterrato del palazzo di giustizia.. La prima volta ha forse pensato ad una foratura subita in strada, la seconda si è insospettita ed ha presentato denuncia e a quel punto si è deciso di installare le telecamere che però non erano ancora attivate quando ci fu un terzo episodio di danneggiamento. La quarta volta, e solo di questa dovrà rispondere il giudice Giulio Cesare Cipolletta, invece le telecamere erano in funzione e nella registrazione ci sarebbe immortalato il magistrato mentre con un punteruolo buca le gomme della collega.

Ironia della sorte: indagato per danneggiamenti all’auto di una collega, in tribunale a Sarzana il giudice Giulio Cesare Cipolletta avrebbe dovuto decidere su una causa riguardante un reato simile, commesso da un viados brasiliano a Marinella che due anni fa ha scagliato un sasso contro il fanale di una macchina, distruggendolo, scrive “La Nazione”. Di fatto però l’udienza è finita ancora prima di cominciare: l’imputato è infatti nel frattempo deceduto e quindi il reato estinto. Paradossalmente però ieri mattina il giudice non ha potuto mettere la parola fine al procedimento che è stato rinviato a ottobre, in attesa di acquisire il certificato di morte dell’imputato. Superato indenne quello che poteva essere lo «scoglio» della giornata, il giudice Cipolletta ha affrontato gli altri processi con la fermezza che l’ha sempre contraddistinto. La sua giornata sarzanese è terminata nel tardo pomeriggio per lo slittamento di una causa relativa a un incidente sul lavoro. Intanto prosegue l’inchiesta della procura della Repubblica di Torino per una ricostruzione puntuale degli eventi e anche del movente. Ci sono le riprese della telecamera attivata dalla polizia giudiziaria, nel parcheggio-bunker del palazzo di giustizia, a costituire l’elemento portante della contestazione di danneggiamento aggravato. Immortalano il giudice all’atto di forare due gomme dell’auto di piccola cilindrata della collega. Lo fa con un punteruolo. E questa circostanza apre le porte ad una contestazione di reato parallelo: quella dell’articolo 4 della legge 110 dl 75, relativa alla detenzione di oggetti atti ad offendere. Ma perchè quel gesto? Cosa ci sta dietro? Le domande continuano a rincorrersi in città e, in particolare, al palazzo di giustizia. Trapela così che nel novembre del 2004 avvenne una vivacissima discussione fra il giudice e la collega. A generarla fu il disagio della seconda a trovarsi a far parte, per effetto della fissazione dell’udienza da parte del giudice Cipolletta e l’opzione di quest’ultimo a partecipazione invece ad un dibattimento, del collegio di un tribunale del riesame particolarmente delicato, uno di quelli che hanno scandito la querelle dell’amianto e dei sequestri e dissequestri della cava di serpentino di Rocchetta Vara e dell’impianto di frantumazione del Senato, su cui si innestarono le altre vicende che fecero salire la tensione al palazzo di giustizia: la clamorosa denuncia per falso da parte del pm Rodolfo Attinà della collega gip poi prosciolta a Torino e il sollevamento di tutti i magistrati nei confronti del pm, poi sottoposto così al procedimento disciplinare davanti al Csm. Ebbene nelle memoria difensive presentate al Csm, Attinà (che poi, in parallelo ai ricoveri per i gravi problemi di salute patiti, preferì andare in pensione) sostenne che nella composizione del tribunale del riesame in questione non vennero rispettate le cosiddette tabelle e le procedure per disciplinano la sostituzione dei giudici titolati a partecipare alle udienze.

POLITICA E MORALITA’.

Spese pazze, arrestate, due consigliere regionali. Domiciliari per Marylin Fusco, ex vicepresidente della Regione Liguria, e Maruska Piredda, ex hostess pasionaria dell'Alitalia. Peculato: con i soldi del gruppo IdV pagato il taxi per l'estetista, borse e profumi, scrive Bruno Persano su “La Repubblica”. Era un'abitudine pagare con i soldi pubblici del partito, fosse il taxi per andare dall'estetista, o il pranzo con il marito e la figlia. Pure il gelato (3 euro), o il cibo per gli animali finiva nel bilancio del gruppo, insieme a biglietti gratta&vinci, scarpe e penne Montblanc, senza tralasciare borse e profumi. A distanza di due anni da quelle spese pazze sono state arrestate due consigliere regionali della Liguria: Marylin Fusco, già vicepresidente della Regione Liguria, e Maruska Piredda, l'ex pasionaria hostess di Alitalia negli anni dei primi tagli tra il personale della compagnia area. Domiciliari ad entrambe per un'ipotesi di peculato relativa alle spese effettuate nel 2012 con i soldi del gruppo dell'Idv, di cui facevano entrambe parte. "Sono incredula e sconvolta", ha detto Marylin Fusco dalla sua casa a Montecatini, dove è stata disposta la custodia cautelare. Insieme a lei è stata arrestata, pure lei ai domiciliari nella sua residenza a Milano, l'ex 'collega' nel gruppo dell'Idv, Maruska Piredda, con la stessa ipotesi di reato. In questi anni, la difesa di Marylin Fusco non è mai cambiata: "Non ho nulla da nascondere", ha sempre ripetuto. "Le ricevute sono qua e, come è mio costume, ci metto la faccia senza nascondermi". Convocò una conferenza stampa per respingere le accuse, ma non convinse il giudice. Spiegò, carte alla mano, che "negli 11 mesi del 2012 in cui è stata nell'Idv, ha presentato ricevute per complessivi 10 mila euro. Che aveva percepito per le spese 12mila e ne aveva restituiti al gruppo politico 2 mila euro, prima di lasciare il partito". "Come vedete - sottolineò la Fusco - non ci sono né piatti a base di aragosta, né bottiglie di vino pregiate, né champagne, né mutandine. Sono tutti menu fissi". Il riferimento alle 'mutande' non fu casuale: la Guardia di Finanza scoprì che tra gli scontrini fiscali utilizzati per giustificare le spese a carico del gruppo politico, cioè dei soldi pubblici, c'erano anche un paio di mutandine di pizzo acquistate dalla consigliera Maruska Piredda. Ma anche lei negò l'incidente.

Spese pazze in Regione Liguria, arrestata l'ex hostess "pasionaria" di Alitalia. Maruska Piredda era entrata nel gruppo Idv ed eletta consigliera regionale, scrive “Libero Quotidiano”. Migliaia di euro per viaggi, parrucchieri, giochi, modellini di auto, frigoriferi, divani, casse di vino, oltre che per tablet, computer, capi di abbigliamento, cravatte. Dalle indagini della procura di Genova era emerso che il gruppo dell'Idv in Regione Liguria aveva già speso a ottobre l’intera somma a disposizione per il 2012, 230mila euro, al punto che vi furono problemi per pagare i compensi dei cinque dipendenti del gruppo. Per quelle "spese pazze" oggi le due consigliere regionali Marylin Fusco e Maruska Piredda sono state arrestate e messe ai domiciliari dalla Guardia di finanza con l'accusa di peculato. La custodia cautelare si è resa necessaria in quanto "sia per Marylin Fusco che per Piredda si è profilata la possibilità di reiterazione del reato e il pericolo di inquinamento probatorio". Maruska Piredda balzò agli onori delle cronache già sei anni fa, nel 2008, quando la sua foto mentre festeggiava pugni al cielo finì su tutti i giornali nel corso della trattativa per la privatizzazione di Alitalia, in procinto di essere acquista dai "patrioti" di Cai, Compagnia aerea italiana. Piredda era la hostess "pasionaria" che gioiva perchè la trattativa (che andò poi in porto) sembrava in procinto di saltare. Dopo aver aderito all’Italia dei Valori, era stata poi eletta consigliera in Regione Liguria.

Taxi per andare nel centro estetico per 2 giorni consecutivi, cene con le amiche, i mariti e le figlie; ancora, vacanze e alberghi, ma anche pennette usb e accessori da scrivania, tutti pagati con fondi erogati dalla Regione Liguria quali contributi per il funzionamento dei gruppi consiliari: sono queste alcune delle spese contestate dalla Procura del capoluogo ligure alle 2 consigliere regionali liguri (ex Idv) Marylin Fusco e Maruska Piredda, finite agli arresti domiciliari con l’accusa di peculato, scrive “Il Secolo XIX”. Le notifiche alle due consigliere, già indagate nell’inchiesta insieme con l’ex vicepresidente della Regione, Niccolò Scialfa , da mesi ai domiciliari, sono state eseguite dalla guardia di Finanza poco prima dell’inizio del consiglio Regionale: la Piredda era nel suo ufficio in via Fieschi e invece di scendere al piano terra per andare in aula ha dovuto rimettere a posto le sue carte e tornare a casa; la Fusco ha invece preferito lasciare Genova e recarsi a Montecatini Terme (Pistoia), dove ha la residenza. Ora potrebbero seguire la stessa sorte dell’ex collega di partito Scialfa, che era stato sospeso dall’incarico di consigliere. Perde dunque altri pezzi la maggioranza di centrosinistra, che può comunque contare ancora su almeno 23 consiglieri, contro i 15 della minoranza. Alcuni episodi contestati a Piredda e Fusco erano già emersi nel corso dell’indagine, ma non mancano nuovi particolari. Come il fatto che la Fusco, per esempio, avrebbe «rendicontato spese di ristorazione e di trasporto effettuate anche in giorni festivi e/o non lavorativi non inerenti l’attività istituzionale del gruppo e non attinenti alle iniziative politiche e attività collegate ai lavori del consiglio Regionale»: avrebbe, per esempio, speso a titolo di rimborso per viaggi 1329,21 euro nel 2010 e 4100 nel 2011, pur avendo percepito un rimborso forfettario mensile pari al 25% dell’indennità parlamentare, ovvero 90.355,74 euro da maggio 2010 a dicembre 2012 . Ancora: avrebbe speso in un anno circa 4mila euro solo in taxi, anche per brevi spostamenti. La Piredda, sempre secondo l’accusa, avrebbe usato il denaro pubblico per taxi, viaggi, alberghi (in assenza di missioni autorizzate dalla Regione), cibo per animali, biancheria e sanitari, articoli di cancelleria, capi di abbigliamento, parrucchiere, biglietti del “gratta&vinci”, lavanderia, calzature, parafarmaci e penne di marca Montblanc per un regalo a Marylin Fusco. Ancora: libri, profumi, borse, tessuti da arredamento. Inoltre, per cercare di giustificare le spese sostenute, la Piredda avrebbe rendicontato pagamenti in realtà mai effettuati a fornitori per un totale di 633 euro.

Spese pazze, arrestato ex vice presidente della giunta regionale Liguria. Nicolò Scialfa, è stato arrestato nell'ambito dell'indagine sulle spese del gruppo dell'Italia dei Valori in Consiglio regionale tra il 2010 e il 2012. Perquisiti dalla Guardia di Finanza altri tre consiglieri regionali, scrive Marco Preve su “La Repubblica”. L'ex vicepresidente della Giunta regionale della Liguria, Nicolò Scialfa, è stato arrestato nell'ambito dell'indagine sulle spese del gruppo dell'Italia dei Valori in Consiglio regionale tra il 2010 e il 2012. A Scialfa (ora consigliere del gruppo Diritti e Libertà, nato dalla scissione interna al partito di Di Pietro), viene contestato dalla Procura di essersi appropriato di 70.000 euro usciti dai fondi del gruppo senza giustificazioni. In pratica, avrebbe usato fondi del gruppo politico, cioè soldi pubblici, per spese personali, "non pertinenti all'attività politica". In particolare Scialfa, per comprovare l'uscita dei soldi, avrebbe falsificato le firme di consiglieri regionali nonché del tesoriere Giorgio de Lucchi, anche lui indagato. Scialfa si è sempre dichiarato innocente. Esattamente un anno fa, quando la Procura lo iscrisse nel registro degli indagati, l'allora vice presidente della Giunta regionale mise le mani avanti: "Mi sento in un tritacarne ma sono sereno riguardo a quello che ho fatto. Si parla di uso disinvolto dei soldi dei gruppi? In passato certe spese erano legittime e opportune, poi le stesse spese sono diventate legittime ma inopportune. Ne parlerò con i giudici e mi assumerò tutte le mie responsabilità". Nei confronti di Scialfa, indagato per peculato, falso e truffa aggravata, sono stati disposti gli arresti domiciliari perché, come spiegano gli inquirenti, c'era il rischio di reiterazione dei reati. Perquisite anche le abitazioni dei consiglieri Marilyn Fusco e Stefano Quaini entrambi ex Idv, e Marusca Piredda attuale capogruppo in Regione del partito di Di Pietro. "Le perquisizioni - ha spiegato il procuratore capo Michele Di Lecce - sono state fatte per trovare eventuali beni di interesse ai fini della nostra inchiesta". L'indagine aveva già indotto alle dimissioni altri due nomi eccellenti anche loro dell'Idv: Marylin Fusco, vicepresidente della Giunta e Rosario Monteleone, presidente del Consiglio regionale. Le spese fatte dal gruppo regionale ligure dell'Idv nel 2012 erano finite sotto inchiesta della Procura di Genova nell'autunno dello stesso anno. A gennaio 2013 scattarono gli avvisi di garanzia per peculato per quattro ex consiglieri regionali del partito e due funzionari. La capogruppo Maruska Piredda, l'allora vicepresidente della giunta, Nicolò Scialfa, la ex vicepresidente Marylin Fusco (entrambi oggi in Diritti e Libertà), il consigliere Stefano Quaini, passato poi in Sel e dimessosi alcuni mesi fa da consigliere regionale. Furono indagati anche il tesoriere del gruppo, Giorgio De Lucchi e una sua conoscente. Scialfa si dimise da vicepresidente il 31 gennaio 2013. La Procura indagava su voci di spesa apparentemente lontane da cose che potevano rientrare nelle cosiddette "spese di rappresentanza": migliaia di euro per viaggi, parrucchieri, giochi, modellini di auto, frigoriferi, divani, casse di vino, oltre che per tablet, computer, capi di abbigliamento, cravatte.

Idv, spesi 230.000 euro. Arresti domiciliari per il consigliere regionale della Liguria, ed ex vicepresidente della Giunta ligure, Nicolò Scialfa (ex Idv) nell’ambito dell’inchiesta «spese pazze» della procura di Genova relativa alla gestione dei finanziamenti pubblici ai gruppi consigliari, scrive “Il Corriere della Sera”. La misura è stata eseguita martedì mattina dalla guardia di finanza in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare del gip Roberta Bossi su richiesta del procuratore aggiunto Nicola Piacente. Sono state eseguite inoltre numerose altre perquisizioni. L’ipotesi di reato è peculato. Il vicepresidente avrebbe effettuato prelievi in contanti dal conto corrente del gruppo regionale della Liguria dell’Italia dei Valori per spese di natura personale. Nicolò Scialfa ancora consigliere regionale (è confluito in «Diritti e libertà») e vista la contestazione, sussisterebbe secondo il gip la possibilità della reiterazione del reato. Da qui la necessità di disporre la custodia cautelare a suo carico. Scialfa è accusato di peculato e falso materiale e ideologico in atto pubblico. Per giustificare gli ammanchi dalle casse del partito, i finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Genova avrebbero accertato la falsificazione di verbali di riunioni del gruppo in cui sarebbero state rendicontate e licenziate le spese che gli vengono contestate. Per poter falsificare i verbali, l’ex capogruppo e il responsabile contabile del gruppo, il consulente Giorgio De Lucchi, avrebbero falsificato le firme dei consiglieri segretari, Maruska Piredda e Stefano Quaini. Lo stesso De Lucchi è coindagato nel medesimo procedimento penale e gli vengono contestati i reati di falso e appropriazione indebita. Il denaro prelevato da Scialfa, sempre secondo gli accertamenti effettuati dalla guardia di finanza, sarebbe «sparito». Altra parte del denaro prelevato, poco più di centomila euro, secondo le accuse, sarebbe stato distribuito tra gli ex consiglieri Idv per le loro spese. Risultano infatti coindagati Marylin Fusco, Stefano Quaini e Maruska Piredda, le cui abitazioni sono state perquisite stamani dai militari della guardia di finanza.

Liguria, spese pazze dell'Idv. Intimo e cibo per gatti con i soldi della Regione. Biancheria intima, cravatte, regali di Natale, cene, viaggi. Indagati quattro consiglieri: Maruska Piredda (Idv),  Nicolò Scialfa e Marylin Fusco (Dl) e Stefano Quaini (Sel), scrive Luca Romano su “Il Giornale” . Biancheria intima, cravatte, regali di Natale, cene, viaggi. Addirittura cibo per gatti.  I soldi dati dalla Regione Liguria al gruppo Idv per spese istituzionali sarebbero finiti (anche, ma non solo) in questa grottesca lista di acquisti effettuati dai quattro consiglieri (nel gruppo oggi resta solo Maruska Piredda mentre Nicolò Scialfa, Stefano Quaini e Marylin Fusco hanno cambiato bandiera) che oggi hanno ricevuto un avviso di garanzia per le loro presunte "spese pazze". I particolari emergono dall’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Piacente che oggi ha disposto una perquisizione negli uffici dell’Idv. Sono sei gli indagati alla Regione Liguria: quattro consiglieri e un tesoriere, più una funzionaria dell’Agenzia delle entrate della Spezia. Risultano indagati di peculato Maruska Piredda (Idv), Nicolò Scialfa, Marylin Fusco, passati dall’Idv a Diritti e Libertà e Stefano Quaini, oggi al Sel. Tra gli indagati anche il tesoriere dell’Idv, Giorgio De Lucchi. L’indagine che ha interessato il gruppo consiliare dell’Idv in Liguria potrebbe avere riflessi sulla Giunta regionale di Claudio Burlando per il coinvolgimento del vicepresidente Niccolò Scialfa. La sua posizione è al vaglio del governatore che per la seconda volta in pochi mesi deve fare i conti con la presenza di una persona indagata in Giunta. Niccolò Scialfa aveva preso il posto della ex vicepresidente, e sua compagna di partito, Marylin Fusco, che era stata indagata per abuso d’ufficio in una inchiesta sul nuovo porto di Ospedaletti. L’accusa è peculato, in relazione alle spese “sospette” sostenute con i rimborsi pubblici ricevuti dal gruppo in teoria per attività politica, spiega “Il Secolo XIX”. Secondo quanto riferito, quattro militari in borghese si sono presentati in via Fieschi per acquisire documenti cartacei e informatici: sono stati accolti dalla capogruppo dell’Idv, Maruska Piredda e hanno atteso l’arrivo in ufficio dell’ex consigliere dell’Idv ed ex vicepresidente della giunta regionale, Marylin Fusco, da poco passata al gruppo Diritti e Libertà. Sono indagati Marylin Fusco, Maruska Piredda, Nicolò Scialfa e Stefano Quaini: tutti “fuoriusciti” dal partito di Antonio Di Pietro tranne la Piredda. E nell’inchiesta, condotta dal sostituto procuratore Francesco Pinto, sono indagati anche il tesoriere dell’Idv, Giorgio De Lucchi, e la compagna, una funzionaria dell’Agenzia delle Entrate in servizio alla Spezia. Il primo è accusato di appropriazione indebita ai danni dell’Idv, mentre lo stesso e la compagna sono accusati di favoreggiamento personale nei confronti degli altri quattro indagati. L’indagine è partita da un’inchiesta sul Pontedecimo Calcio. I quattro consiglieri regionali sono indagati nell’ambito dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Piacente per aver speso soldi destinati ai Gruppi consiliari per spese personali. Questo filone di indagine, che si inserisce in un procedimento più ampio, è partito dall’inchiesta sul Pontedecimo Calcio nella quale, a vario titolo, sono coinvolti alcuni degli indagati. L’indagine sulla società sportiva riguarda un presunto giro di false fatturazioni a fronte di presunte false sponsorizzazioni. Lo ha comunicato il procuratore capo Michele Di Lecce il quale ha sottolineato che le perquisizioni, una decina presso gli uffici e le abitazioni degli indagati, effettuate dalla Guardia di Finanza di Genova, si sono rese necessarie con urgenza perché sono emersi elementi che hanno fatto pensare alla possibilità che potessero essere modificati i riferimenti ad alcune spese non attinenti l’attività politica sostenuta nel 2012. Piredda e Fusco: «Siamo serene». In conferenza stampa Piredda e Fusco si sono dichiarate «tranquille» e hanno garantito «massima collaborazione» alle indagini. Scialfa: «Non mi dimetto». «Mi sento male ma non mi dimetto. Sono innocente, se ho fatto errori di valutazione ne parlerò con i giudici e mi assumerò tutte le mie responsabilità»: così il vicepresidente Niccolò Scialfa, che ha lasciato mesi fa il gruppo Idv per passare a Diritti e Libertà, ha commentato oggi l’iscrizione da parte della Procura di Genova del suo nome nel registro degli indagati. Scialfa, che si è incontrato con il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando, ha aggiunto: «Il presidente Burlando non mi ha chiesto di dimettermi, mi ha chiesto solo se sono sereno, e io gli ho risposto che mi sento in un tritacarne ma sono sereno riguardo a quello che ho fatto. Io - ha proseguito Scialfa - non ho nulla da nascondere. Si parla di uso disinvolto dei soldi dei gruppi? In passato certe spese erano legittime e opportune, poi le stesse spese sono diventate legittime ma inopportune. E ora, con il clima politico che si è venuto a creare, stanno diventando illegittime e inopportune. Io non mi sono mai appropriato di un euro». Possibili riflessi sulla Giunta. L’indagine che ha interessato il gruppo consiliare dell’Idv in Liguria potrebbe avere riflessi sulla Giunta regionale di Claudio Burlando per il coinvolgimento del vicepresidente Nicolò Scialfa. La sua posizione è al vaglio del governatore che per la seconda volta in pochi mesi deve fare i conti con la presenza di una persona indagata in Giunta. Nicolò Scialfa aveva preso il posto della ex vicepresidente, e sua compagna di partito, Marylin Fusco, che era stata indagata per abuso d’ufficio in una inchiesta sul nuovo porto di Ospedaletti. Scialfa è molto amareggiato: «Chi mi conosce sa come mi posso sentire - ha dichiarato all’Ansa -. Sono a disposizione dell’autorità giudiziaria e confido nell’operato della magistratura convinto di poter spiegare tutto».

AMBIENTE E GIUSTIZIA: CHI COPRE CHI?

La Liguria e la Puglia: ILVA e diossina, territori legati a doppio filo. A parte la scelta adottata dalla Fiom genovese e tarantina (da buoni comunisti) di stare dalla parte della magistratura, più che dalla parte degli operai, vogliamo cercare di capire chi copre chi, in riferimento alle magagne intorno alla questione ambiente e giustizia. «Vogliamo che si faccia piena luce sul passato, in particolare su tutte le ricerche sulla diossina negli alimenti che non hanno mai registrato a Taranto alcun superamento dei limiti di legge, mentre quando noi abbiamo fatto fare quelle stesse analisi, sono emersi incredibili e scandalosi superamenti – affermano, come riferito da Maria Rosaria Gigante su La Gazzetta del Mezzogiorno, gli ambientalisti Rosella Balestra, Alessandro Marescotti e Fabio Matacchiera e sollecitano l’assessore regionale alle Politiche della salute della giunta Vendola, Ettore Attolini, perché si faccia luce su tali questioni. - Come mai dal 2002 al 2007 sono state analizzate cozze, orate, spigole, carne, uova, latte e mangimi senza mai trovare negli alimenti consumati a Taranto alcun superamento per diossina e Pcb?» Gli ambientalisti forniscono proprio gli esiti delle 72 analisi effettuate dal 16 ottobre 2002 a 23 maggio 2007 presso l'Istituto zooprofilattico di Foggia da cui risulta che non c’è mai stato alcuno sforamento (tutti i dati sono riportati sul sito www.tarantosociale.org). E’ bastato, invece, il pezzo di formaggio alla diossina a febbraio 2008 a scatenare la questione e ad aprire una vera e propria emergenza diossina col conseguente piano regionale di monitoraggio di latte e carni all’interno di un raggio di una ventina di chilometri dalla zona industriale. Proprio per la diossina ha chiuso la Copersalento di Maglie, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Varie sono state le denunce, le ispezioni, le chiusure, fino a quella definitiva posta dalla provincia di Lecce, dovuta all'inquinamento. La Copersalento è stata, infatti, accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina. Per tutto ciò si aspetta di capire cosa succede a nostra insaputa. Da attente segnalazioni scopriamo alcune cose che la gente deve sapere, ma che nessuno dice.

Esito positivo inchieste giudiziarie=0

Risposte istituzionali ed amministrative=0

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-08079 presentata da ELISABETTA ZAMPARUTTI, lunedì 19 luglio 2010, seduta n.354

ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO. - Al Ministro della salute, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.

- Per sapere - premesso che:

a Maglie, Ezio Armando Capurro è proprietario della Copersalento, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Varie sono state le denunce, le ispezioni, le chiusure, fino a quella definitiva posta dalla provincia di Lecce, dovuta all'inquinamento. La Copersalento è stata, infatti, accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina;

secondo quanto riporta Terra di giovedì 8 luglio 2010, in Liguria, il pubblico ministero Biagio Mazzeo ha chiesto e ottenuto di sequestrare l'area dell'ex oleificio di Avegno, di proprietà del consigliere regionale Ezio Armando Capurro, perché la zona non è stata bonificata e si è trasformata in una discarica pericolosa -:
se i Ministri siano a conoscenza di quanto in premessa e di quali informazioni dispongano o intendano acquisire in merito alle attività di bonifica dell'ex oleificio di Avegno. (4-08079) 

Ministero/i delegato/i a rispondere e data delega

Delegato a rispondere

Data delega

MINISTERO DELLA SALUTE

19/07/2010

MINISTERO DELLA SALUTE

19/07/2010

Attuale delegato a rispondere: MINISTERO DELL'AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE delegato in data 10/09/2010

Stato iter:

IN CORSO

Fasi iter:

SOLLECITO IL 12/10/2010
SOLLECITO IL 01/12/2010
SOLLECITO IL 12/01/2011
SOLLECITO IL 03/02/2011
SOLLECITO IL 03/03/2011
SOLLECITO IL 06/04/2011
SOLLECITO IL 15/04/2011
SOLLECITO IL 23/05/2011
SOLLECITO IL 06/07/2011
SOLLECITO IL 21/09/2011
SOLLECITO IL 16/11/2011
SOLLECITO IL 15/02/2012
SOLLECITO IL 28/05/2012
SOLLECITO IL 04/07/2012
SOLLECITO IL 27/07/2012

L’inchiesta svolta da Floriana Bulfon su Terra News parla di un politico dotato di ubiquità. Armando Capurro, già sindaco di centrodestra di Rapallo, è consigliere regionale della lista Burlando. Amico del ministro Fitto, in Liguria chiede più inceneritori. Ma in Puglia il Pd lo accusa di danni ambientali. Rapallo eletto sindaco con una lista di destra, in regione Liguria con la sinistra. In Liguria a difendere i valori della lista Burlando, a Maglie un tempo in società con il cugino di Fitto. Ezio Armando Capurro è un uomo “dall’esperienza molteplice”, come lui stesso afferma. Docente, industriale, già sindaco di Rapallo e ora consigliere regionale della lista Burlando in Liguria. Proprio Claudio Burlando ha visto in lui il politico ideale e ha deciso di candidarlo nella sua lista civica alle ultime elezioni regionali. Il presidente ex ministro Ds, oggi Pd, ha scelto Capurro per le sue qualità e poco importa che qualcuno in quel di Maglie, in quella Puglia terra natale di Capurro, sostenga che sia un caro amico del ministro berlusconiano Raffaele Fitto. Importa ancor meno che il Pd in Puglia affermi che il Capurro industriale abbia causato con il suo stabilimento danni ambientali, diossina e controverso aumento di tumori. “La fabbrica della morte”, lo chiama il sito del Pd di Maglie. Questioni di poco conto, questioni pugliesi. Meramente locali. A dire il vero, qualche questione è stata aperta anche in Liguria, da quando il pm Biagio Mazzeo ha chiesto e ottenuto di sequestrare l’area dell’ex oleificio di Avegno di proprietà del consigliere perché la zona non è stata bonificata e si è trasformata in una discarica pericolosa. Ma poco importa anche questo. Capurro è uomo di oleifici e inceneritori, uomo di destra e di sinistra. E a Maglie, nel cuore del Salento, lo conoscono tutti bene. E' il proprietario della Copersalento, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Tortuosi gli assetti societari dell’impianto che ha visto tra i proprietari anche Raffaele Rampino, cugino del sindaco di Maglie Antonio Fitto, parente di Raffaele. E varie le denunce, ispezioni, chiusure, fino a quella definitiva posta dalla Provincia di Lecce. Denunce dovute all’inquinamento. La Copersalento è stata infatti accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina. Carne alla diossina e livello di inquinamento oltre i limiti, in base alle rilevazioni dell’Arpa, tali da risultare “gravemente pericolosi per la salute”. Problemi del Capurro industriale, certo, e del Capurro pugliese. Ma appare curioso che il Capurro consigliere ligure si appelli a Burlando con una interrogazione con oggetto «conferimento rifiuti dalla Provincia di Imperia alla discarica di Scarpino». La provincia di Imperia, quella cara all’ex ministro Scajola. Il Capurro ligure sostiene che per fronteggiare il problema dei rifiuti occorra dare attuazione immediata di un Piano di Rifiuti che permetta di risolvere le criticità e il superamento delle fasi emergenza. Capurro consigliere regionale vuole sapere come si intenda, e con quali tempi, realizzare più moderni impianti di trattamento finale dei rifiuti che prevedano il recupero energetico. Insomma, termovalorizzatori o gassificatori, indispensabili per risolvere i problemi dei rifiuti. Saranno l’anello di congiunzione tra il Capurro pugliese e quello ligure?

SI SPECULA PURE SULLE DISGRAZIE.

«Cinque anni per l'alluvione», Marta Vincenzi: sono innocente, scrive Angela Azzaro il 29 novembre 2016 su "Il Dubbio". L'ex sindaca di Genova condannata per omicidio e disastro colposo. Nel 2011 morirono sei persone. L'ex sindaca di Genova, Marta Vincenzi, si è difesa fino all'ultimo dichiarandosi innocente. Ma questo non è bastato. Nel processo di primo grado per l'alluvione del 2011 è stata condannata a cinque anni per i reati di disastro colposo, omicidio colposo plurimo e falso per avere modificato il verbale di ricostruzione dell'esondazione del torrente Fereggiano. Genova fu messa in ginocchio e in quell'occasione morirono sei persone tra cui due bambine di 8 e 10 anni. Secondo l'accusa quella tragedia poteva essere evitata, sarebbe bastato chiudere in tempo scuole e strade, visto che era stata prevista l'allerta 2. La differenza sta tutta, secondo il pm, in uno spazio temporale di due ore. Alle 11 le notizie erano già allarmanti, mentre il torrente esondò all'una: fin da subito potevano essere presi accorgimenti che «non vennero messi in atto». Non solo: per l'accusa i vertici dell'amministrazione comunale «falsificarono il verbale alterando l'orario dell'esondazione». Insieme all'ex sindaca sono stati condannati dalla giudice Adriana Petri l'ex assessore comunale alla protezione civile, Francesco Scidone (4 anni e 9 mesi), i dirigenti comunali Gianfranco Delponte (4 anni e 5 mesi) Pierpaolo Cha (1 anno e 4 mesi) Sandro Gambelli (un anno). Assolto invece l'ex coordinatore dei volontari della protezione civile Roberto Gabutti. «In alcuni momenti ho avuto la percezione che si volesse processare la politica», ha detto l'ex sindaca condannata a 3 anni e sette mesi per omicidio e disastro colposo, a un anno e cinque mesi per falso. «In questo processo - ha aggiunto polemicamente - non si è voluto andare a fondo, non si è voluto credere a quanto i politici hanno testimoniato e le testimonianze sono state esaminate da punti di vista sbagliati». Ma Vincenzi, per cui è invece decaduto il reato di calunnia, non si dà per vinta: «L'accusa di falso è quella più infamante. La ho rigettata fin dall'inizio ma il giudice non si è convinto. Spero si convincano altri. Non è finita, per fortuna in questo Paese ci sono tre gradi di giudizio». In attesa di sapere le motivazioni della sentenza, la sensazione è quella di una politica che ha sempre più difficoltà a fare il proprio lavoro senza finire sotto accusa anche dal punto di vista penale. «Piove governo ladro», si diceva una volta. E oggi effettivamente chi amministra difficilmente riesca a farlo senza risponderne, ancora prima che davanti agli elettori, davanti a un giudice, anche quando i disastri rispondo a cause naturali oppure sono il frutto di cattive amministrazione che si sono però susseguite nel tempo. Nel 2005 quando New Orleans fu messa ko dall'uragano Katrina, morirono circa duemila persone. A nessuno, nonostante le polemiche, venne in mente di processare coloro che amministravano la città o lo Stato. Eppure le critiche furono tante. Forse, allora, sarebbe importante riflettere su quanto davvero si può fare o non fare rispetto ad eventi come quelli causati da piogge intense o terremoti, senza per forza dover trovare qualcuno da condannare. Mentre la giustizia fa il suo corso, noi possiamo ragionare su quella molla che scatta sempre più spesso e che spinge per forza a trovare un "colpevole", un capro espiatorio, anche quando non c'è un responsabile o le responsabilità non si possono incarnare in una sola persona.

«Vincenzi accusata perché il processo facesse più rumore», scrive Errico Novi il 30 novembre 2016, su "Il Dubbio". «È stata punita lei per colpe di altri», sostiene il difensore dell'ex primo cittadino di Genova, condannata a 5 anni per le vittime dell'alluvione del 2011. «Senza Marta, la vicenda giudiziaria non avrebbe avuto lo stesso rilievo». Che processo sarebbe stato, senza il sindaco alla sbarra? «Il coinvolgimento di Marta Vincenzi ha dato un rilievo che altrimenti la vicenda giudiziaria non avrebbe avuto», conviene Stefano Savi, difensore dell'ex primo cittadino ritenuto colpevole di disastro colposo e omicidio colposo plurimo dalla giudice Adriana Petri e condannata a 5 anni. Una sentenza pesante a fronte di un quadro che, secondo il legale, «non fa emergere per ciascuno dei capi d'imputazione, il modo in cui l'allora sindaco sarebbe responsabile». E per questo che la presenza dell'esponente pd tra gli imputati e, da lunedì, tra i condannati in primo grado, pare rispondere a uno schema obbligato: un disastro come l'esondazione del Fereggiano che il 4 novembre 2011 provocò la morte di quattro donne e due bambine deve per forza di cose avere tra i responsabili il capo dell'amministrazione cittadina. La politica è in ogni caso colpevole. «Eppure la sentenza sull'alluvione di Sarno sembrava aver fissato alcuni principi, nota Savi, «innanzitutto quello per cui il primo cittadino può non essere presente alle riunioni del Comitato per la sicurezza. Vincenzi ha dunque legittimamente delegato l'assessore alla Protezione civile che era anche vicepresidente dell'organismo. Era impegnata a guidare i lavori di Eurocity, evento che aveva portato a Genova sindaci da mezzo mondo, e che era decisivo per far ottenere alla città l'assegnazione di fondi europei». Non c'è dubbio che Vincenzi, tramite il suo avvocato, ricorrerà in appello. «Cinque anni, per una cosa del genere: mi pare incomprensibile», prosegue il difensore. «Vengono contestate tre cose: l'adozione di un piano d'emergenza ritenuto malfatto, la mancata rimozione delle auto e la decisione di tenere aperte le scuole». Sulle 6 persone che persero la vita per l'esondazione del Fereggiano, 5 erano appena uscite da scuola o andavano a prendere i loro familiari. «Riguardo al piano adottato, in dibattimento abbiamo ricordato che si tratta di un dispositivo ispirato al cosiddetto Metodo Augustus, protocollo della Protezione civile che ci copiano in tanti Paesi stranieri, definito dalle Regioni che ne propongono l'utilizzo ai Comuni: alla base», spiega l'avvocato Savi, «c'è l'idea che le misure di prevenzione non vadano irrigidite in schemi, che il sindaco ne è responsabile ma che le stesse misure vanno seguite e eventualmente aggiornate passo passo. Il dirigente della presidenza del Consiglio Elvezio Galanti è stato ascoltato come teste e ha confermato che quel piano era stato redatto nel modo più corretto». Quel dispositivo ha spinto Vincenzi a tenere le scuole aperte, nel giorno del disastro. «Ci sono altri passaggi che non hanno funzionato. Ma intanto», prosegue il difensore dell'ex sindaca, «vorrei segnalare che la scelta di chiudere le scuole è sempre delicata. Dopo i fatti del 2011, la successiva amministrazione ha di fatto deciso di discostarsi dal metodo della Protezione civile e chiudere indiscriminatamente le scuole a ogni avvisaglia di temporale. Così non ci si assume responsabilità. Secondo la Protezione civile le scuole a Genova sono uno dei luoghi più sicuri in cui trovare riparo. Nel caso di eventi metereologici avversi sono considerate centri di rifugio. Un sindaco deve porsi alcune questioni: innanzitutto il fatto che se la scuola è chiusa e i genitori vanno comunque a lavorare, un figlio adolescente esce comunque per strada, ed è esposto a rischi maggiori. Le famiglie con figli più piccoli sono messe in grossa difficoltà da una chiusura degli istituti. Un amministratore pensa a questo, Vincenzi lo fece. Nella rappresentazione proposta dall'accusa invece, l'ex sindaca avrebbe scelto sollecitata da una sorta di improvvisa follia, del tipo 'ma chi se ne importa, teniamole aperte». Spostare le macchine dalle zone esondabili? «Erano stati definiti piani operativi secondo cui ogni distretto di polizia locale avrebbe dovuto installare avvisi: da questo punto si è registrata un'inefficienza, ma la Procura non ha contestato alcunché. È stato il Tribunale a rimetterle gli atti perché avvii un procedimento sul comandante dei vigili». Vincenzi respinge tutti gli addebiti. Anche quello di falso, relativo al verbale in cui le indicazioni temporali degli eventi risulterebbero anticipate. «Nello specifico», ricorda Savi, «il volontario della Protezione civile che avrebbe dovuto verificare il livello del Fereggiano non si sarebbe in realtà mai recato sul luogo, e non è stato neppure indagato». Vincenzi e gli altri imputati sono stati assolti dall'accusa di calunnia nei confronti del volontario in questione. Ma nella strana ripartizione delle accuse ci sarebbero anche il preside che ha fatto uscire i ragazzi prima dell'orario previsto e che se l'è cavata con un decreto penale di condanna: «Vuol dire pagare un'oblazione e chiuderla lì», ricorda Savi. A Marta Vincenzi hanno dato invece 5 anni. Come se le colpe degli altri evaporassero per condensarsi solo su di lei. Politico e, quindi, responsabile a prescindere.

Carte false per il Fereggiano, un arresto per l'alluvione. Ai domiciliari il responsabile della Protezione civile, Sandro Gambelli; indagati a piede libero Gianfranco Del Ponte, direttore dell'Area sicurezza del Comune, e Pierpaolo Cha, dirigente dell'ufficio Città sicura. Il disastro del 2011 costò la vita a sei persone, scrive Marco Preve su “La Repubblica”. La ricostruzione dell'esondazione del Fereggiano, fornita dalla Protezione Civile del Comune all'allora sindaco Marta Vincenzi nonché alla magistratura, era falsa. I tempi erano stati plasmati in modo da sostenere la tesi della "bomba d'acqua", dell'onda tanto improvvisa quanto violenta. In realtà, secondo la procura di Genova - che parla di "clamorosa discrasia tra realtà dei fatti e quella rappresentata" falsamente -, questa ricostruzione di comodo sarebbe servita ad alleggerire le posizioni di chi aveva un ruolo di responsabilità. Per questa ragione, ieri mattina, è stato mandato agli arresti domiciliari Sandro Gambelli, ingegnere ed ex vicecomandante dei Vigili del fuoco, che nel 2011 era il responsabile della Protezione Civile. Gambelli, difeso dall'avvocato Giuseppe Giacomini, è accusato dai pm Luca Scorza Azzarà e Vincenzo Scolastico di falso e calunnia.

Gli stessi reati sono contestati a due indagati a piede libero: Pierpaolo Cha (avvocato Giancarlo Bonifai), dirigente dell'ufficio città sicura e hazard manager, diretto superiore di Gambelli; Gianfranco Del Ponte (avvocato Romano Raimondo) direttore generale dell'area Sicurezza e progetti speciali. Indagato anche un coordinatore dei volontari. Sulla base di intercettazioni telefoniche, interrogatori di decine di abitanti, autisti di bus, la visione di decine di filmati forniti dai residenti o trovati su Internet, gli investigatori dell'aliquota della Polizia di Stato del nucleo di Polizia Giudiziaria, avrebbero individuato numerose contraddizioni nella sequenza degli eventi fornita dalla Protezione Civile. Quella che a Marta Vincenzi, il giorno dopo in conferenza stampa, fece dire che un volontario alle 12 aveva segnalato un livello del torrente non pericoloso, mentre alle 12.17 era arrivata improvvisa la bomba d'acqua. Secondo le indagini, invece, la segnalazione del volontario è un falso perché la persona indicata aveva sì monitorato il Fereggiano nel corso della mattinata, ma, a mezzogiorno era da tutt'altra parte e non aveva segnalato un bel niente. Quindi, ecco l'accusa di calunnia, per aver addossato al volontario responsabilità non sue. Gli agenti hanno sequestrato negli uffici degli indagati in Comune documenti e materiale informatico. I verbali della ricostruzione sarebbero stati modificati collocando il momento dell'onda assassina alle 12.17, mentre in realtà sarebbe avvenuta alle 12.38.

C'è uno strano “fenomeno carsico”, per i corsi d'acqua che attraversano Genova, il capoluogo stretto stretto fra le colline e il mare. Piccoli corsi d'acqua naturali, che si chiamano Fereggiano, Cicala, Puggia, Vernazza, Noce. Ciascuno di questi (sono decine: basta un'occhiata su Google Map per rendersene conto) è, a sua volta, affluente di due dei torrenti “maggiori” che tagliano la città in senso longitudinale: Bisagno e Sturla. Appaiono e scompaiono, inghiottiti dalle convogliature realizzate negli scorsi decenni quando l'immagine di Genova mutò con l'aumento dei suoi abitanti.

Conosciamo, dunque, il pericolo latente che da decenni accompagna la vita quotidiana dei cittadini di questo lembo nord orientale di Genova. A un passo dal centro, ma dove il modo di vivere non è affatto “cittadino” nel senso più stretto del termine. Da poco più di 80 anni, infatti, l'area metropolitana di Genova è come la vediamo oggi. Marassi e Quezzi ne fanno parte dalla fine del XIX secolo, altri quartieri ne sono stati inglobati alla fine degli anni 20. E' chiaro che il tessuto urbano è, per questo, formato da diversi “borghi” ciascuno dei quali fa, sì, riferimento amministrativo al Municipio centrale. Tuttavia mantiene una certa “identità locale”. Quella identità peraltro stravolta da esigenze di edificazione spesso incontrollata dovute a un repentino aumento della popolazione che si è registrata nei decenni passati.

E qui ci allacciamo al discorso di partenza: chi controllò i controllori? Dov'erano i piani di bacino efficaci quando, dalla seconda metà degli anni '50 ai primi anni 70, il volto dell'immediata periferia di Genova mutò radicalmente aspetto? Evidentemente, le passate Giunte comunali non avevano tenuto conto della possibilità che le decine di corsi d'acqua minori che affettano Genova, un giorno, avrebbero potuto svegliasi, portando con loro conseguenze tragiche.

Oggi possiamo dire, ancora una volta, che le tragedie hanno sempre un nome e un cognome. E – fa molto male dirlo – è una identità tutta italiana. Il Fereggiano nasce... in campagna. Nelle colline di Quezzi, alle spalle del centro di Genova, dove l'abusivismo edilizio dei decenni passati non è riuscito ad arrivare per motivi squisitamente orografici, esiste una corona verde, fatta di boschi e sentieri. Fino all'abitato di Quezzi, infatti, il torrente non ha mai prodotto alcun effetto sulla popolazione.

Il problema si fa sentire – e vedere – quando il corso d'acqua attraversa i quartieri più a valle, quelli più abitati. Fino allo “strano fenomeno” della sua sparizione. E sì, perché sotto la massicciata della stazione Brignole, il Fereggiano confluice nel Bisagno, attraverso un “imbuto” da 500 metri cubi (un po' poco, come si è visto) che già fu responsabile, nell'ottobre 1970, della piena del Bisagno che fu una delle cause che provocarono 25 vittime.

Il 4 novembre 2011, il copione si è ripetuto, a 41 anni di distanza. L'”imbuto” ha respinto le acque, ha alzato il livello del torrente oltre gli argini e ha provocato un ostacolo contro il quale si è scontrato il rio Fereggiano. Per intenderci: ha creato un tappo, ha gonfiato il Fereggiano e ha provocato la tragedia.

Alfonso Bellini, il geologo incaricato di ricercare le cause da parte della Procura di Genova, ha evidenziato questa tesi. Ora è giusto che tutta Italia lo sappia: a un passo dal centro di Genova, decine di migliaia di cittadini vivono quotidianamente con una spada di Damocle sulla testa.

Non sta a noi trovarne le cause. A questo deve pensare la Magistratura. Possiamo, però, ricostruire una storia lunga 40 anni, e che origina da molto più lontano. La messa in sicurezza del Bisagno venne data per “prioritaria” in ambito nazionale già nel 1970 per la sicurezza dei cittadini. La presidenza del Consiglio di allora (primo ministro Emilio Colombo) incaricò Eugenio Gatto, ministro senza portafoglio per le Regioni, di indicare una mappatura delle cinque maggiori emergenze nazionali. Al primo posto vene indicata la messa in sicurezza dell'Arno (che aveva esondato solo quattro anni prima). Al secondo, proprio il Bisagno, la cui portata interrata, realizzata negli anni 30 sotto viale Brigate Partigiane (che taglia in due il quartiere della Foce e da Brignole porta al mare) venne giudicata insufficiente. Di più: sopra l'interratura, venne costruito un intero quartiere, che diminuì il già stretto passaggio sotterraneo del Bisagno di circa 30 metri.

Tutti gli anni 70, tutti gli anni 80 trascorrono fra progetti “di massima” e dibattiti. Diciotto anni durante i quali le idee non mancano: deviare il corso del torrente “a monte”, oppure creare nuove vie di fuga laterali per l'acqua; ma anche abbassare l'alveo del torrente, o ampliare la copertura per portarla ad almeno 800 metri cubi. Nel frattempo (siamo all'alba degli anni 90) si decide la realizzazione di un canale scolmatore per il rio Fereggiano. Nei primi anni 90, però, ecco una nuova doccia fredda: la Tangentopoli genovese porta allo scioglimento della Giunta comunale; presso un'ansa del Fereggiano, resta per anni immobile ciò che rimane del primo tratto di un cantiere lungo 900 metri. Le bocce restano ferme sino alla fine degli anni 90, con la decisione di procedere a un allargamento e di scavare l'alveo. Un'opera da completare in tre lotti. Completata la prima parte, con la seconda sono sorti alcuni problemi. I lavori, a rilento, subiscono un pauroso innalzamento dei costi: da 50 a 70 milioni di euro. E arriviamo ai giorni nostri. Il progetto esecutivo del terzo lotto (che arriva fino alla “famosa” confluenza del Fereggiano nel Bisagno) è approvato a giugno 2008 dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Il problema è economico, ora: il costo, infatti, è di 250 milioni di euro, che oggi sono già diventati 270. Il Ministero dell'Economia dice che non può garantire la totale copertura della somma indicata. Una parte delle opere, l'abbattimento di due antiche palazzine costruite – roba di più di 150 anni fa – sull'argine del Fereggiano, e una prima copertura, viene completata. Ma, per il momento, la storia si ferma qui.

Innocenti, la strage degli innocenti. Questo è l’urlo che esce dalla pancia ferita, allagata, distrutta, sommersa della città di Genova nella livida mattina dopo, quando ancora si alza lo sguardo verso un cielo nero grigio e verso le distruzioni che sono a terra, tra i due fiumi assassini, il Bisagno e il Fereggiano. Sono morte innocenti Djala Shiprese, albanese, 35 anni e le sue bimbe Gioia di 8 anni e Janissa di 11 mesi, Serena Costa, di 19 anni che ha salvato il fratellino ed è stata inghiottita dalle onde di fango, Angela Chiaramonte di 41 anni e Evelina Pietranera di 51 anni, che aveva appena dato il cambio al marito nell’edicola della maledetta via Fereggiano. Morti o meglio morte innocenti, donne, ragazze, bimbe, infanti, femmine in una città al femminile che andavano a scuola o tornavano in una mattinata impossibile o come l’edicolante lavoravano in una strada che stava per diventare un fiume spaventoso, un Rio delle Amazzoni scatenato, ma non nella foresta pluviale, in mezzo a un quartiere ultracementificato con le auto posteggiate pronte ad essere trascinate dalla corrente e a diventare proiettili assassini. Non dovevano essere lì, non dovevano uscire di casa, non dovevano stare nell’epicentro di una tragedia climatica epocale, a decine di metri dal corso di un rio-fiume-torrente che stava per centuplicare la sua portata di secchezza storica, di siccità perfino irridente. Chi lo controllava quel fereggiano, fino dove sono saliti a controllarlo, fino a dove hanno misurato la pienezza del suo corso gonfiato di quattro metri in un quarto d’ora, con quali trombe hanno urlato a valle che stava per esplodere? Era un fiume studiato, radiografato, perfino finito in una clamorosa inchiesta giudiziaria di Tangentopoli nella quale alcuni politici si erano spartiti una maxitorta per costruire il suo scolmatore, che avrebbe deviato la corsa assassina, la piena improvvisa, l’imprevedibilità monsonica, invocata con voce di pianto dalla signora sindaco Marta Vincenzi. (...) Un'accusa che comunque Marta Vincenzi offre alla procura che sta indagando e che probabilmente, oltre agli architetti «fascisti» che coprirono il Bisagno, sarà costretta a pensare anche a qualche altro corresponsabile. «Sarà la magistratura a dire se hanno colpa coloro che non hanno deciso di fare certi interventi piuttosto che altri - spiega alla radio, sempre rivolgendosi a terzi -. Io mi assumo tutte le responsabilità (non le colpe) e non accuso nessuno, ma ricorderemo ai cittadini che c'è un organismo che decide sulle misure da prendere ed è composto dalla prefettura, dalla protezione civile e da tutti i soggetti che hanno un ruolo». Quindi, le misure da adottare sono compito di un comitato composto da persone di cui è facile individuare i nomi e che alla voce «soggetti che hanno un ruolo» non esclude altri enti locali, in primis proprio la Regione Liguria del compagno/nemico Claudio Burlando.

Insomma, chi ha deciso di non chiudere le scuole, non è la sindaco.

Che tutt'alpiù si rimprovera di non aver insistito. «Col senno del poi, mi sento di dire che avrei dovuto pretendere di tenere chiuse le scuole - spiega la sindaca -. Ma anzi, non solo tutte le scuole, ma anche molte parti della città. Ma il senno del poi non aiuta». Quel senno del poi che, secondo Vincenzi, avrebbero fatto fruttare al meglio i congiurati, che altro non aspettavano che una bella alluvione per criticarla un po'. I media in prima fila, visto che alle domande di «Radio24», la sindaca ha risposto con una domanda: «Perchè non chiedete le dimissioni degli altri sindaci dei Comuni colpiti? - ha perso i freni inibitori -. È stata fatta passare dall'inizio un'informazione sbagliata dei mezzi di informazione, nella quale si diceva: il sindaco di Genova ha deciso così perchè aveva paura di decidere». Poi la stoccata agli altri congiurati, ai presunti amici. Anzi, compagni. «C'è stata una volontà forse latente da tempo da parte di molti di cogliere l'occasione per evidenziare un problema politico - completa la formulazione della tesi del complotto -. In questa città sono mesi che si parla di primarie. È stata una ghiotta occasione. Io non voglio accusare nessuno, voglio che si faccia tesoro della limitatezza delle informazioni, della tecnologia e degli strumenti che abbiamo per difenderci». Insomma, anche Protezione civile e Arpal hanno fatto una figuraccia perchè non ci hanno capito granchè. Ma soprattutto il 4 novembre sono state le Idi di marzo genovesi. Tutti pronti ad accoltellare la povera dittatora.

Tesi curiosa. Che si pensava potesse essere, per l'ennesima volta, smentita qualche ora dopo l'intervista in diretta. Alle 17, nel salone di rappresentanza di Palazzo Tursi, era stata convocata una conferenza stampa della giunta. Ma Marta Vincenzi non c'era. Cioè, c'era, ma era nell'ufficio accanto, separata da un muro e dalla porta a vetri del suo studio. Inutile attendere un faccia a faccia con lei. Silenzi, ipotesi di chiarimenti, rinvii. Tutto vano. La signora sindaco non ha ritenuto di chiarire ulteriormente i suoi sospetti in merito al complotto. Al termine dell'attesa, ha preferito affidare alla sua portavoce l'ingrato compito di non smentire nè confermare. «La sindaco, a precise domande, ha risposto chiedendosi a voce alta perchè tutta questa attenzione sia stata concentrata solo verso di lei - spiega la portavoce -. E se non ci siano altri motivi di tipo politico, visto che siamo a pochi mesi dalle elezioni». Domande? Accuse. Precise. Ai congiurati del Pd e a quanti mettono a loro disposizione gli organi di informazione. «Ognuno di noi si assuma le proprie responsabilità, remote e recenti. Ognuno si renda conto di quanto sia opportuno e importante compiere bene il proprio dovere. Prendiamo insegnamento da questa morte. Queste morti, che non potranno mai essere cancellate o dimenticate, diventino per noi motivo di riflessione». Le parole di padre Francesco Lia rimbombano nella chiesa di Santa Margherita, a Marassi, affollata da centinaia di genovesi che si sono fermati per salutare Angela Chiaromonte, una delle sei vittime di via Fereggiano. Le parole del sacerdote rimbombano anche su Paolo Pissarello, il vice sindaco presente, pur se un po' defilato, ai funerali in rappresentanza di un'amministrazione comunale sotto accusa.

«Ognuno di noi», dice Padre Francesco. A sottolineare che le colpe ci sono, e probabilmente sono molteplici. Colpe che stridono ancor più di fronte all'atto di eroismo, «di generosità, di maternità» che ha spinto Angela Chiaromonte verso la morte. «Si è spenta sapendo che il figlio Domenico era in salvo», ha sussurrato il parroco. E ancor più commoventi sono state proprio le parole di Domenico, il figlio che era andata a prendere a scuola: «Mia madre è stata un eroe perchè è morta per salvare me. Era una persona fantastica. Tutti e quattro eravamo una squadra. Lo saremo ancora». Un lungo applauso. E padre Francesco che non lascia cadere nel vuoto queste parole: «Quando ci siamo visti sabato sera mi avete detto che in quattro eravate una potenza - regala un pensiero di speranza il sacerdote -. Continuerete ad essere in quattro, ad essere una potenza perchè la mamma non vi abbandonerà mai. La mamma sarà ancora accanto a voi, vi dirà di studiare di più, di comportarvi bene, sarà lì la sera a darvi il bacio della buona notte. Mi piace vedere questa morte come un atto estremo di generosità che continuerà a crescere e a orientarci a quei valori eterni che nessuno potrà strapparci».

Valori che, se qualcuno avesse avuto ancora dei dubbi, aveva pensato a esaltare poco prima anche Stefano, il figlio maggiore. Diciotto anni appena. Il ragazzo, davanti alla bara della mamma, ha pensato a «ringraziare gli amici e tutti coloro che ci stanno dando una mano». Vicino al papà, Bernardo Sanfilippo, c'erano i colleghi della polizia penitenziaria di Marassi, come il cappellano del carcere che ha concelebrato le esequie. C'erano i compagni di scuola dei ragazzi, gli amici del calcio. Ma anche tanti ragazzi col fango sugli stivali e sui vestiti, tanti volontari che hanno interrotto per un momento il loro prezioso lavoro per stare accanto alle vittime di questa alluvione. La folla di persone ha riempito la chiesa, ma anche il piccolo sagrato. Una folla composta che ha voluto far sentire la propria presenza. Perchè i funerali di Angela Chiaromonti, la prima vittima per la quale sono state celebrate le esequie, hanno rappresentato tutto quello che prova adesso la città. Sofferenza, altruismo, forza d'animo, coraggio, amore e rabbia. E una domanda, lasciata cadere dal pulpito da padre Francesco: «Perchè? Il nostro quartiere fa fatica a capire».

Alluvione a Genova, scatta il rimpallo delle responsabilità per la manutenzione dei fiumi, secondo “Il Fatto Quotidiano”. Mancano 400 milioni per "imbrigliare" il Bisagno con la costruzione di un canale scolmatore. Se ne parla dagli anni '70, ma le competenze sono divise tra una miriade di enti. Grillo attacca il Capo dello Stato: "Ha detto capire le cause. La causa è una classe politica di cui Napolitano fa parte" Lo dice la parola stessa: la piena cinquantennale dovrebbe arrivare una volta ogni mezzo secolo. Invece il Bisagno ne ha regalate tre in quarant’anni. Il Bisagno per Genova è come il Vesuvio per Napoli, una bomba pronta a esplodere intorno a cui, follemente (ma con le approvazioni delle autorità) è cresciuta la città. Il fiume oggi, dopo gli ultimi interventi, può reggere 710 metri cubi d’acqua al secondo. Le piene più devastanti ne portano 1. 300. I seicento di troppo devastano la città. Uccidono.

Ecco la bomba del Bisagno e del Fereggiano che è esplosa. E adesso tutti a Genova temono di restare con il cerino in mano. La posta in gioco è alta. C’è in ballo anche la guida della città e della regione. Così in molti hanno cominciato a puntare il dito contro Marta Vincenzi. Un po’, forse, perché il sindaco è il parafulmini. Non solo: siamo alla vigilia delle elezioni, Vincenzi è sola. Di fronte ha il centrodestra, alle spalle una parte del suo centrosinistra, che sarebbe lieto di togliersela dai piedi. Poi Vincenzi ci ha messo del suo, con le dichiarazioni della prima ora: “Se qualcosa abbiamo sbagliato, è stata la scelta di fare poco terrorismo”. Ancora: “Non mi sento responsabile. I genovesi devono capire che l’allerta 2 è una cosa seria”. Le scuole aperte? “Pensate se i bambini fossero stati in giro per la città invece che in luoghi sicuri”. Nessun mea culpa. Così gli abitanti della val Bisagno l’hanno contestata. A Genova qualcosa non ha funzionato: le scuole erano aperte. All’una, quando il Bisagno e il Fereggiano hanno invaso il centro, c’erano migliaia di ragazzi per strada. A Brignole il traffico era congestionato come in un giorno qualsiasi. Se il Bisagno fosse esploso come nel 1970 oggi conteremmo decine di morti. Ma la tragedia del Bisagno, e l’alluvione di polemiche che in Italia segue sempre quella di fango, ci raccontano altro. Dalle nostre parti la matematica è un’opinione. È vero, c’è la crisi, ma per il Ponte sullo Stretto targato Berlusconi sono previsti 10 miliardi. Per l’autostrada Mestre-Civitavecchia, cara al centrosinistra, siamo oltre i 15 miliardi. Mentre a Genova mancano 400 milioni per imbrigliare il Bisagno, un torrente d’estate invisibile che in autunno si ricorda di essere un fiume.

Così si fanno i risparmi in Italia: “Le alluvioni dal 1945 al 1970 sono costate molto più di quanto sarebbe stato necessario per mettere in sicurezza il fiume”, assicura Paolo Tizzoni, dirigente Area Sviluppo Urbanistico del Comune. E non contiamo le alluvioni dei primi anni Novanta e quella di venerdì. Insomma, se si fosse intervenuti per tempo, si sarebbero risparmiati centinaia di milioni. Senza contare le vite umane: più di trenta dal 1970 a oggi. Ma i morti non entrano nei bilanci dello Stato.

LA STORIA del Bisagno dice molto dello spirito con cui si affrontano – o meglio, non si affrontano – le emergenze in Italia: soldi cacciati al vento, opere lasciate a metà, interventi tampone, competenze divise tra una miriade di enti. E morti. A Genova la parola magica è “scolmatore”, l’opera che risolverebbe la questione. In pratica è una bretella che raccoglierebbe 450 metri cubi d’acqua del fiume e li devierebbe altrove. Se ne parla dagli anni Settanta, è stata avviata, poi lasciata a metà, con un seguito di inchieste giudiziarie. Poi ripresa nel 1998, ma mancano i fondi. A chi tocca, però, curare i fiumi liguri che si trasformano in killer ogni autunno, dal Vara al Magra, passando per il Bisagno? “La legge è un labirinto”, allarga le braccia Sebastiano Sciortino, assessore all’Ambiente della Provincia di Genova. “La parte alta dei fiumi toccherebbe alla Provincia, quella bassa a Regione e Comuni. E poi ci sono anche i frontalisti”. Cioè? “Gli abitanti”. Sembra fatto apposta per perdersi. Così nello stesso ente c’è un assessore che parla di investimenti per 160 milioni e un altro che si limita a 10. Ma che cosa è stato fatto davvero? Mario Margini, assessore ai Lavori Pubblici del Comune, mostra i suoi dati: “Per l’assetto idrogeologico abbiamo lavori in corso per 132 milioni. La nostra Giunta ha ultimato cantieri per 81 milioni”. Ma il Bisagno e il Fereggiano? “Sono stati oggetto di importanti e recenti interventi”, ha assicurato Claudio Burlando, presidente della Regione. Già, interventi alla foce e a monte. Sono stati abbattuti palazzi che rischiavano di formare una diga in caso di alluvione. Lo scolmatore è stato approvato, ma resta al palo.

E LA PULIZIA del fiume? “Dire che l’alluvione è stata provocata dalla sporcizia è una fesseria”, è perentorio Margini. Aggiunge: “I rivi erano stati appena puliti”. Gli abitanti della Val Bisagno non sono tutti d’accordo: “C’erano tronchi e rifiuti di ogni genere”. Una cosa è certa: i soldi sono pochi. “Noi ce la mettiamo tutta. Per la pulizia dei fiumi abbiamo stanziato circa due milioni l’anno”, racconta Paolo Perfigli, assessore alla Pianificazione di Bacino della Provincia. Pochi soldi, tante polemiche. Spesso nessun responsabile.

Il presidente Giorgio Napolitano ieri ha sollecitato chiarezza: “Cerchiamo ancora di capire quali siano state le cause della tragedia”. Beppe Grillo, che è originario dei quartieri alluvionati, è duro: “L’Italia del fango sta mostrando il suo ghigno. Il cittadino è solo. L’Italia del cemento lo sta seppellendo vivo. Non c’è governo, non c’è opposizione, ma un comitato di affari che si spartisce il Paese. Oggi mi sento impotente, la distruzione di Genova era annunciata. Ho visto la mia città trasformata in fanghiglia”. Poi un attacco a Napolitano: “Ha detto su Genova ‘ Capire le cause! ’. La causa è una classe politica di cui Napolitano fa parte da 66 anni”. Ma non c’è solo il Bisagno. Manuela Cappello, consigliere comunale (Gruppo Misto) e il Wwf lanciano altri allarmi: “La Regione Liguria ha ridotto il limite previsto per le nuove costruzioni lungo i fiumi. Erano dieci metri, adesso sono tre. Si rischiano nuovi disastri”.

La Liguria continua a crescere intorno al suo Vesuvio. In attesa che esploda ancora. «Ma si rende conto in che città viviamo e cos’è questo palazzo? Un Soviet. Si sono portati dentro le loro truppe cammellate del Pd e dell’Idv e a noi ci hanno lasciato fuori». Alle 15.50 il cortile di Palazzo Tursi, sede del Comune di Genova, si trasforma in un’arena politica dove esplode tutta la rabbia dei genovesi venuti qui per assistere al consiglio più atteso degli ultimi anni, con il resoconto del sindaco Marta Vincenzi sull’alluvione del 4 novembre 2011. Rappresentanti politici dell’opposizione, come ovvio, esponenti di movimenti cittadini, ma anche gente comune che dopo aver pianto le sei vittime, chiedeva soltanto di poter guardare in faccia il sindaco mentre parlava della tragedia. O esprimere il proprio dissenso, senza accontentarsi delle immagini trasmesse da due schermi allestiti all’esterno della Sala Rossa. Invece non accade nulla di tutto questo e ciò che doveva essere un confronto tra la giunta e la cittadinanza, al termine della prolusione della Vincenzi si trasforma in un’ovazione da stadio con due minuti di applausi. Tutti per Marta, s’intende. «Siamo arrivati alle 13.30 come ci era stato detto, ma nei banchi riservati al pubblico c’erano già i supporter del sindaco». Questo dice Davide Rossi a “Il Giornale”. Davide Rossi è il capogruppo della Lega in uno dei nove municipi cittadini. Lui, come altri contestatori, si era presentato in Comune per chiedere le dimissioni del sindaco e della giunta. Ma è troppo tardi, quantomeno per riuscire ad aprirsi un varco tra la claque di sinistra che staziona lì da un po’. Alcuni dei «dissidenti» superano i controlli di un Municipio «militarizzato», e occupano i pochissimi posti rimasti vuoti. Una decina. «Appena ci siamo seduti, ci hanno detto di uscire. Ci hanno insultato: “Coglioni, cretini, andatevene via, cosa ci fate qui” - sbotta Maurizio Gregorini del Movimento Civico Merito -. Cercavano la rissa e a quel punto cosa fai? Ti sbattono i giornali della sinistra in faccia, ce ne siamo andati. Abbiamo alzato dei bigliettini con la scritta “Non sei il mio sindaco”, i vigili ci hanno chiesto i documenti, neanche fossimo dei pericolosi sovversivi». Mentre dentro la Sala Rossa la Vincenzi passeggia in abito nero come a portare ancora il lutto per i morti dell’alluvione, pronta per iniziare il suo lungo, lunghissimo discorso. Quarantacinque minuti di monologo di fronte alla sua giunta e ai consiglieri comunali, senza che venga pronunciata la parola «scusa». Mai. Nemmeno quando con una meticolosità che forse avrebbe dovuto applicare la settimana prima, ripercorre minuto per minuto la cronaca di un disastro. Annunciato per tutti, ma non per lei. «Dalle previsioni meteo non si poteva prefigurare un evento così straordinario da essere definito “tempesta tropicale”» si ostina a ripetere, scaricando le responsabilità sull’Arpal e rimettendo alla magistratura il compito di appurare eventuali responsabilità. Peccato che poco dopo arrivi la smentita: «L’allerta 2, come ormai noto anche ai non tecnici, prevede esondazioni, frane ed elevato rischio per l’incolumità di persone e danni alle cose - precisa l’Arpal - e connota eventi di natura eccezionale». Ma poco conta, perché lei è sicura di aver dalla sua una platea docile e amica. «Dipendenti comunali di provata fede, mentre i cittadini della Val Bisagno sono rimasti fuori. Una vergogna», avrà il coraggio di dirle in faccia, Gianni Bernabò Brea, consigliere d’opposizione. Mentre fuori si scatena la protesta. Giura Gregorini che loro «son persone civili. Ma da oggi basta, è guerra». Un signore accanto a lui scalpita. Ha una rabbia dentro...«Questi sono bulgari, fascisti rossi. E la pietas non sanno nemmeno cosa sia». 

Quindici, diciotto, venti, trent'anni, le mani e i vestiti sporchi di fango, ma i volti sorridenti, di chi sa di dare un aiuto al prossimo. Sono loro gli Angeli del Fango, la meglio gioventù, che dal giorno seguente all'alluvione che ha scosso Genova, è scesa in quelle strade, luogo dell'inferno, per farle rinascere dalle proprie ceneri. «Non si dica più che siamo una generazione che non ha voglia di fare niente, che siamo dei bamboccioni - dice Carola, 27 anni, attrice e precaria - «in questi giorni tantissimi ragazzi sono venuti a dare una mano. C'è ancora tanto da fare, ma noi ci siamo». A pochi giorni dal disastro, ancora la città ne porta i segni: supermercati distrutti, negozi e officine invase dal fango, con cataste di roba inutilizzabili, da buttare. In mezzo allo sfacelo, gli angeli si danno da fare, instancabili e operosi, con la forza e la voglia di vivere propria della gioventù. «È rinfrancante vedere tanti giovani che si prodigano per aiutare la città» dice Carlo, 21 anni, che insieme a Paolo, Giulia e Nadia ha appena finito di pulire uno scantinato in via Smirne e un negozio di via Ferregiano. «È un'esperienza molto formativa sia dal punto di vista personale, che collettivo» aggiunge Paolo, 33 anni, che abita in piazza Martinez e si è schierato tra i volontari fin dal primo giorno. Tra un lavoro e l'altro anche i ragazzi prendono un momento di pausa. Qualcuno mangia un panino in strada per ripartire subito, ma per chi vuole, il circolo Pd di Marassi offre un pasto caldo. In cucina c'è Piero, cuoco da quarant'anni, che si è offerto di preparare il pranzo ai i ragazzi: «Oggi ci sono maccheroni al forno, una frittata con ripieno e un po' di focaccia. C'è ancora così tanto da fare qui intorno e l'unica cosa che rincuora sono i ragazzi». Anche gli abitanti ringraziano gli angeli: «Grazie» recita un manifesto appeso su uno dei portoni di via Fereggiano. «Siamo contenti di rimettere a posto la nostra città» ci dice un gruppo di studenti dell'istituto Meucci, ancora chiuso per i danni provocati dall'alluvione. «Noi abbiamo iniziato oggi» raccontano Chiara Letizia e Sara, tre studentesse diciottenni dell'istituto Montale «è bello vedere che tutti danno una mano». Un po' più in là, un altro gruppo di studenti ci racconta la giornata tra il fango: «Oggi abbiamo ripulito un'officina di automobili in corso Sardegna. Sono quattro giorni che puliamo e domani verremo di nuovo. Piano piano si cerca di tornare a come era prima, alla normalità. Sembra che le cose stiano migliorando. La nostra scuola, il Liceo King, è ancora chiuso, ma dobbiamo ringraziare i nostri professori, che ci hanno coordinato in quest'attività» dice un gruppo di studenti diciottenni, prima di salutarci e di tornare al lavoro, tra uno schizzo di fango e un sorriso. «Vorrei che Genova ripartisse da qui - dice Ilenia, 23 anni - «non perché la tragedia sia dimenticata, ma perché si capisca che se ci si dà una mano, si possono fare tante cose, anche rimettere in piedi una città».

Poi una denuncia viene dal “Il Giornale”. Tatticamente magari è anche una mossa astuta. Perchè in questi giorni gli angeli del fango pensano a ripulire Genova, chi ha perso tutto non guarda certo a cosa approva il consiglio regionale, e tutta Italia punta l'indice accusatorio sul sindaco Marta Vincenzi. Dovendolo, anzi volendolo fare, dal punto di vista puramente politico è persino il momento ideale. E così Claudio Burlando, presidente della Regione Liguria, ha deciso di farlo subito, 11 giorni dopo la devastazione di Genova: dimezzare i fondi per il «Piano regionale per la difesa del suolo», togliendo altri 400mila euro dal capitolo «Interventi inerenti la difesa del suolo e la tutela delle risorse idriche». Che un anno prima era già passato da 2 a 1 milione di euro. E che nel luglio 2011, quattro mesi prima dell'alluvione, era stato già ridotto a 700mila euro. Soldi, per essere subito chiari, totalmente «discrezionali», cioè che la Regione poteva mantenere perchè non collegati ai risparmi imposti dal governo, che riguardano un altro capitolo.

Ciò nonostante il governatore chiederà al consiglio regionale di votare il taglio di risorse destinate alla sicurezza dei liguri minacciati dal rischio di nuove esondazioni. Lui, che da sette anni è anche il Commissario straordinario delegato alla messa in sicurezza del rio Fereggiano (quello che ha provocato la catastrofe), chiede di risparmiare laddove bisognerebbe spendere semmai di più per ridurre il rischio idrogeologico. Una scelta tutta politica, perchè contemporaneamente Burlando proporrà di spendere invece tanti soldi in più per altre iniziative. Quali? L'«affermazione dei valori della Resistenza», ad esempio, che sarà garantita grazie a iniziative della Regione, per le quali usciranno 100mila euro in più. Per non scontentare troppo l'opposizione, ci saranno anche 50mila euro per la «memoria dei giuliano-dalmati». E poi via con elargizioni ad «associazioni che svolgono attività di interesse regionale» e maggiori costi di missione, spese di viaggio e rimborsi agli assessori. Botte da decine di migliaia di euro a capitolo. Spiccioli? «Macchè - interviene duramente Raffaella Della Bianca, consigliere regionale del Pdl, che alla lettura del pacchetto di variazioni al bilancio ha avuto una reazione sdegnata - Intanto va detto che in questo momento anche un solo euro tolto a questa emergenza sarebbe una follia. Bisogna ragionare come un padre di famiglia. Prima di andare al cinema, occorre pensare a mettere insieme pranzo e cena per i figli. Ma soprattutto, con quale spirito, proprio adesso, Burlando risparmia su certe cose?». Non solo. Anche andando a vedere bene i bilanci, le variazioni avvenute nel corso dell'anno 2011 dimostrano come la Regione Liguria faccia finta di tirare la cinghia, ma poi su certe spese si lasci subito andare appena l'attenzione svanisce un po'. «Sul bilancio di previsione 2011, un anno prima Burlando disse di risparmiare 30mila euro sulle indennità di missione della giunta - snocciola le cifre Della Bianca - Già a luglio però ne aveva riaggiunti 20mila, e aumenteranno di altri 15mila. Alle associazioni che stavolta ottengono 38mila euro in più, un anno prima in fase di previsione, erano stati ridotti fondi per 20mila euro, reintegrati però a luglio di ben 50mila. In totale ne prenderanno 68mila in più». Mentre Genova andava sott'acqua la quinta commissione regionale stanziava 7.000 euro in più per «corsi di attività velica d'altura». Le coincidenze a volte sono capaci di aggravare il cattivo gusto.

PARLIAMO DI PEDOFILIA.

L’inchiesta di Elena Affinito, Giorgio Ragnoli e Marco Preve su “La Repubblica”. Pedofilia, soldi, potere e omissioni. La tragedia della diocesi di Savona. Superando dolore e vergogna Francesco Zanardi, molestato da ragazzo, ha portato allo scoperto una catena di scandali. Denunciandoli sul suo blog e anche con volantini distribuiti in piazza. Per la magistratura i vertici della Curia non hanno pensato a tutelare i minori ma solo a "salvaguardare l'immagine della diocesi". Quella lettera a Ratzinger, prima che diventasse Papa. Per raccontare il trauma inferto a un'intera comunità da alcuni casi disvelati di pedofilia commessi da sacerdoti e da almeno altri cento che resteranno per sempre sepolti nel cuore di giovani vittime oggi adulte, è giusto partire da quattro righe scritte dal giudice Fiorenza Giorgi in un'ordinanza di archiviazione che, moralmente, è impietosa come una ghigliottina. "È triste dire come la sola preoccupazione dei vertici della curia fosse quella di salvaguardare l'immagine della Diocesi, piuttosto che la salute fisica e psichica dei minori che erano affidati ai sacerdoti della medesima". La diocesi è quella di Savona. Uno degli uomini di quella curia, è oggi uno dei cardinali più potenti della Chiesa, monsignor Domenico Calcagno, già responsabile degli affari economici della Cei, poi ai vertici dell'Apsa, l'amministrazione che cura il patrimonio immobiliare del Vaticano e oggi nella Commissione di controllo dello Ior. In politica qualcuno avrebbe potuto ritenerlo un impresentabile per le elezioni. Ed è così che lo definisce l'associazione l'Abuso, che ha lanciato un appello perché non faccia parte del conclave. Se questa storia dove gli abusi si mescolano agli affari, ai soldi e al potere, si può oggi raccontare, il merito va riconosciuto in primis a Francesco Zanardi, 43 anni, molestato quando era ragazzo dal suo parroco, don Nello Giraudo. Francesco riesce a superare la vergogna, il dolore, il rischio di essere additato come un folle, e a molti anni di distanza dalle violenze subite, le denuncia. È un fiume in piena che conosce molti segreti della curia savonese. E li racconta: sui blog, sui volantini distribuiti in piazza, ma anche a palazzo di giustizia. Il procuratore Francantonio Granero e il pm Giovanni Battista Ferro per tre anni affronteranno una prova umana, ancor prima che professionale, pesante, insana. Dentro l'inchiesta, ma non necessariamente dentro le carte, ci sono 32 anni di una vicenda sconvolgente per una città di provincia come Savona, 60 mila abitanti, un porto, tante ex industrie, il commercio, buona qualità della vita, un elettorato da sempre schierato a sinistra. Alcuni sacerdoti pedofili hanno approfittato del loro ruolo all'interno di gruppi scout, ma anche di case di accoglienza e centri in cui i minori avrebbero dovuto essere ancor più tutelati, per abusare ripetutamente di bambini e adolescenti. Persone che oggi sono padri di famiglia, liberi professionisti, operai, impiegati, uomini delle istituzioni. E nessuno ha dimenticato. Fin dall'inizio la devianza di quei sacerdoti malati è nota agli altri preti della diocesi e alle gerarchie. Ma ognuno di loro, però, sembra avere a sua volta qualcosa da nascondere o proteggere, chi l'omosessualità (anche se non pedofila), chi la scalata al potere. Don Carlo Rebagliati è uno di loro. Pochi mesi fa, prima della sua morte, in un'intervista a Repubblica raccontava la sua vita da omosessuale, i suoi tanti amori sempre ipocritamente "non visti" dai vescovi, la sieropositività. Ed è lui che dopo tanti anni fornisce con la sua testimonianza il supporto di cui hanno bisogno gli investigatori per trovare conferma alle accuse di Zanardi. Oltre a don Rebagliati, che verrà poi emarginato dalla sua chiesa anche perché, lui che ne fu a lungo economo, racconterà situazioni poco chiare riguardanti la gestione finanziaria della diocesi (sulle quali c'è un altro filone d'inchiesta ancora aperto), decidono di parlare anche altri religiosi come don Bof e don Lupino. Ognuno con la propria sofferenza, con il proprio disagio. Emergono così le coperture date a don Barbacini, insegnante al liceo classico Chiabrera, già condannato una decina di anni fa per episodi analoghi, ma arrivano anche nuove testimonianze. E alla fine anche don Nello Giraudo, nel frattempo ridotto allo stato laicale ma accolto in un convento in qualità di cuoco e factotum, verrà condannato. Lui che abusò di Zanardi quando era poco più che bambino, patteggia un anno per l'unico episodio che la Procura riesce a salvare dalla prescrizione. Tre vescovi finiscono nel mirino, i monsignori Sanguineti, Lafranconi e Calcagno che si sono succeduti a cavallo tra la fine degli anni 90 e il decennio successivo. Lafranconi finisce indagato ma, causa prescrizione, il gip Giorgi lo archivia pur definendo il suo comportamento "assolutamente omissivo". Quasi tutti, ai vertici della curia savonese, sapevano delle violenze di don Giraudo, ma quasi tutti si giravano dall'altra parte. E anche chi fece qualcosa si mosse, secondo il gip Giorgi, solo per convenienza. È il caso di monsignor Calcagno: "Le prime iniziative dirette a tutelare la comunità dei fedeli furono assunte, sia pure a malincuore come dimostra la corrispondenza con la congregazione per la dottrina della fede, soltanto dal suo (di Lafranconi, ndr) successore monsignor Calcagno che impose a Giraudo la chiusura della comunità e, nel trasferirlo ad altro incarico, dispose che non avesse contatti con i minori". La corrispondenza cui si riferisce il giudice è il retroscena forse più destabilizzante per il Vaticano. L'8 settembre del 2003 il vescovo Calcagno scrive al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinal Joseph Ratzinger per informarlo con una lettera accompagnata da un voluminoso fascicolo del caso di don Giraudo, dello spostamento che ha deciso per ragioni di opportunità e del desiderio del prete pedofilo di continuare "un impegno pastorale". Calcagno aggiunge che "Per quanto possibile intendo evitare che abbia comunque responsabilità che lo mettano a contatto di bambini o adolescenti". Per quanto possibile. Come dire, facciamo quel che possiamo. Non si conosce l'eventuale risposta del futuro Papa. I prelati che successivamente confermeranno di aver saputo delle tendenze di Giraudo spiegheranno di essere stati essi a conoscenza durante la confessione e quindi di essere tenuti al segreto. Nel fascicolo inviato a Ratzinger c'era anche una relazione del 22 agosto, siglata dal vicario generale della diocesi monsignor Andrea Giusto nella quale, dopo aver spiegato che don Giraudo si era affidato alle cure "di un religioso psicologo nel tentativo di ritrovare un migliore equilibrio" specificava come "nulla è trapelato sui giornali e non ci sono denunce in corso". La Diocesi e il Vaticano potevano stare tranquilli. "In dieci ore di interrogatorio ho parlato tre minuti della pedofilia, loro volevano sapere cose amministrative. C'è lo Ior dietro. Ho perso tutto, sinceramente adesso ho anche paura'' Don Carlo Rebalgliati parlando con Francesco Zanardi, vittima e fondatore di Rete Abuso, fa trapelare tutte le sue preoccupazioni. Il sacerdote aveva testimoniato sui casi di pedofilia alla magistratura ed è stato poi screditato ed emarginato. Francesco Zanardi, vittima di un prete pedofilo negli anni ottanta e fondatore di "Rete Abuso", racconta il suo vissuto di abusi, e il modo in cui sono stati coperti i casi di pedofilia avvenuti nella diocesi di Savona. "In tutte le lettere dei vescovi scritte al Vaticano, nelle risposte, non c'è mai un solo accenno di come aiutare le vittime".

Nel 2004, mentre Domenico Calcagno è vescovo della diocesi di Savona - Noli, un reporter del Dallas News fotografa in una parrochia di Albissola Marina Yusaf Dominic, un prete di origine pachistana ricercato per abusi sessuali su minori, mentre celebra la messa domenicale.Dominic era stato arrestato nel 1996 a Londra per pedofilia e successivamente rilasciato su cauzione. Una volta libero il prete scappa e dopo otto anni di latitanza viene pizzicato in Liguria. Successivamente il prete viene trasferito dal vescovo nell’abbazia benedettina di Finalpia, complesso monastico che si trova di fronte alla scuola elementare di Finale Ligure, dove rimane fino al 6 dicembre 2009, giorno della sua presunta morte. Una nuova vicenda di abusi su giovani riporta ai tempi del seminario. E mette sotto accusa don Piero Pinetto colpevole di aver rovinato la vita di un giovane seminarista poi morto di Hiv a 39 anni. Il parroco di Lavagnola accusa i vertici della diocesi: "Hanno sempre scelto di mettere a tacere tutto senza curarsi delle vittime. L'hanno fatto per salvarsi. Ora è tempo che chi è ancora vivo parli e chieda scusa". Mentre esplode la vicenda dei preti pedofili e dei misteri della diocesi di Savona, nel capoluogo ligure si sparge la notizia che un'altra vittima ha denunciato un prete pedofilo consegnando una lettera a don Giovanni Lupino, parroco di San Dalmazio in Lavagnola. Nella lettera la vittima racconta le violenze subite in seminario quarant'anni fa da un prete, l'allora vice rettore don Pietro Pinetto, già segnalato come molestatore al vescovo nel 2010 per reati ormai prescritti. Al telefono Don Lupino è un fiume in piena, le nuove accuse a don Pinetto squarciano il velo con cui le gerarchie ecclesiastiche hanno coperto decenni di abusi. La famiglia della vittima all'epoca aveva avvisato il rettore del seminario don Giusto e il vescovo Sibilla che promisero provvedimenti mai presi. Don Pinetto, ci racconta don Lupino, non è un prete qualsiasi, appartiene all'ala forte che occupava posizioni di spicco nel clero savonese, i preti eletti delle prime file che concelebravano i pontificali del vescovo. A loro venivano affidati i giovani parroci che manifestavano le prime devianze pedofile per essere redenti, come don Nello che, in crisi, fu affidato a don Pinetto. E don Lupino va anche oltre, descrivendo gli intrecci di potere della diocesi di Savona e delineando un quadro che vede un gruppo di potenti prelati che nasconde crimini gravissimi per coprire i propri membri, mentre intere generazioni di vittime vengono condannate all'emarginazione. Alessandro Nicolich è stato una di queste vittime: entrò giovanissimo in seminario, i familiari erano ammirati dalla sua vocazione. Una notte Alessandro scappa dalla finestra e disperato si presenta dai genitori. Negli anni il dramma delle violenze verrà fuori, ma Alessandro è ormai un'anima persa. Incontrerà la droga, finirà in carcere, contrarrà l'Hiv e morirà a soli 39 anni. Il fratello Roberto racconta: " Per noi è stata una sciagura dalla quale non ci siamo mai ripresi".

Don Lupino, cosa avveniva in seminario negli anni '70? "In quegli anni nel seminario di Savona insegnava Don Giampiero Bof, professore di teologia dogmatica, un sacerdote molto aperto che, insieme a un gruppo di studenti, tra cui c'ero anch'io, cercava di portare aria nuova nella Chiesa mettendo in discussione questioni come il celibato e la sessualità, la formazione teologica e quella spirituale. Don Bof si scontrò con il rettore e con i professori più conservatori. Ricordo che il vescovo di allora, monsignor Sibilla, mi convocava per chiedermi cosa pensavo dell'autorità dei vescovi e del Papa, dell'obbedienza e della legge del celibato; mi vietava di avvicinarmi ai seminaristi più giovani per non contaminarli. Mi torchiava e ora scopro che intanto tracannava questi rosponi della pedofilia, è allucinante questa cosa. Esattamente come nel film "L'attimo fuggente", il professor Boff perse l'insegnamento. Io, che ero il più giovane, mi trasferii a Fossano in Piemonte. Ero fuori da quei contesti e non sono mai stato circuito dai miei educatori".

Oggi la vittima di don Pinetto dichiara di aver denunciato all'epoca il fatto a don Giusto e al vescovo. "Qui non abbiamo un prete qualunque che commette il crimine ma un vice rettore, mentre il rettore, il vescovo e i professori del seminario lo coprono; insomma è l'istituzione nel suo vertice che si macchia di questo delitto".

Cosa avrebbero dovuto fare? "Era stato violentato un giovane ragazzo, i vertici avrebbero dovuto denunciare don Pinetto alla magistratura e all'autorità ecclesiastica, quell'uomo doveva essere scomunicato e finire in galera per abuso su minore. Un pedofilo pentito un giorno mi ha detto questo: 'Abbiamo bisogno di essere fermati anche con la galera perché noi da soli non ci fermiamo'".

Qual è il suo giudizio su questi fatti? "Monsignor Sibilla ha commesso due reati, uno nei confronti del diritto penale italiano l'altro nei confronti del diritto canonico, ma ora è morto. Don Giusto invece deve rendere conto alla diocesi di quello che ha fatto. Come se non bastasse, anni dopo le nefandezze commesse da Pinetto e coperte dai vertici, è scoppiato a Savona la vicenda di Don Giorgio Barbacini, guarda caso amico di don Pinetto, di don Giusto, dei professori ai vertici del seminario e guarda caso insegnante anche lui in seminario, alle medie. Guarda caso anche lui pedofilo accertato e condannato. E' tempo di fare i conti con questa gente e di andare al cuore del problema altrimenti i veri responsabili ci scappano. Quando ci fu il caso dell'economo di Como accusato di molestie su minori, fu il vescovo a denunciarlo, poi disse: 'Ora che l'ho denunciato posso aiutarlo come figlio'. La Chiesa non può proseguire su questa strada, con questo gran carnevale di cardinali e stampa al seguito. E questa sarebbe la fede cristiana? il carnevale di Rio è meno allegro. Vorrei fare un appello pubblico a don Giusto e a don Pinetto perché dicano la verità, la Chiesa di Savona ha dritto alla verità".

La denuncia ai pedofili e l'isolamento. La storia di don Carlo Rebagliati. "Sono un essere umano, non ritengo estraneo a me nulla di umano". Don Carlo è un prete diverso dagli altri: non ha mai nascosto la sua omosessualità, ma è sempre stato rispettato dai suoi parrocchiani che non hanno mai dubitato della sua correttezza con bambini e adulti. Entrato in seminario per "stare dalla parte degli ultimi" si trova dentro una Chiesa diversa da quella che immaginava. La diocesi di Savona viene scossa dai casi di pedofilia, lui denuncia al vescovo, ma non subito alla magistratura. Nominato Vicario Economo scopre che nei conti della Curia non tutto è pulito. Sieropositivo, muore nel gennaio del 2013, in circostanze che gli amici definiscono "poco chiare". Quando nei primi anni ottanta l'allora trentenne Don Carlo Rebagliati arriva a Spotorno, porta nuova vitalità nella parrocchia. Riapre il cinema e il teatro, l'oratorio raccoglie bambini e giovani ragazzi, diventando un centro di aggregazione fondamentale per la comunità. È uno strano prete: molti capiscono che è gay, ma nessuno può sollevare dubbi sulla sua correttezza con bambini e adulti. È un prete che sta dalla parte degli ultimi e questo basta ai suoi parrocchiani. L'inferno però è dietro l'angolo. Nell'84 dalla parrocchia della vicina Valleggia viene trasferito Don Nello Giraudo in seguito ad alcune segnalazioni per molestie su bambini. Rebagliati, accortosi della morbosità di don Nello segnala il problema al vescovo, ma non alla magistratura. Per anni Giraudo continuerà a violentare bambini e adolescenti. Di questo errore, in seguito, don Carlo si pentirà amaramente: allora credeva ancora nella sua chiesa ed è convinto che il vescovo (allora era don Lanfranconi) agisse nell'interesse supremo della Diocesi. Il compromesso con la sua coscienza sembra fruttargli un buon giudizio da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1993 a Rebagliati, infatti, viene proposto per ricoprire il ruolo di Vicario Economo della Diocesi di Savona. Rebagliati non è convinto, teme "di dover fare solo il burocrate e sacrificare le ragioni principali sulle quali poggiava il mio impegno di prete", ma alla fine accetta. Don Carlo racconterà che quasi subito si era trovato a dover risolvere la questione della sede della Curia ospitata in locali abusivi, costruiti negli anni '50 sopra un chiostro francescano di fianco della cattedrale. Nel 2002, annota Rebagliati, il comune condona i locali a patto che la Diocesi ripristini il chiostro destinandolo a sede del Museo Diocesano. Nello stesso anno subentra come vescovo Domenico Calcagno, già economo della Cei. Di lui Rebagliati scriverà: "A parole apertissimo, nei fatti impulsivo e inconcludente". Calcagno e la Diocesi raccolgono fondi per la costruzione del Museo, secondo quanto scrive Rebagliati i fondi arrivano dall'8 per mille e da varie fondazioni: la fondazione De Mari, con presidente il dott. Luciano Pasquale, Cariplo, Carige e "testamento Delle Piane". In totale verranno raccolti, sempre secondo Rebagliati, oltre tre milioni e mezzo di euro. Ma il museo non verrà mai aperto. Durante gli anni di Calcagno a Savona, i rapporti tra lui e Rebagliati sono sempre più tesi tanto che nel 2004 Rebagliati rassegna le sue dimissioni da tutti gli incarichi diocesani. Il vescovo risponde: "Non posso accettare la tua richiesta e ti prego, a nome della Chiesa savonese, di continuare nel tuo servizio, con l'amicizia di sempre, don Domenico". Ma Rebagliati si dimetterà definitivamente da economo nel 2010. Nel febbraio 1994 don Carlo Rebagliati (dichiaratamente omosessuale, ma non pedofilo) scopre di essere sieropositivo; ai medici che gli propongono di curarsi fuori Savona dove non è conosciuto risponde di no. Frequenta regolarmente il day hospital del reparto malattie infettive dell'ospedale del suo paese mettendosi in coda nelle sale d'aspetto. "Homo sum, humani nihil a me alienum puto" (sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano), un suo amico racconta come don Carlo citasse spesso questa frase per raccontare la sua difficoltà di far convivere la vocazione spirituale con l'essere carnale. Cercava risposte che la Chiesa non riusciva a dargli, e mentre i suoi superiori gli consigliavano di reprimere la sua stessa natura di uomo dall'altra gli imponevano l'ambiguità della menzogna, del sotterfugio, del ricatto. Non aveva fatto mistero della sua omosessualità con i suoi confessori e con i vertici della Diocesi. Negli anni successivi, più volte, gli verrà il sospetto (mai nascosto ad altri sacerdoti amici) che questa sua trasparenza sia stata usata contro di lui. Scriveva don Carlo al suo vescovo Calcagno nel 2004: "Una Chiesa muta di fronte agli scandali, non trasparente nel suo agire, che non ritenga importante anche la legge degli uomini, che non ama le cose belle, che non consola chi piange e non sostiene la vita non è il mio ideale Chiesa". Sempre nel 1994 Rebagliati incontra Francesco Zanardi, conosciuto bambino a Spotorno, lo ritrova tossicodipendente e ossessionato da suoi fantasmi, orfano di una madre suicida dalla quale scoprirà, poche ore dopo il funerale, di essere stato adottato. Don Carlo viene presto a sapere che "Franco" è stato per anni violentato del suo collega pedofilo Don Nello Giraudo; allora decide di aiutarlo, lo accoglie nella sua casa e gli offre un impiego nella cooperativa che ha fondato per i lavori della Diocesi. Nei casi di pedofilia si parla sempre dei carnefici, di rado delle vittime, vite rovinate in cui le responsabilità della Chiesa rimbombano nel vuoto delle solitudini che hanno creato; innocenti in attesa che una legge sancisca il loro riscatto, nonostante la prescrizione. Lavorando all'interno della Diocesi Francesco rivede il suo aguzzino. Don Nello Giraudo continua a molestare bambini, coperto dalla Curia. Nel 2010 Rebagliati decide di testimoniare nel processo istruito contro Don Nello, ma in Procura lo interrogano soprattutto sui conti della Diocesi. Questo è l'inizio della fine per don Carlo, che verrà dipinto come il grande accusatore della Chiesa. Nella Diocesi di Savona scoppia lo scandalo pedofilia, la cui onda lunga a tutt'oggi incoraggia le vittime a uscire allo scoperto per denunciare i preti molestatori. Pochi mesi dopo la sua testimonianza, Rebagliati viene denunciato da un giovane tossico suo conoscente, per induzione alla prostituzione e lesioni colpose. I suoi parrocchiani lo sostengono, ma il vescovo Lupi vuole le sue dimissioni. La Diocesi basa la sua richiesta su queste accuse che più tardi si riveleranno infondate. Soprattutto si vuole evitare il processo canonico nel quale Rebagliati potrebbe decidere di aprire il libro e raccontare quello che ha visto e dovuto fare negli anni dell'economato. Ma l'uomo è distrutto e il sacerdote umiliato. Agli amici intimi Rebagliati dirà: "Sono un uomo finito, uno straccio, non conto più niente" nel giugno 2011 le dimissioni arrivano. Nel 2012 in agosto arriva l'archiviazione delle accuse a carico di Rebagliati che vuole collaborare con la Procura nell'inchiesta sui conti della Diocesi, ma non fa in tempo: ricoverato per setticemia dovuta al malfunzionamento della macchina portatile con la quale si praticava autonomamente la dialisi, rimane in ospedale molti mesi peggiorando progressivamente e, secondo gli amici, in circostanze poco chiare. Rebagliati muore il 13 gennaio del 2013. Il CD con il backup del suo computer viene consegnato in Procura. Durante i suoi funerali a Stella, suo paese natale, mentre il Vescovo Lupi officia la messa protetto da quattro uomini della Digos, una folla oceanica riempie la chiesa per salutare Don Carlo: è la sua rivincita. Disprezzato dalla Chiesa e amato dalla sua comunità nonostante le debolezze, forse anche per quelle. Don Carlo amava citare Paolo di di Tarso che nella prima lettera ai Corinzi dice: "Il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero: perché passa la scena di questo mondo!".

VIOLENZA AGLI ANZIANI.

Violenza contro gli anziani. Fenomeno in crescita ma nessuno ne parla per tacitare le coscienze. Ma a volte scappa la notizia: botte, insulti e abusi sugli anziani alla casa di riposo ''Fondazione G. Borea e Massa'' di Sanremo. Le violenze sono state scoperte dalla Guardia di Finanza della compagnia e della sezione di polizia giudiziaria della città dei fiori nel corso di indagini che hanno portato all'arresto di sette persone. Tutta la stampa nazionale ne parla. Agli arresti domiciliari il presidente della casa di riposo Rosalba Nasi, moglie del senatore del Pdl Gabriele Boscetto. In carcere sono finiti invece Assunta Mecca, Daniele Raschellà, Silvano Fagian, Ihor Telpov, Cristina Ciobanu, Elzbieta Ribakowska. Gli investigatori parlano di ''violenze inaudite e sbalorditive: anziani, nonni e nonne non autosufficienti, abusati, legati, malmenati, insultati, denutriti, abbandonati in condizioni igieniche indecenti, di precarietà assoluta. Incapaci e senza la possibilità di difendersi da tanta brutalità, crudeltà e disumanità''. Supportata da videoregistrazioni e intercettazioni ambientali, l'attività dei finanzieri ha certificato oltre tre mesi di violenze, offese, umiliazioni e sopraffazioni ai danni degli anziani ospiti della casa di riposo. Ci sono anche due morti sospette, risalenti al 2005-2006, nell’indagine coordinata dalla procura di Sanremo. Si tratta di due donne. Una morì in seguito ad un ictus dopo un ricovero in ospedale dovuto a gravi ferite alla testa. L’altra è deceduta dopo aver ingerito una massiccia dose di farmaci.

Da Nord a Sud l’Italia delle violenze agli anziani è tutta uguale. E’ stata portata immediatamente in ospedale l’anziana donna trovata in stato d’abbandono in un magazzino, a Cosenza, ma per lei non c’è stato nulla da fare: è morta poco dopo il ricovero. La donna, che versava in condizioni di salute precarie, viveva in un locale angusto da qualche settimana, senza luce e riscaldamento e neanche servizi igienici. I militari hanno denunciato la nipote e il suo convivente per maltrattamenti in famiglia e sequestro di persona. Il caso di cronaca arriva negli stessi giorni in cui vengono diffusi i dati Eurispes sulla violenza domestica estrema, ovvero sulle uccisioni che si consumano all’interno delle famiglie. Dati che testimoniano l’esistenza di un conflitto forte, tra sessi e spesso tra generazioni, che alcune volte si risolve addirittura con l’uccisione dell’altra/o. Le cifre parlano di delitti commessi perlopiù dai maschi (nell’84,9% dei casi) nei confronti delle donne – mogli, conviventi, figlie, sorelle, ma anche madri. Ma non solo. Quei dati parlano anche dei genitoricidi. Di figli, cioè, che uccidono il padre o la madre. Ad essere stati uccisi per mano dei propri figli sono stati, nella maggior parte dei casi i padri (6, nel 2009 e 14, nel 2010). I matricidi, invece, sono stati 8 nel 2009 e 10 nel 2010. I figli maschi (30), rispetto alle femmine (8), sono quelli che hanno commesso più parricidi (16 figli contro 4 figlie e 14 figli contro 4 figlie). Senza arrivare a tali estremi, tutto sommato numericamente esigui rispetto, ad esempio, alla violenza agita da mariti o ex mariti, troviamo poi i casi di maltrattamento, abbandono, violenza nei confronti degli anziani. Soggetti deboli o resi tali, spesso abusati nelle strutture cui sono affidati dalle famiglie che non possono occuparsene direttamente, a volte maltrattati da quelle stesse famiglie che dovrebbero invece prendersene direttamente o indirettamente cura. Di violenza contro gli anziani non sentiamo molto parlare in Italia, benché si tratti di un fenomeno in crescita esponenziale, anche in relazione all’invecchiamento della popolazione. Se ne occupa invece l’OMS, che nel suo primo “Rapporto Mondiale su violenza e salute”, datato 2002, distingue tra tipi di abuso sulla persona anziana: quello domestico (maltrattamento della persona anziana nella sua abitazione o in quella del caregiver), istituzionale (maltrattamento degli anziani che vivono in case di riposo o residenze assistenziali) e auto-inflitto (comportamento auto-lesivo). L’entità del problema ha indotto l’OMS a prendere dei provvedimenti, incentrati su tre punti: Consapevolezza, Educazione, Difesa. Gli interventi si muovono su diversi piani, attraverso i Servizi Sociali (centri di emergenza, linee telefoniche di aiuto, somministrazione di questionari di screening, domande a parenti e vicini con eventuale visita alla casa dell’anziano) e campagne di sensibilizzazione. Inoltre si consiglia di non considerare gli abusi sugli anziani come problemi esclusivamente familiari, ma al contrario collettivi avendo il coraggio di parlare di essi e denunciarli, pur nella comprensione e rispetto dei diritti degli anziani. 

PARLIAMO DI IMPERIA

IMPERIA MASSONE.

Il blog AlzalaTesta, dell’estremo ponente ligure, creatura del più battagliero blogger ponentino, Marco Ballestra, apicoltore di professione, ma con una grande passione, coraggio e pratica quotidiana di informazione ‘senza bavaglio’, ha pubblicato, a fine gennaio, un elenco di massoni (ci sarà qualche presunto?) delle province di Savona e di Imperia, scrive “Trucioli”. Non da oggi sosteniamo la tesi che soprattutto una certa massoneria avrà le sue ombre, opacità  (come hanno confermato alcune indagini giudiziarie), ma sarebbe un errore additare tutti gli aderenti quali componenti di una ‘setta’ dedita all’affarismo occulto. Anzi, chi ha conosciuto alcuni suoi esponenti ha avuto modo di apprezzare il grande impegno civile profuso. Ovviamente, veri piduisti delle varie stagioni esclusi. La lista degli aderenti alle due principali obbedienze massoniche italiane (Palazzo Giustiniani e Piazza del Gesù), tra l’altro, nel corso degli anni, è stata al centro di pubblicazioni: su giornali, libri, riviste, web, blog, siti.  In gran parte, si può dire, che l’alone di asserita segretezza, si è più che altro trasformato in simbolo- sinonimo di riservatezza. Se poi, come sostiene l’ormai vittorioso leader Beppe Grillo, la massoneria va tenuta sempre a bada perché crea di fatto un contropotere ‘segreto’, capace di incidere nella vita politica, economica, finanziaria (e non solo),  non resta che mantenere alto il livello di attenzione, di allerta. Un’ultima  annotazione agli elenchi, sotto pubblicati. Pacifico che non siano aggiornati, almeno da qualche anno, visto che sono inserite pure persone defunte; alcune avevano ricoperto incarichi pubblici e non erano mai state coinvolte neppure in vicende giudiziarie. Ci sono  nomi che si erano distinti per il loro rigore morale proprio nei ruoli ricoperti. Per altri il giudizio lasciamolo alla storia, diciamo di casa nostra. Trattandosi anche di personaggi pubblici. Nulla possiamo, infine, aggiungere sull’ipotesi di "arricchimenti"  e carrierismo di cui sarebbero stati protagonisti alcuni fratelli ‘muratori’. Non ci sono mai stati processi e sentenze che abbiano fatto luce su questi capitoli. A nostro avviso gli elenchi, al di là dell’incompletezza, contengono errori  di battitura e copiatura. Non avremo dunque difficoltà a recepire possibili segnalazioni, ancora più gradite se fatte dai diretti interessati. E magari, pur conoscendo i limiti della divulgazione di notizie, qualche utile riflessione sui motivi per cui, ancora oggi, si discute tanto di "liste massoniche".  Altro discorso, in particolare a livello nazionale, sono i casi al centro di delicate inchieste giudiziarie (P3 e P4). In provincia di Savona e di Imperia, almeno per quanto se ne sa,  non sono state provate o dimostrate, in tempi recenti, commistioni da codice penale. E’ vero che ci sono stati alcuni filoni che hanno coinvolto aderenti alle logge, ma si tratta di episodi a quanto pare assai marginali e personali. Altre volte di opportunità, soprattutto quando c’è in ballo la cosa pubblica ed il buon governo.

La “massoneria dei fiori” agli esordi degli anni ’90 era finita sotto i riflettori dell’opinione pubblica con una schioppettante inchiesta di Claudio Sabelli Fioretti, sulle pagine nazionali de Il Secolo XIX, agli albori del “terzo millennio” può invece dormire sonni tranquilli, scrive “Trucioli”. Gli organi di stampa, anche quelli locali, hanno “tolto il disturbo”. E fratelli, fratellanza, sono risorti più forti e temuti di prima. Nuove affiliazioni, neo apprendisti muratori, altri maestri venerabili, altre alleanze, nuovi tempi massonici. Immancabili le agapi. Da cosa deriva l’ufficiosa convinzione? Intanto dagli amici di ieri che, a Trucioli Savonesi, non mancano. E dagli amici di “oltre frontiera” che sembrano, assai bene informati. Peccato che sia assente “carta canta”. E azzardarci, seppure al condizionale con gli ultimi elenchi, non ci sembra corretto. Possiamo dire che dagli elenchi in possesso dei cugini francesi (tra Montecarlo e Nizza), a prima vista il numero complessivo della Provincia di Imperia è cresciuto robustamente. Si è soprattutto ristrutturato. L’incremento riguarda sia la zona di Porto Maurizio-Oneglia e dintorni, sia Sanremo-Ventimiglia e dintorni. Tra le adesioni le libere professioni sono al primo posto, seguono i “travet” di parecchi enti pubblici, gli imprenditori, i politici che però appaiono assai guardinghi dando fiducia non alle logge un tempo note come “formaggini” o “formaggiai”, ma nei “gruppi che contano” e che assicurano più discrezione anche negli incontri canonici, di rito. C’è chi ha preferito addirittura emigrare. Sicuramente questa vocazione per l’esoterismoche già aveva fatto notizia, andrebbe meglio studiata, magari dai sociologi. Nella pagina che riportiamo in tre parti, Sabelli Fioretti (oggi scrittore di successo e invitato speciale della televisione), aveva avuto la collaborazione di Claudio Donzella (sempre al Decimonono) e Loredana Demer. Ecco alcuni spunti dell’articolo di apertura. Dopo gli scoop del Secolo XIX la discussione (gennaio 1990) era se rendere pubblici o meno tutti i nomi sia degli aderenti a Palazzo Giustiniani, sia a Piazza del Gesù. Togliersi il “cappuccio”? Scrivevano Sabelli Fioretti e Donzella: Giacomo Gavino, maestro venerabile della Hiram, di Piazza del Gesù, annuncia: Stiamo studiando di fare qualcosa, ma a braccetto con quelli di Palazzo Giustiniani… E Natalino De Francisi, maestro venerabile della Cremieux, volto noto del foro: "Sono favorevole alla pubblicizzazione delle liste". E ancora, in alcune città dell’imperiese, ricordavano i giornalisti, i massoni del Ponente hanno deciso di sospendere le loro assemblee per non essere individuati. Non potevano neppure mancare le “chicche-ricordo”, come quando Armando Federici  e Armando Pagani, due massoni di Ventimiglia, recandosi a far visita ad una loggia francese, furono fermati alla frontiera dai poliziotti che, preoccupati da una serie di gagliardetti, di sciabole e cappucci neri, li avevano scambiati per neofascisti. Oppure, ricordavano i bravi giornalisti del Decimonono "i tentativi vani di iscrivere il consigliere comunale socialista Paolo Lezzi, per due volte presentato e per due volte bocciato sotto una gragnola di palle nere. O quando a Diano Marina decisero di fare una loggia tutta targata democrazia cristiana con Brunendo, Adolfo, Contestabile, Folco, Lavaggi.  Per lo parlare di quella loggia di Ventimiglia che si sfasciò per questioni di donne dopo che un fratello “rubò” la moglie di un altro fratello". Altri curiosi episodi davvero immemorabili. Dal Secolo XIX: "L’episodio più spettacolare  fu la campagna antimassoni a Ventimiglia, con Franco Molinari consigliere comunale. Nel luglio 1985, dopo aver letto i nomi dei massoni pubblicata dalla commissione sulla P 2 , presieduta da Tina Anselmi,  dove figurava il nome dell’ex sindaco Albino Balestra, tappezzarono di manifesti la città. Intervenne persino il vescovo, Angelo Verardo, che in una omelia disse che a Ventimiglia ”comandavano soprattutto la massoneria ed i soldi”. Albino Balestra fu premiato e rieletto sindaco, ma l’estroso Franco Molinari si presentò in consiglio comunale con un cappuccio nero in testa e con un cartello; al microfono gridava: "Fuori i massoni dal consiglio comunale". Qualche altro gustoso ricordo. Balestra sindaco e Tito Barbè, comunista, capo dell’opposizione. Balestra dice a Barbé, fratello di loggia: "Domani in consiglio comunale attaccami duro sulla prima, sulla seconda e sulla terza delibera. Dimmi di tutto e che mi denunci e mi mandi in galera. Se fai molto casino all’ultima pratica, che è quella più importante, va via liscia come l’olio". Sempre a Ventimiglia,  annotavano Sabelli Fioretti e Donzella, è sorta la lista civica “Gens Nova”, talmente ricca di iscritti alle due obbedienze da far pensare ad una vera e propria formazione politica della massoneria stessa. Due altre testimonianze raccolte dai trio di giornalisti-coraggio. La prima: "Se non metti il mio nome sul giornale, vi diamo il nome di dieci nostri fratelli iscritti in modo molto riservato". La seconda. La testimonianza del collega di redazione del Decimonono, Francesco Bianchi, allora 46 anni, caposervizio a Imperia in un periodo di grande diffusione del glorioso quotidiano ligure oggi in serio declino di copie vendute. "So tante cose della massoneria del ponente ligure perché c’ero anch’io li dentro – dichiarò Bianchi - , siamo passati come meteore e non sono il solo. Entrai perché a quei tempi era quasi una setta, segreta, con un alone misterioso. Se ad un giornalista capita l’occasione di mettere in naso in un’associazione di tale genere cosa fa? Alla curiosità è subentrato subito un interesse sincero. Affascinato dagli interrogativi dell’essenza dell’uomo…la storia del cappuccio esiste, è vero, ma lo si usa in circostanze davvero limitate…La mia loggia era la Angelo Silvio Novaro, ci riunivamo saltuariamente a Diano Marina e Sanremo. Frequenti gli incontri con i fratelli francesi e inglesi, ma anche visite dall’America…Si è vero qualche volta si parlava di affari e la cosa mi disturbava parecchio…perché accanto a persone di alta cultura, trovavi imprenditori o pseudo tali di pochi scrupoli e questo mi deluse parecchio….ma aggiungo che i gradi inferiori della massoneria non sono a conoscenza di ciò che accade ai livelli superiori…lasciai la loggia  quando da Roma arrivò una “balaustra” (cioè una comunicazione ufficiale) che ci invitava ad appoggiare nelle imminenti elezioni la Democrazia Cristiana. Me ne andai in sordina, senza sbattere la porta".

IMPERIA MAFIOSA.

Un presidente di tribunale ai domiciliari per corruzione in favore dei clan. Prefetti che chiudono gli occhi e nascondono il problema. Vertici delle procure sostituiti nella soddisfazione generale dei pm. È quanto emerge dall'audizione in commissione antimafia di due procuratori liguri. Che AgoraVox pubblica integralmente. Due ore e quarantacinque pagine. Tanto dura l'audizione in commissione parlamentare antimafia di Anna Canepa e Antonio Patrono, due tra i più attivi magistrati liguri. Hanno raccontato gli affari delle mafie in Liguria, del gioco d'azzardo e dei Casinò, i morti ammazzati, il cemento di Matteo Messina Denaro e delle famiglie calabresi che volvano imporre i loro autisti a uno dei più grandi imprenditori edili della Liguria, Piergiorio Parodi, ricattandolo a colpi di fucile sulla sua auto. Ma raccontano anche altro, molto altro i due magistrati. Raccontano che in Liguria le infiltrazioni criminali "hanno purtroppo interessato anche settori della magistratura". Il presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, già a lungo presidente del Tribunale di Sanremo, è finito ai domiciliari accusato di corruzione per avere agevolato dei detenuti legati ai clan. Proprio a Sanremo due anni fa è stato sostituito il Procuratore Capo, Mariano Gagliano, con viva soddisfazione degli altri magistrati. Da quando il procuratore Roberto Cavallone ha preso il suo posto le indagini antimafia in quel distretto giudiziario hanno subito una brusca accelerata. "Non posso quindi che salutare con estremo favore il nuovo ordinamento giudiziario che ha consentito il cambio di capi di alcuni uffici", confessa la Canepa. Anche alcuni prefetti, di nomina governativa, cercavano di minimizzare il fenomeno, alcuni i magistrati li definiscono "ritardatari". E Walter Veltroni denuncia che dopo avere partecipato a una puntata di Annozero in cui disse che in Liguria c'è la mafia "ho ricevuto risposte piccate dai prefetti di alcune città liguri".

Mafie in provincia di Imperia. Rimosso il prefetto “miope” che non vide le infiltrazioni, scrive “Agoravox”. Disse che a Bordighera, dove venivano minacciati assessori e sindaco, non c’erano infiltrazioni mafiose. Ma Maroni ha sciolto lo stesso il Comune, e lo ha trasferito. È l’ultima puntata di un cortocircuito istituzionale in una provincia che sembra sempre di più la Sicilia di Leonardo Sciascia. In provincia di Imperia c’è la mafia. Ci sono i Pellegrino e i Barilaro a cui, meno di due mesi e mezzo fa sono stati sequestrati tutti i beni – quelli che il Tribunale di Imperia ha ritenuto riconducibili ai fratelli pregiudicati Michele, Maurizio e Roberto Pellegrino – tra i quali anche tre ville. I Pellegrino sarebbero legati anche alla cosca Santaiti-Seminara di Gioffrè, in provincia di Reggio Calabria. E sono sotto processo a Imperia per le minacce agli assessori del comune di Bordighera, dove fanno affari insieme ai Valente e ai De Marte, imputati con Maurizio Pellegrino per un’estorsione all’agriturismo di un piccolo paesino tra Sanremo e Ventimiglia. In provincia di Imperia c’è la famiglia Mafodda, che opera da più di vent’anni ad Arma di Taggia, nel territorio tra Imperia e Sanremo. Il più anziano dei tre fratelli Mafodda è stato appena processato e condannato per tentato omicidio, ma la loro prima condanna risale al 1993: una delle prime condanne in Liguria per mafia. E oggi, nel territorio di Imperia, le cosche continuano a fare le stesse cose di vent’anni fa: incendi ed estorsioni. In provincia di Imperia c’è l’hashish che arriva da navi su cui i corrieri della droga ne imbarcano con loro trecento chili per volta. Ci sono i capi ‘Ndrangheta di Ventimiglia, che mal sopportano i metodi spicci dei Pellegrino e dei Barilaro che stanno mandando in fumo tutta l’attività di “mimetizzazione” che hanno portato avanti per anni. In provincia di Imperia, tra Sanremo e Diano Marina, ci sono altre famiglie calabresi, legate dagli stessi rapporti di parentela tipici della 'Ndrangheta. Per esempio i Ventre, occupati, secondo gli investigatori, "nelle atività illecite tipiche delle cosche, in particolare il traffico di sostanze stupefacenti". In provincia d'Imperia c'è un casinò, quello di Sanremo, in mano alla Camorra napoletana: il suo ex direttore generale è imputato per distrazione patrimoniale. Sono decenni che il casinò di Sanremo è nel mirino delle mafie. Negli anni Ottanta fu Nitto Santapaola, boss di Cosa nostra, a tentare di scalarlo, ma i magistrati di Milano sventarono l’operazione. Dagli arresti riuscì a sfuggire un amico di Santapaola, Gaetano Corallo, il boss di Catania rinviato a giudizio nell’89 per il suo ruolo di collegamento mafioso con il mondo del gioco, poi condannato a sette anni e mezzo. Lo stesso che nel 1983 fu trovato in compagnia di Marcello Dell’Utri quando andarono ad arrestarlo in casa. Oggi suo figlio Francesco vive alle Antille, a Saint Maarten, dove ha messo in piedi, con una lunga catena di società off-shore, la prima concessionaria italiana di slot machine, la Atlantis World (oggi Betplus), che da sola vale il trenta per cento del mercato e fattura più della Fiat. Nel consiglio d’amministrazione della rappresentante italiana di questa società con sede a Saint Lucia (la stessa isola della fiduciaria che possiede la casa di Montecarlo in cui vive il cognato di Fini, Giancarlo Tulliani) sedeva anche Amedeo Laboccetta, ex consigliere campano di An, oggi parlamentare Pdl, che invitò Gianfranco Fini in vacanza a Saint Marteen e che di Corallo si definisce amico. E sempre per l’Atlantis ha lavorato l’avvocato Giancarlo Lanna, già commissario della federazione napoletana di An e oggi parte del comitato esecutivo della fondazione Farefuturo. A Imperia il presidente del Tribunale, Gianfranco Boccalatte, che per tanti anni ha presieduto anche il Tribunale di Sanremo, è stato arrestato ai domiciliari il 19 maggio scorso con l’accusa di corruzione per avere agevolato dei detenuti legati ai clan. In provincia di Imperia c’è un prefetto, o meglio, c’era. Si chiama Francesco Di Menna. Il ministro Maroni l’ha rimosso la settimana scorsa con la scusa di una promozione a Roma negli uffici del Viminale. Ma per capire meglio cos’è successo bisogna tornare indietro di pochi mesi. Di Menna, prima di essere trasferito, era appena riuscito a sottoscrivere, in qualità di prefetto, un “Patto di legalità” con i presidenti dell’Unione degli industriali, l’amministrazione provinciale e i sindaci di Imperia e Sanremo. Ma il 21 maggio scorso aveva inviato al ministero la sua relazione su Bordighera, su cui pendeva una richiesta di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, in cui difendeva il comune: nessun condizionamento mafioso, diceva Di Menna. Maroni, però, non la pensava allo stesso modo. Le indagini dei carabinieri avevano evidenziato pressioni, da parte dei Pellegrino e dei Barilaro, sul sindaco del paese e su due assessori, Marco Sferrazza e Ugo Ingenito, anche per ottenere l’apertura di una sala giochi (il processo è in corso in queste settimane). Secondo gli investigatori la famiglia Pellegrino aveva “assunto una posizione egemone” nel settore imprenditoriale degli scavi del movimento terra, arrivando ad aggiudicarsi appalti e sub-appalti anche per lavori pubblici. I clan vogliono lavorare a tutti i costi, anche minacciando gli imprenditori. Ed estorcendoli. Il 25 maggio dell’anno scorso una macchina ha affiancato quella di Pier Giorgio Parodi, geometra, uno dei più grandi imprenditori edili della Liguria. Lui ha riconosciuto gli uomini nell’altra macchina: avevano lavorato con lui per anni. Con uno di loro aveva avuto una discussione la mattina stessa. Ma non si è voluto fermare. Allora i due, Ettore Castellana e Nunzio Rondi, oggi sotto processo a Imperia, hanno imbracciato un fucile e hanno iniziato a sparare contro l’auto di Parodi. Pretendevano che l’imprenditore facesse lavorare, nel movimento terra per i lavori del porto di Ventimiglia, i camion provenienti dalla Calabria: un euro e mezzo per ogni tonnellata di materiale movimentato. In tutto, ai camionisti calabresi sarebbe andato più di mezzo milione di euro. Parodi, invece di denunciare gli estorsori e l’attentato, è sceso a patti. E quando i pm l’hanno chiamato in Procura, ha negato. Solo dopo essere stato messo davanti al racconto di un testimone che aveva assistito alla scena è stato costretto ad ammettere tutto. “Non li ho denunciati perché lavoravo con queste persone da decenni”, ha detto Parodi in Tribunale. “Qualche settimana dopo sono anche venuti nel mio ufficio a chiedere scusa”. Gentili. Le conclusioni del ministro dell’Interno non possono essere più chiare: a Bordighera c’erano “forme di ingerenza da parte della criminalità organizzata” anche per influenzare “la libera determinazione degli organi elettivi”. Ma l’ex prefetto Di Menna non era d’accordo: per lui c’erano solo “irregolarità di tipo amministrativo, senza ingiustificati favoritismi” nei confronti dei Pellegrino e dei Barilaro. Adesso però lui è stato trasferito, mentre Bordighera, dal 10 marzo, è il primo comune del Nord-Ovest sciolto per infiltrazioni mafiose dopo Bordonecchia, in provincia di Torino, sciolto nel lontano 1995. “Sono servitore dello Stato – ha detto Di Menna – e da tale mi comporto. Peraltro tornare a Roma, dove sono stato impiegato al Ministero per trent’anni, mi rende felice. Avrei solo voluto, prima di andare via, concludere alcuni accordi e protocolli in provincia”. Eppure, fuori dagli enigmatici meccanismi di avvicendamento del Viminale, pare di assistere all’ultima puntata di uno strano garbuglio istituzionale imperiese. Di Menna era arrivato a Imperia a inizio 2010, dopo l’arresto del presidente del Tribunale e l’azzeramento dei vertici della procura della città salutato con entusiasmo – come emerge dal verbale dell’audizione in commissione antimafia del procuratore Anna Canepa pubblicato a luglio da Agoravox – da tanti pm. Poi è stato rimosso il questore, accusato anche lui da alcuni di sottovalutare i fenomeni mafiosi sul territorio. Ora è la volta del prefetto che non vide infiltrazioni mafiose nel comune in cui gli ‘Ndranghetisti minacciavano sindaci e assessori. Al suo posto è arrivata Fiamma Spena, una donna partenopea con una lunghissima esperienza nel contrasto alle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione, sia come prefetto in diverse procure del Sud che come commissario di comuni sciolti per mafia (Acerra, Ottaviano, Marcianise) e coordinatrice di diverse commissioni ispettive. Che ora dovrà confrontarsi con una provincia che sembra sempre di più la Sicilia di Leonardo Sciascia. “Come diavolo mandano uno come lui in una zona come questa? Qui ci vuole discrezione, amico mio; naso, tranquillità di mente, calma: questo ci vuole… E mandano uno che ha il fuoco di Farfarello…”.

VENTIMIGLIA. Non ci posso credere. Un articolo de “Il Corriere della Sera” dice che un giovane a bordo di uno scooter con il tricolore in mano saluta il «ritorno alla legalità» a Ventimiglia. Così un anonimo cittadino ha voluto manifestare tutto il suo apprezzamento per la notizia dello scioglimento del Consiglio comunale di Ventimiglia per sospette infiltrazione mafiose. La decisione è stata presa oggi dal Consiglio dei Ministri su proposta del ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri. Dunque questa volta tocca ad una città al confine con la Francia e non al solito comune del Sud infestato dalla mafia. E a riprova che la mafia ormai non conosce confini nella stessa seduta il Consiglio dei ministri ha voltato la proroga dello scioglimento del Consiglio comunale di Condofuri, in provincia di Reggio Calabria. Una decisione che era nell'aria tanto che qualche mese fa il sindaco Gaetano Scullino aveva annunciato la volontà di non ripresentarsi alle prossime elezioni in primavera pur respingendo il marchio «Ventimiglia città di mafia». «Sono assolutamente sereno -aveva detto- perché insieme alla mia amministrazione abbiamo sempre operato nel rispetto delle leggi, in assoluta trasparenza, senza il benché minimo condizionamento e con un unico obiettivo, concretizzare una grande svolta per la mia città. Quindi sono fiducioso, anche se lo ammetto un po’ stressato, visto che è da un anno che ci rivoltano come un calzino». Dopo la decisione del Consiglio dei Ministri il sindaco ha atteso qualche ora prima di rilasciare un commento. «Sono arrabbiato, oltre che profondamente deluso dalle istituzioni - ha detto- ho speso cinque anni della mia vita, lavorando dieci ore al giorno, solo per fare gli interessi della città di Ventimiglia, e vengo ripagato con questa moneta. Un verdetto che ritengo ingiusto, maledettamente ingiusto». Sferzante il suo ex compagno di partito ed ex capogruppo del Pdl, Franco Ventrella, che bolla Scullino, come «il nostro Schettino che ha portato la nave a naufragare». Ventrella si era dimesso, nel giugno scorso, assieme ad altri 3 consiglieri sempre del Pdl. Ma c'è anche chi esprime stupore ed amarezza come l'attuale capogruppo del Pdl, Giovanni Ascheri: «Chiaramente un pò di amarezza c'è sicuramente. Il sindaco non l'ho ancora sentito, ma dovremmo vederci più tardi per fare il punto». Secondo il direttore generale del Comune, Marco Prestileo «non possiamo che prendere atto di questa decisione e non possiamo che rispettarla». Una parola in favore del sindaco arriva dall'opposizione. Il consigliere comunale del Pd Franco Paganelli si dice «dispiaciuto, soprattutto per la città e mi spiace anche come amico del sindaco. Quanto alle valutazioni politiche lasciamole al partito». Per Sonia Viale, ex sottosegretario all'interno oggi commissario politico della lega Nord a Ventimiglia «è necessario il rispetto per l'operato delle istituzioni da parte della politica che deve prendere atto come in questo momento è giusta una pausa di riflessione per capire come sia possibile che tutto questo sia accaduto senza che la politica se ne accorgesse». Nel tempo Ventimiglia sarebbe diventata una delle basi operative della 'ndrangheta al Nord che avrebbe messo le mani sui settori dell'edilizia, del movimento terra e soprattutto del riciclaggio di denaro sporco nelle sale giochi. Ma la peculiarità di Ventimiglia è l'essere anche città frontaliera, comoda base di transito per latitanti. Nelle carte che hanno portato allo scioglimento si fanno i nomi dei «calabresi in affari al nord» con le mani in pasta negli appalti pubblici e nella gestione di slot machine. A Ventimiglia, come a Bordighera, si sono poi moltiplicati gli incendi dolosi di bar e automobili, con tanto di tariffario. Secondo la procura nazionale antimafia: «è stata accertata l'esistenza di una sorta di tariffario per l'esecuzione di tali attentati che va dai 700 ai 1000 euro, destinato come compenso a coloro che materialmente operano». E poi le frequentazioni a rischio di personaggi pubblici e politici fotografati a feste di battesimo e a matrimoni. Con la decisione del Consiglio dei Ministri si interrompe anticipatamente la legislatura del Consiglio comunale eletto nel 2007 e che avrebbe comunque concluso il proprio mandato in primavera. Per l'ordinaria amministrazione e in vista delle nuove elezioni ora dovrà essere nominato un commissario prefettizio. Ventimiglia è la seconda città della provincia di Imperia sciolta per mafia. A marzo era stato il turno del comune di Bordighera.

BORDIGHERA. Dal “Corriere della Sera” si legge che il Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell'Interno, Roberto Maroni, il 10 marzo 2011 ha sciolto il consiglio comunale di Bordighera (Imperia) per infiltrazioni mafiose. Si tratta del primo caso in Liguria di una pubblica amministrazione sottoposta a questo provvedimento. La richiesta di scioglimento era stata avanzata dai carabinieri, che avevano compilato un dossier dal quale emergeva l'ipotesi di un collegamento tra alcuni politici e la malavita organizzata. Il Comune era governato da una coalizione di centrodestra e a seguito delle indagini la giunta venne azzerata e il sindaco ne formò un'altra. Erano emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori per ottenere l'apertura di una sala giochi e altri favori. Vennero arresati otto imprenditori, membri di alcune famiglie di origine calabrese (Pellegrino, Valente, De Marte, Barilaro) alcuni dei quali ritenuti «contigui» alla 'ndrangheta. L'ipotesi investigativa è che alcuni politici fossero stati eletti con voto di scambio. Secondo “Repubblica” assessori eletti con i voti della 'ndrangheta. Appalti più che sospetti. Ricatti e minacce di morte ai consiglieri comunali. Un agguato mortale ai carabinieri sventato appena in tempo. E poi armi, aggressioni, il racket della prostituzione e quello del gioco d'azzardo. Il Comune di Bordighera, una delle perle liguri della Riviera dei Fiori, è stato ufficialmente sciolto per "infiltrazioni mafiose" dal Consiglio dei Ministri, che ha accolto la proposta presentata dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Commissariato, così come accaduto con Desio. L'allarme era stato lanciato dai carabinieri del nucleo operativo di Imperia con una clamorosa e dettagliata relazione. Alle stesse conclusioni era giunta la commissione prefettizia che per quattro mesi aveva messo le tende negli uffici pubblici della cittadina imperiese, concentrando la propria attenzione su di una mezza dozzina di appalti sospetti, in particolare legati al ripascimento delle spiagge e agli interventi successivi all'alluvione che aveva devastato le coste liguri nel 2006. Sono lavori più o meno direttamente gestiti dalla ditta facente capo alla famiglia calabrese dei Pellegrino, attualmente sotto processo per una brutta storia di estorsioni. Il clan avrebbe garantito l'elezione di alcuni stretti collaboratori del sindaco, secondo quanto emerso anche da una parallela indagine penale. Gli investigatori avevano puntato l'indice anche sulle facilità con cui un night di Bordighera - gestito dalla famiglia Pellegrino- avrebbe ottenuto dagli amministratori pubblici l'affiliazione ad associazioni sportive e culturali per superare garbugli burocratici e fiscali. Ma nel conto ci sono naturalmente anche le confessioni fatte dagli stessi eletti agli inquirenti. E le notti trascorse da questi con la pistola sotto il cuscino, per la paura di ritorsioni. Le minacce e i ricatti provati, le pistolettate per chi decideva a chi affidare i riempimenti dei cantieri.  Una cittadina bellissima e tormentata, Bordighera, da troppo tempo intossicata da un'aria pesante. La mafia nella Riviera dei Fiori è purtroppo storia vecchia, legata all'insediamento - a partire dagli anni Sessanta - di alcuni esponenti della 'ndrangheta mandati al confino. All'inizio dell'anno erano stati arrestati Michele ed Alessandro Macrì, calabresi, trovati in possesso di una pistola calibro 6.35 con matricola abrasa: "Quelli devono morire", li avevano sentiti ringhiare al telefono. Dove quelli stava per i carabinieri, colpevoli di aver redatto la relazione con cui già a giugno chiedevano lo scioglimento del Comune. Nell'autunno erano stati fermati altri quattro calabresi con una pistola. Volevano uccidere, avevano spiegato gli investigatori. L'obiettivo è rimasto sconosciuto, ma il loro avvocato no: Marco Bosio, lo stesso della famiglia Pellegrino. Bosio è anche il cognome del sindaco Pdl, l'architetto Giovanni: "Sono stanco di difendere quest'amministrazione dalle voci maligne. Dopo la denuncia dei carabinieri abbiamo cambiato la giunta. Il resto sono chiacchiere", ha ripetuto per mesi il primo cittadino. Chiacchiere come l'amicizia su facebook di uno dei rampolli dei Pellegrino, Giovanni, con gli assessori di Bordighera, con il consigliere regionale Eugenio Minasso e con il deputato Alessio Saso. Chiacchiere? Donatella Albano, consigliera comunale d'opposizione, l'ha sempre pensata diversamente. Mesi fa si era opposta all'apertura di una sala-giochi farcita di slot machines, naturalmente gestita dai Pellegrino. Da allora ha ricevuto solo minacce. Le avevano spedito un santino bruciacchiato di San Michele Arcangelo. Quello usato nelle affiliazione della 'ndrangheta. Adesso finalmente può respirare. "Forse è davvero finita", commenta.

Bordighera, infiltrazioni mafiose. Si dimette il padre del sottosegretario. E' l'assessore al Bilancio il primo a lasciare la giunta comunale dopo l'informativa dei carabinieri che avanza sospetti su possibili condizionamenti e voti di scambio. Sonia Viale, figlia del dimissionario e vice di Tremonti, rimanda al vertice leghista. Il responsabile della giustizia del Pd, Andrea Orlando, chiede "di investigare a fondo". Lascia anche un consigliere comunale del Pdl. Sfiora il governo il terremoto politico che scuote Bordighera, scrive "La Repubblica". Dopo i sospetti di infiltrazioni mafiose si dimette Giulio Viale, assessore leghista al Bilancio e padre di Sonia Viale, sottosegretario all'Economia. Viale ha scelto di farsi da parte dopo la notizia dell'invio al prefetto di Imperia, Francesco Paolo Di Menna, di un’informativa dei carabinieri  su possibili infiltrazioni mafiosi e voti di scambio. Viale ha rassegnato le dimissioni alla segreteria nazionale del partito. Sonia Viale, che in precedenza era stata una delle collaboratrici più vicine all'ex ministro della giustizia Roberto Castelli, dal canto suo, ha chiarito che ogni decisione sarà demandata alla direzione del partito. Anche un esponente del Pdl, il consigliere incaricato alle manifestazioni, Alessandro Panetta, ha annunciato che abbandonare il suo incarico all'interno dell'amministrazione comunale. Sulla vicenda di Bordighera aveva già lanciato un preoccupato allarme il responsabile della giustizia del Pd, Andrea Orlando, che ha sottolineato la necessità di investigare a fondo sulle possibili infiltrazioni mafiose nella provincia di Imperia. L'informativa inviata dai carabinieri del comando provinciale al prefetto Francescopaolo Di Menna è giunta al termine delle indagini che hanno portato agli arresti di otto persone a Bordighera, legate al gioco d'azzardo, alcune di queste considerate "contigue" alla 'ndrangheta. Secondo le dichiarazioni di alcuni assessori comunali, gli arrestati avrebbero esercitato pressioni sul sindaco e su assessori per ottenere l'apertura di una sala giochi ed altri favori.

I carabinieri al prefetto: infiltrazione in consiglio comunale, l'assemblea va sciolta. Infiltrazioni mafiose. Il consiglio comunale di Bordighera deve essere sciolto perché sotto scacco dalla ‘ndrangheta calabrese, responsabile, negli ultimi mesi, di una serie di attentati incendiari a bar e imprese, scrive "La stampa". A chiederlo al prefetto sono stati i carabinieri, che hanno individuato «elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata e forme di condizionamento degli stessi amministratori in grado di compromettere la libera determinazione e il regolare funzionamento dei servizi». Il «prepensionamento» del primo cittadino è ormai in atto. E Bosio ripete: «Siamo persone perbene, nessuno è indagato, nessuna collusione con il malaffare». Il sindaco deve aver capito che la sua strada è segnata: l’assessore della Lega Nord, che lo appoggia da sempre, Giulio Viale, padre del sottosegretario all’Economia, Sonia, si è dimesso rimettendo il mandato al partito. A non mollare la poltrona, invece, è Rocco Fonti, che da assessore si è permesso di andare a raccontare, secondo il gip, frottole al pubblico ministero. Il gip lo ha scritto nero su bianco: ha tenuto un «comportamento menzognero», ma lui non se ne va e il sindaco lo tiene in giunta. Bordighera in mano alla malavita? Roba da far rivoltare nella tomba la Regina Margherita di Savoia, che in questa città della Riviera aveva finito con serenità i suoi giorni. Nella loro relazione i carabinieri del colonnello Franco Cancelli hanno preso spunto da una serie di informative degli ultimi quattro anni riguardanti «stranezze amministrative» mai approdate allo status di violazioni penali e dall’inchiesta del procuratore Roberto Cavallone, che all’inizio del mese ha arrestato tre esponenti della famiglia Pellegrino, imprenditori del settore movimento terra. I tre si erano rivolti a due assessori contrari al fatto che aprissero due sale slot a Bordighera, ammiccando: «Però quando avete avuto bisogno dei nostri voti noi vi abbiamo aiutato». Nel feudo del centrodestra della Liguria, dove le percentuali di vittoria elettorale sono bulgare da oltre un ventennio, il Pdl «aveva bisogno» di quei voti? Ad avere bisogno erano i politici o chi dava loro il voto? Di sicuro, ci sono le foto di sindaco e un onorevole Pdl immortalati in diverse occasioni con esponenti della famiglia in questione, con informative relativa a finanziamenti elettorali (legittimi), incontri, cene, aperitivi. A mettere in imbarazzo il sindaco c’è anche il fatto che uno degli assessori minacciati dai Pellegrino avesse riferito a un carabiniere che lui, il sindaco, alle sale slot era favorevole perché aveva «favori da rendere». Inoltre, nel rapporto al prefetto l’Arma ha allegato intercettazioni telefoniche tra imprenditori e malavitosi. Argomento delle conversazioni: affari di politici dediti all’imprenditoria. Ancora, il misterioso dissolversi della richiesta di chiusura di un circolo privato che poi si era rivelato essere un luogo di incontro tra clienti e prostitute. Infine, la ciliegina è arrivata l’altra sera. I carabinieri hanno chiesto lo scioglimento di un consiglio comunale che ha votato compatto la fiducia al sindaco. E nel Pdl hanno iniziato a fare la lista per le prossime elezioni.

MAGISTROPOLI.

Imperia: marito dell'ex procuratore e due carabinieri accusati di abuso d'ufficio. Sarà il neo Procuratore Capo Alberto Lari a occuparsi del caso, scrive mercoledì 25 ottobre 2017 "Sanremo news". Cabiddu è indagato per abuso d'ufficio insieme all'ex comandante provinciale dei Carabinieri di Imperia Luciano Zarbano e il maggiore David Egidi, anche lui in passato in servizio a Imperia. La vicenda riguarda il presunto mancato ritiro della patente nei confronti di Cabiddu, il quale, mentre si trovava in Sardegna, aveva commesso un'infrazione che gli sarebbe costata il ritiro immediato del documento di circolazione. Sarà il neo Procuratore Capo Alberto Lari a occuparsi del caso della patente di Gianfranco Cabiddu, il marito dell'ex Procuratore Giuseppa Geremia, che ha preceduto Lari nell'incarico. Cabiddu è indagato per abuso d'ufficio insieme all'ex comandante provinciale dei Carabinieri di Imperia Luciano Zarbano e il maggiore David Egidi, anche lui in passato in servizio a Imperia. La vicenda riguarda il presunto mancato ritiro della patente nei confronti di Cabiddu, il quale, mentre si trovava in Sardegna, aveva commesso un'infrazione che gli sarebbe costata il ritiro immediato del documento di circolazione. Il caso era stato trasferito a Torino, in quanto, all'epoca dei fatti, la Geremia era ancora a capo della Procura di Imperia e il capoluogo piemontese è la sede indicata nell'eventualità di indagini che riguardano i magistrati, o i loro familiari, in servizio a Imperia. Tuttavia, il Gup Cristina Domaneschi aveva ritenuto incompatibile territorialmente il Tribunale di Torino e il fascicolo era tornato a Imperia, dove i legali di Zarbano e Egidi hanno chiesto che rimanga, mentre l'avvocato di Cabiddu ha chiesto nuovamente che venga trasferito nel capoluogo piemontese. Dopo il rimpallo, con un'ipotesi che a occuparsene fosse la Procura Generale di Genova, dove però è adesso in servizio la Geremia come Sostituto Procuratore, la decisione sembra essere quella che il fascicolo resti a Imperia dove i magistrati, a cominciare dall'Aggiunto Grazia Pradella, hanno però manifestato l'intenzione di astenersi. La Pradella, inoltre, sul caso è stata sentita in qualità di testimone. Per questo sarà Lari a occuparsene che è arrivato da poco a Imperia e non ha mai lavorato con la Geremia. Il caso è stato rinviato al prossimo 25 gennaio. L'avvocato di Zarbano, Maria Grazia Cavallo di Torino, ha espresso rammarico per la posizione del proprio assistito, ufficiale in servizio, per cui un rinvio, e un conseguente prolungamento della vicenda, iniziata nel 2014, può rappresentare un ostacolo per la propria carriera.

IMPERIA. NON RITIRARONO LA PATENTE AL MARITO DEL PROCURATORE. COLPO DI SCENA IN TRIBUNALE, I PM SI ASTENGONO. LA DIFESA: “ASPETTIAMO DA 2 ANNI..”, scrive il 25 ottobre 2017 "Imperia Post". Cabiddu è anche accusato di falso per avere “mentito” al medico dell’Asl sul proprio stato di salute. Si è chiusa con rinvio, questa mattina in tribunale a Imperia, l’udienza preliminare, presieduta dal Giudice Anna Bonsignorio, che vede imputati Gianfrancesco Cabiddu, marito dell’ex Procuratore Capo di Imperia Giuseppa Geremia, il colonnello dei Carabinieri Luciano Zarbano (oggi in servizio nella Capitale) e il maggiore dei Carabinieri David Egidi (in servizio ad Oristano). I tre sono accusati in concorso di abuso d’ufficio nell’ambito della vicenda relativa alla presunta mancata notifica a Cabiddu del ritiro della patente di guida. Cabiddu è anche accusato di falso per avere “mentito” al medico dell’Asl sul proprio stato di salute. L’udienza preliminare fissata a seguito della richiesta di rinvio a giudizio da parte dei magistrati torinesi ha visto il sostituto procuratore Antonella Politi richiedere un rinvio a seguito dell’incompatibilità da parte del Procuratore Capo facente funzioni Grazia Pradella nel sostenere l’accusa in quanto è stata interrogata nell’ambito del procedimento. Presenti in aula due dei tre imputati, Zarbano ed Egidi, accompagnati dai rispettivi legali. Il giudice Bonsignorio ha accolto la richiesta della Procura rinviando l’udienza al 25 gennaio 2018 quanto l’accusa potrà essere rappresentata dal neo procuratore capo di Imperia Alberto Lari. I Pm piemontesi, attesi in udienza per sostenere l’accusa, non si sono presentati. “Noi non avremmo voluto un rinvio,- ha dichiarato l’avvocato Maria Grazia Cavallo, legale del colonnello Zarabano – avremmo celebrare il processo, attesa che si protrae da anni. Bisogna tener conto che tutti i cittadini hanno diritto ad un processo rapidissimo, il mio assistito ancor di più per esigenze di carriera e di onorabilità del proprio nome. Il mio assistito attende da troppo tempo di essere giudicato, non chiediamo atro. Confidiamo che il processo si possa celebrare il processo il prossimo 25 gennaio. Il fascicolo ha fatto 4 volte avanti indietro tra Imperia e Torino. Il Procuratore Capo ha ritenuto di astenersi, perché sentita in indagini difensive da parte di un collega, e che tutti i suoi colleghi della Procura si dovessero astenere.  Noi dissentiamo da questa interpretazione ma l’udienza è stata fissata il prossimo 25 gennaio, data in cui potrà essere rappresentata dal nuovo procuratore. In scienza e coscienza sono convinta dell’assoluzione del mio assistito, è una vicenda che non sarebbe dovuta arrivare nemmeno in udienza ma piuttosto archiviata in sede di indagini preliminari”.  

LA VICENDA. La vicenda, alquanto complessa, ha origine in Sardegna, quando Cabiddu commise un’infrazione del codice della strada che avrebbe comportato il ritiro della patente per l’esaurimento dei punti. Il provvedimento sarebbe stato notificato presso la Caserma dei Carabinieri di Imperia. Ed è da quel momento che il procedimento è finito sotto gli occhi della Procura di Torino. Secondo l’ipotesi accusatoria, sostenuta dal P.M. Marco Gianoglio, il provvedimento di ritiro della patente sarebbe rimasto chiuso in un cassetto dell’ufficio del Maggiore Egidi, su ordine dell’allora Colonnello Zarbano, e notificato a Cabiddu lo stesso giorno, nel novembre del 2015, in cui quest’ultimo aveva terminato l’iter di revisione della patente, ovvero quando ormai aveva perso di efficacia. In particolare, secondo l’accusa, i due ufficiali avrebbero atteso che il marito del Procuratore Capo si sottoponesse a un intervento chirurgico agli occhi (per via di un problema alla vista), atto propedeutico al completamento dell’iter di revisione della patente. Un ritardo nella notifica che, di fatto, avrebbe evitato al marito del Procuratore il ritiro della patente. Il sospetto è che Cabiddu abbia ricevuto un trattamento di favore grazie al fatto di essere il marito di una delle massime autorità in provincia. Il Colonnello Zarbano, in un primo momento estraneo alla vicenda, sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati solo dopo che il Maggiore Egidi lo avrebbe chiamato in causa dichiarando al P.M. di “aver eseguito un ordine del suo diretto superiore”. Versione, quest’ultima, da sempre respinta dal colonnello Zarbano che si è fatto interrogare due volte dal PM e che ha negato ogni coinvolgimento. L’inchiesta, avviata alcuni mesi fa, e nel corso della quale sono stati sentiti diversi militari in servizio a Imperia, tra i quali il comandante della Stazione Paolo Gianoli, oltre all’ex Procuratore Capo di Imperia Giuseppa Geremia, mai iscritta nel registro degli indagati, si è chiusa con la richiesta di rinvio a giudizio per abuso d’ufficio. La vicenda nacque a seguito di un’intercettazione telefonica tra il Vpo, il vice procuratore onorario Maria Carmela Curcio e l’allora direttore del dipartimento di Medicina Legale dell’Asl1 di Imperia Simona Del Vecchio con la quale la prima chiedeva lumi sulla vicenda riferendole di stare attenta alle conversazioni telefoniche. La Curcio, anche lei inizialmente indagata, fu poi archiviata dalla stessa Procura torinese.

Il caso per la patente del marito dell’ex procuratore Geremia, rimandato a gennaio per incompatibilità del procuratore. L'accusa è di abuso d'ufficio nei confronti di Gianfranco Cabiddu ex carabiniere e marito dell'ex procuratore Giuseppa Geremia e nei confronti di due ufficiali dell'Arma, scrive il 26 ottobre 2017 "Riviera 24". Sarà aggiornata al prossimo 25 gennaio l’udienza inerente l’inchiesta sul presunto ritiro mancato della patente al marito dell’ex procuratore di Imperia Giuseppa Geremia. Stamattina davanti al Gup Anna Bonsignorio si è aperta l’udienza preliminare che è però stata rinviata per via dell’incompatibilità del procuratore facente funzioni Grazia Pradella. L’accusa è di abuso d’ufficio nei confronti di Gianfranco Cabiddu ex carabiniere e marito dell’ex procuratore Giuseppa Geremia e nei confronti di due ufficiali dell’Arma che all’epoca dei fatti prestavano servizio ad Imperia come l’ex comandante provinciale Luciano Zarbano e l’ex comandante della compagnia carabinieri di Imperia David Egidi. Essendo Grazia Pradella stata ascoltata nell’ambito di indagini difensive dal legale di Cabiddu, il sostituto procuratore Antonella Politi ha chiesto il rinvio e la richiesta è stata accettata. La storia fa riferimento alla mancata revoca della patente a Gianfranco Cabiddu, il marito del magistrato che aveva guidato la procura a Imperia. Secondo l’accusa i due ufficiali avrebbero “ritardato” la notifica della sospensione del permesso di guida in modo che l’ex carabiniere avesse il tempo di ottenerne la revisione, superando quindi il provvedimento.  La violazione al codice della strada per Cabiddu era stata accertata quando si trovava in Sardegna. Dai carabinieri di Lunamatrona, era il 12 febbraio 2014, era stata inviata ai colleghi della comando della Pietro Somaschini una missiva contenente il provvedimento della Motorizzazione civile di Cagliari datato 25 novembre 2013. Veniva indicata la “sospensione a tempo indeterminato della patente di guida categoria C” per il Cabiddu. Secondo la procura della Mole, tuttavia, la pratica sarebbe stata “rallentata” nelle successive procedure, anche nell’inserimento della segnalazione nella banca dati delle forze di polizia. Da qui l’indagine nei confronti dei due ufficiali dell’Arma.

Caso-patente: il 25 gennaio si apre l’udienza preliminare. Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 28/10/2017 de "La Stampa”. Caso-patente: si aprirà il 25 gennaio, davanti al giudice Anna Bonsignorio, l’udienza preliminare a carico dell’ex comandante provinciale dei carabinieri Luciano Zarbano, 53 anni, l’ex comandante della compagnia David Egidi, 40 anni, e Gianfranco Cabiddu, marito dell’ex procuratore di Imperia Giuseppa Geremia. Tutti e tre gli imputati devono rispondere di abuso d’ufficio. L’indagine era stata avviata dalla Procura di Torino (pm Gabetta e Avenati Bassi) perché in un primo tempo aveva coinvolto anche la stessa Geremia, ma la sua posizione era stata poi archiviata, e il fascicolo era stato trasmesso a Imperia. L’accusa è riferita al presunto ritardo nel notificare a Cabiddu la sospensione della patente (arrivata in caserma dalla Sardegna nel febbraio 2014 dopo una violazione al Codice della Strada in seguito alla quale aveva esaurito i punti a disposizione), in modo che l’uomo avesse il tempo di ottenerne la revisione, rendendo di fatto inefficace il provvedimento. Riuscendo, allo scopo, anche a farsi operare per un problema alla vista che gli avrebbe impedito di superare l’esame medico necessario per ottenere la revisione. Sia Zarbano che Egidi hanno sempre respinto le contestazioni. All’udienza, l’accusa sarà sostenuta dal nuovo procuratore di Imperia Alberto Lari. [p.i.] 

Ed ancora. Barbara Bresci, la pm “sedotta” da Gabriel Garko, ora deve pure difendersi al Csm…scrive "Oggi" il 26 aprile 2016. Barbara Bresci rischia grosso per i suoi apprezzamenti sulla bellezza di Gabriel Garko…Le sue frasi, si difende il magistrato, erano in una bacheca privata. Ma dopo aver perso l’inchiesta sull’esplosione della villa che ospitava l’attore, il pm dovrà convincere il Csm di non aver ecceduto la propria “continenza”. Mentre altri giudici possono fare tutto quello che vogliono…Il caso della pm che fece apprezzamenti su Gabriel Garko continua a suscitare polemiche. Dopo aver perso l’inchiesta è costretta a difendersi davanti al Csm. Il pm Barbara Bresci era il magistrato cui era stato affidato il caso dell’esplosione della villa in cui era ospite Gabriel Garko, che si salvò per un pelo. Una donna morì. L’attore fu sentito ancora in pigiama e impolverato. Il magistrato aveva un profilo su Facebook. E lì, la curiosità delle amiche aveva avuto la meglio: “Ma è davvero così bello?” le chiese un’amica. “Sì”. E ancora: “Ti sei rifatta gli occhi?”. Risposta: “Sì”. E ancora: “É tanta roba anche se acciaccato e in pigiama”. Qualcuno ha però portato all’attenzione del procuratore capo di Imperia, Giuseppa Geremia, la conversazione. E l’indagine le è stata tolta perché l’apprezzamento nei confronti dell’attore potrebbe “interferire sul necessario equilibrio” del magistrato, impegnato nell’ascolto dell’attore come testimone. Inutile la difesa del pm, scritta al procuratore: “Era una conversazione sulla bacheca privata di Facebook, non un messaggio pubblico”. Non è bastato. Perché ora la situazione è al vaglio della commissione disciplinare del Csm, che deve valutare se abbia rispettato l’obbligo di “continenza”. E al Csm Bresci ha aggiunto: “Garko non è indagato ma persona offesa, i commenti poi erano stati sollecitati da altri e non riguardavano i fatti oggetto dell’indagine”. Il Corriere della Sera rivela un altro dettaglio, appreso da un magistrato vicino alla Bresci: “Pensa che qualcuno l’abbia tradita perché quella bacheca non la vedevano tutti, qualcuno che aveva interesse a incastrarla e ha fatto la spia”. Ora Barbara Bresci ha cancellato il profilo Facebook. E anche lo staff di Garko fa sapere che l’attore non ha nulla da commentare. Restano alcune domande: l’Italia è di gran lunga il Paese occidentale più condannato dalla Corte di Strasburgo per le violazioni dei diritti dell’Uomo avvenute nei processi. Gli errori giudiziari sono molti e le ingiuste detenzioni migliaia. Non risulta che qualche toga abbia mai pagato per fatti del genere. Possibile che lo scandalo nella magistratura lo desti una battuta su Garko? Possibile che a scatenare un procedimento disciplinare sia una vicenda come questa, dove, sollecitata da un’amica, una pm ha semplicemente detto ciò che pensano milioni di italiane?

PARLA BARBARA BRESCI. La pm degli elogi a Garko: «Mi ridanno il caso? Non lo voglio più». Indagine tolta per i commenti in Rete, la commissione del Csm le dà ragione. «Tengo solo alla mia dignità». Durante Sanremo il magistrato seguiva il caso dell’esplosione nella villetta dove l’attore era ospite, scrive Andrea Pasqualetto il 19 giugno 2016 su "Il Corriere della Sera". Quel giorno Gabriel Garko era in pigiama e malconcio. Ma lei l’aveva trovato comunque affascinante e lo scrisse con leggerezza alle amiche di Facebook. Imprudente, certo, considerato che l’attore era il testimone e lei il pm titolare dell’inchiesta. Ma la settima Commissione del Csm le ha dato ragione e ora, dopo due mesi di graticola, il pm di Imperia Barbara Bresci tira un sospiro di sollievo e dice di sentirsi sollevata perché il periodo è stato proprio nero. Iniziò il giorno in cui il procuratore d’Imperia, Giuseppa Geremia, le revocò l’inchiesta invocando «il necessario equilibrio» che sarebbe stato compromesso. «In ogni caso, quell’indagine, non la rivorrei», ha confidato Bresci ieri a una collega amica preferendo evitare i media. La questione è delicata perché i messaggi social le sono costati molto: al di là della perdita dell’indagine sull’esplosione della villetta di Sanremo dove Garko era ospite e dove morì la proprietaria, c’è in ballo il danno d’immagine e l’apertura di questo fascicolo al Csm che non è ancora chiuso. La Commissione dell’organo di autogoverno della magistratura, contraria alla revoca del fascicolo, ha infatti avanzato solo una proposta al plenum del Csm, in calendario mercoledì, a cui spetta l’ultima parola. Nel frattempo emergono le due ragioni del parere favorevole al pm. La prima: il «caso Bresci» non rientrerebbe fra quelli previsti per i provvedimenti di revoca. Seconda: il comportamento non andrebbe a incidere sul corso dell’indagine. Se ci sarà l’ok del plenum, il capo della Procura potrebbe essere invitata a tornare sui suoi passi. In ogni caso Bresci dice di non avere alcun interesse a riprendersi l’indagine, ora in mano ad altri. «Io tengo solo a tutelare la mia professionalità. Non nutro alcun attaccamento al fascicolo processuale», ha detto ai primi di maggio, sentita dal Csm. Nell’occasione aveva ribadito la sua intenzione di aver scritto quei messaggi su Garko a una platea limitata di amici: «Era la bacheca privata di Facebook, non quella “pubblica”». Il tenore della chat non era esattamente filosofico. «Ma davvero è così bello?», le chiedeva l’amica. «Sì». «Ti sei rifatta gli occhi». «Sì». «È tanta roba anche se acciaccato e in pigiama». Poche frivole battute. Che secondo alcuni sono state utilizzate come arma impropria nell’ambito dello scontro di potere che sta toccando Imperia e che coinvolgerebbe alcuni magistrati e avvocati del foro. Scontro sul quale sta indagando Torino, competente per territorio. Secondo questa ipotesi Garko è piombato in pigiama nel bel mezzo della battaglia, animandola. 

«Il mio modo di essere giudice era quello di avere sempre il centralino intasato e la sala d’attesa piena di gente: questa era la mia etica, e me la tengo, perché faceva parte della mia persona ascoltare tutti. Evidentemente altri non condividevano il mio modo di interpretare il ruolo del giudice, ed è questa la ragione principale della mia condanna. Forse sarebbe stato più opportuno ricorrere ad un provvedimento disciplinare...». Questo dice Boccalatte a Paolo Isaia su “Il Secolo XIX”. Nelle parole dell’ex presidente dei tribunali di Imperia e Sanremo Gianfranco Boccalatte c’è l’analisi delle vicenda giudiziaria iniziata con un’avviso di garanzia nel gennaio 2011 e terminata, lo scorso 20 dicembre 2011, con la sua condanna con rito abbreviato a 3 anni e 8 mesi per corruzione in atti giudiziari e millantato credito. Per questa inchiesta Boccalatte è rimasto agli arresti domiciliari dal 19 maggio 2011 all’8 febbraio di quest’anno; rimane tuttora indagato per il reato di peculato, vicenda della quale non può logicamente parlare. Ma ora può dire la sua sulla sentenza del gup del tribunale di Torino Francesco Gianfrotta. Boccalatte è seduto accanto ai suoi difensori, gli avvocati Enzo Lepre e Roberto Ottolini. I quali, mercoledì scorso, hanno presentato ricorso alla Corte d’Appello contro la condanna di primo grado. Per i due legali, e per l’ex presidente, il provvedimento del giudice per le udienze preliminari torinese Gianfrotta, «con il massimo rispetto dell’autorità giudiziaria, è sconvolgente». Mentre il ricorso in appello, lungo ben 95 pagine, rappresenta «la nostra verità». Boccalatte esordisce con una considerazione alla quale, e lo si vede dall’espressione con la quale la pronuncia, tiene davvero molto. «Quando ho potuto leggere gli atti ho scoperto che a Sanremo, per questa storia, è successo di tutto: giudici che ascoltano o interrogano altri giudici, e avvocati. Sapere che sono stati sentiti dei colleghi e degli avvocati, e in maniera per così dire “penetrante”, sia pure con il fine di valutare le prove di un mio eventuale coinvolgimento, mi è dispiaciuto enormemente». L’ex presidente, e i due legali, sottolineano come «nel quadro generale della sentenza che abbiamo impugnato emerge una personalità che non corrisponde alla realtà, quella di un giudice che si trovava in difficoltà economiche, pieno di debiti, con i vizi dell’alcol e del gioco. Tutte falsità. Non solo, la sentenza è incoerente al suo interno, perché non cita passaggi di denaro. Si dice che c’è stata corruzione, c’è stata millanteria, ma non ci sono i frutti né della corruzione, né della millanteria. E nella stessa sentenza si dice che Boccalatte non ha mai millantato nulla. Allora sembra incredibile che sia stato condannato a 3 ani e 8 mesi.». Per i due difensori la tesi è che quanto emerso dalle indagini, a partire dai colloqui in macchina tra il giudice Boccalatte e l’autista Giuseppe Fasolo, condannato in concorso a 3 anni, sia stato letto solo in chiave accusatoria. «Il processo è stato celebrato con rito abbreviato, e non è stata possibile la trascrizione delle intercettazioni ambientali. Ma la lettura dei brogliacci rivela come le parole dette durante un viaggio o nell’arco della giornata abbiano una successione stranissima, come se fossero stati riversati solo i brani che interessano. È perlomeno bizzarro, e a questo punto chiediamo la riapertura dell’istruttoria, come impone sia la delicatezza della vicenda che la posizione rivestita dal nostro cliente, affinché in sede di appello vengano sentite tutte le intercettazioni. Così come chiediamo che Fasolo venga ascoltato in aula, va capito come si sia sviluppata la sua testimonianza: se è un millantatore, ed ha concorso alla corruzione, come mai in nessun momento ha detto “io ho dato dei soldi al presidente Boccalatte, o il presidente mi ha chiesto dei soldi». Su questo punto, Boccalatte, ricordando i suoi 44 anni di lavoro al servizio della giustizia, ribadisce: «Non ho mai chiesto né ricevuto denaro. Tutto riporta solo al mio modo essere un giudice. Con il senno di poi consiglierei a chiunque di tenere la porta chiusa, e non fare come me, che sono sempre stato disponibile ad ascoltare tutti. Ma questo senza mai commettere alcun illecito penale».

Imperia. Arrestato presidente del tribunale. Così dall’articolo di La Repubblica del 19 maggio 2011. Il magistrato è accusato di corruzione. Avrebbe concesso sconti di pena e altri favori ad esponenti della criminalità organizzata locale. Sotto la lente di ingrandimento anche successioni, assegnazioni in aste giudiziarie, fallimenti e dispute per questioni di eredità. Arrestato il presidente del tribunale, Gianfranco Boccalatte. Il magistrato era accusato di corruzione nell'ambito di una inchiesta che, alla fine di gennaio, aveva portato in carcere il suo autista. L'ordine di arresto è giunto dal procuratore capo della Procura di Torino Giancarlo Caselli competente per indagini su magistrati di altri distretti. In aspettativa dal servizio, e in attesa di un trasferimento a Firenze che di recente gli era stato concesso, Boccalatte era accusato di avere concesso sconti di pena ed altri favori ad esponenti della criminalità organizzata locale. Nell'ambito della stessa inchiesta, i carabinieri hanno anche arrestato due pregiudicati per millantato credito. Concessi al magistrato gli arresti domiciliari. Sono centinaia i provvedimenti esaminati da Gianfranco Boccalatte al vaglio degli investigatori. Sotto la lente di ingrandimento, in questi mesi, sono finite non solo le decisioni in merito alle misure di prevenzione, ma anche tutta una serie di sentenze e pronunciamenti in sede civile. Dalle successioni alle assegnazioni in aste giudiziarie, dai fallimenti alle dispute per questioni di eredità, sino ai contenziosi per tutta una serie di insoluti ed altre inadempienze a contratti.

Finisce nella bufera il Palazzo di Giustizia di Imperia, scrive “TGcom24” . Il presidente del tribunale, Gianfranco Boccalatte, è stato indagato nell'ambito di un'inchiesta per millantato credito e corruzione in atti giudiziari, per cui il suo autista, Giuseppe Fasolo, è stato portato in carcere. Nel mirino ci sono presunti favori a tre sorvegliati speciali di origine calabrese legati alla 'ndrangheta e indagati nella stessa inchiesta. L'indagine è coordinata dalla procura di Torino, competente sui magistrati della Liguria, e viene condotta dai carabinieri del capoluogo piemontese insieme ai colleghi di Imperia, che hanno fatto irruzione in tribunale, acquisendo diversa documentazione e perquisendo l'ufficio di Fasolo. Nel mirino del procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli, che segue la vicenda in prima persona, ci sarebbero dunque presunti favori concessi a tre sorvegliati speciali. Secondo l'accusa, avrebbero ottenuto riduzioni o attenuazioni di pena. Provvedimenti che, di norma, vengono assunti dal presidente del Tribunale. Per questo motivo a finire nel registro degli indagati è stato Boccalatte, mentre sempre secondo gli inquirenti il suo autista, assolto in passato dall'accusa di ricettazioni di corpi di reato quando prestava servizio al tribunale di Sanremo, avrebbe agito come mediatore. "Il presidente Boccalatte è stato iscritto nel registro degli indagati per chiarire ogni dubbio", ha spiegato il procuratore Caselli. "Nei suoi confronti sono stati fatti vari accertamenti - ha aggiunto il magistrato - e lui ha offerto ampia collaborazione". Tra i reati contestato al suo autista, l'unico ad essere finito in carcere, c'è anche quello di millantato credito. Per l'operazione eseguita è stato chiesto anche l'appoggio del tribunale di Sanremo. Quattro avvocati, tre della provincia di Imperia e uno del foro di Genova, sono stati ascoltati come persone informate dei fatti. L'inchiesta è ancora coperta dal massimo riserbo. Presidente del tribunale di Imperia dal 2009, Boccalatte, 67 anni, è molto noto in Riviera, dove è stato in predicato per diventare sindaco di Sanremo e, più di recente, presidente del Casinò della Città dei Fiori. Da tempo la zona di Imperia è stata teatro di episodi come roghi di auto e camion incendiati. Sono diverse le inchieste che sono state aperte per fare chiarezza sul voto di scambio tra politici locali e clan. A Donatella Albano, consigliere comunale del Pd a Bordighera, è stata concessa la scorta dopo essere stata minacciata per la sua contrarietà a slot machine e le sue denunce su infiltrazioni malavitose.  

Il presidente del tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, è stato indagato dalla procura di Torino, competente per territorio, nell’ambito dell’inchiesta per corruzione e millantato credito che, il 18 gennaio 2011, ha portato in carcere l’autista dello stesso giudice, Giuseppe Fasolo, in servizio al tribunale di Imperia, scrive “Il Giornale”. A dare l’annuncio è stato il procuratore della Repubblica di Torino, Giancarlo Caselli, lo stesso giorno in una conferenza stampa che si è tenuta al comando provinciale dei carabinieri di Imperia. Caselli ha sottolineato che per chiarire oltre ogni dubbio tutti i risvolti della vicenda, «è stato necessariamente iscritto nel registro degli indagati anche il presidente del tribunale di Imperia. Nei confronti del presidente si è proceduto a vari accertamenti, per l’esecuzione dei quali il presidente stesso ha prestato ampia collaborazione». Procedono i carabinieri di Torino in unione con quelli di Imperia nell’attività di indagine, sono impegnati vari magistrati della procura di Torino «così da assicurare», ha concluso il procuratore, «insieme alla contestualità dei diversi accertamenti, la rapidità dei medesimi». In tribunale a Imperia c’è stato un blitz dei carabinieri, nel corso del quale è stata acquisita diversa documentazione ed è stato perquisito anche l’ufficio di Fasolo. Nella stessa indagine risulterebbero indagate altre tre persone in stato di libertà. Quanto all’autista Fasolo, sembra che promettesse la soluzione di guai giudiziari, millantando determinate conoscenze e probabilmente in cambio di denaro.

Misure preventive e di sorveglianza speciale nel mirino degli investigatori, chiamati a verificare la presenza di eventuali anomalie che possano confermare l'ipotesi di corruzione, che ha visto finire nei guai il presidente del Tribunale di Imperia, scrive “Riviera24”.  Sono incentrate; da una parte sulle misure di prevenzione disposte dal tribunale di Imperia; dall'altra sulle misure di esecuzione pena, disposte dal Tribunale di Sorveglianza di Genova, le indagini della Procura della Repubblica di Torino, che hanno fatto finire sotto inchiesta il presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte e un magistrato del Tribunale di Sorveglianza del capoluogo, nell'ambito dell'inchiesta per millantato credito e corruzione in atti giudiziari, che ha portato in carcere Giuseppe Fasolo, autista del giudice imperiese, considerato l'intermediario tra magistrati e delinquenti. Nella stessa indagine sono stati indagati anche tre pregiudicati (L.Z., N.S. e R.S.), tutti di origine calabrese, ma abitanti nella zona di Sanremo e sono stati ascoltati come persone informate quattro avvocati: 3 del Foro di Sanremo, uno del Foro di Genova. Obiettivo degli investigatori – che hanno perquisito gli uffici di Fasolo e Boccalatte, presso il Palazzo di Giustizia di Imperia – è quello di smascherare eventuali anomalie nei provvedimenti relativi ai due ambiti di competenza, che possano confermare l'ipotesi di corruzione, secondo la quale: col tramite di Fasolo venivano accordati 'sconti' o 'premi' ai detenuti e riduzioni a chi, in stato di libertà, veniva sottoposto a misure di prevenzione. In questo caso, può risultare utile sapere che sono alcune decine (su un centinaio di soggetti iscritti nella 'lista nera' della Procura), le misure di prevenzione chieste, a cavallo tra il 2009 e il 2010, dal procuratore di Sanremo, Roberto Cavallone al tribunale di Imperia, nei confronti di altrettanti personaggi dell'estremo ponente ligure ritenuti pericolosi sotto il profilo criminale. Tra tutti, un caso risulterebbe anomalo in maniera piuttosto clamorosa. Si tratta della misura di prevenzione (consistente nell'obbligo di soggiorno) chiesta, nel febbraio del 2009, nei confronti del 'capo bastone' della 'ndrangheta, Antonio Palamara, la quale venne accordata dal tribunale di Imperia, ma revocata circa tre mesi dopo dalla Corte di Appello di Genova. 'Aspettiamo gli esiti di questa inchiesta – ha commentato il Procuratore di Sanremo, Cavallone – sperando che Boccalatte possa chiarire la sua posizione. Da parte mia posso dire di non aver mai avuto segnali di favoritismi'. Le indagini, condotte dai carabinieri di Torino e Imperia, sono coordinate da Gian Carlo Caselli, procuratore capo di Torino (la Procura competente per i reati commessi o subiti da magistrati liguri), che si avvale della collaborazione di altri tre magistrati del suo staff, tra cui il procuratore aggiunto Anna Maria Loreto. L'attività investigativa si è concretizzata attraverso numerose intercettazioni telefoniche e ambientali.

Aiuti agli amici «bisognosi»: il giudice Boccalatte torna a processo, scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. L’ex presidente del tribunale di Sanremo e Imperia accusato di aver distorto la giustizia e non solo: a una vedova interdetta sono scomparsi soldi e gioielli. Un’asta pilotata per aiutare l’elettricista in cambio di lavori in casa. Un misterioso furto di smeraldi, brillanti e zaffiri che appartenevano a un’ereditiera interdetta. Un porto d’armi restituito in cambio di una bottiglia di champagne da 500 euro. Una storia di illeciti interpretati come favori ad amici, tra i tribunali di Sanremo e Imperia. In un contesto giudiziario dove per anni in molti hanno saputo o sospettato, ma nessuno ha parlato. Sono alcuni dettagli, emersi ieri in tribunale a Torino, del processo in cui è imputato Gianfranco Boccalatte, ex presidente del tribunale di Imperia e di Sanremo, già condannato nel 2011 per corruzione in atti giudiziari e millantato credito.

Gli amici bisognosi e la giustizia «personale». In questo secondo procedimento, di cui ieri è iniziata la discussione, l’ex giudice è indagato per una serie di episodi in cui avrebbe avvantaggiato - commettendo reati - amici, conoscenti e personaggi della sua vita quotidiana, interpretando la giustizia come una questione molto personale. I capi di imputazione vanno dal peculato al falso, dal millantato credito all’ abuso d’ufficio, per fatti commessi dal 2002 al 2011. L’ex giudice, nel precedente processo, si è sempre difeso sostenendo di aver agito per aiutare persone che avevano bisogno. Ma dalla deposizione del primo testimone sentito dalla corte, il maggiore Paolo Palazzo, che ha condotto l’inchiesta coordinata dai pm Giancarlo Avenati Bassi e Marco Gianoglio, sono emersi particolari che raccontano una storia diversa dall’altruismo gratuito, forse simile alla trama di una commedia all’italiana.

L’agendina dell’elettricista e lo sfratto sospeso. Uno degli uomini di fiducia dell’ex presidente di tribunale era l’imputato Pietro Benza. Elettricista e tuttofare, un uomo preciso che aveva l’abitudine di segnare in agenda ogni impegno e spesa. «Dai due euro del pane – ha raccontato Palazzo – a tutto quanto fece nelle case di Boccalatte, sia a Sanremo che a Limone Piemonte». A Sanremo l’ex giudice viveva in una palazzina a due piani, in collina, «con un impianto elettrico enorme, contenuto in un grosso armadio». «Benza gli monta le videocamere, installa la webcam e gli insegna a usare Skype. Gli aggiusta le serrande elettriche,installa un dolcificatore per acqua. Fa di tutto e si avvale di due collaboratori. Non ci risulta che queste prestazioni siano mai state pagate». Quando l’elettricista è in difficoltà perché la casa in cui vive a Vallecrosia viene messa all’asta ed è assegnata a un compratore, Boccalatte «emette un provvedimento ex articolo 700 con cui sospende l’effetto del trasferimento della proprietà». Non solo.

I casi «rubati» ai colleghi. Qualche settimana più tardi, Boccalatte avrebbe firmato un secondo atto giudiziario, che in origine sarebbe stato assegnato ad un altro magistrato, Alessandro Cento, a cui avrebbe «rubato» il caso. «Abbiamo trovato il nome di Cento – ha denunciato il teste – cancellato con il bianchetto. Qualcuno sopra ci ha scritto il nome di Boccalatte. In molte telefonate che abbiamo intercettato, (sono sessantamila in tutto, ndr) Boccalatte e Benza parlano della questione, anche quando Boccalatte non è più giudice a Sanremo ma a Imperia, e chiede ai suoi colleghi di intervenire». «Faccio dare a un mio fedele…» diceva l’ex giudice all’amico parlandogli al telefono, per rassicurarlo del fatto che la sentenza la avrebbe scritta «a quattro mani» con un altro collega amico, e che nessuno lo avrebbe mai cacciato di casa.

L’edicola insolvente e l’ordinanza. Anche la signora Angela Salvay, imputata e vecchia amica di Boccalatte, avrebbe beneficiato di un «aiutino» analogo. Titolare di un’edicola a Latte, frazione di Ventimiglia, la commerciante si era trovata in difficoltà perché non era riuscita a pagare il suo fornitore di giornali, che aveva quindi sospeso la distribuzione. Il giudice avrebbe ordinato l’immediata ripresa di tutte le forniture, «di quotidiani, riviste ed affini», motivando l’atto con il fatto che quella della signora era l’unica edicola del paese e che non si sarebbe potuto interrompere l’afflusso degli organi di stampa per il bene della cittadinanza. Sono molti altri i «favori agli amici» contestati dalla procura. C’è l’interessamento per un ristoratore di Sanremo con la fissazione della caccia, che faceva continue pressioni sull’autista del giudice, Giuseppe Fasolo, anche lui imputato, affinché dalla prefettura gli venisse restituito il porto d’armi. La contropartita sarebbe stata una bottiglia di champagne da 500 euro. Oltre che un pc portatile per la figlia del giudice.

La vedova interdetta, l’amico tutore e i gioielli spariti. Ma uno degli episodi per cui Boccalatte rischia di più, e che lo vede imputato di peculato, è quello della signora Teresa Carazzai. Una vedova che possedeva sedici milioni di euro su vari conti correnti, oltre che un alloggio da centoventi metri quadrati in corso degli Inglesi a Sanremo con vista panoramica e una cassaforte piena di gioielli in una banca di Cuneo. Un patrimonio ereditato dal marito defunto, industriale cuneese senza figli. La signora, malata di schizofrenia e giudicata colpevole di aver accoltellato un vicino perché protagonista di un suo delirio paranoico, era stata interdetta. Tutti i suoi beni erano finiti nelle mani del tribunale ed era stata trasferita in una clinica psichiatrica. «Il magistrato Scialabba, titolare del fascicolo della Carazzai - ha spiegato in aula il maggiore Palazzo - riferì di un litigio con Boccalatte. Quest’ultimo avrebbe preso il fascicolo di Scialabba a sua insaputa facendo una liquidazione a De Felice, tutore della signora (amico di Boccalatte secondo l’accusa, ndr) di 137mila euro, che percepì in due anni e mezzo. Anche il custode Capurro (un altro presunto amico di Boccalatte, ndr) percepì 36mila euro, a cui si sommano altri 24mila euro, solo per essere custode di un alloggio, la casa della vedova, disabitato da anni, perché lei era in clinica. Perché percepire tutto questo denaro per una casa vuota?». Le contestazioni non sono finite. C’è un ulteriore mistero su cui la corte dovrà giudicare.La vedova, che pur essendo schizofrenica «sapeva benissimo quali e quanti gioielli aveva in cassaforte, perché erano tutti regali del marito», si accorse che dalla banca e dalla casa di Sanremo erano spariti gioielli, orologi e pietre preziose, oltre che 50mila euro. Chi li rubò? Boccalatte è imputato anche per questo fatto, che avrebbe commesso quando era presidente del tribunale di Sanremo. Lo avrebbero aiutato un altro giudice, un cancelliere, oltre che il tutore dell’ereditiera.

Il caso Boccalatte alle «Iene». Il noto programma d’inchiesta e d’intrattenimento, in onda mercoledì sera 3 dicembre 2014 su Italia 1, si è occupato infatti dell’ex presidente del Tribunale di Sanremo Gianfranco Boccalatte. Giulio Golia, l’inviato storico del programma, era nella città dei fiori dove ha intervistato l’ex magistrato sulla vicenda relativa a Teresa Carazzai, una donna dal patrimonio multimilionario che era stata interdetta da Boccalatte, anche se il perito che l’aveva esaminata aveva ritenuto che potesse amministrare da se stessa le sue finanze.  È la storia di Teresa Carazzai, ricca ereditiera che dopo aver accoltellato un vicino era stata interdetta e rinchiusa in un penitenziario psichiatrico. Sola e senza nessuno che potesse gestirle il grande patrimonio (circa 18 milioni di euro), lo stesso è finito nelle mani dei giudici, che pare lo abbiano spartito con amici e colleghi. La signora, dopo essere stata rinchiusa per 8 anni e mezzo, è stata poi ritenuta in grado di gestirsi il patrimonio, mentre il tribunale di Sanremo ha aperto un’inchiesta contro l’ex presidente e giudice Gianfranco Boccalatte. A parte l'assoluzione, in abbreviato, di Erika Cannoletta, 38 anni, all'epoca dei fatti giudice tutelare onorario (got) e il patteggiamento dell'ex autista di Boccalatte, Giuseppe Fasolo, a 4 anni e 2 mesi, gli altri andranno a processo il 24 maggio 2014. Si è conclusa con un'assoluzione, un patteggiamento in continuazione e sette rinvii a giudizio, poco dopo le 17, davanti al gup Giorgio Potito, di Torino, l'udienza preliminare relativa all'inchiesta per turbativa d'asta, corruzione in atti giudiziari, truffa, falso, peculato e altri reati, che vede come come principale imputato l'ex presidente dei tribunali di Sanremo e Imperia, Gianfranco Boccalatte, di 71 anni, già condannato in altri procedimenti giudiziari affini. Alla precedente udienza, il pm Marco Gianoglio aveva pesentato 9 richieste di rinvio a giudizio. A parte l'assoluzione, in abbreviato, di Erika Cannoletta, 38 anni, all'epoca dei fatti giudice tutelare onorario (got) e il patteggiamento dell'ex autista di Boccalatte, Giuseppe Fasolo, a 4 anni e 2 mesi, in continuazione con una precedente condanna per fatti analoghi, tutti gli altri sono stati rinviati a gikudizio con data di inizio del processo fissata al 24 maggio 2014. Oltre a Boccalatte, anche: l'avvocato Antonio De Felice; l'ex cancelliere del tribunale di Sanremo, Massimo Capurro; Pietro Benza, elettricista; Antonio Marzi, notaio; Riccardo Bosio Amedeo, Sergio Alberti e Angela Salvay, quest'ultima edicolante di Ventimiglia. Il procedimento ruota intorno alla curatela più ricca del Tribunale di Sanremo (qualche milione di euro), quella di Maria Teresa Carazzai. Una seconda parte offesa è l'imperiese Maurizio Cocostaelli di Montiglio. Nel mirino della magistratura, ci sono, oltre alla dubbia gestione di tutele e curatele, che avrebbero depauperato il patrimonio dei soggetti tutelati, anche altri capi di imputazione, tra i quali una truffa aggravata nei confronti dello Stato, che vede implicato l'allora autista del tribunale di Imperia, Alberti (all'epoca distaccato in cancelleria), accusato di aver timbrato il cartellino del collega Fasolo (all'epoca era autista di Boccalatte), per consentirgli di assentarsi dal luogo di lavoro. L'inchiesta, condotta dai carabinieri, è stata coordinata dai pm torinesi Giancarlo Avenati Bassi e Marco Gianoglio. Una decina i capi di imputazione contestati. La tranche giudiziaria fa parte di un più corposo procedimento, col l'ex giudice Boccalatte sempre nel mirino. Fanno parte del collegio difensivo gli avvocati: Eugenio Donato, Alessandro Mager, Mario Ventimiglia, Roberto Ottolini ed Erminio Annoni.

Dopo i quadri i gioielli. Orologi d’oro, anelli tempestati di diamanti, zaffiri e rubini. E’ un inventario degno della caverna di Alì Babà quello che emerge dagli episodi di peculato che ieri hanno portato nuovamente all’arresto del cancelliere del tribunale di Sanremo Massimo Capurro, 47 anni, di Bordighera, e dell’avvocato di Sanremo Antonio De Felice, 54 anni, di Taggia, entrambi già ai domiciliari da febbraio per un episodio di peculato legato a ritratti antichi. Sulla vicenda è tutt’ora in corso un processo. L’ex magistrato non si è sottratto alle domande dell’inviato delle Iene, precisando però che, essendo la vicenda ancora in fase processuale, le sue risposte davanti alla telecamera non potevano essere molto dettagliate. L’ex giudice ha sostenuto di aver agito in buona fede e in modo corretto.  Nel corso del servizio parla anche Teresa Carazzai, la quale sostiene di aver segnalato a suo tempo dubbi sulla gestione della tutela. La trasmissione televisiva di Italia 1, è andato in onda il servizio dell'inviato Giulio Golia sulla storia della signora Teresa Carazzai ricca ereditiera fatta interdire dal giudice Boccalatte. Di recente è stato revocato il decreto di interdizione nei confronti della donna ma il processo va avanti. Intanto Golia è riuscito ad intervistare l'ex giudice Boccalatte ed Erika Cannoletta l'ex giudice onorario, assolta in merito a questa inchiesta. Boccalatte si è concesso all’inviato Giulio Golia, rispondendo alle domande senza però entrare nei dettagli di una vicenda complicata e, soprattutto, per la quale è ancora in corso un procedimento.

Curatele e incarichi pilotati, bruciati più di 300 mila euro, scrive Paolo Isaia su “La Stampa”. Nelle mani del cancelliere del tribunale Massimo Capurro e dell’avvocato Antonio De Felice sarebbero finite centinaia di migliaia di euro, sotto forma di denaro contante, opere d’arte e immobili, ma anche di “parcelle” da capogiro. Come quelle accordate al legale per la tutela di Teresa Carazzai, 137 mila nell’arco di due anni e mezzo, e ulteriori 41 mila in una seconda tranche, e quelle ottenute dal cancelliere per la custodia della villa della donna in corso Inglesi, 116 mila euro in 5 anni. Durante i quali, però, Capurro non entrò mai nell’edificio, tanto che quando lo fecero i carabinieri trovarono nel frigo cibi, marciti da anni. Massimo Capurro e Antonio De Felice sono stati arrestati lunedì mattina, su ordinanza di custodia cautelare del gip di Torino Anna Ricci (davanti alla quale compariranno oggi per l’interrogatorio di garanzia), con l’accusa di peculato, nell’ambito di un’altra tutela, relativa ai beni dell’erede di una nobile casata piemontese, Maurizio Cocastelli Di Montiglio. La coppia è accusata di essersi impossessata di almeno quattro dipinti, due miniature e uno specchio antico. In particolare, un ritratto del conte Adelelmo Cocastelli di Montiglio, appeso nella sala della villa di Capurro e della moglie, l’avvocato Tiziana Rovere, indagata in un filone parallelo della stessa inchiesta in merito al possesso di gioielli e perfino di alcuni denti d’oro, trovati nella cassaforte della stessa abitazione, sulla cui provenienza sono in corso accertamenti; le altre opere della famiglia Cocastelli Di Montiglio, invece, erano a casa e nello studio di De Felice. Le indagini sfociate nell’arresto del legale e del cancelliere erano partite proprio da quelle sulla tutela Carazzai, a sua volta avviate in seguito alla scoperta di anomalie nei procedimenti di volontaria giurisdizione assegnati all’ex presidente del tribunale Gianfranco Boccalatte ed al giudice onorario Erika Cannoletta, anche loro indagati per peculato. Sui beni di Teresa Carazzai - 16 milioni di euro e una villa - si sarebbe scatenata una vera e propria “caccia” all’affare. La donna era stata dichiarata incapace di intendere e volere dal giudice Boccalatte dopo che aveva tentato di uccidere a coltellate un vicino di casa, nell’ottobre 1999. La tutela venne poi affidata dallo stesso Boccalatte a De Felice, nonostante una consulenza tecnica d’ufficio ne avesse attestato la capacità di gestire il proprio patrimonio. E quando la donna cercò di rientrare “in gioco”, scrivendo al direttore della banca che custodiva il suo denaro, De Felice chiese e ottenne dal giudice Cannoletta di intervenire. Fu sempre quest’ultima, ancora sui richiesta di De Felice, a nominare Capurro custode dell’attico della Carazzai, consentendo al cancelliere di ottenere il compenso di 116 mila euro. Mentre fu Boccalatte a liquidare a De Felice la parcella da 136 mila euro. A bloccare la presunta “combine” fu il giudice Scialabba, che prima revocò il provvedimento di Boccalatte, quindi l’incarico a Capurro, ritenendolo anomalo: «La custodia dei beni - scrisse Scialabba - è compito del tutore». Anomalie che per anni, secondo la procura di Torino, sarebbero passate inosservate, anche nel momento in cui vi furono segnalazioni. La stessa Carazzai, quando provò a riprendere in mano la gestione del proprio patrimonio, scrivendo sia all’allora procuratore Gagliano (che aveva il compito di “vistare” le liquidazioni dei compensi delle tutele), che al giudice Cannoletta, rimase senza risposta. Una, per i pm torinesi, gliela diedero De Felice e Capurro: «Lei al momento non ha diritti, è interdetta».

Dall' arresto di Capurro e De Felice alle regole per gli inventari della tutela, scrive “Ponente Oggi”. Ha messo a rumore il mondo giudiziario della provincia di Imperia. Il filone di indagine che parte dai guai del giudice Boccalatte arriva ad una dimensione per certi versi attesa o ineluttabile, l'arresto del cancelliere Capurro e dell'avvocato De Felice. I margini della vicenda sono piuttosto noti e toccherà ai giudici di Torino operare sulla vicenda. Quindi massima indipendenza rispetto alle posizioni degli accusati. Il nucleo di indagine parte  dalla considerazione delle manovre attorno ai beni di una tutelata, Teresa Carazzai. Una signora ancora piuttosto giovane, colta per vari motivi da una condizione di follia che l'aveva portata ad un profondo rancore verso i vicini ed amici. Un vicino era stato accoltellato, per fortuna in modo non gravissimo, nel 1999. La signora vive ora in un luogo protetto ed è padrona almeno delle sue facoltà di gestione. Purtroppo questa condizione non è stata in primo momento riconosciuta e così, come pare, sono state avviate le operazioni finanziarie sui suoi beni o l'appropriazione indebita di oggetti d'arte di sua appartenenza. Si tratta di opere, leggendo le cronache, riconducibili a produzione piemontese accademica, dunque del valore anche di qualche centinaio di euro, considerando il mercato asfittico di questi ultimi anni. Il metodo piuttosto è anomalo. Il tutelato è una persona che non può pienamente disporre dei propri beni. In altri casi l'intervento del tribunale riguarda chi è mancato senza eredi. Sono circostanza in cui un avvocato serio prende in considerazioni tutte le opzioni per consentire al tutelato di vivere dignitosamente, gestendo i beni. Nel caso di un defunto, i beni potrebbero passare anche allo Stato, se non si trovano gli eredi, fino al sesto grado di parentela. In ogni caso le operazioni di inventario si svolgono con la massima cautela: c'è il cancelliere che identifica ogni oggetto, scrivendo a mano. Il perito del tribunale lo stima o si riserva la stima per una successiva sessione, previa indagine personale. Si considera ogni oggetto e la sua posizione. Quindi anche, tanto per fare un caso, il portarotolo della carta da cucina, che avrà dunque valore pari allo zero. Non sfuggono terrazzi, cantine, auto e quant'altro. Ogni cosa rimarrà al suo posto e verrà  disposto il suo uso da parte dell'avvocato di concerto con le possibilità di raziocinio del tutelato. E non mancano i testimoni. Ogni foglio del verbale viene firmato e sicuramente i costi dell'operazione non arrivano ad essere neanche vicini a quelli che gli organi di stampa hanno riportato nel caso degli arrestati. Sui beni di Teresa Carazzai - 16 milioni di euro e una villa - si sarebbe scatenata una vera e propria “caccia” all’affare. La donna era stata dichiarata incapace di intendere e volere dal giudice Boccalatte dopo che aveva tentato di uccidere a coltellate un vicino di casa, nell’ottobre 1999. La tutela venne poi affidata dallo stesso Boccalatte a De Felice, nonostante una consulenza tecnica d’ufficio ne avesse attestato la capacità di gestire il proprio patrimonio. E quando la donna cercò di rientrare “in gioco”, scrivendo al direttore della banca che custodiva il suo denaro, De Felice chiese e ottenne dal giudice Cannoletta di intervenire. Fu sempre quest’ultima, ancora sui richiesta di De Felice, a nominare Capurro custode dell’attico della Carazzai, consentendo al cancelliere di ottenere il compenso di 116 mila euro. Mentre fu Boccalatte a liquidare a De Felice la parcella da 136 mila euro. A bloccare la presunta “combine” fu il giudice Scialabba, che prima revocò il provvedimento di Boccalatte, quindi l’incarico a Capurro, ritenendolo anomalo: «La custodia dei beni - scrisse Scialabba - è compito del tutore». Anomalie che per anni, secondo la procura di Torino, sarebbero passate inosservate, anche nel momento in cui vi furono segnalazioni. La stessa Carazzai, quando provò a riprendere in mano la gestione del proprio patrimonio, scrivendo sia all’allora procuratore Gagliano (che aveva il compito di “vistare” le liquidazioni dei compensi delle tutele), che al giudice Cannoletta, rimase senza risposta. Una, per i pm torinesi, gliela diedero De Felice e Capurro: «Lei al momento non ha diritti, è interdetta».

VIOLENZA AGLI ANZIANI.

Violenza contro gli anziani. Fenomeno in crescita ma nessuno ne parla per tacitare le coscienze. Ma a volte scappa la notizia: botte, insulti e abusi sugli anziani alla casa di riposo ''Fondazione G. Borea e Massa'' di Sanremo. Le violenze sono state scoperte dalla Guardia di Finanza della compagnia e della sezione di polizia giudiziaria della città dei fiori nel corso di indagini che hanno portato all'arresto di sette persone. Tutta la stampa nazionale ne parla. Agli arresti domiciliari il presidente della casa di riposo Rosalba Nasi, moglie del senatore del Pdl Gabriele Boscetto. In carcere sono finiti invece Assunta Mecca, Daniele Raschellà, Silvano Fagian, Ihor Telpov, Cristina Ciobanu, Elzbieta Ribakowska. Gli investigatori parlano di ''violenze inaudite e sbalorditive: anziani, nonni e nonne non autosufficienti, abusati, legati, malmenati, insultati, denutriti, abbandonati in condizioni igieniche indecenti, di precarietà assoluta. Incapaci e senza la possibilità di difendersi da tanta brutalità, crudeltà e disumanità''. Supportata da videoregistrazioni e intercettazioni ambientali, l'attività dei finanzieri ha certificato oltre tre mesi di violenze, offese, umiliazioni e sopraffazioni ai danni degli anziani ospiti della casa di riposo. Ci sono anche due morti sospette, risalenti al 2005-2006, nell’indagine coordinata dalla procura di Sanremo. Si tratta di due donne. Una morì in seguito ad un ictus dopo un ricovero in ospedale dovuto a gravi ferite alla testa. L’altra è deceduta dopo aver ingerito una massiccia dose di farmaci.

Da Nord a Sud l’Italia delle violenze agli anziani è tutta uguale. E’ stata portata immediatamente in ospedale l’anziana donna trovata in stato d’abbandono in un magazzino, a Cosenza, ma per lei non c’è stato nulla da fare: è morta poco dopo il ricovero. La donna, che versava in condizioni di salute precarie, viveva in un locale angusto da qualche settimana, senza luce e riscaldamento e neanche servizi igienici. I militari hanno denunciato la nipote e il suo convivente per maltrattamenti in famiglia e sequestro di persona. Il caso di cronaca arriva negli stessi giorni in cui vengono diffusi i dati Eurispes sulla violenza domestica estrema, ovvero sulle uccisioni che si consumano all’interno delle famiglie. Dati che testimoniano l’esistenza di un conflitto forte, tra sessi e spesso tra generazioni, che alcune volte si risolve addirittura con l’uccisione dell’altra/o. Le cifre parlano di delitti commessi perlopiù dai maschi (nell’84,9% dei casi) nei confronti delle donne – mogli, conviventi, figlie, sorelle, ma anche madri. Ma non solo. Quei dati parlano anche dei genitoricidi. Di figli, cioè, che uccidono il padre o la madre. Ad essere stati uccisi per mano dei propri figli sono stati, nella maggior parte dei casi i padri (6, nel 2009 e 14, nel 2010). I matricidi, invece, sono stati 8 nel 2009 e 10 nel 2010. I figli maschi (30), rispetto alle femmine (8), sono quelli che hanno commesso più parricidi (16 figli contro 4 figlie e 14 figli contro 4 figlie). Senza arrivare a tali estremi, tutto sommato numericamente esigui rispetto, ad esempio, alla violenza agita da mariti o ex mariti, troviamo poi i casi di maltrattamento, abbandono, violenza nei confronti degli anziani. Soggetti deboli o resi tali, spesso abusati nelle strutture cui sono affidati dalle famiglie che non possono occuparsene direttamente, a volte maltrattati da quelle stesse famiglie che dovrebbero invece prendersene direttamente o indirettamente cura. Di violenza contro gli anziani non sentiamo molto parlare in Italia, benché si tratti di un fenomeno in crescita esponenziale, anche in relazione all’invecchiamento della popolazione. Se ne occupa invece l’OMS, che nel suo primo “Rapporto Mondiale su violenza e salute”, datato 2002, distingue tra tipi di abuso sulla persona anziana: quello domestico (maltrattamento della persona anziana nella sua abitazione o in quella del caregiver), istituzionale (maltrattamento degli anziani che vivono in case di riposo o residenze assistenziali) e auto-inflitto (comportamento auto-lesivo). L’entità del problema ha indotto l’OMS a prendere dei provvedimenti, incentrati su tre punti: Consapevolezza, Educazione, Difesa. Gli interventi si muovono su diversi piani, attraverso i Servizi Sociali (centri di emergenza, linee telefoniche di aiuto, somministrazione di questionari di screening, domande a parenti e vicini con eventuale visita alla casa dell’anziano) e campagne di sensibilizzazione. Inoltre si consiglia di non considerare gli abusi sugli anziani come problemi esclusivamente familiari, ma al contrario collettivi avendo il coraggio di parlare di essi e denunciarli, pur nella comprensione e rispetto dei diritti degli anziani. 

IL CASO CALTAGIRONE ED IL PORTO.

Imperia, assolto Caltagirone “Con me i pm si sono accaniti”. Il Tribunale di Torino: “Dietro i lavori al porto non ci fu nessuna truffa” L’imprenditore ha scontato nove mesi di carcere: “Mi impedivano la difesa”. L’accusa: La società Porto d’Imperia spa, Comune e Demanio avrebbero subito un danno patrimoniale di oltre 100 milioni, con costi per i lavori saliti a 140 milioni, scrive Teodoro Chiarelli su “La Stampa”. Lo scandalo del porto turistico di Imperia non esiste. Almeno secondo il tribunale di Torino dove si è tenuto il processo. Assolto, perché il fatto non sussiste, l’imprenditore romano Francesco Caltagirone Bellavista, principale imputato. Prosciolti dalle accuse di truffa aggravata e abuso d’ufficio anche gli altri nove imputati. Due sole le condanne, a otto mesi di reclusione e a 300 euro di ammenda. Per conoscere le motivazioni della sentenza, a dir poco clamorosa, bisognerà aspettare 90 giorni. La vicenda giudiziaria era esplosa il 5 marzo 2012 con l’arresto di Caltagirone Bellavista: l’imprenditore, 75 anni, fu arrestato mentre usciva dal municipio di Imperia. Restò in carcere nove mesi. A più riprese, nonostante l’età, gli furono negati gli arresti domiciliari: fu respinto anche un ricorso in Cassazione. I giudici ritennero ogni volta che ci fosse il rischio che inquinasse le prove. Ieri, alla lettura della sentenza, l’imprenditore ha abbracciato a lungo i suoi legali. «Non ho parole per i giudici - ha commentato - Sono contento che in Italia ne esistano così. La cosa peggiore mentre ero in carcere è stata che la Procura di Imperia mi abbia impedito la difesa, con un accanimento contro imputati innocenti». Raggiunto telefonicamente, Caltagirone ostenta tranquillità: «Sto festeggiando con i miei figli». Ed ha ancora elogiato la corte torinese presieduta dal giudice Cristina Domaneschi. «Non ho sentimenti di vendetta. Sono orgoglioso di essere stato giudicato da tre giudici donna di grande onestà intellettuale. Hanno deciso sulla base dei fatti, senza pregiudizi». Diverso il discorso sul pm di Imperia. «Contro di me c’è stato accanimento. Non solo per la sofferenza dei 9 mesi di carcere. Mi hanno pesato l’impossibilità di difendermi e l’ingiustizia della custodia cautelare. E ogni volta si opponevano alla scarcerazione in maniera pregiudiziale».  Nel processo di Torino, quella della difesa di Caltagirone Bellavista è stata una vittoria su tutta la linea. Il pm Giancarlo Avenati Bassi, che aveva chiesto 8 anni per Caltagirone Bellavista e la condanna per gli altri imputati, aveva anche presentato istanza di sequestro a fine di confisca di beni per 50 milioni della società Acquamare, la costruttrice del porto, di cui l’imprenditore detiene il 33% delle quote. Anche questa richiesta è stata respinta con tutto il resto. Per l’accusa i costi per realizzare il Porto turistico di Imperia erano lievitati a 140 milioni, ma l’opera non era stata neppure collaudata, con decine di proprietari di posti barca che avevano investito migliaia di euro senza nulla in cambio. Per la realizzazione del porto fu costituita una società ad hoc, la Porto d’Imperia spa, di proprietà per un terzo del Comune, per un terzo di un gruppo di imprenditori facenti capo all’ex ministro di Forza Italia Claudio Scajola, e per un terzo dalla Acquamare, controllata da AcquaMarcia. Le accuse a Scajola vennero archiviate il 7 gennaio 2013. La procura di Imperia ha sempre sostenuto che Acquamare avrebbe cagionato un ingente danno patrimoniale (oltre 100 milioni) alla Porto di Imperia spa, dunque anche al Comune e al Demanio. Durante la requisitoria il pm di Torino Avenati Bassi aveva definito quella del porto di Imperia «una truffa colossale» per il Comune di Imperia e per lo Stato». Ora Caltagirone dice: «Sono disponibile a concludere i lavori». 

Assolto Bellavista Caltagirone, cade il teorema di Imperia, scrive Marco Menduni su “Il Secolo XIX”. È una sentenza di primo grado. Ma è una sentenza così tranchant («il fatto non sussiste»), senza dubbi né rovelli né insufficienze di prove, che Francesco Bellavista Caltagirone adesso ha buon gioco nell’esultare per poi passare al contrattacco. Per ritardare il suo ritorno oltreconfine, verso Cap Ferrat, e lasciar spazio a dichiarazioni di riconoscenza dopo aver abbracciato i suoi legali: «Non ho parole per i giudici. Sono contento che in Italia ne esistano così». Finisce così il processo per truffa al Porto di Imperia. Con una decisione che manda assolto il dominus di Acqua Marcia e altri nove imputati, se si fa grazia di due condanne davvero minori. Finisce così e Caltagirone dà fuoco ai cannoni: «La cosa peggiore, mentre ero in carcere, è stata che la procura di Imperia mi abbia impedito la difesa. Un accanimento contro imputati innocenti». Nove mesi di custodia cautelare; tre mesi ai domiciliari, poi di nuovo in cella, perché secondo i giudici anche da casa l’ingegnere continuava a gestire le sue attività. E nemmeno un ricorso in Cassazione l’aveva più tirato fuori, fino alla scadenza dei termini. Finisce con un’assoluzione piena oltre il prevedibile dopo che le richieste del pm erano state pesanti quanto le sue parole. Aveva detto Giancarlo Avenati Bassi, durante una requisitoria che ha attraversato due udienze e alla fine della quale aveva chiesto otto anni per Bellavista Caltagirone: «Quella del Porto di Imperia è una truffa colossale, di livello pazzesco. Non mi era mai accaduto di dover discutere una causa così. Il Comune ne esce a pezzi non tanto dal punto di vista politico, ma da quello patrimoniale. Il danno è spaventoso. Anche per lo Stato». Una strategia mirata, secondo il pubblico ministero, che «ha permesso di arricchire Caltagirone e i suoi amici. Sono stati fatti tanti e tali pasticci che l’opera non è nemmeno collaudabile. Non potrà entrare nel patrimonio dello Stato nemmeno fra cinquant’anni. Chi ha comprato i posti barca non se ne può servire come desidera e non li può nemmeno rivendere. Senza contare l’esposizione con le banche». Non l’hanno pensata così i magistrati di Torino, in questo processo celebrato in trasferta perché non era più possibile, a Imperia, costituire un collegio: tutti i giudici si erano già espressi in qualche fase precedente del procedimento e questo li rendeva incompatibili per la celebrazione del processo stesso. Così sicuri, i componenti del tribunale di Torino, da rigettare anche le altre richieste del pm, che aveva chiesto anche una multa di un milione di euro per Acquamare (la società di Caltagirone costituita ad hoc per realizzare il porto) e, soprattutto, il sequestro preventivo di cinquanta milioni di euro delle quote azionarie della stessa società, in vista di una futura confisca. I giudici anche in questo caso hanno detto no. Il processo si è imperniato tutto su un prestito: quello da 140 milioni di euro concessi dagli istituti di credito che avevano accolto con favore l’idea di finanziare il costruttore. Caltagirone, nel 2006, aveva così posato la prima pietra del futuro porto turistico di Imperia: quel giorno c’erano l’ex ministro Claudio Scajola e il presidente della Regione Claudio Burlando. L’accusa era andata dritta al cuore del problema: Bellavista Caltagirone, secondo i pm, aveva tramato per sottrarre all’operazione i 140 milioni di euro che il suo gruppo aveva ottenuto per finanziare l’opera. Un lavoro però mai concluso, mentre chi doveva vigilare aveva chiuso gli occhi. Una montagna di denaro che Banca nazionale del lavoro e Unicredit, ma anche Carige, Monte dei Paschi, Efibanca, Banca Popolare dell’Etruria, il 19 febbraio del 2007, avevano sottoscritto per un finanziamento. Quello appunto, da 140 milioni. Nessuna trama, nessun arricchimento personale. Soprattutto, nessuna truffa, dice la sentenza di ieri. E allora Bellavista Caltagirone è un fiume in piena anche sul futuro dell’opera. La Porto Spa è stata dichiarata fallita; il ricorso verrà discusso giovedì e la sentenza torinese di ieri mattina adesso potrebbe avere un ruolo chiave sull’esito finale. In attesa del prossimo appuntamento in un’aula di giustizia il costruttore rilancia e si ricandida per il futuro prossimo: «Il porto io lo finisco. Sono disposto a metterci la faccia e i soldi. I titolari dei posti di barca ora dovranno capire chi sono i responsabili di questa storia. Ora mi devono dare le opere a terra (quelle ancora incomplete, ndr) e poi continuo senza sosta quello che mi hanno impedito di fare, con un’inchiesta giudiziaria finita così come vedete oggi». Bisognerà adesso attendere novanta giorni per conoscere le motivazioni. Però la nettezza della decisione di ieri mattina dà fiato a chi lancia interrogativi su tutto quel che è accaduto in provincia di Imperia, ad iniziare dall’entourage che si stringe (e che in passato si stringeva ancora più numeroso) intorno all’ex ministro Claudio Scajola e alle bandiere di Forza Italia e del Pdl. I fatti? Il consiglio di Stato sconfessa il governo sullo scioglimento del Comune di Bordighera: non c’erano i presupposti per mandare a casa l’ex sindaco Giovanni Bosio e la sua giunta. L’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino, imputato per concorso esterno, viene assolto dal tribunale di Imperia. E, ancora, proprio la vicenda del porto di Imperia, con Claudio Scajola che esce dal processo in istruttoria prima ancora di entrarci, e poi con l’assoluzione generale di ieri mattina. Ce n’è abbastanza, per chi sta nelle fila del centrodestra, per sentire puzza di bruciato. Di tutt’altro avviso, e non potrebbe essere diversamente, la posizione del Pd imperiese, da cui partirono le prime bordate al porto di Bellavista Caltagirone. Il vicesindaco Giuseppe Zagarella è oggi a fianco del sindaco Carlo Capacci: «Il porto realizzato da questo signore è un disastro, un fallimento, con lacune oggettive ed è tuttora un’incompiuta. Esiste una responsabilità oggettiva, morale e poi politica nell’aver consegnato a un privato un’opera così importante e avere messo la città in queste condizioni».

Intanto, però, viene da chiedersi: chi sarà a pagare? Imperia: assoluzioni per il caso Porto, dal Club Forza Silvio tuonano "Chi avrà il coraggio di dire che si era sbagliato?", scrive “San Remo News”. “Alla luce della sentenza di ieri a Torino, con cui tutti gli imputati sono stati assolti dall'accusa di truffa riguardante il porto di Imperia, siamo a domandarci chi potrà restituire il danno di immagine arrecato alla città, oltre a quello economico conseguente al mancato completamento dell’opera".  “Alla luce della sentenza di ieri a Torino, con cui tutti gli imputati sono stati assolti dall'accusa di truffa riguardante il porto di Imperia, siamo a domandarci chi potrà restituire il danno di immagine arrecato alla città, oltre a quello economico conseguente al mancato completamento dell’opera". Il Club Forza Silvio di Imperia interviene a ridosso della sentenza di primo grado sulla questione Porto, che ha portato all'assoluzione di tutti i coinvolti. "Gli investitori sono fuggiti. - commentano dal club collegato a Forza Italia - Chi ha fatto la propria campagna elettorale propagandando il cambiamento del vento dovuto a fatti che non sussistevano, avrà il coraggio di dire che si era sbagliato e consentire il completamento dell'opera. E chi ha cavalcato la giustizia solo per arrivare dove non era riuscito con la politica, perché bocciato dalla maggior parte dei cittadini di Imperia, che vedevano nel nuovo porto turistico una fonte di reddito per la città e la svolta per la sua economia, non accontentandosi certo di un paio di navi commerciali all'anno, avrà il coraggio di dire che si era sbagliato!" "Qualcuno che, come Schettino, ha abbandonato la propria appartenenza politica, pensando di far fortuna altrove, in cambio di trenta denari, la smetterà ora di infangare gente innocente e si prenderà le sue responsabilità! - attaccano duramente dal club - Comunque sia, sappiano i signori che si sentiranno chiamati in causa, che il vento non tira sempre dalla stessa parte e che i cittadini di Imperia, che non sono fessi, hanno da un po' capito di aver sbagliato e chi sbaglia una volta, raramente sbaglia di nuovo!"

Così  si scriveva sul caso. Porto di Imperia. Caltagirone Bellavista, Scajola e il quarto scandalo, scriveva il 19 marzo 2012 Franco Manzitti su “Blitz Quotidiano”. Cercando di fare gli spiritosi a tutti i costi si potrebbe dire che per Claudio Scajola “Bellavista” è proprio fatale. Prima quella dell’appartamento di via Fagutale a Roma con vista, appunto bella, bellissima, sul Colosseo e i conseguenti guai giudiziari e ora Caltagirone Bellavista, di nome Francesco, il settantatrenne costruttore romano che lo trascina in un’altra esplosiva grana giudiziaria. Sempre per ironia del destino, originariamente, negli anni ’60 e ’70, quando l’attuale Caltagirone Bellavista si faceva chiamare solo Franco Caltagirone, era considerato il Caltagirone doc, a ruota del più anziano fratello Gaetano, quello di “A Fra, che te serve” rivolto a Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti, mentre ora è conosciuto come cugino del più famoso Francesco Gaetano Caltagirone, imprenditore ed editore anche del Messaggero di Roma e del Mattino di Napoli). Grazie a questa seconda “Bellavista”, l’ex ministro berlusconiano, leader ligure e “imperatore” nella provincia di Imperia, è di nuovo nel centro di un ciclone che potrebbe essere fatale alla sua vita politica. A Roma gli hanno contestato di avere comprato “ a sua insaputa” il noto appartamento, pagatogli in parte consistente (900 mila euro) dalla famosa “Cricca”, ora la Procura di Imperia lo inchioda con pesanti sospetti perchè ha comprato due posti barca per la sua famiglia nel neonato porto di Imperia, versando una caparra di 103 mila euro su una spesa di 344 mila, con sconto fra il 7 e il 15 per cento, proprio dalla società Acquamarcia di Caltagirone Bellavista, l’imprenditore che sarebbe stato scelto come king maker della colossale opera portuale su pressioni indebite del politico imperiese attraverso procedure scorrette. Caltagirone Bellavista è stato arrestato due settimane fa sotto l’accusa di truffa aggravata ai danni dello Stato per avere danneggiato il Comune di Imperia che gli aveva concesso la costruzione e la gestione del porto, facendo lievitare indebitamente i costi dell’opera e privilegiando i clienti privati che acquistavano posti barca e residenze, rispetto alla pubblica amministrazione per la quale lo scalo ha una grande importanza strategica. Facevano, insomma, pagare i “cessi in dotazione al Comune come le residenze per gli amici”, hanno rivelato le intercettazioni telefoniche dell’inchiesta imperiese. Scajola, che era indagato insieme con Caltagirone e a un bel mazzo di manager, pubblici funzionari e altri imprenditori e perfino avvocati per associazione a delinquere, aveva respinto ogni accusa, rivendicando il merito di avere spinto la costruzione dell’opera da una trentina di anni, fino dai tempi in cui era sindaco della città del Ponente ligure ( metà anni Ottanta), di avere contribuito a scegliere Caltagirone, l’unico imprenditore che aveva accettato la sfida della grande opera insieme a una imprenditrice ligure, Beatrice Cozzi Parodi, conosciuta come la “regina dei porticcioli”, già presidente della Camera di Commercio e vedova giovane del deputato-imprenditore di Imperia Gianni Cozzi, oggi legata affettuosamente al costruttore romano. Prima di arrivare a Caltagirone avevano rifiutato di interessarsi al maxiporto tra gli altri Gavio e Vitelli e lui, il Bellavista, ci era arrivato dopo una perlustrazione in elicottero insieme allo stesso Scajola e al noto banchiere di Lodi Fiorani. Scajola, dicono ancora le carte processuali, aveva sempre confermato quel volo, spiegando che “aveva fatto il piazzista del territorio”. Ora le carte del maxi processo nato dal maxiporto, che sta facendo tremare Imperia già sottochoc per i precedenti scandali dell’ex ministro e per lo scioglimento per mafia dei consigli comunali di Ventimiglia e Bordighera, elencano Claudio Scajola e la sua famiglia tra gli “amici” che l’operazione immobiliare avrebbe privilegiato con sconti e precedenze. Non solo l’ex ministro ha comprato, ma una sua sorella Maria Teresa lo avrebbe seguito e perfino superato, pagando, con lo sconto da “amica” sei altri posti barca per un acquisto superiore a 1 milione e 150 mila euro. In un quadro nel quale tutta l’operazione immobiliare sarebbe sospetta per il vizio d’origine della scelta di Caltagirone, indicato senza una pubblica gara come concessionario-costruttore, la pubblica accusa spara su Scajola il sospetto che la contropartita a tale esclusiva sia stato il vantaggio per gli acquirenti-amici. Nelle intercettazioni telefoniche dell’inchiesta emerge da diverse affermazioni come tutta la vicenda del porto, la sua costruzione, la sua concessione, fossero pilotate dal “dominus ”Scajola e dall’asse con Caltagirone, raffigurato come un prepotente regista degli accordi con il Comune. Non solo: i magistrati inquirenti della Procura imperiese sospettano ( lo dice l’ordinanza di 195 pagine che ha fatto scattare gli arresti del patron romano) che i posti barca subito acquistati dagli “amici” siano già stati rivenduti a un prezzo superiore con evidente guadagno. L’esplosione dell’inchiesta era attesa da mesi in una città paralizzata dalle indagini, terrorizzata nei suoi vertici istituzionali, dove il grande potere di Claudio Scajola si stava sfarinando dai tempi dello scandalo precedente “ a sua insaputa”. Nei giorni scorsi è anche arrivata la revoca della concessione decretata dall’amministrazione comunale del sindaco Paolo Strescino, ex An, considerato uno degli uomini fedeli all’ex ministro. Sembrava girare tutto intorno a quel porto, che viene considerato il più grande approdo turistico del Mediterraneo, con 1300 posti barca e con la specificità di poter accogliere “barche” fino a ottanta metri e che è quasi terminato interamente, non solo nella sua parte di moli e banchine. Poteva e potrebbe essere la base di rilancio di una provincia, la cui economia sta declinando paurosamente e dove tra scandali mafiosi e patatrac del Casinò di Sanremo (meno 30 per cento di incassi nell’ultimo anno), la recessione si identifica per coincidenza con la quarta stangata al suddetto ex ministro onorevole Claudio Scajola. Sì, perchè prima ancora della vicenda Colosseo “a sua insaputa”, l’ex sindaco, ministro e coordinatore nazionale di Forza Italia al tempo del boom berlusconiano, aveva già superato il caso delle proprie dimissioni per la frase infelice pronunciata da ministro dell’ Interno, nel giugno del 2002, su Marco Biagi, il giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse a Bologna. Quella frase dura sulla vittima Br che Scajola ha sempre smentito (“Biagi era un rompic…….”) gli era costata la poltrona del Viminale e un lungo accantonamento fino al ritorno al Governo, prima come ministro per l’Attuazione del Programma e poi come ministro dello Sviluppo Economico, il posto che oggi occupa Corrado Passera. Poi, nel maggio del 2009, era esploso lo scandalo di via del Fagutale con un’inchiesta della Procura di Perugia e poi con un’altra inchiesta della Procura di Roma per finanziamento illecito dei partiti ( i famosi 900 mila euro pagati a sua insaputa). Seconde dimissioni: un record nella storia della Repubblica per uno stesso ministro. Questa del Bellavista è, quindi, la quarta buccia di banana sulla quale Scajola scivola e forse cade definitivamente, considerando che, prima di queste tre complicate storie, ben diciannove anni fa, nel 1983, fu arrestato da sindaco democristiano di Imperia e poi prosciolto in istruttoria in una delle innumerevoli inchieste sul Casinò di Sanremo. Allora lo accusarono di avere partecipato in Svizzera a un vertice segreto tra politici imperiesi e uno dei pretendenti all’appalto privato del Casinò, il conte Borletti, quello dei “punti perfetti”. Il saliscendi politico giudiziario di Scajola potrebbe essere arrivato fino in fondo, piombando a picco in mezzo a quel porto, proprio nel momento in cui il leader ligure stava riposizionandosi nel quadro nazionale del dopo berlusconismo con un accosto verso il centro, verso il Terzo Polo di Casini-Fini. Una lunga manovra, incominciata più di un anno fa, quando la storia del Colosseo sembrava finita bene per lui e la crisi di Berlusconi aveva spinto il suo uomo di Imperia alle mosse di distanza della Fondazione Colombo, da lui messa in piedi con un pugno di deputati e senatori e addirittura un ufficio a largo Chigi, dove i “ribelli” sembravano aver capito prima degli altri che il Cavaliere stava per uscire dalla scena istituzionale. Ma a Imperia la storia del porto bolliva già a più di cento gradi. Non a caso Scajola aveva scelto lo scenario di rara bellezza di quelle banchine in costruzione, un panorama a 360 gradi sul golfo di Imperia con le prime superbarche attraccate e le opere a terra in costruzione nell’ombelico imperiese, per il suo primo comizio da rientrante sulla scena a un anno dalle ultime dimissioni. Tre volte nella polvere e tre volte di nuovo sull’altare. Sembrava, ma non era così. Oggi il siluro dei due posti barca, prenotati dalla moglie Maria Teresa Verda, pagati con un anticipo ( ma non più saldati del tutto malgrado il sollecito di Caltagirone con ingiunzione pesante), più i sei della sorella si sommano alla casa di via Fatugale e pongono interrogativi che l’ex ministro dovrà chiarire. Intorno c’è il disastro di una città che rischia di affondare su quel porto minato dallo scandalo, prima ancora di essere completato, con il Comune che trema, con i magistrati delle Procure che indagano a tappeto, con Caltagirone ammanettato e l’orizzonte cupo su molti altri “fedeli” o ex fedeli del capo. Il sindaco Paolo Strescino in una lunga intervista a Repubblica si difende, prendendo le distanze dal clan Scajola, sostenendo che il suo compito è quello di salvare il porto, di completarne la costruzione. Il funzionario comunale Pierre Marie Lunghi, che tolse la concessione alla società del porto e poi subì una sorta di persecuzione con il Comune che rivoltava la frittata, denuncia il clima torbido. La giunta di fatto è riunita in permanenza per decidere se arrendersi o no allo scandalo. Ma un commissario sancirebbe il blocco di tutto e trasformerebbe il porto da 400 milioni di investimento e 1300 posti barca nella più grande incompiuta della storia nautica. Con i posti barca in parte venduti, qualche grande yacht di emiri, maraja, magnati russi, ucraini e arabi già attraccato e pronto alla stagione estiva e con le opere a terra che languono tra un’ispezione della Guardia di Finanza, una dei carabinieri e una della polizia la scena imperiese appare sconfortante. E lassù sulla collina di Diano Calderina, nella villa blindata con la garitta al cancello, l’ex ministro due volte dimissionario, l’ex sindaco arrestato e tornato a fare il primo cittadino, lo stratega della politica del centro destra ligure aspetta gli sviluppi giudiziari e quelli politici. Sarà la stangata finale o ci sarà la quarta resurrezione? Tre volte nella polvere, tre volte sull’altare. E la quarta come finirà, con Berlusconi lontano e Genova capitale immersa nelle guerre elettorali? Qui l’ex scudiero di Scajola, Pierluigi Vinai, un quarantacinquenne ex dc, attualmente vicepresidente della potente Fondazione Carige,  è stato appena piazzato proprio dal suo “capo” a fare il candidato Pdl per la poltrona da sindaco. Sembrava una spinta e ora, invece, potrebbe essere un abbraccio mortale.

RETATA A SAN REMO.

Sanremo, assenteismo al Comune 35 arresti, 195 persone indagate. Maxi operazione della procura di Imperia, iniziata nel 2013. Coinvolti più di un terzo dei dipendenti: si segnavano presenti al lavoro ma non erano ai loro posti, scrive "Il Corriere della Sera" il 22 ottobre 2015. Invece di andare a lavorare si faceva timbrare il cartellino da un collega compiacente e se andava in canoa, vantando la propria performance sui social e segnando anche lo straordinario. È uno degli esempi accertati dalla Guardia di finanza di Sanremo che hanno lavorato all’operazione Stachanov, portando alla luce un sistema di assenteismo diffuso in Comune. Secondo quanto accertato dalla Finanza, alcuni dipendenti si segnavano anche dieci ore di straordinario non effettuato anche durante i cosiddetti superfestivi come Pasqua. In totale sono 195 le persone indagate. Di queste 35 sono agli arresti domiciliari, otto hanno l’obbligo di firma e 75 hanno ricevuto l’avviso di conclusione indagini. Per ulteriori 71 soggetti è scattata la denuncia penale a piede libero con contestuale notifica dell’avviso conclusione indagini ex art. 415 bis CPP. Dieci sono i funzionari. Tra gli indagati anche un vigile urbano. Per loro le accuse sono, a vario titolo, truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato e falso in atto pubblico in relazione a casi di assenteismo e indebito utilizzo del cartellino identificativo. L’indagine è stata coordinata dal sostituto procuratore di Imperia, Maria Paola Marrali, ed era stata avviata circa due anni fa, dopo le segnalazioni dell’allora sindaco, Maurizio Zoccarato. «La Gdf ha accertato un sistema scellerato. È mai possibile che all’interno di un ufficio non ci si avveda di una situazione così grave?», ha detto Marrali. «L’obbiettivo è stato raggiunto in modo esemplare. È la fine di un malcostume che andava avanti da tempo». Le indagini sono state inizialmente condotte attraverso una serie di pedinamenti, grazie ai quali le Fiamme Gialle hanno accertato che una cospicua parte dei dipendenti comunali adattava «illecitamente gli orari e la presenza sul posto di lavoro alle proprie esigenze personali». Da qui la decisione di adottare sistemi di videosorveglianza per controllare la condotta dei dipendenti. Un’operazione che, come spiegano dalla guardia di finanza, «si è rivelata assai complessa», perché il Comune di Sanremo ha 528 dipendenti dislocati su 21 sedi distanti tra loro e con la possibilità di timbrare l’entrata in una sede e l’uscita in un’altra a prescindere da dove si presta servizio. Le attività sono state quindi concentrate in quattro sedi, cioé Palazzo Comunale, servizi demografici, servizi sociali, ufficio fognature e reti, per un totale di 271 dipendenti controllati (circa la metà del totale). Sono risultate irregolare 195 persone, cioè il 72% di tutte quelle controllate. Nel corso dei controlli le Fiamme Gialle hanno così dimostrato la condotta illecita di molti dipendenti e, alcune situazioni «molto gravi - scrive la Guardia di Finanza - e, a loro modo, pittoresche». Come ad esempio il caso di un dipendente che andava regolarmente a fare canottaggio durante tutto il turno di lavoro, segnandosi anche lo straordinario. Più in generale, i dipendenti assenteisti timbravano il cartellino e poi si allontanavano dal posto di lavoro, oppure affidavano il badge a un collega compiacente o, ancora, omettevano di timbrare in caso di ritardo ingiustificato o di uscita anticipata. Oltre agli arresti e alle denunce, la finanza ha acquisito i compensi tabellari orari dei dipendenti per ciascun livello amministrativo d’impiego previsti dal contratto nazionale del lavoro, insieme alle indennità di posizione di ciascun incarico e agli oneri previdenziali e assistenziali, al fine di procedere al calcolo del danno erariale causato al Comune a causa del mancato servizio del personale.

Sanremo: un vero e proprio sistema quello messo in piedi dai dipendenti del Comune, Procura e Guardia di Finanza presentano l'operazione. Sono 196 gli indagati, 43 colpiti da provvedimenti di custodia cautelare (35 ai domiciliari, 8 di loro dovranno presentarsi alla Polizia Giudiziaria). Tutte le foto ed i video della mattinata. Tutti i nomi dei dipendenti coinvolti, scrive “San Remo News”. Si vantava su Facebook degli allenamenti di canottaggio durante l'orario d'ufficio. Un Vigile Urbano timbrava il cartellino per andare via subito dopo e ritornare a timbrare anche in mutande, o addirittura faceva timbrare alla moglie e alla figlia minorenne. Il custode del palazzo comunale, al mattino si faceva timbrare il cartellino dalla moglie, anche lei indagata. Sono sono alcuni dei comportamenti rilevati nei due anni di indagini da parte della Guardia di Finanza coordinati dalla Procura di Imperia sui cosiddetti "Furbetti del cartellino", che ha colpito duramente i dipendenti del Comune di Sanremo. Sono 196 gli indagati, 43 colpiti da provvedimenti di custodia cautelare (35 ai domiciliari, 8 di loro dovranno presentarsi alla Polizia Giudiziaria). Un vero e proprio sistema raccontato nei dettagli da una conferenza stampa che si è tenuta questa mattina alla presenza del Procuratore Capo della Repubblica di Imperia Giuseppa Geremia, del Procuratore Aggiunto Maria Grazia Pradella, dal Sostituto Procuratore Maria Paola Marrali, che ha condotto le indagini, dal Comandante della Compagnia di Sanremo Jacopo Allera. L'operazione “Stachanov”, come è stata ribattezzata, che ha avuto come culmine il blitz di questa mattina in Comune a Sanremo, era stata avviata nel 2013. Per due anni la Guardia di Finanza ha controllato, con intercettazioni, pedinamenti, filmati, su 528 dipendenti comunali, un totale di 271 arrivando oggi ad indagarne 196. L'accusa è di truffa aggravata ai danni dello Stato, i nomi degli indagati sono in parte stati resi noti nel corso della conferenza. Ecco alcuni degli indagati, che si trovano ora agli arresti domiciliari e le relative imputazioni: 

Giuseppe Terracciano (funzionario manutenzione fabbricati) partecipa a corsi professionali, attestando la sua presenza in servizio, ma le celle del cellulare confermano che si trovava da tutt'altra parte.

Agatino Longhitano (Istruttore amministrativo della manutenzione fabbricati e custode), al mattino il suo cartellino lo timbra la moglie.

Miriam Marangoni (Istruttore amministrativo tributi e moglie di Agatino Longhitano), si fa timbrare il cartellino dal marito mentre lui è in ferie.

Alberto Muraglia (Vigile urbano), timbra e se ne va; a volte torna a timbrare “in mutande”.

Alessandro Vellani (Istruttore direttivo Arredo Urbano) fa sistematicamente canottaggio durante l'orario di lavoro.

"L'operazione - è stato spiegato nel corso della conferenza stampa - è stata condotta dalla Compagnia di Sanremo guidati egregiamente dal Capitano Jacopo Allera e diretti dal Colonnello Giovanni Battaglia. L'indagine ha comportato dedizione, sacrificio e professionalità. Riteniamo di aver fornito all'autorità giudiziaria, un quadro abbastanza forte. L'operazione rende giustizia a tutti quei dipendenti pubblici che ogni mattina vanno seriamente a lavorare e si mettono effettivamente al servizio della collettività". "Esprimo un'altra volta plauso e soddisfazione per la brillantissima operazione che è stata condotta dalla Guardia di Finanza. - ha detto il Procuratore Giuseppa Geremia - Vi dico subito che, se quando abbiamo iniziato l'indagine avessi potuto immaginare questo risultato, non lo avrei ritenuto possibile, ma non perché la professionalità della Guardia di Finanza non lo consenta, ma perché la proporzione tra quello che è stato l'impegno, gravoso, fuori dal comune, che ha richiesto l'indagine, con operazioni tecniche di intercettazioni, pedinamenti e osservazioni che hanno consentito di fotografare l'illecito, avrei detto, con queste risorse umane non possiamo concludere questo risultato così brillante, e invece è accaduto, perché grazie alla professionalità, alla dedizione e alla passione, che sono un patrimonio delle donne e degli uomini che appartengono al Corpo della Guardia di Finanza, si è raggiunto un risultato non solo insperato, ma direi particolarmente significativo e con una valenza unica in un certo senso. Qui le indagini hanno dimostrato un sistema di illegalità diffusa che mai in questo territorio era stato scoperchiato con questa chiarezza. Non dobbiamo pensare soltanto a coloro che saranno raggiunti dai provvedimenti, ma io mi domando se sia mai possibile che all'interno di un ufficio, anche chi magari oggi non ha commesso reati, non si avveda di un fenomeno così grave? Come ci si può non accorgere di questa abitudine?".

La preliminare attività di polizia giudiziaria - spiega la Guardia di Finanza in una nota - attraverso una prima serie di pedinamenti, ha permesso di appurare che una cospicua percentuale di dipendenti del Comune di Sanremo, abitualmente e sistematicamente attuava condotte illecite di diverse tipologie ma tutte accomunate dal fine di adattare illecitamente gli orari e la presenza sul posto di lavoro alle proprie esigenze personali. Alla luce di ciò venivano predisposte indagini tecniche di videosorveglianza. Fin da subito, tale attività si è rivelata assai complessa perché il Comune di Sanremo conta n.528 dipendenti dislocati su ben 21 sedi comunali distanti tra loro e con la possibilità di timbrare l’entrata in una sede e l’uscita in un’altra a prescindere da dove si presta servizio. In particolare, l’attività è stata posta in essere su n. 4 sedi, ossia Palazzo Comunale, Servizi demografici, Servizi sociali ed Ufficio fognature e reti, per un totale di nr. 271 dipendenti controllati ( circa la metà del totale), riscontrando diffuse irregolarità attuate da un totale di nr. 196 dipendenti con una incidenza del 72% del totale della base controllata. Durante tutto il periodo di video-sorveglianza, sono stati effettuati continui pedinamenti al fine di provare, con riprese video e rilievi fotografici, cosa facessero i dipendenti durante l’illecito allontanamento dall’ufficio. Tale attività ha fatto emergere situazioni molto gravi e, a loro modo, pittoresche, come il caso di un dipendente che va regolarmente a fare canottaggio durante tutto il turno di lavoro, segnandosi sfacciatamente anche lo straordinario. Tale attività ha consentito di delineare le modalità attuative delle condotte, consistite principalmente nella timbratura del cartellino e successivo allontanamento, nella timbratura effettuata da altra persona e nella omessa timbratura per coprire ritardi ingiustificati o uscite anticipate, nonché di circostanziare i singoli ruoli e le relative responsabilità; facendo emergere come tali condotte sono assai facilitate dalla dispersione dei diversi uffici sul territorio, dalla presenza di numerosi punti di registrazione/timbratura del cartellino presenza e dallo scarso controllo dell’applicazione dei regolamenti di servizio. Pertanto, in esito all’attività di polizia giudiziaria posta in essere, in data odierna viene eseguita l’Ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari con cui n.35 soggetti, connotati dalle condotte più gravi e sistematiche, vengono posti agli arresti domiciliari e n.8 soggetti raggiunti dalla misura cautelare dell’obbligo di presentarsi alla Polizia Giudiziaria.

Per ulteriori 71 soggetti è scattata la denuncia penale a piede libero con contestuale notifica dell’avviso conclusione indagini ex art. 415 bis CPP.

I rimanenti 82 soggetti attenzionati dai Finanzieri sono colpevoli di condotte illecite di minore gravità.

Questi i dipendenti agli arresti domiciliari:

Terracciano Giuseppe

Adami Mario

Astolfi Francesco

Bergonzo Antonietta Patrizia

Bolla Maurizio

Carota Antonio

Castagna Claudio

Cavalca Fiorella

Checchi Marco

Crobeddu Giancarlo

De Amicis Roberta

Di Fazio Maurizio

Fazio Rosella

Franza Mimo

Garibbo Tatiana

Gianforte Mauro

Lanzoni Patrizia

Longhitano Agatino

Marangoni Miriam

Medici Antonella

Mele Luisa

Morabito Sergio

Moretto Enzo

Muraglia Alberto

Pangallo Roberto

Paternò Vincenzo

Peluffo Roberta

Rossi Antonella

Seggi Alessandra

Servetti Giuliano

Siccardi Roberto

Spizzo Daniela

Tedeschi Roberto

Torre Rita

Vellani Alessandro

Questi i dipendenti comunali arrestati dalla Guardia di Finanza con obbligo di firma quotidiana:

Angeloni Luigi

Spadi Bruno

Norberti Mirco

Marchi Loretta

Quadrio Elena

Dipendenti comunali arrestati con obbligo di firma 3 volte alla settimana:

Rao Antonio (obbligo di firma 3 volte settimana)

Righetto Paolo (obbligo di firma 3 volte settimana)

Grasso Riccardo (obbligo di firma 3 volte settimana)

Inoltre, sono stati acquisiti i compensi tabellari orari dei dipendenti per ciascun livello amministrativo d’impiego previsti dal contratto nazionale del lavoro unitamente alle indennità di posizione di ciascun incarico ed agli oneri previdenziali ed assistenziali, al fine di procedere al calcolo del danno erariale patito dell’Ente Locale a seguito della mancanza in servizio del personale. Tuttavia il vero disvalore non è costituito dall’ammontare pecuniario in sé, quanto dal disservizio arrecato sistematicamente al buon andamento dell’Ente Locale a danno dei servizi resi al cittadino.

PARLIAMO DI LA SPEZIA

ILARIA ALPI, NATALE DE GRAZIA E LE NAVI DEI VELENI.

Aspettando il 20 Marzo 2013, Rai Tre presenta Toxic Somalia. Il punto sul caso Ilaria Alpi di Mariangela Gritta Grainer. Alpi-Hrovatin, il casoAssociazione Ilaria Alpi. Il 20 marzo 2013 saranno passati 19 anni dalla tragica esecuzione di Mogadiscio in cui Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi con un solo colpo ciascuno sparato alla nuca.  Sappiamo che si è trattato di un’esecuzione. Un’esecuzione su commissione. Ilaria è stata uccisa perché era brava, il suo modo di fare giornalismo di cercare sempre la verità e di comunicarla ha fatto paura e fa ancora paura. Per questo la verità sulla sua uccisione ancora non si conosce per intero. Sappiamo che è stata uccisa, insieme a Miran, perché aveva rintracciato, nel suo lavoro d’inchiesta, un gigantesco traffico internazionale di rifiuti tossici e di armi che aveva nella Somalia (martoriata da un sanguinario dittatore come Siad Barre prima e dalla guerra civile poi) un crocevia importante per traffici illeciti di ogni tipo che solamente organizzazioni criminali,  mafia, ’ndrangheta e camorra possono gestire (come indagini di procure, dichiarazioni di pentiti e collaboratori di giustizia hanno fatto emergere anche di recente). Lunedì 4 marzo alle ore 23.05 Rai Tre presenta un reportage – Premio Speciale alla 18^ edizione del Premio Ilaria Alpi – scritto e diretto da Paul Moreira, firma di prestigio del giornalismo d’inchiesta in Europa: una iniziativa forte in apertura di un mese di marzo ricco di incontri per non dimenticare Ilaria e Miran, il loro lavoro, le loro vite e soprattutto per dare impulso alla ricerca delle prove e dei responsabili (esecutori e mandanti) di questa esecuzione. In “Toxic Somalia” Moreira documenta gli effetti sulla popolazione dei rifiuti tossici scaricati dall’occidente in terra somala, seguendo la strada aperta da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e ricostruendo i rapporti segreti tra il mondo degli affari e quello della criminalità. L’inchiesta valorizza il lavoro intrapreso dalla giovane inviata del TG3 e dal suo operatore mostrando con efficacia come ne abbia segnato la tragica fine perché gli affari sporchi, l’illegalità potesse e possa continuare. In programma diversi incontri che ci aiuteranno a rimettere sotto i riflettori il duplice delitto di Mogadiscio nel contesto delle stragi di mafia, di tangentopoli, la fine della prima Repubblica. Due i fatti che l’anno appena trascorso ci ha consegnato.. Il processo che vedeva imputato per il reato di calunnia Ahmed Ali Rage detto Jelle (testimone d’accusa chiave nei confronti di Hashi Omar Hassan in carcere da oltre dieci anni dopo la condanna definitiva a 26 anni) si è chiuso con una assoluzione le cui motivazioni sono incredibili (“…appare evidente l’impossibilità di pervenire ad un giudizio di colpevolezza…”). Assoluzione in contumacia avendo di fatto accertato che la  testimonianza potrebbe essere falsa mentre un cittadino somalo è in carcere forse innocente e di certo due cittadini italiani, Ilaria e Miran, sono stati assassinati quasi vent’anni fa e ancora non hanno avuto giustizia. La relazione conclusiva della commissione bicamerale d’inchiesta sulle ecomafie sostiene che il capitano Nicola De Grazia è stato avvelenato (riesumata la salma, “la consulenza del professor Arcudi arriva ad una conclusione inequivoca: …..la morte è la conseguenza di una “causa tossica”). Il capitano Natale De Grazia (morto in circostanze misteriose il 13 dicembre 1995 mentre si recava a La Spezia per indagini importanti) è stata figura chiave del pool investigativo coordinato dal procuratore di Reggio Calabria Francesco Neri che indagava sulle “navi dei veleni”. Fu De Grazia a trovare il certificato di morte e/o l’annuncio “di morte avvenuta di Ilaria” nelle perquisizioni effettuate a casa di Giorgio Comerio, noto trafficante di armi, e coinvolto secondo gli investigatori nel piano per smaltire illecitamente rifiuti tossico nocivi che prevedeva la messa in custodia di rifiuti radioattivi delle centrali nucleari in appositi contenitori e il loro ammarramento. “La morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese”, con queste parole si conclude la relazione della commissione. In contrasto e dunque ancora più incomprensibile la decisione assunta dal Procuratore della Repubblica di Nocera Inferiore di chiedere l’archiviazione dell’inchiesta sul caso  della morte del capitano Natale De Grazia. Due fatti che confermano quanto è avvenuto in  questi anni dolenti: depistaggi occultamenti, carte false, testimoni e/o persone informate dei fatti che hanno mentito …: il tutto spesso confezionato direttamente e/o con la complicità di parti e strutture dello Stato. “Menti raffinatissime” sono state e sono in azione fin dai primi giorni dopo l’uccisione premeditata: l’omissione di soccorso, la sparizione dei blok notes e di alcune cassette video, la non effettuazione dell’autopsia, la violazione dei sigilli dei bagagli, la costruzione “persistente” della tesi della casualità (tentativo di sequestro finito male, il proiettile vagante …)…….Il corso della giustizia è stato compromesso, gli assassini e chi li copre hanno potuto contare sul fatto che le tracce si possono dissolvere, che alcuni reperti sono scomparsi o non sono più utilizzabili, che molti testimoni sono morti in circostanze misteriose, che anche pezzi di Stato hanno lavorato all’accreditamento ufficiale di una falsa versione manipolando fatti reali. Nonostante infiniti tentativi che avrebbero voluto chiudere questo caso da anni l’impegno incessante di Giorgio e Luciana Alpi lo hanno tenuto aperto e grazie a loro all’associazione Ilaria Alpi al premio e alle moltissime scuole, istituzioni, migliaia di cittadine e cittadini che sono impegnati il caso è ancora apertissimo. Siamo ancora qui non ci arrendiamo vogliamo e avremo verità, tutta la verità e giustizia. Può essere una buona medicina anche per questa nuova fase politica che di certo esige aria pulita ripartire dal “senso della verità” e della giustizia.  Mariangela Gritta Grainer,Presidente Associazione Ilaria Alpi.

SIAMO ALLE SOLITE: VOGLIONO INSABBIARE TUTTO. IL CAPITANO DE GRAZIA E' MORTO INUTILMENTE?

Perché non è arrivato vivo alla Spezia? Il dossier: "La Spezia crocevia dei veleni", scrive “Città Della Spezia”.

Legambiente si prepara per l'udienza sull'archiviazione dell'inchiesta sulle navi dei veleni. Poco più di un mese per riuscire a mettere insieme una quantità di notizie di rilievo tale da convincere il gip del Tribunale della Spezia a rifiutare la richiesta di archiviazione dell'indagine sulle navi dei veleni avanzata dalla procura. E' la missione che sta compiendo Legambiente, tanto a livello nazionale, quanto localmente, con l'appoggio legale dell'avvocato Valentina Antonini.
"La procura spezzina - ha spiegato Paolo Varrella - ha avanzato la richiesta per indizi insufficienti, ma riteniamo di poter contribuire nel fornire dati da 'sgranare' e poter così far procedere le indagini. Se ci fosse stata maggiore attenzione sulle problematiche che riguardano casi come Pitelli o le navi dei veleni, probabilmente non avremmo dovuto stendere un dossier e intervenire in soccorso della magistratura. Invece non abbiamo a disposizione nessuna indagine epidemiologica seria, che avrebbe potuto fornire dati incontrovertibili, e la politica si disinteressa completamente di queste vicende". A ribadire come il problema sia prima di tutto una questione politica è stato Marco Grondacci, esperto di diritto ambientale, che ha contribuito alla stesura del dossier e che continuerà a guardare da vicino le questioni che riguardano le navi dei veleni, una vicenda resa ben nota anche per l'assassinio rimasto senza colpevoli di Natale Di Grazia, il capitano della Capitaneria di porto che si stava recando proprio alla Spezia per indagare sui traffici illeciti di rifiuti pericolosi e sugli affondamenti delle navi cariche di veleni. Non a caso il dossier è stato intitolato 'La Spezia, crocevia dei veleni - Vent'anni di misteri, di colpevoli silenzi e di nessuna verità'. "Viviamo in un regime di opacità amministrativa, senza alcuna attenzione per la prevenzione, da parte di quasi nessuno degli enti che dovrebbero occuparsene. Invece - ha detto Grondacci - non è mai stata fatta una mappatura seria della situazione ambientale e degli effetti che questa ha sulle persone". Matteo Bellegoni, segretario provinciale Fiom Cgil, ha parlato della necessità di avviare una 'bonifica culturale', mentre Daniela Patrucco, intervenuta a nome del comitato 'Spezia via dal carbone', ha definito la città della Spezia come una "nave scuola nel campo del lasciar andare le cose in un certo modo, per la prassi di piegare le normativa a ragioni differenti. Finché poi non interviene la magistratura. C'è un filo rosso di omertà che lega le vicende degli ultimi 20 anni, con il disinteresse a intervenire che è di fatto una sorta di favoreggiamento delle attività criminali". "Un filo rosso - ha aggiunto Enrico Adami, per l'associazione Murati vivi di Marola - che si estende anche sul Campo in ferro e sullo stoccaggio dell'amianto rimosso dalle navi militari, che a quanto ci risulta è avvenuto senza rispettare le normative. E le istituzioni, che ben sanno come stanno le cose, non fanno niente". Il vice presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, venuto alla Spezia per appoggiare l'iniziativa della sezione locale presieduta da Stefano Sarti, ha ricordato come l'associazione sia impegnata anche sul fronte di Pitelli, con il ricorso al Tar che chiede che ritorni ad essere un sito di bonifica di interesse nazionale. "Non ci possiamo rassegnare al fatto che Pitelli e le navi dei veleni finiscano come tanti altri casi in Italia, dove la presenza di figure 'grige', che lavorano per rendere tutto estremamente complicato, hanno impedito che si arrivasse a punire i colpevoli, anche se le verità storiche sono ben note". "Bisogna evitare la parcellizzazione delle tematiche - ha concluso l'avvocato Antonini - lavorare affinché i collegamenti tra i diversi casi vengano alla luce".

Navi dei veleni, De Grazia avvelenato durante il viaggio per La Spezia, scrive ancora scrive “Città Della Spezia”.

La commissione parlamentare ha stabilito che il capitano, che indagava su un enorme traffico di rifiuti tossici, sia morto per 'causa tossica'.  Un piccolo squarcio nel velo del mistero che avvolge insieme le morti del capitano Natale De Grazia, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, con la città della Spezia e un traffico internazionale di rifiuti tossici.
Quindici anni dopo la notte in cui il capitano De Grazia morì inspiegabilmente sul sedile dell'auto che lo stava portando da Reggio Calabria alla volta del golfo spezzino, il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta Gaetano Pecorella ha anticipato le conclusioni alle quali sono giunti deputati e senatori, affiancati da specialisti di prim'ordine: De Grazia, che stava indagando su 180 inabissamenti dolosi, non è morto per cause naturali, ma per una 'causa tossica'. In pratica: è stato avvelenato. E a suffragio di questa ipotesi (sostenuta da tempo dai familiari) ci sono alcuni avvenimenti rimarcati dallo stesso Pecorella. "Tutti gli elementi di sospetto - ha dichiarato il presidente della commissione parlamentare - hanno acquisito una luce particolare ed inquietante. Mettendo insieme più elementi erano venuti alla luce una serie di fatti che inducevano a sospettare della morte del capitano". La prima è che De Grazia svolgeva indagini di grande importanza sul traffico di rifiuti radioattivi e pericolosi e che c'erano interessi significativi, anche di Stati esteri. Il secondo punto è che c'era stato "un tentativo di spostare De Grazia ad altri uffici; tentativo poi bloccato dagli stessi magistrati". Ancora: parte del "materiale di indagine su De Grazia, contenuto nei fascicoli processuali, è stato sottratto". E inoltre, "si sono perse le tracce del certificato di morte di Ilaria Alpi che De Grazia aveva trovato" nel corso di una perquisizione. Infine, tra gli elementi di sospetto, secondo Pecorella c'è il fatto che "poco prima della morte di De Grazia si sciolse il gruppo investigativo che aveva in carico inchieste di grande importanza". Se tre indizi fanno una prova, ce n'era abbastanza per pensare che un 41enne, sottoposto a visite mediche periodiche dalla Marina militare, giunto all'acme di una attività di indagine pericolosa e che pestava i piedi di molti potentati, potesse non essere morto per un arresto cardiaco. Eppure la prima autopsia svolta stabilì proprio questo. Purtroppo, trascorsi tanti anni, per il professore Giovanni Arcudi, perito interpellato dalla commissione, non è stato possibile stabilire possa essere stata la causa tossica. E nemmeno se questa effettivamente ci sia stata. La conclusione è stata ottenuta per esclusione della possibilità che la morte sia stata naturale. Il decesso dovuto ad una tossina, secondo il perito, "appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile. Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo un dolce: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni (i due carabinieri che erano in viaggio con De Grazia). Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta". Il presidente Pecorella, ha concluso dicendo che "non è compito della commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell'autorità giudiziaria, ma non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese". E i nuovi risultati impongono di valutare la situazione in una chiave nuova e non poco allarmante.

Il capitano De Grazia avvelenato mentre indagava sulla nave del Kgb, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Le conclusioni della commissione parlamentare sui rifiuti tossici: Non si crede alla incidente e ci sono gli elementi per riaprire il caso dell'ufficiale morto come torna a chiedere anche Legambiente. Nuovi informazioni sullo strano caso della nave Latvia. La morte del capitano Natale De Grazia non ha mai convinto nessuno. Oggi però ci sono anche gli elementi concreti per chiedere la riapertura del caso. Legambiente, che per prima lanciò l'allarme sulle navi dei veleni all'inizio degli anni 90 ha organizzato a Reggio Calabria un incontro a cui prende parte anche Alessandro Bratti, componente Pd della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Un dibattito per dire che il "Caso De Grazia", non è chiuso. Una richiesta sostenuta dalle conclusioni cui è giunta la stessa Commissione, per la quale l'ufficiale che indagava sui traffici illegali di scorie non morì "di morte naturale", come stabilito da due perizie mediche fatte immediatamente dopo il decesso, ma che si trattò di una morte dovuta ad una sorta di intossicamento. Veleno insomma. De Grazia era sulle tracce delle navi dei veleni che venivano utilizzate per inabissare sostanze tossiche. Ed era arrivato a scoprire storie pericolose. Il mistero dei cargo affondati nel Mediterraneo poteva essere risolto. Natale De Grazia la notte in cui morì si stava recando a La Spezia, porto nel quale doveva fare una serie di approfondimenti, incontrando anche alcune fonti "riservate". A La Spezia, sapeva, essere in porto anche una strana imbarcazione la Latvia, una motonave dell'ex Unione Sovietica, che era stata dei servizi segreti russi. Scrive la Commissione: "Dell'esistenza di questa nave si dà conto per la prima volta nell'annotazione di polizia giudiziaria redatta dal Corpo forestale dello Stato di Brescia in data 26 ottobre 1995, nella quale si evidenzia che la nave, venduta ad un prezzo superiore al valore reale, avrebbe potuto essere destinata al trasporto di rifiuti nucleari e/o tossico-nocivi". E ancora: "Nell'area portuale di La Spezia è presente la motonave Latvia. adibita al trasporto passeggeri, ex-sovietica, giunta nei cantieri Oram prima della caduta del blocco orientale. Nave ritenuta come appartenente ai servizi segreti sovietici (Kgb) (...). Attualmente è ormeggiata alla diga di La Spezia, è stata messa in vendita (forse dal tribunale) ed acquistata da una società Liberiana con sede in Monrovia, tramite un ufficio legale di La Spezia. Da fonte attendibile risulta che il prezzo pagato è superiore di quello del valore reale, e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come "bagnarola" per traffici illegali di varia natura, in particolare di rifiuti nucleari e o tossico-nocivi (...)". La misteriosa Latvia viene menzionata in un'altra annotazione di polizia giudiziaria che porta la data 10 novembre 1995. Nell'informativa "il brigadiere Gianni De Podestà comunicò alle procure di Reggio Calabria e di Napoli che fonte confidenziale attendibile aveva di recente riferito in merito al coinvolgimento di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossico nocivi interessanti la zona di La Spezia e l'hinterland napoletano. Si dava atto che la Latvia, così come già era stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso, avrebbe dovuto essere preparata per salpare nell'arco di 4 giorni con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la rotta La Spezia-Napoli (per un ulteriore carico, come accertato per la Rosso) - Stretto di Messina-Malta - ritorno sulle coste joniche (per affondamento)".  Fantasie di un informatore pazzo? No, secondo gli investigatori è molto attendibile. La fonte denominata "Pinocchio", ritenuto uomo in odore di servizi segreti italiani, indica fatti precisi. Rimane anonima per ragioni di sicurezza personale, familiare e per la polizia giudiziaria che lavora all'indagine. Sembrerebbe quasi un infiltrato. Di fronte a un'informazione dettagliata di questo tipo, il pm reggino Francesco Neri e il pool di cui De Grazia faceva parte, iniziò ad indagare anche sulla Latvia. Spiega la Commissione: "Si trattava, infatti, di una nave che era possibile monitorare per così dire 'in diretta' e che consentiva, quindi, di superare i vuoti conoscitivi attinenti alle altre navi delle quali si erano perse le tracce".  Appare, quindi, del tutto credibile la circostanza emersa nell'ambito dell'inchiesta svolta dalla Commissione, secondo la quale il capitano De Grazia si sarebbe dovuto recare a La Spezia anche per effettuare indagini con riferimento alla predetta nave e per avere un contatto diretto con la fonte confidenziale che aveva già riferito informazioni in merito alla Latvia. Tale circostanza, invero, non risulta da alcun documento, ma è stata rappresentata alla Commissione da un soggetto il cui nome è rimasto segretato". Il 13 dicembre a La Spezia sarebbe arrivato De Grazia. Non fece in tempo, morì misteriosamente nel viaggio di andata. Una morte resa ancora più sospetta da un fatto: "data 15 dicembre 1995, due giorni dopo il decesso del capitano De Grazia, l'ispettore Tassi trasmise un fax alla procura circondariale di Reggio Calabria nel quale testualmente riferiva che "In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all'incirca verso la terza decina del Novembre per raggiungere il porto di Ariga (Turchia)". La Commissione trae le conclusioni: "Non può non sottolinearsi la peculiarità della vicenda, tenuto conto dei seguenti dati: nel pieno di indagini concernenti l'utilizzo di navi per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici, vi era la possibilità di monitorare una nave, la Latvia, rispetto alla quale vi erano concreti indizi in merito al suo utilizzo per le predette finalità illecite; ebbene, nonostante la preziosissima fonte di informazioni, rappresentata dalla motonave in questione, non solo non risultano effettuate verifiche approfondite da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della zona, ma  neppure risultano essere stati mai sentiti gli occupanti della nave; paradossale è poi che non sia stato predisposto un servizio di osservazione in merito agli spostamenti della nave".

Dalle carte spuntano il nome di Gelli e i magistrati spiati dai servizi segreti, continua Giuseppe Baldessarro. La commissione ha anche desecretato delle informazioni arrivate dal Copasir da cui emergono cinquecento milioni di spese sostenute dagli 007. Per fare cosa? "Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (...) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l'evaso Licio Gelli". A raccontarlo davanto ai deputati della Commissione d'inchiesta sui rifiuti è Nicolò Moschitta, maresciallo dei Carabinieri e componente di punta del pool di investigatori che con De Grazia, si occupava delle navi dei veleni. "In modo particolare, (nel documento) si trattava della fuga di Licio Gelli da Lugano fino al suo rifugio segreto nel principato di Monaco. Ci risulta che la casa in cui era ospitato Licio Gelli era di Giorgio Comerio. In seguito, i servizi segreti sono entrati ufficialmente con noi nell'indagine perché esaminavano la documentazione, d'accordo con la magistratura. In effetti, è stata una collaborazione corretta, leale e senza problemi". La collaborazione tra procura e Sismi proseguì anche dopo che il fascicolo fu trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. La conferma è nel provvedimento con il quale il sostituto procuratore Alberto Cisterna, divenuto poi titolare dell'indagine, autorizzò la polizia giudiziaria "ad avvalersi dell'ausilio informativo del Sismi per il tramite di persone nominativamente indicate appartenenti all'ottava divisione". Se quello descritto "fu il rapporto 'formale' tra procura e servizi segreti, in merito alle indagini sulle "navi a perdere", Secondo la Commissione, si tratterebbe di "un ulteriore profilo di intervento dei servizi segreti nella materia riguardante il traffico dei rifiuti radioattivi e tossico nocivi e il traffico di armi".  "In particolare il documento proveniente dal Copasir, riguarda una comunicazione del Sismi al Cesis in merito alle spese sostenute nell'anno 1994 per i servizi di intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi, indicati nella misura di 500 milioni di lire. Si tratta di un documento desecretato dalla Commissione particolarmente interessata a comprendere in che modo fossero stati utilizzati i 500 milioni di lire nelle operazioni di intelligence relative al traffico di rifiuti e di armi. Per farne cosa? "Non è stato però possibile, nonostante le numerose audizioni effettuate sul punto, sapere in che modo sia stata spesa la somma di cui sopra, per lo svolgimento di quali attività e, ancor prima, per quali ragioni i servizi, all'epoca, fossero interessati al tema dei rifiuti radioattivi". Che i servizi fossero stati coinvolti ufficialmente nell'inchiesta delle navi è un fatto accertato. Ora però la commissione si pone anche qualche altra domanda, visto che gli stessi servizi controllavano i movimenti del pool di magistrati e investigatori che lavoravano al caso. E infatti: "È stato, inoltre, prospettato alla Commissione, ma non è stato acquisito alcun riscontro al riguardo, un ulteriore ipotetico interessamento dei servizi all'indagine svolta da Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria".  Le indicazioni in questo senso le fornisce il Colonello della Forestale Rino Martini (anch'esso coinvolto nelle indagini) alla Commissione quando dice: "In quel periodo, si verificarono due episodi, uno dei quali ricordato dal procuratore Pace. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un'altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trentanni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell'autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. (...) Certamente, c'era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo".

'Rigel', è al largo di Capo Spartivento la nave perduta carica di veleni, continua “La Repubblica”. Il cargo, che batteva bandiera maltese, venne fatto affondare il 21 settembre 1987. Prima di morire, il comandante De Grazia aveva trovato abbondanti prove sul fatto che il naufragio era servito per nascondere in fondo al mare un inconfessabile carico di scorie nucleari. Truffe, corruzione, cemento e polvere di marmo per nascondere l'evidenza. Motonave Rigel, battente bandiera maltese, stazza 3852 tonnellate. Affondata 20 miglia a largo di Capo Spartivento alla latitudine di 37 gradi e 58' nord e longitudine di 16 gradi e 49' est, almeno ufficialmente. È una carretta del  mare, molto voluminosa certo, ma pur sempre una carretta. È colata a picco, con il suo carico "generico", il 21 settembre del 1987. E' una nave dei veleni, o meglio è l'unica delle navi cercate dal capitano Natale De Grazia su cui affiorano indizi precisi, sostenuti da un'inchiesta precedente. Dell'affondamento della Rigel, infatti, si viene a sapere per un dettaglio particolare. L'armatore greco Papanicolau chiede ai Lloyd's il risarcimento dei danni. La nave era assicurata e, dopo il naufragio, il proprietario vuole passare all'incasso. Scrive a Londra, senza prevedere che le assicurazioni, prima di pagare, avrebbero condotto le loro indagini, acquisendo elementi quantomeno singolari. E scoprendo che l'affondamento era una truffa. Che era stato provocato per mettere le mani su qualche miliardo della compagnia. Circostanza costata ai protagonisti della vicenda una condanna penale definitiva. La storia della Rigel è emblematica. È la copia conforme di altre vicende e, forse, è anche rappresentativa dell'intera storia del traffico dei veleni. C'è del marcio. È chiaro. Basta leggere le carte dell'inchiesta della procura della Repubblica di La Spezia. Dell'affondamento non c'è traccia nei registri delle Autorità marittime locali e nazionali. Non una parola. Da nessuna parte. Se non ci fosse stata la denuncia di Papanicolau, di questa nave, affondata durante il suo viaggio da Marina di Carrara a Limassol (Cipro), non sarebbe rimasta neanche l'ombra. L'equipaggio quel 21 settembre non lancia neppure l'SOS. Non chiede aiuto alle Capitanerie di Porto calabresi o siciliane, che in poche ore avrebbero potuto essere sul posto. Niente di tutto questo. Comandante e marinai vengono salvati "per caso" dalla Krpan, una nave jugoslava che non li sbarca in uno dei tanti approdi italiani che ha sulla rotta. Se ne va invece in giro per il Mediterraneo per un po' e poi scarica tutti a Tunisi. Strano. E non è il solo elemento anomalo. Il processo per truffa stabilisce che c'è qualcosa che non va anche sul carico denunciato. Secondo i registri, nella stiva della Rigel c'erano "macchine riutilizzate" e "polvere di marmo". In realtà quel carico non era stato mai controllato dalla dogana, i funzionari dell'ufficio si erano fatti corrompere per 900 mila lire a container. Alcuni dei soggetti coinvolti nell'inchiesta di La Spezia, pur ammettendo di non sapere cosa in realtà trasportasse la nave, ammisero che il carico non era quello dichiarato e che era stata commessa una truffa ai danni dell'assicurazione. C'è di certo che almeno 60 container erano stati riempiti di blocchi di cemento, "appositamente realizzati nell'arco di tre mesi". Perché? Qualcuno potrebbe rilevare che i blocchi servissero per far affondare prima la nave. Sbagliato. O quantomeno illogico. Il cargo era pieno di mille e 700 tonnellate di polvere di marmo, oltre alle presunte "macchine". Sufficienti a far inabissare qualsiasi nave. E, se proprio ci fosse stato un problema, perché non usare altra polvere di marmo? È più pesante del cemento e persino meno costosa. Invece no. Invece si decide per i blocchi. La spiegazione del magistrato Francesco Neri nelle carte dell'indagine che si stava svolgendo a Reggio Calabria è netta: "Appare ipotizzabile che la presenza a bordo dei blocchi fosse utile alla cementificazione di rifiuti radioattivi". Non è finita. Ci sono tre persone, lavoratori del porto coinvolti nelle indagini, che parlano con il pm. Sono Paolo Lantean, Nedo Picchi e Riccardo Baronti, e confermano che "i container, una volta caricati dei blocchi di cemento, di notte, erano stati tenuti d'occhio da alcuni sconosciuti". Personaggi strani, che avevano montato la guardia ai contenitori d'acciaio e che ci avevano girato attorno per diverse ore. Cosa sorvegliavano? C'è poi dell'altro. La Rigel è già pronta a salpare il 2 settembre. Ma non si muove da Marina di Carrara. La ragione è semplice: Papanicolau vuole i soldi che gli spettano dai caricatori. Un miliardo e mezzo, come stabilito tramite l'avvocato genovese Teresa Gatto. Si legge nella sentenza che lo condanna per la truffa: "Una parte doveva essere versata entro due giorni dalla partenza della Rigel da Marina di Massa e l'altra metà prima del naufragio". Si è accertato che ci furono dei ritardi nei pagamenti e che la Rigel dopo la partenza si fermò per qualche tempo a Palermo, poi gironzolò davanti a Capo Spartivento per almeno una settimana prima di essere affondata. Aspettava, insomma, il segnale dell'avvenuto incasso. E, infatti, i soldi arrivano estere su estero la sera del 18 settembre. E la nave cola a picco il 21. "Lost the ship". La storia riaffiora quando il comandante Natale De Grazia, durante una perquisizione nel maggio del '95, trova un'agenda che viene poi sequestrata. Alla pagina del 14 settembre c'è un appunto in inglese: "Se noi non abbiamo il denaro disponibile prima del 19 settembre non possiamo comprare la nave per la produzione al pubblico". E, sul foglio dell'agenda relativo al 21 settembre, la frase "Lost the ship". Che tradotto significa "Perduta la nave". Coincidenze? I riferimenti alla Rigel sembrano chiari. L'agenda era in un cassetto dell'ufficio di Giorgio Comerio, il faccendiere implicato in mille traffici di rifiuti ed in altrettanti di armi. Uno che è pappa e ciccia con i servizi segreti di mezzo mondo. Prima di partire per il suo ultimo viaggi De Grazia aveva telefonato all'allora procuratore di Matera Nicola Maria Pace che conduceva indagini parallele a quelle di Reggio Calabria sul traffico di rifiuti radioattivi: "Procuratore quando torno deve venire a Reggio Calabria. La porto nel punto preciso in cui è affondata la Rigel". Non è mai più tornato.

Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. RELAZIONE SULLA MORTE DEL CAPITANO DI FREGATA NATALE DE GRAZIA. Segue il testo della  ”Relazione sulla morte del capitano di fregata Natale De Grazia” così come è stata pubblicata sul sito del relatore on. Alessandro Bratti.  (Relatori: On. Gaetano PECORELLA e On. Alessandro BRATTI) Approvata dalla Commissione nella seduta del 5 febbraio 2013- Comunicata alle Presidenze l’11 febbraio 2013 ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 6 febbraio 2009, n. 6.

RELAZIONE SULLA MORTE DEL CAPITANO DI FREGATA NATALE DE GRAZIA

PREMESSA

Il capitano Natale De Grazia. Il dodici dicembre 1995 è stato l’ultimo giorno di vita del capitano Natale De Grazia. Alle prime ore del 13 dicembre 1995, qualche giorno prima del suo trentanovesimo compleanno, il capitano De Grazia è deceduto per cause che a molti apparvero quanto meno sospette e che ancora oggi, a distanza di anni, continuano ad essere considerate tali. Il capitano di fregata Natale De Grazia era un ufficiale della Marina militare, in servizio presso la Capitaneria di porto di Reggio Calabria. Al momento della sua morte era applicato alla sezione di polizia giudiziaria presso la procura circondariale di Reggio Calabria e faceva parte di un pool investigativo, coordinato dal sostituto procuratore Francesco Neri, costituito per effettuare le indagini avviate a seguito di un esposto presentato da Legambiente, concernente presunti interramenti di rifiuti tossici in Aspromonte. Nel corso dell’inchiesta si aprirono subito scenari inquietanti legati al fenomeno delle “navi a perdere”, indicandosi con tale espressione le navi affondate dolosamente con carichi di rifiuti radioattivi o comunque tossici, smaltiti illegalmente nelle profondità marine. Secondo un dossier di Legambiente trasmesso alla Commissione gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero stati 88 (doc. 117/30). Del gruppo investigativo facevano parte, oltre al capitano De Grazia, il maresciallo capo Scimone Domenico, appartenente alla sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri presso la procura di Reggio Calabria, il maresciallo Moschitta e il carabiniere Rosario Francaviglia, questi ultimi due appartenenti al nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria. In un momento successivo parteciparono attivamente alle indagini anche ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti al Corpo forestale dello Stato di Brescia e di La Spezia.
Nelle indagini il capitano De Grazia profuse una dedizione ed un impegno fuori dal comune, tali da farlo considerare, anche dai sui stessi colleghi, il “motore” dell’inchiesta. Non a caso, dopo la sua morte, le attività investigative (giunte a risultati importanti e, da un certo punto di vista, ad una vera e propria fase di svolta) subirono un rallentamento significativo: alcune delle attività che il capitano stava personalmente compiendo non furono proseguite e si disperse, in parte, quel bagaglio di conoscenze e di professionalità che il capitano aveva acquisito nel corso dell’inchiesta e aveva messo a servizio dei magistrati e dei colleghi. Per dare un’idea di quanto fosse considerato fondamentale l’apporto professionale del capitano De Grazia, basti leggere le note che il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, inviò al comandante della Capitaneria di porto e al procuratore generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria: la prima, del 13 novembre 1995, finalizzata a far dispensare il capitano dalle ordinarie attività svolte presso la Capitaneria di porto onde consentirgli di dedicarsi all’indagine della procura; la seconda, di ringraziamento, del 27 novembre 1995 (doc. 681/7). Entrambe si riportano integralmente.

Nota del 13 novembre 1995: “Oggetto: Proc. penale n. 2114/94 R.G.N.R. – Indagini relative ad un traffico di rifuti tossici e/o radioattivi. Com’è noto alla S.V., anche per aver partecipato ad una delle riunioni promosse dal procuratore generale per il coordinamento tra le varie procure interessate, da parte di quest’ufficio sono in corso le indagini di cui in oggetto, le quali hanno già conseguito i primi risultati anche grazie al prezioso contributo, in termini di professionalità, intuito investigativo e spirito di sacrificio, del C.C. Natale De Grazia, in servizio presso codesto Comando. Da circa tre mesi, però, detto ufficiale si trova nell’impossibilità di svolgere tale attività in quanto impegnato, come dalla S.V. personalmente significatomi in via informale, nell’espletamento dei suoi compiti di Istituto. La conseguenza immediata di ciò, purtroppo, è stata una situazione di stallo dell’attività investigativa, che ha gravemente risentito, per la sua specificità (pare che i rifiuti vengano smaltiti col sistema delle “navi a perdere”), del venir meno delle conoscenze tecniche del succitato ufficiale (oltre che della sua elevata professionalità). In considerazione di quanto sopra, vorrà esaminare la possibilità di disporre che il capitano De Grazia sia temporaneamente, e per due mesi almeno, dispensato dai compiti attinenti a codesto ufficio, onde consentirgli di riprendere a collaborare con lo scrivente nello svolgimento delle delicate e complesse indagini di cui sopra”.

Nota del 27 novembre 1995: “La presente per darLe atto della grande sensibilità dimostrata in relazione ai problemi che ebbi a prospettarle con la mia del 13 u. s. ringraziarla vivamente della sollecitudine con cui ha consentito al capitano De Grazia di continuare a collaborare con quest’ ufficio nelle indagini di cui in oggetto”. Rientrato a tempo pieno nel gruppo investigativo, il capitano De Grazia si dedicò nuovamente alle indagini con la consueta determinazione.
Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1995 partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al Carabiniere Francaviglia, con autovettura di servizio, alla volta di La Spezia per dare esecuzione alle deleghe di indagine, firmate dal procuratore Scuderi e dal sostituto Neri, finalizzate ad acquisire maggiori elementi di conoscenza in merito all’affondamento di alcune navi. Durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995, il capitano venne colto da malore e, quindi, trasportato dall’ambulanza, nel frattempo intervenuta, presso il pronto soccorso dell’ospedale di Nocera Inferiore, ove però giunse cadavere.

Con nota del 22 dicembre 1995 il capitano Antonino Greco, comandante del nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria, rimise al procuratore Scuderi le sei deleghe di indagine datate 11 dicembre 1995 “non potute evadere a causa del decesso del capitano di corvetta De Grazia Natale” (doc. 321/2). Il Comitato civico “Natale De Grazia” ha trasmesso alla Commissione una serie di documenti dai quali si rileva che nel giugno 2004 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì al capitano De Grazia la Medaglia d’oro alla Memoria con le seguenti motivazioni: “Il capitano di Fregata (CP) Spe r.n. Natale DE GRAZIA ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevato valore investigativo e scientifico per conto della procura di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di un costante sacrificio personale e nonostante pressioni ed atteggiamenti ostili, a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini ed illeciti operati da navi mercantili. Il comandante De Grazia è deceduto in data 13.12.1995 a Nocera Inferiore per “Arresto cardio-circolatorio”, mentre si trasferiva da Reggio Calabria a La Spezia, nell’ambito delle citate indagini di “Polizia Giudiziaria”. Figura di spicco per le preclare qualità professionali, intellettuali e morali, ha contribuito con la sua opera ad accrescere e rafforzare il prestigio della Marina militare Italiana” (doc. 191/2).

L’APPROFONDIMENTO SULLA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA

L’approfondimento sulle cause del decesso del capitano De Grazia si inserisce nel contesto dei più ampi accertamenti chela Commissione ha effettuato sul fenomeno delle “navi a perdere”. Si tratta di un tema tornato di attualità a seguito del rinvenimento nell’anno 2009, sui fondali antistanti la costa di Cetraro, del relitto di una nave, inizialmente (ed erroneamente) ritenuta essere la Cunsky ossia una delle navi che l’ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti aveva indicato essere state affondate dolosamente insieme al loro carico di rifiuti altamente tossici. In relazione a questa vicenda, la procura di Paola ha aperto un procedimento penale, poi proseguito dalla procura di Catanzaro e conclusosi con un provvedimento di archiviazione. Nell’ambito di questa più ampia inchiesta, invero, sono emerse talune peculiarità relative alle circostanze che hanno accompagnato il decesso del capitano ritenute meritevoli di ulteriori approfondimenti sia perché le indagini effettuate all’epoca furono carenti sotto molteplici aspetti, lasciando insoluti interrogativi in ordine alle cause del decesso sia perché tale tragico evento si inserisce in un contesto investigativo del tutto particolare in ragione degli interessi in gioco e dei personaggi coinvolti (dalle indagini sulle navi a perdere condotte dalle procure di Reggio Calabria e Matera emersero, infatti, per la prima volta indizi di un disegno criminoso di respiro sovranazionale, nel quale apparivano coinvolti diversi Stati, riguardante il presunto inabissamento in mare di rifiuti tossici). La Commissione, oltre ad aver acquisito copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore relativo al decesso del capitano nonché degli atti riguardanti le indagini alle quali lo stesso capitano De Grazia aveva preso parte, ha svolto direttamente una serie di attività mirate a far luce sugli aspetti poco chiari della vicenda. In primo luogo, si è cercato di comprendere come mai, dopo la morte del capitano, il gruppo investigativo si fosse progressivamente sfaldato, come se, ad un certo momento, tutti coloro che ne avevano preso parte non fossero più interessati a proseguire, nonostante si trattasse di un’indagine particolarmente rilevante sia per l’oggetto trattato (smaltimento illecito di rifiuti radioattivi) sia per le dimensioni sovranazionali del traffico illecito sia, ancora, per la collaborazione prestata non solo da diverse forze di polizia operanti sul territorio nazionale, ma anche dai servizi segreti, in particolare dal Sismi. Contestualmente, si è cercato di comprendere se effettivamente, all’epoca, vi fosse un clima di intimidazione che gli stessi inquirenti hanno dichiarato di aver percepito durante lo svolgimento del loro lavoro. Ancora, sono stati oggetto di approfondimento da parte della Commissione alcuni aspetti emergenti proprio dall’indagine avviata dalla magistratura in ordine al decesso del capitano e conclusasi con provvedimento di archiviazione.

L’ATTIVITÀ DELLA COMMISSIONE

Gli approfondimenti della Commissione sono stati effettuati attraverso: - l’acquisizione dei documenti afferenti le indagini dell’autorità giudiziaria (tra i più rilevanti si segnalano gli atti delle indagini svolte dalle procure circondariali di Reggio Calabria e di Matera in merito allo smaltimento di rifiuti radioattivi; gli atti dei procedimenti relativi al decesso del capitano De Grazia; gli atti dei procedimenti iscritti dalla procura presso il tribunale di Reggio Calabria e dalla procura presso il tribunale di Paola);

- l’acquisizione di documenti utilizzati da precedenti Commissioni parlamentari di inchiesta (Commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Commissioni parlamentari di inchiesta sul ciclo dei rifiuti presediute dall’On. Russo e dall’On. Scalia);

- audizione dei persone in grado di riferire elementi utili ai fini dell’inchiesta.
E’ stato, inoltre, conferito un incarico di consulenza tecnica al prof. dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata” nonchè consulente della Commissione) al fine di operare una rivalutazione delle attività medico legali svolte dai consulenti nominati dal pubblico ministero e dalle parti civili nell’ambito del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore, volto ad accertare le cause del decesso del capitano De Grazia.

Tra gli auditi si segnalano:

- i magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Francesco Greco, Giancarlo Russo, Felicia Genovese, Francesco Basentini, Alberto Cisterna;

- Postorino Francesco, cognato del capitano di fregata Natale De Grazia;

- il maresciallo Niccolò Moschitta, già appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;

- il maresciallo Domenico Scimone, già appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;

- il carabiniere Rosario Francaviglia, appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;

- il carabiniere Angelantonio Caiazza;

- il carabiniere Sandro Totaro;

- l’ex colonnello del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Rino Martini;

- il brigadiere del Corpo dello Stato Gianni De Podestà;

- il vice ispettore del Corpo forestale dello Stato dello stato Claudio Tassi;

- Francesco Fonti, ex collaboratore di giustizia;

- il medico legale, dottoressa Del Vecchio;

- il medico legale, dottor Asmundo;

- il comandante in seconda, ufficiale presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Giuseppe Bellantone;

- rappresentanti della società di navigazione Ignazio Messina.

La relazione è strutturata in due parti: La prima dedicata all’indagine avviata dalla procura circondariale di Reggio Calabria, nella quale ebbe un ruolo determinante il capitano De Grazia. Ed infatti, non è possibile trattare adeguatamente il tema del decesso del capitano, senza avere prima analizzato nel dettaglio l’indagine nella quale lo stesso era impegnato; in questa parte si è affrontato anche il tema relativo allo sfaldamento del gruppo investigativo nel quale operava il capitano De Grazia. La seconda parte è dedicata alle cause della morte del capitano e all’inchiesta aperta sul punto dalla magistratura. Sono poi riportati gli accertamenti e le attività che la Commissione ha ritenuto di svolgere al fine di approfondire tutti gli aspetti ritenuti poco chiari. Infine, vi sono le conclusioni, nelle quali la Commissione – pur nella consapevolezza della difficoltà di scrivere una parola definitiva sulla vicenda in questione, tenuto conto del lasso di tempo trascorso dagli accadimenti – riesamina criticamente tutti gli elementi acquisiti.

PARTE PRIMA – LE INDAGINI GIUDIZIARIE

1 – L’INDAGINE AVVIATA DALLA PROCURA CIRCONDARIALE DI REGGIO CALABRIA

1.1 – La denuncia di Legambiente del 2 marzo 1994 e l’apertura del procedimento. La Commissione ha accertato che il primo procedimento penale aperto in relazione alla vicenda delle “navi a perdere” fu quello recante il n. 2114/94 mod. 21 R.G.N.R., iscritto presso la procura circondariale di Reggio Calabria, assegnato al sostituto procuratore della Repubblica, dottor Francesco Neri. Il procedimento venne aperto inizialmente a carico di ignoti a seguito di un esposto di Legambiente del 2 marzo 1994 nel quale si denunciava l’esistenza, in Aspromonte, di discariche abusive contenenti materiale tossico-nocivo e/o radioattivo, trasportato con navi presso porti della Calabria e, successivamente, in montagna con automezzi pesanti. Nella denuncia si evidenziava come il territorio calabrese si prestasse particolarmente alla realizzazione di discariche abusive sia perché i porti erano scarsamente controllati, sia perché l’Aspromonte, con le sue caverne naturali, appariva il luogo ideale in cui nascondere questo tipo di materiale.
Vennero, pertanto, disposti dal pubblico ministero accertamenti tecnici – per il tramite dell’istituto geografico militare – finalizzati a verificare se il territorio calabrese fosse effettivamente adatto per un simile illecito smaltimento di rifiuti. La risposta fu affermativa in quanto realmente l’Aspromonte, per la sua geomorfologia, accessibilità e vicinanza a porti incontrollati si prestava ad essere utilizzato per occultare rifiuti pericolosi. Contestualmente, vennero delegate indagini ai ROS, alla Guardia di finanza e alla squadra mobile di Reggio Calabria, finalizzate ad accertare quali veicoli pesanti avessero potuto trasportare rifiuti in Aspromonte. Occorre subito evidenziare che – in poco meno di un anno – le indagini ebbero sviluppi inimmaginabili, tanto che nel giugno 1995 il sostituto procuratore Francesco Neri sentì l’esigenza di trasmettere al procuratore capo una relazione nella quale evidenziava le tappe investigative ed i sorprendenti scenari che si erano aperti, per i quali riteneva necessario procedere con rogatorie internazionali, collaborazioni con altre procure, non solo calabresi, e scambio di informazioni con i servizi segreti (cfr. doc. 362/3 allegato).

1.2 – Approfondimenti relativi alla nave Korabi e costituzione del primo gruppo investigativo. Il tema investigativo ben preso si ampliò. Ed infatti, contemporaneamente allo svolgimento degli accertamenti sulle caratteristiche del territorio calabrese, giunse alla procura di Reggio Calabria la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante “Pentimele” perché sospettata di trasportare materiale radioattivo (scorie di rame di altoforno). La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, detta radioattività non era stata riscontrata. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo. Questo dato è stato rappresentato dal dottor Neri come particolarmente inquietante perché poteva far presumere che la nave si fosse disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.
Nel corso dei controlli effettuati presso il porto di Reggio Calabria dalla Guardia di finanza venne trovato a bordo della nave un motore fuoribordo, del quale il comandante non seppe fornire alcuna giustificazione. I successivi controlli effettuati consentirono di accertarne la provenienza furtiva. Venne disposto, dunque, il fermo di polizia giudiziaria del comandante per ricettazione ed il sequestro della nave, nel frattempo ormeggiata presso il porto di Pescara. Gli accertamenti disposti successivamente sulla radioattività della motonave Koraby ebbero esito negativo e la nave venne, pertanto, dissequestrata. Fu disposta, in seguito, consulenza collegiale per accertare se le “presunte” scorie di rame contenessero “plutonio” o altre sostanze radioattive o fungessero da “scudo” ad altra fonte radioattiva di cui il comandante si era potuto disfare nel tragitto tra Palermo e Reggio Calabria. Invero, lo stesso, nel corso dell’interrogatorio reso innanzi all’autorità giudiziaria di Pescara, aveva dichiarato che il carico ritirato a Durazzo era stato scaricato a Rieka (Fiume) Slovenia per essere poi caricato su vagoni ferroviari con destinazione ignota (cfr. doc. 362/3 allegato). Si iniziò, dunque, a profilare l’ipotesi che rifiuti tossici potessero essere smaltiti illecitamente in mare.
La denuncia di Legambiente fu trasmessa anche alle procure di Locri, Palmi, Vibo Valentia e Crotone. Fu disposta una consulenza collegiale da parte di tutte le procure interessate al fine di ottenere una mappa aggiornata di tutti i possibili siti (discariche, cave, ecc.) di stoccaggio abusivo di rifiuti radioattivi e tossico/nocivi. Sempre nello stesso periodo venne acquisita dalla procura della Repubblica di Savona (pubblico ministero dottor Landolfi) documentazione circa il ritrovamento di 6.000 fusti contenenti materiale tossico in una cava di Borghetto Santo Spirito, gestita da personaggi legati alle cosche calabresi. L’ipotesi, poi approfondita dalla procura di Locri, competente per territorio, era che il materiale tossico potesse essere destinato al sud, nei territori gestiti dalle cosche predette. Anche dalle procure di Vibo Valentia, Crotone e Palmi pervennero notizie in merito a presunti interramenti di rifiuti tossici.
Quello sopra descritto è lo scenario nel quale si sviluppò l’indagine condotta dal dottor Francesco Neri. Proprio per la complessità delle situazioni emerse venne creato un apposito gruppo investigativo costituito dal maresciallo capo Scimone Domenico, appartenente alla sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri presso la procura di Reggio Calabria, dal capitano di fregata De Grazia Natale, dal maresciallo M. Moschitta e dal carabiniere Rosario Francaviglia, questi ultimi due appartenenti al nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria. Tale gruppo ebbe modo di interfacciarsi sia con la procura di Matera (che indagava sul centro ricerche Trisaia Enea di Rotondella) sia con il Corpo forestale dello Stato di Brescia (che aveva da tempo avviato indagini mirate su Giorgio Comerio, presunto trafficante di rifiuti tossici e, più in generale, mirate sul traffico di rifiuti radioattivi).

1.3 – Audizione del teste “Billy” e coordinamento investigativo con la procura di Matera. Nel marzo 1995 l’indagine si arricchì di elementi importanti, riguardanti il traffico e la gestione delle scorie nucleari in Italia, lasciando intravedere anche il coinvolgimento dell’Enea. Un funzionario di questo ente, ingegner Carlo Giglio, chiese espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito, dopo aver appreso dalla stampa che la procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria. Il teste venne sentito a Roma, ove risiedeva, il 17 marzo 1995(doc. 681/44 allegato), dal dottor Neri e dai marescialli Scimone e Moschitta. Riferì di essere riuscito a scoprire, nell’ambito della sua attività istituzionale, che la registrazione degli scarti nucleari era truccata per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Dichiarò che le sue relazioni ispettive effettuate presso i centri Enea di Rotondella (MT) e di Saluggia (Vercelli) scatenarono all’interno dell’ente azioni di ritorsione che sfociarono in denunce per diffamazione e calunnia. Parlò, poi, di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Riferì, ancora, in ordine allo smaltimento dei rifiuti radioattivi prodotti dall’Enel, sotto la supervisione dell’Enea, la cui destinazione sarebbe stata ignota. L’ingegner Giglio, in quell’occasione, rese una serie di dichiarazioni attinenti ad una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari. Particolarmente significative si rivelarono le dichiarazioni relative al traffico clandestino di materiale nucleare: “(…) la scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirato, in quanto è logico ritenere che solo la Mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per detti traffici. (…). Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti. L’ing. Giglio fa inoltre presente come la persecuzione subita nell’ambito del suo ente sia dipesa essenzialmente dall’avere adempiuto ai suoi doveri denunciando alla magistratura, al suo ente ed alle varie Commissioni di inchiesta i fatti sin qui narrati (…)”.

In seguito, l’ingegner Giglio, per la delicatezza delle dichiarazioni rilasciate, fu chiamato dagli investigatori con lo pseudonimo “Billy”. Nacque, quindi, l’esigenza di coordinare le indagini con quelle svolte dalla procura circondariale di Matera, in particolare dal procuratore Nicola Maria Pace, dal momento che questi, sin dai primi anni ‘90, stava svolgendo indagini in merito ad un presunto traffico di rifiuti radioattivi provenienti dal Centro Trisaia Enea di Rotondella (procedimento penale n. 254/93 R.G.N.R.). Secondo quanto riferito dal dottor Pace alla Commissione era stato ipotizzato un interesse dell’Enea nell’attività di smaltimento in mare attraverso le navi. Questa ipotesi aveva portato al coordinamento investigativo con le attività svolte sul territorio limitrofo dagli investigatori operanti in Calabria, guidati dal dottor Neri. Ed, in effetti, Carlo Giglio venne successivamente sentito, in data 10 maggio 1995, dal dottor Neri e dal dottor Pace, questa volta presso gli uffici del Corpo forestale dello Stato di Brescia (alla presenza dei marescialli Moschitta e Scimone). In tale occasione fornì talune precisazioni in merito a quanto già riferito in precedenza: “i controlli da me effettuati in presenza dei rappresentanti Enea presso i centri sono stati sempre oggetto di verbali di sopralluogo firmati dal sottoscritto e dalla stessa direzione Enea (…) tali verbali sono stati sempre trasmessi all’autorità giudiziaria competente per le gravissime deficienze riscontrate nei sistemi di monitoraggio e di misura della radioattività e per quanto riguarda specificatamente il Centro di Rotondella”. Precisò, poi, che il processo avviato in merito a tali fatti si era concluso con una sentenza emessa dal tribunale di Matera in data 28 maggio 1984 con la quale furono assolti sia gli ispettori dell’Enea sia il direttore dell’impianto. In sintesi, le dichiarazioni di Carlo Giglio hanno fatto riferimento a presunti fatti di particolari gravità, quali:

- la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”;

- l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ‘80/’90) destinati ai paesi del terzo mondo, in particolare Irak, Pakistan e Libia, ove sarebbero stati utilizzati per la produzione di ordigni atomici;

- l’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel, nonchè la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi. Il successivo 16 giugno 1995, sempre innanzi ai pubblici ministeri Neri e Pace e alla presenza del colonnello Martini e del maresciallo Scimone, Carlo Giglio rese ulteriori dichiarazioni (questa volta presso la sede di Roma del Corpo forestale dello Stato). In sostanza, secondo quanto affermato dal Giglio, sarebbero state violate numerose norme penali (ma non sono specificate né le norme violate né le modalità attraverso le quali sarebbero state violate). Le ultime dichiarazioni rese da Carlo Giglio agli inquirenti, presso la procura della Repubblica di Reggio Calabria, risalgono al 5 dicembre 1995. In quella occasione il teste, in sostanza, evidenziò che:

- da quando aveva iniziato a collaborare con l’autorità giudiziaria, lui e i suoi familiari avevano vissuto strani episodi riconducibili a velate intimidazioni (così come era accaduto nel corso di precedenti indagini riguardanti l’Enea);

- Giorgio Comerio aveva avuto rapporti con l’Enea: “Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l’Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (…) Addirittura nella strategia dell’ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell’Ente. Il Comerio infatti ha offerto all’ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”;

- anche l’Italia aveva disperso in mare le scorie radioattive: “è noto che anche l’Italia ha disperso in mare scorie radioattive quindi l’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando”;

- l’Enea sarebbe stata infiltrata dalla massoneria: “proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici”. Sui fatti riguardanti il centro Enea di Rotondella la Commissione ha audito il dottor Pace. Lo stesso era stato, peraltro, già ascoltato sia dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta dall’On. Russo (in data 10 marzo 2005) sia dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (quest’ultima audizione è segretata). Secondo quanto dichiarato nel corso dell’audizione del 10 marzo 2005:

- nel centro Enea di Rotondella era stata riscontrata una situazione di grave pericolo, in quanto giacevano rifiuti radioattivi liquidi ad alta attività all’interno di contenitori che, già all’epoca, avevano esaurito il tempo massimo previsto dal progetto;

- una delle principali anomalie dell’Enea era relativa alla mancanza di controlli esterni. La conservazione di materiali pericolosi all’interno di contenitori inidonei era una regola avallata, attraverso proroghe continue, da parte di due ingegneri i quali, dopo un incidente verificatosi il 14 aprile del 1994, furono costretti a redigere un documento di estremo allarme in merito alla situazione della centrale (documento che il dottor Pace inviò al Presidente della Repubblica dell’epoca);

- nel prosieguo delle indagini il dottor Pace aveva acquisito documenti da cui risultava che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene; aveva, poi, accertato che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno (tale ultima circostanza è stata riferita alla Commissione anche dalla dottoressa Genovese, nel corso dell’audizione del 21 ottobre 2009, allorquando ha dichiarato che nel corso delle indagini era emerso da fonti dichiarative che tecnici iracheni e pachistani “andavano e venivano” dall’Enea);

- il dottor Pace cercò di individuare i cosiddetti siroi(cavità, risalenti al IV secolo a.C., scavate nella roccia) che da un manuale dell’Enea risultavano impiegati per il deposito di scorie radioattive. Si rivolse per questo sia al prof. Quilici dell’Università di Bologna – il quale però gli disse che i siroi non erano più localizzabili -, sia ad un professore rumeno, tale Amasteadu, che aveva condotto studi archeologici in Basilicata. Anche quest’ultimo professore disse di non potere localizzare i siroi; aggiunse, però, che era stato pubblicato un testo, ormai introvabile, contenente le mappe dei siroi, testo che lui stesso aveva posseduto in passato, ma che gli era stato trafugato dopo avere ricevuto una strana visita da parte di non meglio identificati cittadini iracheni che gli avevano fatto numerose domande. Nel corso dell’audizione resa avanti a questa Commissione, avvenuta in data 20 gennaio 2010, il dottor Pace ha, sostanzialmente, confermato le dichiarazioni precedentemente rese, aggiungendo ulteriori particolari. Alla domanda posta dal Presidente, on. Gaetano Pecorella: “vorrei sapere se al centro Enea giungessero anche materiali radioattivi esterni, cioè provenienti da altri paesi o da altre fonti di produzione. Vorrei chiederle inoltre se il sistema di controllo dell’entrata e dell’uscita di questi materiali fosse in grado di garantire almeno che ciò che usciva fosse verificato, cioè risultasse in modo documentale. Uno dei punti sostenuti da Fonti, che stiamo verificando, è che questo materiale radioattivo provenisse dall’Enea di Rotondella attraverso camion che uscivano durante la notte. Vorremmo quindi capire se la situazione contabile potesse offrire una qualche garanzia di ciò che entrava e di ciò che usciva”, il dottor Pace ha risposto di avere attentamente valutato la contabilità dell’Enea, che presentava delle anomalie, ma non tali da indurre a ritenere che camion di materiali potessero uscire in modo incontrollato. E, tuttavia, secondo il confronto tra i dati di contabilità e il magazzino nucleare mancava il plutonio: “la contabilità risultava inveritiera soltanto per quanto riguarda il plutonio, fatto di non poco conto, tanto che su questo tema c’è stata una notevole dialettica con i massimi esponenti dell’Enea”. Con riferimento, invece, alla contabilità concernente i materiali esterni (quelli provenienti dagli ospedali e che dovevano avere la caratterizzazione, il registro di carico e scarico) tutta la documentazione dei rifiuti trasportati avrebbe dovuto essere custodita in un armadio, che invece fu trovato vuoto. Sul coordinamento investigativo tra la procura di Reggio Calabria e quella di Matera ha riferito alla Commissione anche il maresciallo Moschitta, in data 11 maggio 2010: “ (..) l’attenzione cadde sull’Enea nel momento in cui il dottor Pace di Matera ci telefonò e ci chiese se stavamo indagando sui materiali radioattivi. Alla nostra risposta affermativa, ci propose di lavorare insieme, dal momento che lui aveva una centrale – così disse – che stava esplodendo. Ci disse che era solo, che non aveva le strutture e che quindi aveva paura a procedere nell’attività. Invece, unendosi a noi e lavorando sullo stesso terreno, avremmo potuto raggiungere qualche risultato. A seguito di questa collaborazione, il dottor Pace ci disse che Matera viveva una situazione molto pericolosa, perché nella centrale nucleare della città, dentro una piscina, vi erano 64 barre di uranio, acquistate prima della moratoria dalle centrali Elk River degli Stati Uniti. La piscina era stata realizzata nel 1960, quando ancora la normativa antisismica non esisteva. Matera è una zona sismica. Quindi, ci mostrò la gravità della situazione e ci chiese come avremmo potuto prenderla in mano. Ci disse che il personale dell’Enea gli faceva muro davanti, che avrebbe voluto fare degli accertamenti e proseguire le operazioni, che lo invitavano a fare delle verifiche personalmente, ma che lui non sapeva dove andare a controllare. La situazione era incresciosa, se pensiamo – queste sono le parole che sono state pronunciate allora – che il problema di Chernobyl è nato da mezza barra di uranio e che a Matera ve ne erano 64. Apprese queste notizie, acquisita da Giglio l’informazione che dalla centrale di Saluggia non erano stati vetrificati i liquidi radioattivi e tante altre notizie che già erano a conoscenza del dottor Pace, si rese necessario fare una relazione al capo del Governo dell’epoca. Vi si recò il dottor Cordova personalmente”. In sostanza, le indagini avviate a Reggio Calabria sugli interramenti di rifiuti in Aspromonte si estesero rapidamente ai traffici di rifiuti radioattivi e agli smaltimenti illeciti degli stessi effettuati in mare o destinati verso paesi esteri. Inevitabile fu, quindi, il coordinamento investigativo con la procura di Matera che già indagava in merito a presunte irregolarità concernenti il centro di ricerche Enea Trisaia di Rotondella.

1.4 – L’inserimento nelle indagini del Corpo forestale dello Stato di Brescia. Giorgio Comerio e il progetto O.D.M.

I procuratori Neri e Pace, dunque, unirono le loro risorse e conoscenze investigative per proseguire le indagini. Queste, peraltro, ebbero una svolta decisiva in conseguenza del contributo fornito dai militari appartenenti al Corpo forestale dello Stato di Brescia, coordinati dal colonnello Rino Martini, il quale si rivelò da subito un elemento chiave, sia per la sua specifica competenza nella materia del traffico illecito di rifiuti radioattivi, sia per le indagini che da tempo stava svolgendo sull’argomento. Nella primavera del 1995 gli accertamenti svolti dal Comando di Brescia avevano, infatti, consentito di acquisire notizie di estrema rilevanza in relazione ad un imponente traffico di rifiuti radioattivi destinati ad essere smaltiti in mare. In particolare, con nota informativa del 3 aprile 1995 (doc. 277/2), il colonnello Rino Martini informò il dottor Neri circa l’esistenza di una holding, denominata O.D.M. (Oceanic Disposal Management inc.), che si occupava dell’inabissamento in mare di rifiuti radioattivi. A capo dell’organizzazione vi era tale Manfred Convalexius, titolare della Convalexius trading con sede a Vienna (personaggio definito nella nota come conosciuto in Austria ed in altri Paesi nord-europei per il traffico di rifiuti e di rottami ferrosi), mentre il referente italiano era un certo Giorgio Comerio, nato il 3 febbraio 1945 a Busto Arsizio (VA), titolare della Comerio industry ltd., con sede legale a La Valletta(Malta). La scoperta della società O.D.M. era scaturita dal controllo – effettuato il 23.5.94 dal Corpo forestale dello Stato di Brescia – nei confronti di tale Ripamonti Elio alla frontiera di Chiasso, all’esito del quale erano stati sequestrati una serie di documenti che il Ripamonti portava con sé, riguardanti il progetto della O.D.M. di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi (cosiddetto progetto DODOS), corredato dalle relazioni tecniche e da documentazione dalla quale si ricavava che il progetto interessava nazioni come l’Italia, l’Austria, la Cecoslovacchia, la Germania e la Lettonia (doc. 362/3 allegato). In realtà risulta che, già nell’anno 1993, Ripamonti era stato controllato al confine dalla Guardia di finanza di Vigevano e trovato in possesso di documentazione relativa a traffici illeciti riguardanti lo smaltimento di rifiuti radioattivi. L’analisi dei documenti (in particolare di una proposta di contratto trasmessa via fax dall’abitazione di Garlasco di Giorgio Comerio) portò a ritenere che quest’ultimo, con la O.D.M., avesse proposto lo smaltimento di rifiuti radioattivi tramite i cosiddetti penetratori, da effettuarsi in paesi baltici, come l’ex Urss. Da ciò era scaturita una perquisizione, ordinata dalla procura della Repubblica di Lecco, che aveva aperto un procedimento nei confronti del Ripamonti e di Comerio (doc. 1180/1 e 1180/2). DODOS è l’acronimo di Deep Ocean Data Operative. Si trattava di un progetto studiato ad Ispra sul lago Maggiore, presso il centro di ricerca della Comunità europea, al quale avevano lavorato soggetti appartenenti a diversi Stati compreso Giorgio Comerio nella sua qualità di ingegnere e di responsabile di una società che originariamente avrebbe dovuto partecipare al progetto. Il progetto riguardava le modalità di smaltimento dei rifiuti radioattivi attraverso il loro inabissamento in mare. In sostanza, i rifiuti radioattivi avrebbero dovuto essere inseriti in contenitori di acciaio e carbonio chiamati cannister, a loro volta inseriti in un cilindro di 25 metri a forma di siluro (cosiddetto penetratore). Infine, il siluro avrebbe dovuto essere buttato in mare su un fondale marino adeguato, alla profondità di qualche migliaio di metri, piantandosi in tal modo nel fondale stesso. Il progetto non fu, però, portato avanti in ragione della opposizione manifestata da taluni Paesi che avevano aderito a trattati internazionali che vietavano lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi. Dalla documentazione sequestrata al Ripamonti emerse che questi avrebbe dovuto individuare clienti svizzeri per lo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi per il tramite dell’avvocato Forni di Lugano. Emerse, altresì, che un primo ordine da parte di qualche governo estero era stato già emesso (verosimilmente l’Austria per il tramite del Convalexius). Ripamonti Elio venne sentito dal dottor Neri e dal colonnello Martini in data 11 maggio 1995 (doc. 277/12). In tale occasione confermò le circostanze emerse dalla documentazione sequestratagli, precisando:

- di essere stato incaricato da Giorgio Comerio di portare la documentazione relativa al progetto DODOS all’Avv. Forni di Lugano per siglare un contratto in esclusiva conla Svizzera;

- che nel caso fosse stato concluso il contratto, sarebbe stata versata la somma di 200.000 franchi svizzeri su un conto corrente intestato a Giunta Giuliana (legata sentimentalmente a Comerio);

- che i rifiuti radioattivi svizzeri avrebbero dovuto essere depositati su fondali marini del nord Europa;

- che il Comerio gli aveva confidato di avere conoscenze all’interno dell’Enea e che si era riservato l’esclusiva per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi italiani;

- che il progetto di smaltimento in mare adottato dal Comerio (penetratori) era stato elaborato anche dall’Enea in collaborazione con altri Stati esteri.

Sempre le indagini svolte dal Corpo forestale dello Stato di Brescia, riportate nell’informativa del 3 aprile 1995 (doc. 277/2), permisero di individuare un’altra figura di rilievo, tale Renato Pent, rappresentate della società Jelly Wax con sede in Opera, definito nell’informativa come un personaggio noto nell’ambiente degli smaltitori per avere organizzato nel 1986-1987 le navi dei veleni insieme allo svizzero Ambrosini. Tali affermazioni, successivamente, non sono state supportate da elementi concreti di riscontro. Come risulta dalla successiva annotazione dell’8 maggio 1995del Corpo forestale dello Stato di Brescia (doc. 277/3), da una fonte confidenziale si apprese che:

- Giorgio Comerio aveva il domicilio in Malta;

- manteneva, in ogni caso, un ufficio della Comerio Industry ltd. in via Colonna 9 a Milano;

- la sede legale della Comerio Industry ltd.. era a La Valletta (Malta);

- il porto di Reggio Calabria era il luogo di transito per l’imbarco di containers di materiale radioattivo diretto a Malta e negli stati del Medio Oriente. Si ipotizzò, pertanto, che il domicilio in Malta potesse servire al Comerio per seguire direttamente i suoi affari attinenti al traffico di rifiuti nonché per evitare controlli quali quello subìto precedentemente (in data 1993) ad opera della Guardia di finanza di Vigevano (PV) su delega della procura di Lecco (nell’ambito del procedimento penale n. 6356/93). Venne precisato, infine, nell’annotazione che Giorgio Comerio intratteneva rapporti commerciali con la Nucleco (Enea-Agip Nucelare) di Roma per la gestione e/o smaltimento di rifiuti radioattivi. Particolarmente importante è apparsa alla Commissione l’annotazione – redatta dal colonnello Rino Martini, dal brigadiere Gianni De Podesta’ e dal brigadiere Claudio Tassi – del 13 maggio 1995, trasmessa al procuratore F. Neri, nella quale vennero riportate le dichiarazioni rese da una fonte confidenziale di sesso maschile chiamata “Pinocchio”. Tali dichiarazioni riguardavano vari personaggi coinvolti nel traffico di rifiuti pericolosi nonché l’affondamento di una nave carica di rifiuti (doc. 118/7 e 277/5).

In sintesi, la fonte dichiarò agli investigatori che:

1) tale Noè, funzionario Enea a La Spezia, aveva la supervisione (non ufficiale) all’interno dell’Enea delle boe elettroniche per la segnalazione, localizzazione e guida sottomarina spaziale e navigazione in superficie. Si trattava, pertanto, di un soggetto che conosceva perfettamente i fondali antistanti la rada di La Spezia, figurando per tale motivo quale possibile uomo chiave per la criminalità organizzata. In sostanza, veniva indicato come un personaggio che aveva la possibilità di far entrare e uscire dal porto imbarcazioni di media grandezza, eludendo i controlli;

2) era a conoscenza di un caso specifico di affondamento di nave con carico di materiale radioattivo. Testualmente: “La nave affondata a Capo Spartivento, luogo della regione Calabria-provincia di Reggio Calabria, di una portata di tonnellate 4-6000 caricata con materiale nucleare (uranio additivato), altri rifiuti e carico vario, prima di giungere in Calabria, dove viene affondata volontariamente per riscuotere il premio assicurativo e nel contempo gettare a mare ogni sorta di rifiuti, ha come luogo di provenienza la Grecia, successivamente tocca altri porti in Albania e nel nord Africa e poi entra definitivamente nel mar Ionio. Qui viene affondata al largo di capo Spartivento su un fondale di circa 400 metri. Tale punto d’affondamento viene scelto per condizioni climatiche che, quasi sempre avverse, non permetterebbero un futuro recupero”;

3) altri personaggi erano legati al traffico di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi nel tratto La Spezia/Napoli/Reggio Calabria e oltremare, quali Duvia Orazio, Di Francia Giorgio, Conte Angelo, Mastropasqua Domenico, Bini Renzo, Monducci Eros e Messina Ignazio, quest’ultimo titolare dell’omonima compagnia di navigazione. Indicava, poi, tale Motta Giancarlo (amministratore della Sistemi Ambientali) descritto come una persona a conoscenza (per interesse diretto) dei vari passaggi di materiale di scarto nucleare (possibile uranio) avvenuti via mare fra il Nord Africa, i paesi meridionali balcanici e le coste Ioniche, passaggi che sarebbero avvenuti tramite una compagnia di navigazione il cui titolare era Ignazio Messina di La Spezia. Sin d’ora si deve precisare che gli spunti investigativi forniti dalla fonte confidenziale non sono stati supportati da elementi di prova. Dunque, il panorama investigativo, originariamente circoscritto a verificare se in Calabria fossero state costituite abusive discariche di rifiuti radioattivi o pericolosi (all’interno delle caverne naturali presenti in Aspromonte), si estese notevolmente, profilandosi l’ipotesi che l’occultamento illecito di rifiuti radioattivi venisse attuato anche mediante l’affondamento in mare degli stessi, attraverso organizzazioni di respiro internazionale che agivano anche sulla base di contatti con organi istituzionali e in accordo con gli stessi.

1.5 – La perquisizione presso l’abitazione di Giorgio Comerio e le indagini conseguenti. Giovandosi delle attività investigative avviate dal colonnello Martini sul traffico illecito di rifiuti radioattivi, le indagini dei magistrati di Matera e Reggio Calabria si incentrarono su Giorgio Comerio. Venne, pertanto, emesso un decreto di perquisizione della sua abitazione sita in Garlasco e dei luoghi nella disponibilità dello stesso. I documenti acquisiti all’esito della perquisizione fornirono agli investigatori dell’epoca uno spaccato decisamente inquietante in merito all’attività svolta dal Comerio, a suoi interessi nello smaltimento dei rifiuti radioattivi, alle connessioni tra il traffico di armi e il traffico di rifiuti. All’esito della perquisizione, eseguita il 12 e il 13 maggio 1995dalla sezione polizia giudiziaria CC procura circondariale di Reggio Calabria, dal reparto operativo CC Reggio Calabria, dal reparto operativo CC Matera e dal Corpo forestale dello Stato-settore di polizia regionale di Brescia, venne sequestrata una mole imponente di documentazione che permise agli inquirenti di far luce sull’esistenza di progetti finalizzati allo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi. Secondo quanto riferito dal dottor Neri al suo procuratore, con la nota sopra citata, l’importanza della documentazione sequestrata “consentiva di incaricare le forze di polizia giudiziaria impegnate nell’indagine di avvalersi dell’ausilio del Sismi che peraltro ha fornito ben 277 documenti sul Comerio a conferma della pericolosità di detto soggetto e a riprova della bontà della ipotesi investigativa seguita” (doc. 362/3 allegato). Sempre nella medesima nota a firma del dottor Neri si legge che nell’abitazione di Comerio furono trovati: “Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (…) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi. Si accertava così che soci nell’affare erano tale Paleologo Mastrogiovanni (presunto principe dell’Impero di Bisanzio) e tale Dino Viccica, uomo ricchissimo che avrebbe dovuto finanziare l’operazione “Sierra Leone” (…) Al riguardo il Console Onorario della Sierra Leone sentito in merito ha confermato che il Comerio ha concluso l’affare con i governanti di detti Stati corrompendo un ministro. (…)” (doc. 362/3 allegato). E’ proprio in questa fase che emerge chiaramente la partecipazione del capitano De Grazia alle indagini, avendo lo stesso contribuito ad analizzare i documenti con riferimento a tutti gli aspetti di sua specifica competenza nonchè a redigere l’informativa sugli esiti della perquisizione e sulle attività investigative conseguenti. Gli elementi raccolti sulla base della documentazione sequestrata e della successiva attività di indagine, infatti, vennero riportati nell’informativa del 25 maggio 1995 n. 399/41 di prot. (a cura del capitano di fregata Natale De Grazia e del maresciallo Moschitta) trasmessa alla procura di Reggio Calabria (doc. 118/5). Vennero deferiti all’autorità giudiziaria procedente ed iscritti nel registro indagati, per i reati previsti dal decreto del presidente della Repubblica n. 185 del 1964, dal decreto del presidente della Repubblica n. 915 del 1982, oltre che per il reato di ricettazione:

- Giorgio Comerio

- la compagna Giuliana Giunta

- il socio Gabriele Molaschi

- altri personaggi, quali Gerardo Viccica (aliasDino), Pietro Pagliariccio (alias Giampiero), Jack Mazreku, Giuseppe Barattini, Mastrogiovanni Paleologo e Ezio Piero Toppino.

I principali elementi evidenziati nell’informativa in questione e posti all’attenzione dei magistrati inquirenti furono:

- all’interno dell’abitazione di Comerio, sita in Garlasco, era stata rivenuta documentazione attinente al progettoDODOS (Deep Ocean Data Operating System) che prevedeva il lancio sui fondali marini, attraverso i cosiddetti penetratori, di scorie radioattive, progetto in parte già realizzato in zone africane e del nord Europa in violazione della Convenzione di Londra;

- erano stati, poi, sequestrati un progetto relativo alla costruzione ed alla vendita di telemine, strumento bellico subacqueo, nonché documenti dai quali emergevano contatti con paesi arabi e indiani e transazioni bancarie in dollari su banche svizzere che rendevano concretamente ipotizzabile l’avvenuta vendita delle telemine;

- da alcuni disegni di navi sequestrati era evidente che il Comerio avesse intenzione di modificare una nave Ro-Ro per la costruzione delle telemine. I disegni si riferivano alla Jolly Rosso (spiaggiatasi il 14 dicembre 1990 ad Amantea) ed alla nave Acrux, poi denominata Queen Sea (all’epoca sotto sequestro presso il porto di Ravenna);

- erano stati sequestrati, inoltre, atti relativi a navi aventi scarso valore commerciale e in degrado strutturale, sulle quali erano stati abbozzati preventivi di spesa per la riparazione e per la documentazione di cambio di bandiera;

- tutta la documentazione sequestrata a Comerio portava a ritenere che lo stesso si occupasse dell’acquisto delle navi per il loro successivo utilizzo a fini illeciti;

- conseguentemente, era stato effettuato un accertamento presso i Lloyds di Londra – sede di Genova – ed erano state acquisite le copie dei sinistri marittimi intervenuti dall’anno 1987 al 1993, al fine di verificare quelli di natura eventualmente dolosa avvenuti nelle acque territoriali calabresi;

- da tale attività era emerso che ben 23 navi erano affondate nel mare antistante le coste calabresi;

- le risultanze delle indagini trasmesse dal Corpo forestale dello Stato di Brescia relative al possibile affondamento di una nave a capo Spartivento trovavano un primo riscontro nella documentazione acquisita, dalla quale risultava l’affondamento della nave da carico Rigel di bandiera Maltese, inabissatasi il 21 settembre 1987, a20 miglia Sud-Est da capo Spartivento. La citata nave proveniva da Marina di Carrara ed era diretta a Limassol e, prima della partenza, risultava avere avuto problemi giudiziari per il carico a bordo;

- i punti di affondamento delle navi Anni ed Euroriver, entrambe battenti bandiera maltese, trovavano riscontro con i punti di dispersione delle scorie pericolose previste dal progetto O.D.M. di Comerio, nella parte indicata dal punto C. Aree Nazionali Italiane, sequestrato nel corso della perquisizione;

- era stato accertato che la Capitaneria di porto di Vibo Valentia aveva richiesto ai locali Vigili del Fuoco accertamenti radiometrici sulla motonave Jolly Rosso e sulla spiaggia circostante;

- il comandante Bellantone, della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, aveva riferito di avere richiesto lui stesso gli accertamenti in quanto a bordo della nave erano stati reperiti sia documenti con strani cenni a materiale radioattivo, sia documenti che lo stesso non aveva saputo interpretare (gli erano sembrati un “piano di battaglia navale”) e che poi riconosceva nei progetti O.D.M. sequestrati presso l’abitazione di Comerio. Il comandante, in quell’occasione, aveva fornito copia del verbale di consegna della citata documentazione al comandante della Rosso nonché copia dell’istanza con la quale il capitano Bert M. Kleywegt – in rappresentanza della società olandese Smit Tak – aveva chiesto l’autorizzazione al recupero della nave;

- il Comerio, per la realizzazione dei suoi programmi, aveva creato una serie di società quali: Oceanic Disposal Management Inc. (O.D.M.); Acquavision s.r.l.;Comerio Industry Ltd.; Georadar Ltd.; Mei ltd Ltd., tutte società strumentali alla realizzazione di telemine, di boe di rilevamento nonché al reperimento e alla modifica di navi destinate ad utilizzi illeciti. Nell’informativa citata vennero riportate le dichiarazioni rese, rispettivamente l’11 e il 12 maggio 1995, da Maria Luigia Nitti (legata sentimentalmente a Giorgio Comerio dal 1986 al 1993) e da Renato Pent: La prima dichiarò: “ho sentito parlare il Comerio di un altro suo progetto ossia quello di creare dei depositi marini di rifiuti radioattivi e ricordo che voleva coinvolgermi in questo suo affare e per ovvi motivi io non accettai avendo avuto perdite in altre società. Preciso che il Comerio ha diverse società sparse in varie citta’ del mondo e ricordo in particolare la Mei ltd (Marine Electronic Industryes) che operava nella costruzione di boe di rilevamento marino o boe di segnalazione. Detta società dovrebbe avere sede in Inghilterra. (…) io sapevo che il suo progetto O.D.M. era ufficiale tant’e’ che aveva accordi con diversi governi anche dell’est tra cui sicuramente quello russo. Preciso che non erano accordi conclusi ma di trattative avviate. La mia collaborazione secondo la richiesta fattami dal Comerio doveva consistere nella elaborazione al computer di dati relativi al trasferimento dei materiali nella struttura da immergere in mare. Difatti le operazioni prevedevano l’inabissamento di materiali radioattivi di varia provenienza mediante l’impiego di un natante. Preciso che nel 1993 il Comerio mi chiari’ che il progetto Euratom prevedeva l’affondamento in mare di contenitori con scorie radioattive e che la O.D.M. era una sua società. Ricordo di avere sentito il nome di tale Convalexius Manfred anche se non l’ho mai conosciuto. (…) Le uniche volte che sentii parlare il Comerio di materiale nucleare o radioattivo, riguardava il progetto O.D.M.. Ne parlava in termini tali da far intendere che l’operazione doveva essere fatta in maniera legale, tant’è che nell’affare era coinvolto anche l’avv. Gaspari-Vaccari. Tale progetto di deposito del materiale radioattivo nelle profondità marine faceva seguito ad attività di ricerca fatte presso il centro Euratom di Ispra, attività nella quale aveva preso parte anche Comerio richiesto dal centro di fornire un apporto esterno con la costruzione della BOA di rilevamento”. La Nitti riferì, inoltre, che Comerio le aveva confidato di far parte dei servizi segreti (“il Comerio mi esterno’ di appartenere ai servizi segreti tant’e’ che era ossessionato dall’idea di avere i telefoni sotto controllo al punto che effettuava le sue telefonate da cabine telefoniche. A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo il Comerio si assento’ dicendo che era stato convocato per collaborare nelle indagini….preciso che si trattava di attentati dinamitardi primavera del 1993. Mi pare si trattasse del’attentato all’accademia dei Georgofili di Firenze.”). Renato Pent, confermando quanto dichiarato dalla Nitti, affermò (doc. 277/17):

- di avere conosciuto Giorgio Comerio il quale nel 1989/1990 gli aveva proposto di entrare in affari con lui nell’ambito di un progetto finalizzato allo smaltimento in mare di sostanze radioattive (si tratta del noto progetto elaborato presso il centro Euratom di Ispra). La collaborazione richiestagli da Comerio riguardava la messa a disposizione da parte sua di automezzi idonei per la fase relativa al prelievo del materiale presso il produttore e al successivo trasporto su imbarcazioni del tipo RO-RO, che avrebbero poi operato nella fase di affondamento del siluro (l’impiego di imbarcazioni del tipo RO-RO si spiegava con l’esigenza di permettere agli automezzi di entrare direttamente nella stiva evitando la fase di trasbordo e la pubblicità che ne sarebbe derivata col rendere l’operazione visibile agli estranei);

- di avere visto il filmato relativo alla sperimentazione della fase di lancio in mare;

- di avere appreso da Comerio che il progetto non era ancora operativo, ma che avrebbe potuto partire non appena avesse ricevuto l’acconto da parte di un committente;

- Comerio non gli aveva mai parlato del mare Mediterraneo, ma del mare prospiciente uno dei paesi dell’Unione sovietica, sul quale avrebbe iniziato ad operare non appena avesse avuto tutte le autorizzazioni governative;

- che l’operazione che il Comerio diceva di essere pronto ad effettuare era relativa al Mar Baltico e sarebbe stata portata avanti in società con Convalexius;

- di essersi recato a Vienna unitamente a Comerio e di aver incontrato, per il tramite di Convalexius, alcuni ministri austriaci, ai quali venne esposto il progetto di Comerio. Comerio aveva preso contatti anche con il governo svizzero. Entrambi i paesi, pur essendo interessati all’operazione subordinarono la loro adesione alla preliminare adesione di altri paesi;

- che, verso la fine del 1994, Comerio gli aveva riferito che un primo ordine era stato effettuato, ma non gli disse da parte di quale paese;

- di non conoscere le navi che Comerio aveva acquistato per effettuare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi;

- che Comerio aveva dei referenti molto importanti presso il centro Enea, e ciò lo desumeva dalla gran massa di materiale progettuale non solo cartaceo, ma anche magnetico proveniente dall’Enea o comunque da strutture con le quali aveva collaborato l’Enea. Secondo quanto riferito dal dottor Neri al procuratore capo Scuderi, con la nota più volte citata (doc. 362/3 allegato), Comerio, subito dopo la perquisizione, trasmise alla procura una lettera con la quale, dichiarandosi disponibile per ogni chiarimento, riferiva che:

a) non erano stati acquisiti elementi utili alle indagini;

b) i progetti e i documenti sequestrati erano proposte di carattere commerciale;

c) non era stato concluso alcun contratto;

d) si era sempre impegnato per conto della giustizia nel settore ambientale;

e) quale consulente navale nell’ambito della difesa aveva sempre lavorato per società estere e solo “per la promozione di attività fra governo e governo”.

Qualche tempo dopo, precisamente in data 12 luglio 1995, Giorgio Comerio si presentò spontaneamente in procura. In quella occasione ebbe a dichiarare:

- quanto al progetto O.D.M., che si trattava di un progetto legale che aveva propagandato presso vari governi per lo smaltimento di rifiuti radioattivi;

- quanto alla Jolly Rosso, che le carte rinvenute presso la sua abitazione e relative alla nave si giustificavano con pregresse trattative finalizzate all’acquisto che lui aveva cercato di concludere per conto del governo iraniano;

- di avere conosciuto Convalexius perché gli era stato presentato da Renato Pent;

- di avere conosciuto Marino Ganzerla che aveva acquistato, attraverso la società Soleana, quote della società O.D.M., e di non avere avuto con lui proficui rapporti di lavoro, in quanto Ganzerla riteneva che i penetratori dovessero essere realizzati in cemento. Alla perquisizione dell’abitazione di Giorgio Comerio seguì quella a casa di Molaschi Gabriele, conclusasi positivamente con il sequestro di copiosa documentazione che venne attentamente esaminata dalla polizia giudiziaria procedente. L’esame portò a ritenere che il Molaschi, così come il Comerio, fosse coinvolto in un complesso traffico internazionale di armi nonché in attività di smaltimento dei rifiuti radioattivi. Ritennero gli investigatori che Molaschi avesse contatti con personaggi di alto livello politico all’estero e riuscisse a a muovere ingenti flussi di danaro per il continuo rifinanziamento delle sue attività illecite. Così si legge nell’informativa del 9 giugno 1995, a firma del maresciallo Moschitta e del carabiniere Francaviglia (doc. 681/15). Si riportano di seguito alcuni stralci tratti dalla predetta informativa, utili a comprendere in quante e, soprattutto, in quali delicate direzioni stesse volgendo l’indagine nata dalla denuncia di Legambiente: “con riferimento al progetto O.D.M., vale a dire il programma di smaltimento dei rifiuti radioattivi, emerge dalla documentazione del Molaschi che uno dei siti e’ stato localizzato in una zona africana per come risulta da un fax che Giorgio Comerio trasmette a Giannantonio Gaspari-Vaccari e allo stessoMolaschi, in data 30.12.1994, dal seguente tenore (testuale): “AUGURI DI BUON 1995 – SITO LOCALIZZATO – FIRMA ACCORDI DAL 5 AL 10 GENNAIO A S. BIAGIO (Comune di Garlasco, n.d.r.) RATIFICA FRA IL 15 ED IL 20 GENNAIO IN AFRICA (DATE PREVISTE E CONFERMABILI ENTRO IL5.01.1995) CONTRATTI CON CLIENTI NEGOZIABILI DA 1 FEBBRAIO SALUTI ” segue firma. La stessa documentazione consente di appurare che la O.D.M. e’ in fase di trattative, collocabili agli inizi del 1994, con l’Ucraina, e precisamente con 4 suoi ministri, in quanto quest’ultimo paese e’ alla ricerca disperata di smaltire un ingente quantitativo di rifiuti radioattivi. Nel contesto O.D.M. non vanno dimenticate le vicende delle navi utilizzate come veicoli per l’inabissamento dei rifiuti radioattivi in mare e anche il Molaschi sembra essere coinvolto (…) presso la sua abitazione questo Comando ha rinvenuto fotocopia della documentazione della motonave “Jolly Rosso” (…) La “Jolly Rosso” è così importante anche per MOLASCHI che di essa se ne trova traccia anche nella sua agenda del 1992 e precisamente nel giorno indicante il 31 marzo. Il nominativo di detta nave era accomunato a quello della “ZANUBIA” e “CAREN B” ed a fianco ad ognuno di essi, rispettivamente, vi era indicata una società’: per la”Jolly Rosso”, Acqua; per la “Zanubia”, Castalia e per la “Caren B”, Eco-Servizi. (…) Ma, per ritornare al Molaschi, le sue “carte” aprono, o confermano, altri scenari interessanti quali, per esempio, i depositi abusivi in Italia di rifiuti radioattivi, di cui vi sono in corso altre indagini della procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Matera, collegate con le presenti. Il documento, che in sostanza è un appunto manoscritto datato24.04.1994, fa riferimento alla società’ Nucleco, costituita dall’Agip e dall’Enea per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, che avrebbe del materiale accumulato in magazzino. Evidentemente si riferisce al fatto che detta società ha problemi di smaltimento di rifiuti radioattivi e ciò interessa l’organizzazione del Comerio.

Tale assunto trova conferma in uno scambio epistolare tra la Nucleco e la O.D.M., una delle quali datata 20.12.1993, con la quale la Nucleco, in risposta ad un fax del 23.08.1993 della O.D.M., trasmette i propri depliants illustrativi sul tipo di attività che svolge. Appare evidente che alla O.D.M. serviva (alla data odierna non si è a conoscenza dell’esito dei contatti) la struttura tecnica della Nucleco per coinvolgerla nello smaltimento a mare dei rifiuti radioattivi (…)”.

Deve tenersi presente che già nel 1985 l’Enea aveva pubblicato un opuscolo nel quale (alle pagine 8 e 9) si rappresentava la possibilità di smaltimento di rifiuti radioattivi nei siti marini. Con nota del 4 novembre 1995 il comandante del nucleo oeprativo dei CC, A. Greco, trasmise tale opuscolo ai magistrati titolari delle indagini (dottor Neri e dottor Pace) evidenziando che il metodo di inabissamento dei rifiuti illustrato era identico a quello previsto dal noto progetto O.D.M. di Comerio (doc. 681/31). Nel corso delle indagini venne sentito un altro socio di Giorgio Comerio, Marino Ganzerla; anche Ganzerla si presentò spontaneamente, in data 14 luglio 1995, a seguito della perquisizione che aveva subito il giorno precedente (doc. 277/13). Ganzerla dichiarò in quella occasione:

- di avere acquistato, quale procuratore della società Soleana autorità giudiziaria di Vaduz, per la somma di lire 20 milioni, il 3% di azioni della O.D.M. (società di Comerio), nonché’ il 50% della società NTM (società di trasporto di rifiuti radioattivi) con sede in Ticino (Svizzera) al prezzo di 29.000 dollari consegnati a Comerio in Lugano;

- che Comerio gli aveva parlato del suo progetto di effettuare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi in mare attraverso i penetratori, ma lui si era subito reso conto dell’inattuabilità del progetto sia perché non sarebbero riusciti a trovare siti idonei, sia perché i penetratori in acciaio-cemento non sarebbero stati mai omologati perché non erano idonei a resistere per migliaia di anni in fondo al mare;

- che Comerio non gli aveva mai comunicato punti di affondamento dei penetratori nel Mediterraneo;

- che con la società O.D.M. non erano mai stati effettuati smaltimenti di rifiuti radioattivi con i penetratori;

- “per quanto riguarda l’affondamento delle navi devo dire che circa 10 anni fa venni a conoscenza di progetti di affondamenti di navi cariche di rifiuti chimici, il cosiddetto sistema delle navi “a perdere,” truffando così anche le assicurazioni. Se ricordo bene il porto più sospetto era quello di La Spezia. E ricordo che anche che si diceva che le coste dello Ionio erano preferite non solo perché gestite dalla ‘ndrangheta ma anche perché i marinai una volta arrivati a terra con le scialuppe affidavano detti mezzi di salvataggio a soggetti del luogo e provvedevano ad affondarle o comunque ad occultarle in maniera definitiva per far sparire ogni traccia dell’affondamento ed evitare così l’indagine giudiziaria. Mi risulta anche che dette navi facevano capo ad armatori del Pireo. Nessuna rilevanza hanno le bandiere perché possono essere cambiate con facilità. Aggiungo che i marinai potevano essere recuperati anche da altre navi amiche che transitavano appositamente vicino al punto di affondamento e trasportavano gli stessi in paesi esteri anche perché trattavasi di marinai stranieri, anche se a volte il comandante o il direttore di macchine erano italiani o comunque gente fidata degli spedizionieri. Ciò mi fu riferito se ben ricordo da un greco nel corso di una cena avvenuta circa 10 anni fa a Genova. Era preferito lo Ionio perché molto profondo. Mi risulta che il Comerio trattava compravendita di navi”. E’ evidente che le testimonianze acquisite in quella fase e i documenti sequestrati dagli investigatori fossero estremamente preziosi al fine di ricostruire, al di là di quanto riferito dalle fonti confidenziali, la figura e l’attività di Giorgio Comerio nonché di verificare l’esistenza e – soprattutto – la concreta attuazione dei progetti di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi. La Commissione, nell’ambito degli approfondimenti svolti nel corso della missione effettuata a Bologna nel febbraio 2010, ha audito Renato Pent e Marino Ganzerla. Il Pent ha, innanzi tutto, dichiarato di essere amministratore della Jelly Wax, che produce paraffine, con sede in Opera, società attiva già nel 1987. Parte dei rifiuti prodotti nell’ambito dell’attività venivano smaltiti attraverso l’esportazione degli stessi a mezzo di navi. In particolare, ha riferito in merito all’esportazione di rifiuti avvenuta a mezzo della nave Links (citata dall’ex collaboratore Francesco Fonti in un memoriale pubblicato sul settimanale l’Espresso nel mese di giugno 2005), nonchè della trattativa con il Governo venezuelano per la realizzazione di una discarica di rifiuti industriali in Venezuela (per il dettaglio si rimanda al resoconto stenografico relativo all’audizione del 17 febbraio 2010). Riguardo al tema dell’affondamento di navi e di rifiuti, il Pent ha dichiarato: “Conosco Comerio, ma non mi risulta che abbia partecipato. Delle navi affondate ho appreso dai giornali (…). Mi chiedo perché sia necessario affondare una nave con i rifiuti. (…)”. Il Pent ha proseguito parlando dei rapporti intrattenuti con l’armatore della motonave Zanoobia. Alla domanda circa il luogo ove fossero stati depositati i rifiuti della Zanoobia, il Pent ha risposto che: “I rifiuti sono stati sbarcati a Genova, dove la nave era stata portata da Marina di Carrara, e smaltiti dalla Castalia (…) Come sono stati smaltiti non mi è dato di sapere.(…)”. Con riferimento alle vicende che hanno interessato le motonavi Links e Zanoobia, il Pent ha fatto riferimento al procedimento penale avviato dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Massa Carrara, conclusosi in primo grado con sentenza di condanna, acquisita in copia dalla Commissione. I fatti oggetto del processo attengono all’estorsione denunciata da Renato Pent ed imputata, tra gli altri, all’armatore della motonave Zanoobia. A prescindere dalla specifica fattispecie estorsiva, peraltro riconosciuta esistente, la sentenza è importante perché ricostruisce le vicende originate dall’invio in Venezuela di 2.000 tonnellate di rifiuti industriali caricati sulla motonave Links (doc. 289/2). Se ne riportano i passaggi fondamentali: “La Jelly Wax s.p.a. di cui Pent Renato era il legale rappresentante, aveva stipulato in data 21/1/87 con la società Ambrosini e con la Intercontract un contratto di smaltimento di 2.000 tonnellate di residui industriali. I rifiuti erano stati caricati sulla nave Lynx nel porto di Marina di Carrara e dovevano essere trasportati a Gibuti ma, a causa di un inadempimento contrattuale da parte della Ambrosini, non vi erano mai arrivati.La Jelly Wax, preso atto dell’inadempimento (per il quale aveva sporto querela per truffa), aveva stipulato in data 18/3/87 un nuovo contratto di smaltimento con la società Mercanti Lemport in esecuzione del quale i rifiuti erano stati sbarcati in Venezuela. Tuttavia, dopo circa sei mesi, a seguito di una campagna di stampa contraria allo smaltimento di quei rifiuti in Venezuela, la Jelly Wax era stata di fatto costretta a riprendersi i rifiuti ed a provvedere in altro modo al loro smaltimento. Il carico di rifiuti era stato allora imbarcato sulla nave Makiri, che aveva fatto rotta verso il Mediterraneo. (…) la nave si era diretta a Tartous (Siria). In quella località, aveva tentato di sbarcare e smaltire il carico di rifiuti, ma non essendo riuscita l’operazione, i rifiuti erano stati imbarcati sulla nave Zanoobia, al comando dell’imputato Tabalo Ahmed. La Zanoobia si era quindi diretta in un primo momento a Salonicco, dove però non era riuscita a scaricare il carico di rifiuti, e successivamente aveva fatto rotta verso l’Italia, concludendo il suo viaggio a Marina di Carrara. (…) è emerso che, a seguito delle pressioni del governo venezuelano, (…) la Jelly Wax (…) aveva stipulato con la ditta Samin un (secondo) contratto di presa in consegna ed assunzione di proprietà dei rifiuti. L’accordo era stato concluso in data 10/11/87 tra la Jelly Wax e Tabalo Mohfimed (…) proprietario della Makiri e della Zanoobia. (…) Successivamente, dopo circa due mesi, l’imputato Tabalo Mohamed ed il suo legale avv. Rizzuto avevano comunicato alla Jelly Wax che, per ordine del governo siriano, la merce era stata caricata sulla nave Zanoobia e doveva essere trasportata fuori dal territorio siriano perché era stato accertato che il carico era radioattivo. Pertanto, il Tabalo ed il Rizzuto avevano chiesto al Pent (…) il pagamento di una somma di 2-300mila dollari per lo smaltimento dei rifiuti, facendo presente che, in caso di mancata accettazione della proposta, avrebbero rimesso forzatamente a disposizione della Jelly il carico di rifiuti riportandolo a Marina di Carrara, con le prevedibili ricadute a danno dell’immagine della Jelly Wax (…). Quest’ultima non aveva accettato e perciò la Zanoobia, guidata dal comandante Tabalo Ahmed (fratello di Tabalo Mohamcd), aveva riportato il carico di rifiuti a Marina di Carrara”. Sono stati riportati i passaggi della sentenza, depositata il 20 giugno 2003, in quanto le indagini effettuate dalla procura circondariale di Reggio Calabria avevano riguardato anche le vicende della nave Zanoobia e, più in generale, l’attività svolta dalla Jelly Wax nonché i rapporti intercorrenti tra Renato Pent e Giorgio Comerio. La Commissione, sempre in data 17 febbraio 2010, ha audito Marino Ganzerla, il quale ha di fatto negato quanto affermato innanzi al pubblico ministero Neri con riferimento al fenomeno delle navi a perdere. In riferimento a Comerio, Ganzerla ha ammesso di avere acquisito una partecipazione nella società O.D.M.. Ha, tuttavia, negato di aver acquistato, per conto della Soleana (società che a suo dire non avrebbe mai operato), il 50 per cento della NTM, società di trasporto dei rifiuti radioattivi con sede in Svizzera, nel Ticino, versando al Comerio 29.000 dollari USA. (Tale ultima circostanza, peraltro, era stata dallo stesso Ganzerla riferita al dottor Neri, come risulta dal verbale di spontanee dichiarazioni del 14 luglio 1995, acquisito in copia dalla Commissione – cfr. doc. 277/13). Con specifico riferimento alla possibilità di smaltire rifiuti radioattivi tramite penetratori, il Ganzerla ha precisato di avere sempre nutrito dubbi sulla legittimità dell’operazione e di essersi rivolto ad un esperto di diritto internazionale per capire se i rifiuti radioattivi potessero essere scaricati sotto il fondo marino. L’esperto gli comunicò che, in base alla normativa del tempo si sarebbe potuto fare, ma che la normativa stessa, di lì a poco sarebbe cambiata, rendendo illegittime le operazioni in parola. Conseguentemente, a cavallo tra il 1995 e il 1996, Ganzerla contattò Comerio per comunicargli di non voler più proseguire l’affare. Ha aggiunto alla Commissione: “Da quanto so, la società non ha mai operato. Non so se sia andato avanti per conto suo. Non ha mai fatto niente. Io ho rinunciato a tutto, non gli ho fatto causa per truffa, mi sono tenuto la perdita e non l’ho più visto”. Con riferimento all’affondamento di navi finalizzato allo smaltimento di rifiuti, Ganzerla ha dichiarato di averne sentito parlare solo perché qualcuno (il cui nome non è stato rivelato) venne a proporgli un affare su questo tipo di attività.

La Commissione ha tuttavia contestato al Ganzerla di aver reso al dottor Neri dichiarazioni parzialmente diverse. Allorquando poi la Commissione ha chiesto al Ganzerla il nominativo del personaggio greco dal quale avrebbe avuto notizia dell’affondamento doloso di navi cariche di rifiuti tossici nel mediterraneo, il Ganzerla non ha saputo o voluto fornire elementi utili alla sua identificazione. In generale, può affermarsi che, nel corso dell’audizione, il Ganzerla si è limitato a rendere informazioni alquanto generiche e comunque già in possesso della Commissione, ripetendo, in risposta alle insistenti domande dei commissari, di non ricordare. Dunque le indagini svolte all’epoca dalla procura di Reggio Calabria, proprio sulla base degli elementi acquisiti nel corso della perquisizione a carico di Giorgio Comerio, si incentrarono su tale figura e sui personaggi che gravitavano intorno a lui.

1.6 – Gli affondamenti sospetti di navi nel Mediterraneo. Gli approfondimenti investigativi svolti dal capitano Natale De Grazia. L’interesse investigativo si concentrò via via sempre più sugli affondamenti sospetti di navi avvenuti nel mare Mediterraneo, avendo preso concretamente piede l’ipotesi che navi cariche di rifiuti radioattivi, o comunque pericolosi, venissero inabissate dolosamente in modo tale da potere ricavare il duplice vantaggio rappresentato, da un lato, dall’indebito risarcimento ottenuto dalla compagnia assicurativa, dall’altro, dal guadagno derivante dall’attività di illecito smaltimento. Come si è già sottolineato, all’interno del gruppo investigativo creato dal sostituto procuratore dottor Neri, un ruolo fondamentale ebbe il capitano di fregata Natale De Grazia, il quale, a detta di tutti quelli che lavorarono con lui, profuse in questa indagine un impegno straordinario. Il 30 maggio 1995 il capitano trasmise al magistrato un appunto, riassuntivo degli elementi fino a quel momento acquisiti. Se ne riporta il testo (doc. 681/32):

“Appunto per il dottor F. Neri del 30 maggio 1995: A riepilogo dell’attività investigativa svolta, relativamente allo smaltimento di rifiuti tossico nocivi e/o radioattivi in mare, si riferisce che da informazioni confidenziali acquisite dal coordinamento regionale di Brescia del Corpo forestale dello Stato, si è avuta notizia che era stata affondata al largo di capo Spartivento una nave carica di materiale nucleare (uranio additivato). Successivamente durante la perquisizione effettuata presso il signor Giorgio Comerio si è acquisita documentazione relativa al progetto O.D.M che prevedeva l’affondamento di rifiuti radioattivi nel sottofondo marino con penetratori lanciati da navi. Nella documentazione sequestrata, inoltre, vi erano dei progetti relativi a siluri a lenta corsa denominati “telemine”. Tra gli altri documenti rinvenuti in casa del Comerio vi erano anche degli appunti/ progetti preventivi relativi a navi che dovevano essere attrezzate per la realizzazione e il trasporto delle citate telemine, nonché per l’affondamento dei penetratori del progetto O.D.M.; inoltre vi erano alcuni appunti con documentazione tecnica fotografica relativi a navi generalmente vecchie ed in disuso. Tra questi vi erano gli appunti per l’acquisto del mototraghetto Guglielmo Mazzola, della motonave SAIS, del f/b Transcontainer I , della motonave Acrux e della motonave Jolly Rosso. Gli appunti in questione contenevano anche dei progetti di modifica di una nave RO-RO per la costruzione degli ordigni, riferiti in particolare alle navi Jolly Rosso e Acrux ora denominata Queen Sea I. Gli atti sequestrati ed informazioni di polizia giudiziaria hanno fatto nascere il sospetto che il Comerio avesse individuato le navi in questione per l’acquisto ed il successivo utilizzo per attività illecite quali la costruzione e posa delle telemine nonché il traffico e l’affondamento con a bordo rifiuti radioattivi. Onde effettuare riscontro dei sospetti e delle informazioni confidenziali si è acquisita copia dei registri Lloyd’s relativi agli incidenti accorsi alle navi in genere, nelle varie parti del mondo. La documentazione è stata acquisita presso l’ufficio Lloyd’s Register di Genova. Da un esame di detti registri si ha avuto riscontro in prima analisi dell’affondamento di una nave a venti miglia a Sud-Est da capo Spartivento il 21 settembre1997. Il sinistro non risulta dai registri delle Autorità Marittime e le caratteristiche della nave e la tipologia dell’evento davano una prima conferma delle informazioni confidenziali. La nave affondata, denominata “Rigel”, di bandiera Maltese è andata perduta durante il viaggio da Marina di Carrara a Limassol e l’equipaggio fu tratto in salvo da una nave Jugoslava denominata “Kral” che sbarcò i naufraghi in un porto della Tunisia. Da ulteriori informazioni si accertava che la procura della Repubblica di La Spezia aveva in corso un procedimento a carico di numerosi imputati per l’affondamento doloso della nave, per truffa all’assicurazione. Per gli imputati di quel processo è stato richiesto dal tribunale di La Spezia il rinvio a giudizio con ordinanza in data 20 novembre 1992. Dagli atti dell’ordinanza stessa emerge che non si ha conoscenza dei carico effettivo della motonave “Rigel” tanto che viene richiesto il rinvio a giudizio della funzionaria doganale di Marina di Carrara per aver ricevuto una somma di danaro affinché omettesse di controllare il carico destinato alla nave. La situazione poco chiara circa la tipologia del carico è inoltre confermata da una richiesta di compenso all’assicurazione esosa rispetto al valore della merce dichiarata dai caricatori. La tesi accusatoria e gli accertamenti successivi dell’autorità giudiziaria. di La Speziafanno perno su una telefonata tra il signor Gino ed il signor Vito Fuiano, ambedue imputati, nel corso della quale veniva annunciata la mattina del 21 settembre 1987 la nascita di un bambino, poi chiarito come allusione all’affondamento della nave. Nelle agende del Giorgio Comerio sequestrate presso i propri uffici il giorno 21 settembre 1987 si rileva un’annotazione in lingua inglese relativa alla “perdita della nave” come indicato nell’informativa del 25 maggio 1995; si è proceduto ad estrarre dai registri Lloyd’s'citati in precedenza numero 23 navi che nei vari anni sono affondate nel Mediterraneo e delle quali per la maggior parte non si ha certezza degli eventi. Di questi potrebbero ritenersi dubbiosi, oltre alla Rigel i seguenti affondamenti:

-M/N “ASO” affondata il 16.05.1979 al largo di Locri carica con 900 Tonn. di solfato ammonico e da considerarsi un affondamento a rischio per il tipo di carico e per le circostanze poco chiare emerse nell’inchiesta sommaria;

- M/N “MIKIGAN” affondata il 31 ottobre 1986 nel Tirreno in posizione 38:35′ N / 15° 42′ E con un carico di granulato di marmo era partita dal porto di Marina di Massa lo stesso porto di origine della “Rigel” dove i controlli sul carico potrebbero essere stati non effettuati;

- M/NA ‘FOUR STAR I” di bandiera Sry Lanka con carico generale affondata il 9 dicembre1988 in, un punto non noto dello Jonio Meridionale durante il viaggio da Barcellona ad Antolya (Turchia). Da una ricostruzione stimata del punto di affondamento la nave in questione potrebbe essere affondata al ‘largo di capo Spartivento, nei pressi del punto di affondamento della”Rigel”.La nave potrebbe essere ritenuta sospetta in quanto non risultano chiamate di soccorso alle Autorità Marittime né denunce di Sinistro nonostante questo sia avvenuto nella ZEE italiana. La tecnica quindi potrebbe collegarsi a quella della nave ‘”Rigel”, più volte citata, che non emesse nessuna richiesta sulle frequenze di soccorso;

- M/N Anni di bandiera Maltese affondata il 01 agosto1989 in alto Adriatico;

- M/N Euroriver di bandiera Maltese affondata anch’essa in Adriatico il 12 novembre 1991. Queste due navi. di bandiera Maltese sono affondale in due punti dell’Adriatico che nel progetto O.D.M. reperito tra i documenti di Comerio sono indicati quali punti previsti nel programma di dispersione delle scorie nelle aree nazionali italiane e degli affondamenti si ha notizia dai registri Lloyd’s;

- M/N “ROSSO” di bandiera Italiana arenatasi a capo Suvero di Vibo Valentia il 14 dicembre 1990 durante il viaggio da Malta a La Spezia. In merito al sinistro occorso a questa motonave si è riferito ‘nell’informativa del 25 maggio 1995 dove appunto si faceva rilevare la richiesta di misurazione della radioattività fatta eseguire dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina per il ritrovamento di documenti che come riferito dal Comandate di quell’Ufficio Marittimo sarebbero i progetti O.D.M.. Inoltre dell’unità in questione furono trovati presso il Comerio i progetti di trasformazione per la costruzione delle ‘telemine”. Circa le navi affondate elencate nell’informativa inizialmente citata sospetti sul carico sono basati sulla bandiera delle navi, quasi sempre di comodo e dal fatto che non si é a conoscenza degli sviluppi del sinistro. Si fa riserva di comunicare tutte le ulteriori informazioni necessarie qualora scaturissero ulteriori elementi dalle indagini in corso. Reggio Calabria, li 30 maggio 1995 capitano De Grazia”. Gli elementi riassunti nell’appunto del capitano De Grazia spinsero gli investigatori a concentrarsi sull’ipotesi investigativa relativa all’affondamento doloso di navi partendo dall’individuazione di tutti gli affondamenti che parevano “sospetti” o per le circostanze dell’affondamento o per la natura del carico. Il gruppo di lavoro si dedicò, innanzitutto, all’affondamento della motonave Rigel, avvenuto il 21 settembre 1987 di fronte a capo Spartivento, nonchè allo spiaggiamento della motonave Rosso, avvenuto di fronte alle coste di Amantea il 14 dicembre 1990. Altri accertamenti furono delegati in ordine ad altri sospetti affondamenti, come si evince dalla delega, del 17 luglio 1995, emessa dal sostituto procuratore F. Neri ed indirizzata al capitano De Grazia ed al maresciallo Moschitta, i quali avrebbero dovuto accertare:

“a) i motivi del trasporto del materiale radioattivo da parte della nave Acrux e quindi acquisire in copia tutta la documentazione utile alle indagini;

b) richiedere alla Capitaneria di porto di Genova quali siano le navi che normalmente caricano o scaricano materiale tossico nocivo o radioattivo dalle banchine del Ponte Libia di Genova;

c) accertare in La Spezia presso gli uffici competenti quali merci pericolosi siano transitate (tossico nocive o radiattive) dalle banchine della Cont Ship italia;

d) vorranno contattare le forze di polizia giudiziaria di La Spezia che possano fornire elementi utili di indagine sul procedimento in corso. dato in Brescia 13.07.95”. Gli approfondimenti relativi alla Rigel e alla Rosso verranno di seguito trattati in paragrafi separati in quanto, in riferimento a ciascuna delle due vicende, gli investigatori svolsero attività consistite nel ricostruire – partendo dagli atti di indagine già svolti dalla procura di La Spezia e dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia – tutte le circostanze relative all’affondamento, al carico delle navi, alla formazione dell’equipaggio. Le due vicende, apparentemente separate, avevano in realtà dei punti di connessione che furono individuati proprio nel corso delle indagini.

1.7 – L’affondamento della motonave Rigel: l’indagine della procura della Repubblica presso il tribunale di La Spezia e le successive attività investigative della procura di Reggio Calabria. La motonave Rigel, di proprietà della Mayfair Shipping Company Limited di Malta, affondò, secondo la versione ufficiale, a 20 miglia al largo di capo Spartivento – promontorio situato nel Comune di Brancaleone (RC) – in acque internazionali, il 21 settembre 1987, dopo essere partita dal porto di Marina di Carrara il 2 settembre 1987, diretta a Limassol, Cipro. Secondo le indagini svolte dalla procura della Repubblica di La Spezia nell’ambito del procedimento penale n. 814/1986RGNR, la Rigel fu affondata dolosamente. I responsabili, rinviati a giudizio il 20 novembre 1992 per aver cagionato il naufragio della nave al fine di truffare la società di assicurazioni, furono condannati con sentenza confermata nei successivi gradi di giudizio. Appare opportuno ripercorre i passaggi fondamentali della sentenza-ordinanza del 20 novembre 1992 in quanto furono poi ripresi dal procuratore Neri e dal capitano De Grazia al fine di approfondire il tema concernente il carico della nave e l’eventuale utilizzo della stessa per lo smaltimento illecito di rifiuti radioattivi, aspetto questo non affrontato nell’inchiesta di La Spezia. Secondo quanto si legge nel provvedimento giudiziario citato, l’accordo per l’affondamento della nave intervenne tra Luigi Divano (titolare della Trade Centre s.r.l.), Vito Bellacosa (di professione agente marittimo, titolare dell’agenzia marittima “Spediamar” corrente in la Spezia), Fuiano Gennaro (di professione funzionario doganale), Cappa Giuseppe e Figliè Carlo, quest’ultimo titolare di un’agenzia marittima in Marina di Carrara (quali organizzatori in Italia e ricercatori delle persone da indurre ad effettuare un fittizio trasporto di merce destinata all’affondamento), Khoury e Papanicolau (il primo quale fittizio acquirente della merce caricata sulla Rigel, e il secondo quale fornitore del mezzo da far naufragare), il capitano Vassiliadis come esecutore materiale nonché capitano della Rigel. Nel corso dell’indagine erano state intercettate le utenze in uso a Gennaro Fuiano, funzionario di dogana già sospeso, e a Luigi Divano, intermediatore di affari di Rapallo. Particolarmente interessante per gli investigatori calabresi si rivelò la conversazione telefonica del 24 marzo 1987 tra Gennaro Fujano e Vito Bellacosa (il quale si trovava a Limassol, Cipro, presso la sede della società di Khoury) nella quale si parlava di un carico da spedire “colà”, con un “carico buono e meno buono” (definito testualmente “merda” da Bellacosa). Poiché in quel periodo i soggetti erano impegnati nell’organizzazione della truffa assicurativa, il riferimento al carico della nave apparve di sicuro interesse investigativo, tenuto conto del fatto che il carico “buono” non poteva essere inteso come la parte del carico da far arrivare a destinazione (atteso che tutta la nave era destinata ad affondare). Dunque, gli investigatori interpretarono le espressioni utilizzate come riferite ai rifiuti, in parte definiti buoni (cioè non pericolosi) e in parte non buoni (quindi tossici). L’altra conversazione di interesse fu quella del 21 settembre 1987, sempre tra Gennaro Fujano e Vito Bellacosa, nella quale venne pronunciata l’espressione: “il bambino è nato”, con ciò indicandosi, secondo l’ipotesi investigativa, con una metafora, il buon esito della operazione di affondamento, che infatti avvenne proprio in quella data. Gli atti del processo di La Spezia offrirono agli investigatori coordinati dal dottor Neri elementi di conferma di estrema importanza alle ipotesi investigative formulate, spingendoli ad approfondire sempre di più l’aspetto che invece non era stato oggetto delle indagini dell’autorità giudiziaria di La Spezia, ossia quello della natura del carico della nave.

Nel processo di La Spezia, infatti, venne definitivamente accertata la natura dolosa dell’affondamento della Rigel e la truffa ai danni dell’assicurazione. Gli imputati vennero giudicati in relazione ai reati di associazione a delinquere, truffa ai danni della società assicurativa, corruzione ed altri reati connessi e finalizzati a conseguire il premio assicurativo, ma nulla venne accertato in merito all’effettivo carico della nave. In sostanza, nel processo di La Spezia non venne neppure ipotizzato che la nave Rigel fosse stata caricata con rifiuti tossici e pericolosi: ed, infatti, nessun elemento era emerso in questo senso né dalle testimonianze né dai documenti, appositamente falsificati per far risultare un carico diverso da quello effettivo. Gli atti del procedimento furono, pertanto, riesaminati dal capitano De Grazia, al fine verificare quale fosse il carico della motonave affondata, sospettandosi che unitamente alla stessa fossero stati inabissati rifiuti radioattivi. Indicazioni precise in questo senso erano state fornite dalla fonte confidenziale denominata “Pinocchio” (di cui all’informativa citata del 13 maggio 1995 del Corpo forestale dello Stato, doc. 118/7), che aveva fatto riferimento ad una nave affondata in Calabria, a largo di capo Spartivento, a venti miglia circa dalla costa, nave che – secondo gli investigatori – poteva appunto identificarsi con la Rigel (cfr. par. 1.4). Due importanti elementi di riscontro, considerati unitariamente, convinsero gli investigatori a ritenere più che fondate le dichiarazioni della fonte confidenziale anzidetta e li spinsero a ricercare ulteriori prove. Posto che la motonave Rigel era affondata il 21 settembre 1987 a largo di capo Spartivento, come accertato dal processo di La Spezia, il primo elemento di riscontro fu ricavato dall’annotazione “lost the ship” rinvenuta sull’agenda sequestrata a Giorgio Comerio proprio sulla pagina corrispondente alla data 21 settembre 1987. Il secondo elemento proveniva direttamente dalle informazioni acquisite dal capitano De Grazia presso i registri Lloyds di Londra, che coprono il 90% della situazione mondiale di tutte le navi affondate, e presso l’IMO, secondo cui l’unica nave affondata il 21 settembre 1987 era la motonave Rigel. Dunque, secondo gli investigatori, l’annotazione di Comerio non poteva che riferirsi alla Rigel e, tenuto conto della documentazione trovata in possesso del Comerio attinente al progetto Dodos e alla società O.D.M., era legittimo ritenere che l’interesse del Comerio alle sorti della Rigel potesse essere legato al carico di rifiuti tossici. Gli investigatori cercarono – tra gli atti del processo di La Spezia – altri elementi utili a rafforzare il quadro che velocemente si andava delineando. Da subito si comprese che fondamentale era il ritrovamento della nave e del suo carico. In particolare, il capitano De Grazia si concentrò in tale direzione, cercando di individuare il punto esatto di affondamento della motonave Rigel. Significative in merito sono alcune informative che il capitano De Grazia trasmise al sostituto dottor Francesco Neri nel mese di giugno 1995, riportate di seguito, nelle quali vengono riassunti gli elementi fino a quel momento acquisiti, evidenziandosi che (cfr. inf. del 16, del 22 e del 26 giugno 1995 – doc. 681/32, 681/18, 681/21):

- la procura della Repubblica di La Spezia aveva accertato l’affondamento doloso della Rigel, finalizzato a truffare la compagnia assicuratrice;

- nell’ambito del procedimento di La Spezia era emerso che due degli indagati – in una telefonata del 21 settembre 1987 – avevano fatto riferimento alla nascita di un bambino, poi chiarita dagli stessi come allusione all’affondamento della nave;

- Giorgio Comerio aveva annotato sulla sua agenda l’evento dell’affondamento, scrivendo alla data del 21 settembre 1987: “lost the ship”;

- una copia dei progetti O.D.M. di Giorgio Comerio era stata trovata sulla plancia della motonave Jolly Rosso, spiaggiatasi ad Amantea il 14 dicembre 1990, dal comandante della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Bellantone;

- per individuare il relitto della nave al largo di capo Spartivento, stante la disponibilità dei mezzi offerta dal Comando generale delle Capitanerie di porto, occorreva individuare la tipologia del mezzo nautico da impiegare, quindi, acquisire notizie tecniche circa le apparecchiature e le modalità d’impiego di sonar per l’individuazione dei relitti, nonché di strumenti idonei alla misurazione della radioattività;

- per tale attività si chiedeva all’autorità giudiziaria l’autorizzazione a recarsi a Roma per prendere contatti diretti con l’ingegner Bertone del centro ricerche nucleari di Roma e con il reparto pperazioni del comando generale delle Capitanerie di porto per la pianificazione delle attività da porre in essere. Conclusivamente, con riferimento alla Rigel, le attività del capitano De Grazia si concentrarono essenzialmente nell’esame della documentazione sequestrata a Comerio, nell’individuazione di elementi di collegamento con l’affondamento della Rigel e nella ricerca del punto esatto di affondamento della motonave, condizione questa indispensabile per avviare proficue attività di ricerca del relitto. Sebbene fosse stato ritenuto necessario procedere ad una nuova escussione dei soggetti coinvolti nell’inchiesta di La Spezia, con particolare riferimento alla natura del carico e alle relative operazioni, tuttavia, il capitano De Grazia non ebbe la possibilità di parteciparvi personalmente in quanto deceduto prima che venissero svolte queste attività.

Successivamente, fu il maresciallo Scimone ad effettuare le attività predette, di cui si renderà conto nel prosieguo della relazione. Va detto, fin da subito, che – secondo la testimonianza del magistrato Nicola Maria Pace – il capitano De Grazia sarebbe riuscito ad individuare le coordinate relative al punto di affondamento, tanto che insistette, proprio la mattina della sua partenza per La Spezia, per portarvi lo stesso magistrato. Si riporta il passo dell’audizione del dottor Pace, avvenuta avanti alla Commissione in data 12 gennaio 2010: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale. Avevo sentito De Grazia alle 10,30 di quella mattina, mi aveva detto che con una delega di Neri si sarebbe recato prima a Massa Marittima e poi a la Spezia, mi avrebbe aspettato a Reggio Calabria per portarmi con una nave sul punto esatto in cui è affondata la Rigel. Alle 10,30 del 13 dicembre, giorno in cui è morto, ricevetti questa sua telefonata in ufficio, ma non sono in grado di fornire elementi obiettivi”.

1.8 – Lo spiaggiamento della Jolly Rosso e Giorgio Comerio. Gli approfondimenti svolti dal capitano De Grazia. Particolare attenzione suscitò la vicenda della motonave Rosso, della compagnia di Ignazio Messina. Tale nave naufragò al largo di capo Suvero, in Calabria, in data 14 dicembre 1990 (con immediato abbandono della stessa da parte di tutto l’equipaggio), per arenarsi sulla costa di Amantea (CS) nella stessa giornata (doc. 695/1). Sullo spiaggiamento, inzialmente, non venne avviata alcuna indagine di carattere penale, ma solo un’indagine amministrativa da parte della compagnia di assicurazione e un’inchiesta da parte della Capitaneria di porto di Vibo Valentia di cui si dà atto nel rapporto riassuntivo a firma del comandante Giuseppe Bellantone (doc. 695/19). Nel 1994 la vicenda della Rosso fu oggetto di ulteriore approfondimento nell’ambito dell’indagine condotta da dottor Francesco Neri. Il motivo dell’approfondimento era da collegarsi ad una serie di circostanze sospette, prima fra tutte quella relativa al rinvenimento presso l’abitazione di Comerio, in Garlasco, di documentazione attinente alla motonave Jolly Rosso.

Particolarmente importanti furono le dichiarazioni rese dal comandante Bellantone al capitano De Grazia, assunte da quest’ultimo informalmente, delle quali si dà conto nell’informativa del 30 maggio 1995 (doc. 681/32): “(…) dall’indagine sommarla esperita dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina emerge che il comandante di quella Capitaneria ha richiesto, a seguito dell’incaglio, degli accertamenti radiometrici sulla nave semi sommersa. Data l’inusualità dell’accertamento si è contattato il comandante di quella Capitaneria di porto Bellantoni il quale riferiva di avere lui stesso richiesto detti accertamenti in quanto in alcuni documenti reperiti a bordo della nave vi erano strani cenni a materiale radioattivo. Successivamente, il preddetto comandante riferiva oralmente che sulla nave aveva rinvenuto della documentazione che non aveva saputo interpretare ma che comunque gli sembravano dei piani di “battaglia navale” che poi riconosceva nei progetti O.D.M. sequestrati presso l’abitazione-laboratorio del Comerio.

Il citato Ufficiale in quella occasione forniva copia del verbale di consegna della succitata documentazione al comandante della “Rosso”, nonché copia dell’istanza con la quale il Capitano Bert M. Kleywegt in rappresentanza della società Smit Tak, olandese, aveva chiesto- l’autorizzazione al recupero della suddetta nave. Viene riferito ciò in quanto la ditta, pur avendo operato per circa 30 giorni, non ha effettuato alcuna attività di recupero nonostante abbia operato con dei subaquei, alcuni gommoni e un grosso Tir”. Successivamente il comandante Bellantone fu sentito a sommarie informazioni dai procuratori Scuderi e Neri (in data29 febbraio 1996) ed anche in tale circostanza confermò quanto dichiarato informalmente al capitano De Grazia sulla presenza – a bordo della Rosso – di documenti con strani cenni a materiale radioattivo. Precisò ancora che, all’epoca, il capitano De Grazia gli mostrò un opuscolo con uno stemma triangolare della società O.D.M. uguale a quello dallo stesso notato a bordo della nave (doc. 695/7). Al verbale di sommarie informazioni vi è il documento citato, di cui si riporta il frontespizio: E’ importante sottolineare che il comandante Bellantone è stato successivamente sentito sia dal pubblico ministero di Paola, Francesco Greco, nell’anno 2004, sia dalla Commissione in data 8 marzo 2011. Le dichiarazioni fornite in tale occasioni sono risultate contrastanti tra di loro nonché con quanto precedentemente dichiarato ai magistrati e al capitano De Grazia. In particolare, nel verbale di sit del 15 luglio 2004 (doc. 695/7), il comandante ha dichiarato, quanto ai documenti rinvenuti sulla Rosso, di avere visto su qualche documento uno stemma a forma di triangolo con la scritta O.D.M. nonché di non conoscere all’epoca dello spiaggiamento il significato della scritta O.D.M.. Tuttavia il comandante ha in qualche modo modificato le dichiarazioni già rese ai magistrati di Reggio Calabria affermando: “Non ricordo di aver visto sulla nave una cartografia raffigurante i siti di affondamento di navi che possa raffigurare una battaglia navale. Ricordo però che la stessa mi fu mostrata dal magistrato Neri di Reggio Calabria e o dal suo collaboratore Natale De Grazia.” Nel corso dell’audizione dinnanzi alla Commissione il comandante Bellantone ha oscillato tra smentite, parziali conferme e dichiarazioni di non ricordare, palesando finanche la possibilità che le sue dichiarazioni avanti ai magistrati di Reggio Calabria non fossero state fedelmente riportate. Risulta, quindi, allo stato incerto quello che effettivamente fu rinvenuto a bordo della motonave Rosso, in mancanza di verbali di sequestro redatti in quell’occasione. Non può essere ignorato il fatto che le iniziali dichiarazioni rese dal comandante Bellantone al Capitanto De Grazia, riportate nell’annotazione citata e successivamente confermate ai magistrati di Reggio Calabria, sono quelle rese in epoca più prossima ai fatti e, quindi, da ritenere, secondo criteri di comune esperienza, più attendibili. Come si avrà modo di evidenziare, il capitano De Grazia, pur incaricato di sviluppare questi aspetti, non ebbe la possibilità di portare a termine l’attività per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre.  1.9 – Le verifiche effettuate dal capitano De Grazia in merito agli ulteriori affondamenti sospetti. Come già evidenziato, il capitano De Grazia, in ragione delle sue specifiche competenze, operò una verifica – presso la compagnia di assicurazione Lloyd di Londra – in ordine agli affondamenti sospetti di navi, stilando un elenco che avrebbe dovuto costituire la base di ulteriori approfondimenti. E, pertanto, si può sostenere, senza timore di smentita, che il capitano approfondì proprio l’aspetto attinente all’utilizzo di navi per lo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi sia attraverso il loro affondamento sia, più in generale, attraverso il loro utilizzo per il trasporto verso paesi esteri. Ed è proprio in questo ampio contesto investigativo che va esaminata la vicenda, dai contorni poco chiari, relativa alla motonave Latvia, ormeggiata presso il porto di La Spezia, di cui si ha traccia in due informative del Corpo forestale dello Stato di Brescia indirizzate al procuratore Neri. Dell’esistenza di questa nave si dà conto per la prima volta nell’annotazione di polizia giudiziaria redatta dal Corpo forestale dello Stato di Brescia in data 26 ottobre 1995 (doc. 277/8), nella quale si evidenzia che la nave, venduta ad un prezzo superiore al valore reale, avrebbe potuto essere destinata al trasporto di rifiuti nucleari e/o tossico-nocivi. Si riportano i passi di interesse dell’informativa, redatta previaassunzione di informazioni di cui all’articolo 203 del codice di procedura penale:

“(…) Motonave Latvia. Nell’area portuale di La Spezia è presente la motonave Latvia. adibita al trasporto passeggeri, ex-sovietica, giunta nei cantieri ORAM prima della caduta del blocco orientale. Nave ritenuta come appartenente ai servizi segreti sovietici (KGB) (…). Attualmente è ormeggiata alla diga di La Spezia, è stata messa in vendita (forse dal tribunale) ed acquistata da una società Liberiana con sede in Monrovia, tramite un ufficio legale di La Spezia. Da fonte attendibile risulta che il prezzo pagato è superiore di quello del valore reale, e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come “bagnarola“ per traffici illegali di varia natura, in particolare di rifiuti nucleari e o tossico-nocivi, (esempi pratici sono le cosiddette navi dei veleni) (…)”. Ancora, la Latvia viene menzionata nell’annotazione di polizia giudiziaria redatta, in data 10 novembre 1995, con la quale il brigadiere Gianni De Podestà comunicò alle procure di Reggio Calabria e di Napoli che fonte confidenziale attendibile aveva di recente riferito in merito al coinvolgimento di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossico nocivi interessanti la zona di La Spezia e l’interland napoletano. Nell’annotazione si dava atto che la Latvia, così come già era stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso, avrebbe dovuto essere preparata per salpare nell’arco di 4 giorni con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la rotta La Spezia-Napoli (per un ulteriore carico, come accertato per la Rosso) – Stretto di Messina-Malta – ritorno sulle coste joniche (per affondamento). Dall’annotazione in parola si evince che la fonte confidenziale cui si fa riferimento è la stessa di cui all’informativa del 13 maggio 1995 richiamata espressamente, e dunque la fonte denominata “Pinocchio”. Si riporta parte del testo dell’annotazione del 10 novembre 1995 (doc. 681/32): “Fonte confidenziale attendibile ha qui riferito, in epoca recente, del traffico di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi che interessano in particolar modo la zona di La Spezia e l’interland napoletano e quindi il coinvoglimerito di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate. Nella prima annotazione di p.g. redatta in data 13.5.95 in questo ufficio, l’informatore riferiva di personaggi legati al traffico La Spezia~Napoli-Reggio Calabria e oltremare (…). In merito all’annotazione di p.g. prot. 1045 del. 26 ottobre u.s., ove la fonte confidenziale (rimane tale per ragioni disicurezza personale, familiare e per la p.g.. che lavora all’indagine) ha riferito che nell’area portuale di La Spezia vi è presente la motonave Latvia (ex KGB russo) e che tale imbarcazione dovrebbe essere preparata come è stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso e quindi destinata sui fondali marini come quest’ultime. Ancora la Latvia, se vengono rispettati i tempi di allestimento e caricamento della Jolly Rosso (dal 4.12.90all’8.12.1990) nell’arco di 4 giorni, risulterà pronta a salpare daLa Spezia, con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la seguente rotta marittima : — La Spezia >Napoli- (porto) —>Stretto di Messina >Malta >ritorno sulle Coste Joniche (per affondamento). Risulta tappa importante il porto di Napoli, dove al carico di La Spezia dovrebbe essere aggiunto dell’altro (come accertato per la Jolly Rosso poi Rosso) e seguito in via strettamente riservata da persone di fiducia (uomini di fiducia del camorra napoletana legata al Di Francia e alla mafia sici1iana, che ha una ramificazione in La Spezia con un certo Giarusso)”. Dunque, si iniziò ad indagare anche sulla Latvia, per le ragioni che emergono nelle informative appena riportate. In particolare, oggetto di attenzione fu il carico, la provenienza della nave, la sua destinazione nonché le ragioni della lunga permanenza presso il porto di La Spezia. E’ di tutta evidenza l’importanza che gli approfondimenti sulla Latvia avevano nell’ambito dell’inchiesta. Si trattava, infatti, di una nave che era possibile monitorare per così dire “in diretta” e che consentiva, quindi, di superare i vuoti conoscitivi attinenti alle altre navi delle quali si erano perse le tracce. Appare, quindi, del tutto credibile la circostanza emersa nell’ambito dell’inchiesta svolta dalla Commissione, secondo la quale il capitano De Grazia si sarebbe dovuto recare a La Spezia anche per effettuare indagini con riferimento alla predetta nave e per avere un contatto diretto con la fonte confidenziale che aveva già riferito informazioni in merito alla Latvia (cfr. informative appena riportate nonché paragrafo 1.10 nel quale si tratta delle indagini che a La Spezia avrebbe dovuto effettuare il capitano De Grazia). Tale circostanza, invero, non risulta da alcun documento, ma è stata rappresentata alla Commissione da un soggetto il cui nome è rimasto segretato e che – all’epoca dei fatti – aveva collaborato con il Corpo forestale dello Stato di Brescia. (verificare con il Presidente se si può inserire il racconto fatto da questo soggetto in merito alle indagini fatte sulla Latvia, parte tutta segretata). In data 15 dicembre 1995, due giorni dopo il decesso del capitano De Grazia, l’ispettore Tassi trasmise un fax alla procura circondariale di Reggio Calabria nel quale testualmente riferiva (doc. 634/1): “In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all’incirca verso la terza decina del Novembre u.s. per raggiungere il porto di ARIGA (Turchia). La Motonaveè stata acquistata tramite il tribunale di La Spezia, da una Soc. Ciberiana la “DIDO STEEL Corporation S.A.” con sede in Brod Street Monrovia Liberia, Il trasporto è avvenuto o sta avvenendo a traino di un rimorchiatore denominato Kerveros di nazionalità greca. Le pratiche sono state curate da una Agenzia Marittima Spezzina”. Lo stesso ispettore Tassi, nel marzo 1996, trasmise, sempre al sostituto procuratore dottor Neri, sette fotografie della motonave in questione (doc. 681/71): Nell’ambito dell’indagine condotta dal dottor Neri gli approfondimenti relativi alla motonave Latvia furono esclusivamente quelli contenuti nelle due informative dell’ispettore De Podestà, sopra riportate, nonché la comunicazione dell’ispettore Tassi relativa all’avvenuta partenza della nave, collocata temporalmente alla fine di novembre (dopo il decesso del capitano De Grazia). Non può non sottolinearsi la peculiarità della vicenda, tenuto conto dei seguenti dati:

- nel pieno di indagini concernenti l’utilizzo di navi per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici, vi era la possibilità di monitorare una nave, la Latvia, rispetto alla quale vi erano concreti indizi in merito al suo utilizzo per le predette finalità illecite;

- ebbene, nonostante la preziosissima fonte di informazioni, rappresentata dalla motonave in questione, non solo non risultano effettuate verifiche approfondite da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della zona, ma neppure risultano essere stati mai sentiti gli occupanti della nave;

- paradossale è poi che non sia stato predisposto un servizio di osservazione in merito agli spostamenti della nave.

1.10 – Le indagini che il capitano De Grazia avrebbe dovuto compiere a La Spezia. La Commissione ha ritenuto di fondamentale importanza comprendere quale fosse l’oggetto specifico delle indagini che il capitano De Grazia, unitamente al maresciallo Moschitta e al maresciallo Francaviglia, avrebbe dovuto effettuare recandosi a La Spezia dal 12 dicembre 1995. Deve sin d’ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso.

La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell’indagine. Poco chiara è stata anche la vicenda attinente alla valigetta che il capitano De Grazia portava con sé, valigetta che non è stata mai sequestrata, ma solo affidata in custodia al maresciallo Moschitta e restituita, successivamente, al dottor Neri. Il contenuto della valigetta in questione non risulta mai inventariato essendo stata solo riportata genericamente (in un’annotazione di polizia giudiziaria) la presenza al suo interno di documenti attinenti all’indagine di cui al procedimento penale n. 2114/94 RGNR. La Commissione ha acquisito le copie delle sei deleghe di indagine emesse in data 11 dicembre 1995 dai magistrati di Reggio Calabria (sostituto F. Neri e procuratore F. Scuderi). Dall’analisi delle stesse si ricava che la prima era finalizzata all’escussione di Cesare Granchi e all’acquisizione in copia conforme di tutta la documentazione attinente ai rapporti commerciali e societari con Giorgio Comerio, con particolare riferimento a quelli concernenti la realizzazione del progetto O.D.M. (doc. 681/87); la seconda era indirizzata al presidente del tribunale di La Spezia, affinché il capitano di fregata Natale De Grazia e il maresciallo Nicolò M. Moschitta fossero autorizzati a visionare e estrarre copia degli atti del procedimento penale nr. 814/1986 (a carico Fuiano Gennaro + altri – Affondamento M/n Rigel) (doc. 681/87); la terza era indirizzata al procuratore della Repubblica presso il tribunale di La Spezia, affinché il “vice ispettore Claudio Tassi della sezione di polizia giudiziaria del Corpo forestale dello Stato della procura della Repubblica di La Spezia fosse autorizzato a svolgere le indagini delegategli nell’ambito del procedimento penale 2114/94”. (doc. 681/87); con la quarta si chiedeva al vice ispettore Tassi di voler svolgere tutte le indagini già concordate nell’ambito del procedimento penale 2114/94 anche fuori sede (doc. 695/16). Con le ultime due, indirizzate ai procuratori della Repubblica presso la pretura circondariale e presso il tribunale di Salerno, si richiedeva di consegnare al maresciallo Moschitta copia di tutti gli atti relativi agli accertamenti effettuati in merito allo spiaggiamento di un container, avvenuto a Positano nell’aprile del 1994, avente tracce di radioattività (Torio) e riferibile all’affondamento della motonave Marco Polo (doc. 681/87). Dunque, le attività delegate sarebbero dovute consistere in parte nell’esame di atti processuali, in parte nel compimento di attività concordate precedentemente e non esplicitate nelle deleghe. Come già evidenziato, la Commissione ha ritenuto di audire tutti coloro in grado di fornire precisazioni in merito alle indagini da compiersi a La Spezia.

In particolare, sono stati sentiti il maresciallo Moschitta, il carabiniere Francaviglia, il maresciallo Scimone, l’ispettore Tassi e un soggetto del quale non possono essere fornite le generalità per ragioni di segretezza. A fronte dell’importanza della missione, così come rappresentata dai magistrati e dagli stessi ufficiali di polizia giudiziaria, nessuno di essi è stato in grado di specificare in modo puntuale quali fossero effettivamente le attività da svolgere e per quale motivo il capitano De Grazia fosse diretto a La Spezia. Peraltro, a bene esaminare le dichiarazioni, le stesse risultano non solo generiche, ma anche in alcuni punti contraddittorie tra di loro. Formalmente, dalla delega acquisita il capitano De Grazia avrebbe dovuto esaminare gli atti processuali attinenti all’affondamento della motonave Rigel. Stando però le dichiarazioni rese alla Commissione dalle persone sopra indicate, il capitano De Grazia avrebbe dovuto:

- sentire a sommarie informazioni alcuni componenti dell’equipaggio della Rosso;

- effettuare ulteriori approfondimenti in merito agli affondamenti sospetti di navi rilevati dai registri Lloyd’s Adriatico;

- incontrare una fonte confidenziale già utilizzata dall’ispettore Tassi al fine di apprendere notizie in merito alla motonave Latvia, ormeggiata presso il porto di La Spezia.

Anche il pubblico ministero Neri, nel verbale di sommarie informazioni rese al pubblico ministero Russo in data 9 aprile 1997 nell’ambito dell’indagine avviata in ordine al decesso del capitano De Grazia, ha affermato genericamente che “la missione a La Spezia aveva lo scopo di sentire testi presenti sulle navi affondate”. In particolare: ”il capitano era partito per La Spezia e Massa Carrara per sentire testi delle navi oggetto delle indagini. Lui stesso ci spiegò che vi era l’urgenza di fare questi accertamenti per evitare anche inquinamenti probatori e che completata questa fase investigativa fuori sede nel corso delle vacanze di Natale avrebbe avuto tutto il tempo di studiarsi le carte ed arrivare a punti conclusivi dell’indagine. I carabinieri che lo accompagnavano, Moschitta e Francaviglia, lo coadiuvavano in modo assiduo e costante essendo a conoscenza di ogni aspetto della indagine, trattandosi di un nucleo investigativo interforze appositamente da me costituito”. In relazione alla missione a La Spezia, il maresciallo Scimone è stato l’unico a dichiarare che originariamente alla missione avrebbe dovuto partecipare lui e non il capitano De Grazia. Nessun’altro tra gli inquirenti ha, infatti, accennato a tale circostanza. In particolare, nel corso dell’audizione del 18 gennaio 2011, in merito alla suddivisione dei compiti ha dichiarato: “Sul viaggio a La Spezia c’erano due programmi: il mio di acquisire documentazione presso la dogana e quello di Moschitta, che avrebbe dovuto svolgere un’attività che stava seguendo lui e che in questo momento non ricordo di preciso. Doveva sentire forse qualcuno…(…) Se non ricordo male, doveva sentire delle persone in merito a un aspetto della vicenda che stava curando lui come Nucleo operativo. Io mi ero occupato invece della ricostruzione della Jolly Rosso e di un’altra nave, per cui era necessario acquisire queste bolle di carico, tra cui anche quelle della Rigel, come è stato fatto successivamente, perché dopo la morte di De Grazia sono andato a prendere questa documentazione”. Secondo la versione del maresciallo Scimone fu lo stesso De Grazia a chiedere di recarsi a La Spezia al posto del maresciallo Scimone per l’esame della documentazione marittima presso la dogana, in quanto munito di competenze specifiche che avrebbero agevolato l’esecuzione della delega. In realtà, dopo la morte del capitano fu proprio il maresciallo Scimone ad acquisire la documentazione in questione presso la dogana di La Spezia, il che, evidentemente, dimostra che lo stesso disponeva delle competenze adeguate per svolgere questo tipo di attività. Il maresciallo non ha fatto alcun riferimento ad indagini interessanti la motonave Latvia. Partendo proprio da quest’ultimo dato si deve evidenziare come anche il procuratore di Paola, Francesco Greco, nel 2004 abbia cercato di comprendere quale fosse l’oggetto delle indagini che avrebbero dovuto essere compiute in quel periodo a La Spezia, senza riuscirvi compiutamente. In primo luogo va esaminata la posizione dell’ispettore Tassi, appartenente al Corpo forestale dello Stato ed applicato presso la sezione di polizia giudiziaria della procura di La Spezia. Il pubblico ministero Greco aveva convocato l’ispettore Tassi proprio per sapere se avesse portato a compimento la delega sopra indicata e l’oggetto della stessa. Sul punto l’ispettore Tassi ha risposto in primo luogo precisando di avere avuto la delega via fax in data 15 dicembre 1995 (dunque successivamente al decesso del capitano De Grazia) e, in secondo luogo, dichiarando di aver effettuato alcuni accertamenti, poi riassunti nell’annotazione del 29 febbraio 1996 (doc. 695/22). L’annotazione fu prodotta al pubblico ministero Greco in occasione dell’escussione dell’ispettore. Dalla lettura dell’annotazione, si evince che le attività richieste all’ispettore Tassi erano relative all’accertamento di utenze telefoniche riferibili alla compagnia di navigazione Ignazio Messina. Tuttavia nell’annotazione si fa riferimento espresso alla delega della procura di Reggio Calabria nella quale era stati disposti accertamenti in Livorno, Arezzo e Casale Monferrato. Di talchè l’annotazione prodotta al dottor Greco non sembra riconducibile alla delega dell’11 dicembre 1995, bensì ad altra delega contenente richieste di accertamenti specifici relative ad utenze telefoniche da eseguirsi anche nelle città menzionate. Peraltro, lo stesso Tassi, nel verbale di sommarie informazioni reso davanti al pubblico ministero Greco il 24 maggio 2005(doc. 695/22), nel produrre l’annotazione in parola, ha specificato di “ritenere” che quella annotazione contenesse la risposta alla delega dell’11 dicembre 1995, senza esprimersi in termini di certezza. Pare strano, in ogni caso, (laddove la delega dell’11 dicembre si fosse riferita effettivamente ad accertamenti su utenze telefoniche in vista di eventuali operazioni di intercettazione) che le attività siano state compiute in un lasso di tempo così ampio (due mesi e mezzo). L’ispettore Tassi, a differenza di quanto ha voluto far credere nel corso delle audizioni in Commissione, era pienamente coinvolto nelle indagini, tanto che il procuratore Neri aveva richiesto per iscritto l’11 dicembre 1995 al procuratore della Repubblica presso il tribunale di La Spezia che fosse autorizzato a svolgere le indagini delegategli nell’ambito del procedimento penale 2114/94. (doc. 681/87). La richiesta di autorizzazione, come sopra evidenziato, rientra fra le sei deleghe che Neri aveva consegnato al capitano De Grazia, il giorno prima della sua partenza per La Spezia. Ad ulteriore sostegno di quanto esposto, vi è l’altra delega, tra le sei consegnate a De Grazia, indirizzata specificatamente al vice ispettore Tassi nella quale gli si chiedeva espressamente “di voler svolgere tutte le indagini già concordate nell’ambito del procedimento penale 2114/94 anche fuori sede” (doc. 695/16). Il riferimento alle indagini già concordate sul procedimento penale presuppone inequivocabilmente l’esistenza di pregressi rapporti investigativi nonché l’esigenza di non rendere esplicito l’oggetto della delega per ragioni di riservatezza e anche di tutela delle persone che si occupavano delle indagini (cfr. capitolo due). Nel corso dell’inchiesta la Commissione ha verificato che il Corpo forestale dello Stato di Brescia si avvaleva di fonti confidenziali, una delle quali aveva come immediato riferente – secondo quanto dichiarato dagli stessi ufficiali del Corpo forestale dello Stato di Brescia – l’ispettore Tassi. Nel corso delle audizioni in Commissione quest’ultimo ha riferito che le indagini che avrebbero dovuto compiere il capitano De Grazia a La Spezia erano costituite dall’assunzione di informazione di alcuni componenti dell’equipaggio della motonave Rosso, in particolare gli ufficiali Zanello e Zembo, che lo stesso tassi avrebbe dovuto escutere unitamente al capitano. Nessun riferimento è stato fatto dal Tassi alla vicenda della motonave Latvia della quale ha parlato in Commissione una fonte confidenziale affermando: “(…) sulla nave di capo Spartivento il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con Tassi con riferimento ad un’altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell’area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. (…) Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, (…) E’ stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. (…) questa nave era rimasta ormeggiata prima ad un molo prospiciente il comando NATO dell’Alto Tirreno a La Spezia, quindi nell’area del San Bartolomeo proprio sotto la discarica Pitelli ed era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia (…). Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia. Questo era uno dei lavori che abbiamo fatto io e l’ispettore Tassi del Corpo forestale dello Stato”. La nave probabilmente era stata caricata con del mercurio rosso radioattivo e il sospetto era che i rifiuti fossero stati buttati in mare. La nave pare l’abbiano poi demolita ad Ariga. Il Presidente nel corso dell’audizione ha richiesto insistentemente all’audito da chi avesse appreso quelle notizie. L’audito ha risposto che si trattava di “voci” acquisite nell’ambiente dei trasportatori e di tutti coloro che ruotano nel mondo dei rifiuti. si è trattato evidentemente di una risposta evasiva soprattutto alla luce di quanto successivamente riferito dall’audito in merito all’attività che lui personalmente svolse con riferimento alla Latvia. In particolare ha dichiarato di essere salito sulla nave, di averla visionata, di avere pagato per questo un membro dell’equipaggio. Ha poi affermato che il capitano De Grazia avrebbe dovuto visionare la Latvia ma l’incontro non è avvenuto per la prematura morte del capitano De Grazia. Testualmente ha dichiarato: “Questo è un periodo che mi ricordo abbastanza bene in quanto eravamo rimasti piuttosto allibiti sul fatto che il capitano – che era anche uno sportivo da quello che mi veniva detto, perché io non l’ho mai conosciuto il personaggio- fosse morto e la cosa non mi era piaciuta assolutamente. Già questo aveva dato un forte rallentamento a quello che si poteva fare, parlo dei rapporti fra me e Tassi: Poi credo che Tassi abbia avuto dei problemi con Brescia, con la struttura del Corpo forestale dello Stato di Brescia, per questioni loro sulle quali non sono mai andato ad indagare perché non erano fatti che riguardavno me. Io ho continuato a sentire De Podestà (…) ho rivisto Tassi, mi aveva detto lui, questo credo lo possa confermare, che la nave era arrivata ad Ariga in Turchia e addirittura c’era il gruppo sommergibili di La Spezia – due sommergibili della classe costiera che dovevano seguire la nave per un certo percorso per vedere se aveva contatti con l’esterno con mezzi di superficie o se buttasse qualcosa a mare. Tuttavia per un disguido, che non ho mai capito quale fosse stato, non ero io che tenevo i rapporti tra gruppo di sommergibili e tutta la struttura di intercettazione ma era evidentemente il corpo forestale. La nave è praticamente scappata, il rimorchiatore è arrivato ed in sei ore ha agganciato…. Ha ancorato la nave con i cavi, la nave miracolosamente si è raddrizzata dallo sbandamento ed è uscita”. Evidenti sono le discrepanze tra quanto dichiarato da Tassi e quanto riferito invece dalla fonte confidenziale. Deve, infatti, sottolinearsi che la motonave Latvia era effettivamente oggetto di indagini da parte della procura circondariale di Reggio Calabria, tenuto conto delle informative già redatte dagli ufficiali del Corpo forestale dello Stato di Brescia nelle quali si dava conto di una serie di evidenti anomalie che suscitavano l’interesse investigativo sulla motonave. Di sicuro rilievo è che la fonte audita abbia avuto la possibilità, secondo quanto dichiarato, di salire sulla motonave versando denaro a membri dell’equipaggio non meglio identificati. Non è stato chiarito in alcun modo quali soldi fossero stati impiegati per questa operazione e dunque se sia stato utilizzato denaro personale della fonte o denaro messo a disposizione dagli investigatori. Nessun riferimento ad accertamenti riguardanti la motonave Latvia è stato fatto dal maresciallo Moschitta nel corso delle due audizioni del 2010 avanti alla Commissione. Lo stesso, infatti, ha riferito: “Stavamo andando a La Spezia ad acquisire la documentazione in merito alla Rigel, la nave affondata a capo Spartivento. Tale documentazione era di interesse perché il processo di La Spezia aveva sancito che sul trasporto di quella nave erano state pagate dazioni ed era stato coinvolto personale della dogana e della Rigel circa il carico. Era necessario e importante avere con noi questi documenti per poi proseguire, se non erro, per Como o per un’altra destinazione per sentire altri eventuali testimoni, con tanto di delega del magistrato”. Ancora più generiche sono state le dichiarazioni sul punto da parte del carabiniere Rosario Francaviglia, rese in data 1 agosto 2012: “In data 12 dicembre 1995, insieme al maresciallo Moschitta e al capitano di corvetta Natale De Grazia, alle ore 18.50 siamo partiti a bordo di un’autocivetta per portarci a La Spezia, dove dovevano essere sentite delle persone per l’indagine. (…) Ricordo che si trattava di persone che facevano parte dell’equipaggio di una nave che era stata affondata, della Rigel se non ricordo male. (…) Quello che veniva deciso era condiviso soltanto da noi del pool; nessuno veniva informato. In quel periodo, avevamo anche la delega nominativa con divieto di riferire, anche gerarchicamente, sulle indagini e su ciò che facevamo, tanto che sui fogli di viaggio mettevamo varie regioni d’Italia, come destinazione, non dichiaravamo che stavamo andando a La Spezia o altrove”.

1.11 – Gli sviluppi investigativi in relazione alla Somalia. Il mese di novembre 1995 fu denso di attività investigative in quanto:

- erano in corso gli accertamenti sulla Rigel e sulla Jolly Rosso. In particolare, per quanto riguarda la Rigel, è stato riferito che il capitano De Grazia avesse individuato le coordinate precise del luogo di affondamento della nave (cfr. quanto dichiarato dal magistrato Nicola Maria Pace nel corso dell’audizione del 20 gennaio 2011);

- con riferimento alla Jolly Rosso erano state programmate attività finalizzate ad identificare e a sentire a sommarie informazioni componenti dell’equipaggio nonché a ricostruire le varie fasi dello spiaggiamento e dello smantellamento del relitto;

- con riferimento alla motonave Latvia erano state acquisite informazioni di notevole rilevanza nel contesto investigativo tanto che (secondo quanto emerso nel corso dell’inchiesta svolta alla Commissione) il capitano De Grazia, una volta giunto a La Spezia, avrebbe dovuto acquisire direttamente informazioni;

- sempre nello stesso periodo gli investigatori iniziarono a trovare sempre più riscontri agli elementi ricavati dalla documentazione sequestrata a Giorgio Comerio nel maggio 1995, con riferimento anche alla Somalia, che già da tempo figurava quale luogo di destinazione di rifiuti tossici provenienti da diversi paesi. Il raccordo tra lo smaltimento di rifiuti tossici e la Somaliaemerse ufficialmente, per quanto risulta alla Commissione, in data 2 dicembre 1995, allorquando il Corpo forestale di Brescia informò la procura circondariale di Reggio Calabria che, in data 11 novembre 1995, Ali Islam Haji Yusuf, membro dell’Autorità’ del servizio mondiale per i diritti umani di Bosaaso aveva segnalato che “al largo della citta’ di Tohin, del distretto di Alula, nella Regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando una operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei containers dal contenuto sconosciuto. Tale operazione stava creando tensione fra la popolazione locale”. Tale documento era pervenuto al Corpo forestale dello Stato da Greenpeace. La comunicazione del Corpo forestale dello Stato era di sicuro rilievo in quanto tra i documenti sequestrati a Comerio ve ne erano alcuni attinenti in modo specifico alla Somalia, contenuti in apposita cartellina recante la scritta “Somalia”. Tali dati risultano compendiati nell’informativa 22 gennaio 1996 (cui si rimanda), redatta dal comandante provinciale – R.O.N.O. di Reggio Calabria, Antonino Greco (doc. 681/62), nella quale si fa riferimento a documentazione sequestrata a Comerio dalla quale si desumeva l’esistenza di trattative avviate per operazioni di smaltimento di rifiuti da realizzarsi in zone coincidenti con quelle in cui stavano operando le navi segnalate da Ali Islam Haji Yusuf. L’informativa, sebbene trasmessa dopo la morte del capitano De Grazia, dà conto di informazioni già acquisite precedentemente e, quindi, va intesa come riferita ad attività di indagine effettuate prima del decesso del capitano De Grazia. Pare doveroso evidenziare anche in questa sede che gli elementi complessivamente raccolti in ordine ai singoli indagati ed in particolare a Giorgio Comerio evidentemente non sono stati ritenuti sufficienti a formulare precise accuse né nei confronti di Comerio né nei confronti degli altri indagati, tanto che il procedimento si è concluso con una richiesta di archiviazione accolta dal Gip. Il tema relativo alla Somalia, come è noto, è stato ed è ancora oggi oggetto di numerosi approfondimenti in quanto le regioni del nord Africa – sulla base di dati investigativi anche recenti – sembrano essere la sede privilegiata di destinazione di rifiuti altamente tossici. Tuttavia, l’ipotesi secondo la quale in Somalia sarebbero giunti in quegli anni navi cariche di rifiuti radioattivi ed interrati in loco non ha avuto sinora un riscontro probatorio in ambito giudiziario. Con riferimento alla documentazione sequestrata a Comerio, occorre evidenziare un altro dato emerso nel corso dell’inchiesta: nella cartellina riportante la scritta “Somalia” erano contenuti una serie di documenti tra cui anche uno concernente la morte di Ilaria Alpi. Il procuratore Neri, nel corso dell’audizione avanti alla Commissione ha ribadito di aver visto – tra gli atti sequestrati a Comerio – il certificato di morte di Ilaria Alpi. Tale certificato, peraltro, non è stato mai ritrovato all’interno del fascicolo e quindi – secondo quanto dichiarato dal magistrato – sarebbe stato verosimilmente trafugato.

Questa specifica vicenda ha avuto già sviluppi processuali, non essendo stata confermata la notizia che effettivamente nel fascicolo vi fosse tale documento (vi è stato un procedimento penale a carico dello stesso magistrato per falsa testimonianza). Il dato incontroverso è che all’interno della cartellina in questione, dedicata alla Somalia, vi fosse un documento in qualche modo attinente alla morte di Ilaria Alpi, documento che secondo il maresciallo Scimone sarebbe consistito in una notizia Ansa. Resta in ogni caso significativo che all’interno di una cartella intitolata “Somalia”, nella quale erano contenuti documenti concernenti lo smaltimento di rifiuti tossici e contatti con esponenti somali, vi fosse un atto riguardante la morte della giornalista, in un’epoca in cui ancora nessun potenziale collegamento era stato ipotizzato tra la morte della stessa e il traffico di rifiuti. Si riportano le dichiarazioni del maresciallo Scimone sul punto: “Ho anche sentito dire una cosa stranissima: che il comandante De Grazia avrebbe trovato tra gli atti di Comerio il certificato di morte di Ilaria Alpi. Non mi risulta. (…) Non era il certificato di morte di Ilaria Alpi perché sapete bene che il certificato di morte non è stato redatto in Somalia: Ilaria Alpi fu portata su una nave italiana e il primo certificato di decesso è stato fatto dal medico della nave. Credo che poi il comune di Roma abbia redatto l’ultimo certificato. Comerio aveva una «fascetta», la notizia Ansa della morte di Ilaria Alpi, che De Grazia aveva trovato mentre cercavamo nelle carte e che mi aveva fatto vedere. Era una notizia Ansa, non un certificato di morte. (…) Era un fascicolo della Somalia. Lui aveva dei fascicoli tra cui questo, Somalia, in cui c’erano tutte le proposte di smaltimento dei rifiuti, i suoi progetti, i contatti con i vari ministri, roba di questo genere e c’era questa striscia”. Va sottolineato che, man mano che l’indagine acquisiva maggiore consistenza, sarebbe stata naturale un’intensificazione ed accelerazione delle attività investigative, che, peraltro, fino a quel momento, si erano svolte regolarmente. Viceversa, deve prendersi atto che fu proprio quello il momento in cui si assistette, non solo ad un rallentamento dell’attività di indagine, ma anche al disfacimento del gruppo investigativo costituito dagli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti a diverse forze dell’ordine, che fino a quel momento avevano collaborato con il dottor Neri. Il decesso del capitano De Grazia deve essere inserito in questo preciso contesto investigativo ed analizzato unitamente agli eventi immediatamente precedenti e successivi al decesso. Prima di approfondire la fase regressiva dell’indagine occorre necessariamente soffermarsi sul rapporto di collaborazione tra la procura di Reggio Calabria e i servizi segreti, di cui il dottor Neri ha dato ampiamente conto anche nel corso delle audizioni.

1.12 La collaborazione tra la procura di Reggio Calabria e i servizi segreti. Una delle peculiarità dell’indagine condotta dal dottor Neri fu certamente quella della costante interlocuzione con il Sismi al quale vennero richieste informazioni e documenti sia su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta (traffico di rifiuti radioattivi, traffico di armi, affondamenti di navi). Come si legge nella relazione sullo stato delle indagini inviata dal dottor Neri al procuratore capo in data 26 giugno 1995(doc. 362/3 allegato), l’importanza della documentazione sequestrata a Giorgio Comerio (nella quale figuravano soggetti come Galli, Pazienza e Kassoggi) consentì alla procura di autorizzare la polizia giudiziaria impegnata nell’indagine ad avvalersi dell’ausilio del Sismi, che fornì “ben 277 documenti sul Comerio a conferma della pericolosità di detto soggetto e a riprova della bontà della ipotesi investigativa seguita”.

La documentazione acquisita venne studiata sia dalle forze di polizia giudiziaria che dal Sismi. Riguardo l’inizio della collaborazione, il dottor Neri riferì al pubblico ministero Russo, nell’aprile 1997: “Ricordo che unitamente al collega Pace della procura circondariale di Matera comunicammo al capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell’ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiese al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. A dire il vero il Servizio molto correttamente mi trasmise degli atti tramite la polizia giudiziaria. In particolare il passaggio degli atti avvenne tramite il maresciallo Scimone appositamente delegato a ciò da me. Il maresciallo Scimone faceva parte del gruppo investigativo da me diretto e teneva i contatti con il Sismi. Il capitano De Grazia era a conoscenza di ciò, cioè sapeva dei contatti istituzionali di Scimone con il Sismi per la acquisizione delle notizie che chiedevamo. Ogni attività di rapporto con il Sismi è formalizzata in specifici atti reperibili nel processo.” Sui rapporti con il Sismi ha riferito anche il maresciallo Moschitta nel corso delle due audizioni rese avanti alla Commissione (l’11 marzo e l’11 maggio 2010): “Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (…) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l’evaso Licio Gelli. Da lì comincia il nostro rapporto con i servizi segreti, i quali ci hanno veramente fornito molto materiale. Si è sempre collaborato benissimo, apertamente e senza problemi, tanto che nell’edificio della procura distrettuale di Reggio Calabria avevano approntato per loro anche un piccolo ufficio per esaminare documentazioni nostre ed eventualmente integrarle (…) i servizi segreti, il Sismi, hanno lavorato con noi. Il primo impatto che ho avuto con i servizi segreti è stato a seguito di un decreto di acquisizione di documenti presso il Sismi. Sono andato personalmente ad acquisire un documento a carico di Giorgio Comerio, titolare della O.D.M., oramai noto nell’inchiesta. In modo particolare, si trattava della fuga di Licio Gelli da Lugano fino al suo rifugio segreto nel principato di Monaco. Ci risulta che la casa in cui era ospitato Licio Gelli era di Giorgio Comerio. In seguito, i servizi segreti sono entrati ufficialmente con noi nell’indagine perché esaminavano la documentazione, d’accordo con la magistratura. In effetti, è stata una collaborazione corretta, leale e senza problemi”.

La collaborazione tra procura e Sismi proseguì anche dopo che il fascicolo fu trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, come si evince dal provvedimento con il quale il sostituto procuratore dottor Alberto Cisterna, divenuto titolare dell’indagine, autorizzò la polizia giudiziaria “ad avvalersi dell’ausilio informativo del Sismi” per il tramite di persone nominativamente indicate appartenti all’ottava divisione (doc. 681/39). Quello sopra descritto fu il rapporto “formale” tra procura e servizi segreti, in merito alle indagini sulle “navi a perdere”. E’ emerso, però, un ulteriore profilo di intervento dei servizi segreti nella materia riguardante il traffico dei rifiuti radioattivi e tossico nocivi e il traffico di armi, come emerge dalla documentazione acquisita dalla Commissione riferita al medesimo periodo in cui erano in corso le indagini del dottor Neri. In particolare il documento proveniente dal Copasir, archiviato dalla Commissione con il n. 294/55, riguarda una comunicazione del Sismi al Cesis in merito alle spese sostenute nell’anno 1994 per i servizi di intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi, indicati nella misura di 500 milioni di lire. Si tratta di un documento desecretato dalla Commissione particolarmente interessata a comprendere in che modo fossero stati utilizzati i 500 milioni di lire nelle operazioni di intelligence relative al traffico di rifiuti e di armi. Non è stato però possibile, nonostante le numerose audizioni effettuate sul punto, sapere in che modo sia stata spesa la somma di cui sopra, per lo svolgimento di quali attività e, ancor prima, per quali ragioni i servizi, all’epoca, fossero interessati al tema dei rifiuti radioattivi. E’ stato, inoltre, prospettato alla Commissione, ma non è stato acquisito alcun riscontro al riguardo, un ulteriore ipotetico interessamento dei servizi all’indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria. Proprio con riferimento a quest’ultimo punto si evidenziano le dichiarazioni rese da Rino Martini alla Commissione, in data 17 febbraio 2010, allorquando ha dichiarato: “In quel periodo, si verificarono due episodi, uno dei quali ricordato dal procuratore Pace. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un’altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent’anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell’autovettura siamo risaliti al proprietario: il SISDE di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c’era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo.” Come specificato dall’ex colonnello, su domanda della Commissione, riguardo a questa presunta attività di controllo, lo stesso aveva semplicemente formulato un’ipotesi, senza avere alcun riscontro.

Riguardo poi alla vicenda del camper, il colonnello ha specificato che le verifiche effettuate non hanno portato a risultati di alcun tipo: “Dal pubblico registro automobilistico non abbiamo trovato nulla di interessante e abbiamo preferito mantenere un basso profilo per cercare di capire come avvenissero questi controlli. Sicuramente, non apparteneva a nessuno degli abitanti del posto, perché di fronte ci sono ville residenziali. All’interno comunque non c’era nessun operatore, ma era piazzata una telecamera.(…) puntata verso l’ingresso”. Circa 20 giorni dopo la sua audizione, il colonnello Martini ha trasmesso alla Commissione un appunto relativo al secondo dei due episodi sopra riferiti, aggiungendo ulteriori dettagli. Si riporta il contenuto del documento trasmesso (doc. 304/1): “Con riferimento alla lettera sopracitata riguardante l’episodio della presenza delle due persone come riferito nell’audizione, preciso quanto segue. Il punto di ritrovo serale per un certo periodo è stato l’Antica Birreria alla Bornata di V.le Bornata, 46 Brescia (ex Wurer), ma per la presenza di soggetti che frequentavano la trattoria alla stessa ora (mai la stessa) avevamo deciso di individuare un altro punto di ritrovo. A questo posto si arriva attraverso una strada sterrata di qualche centinaio di metri all’interno del bosco della Maddalena (collina adiacente alla città di Brescia) e dopo aver lasciato l’autovettura in un parcheggio si percorrono a piedi 200-300 metri. A quel tempo l’Osteria era denominata Briscola (Via Costalunga 18/4) ed alla sera era aperta su prenotazione. Dopo circa 30 minuti sono arrivate due persone ben vestite e di età sui 35 anni. Naturalmente io e gli altri presenti siamo usciti dopo pochi minuti ed abbiamo così potuto prendere la targa della seconda autovettura parcheggiata. Per poter ricostruire l’episodio ho chiesto al Coordinamento del Corpo forestale dello Stato di Brescia di verificare se i fogli di viaggio di quel periodo erano ancora in loro possesso per determinare la data del fatto. Ho poi contattato il Dr. Nicola Pace, procuratore della procura di Brescia, che mi ha riferito che probabilmente non era presente in quel periodo quindi mi sono messo in contatto col Dr. Francesco Neri, consigliere della procura generale di Reggio Calabria. Il contatto è avvenuto il 1/03/2010 in tarda mattinata. II Dr. Neri invece ricorda perfettamente l’episodio e lui stesso all’epoca aveva chiesto ai suoi collaboratori, sottoufficiali dei Carabinieri di verificare l’appartenenza dell’autovettura. Dopo due giorni mi è stato riferito che l’autovettura era in carico ai Servizi Civili di Milano. Alla fine dell’anno 1995 tutta la documentazione riguardante l’indagine è stata trasferita alla procura della Repubblica di Reggio Calabria ed a Brescia presso il Nucleo sono rimaste le pure annotazioni senza allegati”.

2. IL CLIMA DI INTIMIDAZIONE NEL CORSO DELLE INDAGINI. Nel corso dell’inchiesta alla Commissione sono state rappresentate – sia dai magistrati che dagli ufficiali di polizia giudiziaria impegnati nell’indagine – talune difficoltà operative legate, in taluni casi, a problemi burocratici e organizzativi, in altri, all’esistenza di un clima di intimidazione percepito nitidamente dagli investigatori in più di un’occasione. Sotto il primo profilo, si segnala che il capitano De Grazia, dopo essere stato applicato presso la procura di Reggio Calabria per collaborare con il dottor Neri nelle indagini sulle navi a perdere, era andato incontro a difficoltà operative, non essendo stato dispensato dallo svolgimento delle ordinarie incombenze del suo ufficio e ciò nonostante l’impegno particolarmente intenso che l’indagine giudiziaria richiedeva. Risulta inoltre che, ad un certo momento, il capitano De Grazia fu richiamato dall’ufficio di appartenenza e che i magistrati dovettero reiterare per iscritto la richiesta di applicazione dell’ufficiale in procura, definendo non solo importante il suo apporto, ma indispensabile. Sul punto si è espresso il maresciallo Moschitta, audito dalla Commissione in data 11 marzo 2010: “(…) quando le indagini arrivavano a un picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche il livello della sicurezza nazionale…(…) A un certo punto De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perché il suo comandante l’aveva bloccato.(…) Se non erro, era il colonnello Maio o De Maio, non ricordo bene. Era il comandante della Capitaneria di porto di Reggio Calabria. De Grazia mi chiamò e mi riferì che non poteva più venire, perché il suo comandante gli aveva mostrato un foglio matricolare… (…) Mi chiese se potevo parlare col giudice in modo che scrivesse un’altra lettera per poterlo reinserire nelle indagini. Accettai e promisi di parlarne col dottor Neri. Quest’ultimo scrisse un’altra lettera di incarico di indagini affermando che De Grazia non era solo necessario, ma indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Solo così è ritornato con noi a lavorare. (…) Una volta morto lui, ci siamo un po’ fermati. Io sono stato male e anche il giudice Neri ha avuto problemi pressori”. A parte questo, devono essere richiamati altri episodi percepiti dagli inquirenti quali presunte forme di controllo e di intimidazione nel’ambito delle indagini.

2.1 – Le dichiarazioni rese dagli ufficiali di polizia giudiziaria del gruppo investigativo coordinato dal dottor Neri e dal dottor Pace. E’ stato riferito alla Commissione che nel corso delle indagini si sarebbero verificati diversi episodi (in particolare pedinamenti) che avevano destato preoccupazione e che erano stati interpretati dagli inquirenti come tentativi di intimidazione diretti sia nei confronti dei magistrati titolari delle indagini sia nei confronti della polizia giudiziaria delegata. In proposito, sono state raccolte le testimonianze dei diretti interessati nonché le annotazioni di servizio redatte dall’epoca dei fatti. Sia il maresciallo Moschitta che il Carabiniere Francaviglia, sentiti il 9 aprile 1997 dal pubblico ministero Russo (titolare dell’indagine avviata in riferimento al decesso del capitano De Grazia), hanno riferito in merito al clima che si respirava nel corso delle indagini ed al fatto che, nel corso di alcune missioni alle quali avevano partecipato, erano stati seguiti. Il maresciallo Moschitta, in particolare, ha dichiarato: “confermo le relazioni di servizio anche a mia firma in merito a pedinamenti effettuati da ignoti nei nostri confronti in particolare durante il viaggio a Savona, a Firenze e a Roma nel mese di febbraio 1995, all’inizio delle indagini. Oltre a questi episodi ci sono state anche altre circostanze che ci hanno fatto credere seriamente di essere sotto controllo da parte di qualcuno per le indagini che stavamo svolgendo. In particolare, ricordo che vi fu uno strano episodio relativo alla forzatura della porta dell’ufficio del dottor Neri e vi sono altresì state delle occasioni nelle quali il personale della scorta e della tutela ha avuto l’impressione che alcune persone ci seguissero”. Negli stessi termini si è espresso il carabiniere Francaviglia nel verbale di sommarie informazioni testimoniali effettuato il medesimo giorno. Il maresciallo Moschitta ha poi riferito a questa Commissione, nel corso delle audizioni dell’11 marzo e dell’11 maggio 2010, ulteriori episodi che avevano destato preoccupazione, verificatisi fin dall’inizio delle indagini. Si riportano alcuni passi delle dichiarazioni rese:

“il muro di gomma su cui inevitabilmente andava a cozzare l’attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria ha rappresentato il principale ostacolo da abbattere per poter entrare nei meandri del fenomeno in esame. È sembrato che forze occulte di non facile identificazione controllassero passo passo gli investigatori nel corso delle diverse attività svolte. In effetti, sentivamo che c’era qualcosa. Qualcuno ci pedinava, però nessuno si manifestava. L’unico dato certo è emerso a Roma (…)”. “Dopo aver interrogato un funzionario dell’Enea, che in quel momento avevamo chiamato Billy per evitare la divulgazione del suo nome, siamo andati ad alloggiare presso l’albergo Ivanhoe di Roma. Ebbene, stranamente le nostre schede – la mia, quella del giudice Neri, dell’autista e di altri colleghi, eravamo in cinque – non erano ritornate, come accadeva di solito, dal visto del commissariato. Io stesso sono stato chiamato dall’allora addetto alla reception che mi chiese ragione di questa circostanza. Risposi che non ne sapevo nulla e chiesi se fosse normale. L’addetto disse che non era normale, ma che poteva esserlo data l’occasione. A quel punto, noi che avevamo svolto quell’attività ci siamo preoccupati, intanto di preservare il magistrato che era con noi (Francesco Neri) (…) ad un certo punto lo abbiamo accompagnato di peso, perché lui non voleva andarsene, presso l’aeroporto di Ciampino e lo abbiamo fatto imbarcare alla volta di Reggio Calabria. Il dottor Neri non ci voleva lasciare. Mi ha fatto promettere che nel viaggio di ritorno – avevamo altre attività da svolgere, ma considerata la situazione abbiamo interrotto le operazioni e ce ne siamo andati – avremmo seguito un itinerario diverso da quello di andata. (…). In quel momento eravamo molto preoccupati (…). In seguito, non abbiamo avuto più notizie di questa vicenda. A Savona o a Firenze abbiamo avuto la sensazione che delle persone con degli automezzi ci stessero sempre vicino. Una volta me ne accorgevo io, una volta se ne accorgeva la tutela del dottor Neri, una volta se ne accorgeva l’autista. In pratica, ci sembrava di essere all’attenzione di persone che non conoscevamo. In quei casi, cercavamo di sottrarci alla loro vista, al loro controllo e adottavamo le misure più elementari possibili per sfuggire. A parte l’episodio di Roma, le altre situazioni sono derivate da nostre impressioni. Tuttavia – attenzione – parlo di impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi. Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava. Infatti, appena arrivati a Savona, che è stata la nostra prima meta, il dottor Landolfi, sostituto procuratore della procura della Repubblica, ci disse che i telefoni già riferivano che il dottor Neri era in Liguria. In pratica, egli aveva dei telefoni di mafiosi calabresi sotto controllo, dunque sapeva che questi signori parlavano della presenza del dottor Neri a Savona. Nel corso del tempo, al dottor Neri è stato assegnato un ufficio alla procura circondariale, la cui porta venne forzata, anche se non fu sottratto nulla. Inoltre, sono successi tanti altri avvenimenti, di cui la sua tutela, l’agente Luigi Bellantone, può riferire. Vi riporto l’esempio più recente. Ad un certo punto, siamo stati convocati dal GIP di Roma per la querela sporta nei nostri confronti da parte di Ali Mahdi, il signore della guerra ed ex presidente della Somalia. Egli affermava che non era vero quanto da noi riferito alla I Commissione circa i rapporti tra Comerio ed Ali Mahdi. Invece, vi era una gran quantità di documentazioni ufficiali in merito che abbiamo sequestrato a Comerio e prodotto in tutte le sedi. In occasione di questo viaggio, all’aeroporto di Ciampino, all’uscita del volo per Reggio Calabria, abbiamo notato due persone. Io ero già in pensione, non avevo nulla in mano, solo un portavaligie e ho pensato che all’occorrenza sarei potuto intervenire servendomi di quello. Come ho detto, abbiamo notato la presenza di due persone che fissavano sia il dottore Neri che il suo legale di fiducia, l’avvocato Gatto Lorenzo. Abbiamo segnalato alla tutela data da Roma al dottor Neri la presenza di questi due soggetti che non ci piacevano in modo particolare e abbiamo fatto intervenire la polizia dell’aeroporto, che li ha identificati. Erano due marocchini che stranamente si trovavano all’uscita per Reggio Calabria, mentre avrebbero dovuto prendere l’aereo per Ancona che era nella parte di fronte, ma distante dalla nostra uscita. Peraltro, era quasi l’ora di partenza dell’aereo per Ancona, tant’è vero che i due soggetti sono partiti qualche minuto prima di noi. La situazione ci ha insospettito. Successivamente, sono venuto a sapere che le Marche sono un punto di concentramento di persone sospette provenienti dall’est europeo. Non voglio dire altro perché non ho elementi su cui basarmi. Mi sembra, tuttavia, che la questura abbia accertato che la zona di provenienza di questi due soggetti era molto frequentata da personaggi poco raccomandabili, provenienti dall’Europa dell’est”. Il maresciallo Moschitta, ha specificato che – in occasione dell’esame del dipendente Enea – erano in cinque ossia il magistrato Neri, due autisti, la tutela e lui stesso. Richiesto di far conoscere il nome del soggetto audito, ha così risposto: “Era l’ingegnere Carlo Giglio, il quale ha rilasciato delle dichiarazioni, con riferimento alla situazione delle centrali nucleari in Italia. A detta dell’ingegnere, si trattava di una circostanza molto delicata, critica, per non dire esplosiva. Queste sono state le sue parole. Basta leggere il suo verbale, per capire effettivamente quello che si nascondeva dietro l’affare nucleare. Avevamo un verbale molto importante e nel momento in cui non sono ritornate le schede ci siamo molto preoccupati”. Riguardo gli eventuali accertamenti sui motivi per i quali le schede non fossero rientrate, il maresciallo ha dichiarato: “Non ho saputo più nulla di questa storia. In tutto eravamo in cinque a svolgere le indagini e abbiamo scardinato tutta questa storia. Era stata segnalata alla questura di Roma. La sera stessa in cui siamo partiti è stato inviato un fax per la questura di Reggio. Quindi, la questura era interessata a questo tipo di discorso. Com’è andata a finire non lo so”.

2.2 – Le dichiarazioni rese dal dottor Neri e dal dottor Pace. Le circostanze rappresentate nel 1997 dai militari menzionati sono state confermate e specificate ulteriormente dal dottor Neri, sentito dal pubblico ministero Russo sempre in data 9 aprile 1997. Testualmente, lo stesso ha dichiarato: “sin dall’inizio delle indagini e in particolar modo allorché fui costretto col nucleo investigativo da me coordinato a recarmi fuori sede sono stato oggetto di intimidazioni di varia natura ed in particolare con autovetture e persone munite di radiotrasmittenti che, a mio giudizio, avevano l’evidente scopo di scoraggiare la mia attività di indagine (…)”. Nel corso della testimonianza il dottor Neri ha riferito di alcune preoccupazioni del capitano De Grazia in merito alla sua carriera, in quanto, successivamente all’esecuzione di un decreto di perquisizione a carico di un indagato, tale Gerardo Viccica, erano emersi elementi circa un presunto coinvolgimento dei vertici militari della Marina in fatti di corruzione legati alla realizzazione di Boe. Il Viccica avrebbe detto a De Grazia in modo minaccioso che conosceva molte persone nell’ambito della Marina, e che, quindi, in qualche modo, avrebbe potuto danneggiarlo. Il De Grazia, inoltre, in qualche occasione aveva espresso al dottor Neri le preoccupazioni che aveva per la sua incolumità e per l’incolumità del magistrato. Nel corso dell’audizione del dottor Nicola Maria Pace, tenutasi il 20 gennaio 2010 avanti a questa Commissione, lo stesso, richiesto di riferire in merito ad eventuali episodi di intimidazione subìti all’epoca in cui era titolare di indagini collegate con quelle condotte dal sostituto Neri, ha dichiarato: “ …vi espongo alcuni fatti oggettivi. Gli episodi più gravi si sono verificati nell’ambito di 15 giorni: nell’arco di due settimane muore De Grazia, si dimette il colonnello Martini, regista delle indagini e delle attività strettamente investigative. Per sviare gli antagonisti con Neri decidiamo di vederci non a Matera o a Reggio Calabria, ma a Catanzaro e durante la trasferta, mentre personalmente non mi accorsi di niente perché nella mia macchina non avevo scorta e durante il viaggio sonnecchiavo, Neri che aveva una scorta si accorse con i suoi e verificò con i computer di bordo di essere seguito da una macchina della ‘ndrangheta. Fece scattare l’allarme, mi telefonò, prendemmo direzioni diverse e riuscimmo a tornare. Riferisco il fatto nella sua oggettività, senza averlo mai interpretato in chiave di paura. Per quanto riguarda l’essere filmati, sono invece testimone diretto, perché fui proprio io a Brescia, mentre fervevano le attività, a scoprire che qualcuno ci stava filmando da un camper parcheggiato a poca distanza dalla sede del Corpo forestale dello Stato di Brescia. Proposi al team investigativo di perquisire il camper, ma si considerò più opportuno far finta di niente. Proprio il colonnello Martini, uomo di poche parole, al quale ho sempre riconosciuto una grande capacità di strategie, disse di non preoccuparsi. Lavoravamo giorno e notte nel periodo in cui effettuammo le 16 perquisizioni a Comerio e agli altri, fatto che poi ha portato alla definitiva scoperta del progetto O.D.M. e al suo collegamento con il progetto di partenza DODOS, che credo sia ancora negli scaffali della procura di Matera, perché ho disposto l’acquisizione di questi otto volumi del progetto DODOS, che, impressionante per lo spessore scientifico, aveva tutta la dignità per rappresentare una validissima alternativa al sistema dell’interramento dei rifiuti in cavità geologiche. Questi sono gli episodi che posso riportare”.

2.3 – Annotazioni di servizio della scorta del dottor Neri. Nelle relazioni di servizio redatte dall’agente scelto Giovanni Bellantone, addetto alla tutela del magistrato titolare delle indagini, dottor Neri, si fa riferimento, oltre che a pedinamenti subìti ad opera di ignoti in diverse città d’Italia ove gli inquirenti si erano recati per ragioni investigative, anche ad intercettazioni telefoniche tra ignoti interlocutori nelle quali si parlava della necessità di far “saltare” anche la scorta del magistrato. Si riporta un estratto della relazione di servizio del 20 marzo 1995: “durante il nostro soggiorno nella città di Savona, ci accorgevamo della presenza insistente di alcuni individui nei vari percorsi che facevamo nelle vie della città. Le persone di cui sopra si contattavano tra di loro tramite cellulare, e indicavano come “cellule” gli uomini che erano di “scorta”. Venivamo comunque notiziati che vi era stata un’intercettazione telefonica dove si parlava di far saltare pure la “scorta” e un’altra dove si parlava della presenza del giudice (dottor Neri) in città: inoltre la stampa locale pubblicava e veniva a conoscenza di cose che nessuno di noi aveva comunicato loro. Stesso controllo nei nostri confronti veniva notato nella città di Firenze, ed ancora più insistentemente nella città di Roma dove persone non identificate prendevano posto anche in ristoranti dove noi eravamo intenti a consumare i pasti”. Si riporta poi un estratto della relazione di servizio del 18 maggio 1995: “in data odierna unitamente al dottor Neri ci recavamo alla procura circondariale di Catanzaro, durante il tragitto sull’autostrada A3 SA-RC corsia nord ci accorgevamo della presenza insistente di una BMW 520 nei pressi dello svincolo di Vibo-Pizzo, rallentavamo la corsa e l’autovettura di cui sopra era costretta a superarci cosicchè per motivi di sicurezza decidevamo di uscire allo svincolo e di proseguire dalla statale per Catanzaro. Dopo qualche chilometro venivamo agganciati da un’altra autovettura: trattasi di una Fiat Croma che con fare sospetto ci ha dapprima superato e successivamente si è posizionata dietro la nostra autovettura. Anche in questo caso eravamo costretti a rallentare la corsa per cercare di farci superare, e facevamo una sosta di qualche minuto presso un’area di servizio. Arrivati sul posto cui eravamo diretti e preoccupati per queste vicende, decidevo di telefonare al mio ufficio di appartenenza per effettuare accertamenti, ed il collega Bosco, in maniera tempestiva, mi faceva pervenire i dati qui sotto riportati:

- Bmw 520 tg. RC 476645 intestata ad Alvaro Antonio, nato a Siderno il 15 dicembre 1947 ivi res. in via Palermo, pregiudicato per reati finanziari;

- Fiat Croma tg. SV 413337 risultata rubata il 26 marzo 1993. Faccio inoltre presente che la persona sul sedile posteriore della bmw era munita di una radio portatile e di queste situazioni ci siamo resi conto immediatamente tutti gli abitanti dell’autovettura blindata (dottor Neri, comandante De Grazia della Capitaneria di porto di Reggio Calabria, autista Barberi)”.

2.4 – Le dichiarazioni dell’ex colonnello Rino Martini. Il colonnello del Corpo forestale dello Stato Rino Martini, è stato audito dalla Commissione in data 17 febbraio 2010. In tale occasione ha reso dichiarazioni anche in merito agli episodi di intimidazione di cui sopra. Tali dichiarazioni sono state riportate già nel paragrafo relativo ai rapporti con i servizi (cfr. cap. 1, par. 1.12).

2.5 – Le dichiarazioni dell’Ispettore De Podestà. In data 17 febbraio 2010 è stato audito dalla Commissione l’ispettore De Podestà, appartenente al Corpo forestale dello Stato di Brescia. Alla domanda, posta dalla Commissione se lo “smantellamento” del gruppo investigativo fosse stato determinato anche dal fatto “che stavate pestando piedi importanti” , lo stesso ha risposto in questi termini: “Come sensazione sì, come riferimenti precisi no. I rapporti, finché c’è stato il colonnello Martini, li teneva lui con gli uffici superiori, sia con il comando regionale sia con il comando centrale di Roma. Quanto al fatto che, mentre si svolgeva attività investigativa, sorgevano incombenze ingiustificate a livello amministrativo, se n’é occupata anche la stampa e se ne occupò addirittura la magistratura, specificando che stavamo svolgendo delle indagini in campo nazionale e internazionale, quindi sembrava improprio che l’ufficio fosse smembrato per occuparsi anche dei compiti di carattere amministrativo”.

2.6 – Accertamenti svolti in conseguenza degli episodi denunciati. A fronte degli episodi sopra descritti non pare che siano state avviate specifiche indagini finalizzate ad accertare se gli episodi medesimi fossero effettivamente intimidatori nei confronti degli inquirenti né risultano svolti accertamenti finalizzati ad individuarne gli autori. Peraltro deve evidenziarsi che gli inquirenti hanno più volte dichiarato di sentirsi controllati e seguiti nel corso delle attività investigative fuori sede. Ebbene, data l’importanza delle indagini e la gravità dei fatti esposti, sfugge la ragione per la quale non siano state avviate immediatamente indagini mirate. Quando è stato chiesto al dottor Pace (nel corso dell’audizione avanti alla Commissione) per quale motivo non furono immediatamente effettuate verifiche sul camioncino che ritenevano li seguisse e costituisse una sorta di postazione di controllo della loro attività, lo stesso ha risposto che non si intervenne immediatamente onde evitare che ciò potesse pregiudicare l’esito di ulteriori successivi accertamenti. Tuttavia, deve osservarsi come, per quanto risulta alla Commissione, neanche in seguito sia stata avviata alcuna indagine sul punto. Ad oggi, in mancanza di elementi di supporto, non è possibile sostenere nulla di più di quanto già all’epoca affermato dai magistrati e dai soggetti coinvolti nella vicenda in esame.

3. LO SFALDAMENTO DEL GRUPPO INVESTIGATIVO E L’ESITO DELLE INDAGINI. Come evidenziato, la morte del capitano De Grazia segnò, obiettivamente, un forte rallentamento nelle indagini. Nello stesso periodo di tempo, il colonnello Rino Martini assunse altro incarico presso un’azienda municipalizzata, il maresciallo Moschitta andò in pensione, il carabiniere Francaviglia fu trasferito, l’ispettore Tassi cessò di prestare la sua collaborazione.

Lo stesso magistrato che aveva fin dall’inizio assunto la direzione delle indagini, il dottor Neri, appena sei mesi dopo la morte di De Grazia si spogliò del procedimento, trasmettendolo per competenza alla procura presso il tribunale di Reggio Calabria, avvendo ipotizzato reati di competenza del tribunale. In merito agli avvenimenti successivi alla morte del capitano De Grazia, il maresciallo Scimone, nel corso dell’audizione del18 gennaio 2011 avanti alla Commissione, ha dichiarato: “In seguito alla morte di De Grazia c’è stato praticamente un terremoto (…) C’è stato un momento di sbandamento e sei o sette mesi dopo la morte di De Grazia fu diffusa questa notizia dei Morabito e a quel punto abbiamo dovuto alzare le mani.
Io mi sono offerto anche di collaborare con la DDA in qualità di polizia giudiziaria per conoscere il fascicolo, che ho catalogato e consegnato personalmente”.

3.1 – L’incarico assunto dal colonnello Rino Martini presso la società municipalizzata di Milano per lo smaltimento rifiuti. Il 1° dicembre 1995, pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia, il colonnello Martini lasciò l’incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo della società municipalizzata di Milano impegnata a fronteggiare l’emergenza rifiuti. In merito alle ragioni che determinarono tale scelta, l’ex colonnello ha dichiarato alla Commissione in data 17 febbraio 2010: “Era un salto di qualità dal punto di vista professionale e anche uno stimolo, quindi ho deciso di accettare (…) Mi sono dimesso il 16 ottobre 1995, e il 17 ottobre avevo già il decreto del Ministero dell’agricoltura firmato che accettava le mie dimissioni, quindi era già passato all’Ufficio regionale, era già andato al Ministero dell’agricoltura, ove era già stato accettato (…) È stata una scelta consapevole. Se avessi ricevuto pressioni esterne tali da portarmi ad accettare un posto migliore, non avrei mai dato le dimissioni. Alcune componenti ambientali quell’anno mi hanno un fatto capire che stavamo toccando interessi che andavano ben oltre le nostre possibilità, in particolare quelle di un Corpo forestale che non gode di protezioni di servizi o di altri apparati dello Stato, perché fra le cinque Forze di polizia è la struttura più debole da questo punto di vista.

Si sono verificate situazioni delicate come i controlli cui siamo stati oggetto durante l’attività investigativa, ma si percepiva tutti i giorni un’atmosfera molto difficile e delicata.” Deve, peraltro, essere sottolineata una circostanza che suscita qualche perplessità in ordine alle risposte fornite dal colonnello Martini. Lo stesso, invero, venne sentito a sommarie informazioni dal magistrato dottor Neri in data 7 marzo 1996, sempre nell’ambito del procedimento 2114/94 RGNR. Alla domanda – subito posta dal magistrato – circa le ragioni che lo avevano indotto a lasciare l’incarico all’interno del Corpo forestale dello Stato, il colonnello Martini rispose di averlo fatto per motivi personali e “per altri motivi che al momento mi riservo di comunicare in seguito (…) Non appena mi sarà possibile chiarirò eventualmente ed in dettaglio i motivi che mi hanno indotto a lasciare il mio Corpo. Non escludo di poter rientrare nuovamente in servizio” (doc. 681/33). E’ evidente, allora, che vi fossero motivazioni di ordine non personale che – né all’epoca né successivamente – il colonnello Martini ha voluto riferire.

3.2 – Il decesso del capitano De Grazia. Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1995 il capitano De Grazia partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al Carabiniere Francaviglia, con autovettura di servizio, alla volta di La Spezia per dare esecuzione alle deleghe di indagine, firmate dal procuratore Scuderi e dal sostituto Neri, finalizzate ad acquisire maggiori elementi di conoscenza in merito all’affondamento di alcune navi. Durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995, il capitano De Grazia venne colto da malore e, quindi, trasportato, dall’ambulanza nel frattempo intervenuta, presso il pronto soccorso dell’ospedale di Nocera Inferiore, ove giungeva cadavere. In data 22 dicembre 1995 il capitano Antonino Greco, comandante del nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria, rimise al procuratore della Repubblica presso la pretura di Reggio Calabria, dott. Scuderi, le sei deleghe di indagine datate 11 dicembre 1995 “non potute evadere a causa del decesso del capitano di corvetta Natale De Grazia”.

3.3 – Il pensionamento del maresciallo Moschitta e il trasferimento del carabiniere Francaviglia. Il 14 ottobre 1996 (all’età di 44 anni), il maresciallo Moschitta andò in pensione, su sua domanda avanzata nel giugno 1996, come dallo stesso dichiarato al pubblico ministero Russo, in data 9.4.97. Nel corso dell’audizione dell’11 marzo 2010 avanti alla Commissione, il maresciallo ha spiegato le ragioni della sua scelta: “Dopo aver depositato l’ultimo atto in merito alle indagini sui radioattivi, sono andato in pensione. Era il 14 ottobre 1996, due giorni dopo aver depositato l’informativa che avevo promesso alla buonanima di Natale De Grazia. Anche se lui in quel momento non c’era più, gli avevo promesso che, anche se fosse stato l’ultimo atto della mia carriera, avrei portato avanti le sue indagini fino a quando avessi potuto. Dopo la sua morte mi sono sentito male, i miei valori si sono sballati, tanto che successivamente ho avuto un infarto e mi sono stati applicati due by-pass” . Nella successiva audizione del 10 maggio 2010 il maresciallo Moschitta ha precisato di essere stato collocato in pensione con la dicitura «per massimo periodo previsto» in quanto all’epoca, la normativa prevedeva, quale periodo massimo per il pensionamento, venticinque anni di servizio effettivi, più cinque di abbuono. Il maresciallo si è così espresso: “Sarei potuto rimanere, ma mi sentivo stanco. Dopo la morte di De Grazia, i miei valori sono sballati. Non mi sentivo bene, tanto che, a distanza di un anno, ho avuto un infarto e, a distanza di un altro anno, ho dovuto fare un’operazione per impiantare due bypass al cuore. Questa indagine mi ha effettivamente stressato oltre il consentito”. L’altro compagno di viaggio del capitano De Grazia, il carabiniere Rosario Francaviglia, ha dichiarato, in sede di audizione avanti alla Commissione, di aver chiesto il trasferimento a Catania, vicino casa, subito dopo la morte del capitano. Ha specificato che già in precedenza aveva avanzato diverse richieste di trasferimento, ma tutte avevano avuto esito negativo. Secondo quanto riferito, per l’ultima domanda “stavano ritardando il trasferimento proprio perché avevamo l’indagine in corso. Mi era già arrivato esito negativo, dopodiché ho ripresentato domanda e il trasferimento è avvenuto nel 1996”. La Commissione ha domandato al carabiniere Francaviglia cosa avesse fatto successivamente e lui ha risposto: “ Ho smesso, anzitutto perché l’indagine era passata al dottor Cisterna, se non erro, in procura. Ero stato interpellato per continuare a partecipare all’indagine e ho rifiutato, perché non ne avevo più intenzione, non ero più interessato. Avevo perso interesse per quell’indagine, non so se a causa di quell’episodio ”.

3.4 – La cessata collaborazione da parte dell’ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato Claudio Tassi. Nel corso dell’audizione avanti alla Commissione avvenuta in data 24 febbraio 2010, l’isp. Tassi (il quale aveva avuto un ruolo importante nelle indagini, soprattutto per i suoi contatti con la fonte confidenziale “Pinocchio”) ha confermato la circostanza di non essersi più occupato delle indagini dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia. Alla domanda se si fosse trattato di una sua iniziativa, l’ispettore ha risposto negativamente. Testualmente, ha dichiarato (pag. 6): “non posso dire di essere stato escluso dall’attività investigativa, ma era un filone di Brescia, quindi può anche darsi che chi seguiva quel filone abbia deciso di proseguire da solo”.

3.5 – La trasmissione del procedimento n. 2114/94 per competenza alla procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria. In data 27 giugno 1996 il dott. Francesco Neri trasmise alla procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria il procedimento penale n. 2114/94 iscritto a carico di Giorgio Comerio + altri, ipotizzando la sussistenza dei reati di competenza del tribunale di cui agli articoli 110, 428 e 110, 434 del codice penale. Dal procedimento trasmesso nacquero, presso la procura presso il tribunale di Reggio Calabria, i seguenti procedimenti, affidati entrambi al dottor Alberto Cisterna:

- il primo, recante il n. 100/1995 R.G.N.R., volto a verificare l’ipotesi di traffico di armi;

- il secondo, recante il n. 1680/96 R.G.N.R., volto a verificare l’ipotesi del traffico di rifiuti radioattivi tramite affondamenti di navi (in particolare la Rigel e la Rosso) nonché la riconducibilità di tali azioni a Giorgio Comerio ed altri indagati. In data 9 ottobre 1996 venne depositata l’informativa riassuntiva delle indagini sino a quel momento svolte dalla procura circondariale di Reggio Calabria, informativa firmata dal comandante Greco, ma redatta dal maresciallo Nicolò Moschitta pochi giorni prima del suo pensionamento (doc. 319/1). Entrambi i procedimenti menzionati furono definiti con decreto di archiviazione. Nel procedimento n. 1680/96, peraltro, alcune ipotesi di reato non furono archiviate ed i relativi atti vennero trasmessi alle procure di La Spezia e di Lamezia Terme, ritenute competenti territorialmente.

PARTE SECONDA – LE CAUSE DELLA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA E L’INCHIESTA DELLA MAGISTRATURA

1.

1.1 – Il decesso del capitano De Grazia. Il 13 dicembre 1995, a soli 39 anni, il capitano De Grazia è deceduto per cause che a molti, compresi i pubblici ministeri titolari dell’indagine allora in corso, apparvero quanto meno sospette e che ancora oggi, a distanza di anni, continuano ad essere considerate tali (in questi termini si sono espressi sia il dottor Neri che il dottor Pace nel corso dell’audizione innanzi a questa Commissione parlamentare). Il dottor Pace, in particolare, nell’audizione del giorno 20.1.10, ha dichiarato: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale. Avevo sentito De Grazia alle 10,30 di quella mattina, mi aveva detto che con una delega di Neri si sarebbe recato prima a Massa Marittima e poi a la Spezia, mi avrebbe aspettato a Reggio Calabria per portarmi con una nave sul punto esatto in cui è affondata la Rigel. Alle 10,30 del 13 dicembre, giorno in cui è morto, ricevetti questa sua telefonata in ufficio, ma non sono in grado di fornire elementi obiettivi”. Cosa accadde quel giorno? Ciò che accadde è stato ricostruito dagli inquirenti esclusivamente sulla base della relazione di servizio e delle testimonianze rese dal maresciallo Nicolò Moschitta e dal carabiniere Rosario Francaviglia, i quali il 12 dicembre 1995 si trovavano con il capitano De Grazia, diretti al porto di La Spezia, ove avrebbero dovuto dare esecuzione ad alcune deleghe dell’autorità giudiziaria cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti. Si trattava di un’attività alla quale avrebbe dovuto necessariamente partecipare il capitano De Grazia, in ragione di una competenza specifica nella materia marittima, tale da renderlo elemento insostituibile nello svolgimento delle indagini. Sono state acquisite dalla Commissione le copie delle deleghe di indagini emesse dal magistrati di Reggio Calabria in data 11 dicembre 1995 (di cui si è trattato nella parte prima, capitolo 1, paragrafo 1.10).

Dunque, il capitano De Grazia partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al carabiniere Francaviglia, alla volta di La Spezia, in data 12 dicembre 1995, nel tardo pomeriggio. Secondo quanto emerso dalle indagini, durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995 il capitano venne colto da malore e, quindi, trasportato in ambulanza presso l’ospedale civile di Nocera Inferiore, ove giunse cadavere. Come già evidenziato, il decesso del capitano De Grazia ha coinciso con una fase di rallentamento (e successivamente) di vero e proprio arresto delle indagini che lo stesso stava portando avanti. Dal momento della sua morte in poi vi è stato un progressivo sfaldamento dell’attività investigativa concomitante a quello del pool che fino ad allora aveva profuso impegno ed energie negli accertamenti connessi al traffico di rifiuti radioattivi.

1.2 – Il procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore. A seguito del decesso del capitano De Grazia venne aperto un procedimento dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore, territorialmente competente in relazione al luogo del decesso. Gli atti del procedimento sono stati acquisiti in copia dalla Commissione (doc. 321/1 e 321/2). E’ importante seguire la scansione temporale degli atti procedimentali compiuti nell’ambito della suddetta indagine, per poi entrare nel merito delle risultanze processuali. In sostanza, le indagini si sono articolate in due fasi: 1) la prima fase è consistita essenzialmente nell’espletamento dell’autopsia sul corpo del capitano De Grazia (effettuata per rogatoria dalla procura di Reggio Calabria) nonché nell’acquisizione dell’annotazione redatta dai carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti sul posto e della relazione di servizio redatta dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francavilla nei giorni successivi al decesso. In questa fase non sono stati svolti ulteriori accertamenti né presso il ristorante “Da Mario”, ove il capitano De Grazia cenò per l’ultima volta unitamente ai suoi compagni di viaggio, né presso altri luoghi. E neppure sono state sentite a sommarie informazioni le persone che avevano assistito ai fatti, come il maresciallo Moschitta, il carabiniere Francaviglia, i medici del pronto soccorso, il personale dell’ambulanza e gli appartenenti al nucleo mobile della stazione Carabinieri intervenuti sul posto. Nessuna informazione dettagliata è stata, poi, acquisita formalmente in merito alle indagini che il capitano De Grazia si accingeva a svolgere a La Spezia. Sulla base, dunque, dei risultati dell’autopsia contenuti nella relazione depositata nel marzo 1996 dal medico legale nominato dal pubblico ministero è stata richiesta ed ottenuta l’archiviazione del procedimento. La seconda fase del procedimento è stata avviata un anno dopo, a seguito della istanza di riapertura delle indagini presentata dai congiunti del capitano De Grazia. Seguendo in parte le indicazioni contenute in detta istanza, il pubblico ministero titolare del procedimento (sostituto procuratore Giancarlo Russo) si recò a Reggio Calabria per sentire personalmente a sommarie informazioni il sostituto Francesco Neri, i carabinieri Moschitta e Francaviglia, la signora Vespia e il signor Pontorino (rispettivamente moglie e cognato del capitano De Grazia) ed, infine, il dottor Asmundo (consulente medico legale di parte) e la dottoressa Del Vecchio. Dispose, quindi, una nuova consulenza medico legale, affidandosi allo stesso consulente che aveva espletato la prima, ossia alla dottoressa Simona Del Vecchio, successivamente risentita a sommarie informazioni dal magistrato. Delegò, infine, i Carabinieri per effettuare accertamenti presso il ristorante “Da Mario”. Anche in questa seconda fase delle indagini si è rivelata dirimente, ai fini della successiva archiviazione, la relazione di consulenza tecnica medico legale con la quale si è ribadito che il decesso era riconducibile a cause naturali, non essendo state riscontrate anomalie neanche a seguito degli ulteriori esami tossicologici e istologici effettuati sui tessuti prelevati.

1.3 – Gli atti del procedimento. Si riporta, di seguito, la cronologia degli atti contenuti nel fascicolo aperto dalla procura di Nocera inferiore, utili alla ricostruzione degli eventi e delle indagini che furono compiute:

- alle ore 00:15 del 13 dicembre 1995 la centrale operativa dei Carabinieri ordinò all’aliquota radiomobile della Compagnia di Nocera Inferiore di recarsi presso l’autostrada A/30, un chilometro prima della barriera autostradale di Mercato San Severino (SA), in quanto all’uscita di una galleria vi era un’autovettura con a bordo persona colta da malore. Contestualmente venne allertata l’autoambulanza;

- dall’annotazione di servizio redatta in data 13 dicembre 1995 alle ore 6:30 dai Carabinieri dell’aliquota radiomobile risulta che i Carabinieri e l’autoambulanza arrivarono contemporaneamente sul posto ove trovarono sulla corsia di emergenza, di fianco allo sportello posteriore destro di una Fiat Tipo, un uomo (poi identificato con il capitano De Grazia) posto sul manto stradale, in posizione supina, subito soccorso e trasportato presso l’ospedale di Nocera Inferiore. Giunti presso il nosocomio, i militari appurarono, tramite il sanitario di guardia, dottor Amodio, che il capitano era deceduto durante il tragitto verso l’ospedale (come da referto 2618 del 13 dicembre 1995). Vennero avvisati i familiari. La borsa e gli effetti personali del capitano De Grazia vennero consegnati ad un militare in caserma, mentre la valigetta 24 ore contenente gli atti di cui al procedimento n. 2114/94 R.G.N.R. venne consegnata al maresciallo Moschitta;

- alle ore 11.40 del 13 dicembre 1995, i carabinieri della stazione CC Nocera Inferiore trasmisero un fax alla locale procura della Repubblica, comunicando che alle ore 0.50 era giunto, presso il Pronto soccorso dell’ospedale civile di Nocera Inferiore, il corpo del cap. De Grazia e che il medico di guardia aveva accertato come causa della morte “infarto del miocardio” con conseguente arresto cardio-circolatorio;

- il referto 2618 del 13 dicembre 1995, sottoscritto dal medico di guardia dottor Amodio, risulta acquisito dai CC di Nocera Inferiore: in esso si attesta che il Capitanto giunse cadavere al pronto soccorso (doc. 1245/3);

- venne iscritto, presso la procura circondariale di Reggio Calabria, il procedimento modello 45 (da riferire ad atti non costituenti notizia di reato) avente n. 1611/95;

- sempre in data 13 dicembre 1995 venne rilasciato dal pubblico ministero titolare del procedimento, dottor Giancarlo Russo, il nulla osta al seppellimento, ove venne indicata, quale causa della morte, “infarto miocardico – arresto cardiocircolatorio” e, quale medico legale intervenuto, il dottor Contaldo;

- il giorno seguente, il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, segnalò, con una nota scritta alla procura di Nocera Inferiore, l’opportunità di disporre l’esame autoptico sulla salma del capitano De Grazia;

- a seguito di tale nota, il 15 dicembre 1995 il pubblico ministero di Nocera Inferiore delegò la procura della Repubblica di Reggio Calabria ad effettuare per rogatoria il disseppellimento del cadavere, nel frattempo trasportato a Reggio Calabria, e l’esame autoptico; nella medesima delega, il pubblico ministero Russo segnalò, inoltre, l’opportunità di escutere a sommarie informazioni testimoniali i carabinieri che avevano viaggiato con il capitano e ogni altra persona (familiari, investigatori) in grado di riferire circostanze utili alle indagini “volte a chiarire con certezza la causalità del decesso”;

- nella stessa data il pubblico ministero della procura di Reggio Calabria (dottoressa Apicella) dispose il disseppellimento del cadavere del Cap. De Grazia;

- il 18 dicembre 1995 Anna Maria Vespia (moglie del capitano De Grazia) nominò consulente tecnico di parte il dottor Asmundo, primario presso l’Istituto di medicina legale dell’Università di Messina.

- il 19 dicembre 1995 venne conferito l’incarico alla dottoressa Del Vecchio per effettuare l’autopsia nonché l’esame istologico e chimico tossicologico dei tessuti;

- il 22 dicembre 1995 il comandante del reparto operativo – nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria, Antonino Greco, trasmise al procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, una nota con la quale restituiva le sei deleghe ricevute e non potute evadere in ragione del decesso del capitano De Grazia, allegando la relazione redatta dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia in merito ai fatti occorsi in data 12 e 13 dicembre 1995, nonché la relazione di servizio redatta dal nucleo radiomobile dei carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti sull’autostrada su richiesta del maresciallo Moschitta. Nella nota di trasmissione il comandante Greco specificò che la valigetta che De Grazia aveva a con sé il giorno del decesso, consegnata al maresciallo Moschitta dai carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti, era stata riconsegnata al dottor Neri il giorno 21 dicembre 1995;

- in data 8 gennaio 1996 la nota e le relazioni allegate furono trasmesse via fax dal procuratore Scuderi al sostituto procuratore Giancarlo Russo;

- il 12 marzo 1996 il medico legale, dottoressa Del Vecchio, depositò la relazione di consulenza tecnica: il decesso del capitano venne ricondotto “ad una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa”;

- vennero, quindi, trasmessi gli atti alla procura della Repubblica di Nocera Inferiore;

- il 9 luglio 1996 il sostituto procuratore dottor Russo richiese l’archiviazione, accolta dal Gip il successivo 28 settembre 1996;

- nessuna altra indagine venne svolta in questa fase: in sostanza, l’archiviazione venne chiesta e disposta sulla base della relazione redatta dai carabinieri Moschitta e Francaviglia e dei risultati dell’autopsia, mentre non ebbero seguito le ulteriori (e pur generiche) attività investigative di cui alla delega del pubblico ministero Russo del 15 dicembre 1995;

- In data 8 marzo 1997 i prossimi congiunti del capitano De Grazia chiesero la riapertura delle indagini (allegando la consulenza tecnica di parte, redatta dal dottor Asmundo, che fino a quel momento non risultava essere stata depositata) sulla base di una serie di considerazioni: la necessità di chiarire per quale motivo i due consulenti (quello d’ufficio e quello di parte) fossero giunti a conclusioni diverse; la necessità di sentire altre persone informate sui fatti (parenti, ufficiali di polizia giudiziaria, magistrati) nonché di identificare gli ufficiali del S.I.O.S. della Marina militare con cui De Grazia avrebbe avuto contatti prima a Messina e poi a Roma;

- negli atti trasmessi alla Commissione non vi è traccia del provvedimento di riapertura delle indagini; in ogni caso, dagli stessi si ricava che venne iscritto un procedimento a carico di ignoti (procedimento penale n. 251/97, mod. 44) per il reato di cui all’articolo 575 del codice penale (omicidio);

- in data 1° aprile 1997 il pubblico ministero conferì una delega ai CC per accertamenti in merito al ristorante “da Mario”, ove si fermarono a cenare De Grazia, Moschitta e Francaviglia;

- l’esito delle indagini, per la verità poco produttive perchè disposte a distanza di tempo dai fatti, venne trasmesso in data 8 aprile 1997;

- in data 8 e 9 aprile 1997 vennero sentiti personalmente dal pubblico ministero di Nocera Inferiore le seguenti persone: il maresciallo Moschitta e il maresciallo Rosario Francaviglia, il dottor Neri, Francesco Postorino (cognato di De Grazia), il dottor Asmundo, Anna Maria Vespia (moglie del capitano De Grazia);

- il 23 aprile 1997 il pubblico ministero dottor Russo sentì a chiarimenti la dottoressa Del Vecchio in merito alle osservazioni formulate dal consulente tecnico di parte dottor Asmundo nonché in merito agli ulteriori possibili accertamenti tossicologici;

- in data 12 giugno 1997 il pubblico ministero dispose il disseppellimento del cadavere del capitano De Grazia;

- il 18 giugno 1997 venne conferito nuovo incarico alla dottoressa Del Vecchio al fine di effettuare ulteriori accertamenti chimico-tossicologici;

- in data 11 dicembre 1997 venne depositata la consulenza medico legale e, nello stesso giorno, fu sentita a chiarimenti la dottoressa Del Vecchio;

- in data 28 luglio 1998 venne nuovamente formulata richiesta di archiviazione, accolta dal Gip a quattro anni di distanza con provvedimento consistente nell’apposizione, in calce alla richiesta di archiviazione, di un timbro recante, in luogo della parte motiva del provvedimento, la dicitura prestampata “letti gli atti, condivisa la richiesta del pubblico ministero”. Il timbro reca la sottoscrizione del Gip, dottoressa Raffaella Caccavela e la data di deposito 26 novembre 2002 (doc. 1276/3).

1.4 – Gli elementi emersi nel corso delle indagini. 1.4.1 – La relazione di servizio e le dichiarazioni del maresciallo Moschitta e del carabiniere Francaviglia. I militari che si trovavano con il capitano De Grazia al momento dell’evento redassero una relazione di servizio il 22 dicembre successivo, descrivendo analiticamente il viaggio, le tappe effettuate e le circostanze che accompagnarono il decesso del loro collega. Nell’aprile 1997 gli stessi vennero sentiti a sommarie informazioni dal pubblico ministero Russo. Dalla relazione e dalle loro dichiarazioni risulta quanto segue: i militari partirono da Reggio Calabria alle ore 18.50 del 12 dicembre 1995 a bordo di autovettura di servizio, una Fiat Tipo con targa di copertura, appartenente al reparto operativo del Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria e nel corso del viaggio vennero effettuate quattro soste:

- la prima, presso l’autogrill di Villa San Giovanni, ove scese dal mezzo solo il capitano De Grazia per acquistare delle sigarette;

- la seconda, presso l’autogrill di Cosenza, ove scesero il maresciallo Moschitta e il carabiniere Francaviglia;

- la terza, presso l’autogrill di Lauria, ove venne effettuato rifornimento di carburante (nessuno scese dall’auto);

- la quarta, in località Campagna, dove i militari decisero di fermarsi intorno alle ore 22.30 per recarsi presso il ristorante “Da Mario”. A detta dei militari, quest’ultima tappa non era stata programmata. Dalla relazione di servizio risulta che i tre militari non furono avvicinati da alcuno durante le soste. Nel ristorante, a parte il cameriere e il titolare, c’erano solo altre due persone che stavano per ultimare la loro cena e che, dopo poco, andarono via salutando il titolare del ristorante amichevolmente (in modo tale da potersi dedurre che ci fosse tra loro un rapporto di pregressa conoscenza o familiarità). Secondo il racconto conforme dei due Carabinieri, presso il ristorante mangiarono tutti le stesse cose, a parte una fetta di torta che fu ordinata solo dal capitano De Grazia, bevvero tutti un po’ di vino e del limoncello e intorno alle 23.30 ripresero il viaggio. Alla guida dell’autovettura si pose il Carabiniere Francaviglia, sul sedile lato passeggero si sedette il capitano De Grazia e sui sedili posteriori il maresciallo Moschitta. Il capitano si addormentò e iniziò a russare rumorosamente. Quando giunsero nei pressi del casello autostradale Caserta-Roma, il capitano chinò la testa in modo anomalo (erano le ore 24:00 circa), tanto che gli altri occupanti dell’autovettura cercarono di svegliarlo; quando gli toccarono il volto si resero conto che era freddo e sudato; quindi, superata la galleria in cui si trovavano, si fermarono nella corsia di emergenza. Il maresciallo Moschitta, resosi conto della gravità della situazione, chiamò il 112 affinché venisse inviata un’ambulanza. Rispose un operatore del 112 di Napoli che allertò – alle 00:15- i Carabinieri di Nocera Inferiore (come risulta dall’annotazione di servizio da questi ultimi redatta). Nel frattempo il Carabiniere Francaviglia provò ad effettuare una serie di massaggi cardiaci e la respirazione bocca a bocca, ciò che determinò una parziale fuoriuscita di cibo dallo stomaco del capitano De Grazia. Dopo circa venti minuti dalla chiamata giunse un’autoradio dei carabinieri del nucleo radiomobile di Nocera Inferiore unitamente ad un’ambulanza che trasportò il capitano presso il pronto soccorso dell’ospedale civile di Nocera Inferiore. Dall’annotazione di servizio redatta dai CC di Nocera Inferiore intervenuti sul posto risulta che, non appena giunsero presso il pronto soccorso (circa alle 00:50), vennero informati dal sanitario di guardia, dottor Amodio, che il capitano era deceduto durante il trasporto verso l’ospedale. I militari riferirono tale notizia ai loro superiori. Nell’annotazione si dà atto che vennero informati i familiari del capitano e che la valigetta “24 ore” appartenente al capitano De Grazia fu consegnata al maresciallo Moschitta.

Solo il mattino seguente il corpo venne esaminato tramite visita esterna dal medico legale dell’ospedale, dottor Contaldo, il quale diagnosticò la morte del capitano De Grazia per “infarto miocardico”. Il maresciallo Moschitta ha riferito di aver sottolineato subito l’opportunità di sottoporre il cadavere ad esame autoptico, circostanza che indusse il medico legale ad interpellare il magistrato di turno, dottor Russo. Questi, peraltro, sentito il parere del medico circa la causa naturale della morte, decise di non disporre l’autopsia, concedendo, poche ore più tardi, il nulla osta al seppellimento. In proposito va evidenziato che – secondo quanto invece riferito al pubblico ministero Russo da Francesco Postorino (cognato del capitano De Grazia, intervenuto presso l’ospedale) – né il maresciallo Moschitta né i congiunti stessi del capitano avanzarono richieste affinché fosse disposto l’esame autoptico. Va rilevato che non c’è nessuna testimonianza in ordine a ciò che accadde dal momento dell’arrivo al pronto soccorso fino al mattino successivo, allorquando giunse il medico legale. Si riporta, di seguito, la relazione di servizio citata, redatta il 22 dicembre 1995, firmata dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia e vistata dal comandante del Nucleo operativo A. Greco (doc. 319/1).

1.4.2 – La decisione di procedere all’accertamento autoptico. L’incarico al medico legale dottoressa Del Vecchio

Come detto, della morte del capitano fu informato anche il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, il quale, venuto a conoscenza del fatto che il pubblico ministero di Nocera Inferiore aveva dato il nulla osta al seppellimento, inviò, in data 14 dicembre 1995, una nota alla procura della Repubblica di Nocera Inferiore sottolineando l’opportunità di far eseguire l’esame autoptico sulla salma, al fine di sgomberare il campo da ogni sospetto circa le cause della morte. Il procuratore Scuderi motivava la richiesta in ragione delle delicate e complesse indagini che stava seguendo il capitano De Grazia tendenti ad accertare se dietro il naufragio di vecchie navi si celassero episodi di illecito smaltimento di rifiuti radioattivi. Sottolineava, in particolare, “l’enorme rilevanza degli interessi in gioco, l’accertato coinvolgimento di governi, istituzioni, personalità influenti nel campo politico ed economico, il fatto che in passato le attività degli inquirenti hanno registrato inquietanti presenze (pedinamenti) sulle quali ai distanza di mesi, per quanto a conoscenza di questo ufficio, non si è fatta luce, la circostanza che l’attività di indagine che il cap. De Grazia si accingeva a svolgere poteva essere decisiva per l’individuazione di fatti–reato e responsabilità, le gravi conseguenze che sul piano investigativo provocherà il venir meno del contributo della elevatissima professionalità del succitato ufficiale” (doc. 681/87). Dunque, i primi sospetti circa un eventuale collegamento tra la morte del capitano e le indagini che lo stesso stava portando avanti furono sollevati proprio dai titolari dell’indagine sulle “navi a perdere”. La richiesta del procuratore Scuderi venne recepita dal pubblico ministero Russo il quale, il giorno successivo, delegò la procura della Repubblica di Reggio Calabria affinché venisse disposto il disseppellimento del cadavere (nel frattempo trasportato a Reggio Calabria) ed espletato l’esame autoptico; nella delega il pubblico ministero segnalò, inoltre, l’opportunità di escutere a sommarie informazioni testimoniali i carabinieri che accompagnavano il capitano e ogni altra persona (familiari, investigatori) in grado di riferire circostanze utili alle indagini “volte a chiarire con certezza la causalità del decesso”. L’autorità giudiziaria delegata (nella persona del pubblico ministero presso il tribunale di Reggio Calabria, dottoressa Apicella) dispose, quindi, il disseppellimento del cadavere che avvenne lo stesso 15 dicembre 1995, alla presenza del sanitario di polizia mortuaria dell’USL 11, nonché del maresciallo Domenico Scimone atteso che la dottoressa Apicella aveva delegato per il controllo della regolarità delle operazioni proprio gli Ufficiali della sezione di polizia giudiziaria dei CC della procura presso il tribunale di Reggio Calabria, sezione alla quale apparteneva appunto il maresciallo Scimone. L’incarico di eseguire l’autopsia e gli esami tossicologici venne affidato alla dottoressa Simona Del Vecchio (in proposito, il dottor Russo, sentito da questa Commissione in data 22 febbraio 2011, ha precisato che era stata la dottoressa Apicella, pubblico ministero presso il tribunale di Reggio Calabria, a scegliere la dottoressa Del Vecchio quale consulente). Anche i familiari del capitano nominarono un consulente medico legale (il dottor Alessio Asmundo). La scelta del dottor Asmundo avvenne su indicazione del dottor Neri, al quale la famiglia di De Grazia aveva chiesto consiglio. Il dottor Neri, sentito su questa circostanza nell’aprile 1997 dal PM Russo, ha dichiarato: “Effettivamente i familiari del capitano De Grazia mi chiesero a chi avrebbero potuto rivolgersi per una consulenza medico-legale di parte ed io indicai che noi di solito ci rivolgevamo all’Istituto di medicina legale di Messina presso il prof. Aragona o il professor Asmundo, periti di ottima preparazione”. Va evidenziato che le indagini preliminari si sostanziarono, in questa fase, esclusivamente nel conferimento dell’incarico di consulenza tecnica per l’espletamento dell’autopsia e nell’acquisizione della relazione di servizio redatta dai carabinieri Moschitta e Francaviglia. Il 19 dicembre 1995 la dottoressa Apicella, pubblico ministero presso la procura di Reggio Calabria, conferì incarico di consulenza tecnica alla dottoressa Del Vecchio in merito ai seguenti quesiti:

- accerti il consulente, previo esame autoptico della salma del capitano De Grazia la natura, le modalità e i mezzi che ne hanno cagionato il decesso;

- accerti, mediante esame istologico e chimico-tossicologico, l’eventuale presenza di sostanze tossiche o con analoghe caratteristiche, che abbiano cagionato il decesso di cui sopra. Le operazioni di consulenza si svolsero presso la camera mortuaria dell’ospedale di Reggio Calabria, alla presenza del dottor Asmundo. La dottoressa Del Vecchio, nella sua relazione depositata il 12 marzo 1996, concluse nel senso che la morte del capitano De Grazia doveva ricondursi alla cosiddetta “morte improvvisa dell’adulto, che trova origine per lo più in un’ischemia del miocardio con successive gravi turbe del ritmo cardiaco, che si manifestano anche in assenza di segni premonitori e che, dal punto di vista anatomopatologico, addirittura nella metà dei casi circa, sono caratterizzati dall’assenza di segni specifici, non solo macroscopici, ma anche microscopici e ultramicroscopici”. La morte improvvisa viene definita nella relazione come un evento repentino e inatteso caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o, almeno, di assenza di sintomi, alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore. La causa scatenante può essere determinata (oltre che da uno sforzo fisico) anche da una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità (come nel caso del capitano De Grazia) che possono determinare una condizione di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca.

1.4.3 – La relazione del consulente di parte. Differenze rispetto alla relazione del consulente del pubblico ministero

La consulenza tecnica del 18 giugno 1996 redatta dal dottor Alessio Asmundo contiene conclusioni analoghe a quelle della dottoressa De Vecchio per quanto concerne l’individuazione della natura cardiaca della morte. Se ne differenzia, invece, quanto alla descrizione dei reperti obiettivi:

- il consulente d’ufficio aveva descritto “un cuore di forma normale e volume diminuito”, mentre il consulente tecnico di parte lo descrive come un cuore leggermente globoso, con punta formata dal ventricolo sinistro e maggiore prevalenza del destro rispetto alla norma;

- il consulente d’ufficio aveva descritto “il tessuto adiposo sottoepicardico molto rappresentato con colorito grigiastro ed aspetto translucido…… il tessuto adiposo si approfondisce a tratti financo nei piani muscolari; il consulente tecnico di parte definisce, invece, il tessuto adiposo subepicardico quantitativamente e qualitativamente normo-rappresentato;

- il consulente d’ufficio aveva evidenziato un’evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro, che presentano ispessimento sia avventiziale che intimale, con lumi ristretti; mentre il consulente tecnico di parte afferma che le coronarie sono apparse esenti da alterazioni di natura aterosclerotica. In merito poi alle cause della morte, il consulente tecnico di parte conclude nel senso che “la morte di De Grazia Natale rappresenta caratteristico accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardica acuta da miocitosi coagulativa da superlavoro in soggetto affetto da cardiomiopatia dilatativa”. Il dottor Asmundo è stato sentito a sommarie informazioni dal pubblico ministero dottor Russo al fine di fornire chiarimenti in merito alla sua relazione ed, in tale occasione, ha sostenuto che:

- il capitano De Grazia era morto per una causa patologica naturale essendo affetto da cardiomiopatia dilatativa da catecolamine;

- non condivideva quanto sostenuto dalla dottoressa Del Vecchio in merito al volume del cuore ed all’eccesso di grasso, non avendo riscontrato tali anomalie;

- si era trattato, quindi, di una morte improvvisa da causa cardiaca, che però il consulente tecnico d’ufficio ricollegava ad un meccanismo patogenetico diverso, connesso a problemi di trasmissione dell’impulso cardiaco. Il dottor Asmundo, pur non avendo partecipato agli esami tossicologici per non essere stato avvisato, a suo dire, dalla collega, ha però affermato che erano stati effettuati tutti gli accertamenti tossicologici in merito all’eventuale ingestione di sostanze venefiche.

1.4.4 – Gli ulteriori accertamenti disposti su richiesta dei familiari del capitano De Grazia. A seguito del deposito della relazione da parte del consulente tecnico di parte, i familiari della vittima depositarono – nel marzo 1997 – una richiesta di riapertura indagini. In sostanza, lamentavano le carenze investigative dell’inchiesta svolta, non essendo state ascoltate le persone che avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sulle circostanze particolari del decesso (ad esempio i carabinieri che viaggiavano con il capitano De Grazia, il dottor Neri, il maresciallo Scimone) e non essendo stato effettuato alcun accertamento in merito al ristorante ove il capitano aveva presumibilmente mangiato il 12 gennaio 1995. Vennero, quindi, effettuati gli ulteriori approfondimenti richiesti a distanza di un anno e mezzo dai fatti. Si accertò che effettivamente in località Campagna era attivo (anche all’epoca dei fatti) il ristorante “Da Mario”, gestito dal titolare Desiderio D’Ambrosio, dalla madre Antonina Adelizzi e dalla convivente Antonina D’Elia, tutti esenti da pregiudizi penali. Si accertò che la conduzione era di tipo familiare e che i titolari si avvalevano di personale esterno solo in occasione di banchetti o cerimonie. Deve, peraltro, rilevarsi che non furono mai sentiti i gestori del ristorante né fu mai effettuato un sopralluogo. Vennero, invece, sentiti a sommarie informazioni i congiunti del capitano De Grazia, il consulente tecnico di parte dottor Asmundo, il sostituto procuratore dottor Neri e i carabinieri Moschitta e Francaviglia, ma non il maresciallo Scimone. Per primo, in data 8 aprile 1997 venne sentito Postorino Francesco, cognato del capitano De Grazia, il quale, oltre a riferire in merito alle preoccupazioni che il capitano aveva per la sua incolumità in relazione alle indagini che stava svolgendo (preoccupazioni che aveva confidato al cognato), parlò dei sospetti che il capitano nutriva sul maresciallo Scimone. Il signor Postorino si espresse in questi termini: “Posso dirle che mio cognato mi ha riferito in qualche occasione di un comportamento strano del maresciallo Scimone del nucleo operativo dei carabinieri di Reggio il quale faceva parte dello stesso gruppo investigativo coordinato dal dottor Neri. In particolare si riferì ad una strana condotta del maresciallo Scimone durante una certa perquisizione o un sopralluogo in Roma o nelle vicinanze senza però chiarirmi altro. Mi disse che in quella occasione la persona che si trovava in casa gli riferiva di essere amico di ammiragli e persone influenti, senza però chiarirmi altro. Qualche giorno prima della morte, sicuramente tra il giorno dell’Immacolata ed il 12 dicembre mi confessò in modo esplicito di essersi accorto che un suo collaboratore nelle indagini passava informazioni riservate ai servizi segreti deviati. Quando sulla base di quei sospetti da lui esplicitati in precedenza io gli feci il nome del maresciallo Scimone lui mi confermò facendo un cenno di assenso. Oltre questo non mi ha mai detto nient’altro che possa essere utile alle indagini. ADR: mio cognato mi ha anche ritento in più di una occasione di aver subito pressioni ma non ha specificato da parte di chi, so soltanto che una volta mi disse che se voleva poteva essere già ammiraglio. Presumo pertanto che lui facesse riferimento a pressioni che in qualche modo riceveva per le indagini che andava svolgendo da ambienti interni alla Marina o ad altri organismi statali (…) ricordo che mio cognato mi riferì, dopo l’inizio della sua partecipazione alle indagini, che era stato chiamato presso lo Stato maggiore della Marina a Roma per riferire sulle indagini. All’inizio delle indagini mi disse che doveva andare a Messina per incontrarsi con una persona dei servizi segreti della Marina, come da sua richiesta, proprio in relazione alle indagini che avrebbe compiuto”. In data 8 aprile 1997 venne sentita anche la moglie del capitano De Grazia, Anna Maria Vespia. La stessa riferì, in sintesi:

- che era a conoscenza delle delicate indagini condotte dal marito sui rifiuti radioattivi, per le quali lo stesso appariva pensieroso e preoccupato;

- che il marito non le aveva mai riferito di aver ricevuto minacce, seppur le aveva fatto capire la delicatezza delle indagini;

- che le sembrava strano il fatto che i carabinieri che accompagnavano il marito, invece di portarlo subito in ospedale, si fossero fermati sulla strada in attesa dei soccorsi;

- che il marito aveva posticipato la partenza per La Spezia di un giorno in quanto lei aveva la febbre;

- che nutriva dei dubbi sulla “causa naturale” della morte del marito, il quale aveva sempre goduto di ottima salute e si sottoponeva, come membro della Marina, ad analisi periodiche (ogni due anni);

- che il maresciallo Moschitta si era contraddetto in quanto da un lato le aveva parlato dei rapporti informali ed amichevoli che lo legavano a suo marito, dall’altro aveva scritto nella relazione di aver fatto accomodare suo marito sul sedile anteriore dell’autovettura per una questione di rispetto;

- che il marito era solito addormentarsi dopo i pasti ed amava mangiare con tranquillità. Il 9 aprile 1997 venne sentito dal pubblico ministero Russo il maresciallo Moschitta. Dal verbale risulta che l’escussione si svolse presso la procura di Reggio Calabria alla sola presenza del magistrato. Moschitta confermò la relazione fatta a suo tempo. Aggiunse che la cena presso il ristorante “Da Mario” non era stata programmata e che era stato proprio il capitano De Grazia a proporre di mangiare con calma e non fugacemente presso un autogrill. Per questo Moschitta aveva proposto di cenare in quel ristorante, presso il quale aveva pranzato già altre volte. Il ristoratore, al termine della cena, aveva rilasciato regolare ricevuta fiscale. Il maresciallo Moschitta precisò che “L’unico cibo che fu ingerito dal capitano De Grazia e non da noi fu un pezzettino di torta, una specie di crostata, che era su un carrello esposto nella sala e che lui stesso richiese e scelse spontaneamente.” Con riferimento al momento in cui lui e il carabiniere Francaviglia si accorsero che il capitano russava in modo insolito e che era freddo e sudato, il maresciallo Moschitta disse al dottor Russo: “All’altezza del casello, credo di Mercato San Severino, la testa si è di nuovo abbassata sulla sinistra, io gli ho dato la solita pacca ma mi sono accorto che era freddo e sudato, mentre Francaviglia trovava lo scontrino. Mi sono allarmato dicendo al Francaviglia che non mi rispondeva. Abbiamo subito capito a quel punto che avesse avuto un malore ed ho detto a Francaviglia di superare la galleria fermarsi subito dopo per prestare i soccorsi del caso, anche perché non conoscevamo i luoghi. Telefonai subito col mio cellullare al 112 e chiesi soccorso immediatamente. Lo abbiamo tirato fuori dall’auto e lo abbiamo disteso per terra prima col dorso a terra, allorché Francaviglia ha tentato di rianimarlo con una respirazione bocca a bocca. Per effetto di questa operazione vedevamo ritornare fuori l’aria e notavamo per ciò un movimento delle labbra che a noi profani sembrò un sintomo di vitalità, il che ci spinse a continuare nella respirazione, notando tra l’altro un rigurgito del cibo ingerito in precedenza. A quel punto lo abbiamo preso e curvato sul guardrail cercando di farlo vomitare pensando che vi fosse una ostruzione alle vie respiratorie a causa del cibo rigurgitato ma il capitano non ha dato segni di vita. Nel frattempo infuriava un temporale con una forte pioggia. E’ arrivata dopo circa 20 minuti l’autoambulanza e l’abbiamo seguita all’ospedale. Ricordo che all’ospedale un infermiere uscendo dalla sala di rianimazione disse che era morto sul colpo per un infarto fulminante. Credo che le escoriazioni sul petto siano state causate dal fatto che lo avevamo messo riverso sul guardarail cercando di trattenerlo ovviamente”. Riguardo alle indagini che stava svolgendo insieme al capitano De Grazia, il maresciallo Moschitta asserì che, pur non avendo (né lui né il capitano) mai ricevuto minacce, tuttavia, sin dall’inizio delle indagini, avevano avuto la sensazione di essere controllati; in particolare avevano notato pedinamenti o strani episodi che li avevano allarmati, spingendoli ad adottare sempre maggiori cautele (su questo si è ampiamente trattato nel capitolo 2 della parte prima). Aggiunse che il capitano gli aveva fatto capire di avere incontrato “difficoltà di movimento all’interno della Capitaneria di Reggio”, in quanto “i superiori non vedevano di buon occhio questa indagine, capiva dunque di non essere appoggiato dalla gerarchia e di dover in sostanza lottare su due fronti”. Immediatamente dopo l’escussione del maresciallo Moschitta (il 9.4.97 alle ore 12:22), il pubblico ministero Russo sentì il Carabiniere Francaviglia. Le dichiarazioni di quest’ultimo combaciano con quella rese dal collega. Lo stesso giorno venne sentito dal pubblico ministero Russo anche il sostituto procuratore Francesco Neri. Il dottor Neri espose in breve l’oggetto delle indagini di cui al procedimento penale n. 2114/94 RGNR, nelle quali era impegnato il De Grazia. Ha, poi, dichiarato: “Unitamente al collega Pace della procura circondariale di Matera comunicammo al capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell’ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiese al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. A dire il vero il Servizio molto correttamente mi trasmise degli atti tramite la polizia giudiziaria. In particolare il passaggio degli atti avvenne tramite il maresciallo Scimone appositamente delegato a ciò da me. Il maresciallo Scimone faceva parte del gruppo investigativo da me diretto e teneva i contatti con il Sismi. Il capitano De Grazia era a conoscenza di ciò, cioè sapeva dei contatti istituzionali di Scimone con il Sismi per la acquisizione delle notizie che chiedevamo. Ogni attività di rapporto con il Sismi è formalizzata in specifici atti reperibili nel processo. (…) II capitano De Grazia era ovviamente molto preoccupato per le indagini come tutti noi, in considerazione della enormità e particolarità delle vicende che emergevano e per le persone ed istituzioni coinvolti a livello internazionale. A parte gli episodi a cui ho fatto cenno in precedenza e di cui alle relazioni predette il capitano non mi ha mai parlato di altre minacce esplicite o intimidazioni fatte personalmente a lui. Lui era preoccupato molto dell’episodio accaduto a Roma nel corso della perquisizione al Viccica. A volte per scherzare e sdrammatizzare mi diceva che comunque prima avrebbero ammazzato me e poi forse lui, senza con ciò smorzare il suo ammirevole ed encomiabile sforzo per le indagini che lo ha distinto fino alla fine.” Questa è stata, dunque, l’attività integrativa svolta dal pubblico ministero con riferimento all’acquisizione di informazioni. Con riferimento, poi, all’aspetto medico legale, le differenze tra le due relazioni depositate, poste in luce dai familiari del capitano De Grazia nella richiesta di riapertura delle indagini, spinsero il pubblico ministero Russo, dapprima, a sentire li consulenti tecnici a chiarimenti e, successivamente, a conferire alla dottoressa Del Vecchio ulteriore incarico, previa riesumazione del cadavere. Dunque, il 23 aprile 1997, la dottoressa Del Vecchio precisò al pubblico ministero che le sue valutazioni conclusive finali coincidevano con quelle espresse dal consulente di parte dottor Asmundo e che, in ogni caso, le valutazioni parzialmente diverse su aspetti anatomoistopatologici non avevano influito minimamente sulla diagnosi causale della morte. La dottoressa chiarì, poi, che gli accertamenti tossicologici già effettuati avevano escluso la presenza di sostanze tossiche e stupefacenti, in particolare l’alcool, gli oppiacei, la cocaina, i barbiturici, le benzodiazepine, le anfetamine, i cannabinoidi e tutte le altre T.L.C, evidenziando che il materiale prelevato per tali accertamenti (bile e sangue) non era in quantitativo tale da rendere possibile una ripetizione di queste analisi, mentre avrebbero potuto essere effettuate analisi tossicologiche più mirate mediante prelievo di capelli, ossa, quote parte di organi di accumulo “per verificare fino in fondo per quanto possibile l’esistenza di eventuali sostanza tossiche e velenose diverse, in particolare la ricerca potrebbe riguardare i veleni metallici”. Le illustrate nuove indagini medico legali furono, pertanto, oggetto del secondo incarico affidato alla dottoressa del Vecchio da parte del pubblico ministero Russo, il quale, in data18 giugno 1997, le pose i seguenti quesiti: “ad integrazione ed approfondimento della consulenza medico-legale già espletata con riferimento al decesso del cap. De Grazia Natale, esegua il CT ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e velenose, nonché approfondisca, con l’allestimento di ulteriori preparati, l’aspetto istologico. Accerti ed approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini volte a verificare la causa del decesso, anche tenendo conto di quanto emerge dagli atti e dalla consulenza di parte depositata”. La dottoressa Del Vecchio, in questa occasione, si avvalse della collaborazione di consulenti tecnici chimici nelle persone del prof. Enrico Cardarelli, della facoltà di Scienze matematiche fisiche e nucleari dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, e della dottoressa Luisa Costamagna, dell’Istituto di medicina legale e delle assicurazioni della medesima Università. Gli ulteriori accertamenti svolti non portarono, peraltro, a risultati diversi da quelli già acquisiti. Nella seconda relazione depositata il consulente ha evidenziato che gli ulteriori esami chimici hanno escluso la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati. La ricerca era stata condotta con particolare riferimento alle sostanze che possono portare alla morte in tempi brevi con sintomatologie quali quelle descritte (ipnotici, farmaci cardiaci, depressori del sistema nervoso centrale, cianuri). E’ stata inoltre effettuata una ricerca di arsenico nei capelli e nel fegato e la ricerca è risultata negativa. Il mancato rilevamento di tracce di alcool etilico nel sangue (sebbene, secondo quanto dichiarato dai testi, il capitano avesse bevuto un bicchiere di vino e del limoncello) era giustificabile, a detta del consulente, per il fatto che il decesso era avvenuto a poco più di un’ora dall’ingestione dei cibi, e quindi l’alcool non aveva avuto il tempo sufficiente per entrare in circolo e, peraltro, risulta che il capitano De Grazia avesse rigurgitato parte del cibo durante le manovre di rianimazione messe in atto dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia. La dottoressa Del Vecchio, in data 11 dicembre 1997, venne nuovamente sentita a chiarimenti dal dottor Russo, in occasione del deposito della relazione relativa al secondo esame autoptico effettuato (cfr. il prossimo par. 3.2).

1.4.5 – I provvedimenti di archiviazione. Il procedimento avviato in merito alla morte del capitano De Grazia si è concluso, nella prima fase, con un provvedimento di archiviazione emesso il 28 settembre 1996, su richiesta del pubblico ministero del 9 marzo 1996, e basato sui risultati della prima autopsia che riconduceva il decesso ad un evento naturale. (doc. 1276/2). La seconda fase si è conclusa un provvedimento di archiviazione emesso il 26 novembre 2002 dal Gip dottoressa Raffaella Caccavela su richiesta del pubblico ministero formulata nel luglio 1998 sulla base delle seguenti considerazioni (doc. 1276/3):

- il decesso del capitano De Grazia era da ricondurre, secondo quanto accertato dalla consulenza medico legale e autoptica, ad un evento naturale del tipo “morte improvvisa dell’adulto”;

- gli ulteriori esami chimici disposti a seguito della riesumazione della salma avevano escluso la presenza di sostanze tossiche di natura esogena;

- la presunta incompatibilità tra il dato laboratoristico relativo alla negatività per la presenza di alcool etilico nel sangue e la circostanza (acquisita sulla base delle testimonianze assunte) della assunzione di vino e limoncello, appariva spiegata dalle considerazioni medico-legali evidenziate nel verbale di sit dell’undici dicembre 1997.

2 – GLI ELEMENTI ACQUISITI DALLA COMMISSIONE. La Commissione ha approfondito la vicenda relativa alla morte del capitano De Grazia sia attraverso l’acquisizione di copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore sia attraverso numerose audizioni. Sono stati, in particolare, ascoltati:

- i magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Francesco Greco che si occuparono delle inchieste sulle navi a perdere;

- il magistrato che condusse le indagini sulla morte del capitano, Giancarlo Russo;

- il cognato del capitano, signor Postorino Francesco;

- il maresciallo Niccolò Moschitta, il carabiniere Rosario Francaviglia, il maresciallo Domenico Scimone, facenti parte, unitamente al capitano, del gruppo investigativo creato dal dottor Neri;

- i carabinieri Angelantonio Caiazza e Sandro Totaro, appartenenti al nucelo mobile della Stazione CC di Nocera inferiore, intervenuti al momento del decesso del capitano.

Sono stati anche ascoltati:

- l’ex colonnello del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Rino Martini;

- il brigadiere del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Gianni De Podestà;

- il vice ispettore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi;

- l’ex collaboratore di giustizia, Francesco Fonti

- il comandante in seconda, ufficiale presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Giuseppe Bellantone.

Si è, poi, ritenuto, di approfondire anche l’aspetto medico legale, sia attraverso l’audizione dei medici che, all’epoca delle indagini, eseguirono gli accertamenti autoptici (dottoressa Del Vecchio e dottor Asmundo) sia affidando al prof. dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata” nonchè consulente della Commissione), l’incarico di valutare gli accertamenti medico legali compiuti dai predetti consulenti, al fine di acquisire un parere tecnico anche sotto questo profilo.

2.1 – Le dichiarazioni rese alla Commissione dal maresciallo Domenico Scimone. In data 18 gennaio 2011 è stato audito dalla Commissione il maresciallo Domenico Scimone. Lo stesso, dopo aver specificato di aver preso parte attivamente alle indagini condotte dal sostituto Neri, fin dal loro inizio, insieme al capitano De Grazia, ha parlato anche dei rapporti con quest’ultimo, definendolo amico d’infanzia e compagno di regate. In merito al giorno della morte del capitano, ha dichiarato: “Il giorno della morte di De Grazia che è la cosa più grave ci eravamo visti di mattina, alle 9.00, con De Grazia e Moschitta. Il programma era il seguente: io dovevo andare a La Spezia con Moschitta per acquisire documentazione presso la dogana, De Grazia con la mia macchina della sezione della polizia giudiziaria insieme al mio autista avrebbe dovuto recarsi a Crotone per sentire il signor Cannavale, quello che ha demolito la nave Jolly Rosso. Si doveva quindi occupare della ricostruzione della Jolly Rosso, mettendo a verbale le dichiarazioni di questo signore.

Alle 10.30-11.00 mi telefona De Grazia dicendomi che visto che si trattava di un atto di polizia giudiziaria in cui non era ferrato come me che ne facevo tutti i giorni, preferiva andare con Moschitta perché avendo navigato per tanti anni sapeva dove mettere le mani nelle dogane e leggere le polizze di carico. Ho risposto che non c’erano problemi: lui sarebbe andato a La Spezia mentre io mi sarei recato a Crotone. Intendevo partire verso le cinque del mattino per andare verso Crotone, mentre non so per quale motivo De Grazia decise di partire quella sera, nonostante avessi consigliato loro di partire presto la mattina seguente, arrivando con calma, senza partire di notte. Avevano però ribattuto che tanto avrebbe guidato l’autista, che si sarebbe riposato dopo mentre loro visionavano gli atti. Alle 19.00 ho sentito Moschitta: mi ha detto che stavano partendo e che era tutto a posto. La mattina alle 5.00 sono partito per Crotone. Mentre stavo mettendo a verbale, verso le 8.30-9.00, mi ha chiamato un collega della sezione di polizia giudiziaria di cui facevo parte, che mi chiede: «che è successo a De Grazia, è morto?». Ho pensato a un incidente stradale e ho subito chiamato al telefono. Quando mi ha risposto Moschitta ho sperato che fosse un’invenzione. Ho chiesto se De Grazia fosse morto e lui mi ha chiesto chi me lo avesse detto e mi raccomandò di non preoccuparmi. Continuai quel verbale nonostante ciò e, finito il verbale verso le 19.00, partimmo con la macchina e scoppiò una gomma, per cui alle 19.30 feci aprire un garage per aggiustarla. Partiti da Crotone e arrivati all’autostrada di Lamezia Terme, mi vidi passare davanti il carro funebre e dietro l’autovettura Ritmo del reparto operativo. Avendo riconosciuto la macchina, mi sono messo dietro e siamo andati ad accompagnarlo fino a casa. Questa è la realtà dei fatti. Nessuno poteva conoscere il programma di De Grazia: ha deciso lui quando partire, dove fermarsi a mangiare, per cui non c’è un mistero: è morto, su questo ci sono dubbi, quale sia la causa della morte non lo so perché ho assistito anche all’autopsia effettuata a Reggio Calabria e per un attimo quando hanno aperto la bara non era lui, poi mi sono reso conto che era lui. Questa è la realtà dei fatti.”

Riguardo alla partecipazione del maresciallo Scimone alle operazioni autoptiche, è stato già evidenziato che lo stesso era stato autorizzato a presenziare alle operazioni di disseppellimento dal pubblico ministero dottoressa Apicella.

Tuttavia il maresciallo Scimone ha dichiarato alla Commissione di aver partecipato proprio all’autopsia, che sarebbe stata effettuata dal dottor Aldo Barbaro: “l’autopsia non è stata in grado di stabilire nemmeno la causa della morte. (…) è stata fatta a Reggio Calabria dal dottor Aldo Barbaro. (…) Quando poi la salma è arrivata a Reggio Calabria l’ho portata io in camera mortuaria e ho assistito all’autopsia del dottor Aldo Barbaro”. Tuttavia, da nessun atto processuale emerge che il dottor Barbaro abbia partecipato alle operazioni autoptiche, effettuate solo dalla dottoressa Del Vecchio e dal consulente di parte dottor Asmundo. Le dichiarazioni del maresciallo Scimone destano qualche perplessità sotto vari profili. In primo luogo, come detto, il maresciallo Scimone è l’unico che ha riferito in merito al cambio di programma, avvenuto – a suo dire – all’ultimo minuto, per cui il capitano De Grazia decise solo la mattina del 12 dicembre di non andare più a Crotone, ma di recarsi a La Spezia. Nessun’altro tra gli inquirenti ha, infatti, accennato a tale circostanza, che peraltro sembrerebbe smentita dalle dichiarazioni della moglie del capitano, Anna Maria Vespia. Ulteriore motivo di perplessità riguarda l’indicazione del dottor Barbaro quale medico legale che avrebbe effettuato l’autopsia, dato che contrasta con le emergenze processuali e con gli esiti degli ulteriori approfondimenti effettuati dalla Commissione.

2.2 – Le dichiarazioni del maresciallo Moschitta. Il maresciallo Niccolò Moschitta è stato audito dalla Commissione in due diverse occasioni. La prima, in data 11 marzo 2010 e la seconda in data 2010. Nel corso della prima audizione, lo stesso Moschitta ha fornito indicazioni in merito al motivo della missione a La Spezia, affermando: “Stavamo andando a La Spezia ad acquisire la documentazione in merito alla Rigel, la nave affondata a capo Spartivento. Tale documentazione era di interesse perché il processo di La Spezia aveva sancito che sul trasporto di quella nave erano state pagate dazioni ed era stato coinvolto personale della dogana e della Rigel circa il carico. Era necessario e importante avere con noi questi documenti per poi proseguire, se non erro, per Como o per un’altra destinazione per sentire altri eventuali testimoni, con tanto di delega del magistrato”. Quanto alle circostanze specifiche del decesso del capitano De Grazia, il maresciallo Moschitta, ha rappresentato quanto segue: “Partiamo poco dopo le 19 con la macchina di servizio, con alla guida il carabiniere. Io ero seduto davanti e il capitano dietro. Ci siamo fermati 2 o 3 volte per fare benzina, per prenderci qualcosa, neanche il caffè. Erano soste di servizio senza alcun problema, fino ad arrivare nella zona prima di Salerno. Ormai era tardi, intorno alle 22.30, quando Natale ci propose di fermarci per mangiare. Gli dissi che più avanti c’era l’autogrill di Salerno; avremmo potuto fermarci là, eventualmente mangiare un pasto leggero e proseguire. De Grazia insistette che voleva mangiare, che aveva fame. Eravamo proprio presso lo svincolo di Campagna. In passato, insieme a molti altri colleghi, mi sono occupato anche di Tangentopoli a Reggio Calabria, quindi mi è capitato di recarmi spesso a Roma presso i differenti ministeri ad acquisire documenti. Arrivati verso Campagna, gli indicai che c’era un ristorante a due passi (…) Lui si è seduto davanti in macchina. Erano più o meno le 23.30 e abbiamo cominciato a dirigerci verso Salerno. Volle sedersi davanti perché voleva distendere le gambe e cercare di dormire un po’. Allora io mi misi dietro. Cercavo di dare da parlare il più possibile all’autista perché con lo stomaco pieno temevo potesse venirgli un colpo di sonno. A un certo punto, il capitano cominciò a russare, almeno a me sembrò che russasse. Invece poi scoprii che erano rantoli. Gli sistemai la testa e ripresi a parlare con l’autista. Quando siamo arrivati al casello di Salerno, il capitano abbassò di nuovo la testa, ma siamo andati avanti. Alla prima galleria illuminata, lo toccai ed era sudato freddo. Dissi al collega di guardarlo in faccia, visto che era davanti, perché era sudato freddo e non mi rispondeva; lo volevo svegliare. Lui mi rispose che aveva gli occhi storti. Gli dissi di fermarsi alla prima piazzola non appena usciti dalla galleria; poi, in realtà, ci fermammo sulla corsia di emergenza perché non c’era piazzola. Nel frattempo, si scatenò un temporale incredibile e si mise a piovere”. Le altre dichiarazioni rese dal Moschitta alla Commissione hanno riguardato prevalentemente gli elementi raccolti nel corso dell’indagine sulle navi a perdere, compediati nell’informativa finale dallo stesso redatta e depositata nell’ottobre 1996 (v. allegato). 2.3 – Le dichiarazioni del carabiniere Rosario Francaviglia. La Commissione ha ritenuto di dover ascoltare anche il carabiniere Francaviglia, il quale, pur avendo preso parte alle indagini e alla missione durante la quale perse la vita il capitano De Grazia, fu ascoltato in un’unica occasione dal dottor Russo, rendendo dichiarazioni sostanzialmente identiche a quelle del suo collega Moschitta e verbalizzate nello stesso modo. Nel corso dell’audizione avanti alla Commissione, avvenuta in data 1° agosto 2012, il carabiniere Francaviglia ha aggiunto alcuni elementi utili a ricostruire più nel dettaglio i drammatici momenti in cui si accorse, unitamente al maresciallo Moschitta, che il capitano De Grazia non stava bene. Si riportano i passaggi dell’audizione di maggiore interesse: “Quando sono arrivato nei pressi dell’autostrada, al casello autostradale per Salerno, forse nei pressi di Nocera (ma non ricordo bene), il maresciallo Moschitta si è accorto che il capitano aveva fatto un movimento strano con la testa e lo ha chiamato; non ha ottenuto risposta e lo ha toccato in viso per cercare di svegliarlo mentre io, nel frattempo, ripartivo. A quel punto il maresciallo mi ha detto che qualcosa non andava perché il capitano non rispondeva; mi sono girato, l’ho guardato negli occhi e ho visto che aveva lo sguardo assente. Spento (…) Lo sguardo non c’era, non era vivo (…) Si era addormentato prima, quando siamo partiti. Durante il tragitto, ogni tanto si sentiva brontolare, cioè russare, a seconda di com’era seduto. Poco prima di fermarci, ho notato che si era come aggiustato nel sedile, ma non abbiamo notato nulla di strano; quando sono ripartito dai caselli ed ero arrivato quasi sotto la galleria, il maresciallo mi ha avvertito che Natale non stava bene ed era sudato. Mi sono girato per guardarlo in viso e siccome era rivolto verso di me, ho visto che aveva gli occhi semichiusi, ma lo sguardo non era quello di una persona viva; non so come altro spiegarlo. L’ho guardato e c’era qualcosa che non andava; chiaramente, siamo usciti dalla galleria e ci siamo fermati; abbiamo cercato di fare qualcosa, convinti che stesse male ma che la situazione non fosse così drammatica. Lo abbiamo tirato fuori dalla macchina e gli ho praticato massaggio cardiaco e respirazione.(…) La cosa strana, però, è che gli veniva fuori il cibo da solo e mi arrivava in bocca mentre, nella disperazione, continuavo a praticargli la respirazione. Nel frattempo si era messo pure a piovere e pensando che fosse un problema dovuto a qualcosa lo abbiamo piegato sul guardrail per cercare di fargli liberare l’esofago. Nel frattempo, il maresciallo Moschitta aveva chiamato soccorso ed è arrivata l’autoambulanza, ma era già…” Il carabiniere Francaviglia ha fornito, poi, una serie di precisazioni, affermando che:

- verso le 23:30, al termine della cena, tutti e tre ripartirono e che il capitano De Grazia non disse alcunchè, addormentandosi immediatamente;

- sentirono il capitano brontolare o russare;

- ad un certo punto il carabiniere Francaviglia notò che il capitano si era raddrizzato sul sedile, come a volersi sistemare meglio. Contemporaneamente, il russare apparì diverso, strano. Ciò accadeva qualche minuto prima del momento in cui il maresciallo Moschitta si accorse che De Grazia stava male;

- quando il maresciallo Moschitta lo toccò, lo trovò freddo e sudato;

- tra l’uscita dal ristorante ed il momento in cui si accorsero dello stato del capitano passò circa mezz’ora;

- appena notarono lo stato del capitano, accostarono l’auto sul ciglio della strada;

- il maresciallo Moschitta chiamò i soccorsi, che arrivarono in circa 10 minuti, (sia ambulanza che auto dei carabinieri);

- il personale dell’ambulanza che visitò il capitano fece un cenno, come a dire che non c’era più niente da fare;

- giunti in ospedale, dopo che il medico comunicò il decesso del capitano, il maresciallo Moschitta insistette affinché venisse eseguito l’esame autoptico;

- venne chiamato al telefono anche il magistrato di turno, che parlò con il medico e convenne con questo che non era necessario eseguire alcuna autopsia.

2.4 – Le dichiarazioni dei carabinieri intervenuti sul posto, Angelantonio Caiazza e Sandro Totaro. Al fine di acquisire ogni notizia di specifica relativa a quanto accadde la notte in cui il capitano De Grazia perse la vita, la Commissione ha audito i componenti dell’equipaggio dell’aliquota radiomobile dei CC della stazione di Nocera Inferiore intervenuti sul posto, peraltro mai ascoltati dai magistrati che indagarono sui fatti. Entrambi sono stati auditi nel luglio 2012. Per primo è stato audito il carabiniere Caiazza, il quale ha dichiarato: “Quella notte avevamo appena intrapreso il servizio di un turno 00.00-06.00, un turno notturno, e fummo informati dalla centrale operativa che sull’autostrada, a bordo di un’autovettura – una Tipo o una Punto – una persona era stata colta da malore. Ci recammo sul posto unitamente a un’unità sanitaria e trovammo una persona riversa supina tra lo sportello posteriore dell’auto e l’asfalto. Intervennero i sanitari, mentre noi provvedemmo a identificare gli altri militari presenti, che gli praticarono un massaggio cardiaco e lo portarono in ospedale, dove ci consegnarono una borsa contenente gli effetti del povero De Grazia, che fu identificato pure da noi. (…) Abbiamo ritirato anche un borsone contenente una valigia ventiquattrore, che fu consegnata al maresciallo Moschitta su sua richiesta (….) L’unità sanitaria intervenne mentre noi provvedemmo a identificare gli altri due militari. In ogni caso, credo fosse ancora vivo perché gli stavano praticando un messaggio cardiaco. (…) Lì (in ospedale) abbiamo ritirato il referto stilato dal medico. Sembra che fosse morto per arresto cardiaco. Poi abbiamo ritirato gli effetti personali.(….) Il borsone ci è stato consegnato dai colleghi del nucleo operativo. Della destinazione sapevamo solo che stavano transitando sulla A30, direzione nord, la Caserta-Roma. (…) Una volta ritirato il referto, siamo tornati in caserma e abbiamo stilato gli atti”. Il Carabiniere Caiazza ha poi specificato di non essere stato mai sentito da alcun magistrato in merito ai fatti. Le dichiarazioni dell’appuntato scelto Sergio Totaro combaciano sostanzialmente con quelle del suo collega. Si riportano i passaggi più significativi: “ La vettura in questione l’abbiamo trovata all’uscita della prima galleria dell’autostrada A30, barriera Salerno-Mercato San Severino, direzione nord. (…) C’erano una persona supina sull’asfalto e due persone in abiti civili accanto, che poi abbiamo identificato come un maresciallo e un appuntato dell’Arma. (…) È stata chiamata, contestualmente, anche l’ambulanza. Dal momento che il comando dei carabinieri si trova 100 metri prima dell’ospedale siamo intervenuti contemporaneamente. (…) C’era una persona supina, sdraiata sull’asfalto, e due persone in abiti civili accanto, che si sono poi presentati per un maresciallo e un collega dell’Arma. Mentre li stavamo identificando i signori dell’ambulanza prestavano soccorso alla persona in terra. (…) Penso che abbiano tentato i primi interventi per rianimarlo. Quella in cui siamo arrivati era una fase un po’ concitata, tanto è vero che subito dopo l’hanno messo in ambulanza e siamo andati direttamente all’ospedale Umberto I, loro davanti e noi dietro, che era a circa due chilometri di distanza. (…). Con riferimento alla valigetta “24 ore” che il capitano De Grazia portava con sé, il carabiniere Totaro ha riferito che: “Gli effetti personali del capitano De Grazia furono consegnati al militare di servizio alla caserma in quanto andavano consegnati ai parenti. Inoltre, c’era la classica busta di colore nero in cui l’ospedale mette gli ambiti che la persona indossa al momento. C’era anche un borsone di colore blu del capitano De Grazia che mi pare contenesse una valigetta e una macchina fotografica. Mi pare che il tutto fu consegnato, su sua richiesta, al maresciallo Moschitta con ricevuta”. Il carabiniere ha specificato di non avere controllato il contenuto della valigetta e che la stessa fu restituita, senza essere stata aperta, al maresciallo Moschitta, il quale la richiese espressamente: “No, ci fu chiesta. Ci dissero che conteneva materiale che dovevano portare via, con cui dovevano continuare. Ci fu chiesta proprio, se non erro, dal maresciallo Moschitta. Ci disse cortesemente che c’erano dei fascicoli. Abbiamo menzionato di proposito nell’annotazione «che veniva consegnata, previa richiesta, a Tizio e Caio per il prosieguo dell’operazione». Il carabiniere ha poi specificato la tempistica della restituzione degli effetti personali e della valigetta: dopo essere stati in ospedale, i militari andarono in caserma per formalizzare gli atti, unitamente al maresciallo Moschitta e al carabiniere Francaviglia, “ il maresciallo disse che a loro occorreva la valigetta con gli atti perché dovevano proseguire per il loro viaggio. A quel punto consegnammo a lui quel materiale (…) Presumo che il tutto sia avvenuto in ufficio davanti a noi o che il maresciallo abbia detto che conteneva fascicoli processuali. Se l’abbiamo scritto, qualcuno ce lo avrà detto o l’ha aperta davanti a noi. Si tratta di tanti anni fa, ricordo la sera, ma non tutti i dettagli. Fu una fase concitata, in mezz’ora una semplice richiesta d’aiuto diventò una morte. Il nostro intervento è terminato proprio in ospedale”. La Commissione ha formulato numerose domande volte a comprendere quale fosse il contenuto della valigetta e se questo fosse stato in qualche modo verificato, anche per capire le ragioni della restituzione della valigetta al maresciallo Moschitta. In particolare, alla domanda della Commissione sul motivo per il quale, nonostante la valigetta non fosse stata aperta, fosse stato redatto un verbale nel quale si dava conto del numero di procedimento penale cui si riferivano gli atti contenuti nella valigetta stessa, il Carabiniere ha risposto:

“Personalmente, non ricordo. Eravamo in due e forse l’avrà letto il brigadiere, poi abbiamo firmato in due. Materialmente, però, non ho visto il fascicolo. In genere, uno di noi scrive e alla fine sottoscriviamo, ma io non ho visto quel fascicolo e, se l’avessi visto, non lo ricordo”. Sul punto è stato interpellato anche il carabiniere Caiazza, il quale ha riferito, che se era stato riportata a verbale che nella valigetta era contenuto un fascicolo riferito al procedimento penale n. 2114/94 RGNR, evidentemente doveva aver visionato il fascicolo stesso, pur non potendo confermare la circostanza non ricordando più tale particolare.

2.5 – Le dichiarazioni di Francesco Fonti in merito alla morte del capitano De Grazia. Per completezza di trattazione si ritiene di dover dare conto anche delle informazioni acquisite nel corso dell’inchiesta dall’ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti, già appartenente alla ‘ndrangheta calabrese, audito dalla Commissione in data 5 novembre 2009 nel corso della missione effettuata a Bologna. Deve essere subito chiarito che la Commissione non ha trovato riscontri obiettivi alla quasi totalità delle dichiarazioni che Francesco Fonti ha reso nella varie sedi sul tema del traffico di rifiuti radioattivi o comunque tossici da parte della ‘ndrangeta calabrese. Si tratta di un’inattendibilità intrinseca in quanto più volte Fonti si è contradetto e ha fornito versioni diverse rispetto ad elementi essenziali della narrazione nonché di un’inattendibilità estrinseca in quanto non sono stati fornite indicazioni adeguate per riscontrare le dichiarazioni da lui rese. Fonti è stato interpellato anche con riferimento al decesso del capitano De Grazia. Sul punto, ha dichiarato di avere sentito dire, all’interno dell’organizzazione criminale cui era legato, che il capitano Natale De Grazia era stato ucciso.

Ha aggiunto, poi, che i servizi segreti facevano sparire sia i rifiuti sia le persone che potevano rappresentare un concreto ostacolo alla prosecuzione dei traffici illeciti: l’ipotesi era, quindi, quella che il capitano fosse stato eliminato perché stava scoprendo cose che avrebbero dovuto restare segrete. In realtà, Fonti ha precisato che si trattava di notizie non certe ed acquisite da altre persone. La Commissione ha chiesto al Fonti chiarimenti in merito alle dichiarazioni dallo stesso rese nel corso di una trasmissione radiofonica sull’emittente “Radio anch’io”, andata in onda nella seconda metà del 2009. In tale trasmissione il Fonti aveva dichiarato che il comandante De Grazia sarebbe stato ucciso dai Servizi.

Alla domanda se tale affermazione fosse supportata da elementi di riscontro o meno il Fonti ha risposto: “Sono chiacchiere, cose che ho sentito dire. Sicuramente sono considerazioni svolte da altre persone come me. (…) Le chiacchiere si facevano anche fra di noi. Quando ci si trovava per riunioni ufficiali, concordate, oppure anche per caso, fra le famiglie c’era sempre un certo antagonismo: io so di più, faccio di più, ho fatto questo traffico, tu non l’hai fatto, io ho preso questi miliardi, tu li hai presi. Vi era la megalomania di poter fare di più di un’altra famiglia”. Il Fonti ha poi specificato di aver sentito tali chiacchiere all’interno della sua organizzazione. Data la delicatezza delle affermazioni effettuate, si ritiene di riportare il passaggio dell’audizione sul punto:

“PRESIDENTE. Sulla base di che cosa davano queste notizie?

FRANCESCO FONTI. Con i rifiuti si trattava con i servizi segreti, e, se qualcosa non va, questi decidevano di far sparire anche le persone. L’ipotesi era quella che anche il capitano fosse stato eliminato, perché stava andando a scoprire qualcosa che non doveva emergere.

PRESIDENTE. Lei non parlò mai con Pino (soggetto non meglio identificato, già indicato da Fonti come appartenente ai servizi segreti ed elemento di collegamento con il Fonti e con la ‘ndrangheta) di questa vicenda?

FRANCESCO FONTI. No.

PRESIDENTE. Poiché nella trasmissione, che anch’io ho sentito, lei dava come una notizia importante, quasi certa, il fatto che fosse stato ucciso.

FRANCESCO FONTI. Non penso, non era questa la mia intenzione, anche perché è una vicenda che non ho vissuto”.

Con riferimento alle dichiarazioni di Fonti, indipendentemente dall’attendibilità di base o meno del personaggio, è evidente che, in questo caso, la loro assoluta genericità unita al fatto di essere dichiarazioni cosiddette “de relato”, apprese direttamente, ma riferite da altre persone, tra l’altro mai indicate nominativamente, impedisce di prenderle seriamente in considerazione. Tanto più che lo stesso Fonti, richiesto sul punto, le ha definite “chiacchiere”.

 2.6 Le dichiarazioni fornite dal magistrato dottor Francesco Neri. In data 23 settembre 2009 la Commissione ha audito il dottor Francesco Neri, il quale ha reso corpose e importanti dichiarazioni in merito a tutte le fasi dell’indagine nonché in merito anche alle fasi successive alla trasmissione del fascicolo alla procura presso il tribunale di Reggio Calabria. Su sua espressa richiesta le dichiarazioni sono state segretate. La Commissione ha tuttavia ritenuto di disporre la desegretazione almeno con riferimento alle parti delle audizioni concernenti i riferimenti al capitano di fregata Natale De Grazia. In particolare, significative ai fini della presente inchiesta sono le dichiarazioni che il magistrato ha reso con riferimento a talune attività svolte dal capitano De Grazia e alla documentazione dallo stesso raccolta ed esaminata.

Si riportano testualmente i passaggi dell’audizione: «A questo (Rigel, Jolly Rosso, tutte collegate a Comerio) aggiungiamo le dichiarazioni e i documenti che accertammo sulla Somalia, che vi ho portato, i fax di Ali Mahdi che autorizzava il Comerio ad affondare in Somalia i suoi penetratori, il certificato di morte che il comandante Di Grazia trovò tre, quattro giorni prima di partire e mi disse nella mia stanza che aveva bisogno del tempo per verificarne la provenienza, in quanto si trattava di una fotocopia sulla quale era trascritto un numero di fax. Egli voleva accertare i collegamenti con Comerio. Poi, come ben sapete, il capitano De Grazia morì. Rimangono tuttora in me sospetti sulla sua morte, ma non ho prove certe perché vi ho portato tutte le minacce che subivamo, tutte le relazioni di servizio. Eravamo pedinati, minacciati spiati, vi erano microspie anche da Porcelli, il procuratore di Catanzaro. Chiedo che il procuratore Pace venga sentito perché è importante. Addirittura si presentò un agente del Mossad. Intorno a questa indagine c’erano molta attenzione e molta pressione, io ero un procuratore circondariale, non ero la DDA». «(…) Intorno all’indagine si era creata una pressione non indifferente che credo abbia comportato anche la morte di De Grazia per cause naturali o – come ho scritto in una relazione mandata al Presidente della Repubblica che vi consegno – nell’ipotesi più funesta, ucciso. In questo caso si tratterebbe di un’operazione chirurgica perché De Grazia era veramente il motore dell’indagine, colui che era riuscito a trovare gli elementi investigativi che collegavano le navi agli affondamenti delle carrette, soprattutto la Rigel e la Jolly Rosso, a Comerio».

«(…) PAOLO RUSSO. Vorrei partire proprio dal 1996 e capire meglio come lei “passa la mano”: sulla base di quale sollecitazione inevasa o di quale richiesta diretta alla quale vi è una risposta non funzionale al suo obiettivo. Probabilmente vi è anche una mia scarsa conoscenza delle procedure. Insomma, per quale motivo lei, nel giugno del 1996, “passa la mano”?

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Il 27 giugno. Vi è una mia nota di trasmissione che spiega tutto. A prescindere da questo, il primo motivo è stato la morte di De Grazia, che aveva depotenziato il mio pool investigativo. Investigavo con il comandante De Grazia, con un maresciallo e un brigadiere dei carabinieri, e con un carabiniere: questo era il mio pool investigativo. In procura ci sono 47 scatoloni sigillati di documenti derivati dai sequestri e dalle perquisizioni compiute nei confronti dei vari indagati, che mi pare siano stati esaminati e studiati per il 30 per cento. Il resto è rimasto ancora inevaso, non studiato: l’indagine è troppo vasta. Il secondo motivo riguardava la competenza. Potevamo continuare a cercare i siti dove erano stati affondati rifiuti, perché la discarica abusiva in mare poteva essere di nostra competenza; però se ormai eravamo dell’idea che il sistema di smaltimento non consistesse nel prendere dei fusti e gettarli in mare, bensì nell’affondare navi, allora vi era anche il reato di affondamento doloso, che non è di competenza pretorile, bensì della procura della Repubblica. Quindi, dovevamo per forza spogliarci del processo». «(…)Per quanto mi riguarda, tuttavia, molto dipese dalla morte di De Grazia, e anche da una certa resistenza istituzionale a volerci dare credito. Capisco che potevo non essere creduto, poiché quello che accertavamo superava l’immaginario collettivo. Abbiamo trovato filmati sulle prove in mare dell’affondamento dei penetratori (o siluri, o canister), che sembravano film di fantascienza. Basta connettersi al sito de L’Espresso, nella sezione di Riccardo Bocca, e si può vedere l’intero filmato.

ALESSANDRO BRATTI. Sulla morte di De Grazia sono state aperte indagini e sono stati svolti approfondimenti?

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, io e il procuratore Scuderi chiedemmo immediatamente l’autopsia. Eravamo minacciati – ora lascerò anche tutte le denunce che abbiamo fatto – e c’era un clima di tensione intorno a noi, quindi la morte ci sembrò improvvisa e sospetta. Chiedemmo l’autopsia anche perché la famiglia non si rassegnava a questa morte di un ufficiale di 38 anni. E’ morto il13 dicembre 1995. Non ci spiegavamo la sua morte e abbiamo pensato di chiedere l’autopsia, che fu disposta a Reggio Calabria a distanza di 12-13 giorni. Il cuore era intatto, nessun infarto. Non è vero che ebbe un infarto. Non risultò alcuna traccia tossicologica, alcun elemento patologico che potesse spiegare la morte; infatti il perito necroscopico ha dichiarato che si era trattato di morte improvvisa. Tuttavia, morte improvvisa significa tutto e niente. So che la famiglia ha chiesto una nuova autopsia, che è stata fatta dallo stesso medico che aveva eseguito la prima. La famiglia nutre dubbi sul risultato della prima autopsia e la nuova autopsia viene affidata allo stesso medico che ha fatto la prima… La famiglia non si è mai rassegnata (e neanche io) ad una morte di cui ancora si sa molto poco».

« (…) FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Da quello che so, partirono la sera – c’era brutto tempo – per La Spezia, perché avevo dato una delega. Bisognava acquisire i piani di carico di 180 navi che erano partite da La Spezia, da Marina di Massa e da Livorno, ufficialmente con carichi di sostanze radioattive, ma sulle quali non avevamo alcun dato riguardo ai porti di arrivo. Partivano navi cariche di torio, di uranio, di plutonio; russi, tedeschi, francesi, però non si sapeva il porto di arrivo. De Grazia perciò volle verificare dove andavano a finire queste navi e aveva questo importante compito. Inoltre, doveva sentire alcuni marinai della Rigel che era riuscito a rintracciare. Queste, almeno, erano le ultime attività che doveva compiere. Attività delicate, indubbiamente; soprattutto i piani di carico delle navi erano molto importanti ai fini delle nostre indagini. Dopo la sua morte, rimandai gli ufficiali a prendere quelle carte, ma la capitaneria di porto di Massa Carrara si allagò e tutti i documenti andarono distrutti.

PRESIDENTE. In che anno questo?

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Nel 1996 o a fine 1995, l’alluvione; comunque dopo il 13 dicembre 1995.

GERARDO D’AMBROSIO. Il presidente aveva fatto una domanda precisa: non solo quando morì, ma come, in che luogo, in che contesto (a casa sua, in viaggio)?

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Erano in viaggio e si fermarono per mangiare; De Grazia fu l’unico a mangiare il dolce, secondo quanto mi disse la moglie (e questo risulta). Successivamente risalirono in automobile e ad un casello autostradale i due carabinieri che erano con lui si accorsero che rantolava e non respirava più. Quindi morì. Questo è quello che so. Non c’ero.

GERARDO D’AMBROSIO. Si sa dove si erano fermati a mangiare?

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, ora non ricordo esattamente, in un ristorante a Campagna. Ma non voglio dire cose di cui non sono certo, perché non ho svolto io le indagini sulla morte di De Grazia.

RESIDENTE. Restando ancora su questo argomento: De Grazia ha trovato – perché lei l’ha visto -il certificato di morte che si trovava nel fascicolo di Comerio.

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte dì Appello di Reggio Calabria. Mi disse: “Ho trovato questo tra le carte di Comerio”.

PRESIDENTE. Lei lo ha visto?

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, l’ho visto.

PRESIDENTE. Che fine ha fatto?

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. De Grazia partì e mi disse: “Lo tengo io”. Il certificato era in fotocopia e conteneva un numero di fax di partenza; per lui era importante, dal punto di vista investigativo, accertare a chi appartenesse. II certificato poi non lo vidi più. Quando andai alla Commissione Alpi mi ricordai del certificato e dissi al presidente: “Sicuramente è agli atti; io non ho fatto in tempo a guardare perché occorrono decine di giorni per esaminare tutta la documentazione contenuta in 47 scatoloni sigillati”. Mi chiesero: “Ma allora questo documento lo troviamo?”. Risposi: “Presidente, per me esiste, lo aveva De Grazia”. Mandò i suoi esperti, che nel fascicolo non trovarono il certificato. Però la procura della Repubblica, che fece ricerche dirette cercando il certificato, aprì tutti gli scatoloni sigillati dell’indagine e accertò che il plico di De Grazia, che conteneva la documentazione investigativa sulla quale egli lavorava, era stato danneggiato da un lato. Fu il pubblico ministero dottoressa Cama, vi è un verbale».

« (…)PRESIDENTE. Di quale procura?

FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. La procura di Reggio Calabria. Se volete poi posso inviarlo, a corredo della documentazione. Questo plico era stato violato, danneggiato da un lato, e delle 21 carpette numerate rinvenute, 11 erano prive di documenti. De Grazia prendeva un elemento investigativo, faceva una carpetta, sviluppava le indagini e poi mi trasmetteva l’informativa; questo era il suo metodo. Queste ricerche avvennero nel 2005, dopo che il processo era stato archiviato. L’archiviazione del processo era avvenuta nel 2000».

3 – GLI APPROFONDIMENTI SVOLTI DALLA COMMISSIONE IN ORDINE ALLE CONSULENZE MEDICO LEGALI. Un capitolo a parte la Commissione ha inteso dedicarlo agli approfondimenti medico legali svolti nel procedimento aperto presso la procura di Nocera Inferiore e, quindi, in merito agli esami autoptici effettuati sulla salma del capitano De Grazia. Si tratta di uno snodo centrale della vicenda e delle indagini, in quanto di fatto le consulenze tecniche espletate hanno individuato quale causa del decesso un fenomeno definito nella letteratura scientifica come “morte improvvisa dell’adulto” che, secondo quanto precisato dal consulente della Commissione, professor Arcudi, può essere individuato solo allorquando siano state escluse tutte le possibili ipotesi alternative. Le consulenze hanno costituito poi l’elemento fondante sia delle richieste di archiviazione sia dei relativi conformi provvedimenti del Gip.

3.1 – Le conclusioni dei consulenti medico legali nominati nell’ambito del procedimento avviato dalla procura di Nocera Inferiore. Le prime consulenze. Come già evidenziato, la dottoressa Del Vecchio, consulente del pubblico ministero, effettuò due consulenze tecniche, la seconda delle quali finalizzata ad accertare mediante esame istologico e chimico-tossicologico l’eventuale presenza di sostanze tossiche o con analoghe caratteristiche, che avessero cagionato il decesso. Si riportano, di seguito, le conclusioni della dottoressa Del Vecchio, di cui alla prima relazione di consulenza, depositata il12 marzo 1996: “La morte di Natale De Grazia, constatata l’assenza di lesività traumatica con caratteristiche di vitalità e accertata la negatività degli esami chimico-tossicologici, considerati i dati macroscopici rilevati all’esame autoptico (cuore di volume diminuito, si acquatta sul tavolo anatomico; il tessuto adiposo sottoepicardico è molto rappresentato e mostra colorito grigiastro e aspetto translucido; miocardio torbido, grigiastro, assottigliato, diminuito di consistenza; coronarie serpiginose, specillagli, con intima interessata da diffuse deposizioni ateromasiche intimali) e quelli microscopici forniti dall’esame istologico (è presente miocitolisi coagulativa, ma i preparati sono abbastanza ben conservati. In alcuni campi si osserva aumento del grasso subepicardico; il tessuto adiposo si approfonda, a tratti, financo nei piani muscolari. E’ presente notevolissima frammentazione terminale delle miocellule che risultano rigonfie, torbide, con nuclei ipocromici ed acromici. Evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro, che presentano ispessimento sia avventiziale che intimale, con lumi ristretti. Si nota, inoltre, incremento degli spazi fra le fibre muscolari, dove la quota connettivale presenta caratteri di fibrosi interstiziale che in qualche campo sostituisce la struttura -miocardioangiosclerosi-), può ricondursi per sua natura ad una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa. La morte improvvisa è un evento repentino ed inatteso caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o almeno di assenza di sintomi alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore. La definizione di morte improvvisa secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è la seguente: “morte naturale avvenuta in presenza o in assenza di testimoni e dovuta ad arresto cardiaco improvviso, verificatosi inaspettatamente in un soggetto che fino a sei ore prima godeva di buona salute”. La classica impostazione medico legale del Borri prevede ai fini della classificazione di un evento letale come morte improvvisa, che questo soddisfi i seguenti requisiti: assenza di una eventuale azione violenta esteriore; rapidità del decesso; esistenza di uno stato di buona salute o di apparente buona salute, o comunque di una malattia che non minacci un’evoluzione letale. Molte sono le cause di questo tipo di decesso, ma tra quelle cardiache un posto preminente è occupato dalla patologia cardiaca (coronarica e miocardica) che costituisce la causa di gran lunga più frequente di questo genere di morti (Puccini C.. Istituzioni di medicina legale: Ambrosiana, Milano, 1995).L’exitus è provocato, solitamente, da gravi turbe del ritmo culminanti in fibrillazione ventricolare. L’evento scatenante è di natura ischemica ma solo in meno della metà dei casi si riscontra una trombosi coronarica occlusiva o ad esempio un infarto recente, perché negli altri casi le alterazioni elettriche sono precipitate da altre cause ischemiche. Il meccanismo di molte morti improvvise cardiache è costituito da uno stato di instabilità elettrica da ipossia cronica, cosicché un aumento delle richieste metaboliche del cuore, in conseguenza di uno sforzo fisico ovvero di un’intensa emozione, ma anche una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità, (come nel nostro caso) può determinare uno stato di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca. La fibrosi miocardica (presenta nel nostro caso), inoltre, determina un rischio aggiuntivo di interruzione della continuità del sistema di conduzione, che può determinare vari gradi di blocco o di difetto di propagazione del’impulso contrattile, rendendo il cuore più sensibile all’ischemia ed all’arresto (Umani Ronchi G., Botino G., Grande A., Mannelli E.: Patologia Forense. Giuffrè, Milano, 1995). Inoltre, come dalle risultanze dell’esame istologico da noi eseguito, l’infiltrazione di tessuto adiposo che dalla consueta sede subepicardica si insinua in profondità fino ad interessare la parete miocardica, dissociando i fasci muscolari, è tipica anche della cosidetta displasia aritmogena, condizione caratterizzata da aritmie e spesso da morte improvvisa. Pertanto, la morte del capitano Di Grazia, sembra possa riconoscere una dinamica di tipo naturale e più precisamente della cosidetta “morte improvvisa dell’adulto”, che trova origine per lo più in una ischemia del miocardio con successive gravi turbe del ritmo cardiaco, che si manifestano anche in assenza di segni premonitori e che, dal punto di vista anatomopatologico, addirittura nella metà dei casi circa, sono caratterizzati dall’assenza di segni specifici, non solo macroscopici, ma anche microscopici e ultramicroscopici”.

Parzialmente diverse, nella parte descrittiva degli organi e dei tessuti, appaiono le conclusioni del dottor Asmundo nella relazione depositata otto mesi dopo quella del consulente del PM. Il dottor Asmundo, pur riconoscendo la natura cardiaca della morte improvvisa del De Grazia, la riconduce a “accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardica acuta da miocitolisi coagulativa da superlavoro in soggetto affetto, appunto, da cardiomiopatia (dilatativa) da catecolamine”: A seguito della richiesta di riapertura indagini, vennero risentiti i due consulenti, del pubblico ministero e di parte. Entrambi convennero sulla possibilità di effettuare ulteriori accertamenti, in particolare per verificare la presenza di veleni. La dottoressa Del Vecchio chiarì al pubblico ministero Russo che gli accertamenti tossicologici già effettuati avevano escluso la presenza di sostanze tossiche e stupefacenti, in particolare l’alcool, gli oppiacei, la cocaina, i barbiturici, le benzodiazepine, le anfetamine, i cannabinoidi e tutte le altre T.L.C, evidenziando che il materiale prelevato per tali accertamenti (bile e sangue) non era in quantitativo tale da rendere possibile una ripetizione di queste analisi, mentre avrebbero potuto essere effettuate analisi tossicologiche più mirate mediante prelievo di capelli, ossa, quote parte di organi di accumulo “per verificare fino in fondo per quanto possibile l’esistenza di eventuali sostanza tossiche e velenose diverse, in particolare la ricerca potrebbe riguardare i veleni metallici”.

Si riportano, di seguito, i verbali delle dichiarazioni rese dai due consulenti.

3.2 – La seconda consulenza tecnica espletata su incarico del pubblico ministero. In data 18 giugno 1997, il pubblico ministero Giancarlo Russo affidò, quindi, un secondo incarico alla dottoressa del Vecchio sottoponendole ulteriori quesiti: “ad integrazione ed approfondimento della consulenza medico-legale già espletata con riferimento al decesso del cap. De Grazia Natale, esegua il CT ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e velenose, nonché approfondisca, con l’allestimento di ulteriori preparati, l’aspetto istologico. Accerti ed approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini volte a verificare la causa del decesso, anche tenendo conto di quanto emerge dagli atti e dalla consulenza di parte depositata”. Venne dunque effettuato un secondo accertamento sul cadavere del capitano De Grazia, in esito al quale vennero rassegnate dalla dott.ssa De Vecchio le seguenti conclusioni :

“La riesumazione del cadavere del capitano Natale De Grazia, ci ha permesso di eseguire ulteriori prelievi da utilizzare per gli accertamenti chimico-tossicologici e per l’approfondimento delle indagini di consulenza tecnica. A tal fine gli ulteriori esami chimici eseguiti hanno escluso la presenza di sostanze. tossiche di natura esogena nei campioni esaminati. La ricerca è stata compiuta con particolare riferimento alle sostanze che possono portare a morte in tempi brevi, con sintomatologie quali quelle descritte (ipnotici, farmaci cardiaci, depressori del sistema nervoso centrale, cianuri). Per completezza è stata effettuata anche la ricerca dell’arsenico nei capelli (perla verifica di un’eventuale intossicazione cronica) e nel fegato (perla verifica di eventuale intossicazione acuta). La ricerca è risultata negativa. La negatività per la presenza di alcool etilico nel sangue ottenuta con il prelievo del medesimo eseguito in sede di autopsia (19 dicembre 1995) anche se sembra contrastare con le notizie di specifica (vien riferito nella relazione di servizio redatta da Moschitta Nicolo e carabiniere Francaviglia Rosario che il De Grazia si fermava durante il viaggio per la cena alle ore 22.30, consumava abbondanti quantitativi di carboidrati e proteine assumendo contemporaneamente quantitativi non riportati di vino e un bicchierino di liquore denominato limoncello), non desta perplessità, in quanto è noto che la curva di assorbimento dell’alcool etilico a stomaco pieno (soprattutto quando sono j stati assunti abbondanti quantitativi di carboidrati), si appiattisce determinando valori di alcoolemia non rilevabili nel tempo immediatamente successivo all’assunzione. Poiché il decesso si è verificato poco più di un’ora dall’ingestione dei cibi e delle bevande l’alcool presente nello stomaco non aveva avuto il tempo sufficiente per entrare in circolo. Era presente, infatti, in quantità non dosabile. Inoltre viene riferito sempre nella relazione di servizio che durante le manovre rianimatorie il De Grazia rigurgitava parte di quanto introdotto nello stomaco durante la cena. All’esame autoptico il materiale alimentare fu rinvenuto in quantità tale da sembrare in contrasto con l’abbondante pasto riferito, ma ciò è invece facilmente spiegabile se confrontato con le testimonianze acquisite agli atti. Per quanto attiene all’esame istologico, invece, la visione preliminare di organi già esaminati, conferma i reperti impressi, in particolare riguardo per l’aumento, in alcuni campi, del grasso subepicardico. Per le ulteriori colorazioni tricromiche allestite sul cuore, quella di Gomori da conferma della presenza di microaree di sostituzione connettivale non recenti, mentre il PTH, nei limiti di lettura a causa della cattiva conservazione dell’organo, non sembra mettere in evidenza alterazioni cromatiche riferibili a presenza di fibrina recentemente neoformatasi, nell’insieme, il diagnostico sembra dunque essere quello di una miocardioangiosclerosi diffusa senza apprezzabili fenomeni-di necrosi recentissima o recente di tipo focale anche se anche se l’ultima osservazione (su quote parte di cuore riesumato) deve prudenzialmente tenere conto dello stato di conservazione dell’organo (ormai preda di avanzati fenomeni putrefattivi). Pertanto si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite, che la causa della morte del capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo “morte improvvisa dell’adulto”, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci”. La dottoressa Del Vecchio, allorquando depositò le conclusioni della seconda consulenza tecnica espletata, venne risentita dal pubblico ministero Russo a chiarimenti. In tale occasione confermò in pieno i risultati cui era pervenuta con la prima consulenza. Si riporta il verbale all’epoca redatto.

3.3 – Le audizioni in Commissione dei consulenti tecnici. La Commissione ha ritenuto di dover risentire entrambi i consulenti medico legali al fine di chiarire alcuni aspetti legati soprattutto al fatto che nel corso della prima autopsia non furono eseguiti tutti gli accertamenti possibili per la ricerca di sostanze tossiche o assimilate, tanto che fu disposta un’integrazione degli accertamenti stessi, limitata peraltro a quelli ancora possibili nonostante il tempo trascorso.

Il 12 gennaio 2011 sono stati, pertanto, auditi sia la dottoressa Del Vecchio che il dottor Asmundo. La dottoressa ha affermato che:

- non aveva esaminato le precedenti risultanze e cartelle cliniche del capitano De Grazia per verificare se vi fossero tracce di patologie pregresse, precisando che all’epoca si facevano comunque esami che non potevano essere rivelatori di uno stato così fine di patologia che invece adesso viene valutato, come è obbligo dal 31 dicembre scorso;

- in occasione della prima autopsia le analisi tossicologiche furono limitate alla ricerca di sostanze stupefacenti, alcooliche e psicotrope, mentre la ricerca non fu estesa ai veleni, per i quali generalmente vi è una richiesta specifica da parte del magistrato;

- il quesito riguardante la ricerca di sostanze tossicologiche o simili non comprende generalmente anche la ricerca dei veleni. Questo perché per i veleni, data anche la quantità e varietà delle sostanze velenose, occorrono indagini diverse e più ampie e, dunque, quesiti più specifici;

- la maggior parte delle sostanze velenose non è rilevabile a distanza di tempo, salvo alcune sostanze, come l’arsenico.

Si riportano i passaggi più significativi dell’audizione in parola: “L’autopsia è stata svolta in perfetta regola, come da circolare Fani, per cui non solo ho svolto l’autopsia, ma ho anche prelevato parte di tessuto e di organo e tutti i liquidi biologici che potevo prelevare, quindi sangue e bile (non l’urina perché la vescica era vuota) e una quota di visceri per fare l’esame chimico tossicologico (…) non ho dubbi e anzi forse potrei fare un’aggiunta per sviare altri dubbi: come ho potuto vedere perché avevamo colorato questi tessuti con colorazioni particolari che mettono in risalto aree di cicatrizzazione in cui il normale tessuto cardiaco viene sostituito quando ha degli insulti, purtroppo il cuore del capitano De Grazia era soggetto a ipossia cronica (…) a mio parere – più forte oggi di ieri – è morto per un arresto cardiocircolatorio o per insufficienza cardiaca acuta che è la stessa identica cosa per uno stress miocardico, un insulto di ipossia cronica. Lo si vedeva nel cuore, nei reni e addirittura in alcune aree del cervello in cui c’erano le cellule del famoso neurone rosso, che sono un segno di ipossia cronica. (…) Tutti noi possiamo andare incontro a questo e io stessa ho una cardiopatia ipertensiva perché il problema è quello dell’impegno lavorativo, che non fa dormire la notte e impone responsabilità, laddove quelle del capitano erano certamente maggiori delle mie e forse anche delle vostre.

Per quanto riguarda invece i veleni, quando facemmo la riesumazione l’unico veleno su cui potevamo indagare era l’arsenico perché è l’unico che rimane, e questo si è rivelato negativo, perché in chimica clinica abbiamo fatto lo spettrofotometro ad assorbimento atomico che ha dato esito negativo. In assenza di lesività traumatica si pensa al veleno, ma chiaramente tutti gli altri veleni come il cianuro, il bromuro, il potassio danno sintomatologie particolari. La stricnina provoca contrazioni, il bromuro provoca vomito, sintomatologie molto pesanti che non possono passare inosservate né essere confuse con un malore. Si tratta di qualcosa di cui ci si accorge e che qualcuno comunque deve somministrare. Non abbiamo trovato neppure l’anidride arseniosa, che forse ha minore sintomatologie e si può mescolare nei cibi ed essere ingerita senza essere percepita. Tutti gli esami per i derivati della morfina e degli oppiacei non come sostanza stupefacente a sé stante, ma anche per i derivati farmacologici della codeina, cocaina e così via, le benzodiazepine sono stati effettuati in prima battuta, quando fu effettuata l’autopsia, per cui posso affermare che purtroppo la morte del capitano De Grazia è stato un evento naturale stress …”. Nel corso della medesima audizione è intervenuto anche il dottor Asmundo il quale, richiesto di chiarire se vi fossero elementi di dissenso rispetto alle conclusioni cui era giunta la dottoressa De Vecchio, ha dichiarato: “No, dissenso rispetto alla definizione della causa di morte no, ma ci sono alcuni aspetti che riguardano comunque la morte improvvisa da causa patologica naturale cardiaca che dal punto di vista tecnico-scientifico mi sentirei di definire in altro modo. Non ho però dubbi che si sia trattato di una morte improvvisa da causa patologica naturale cardiaca da superlavoro rispetto alle analisi condotte, alle circostanze che ci furono riferite e all’esclusione di altre cause che non sono emerse nel corso delle indagini eseguite dalla dottoressa. (…) Elementi di dissenso soltanto dal punto di vista tecnico-scientifico. Ho partecipato all’indagine autoptica e ho esaminato i preparati istologici allestiti da frammenti di visceri di cadavere e segnatamente del cuore.

Più che presentare una patologia di tipo aterosclerotico, il cuore è danneggiato da un’iperincrezione catecolaminica cioè degli ormoni dello stress, che hanno cronicamente intossicato la cellula miocardica, producendo un quadro che non è del tutto sovrapponibile a quello da causa ischemica e quindi ipossica, ma che deriva proprio dall’azione diretta di questi ormoni sulla cellula cardiaca che la danneggia. Ci sono evidenti reperti, focolai e aree anche abbastanza estese della cosiddetta «miocitolisi coagulativa» nel 1995, che oggi definiamo «necrosi a bande di contrazione». È quindi sostanzialmente condivisibile il terminale fisiopatologico, ma non esattamente in senso eziologico, nel senso che le coronarie, che sono i vasi che portano il sangue ossigenato al cuore per farlo ben lavorare, erano pressoché integre e non presentavano i segni tipici del soggetto cardiopatico ischemico, dell’infartuato, che presenta placche che ostruiscono la circolazione arteriosa coronarica e quindi danneggiano le cellule miocardiche non essendo apportato ossigeno. Qui il discorso è ben diverso e deriva proprio dall’iperincrezione catecolaminica, che caratteristicamente produce questo danno della cellula miocardica a focolai, che nel tempo possono arrivare a produrre una cardiopatia dilatativa se non interviene una causa aritmogena, cioè se il disarrangiamento dell’architettura del tessuto muscolare cardiaco non produce una desincronizzazione dell’attività cardiaca stessa tanto in senso elettrico quanto in senso meccanico, producendo quanto è accaduto al capitano De Grazia, cioè la morte improvvisa probabilmente da causa elettrica su base miocitolitica coagulativa (…) Le fibrocellule cardiache sono interconnesse tra loro e subiscono effetti che derivano da un impulso sostanzialmente elettrico, che deriva da una differenza di potenziale a livello della membrana cellulare per il passaggio di ioni dall’interno all’esterno della cellula, che attivano un meccanismo biochimico che fa contrarre la cellula. Se gruppi di cellule muoiono, evidentemente le interconnessioni non funzionano più e quindi la continuità dell’impulso elettrico non è garantita. Se i focolai sono multipli a livello del tessuto miocardico come in questi soggetti soprattutto la parete ventricolare sinistra, che è la parte più nobile del cuore, quella che pompa il sangue nella circolazione sistemica, in quella cerebrale fondamentalmente, questo può comportare in un altro momento, indipendentemente da una causa scatenante, una desincronizzazione dell’attività elettrica e quindi meccanica di pompa del cuore. Questo comporta un improvviso arresto cardiaco che può essere chiamato sincope o arresto cardiaco elettrico, che può comportare una fibrillazione ventricolare non conducente alla contrazione per il pompaggio del sangue e, in definitiva, a uno stupore e quindi a uno stop dell’attività cardiaca, che determina la morte improvvisa (…) Sono stati effettuati studi molto particolari su soggetti per i quali è stato percepito il «clic» nel senso dell’accensione del momento emozionale, sui quali si è dimostrato un rapporto sostanzialmente diretto. Ci sono però soggetti che come il De Grazia muoiono nel sonno probabilmente perché hanno anche una predisposizione – è difficile dirlo oggi – su base genetica.

Negli ultimi 5-7 anni si è svolta una grande ricerca sulla genetica dei recettori cioè di quelle zone della cellula cardiaca che servono per l’attacco dell’adrenalina e della noradrenalina, gli ormoni dello stress, per l’attivazione della cellula. Alcuni soggetti hanno questi recettori alterati o comunque non perfetti e quindi in loro una situazione di stress può comportare molto facilmente una desincronizzazione dell’attività e quindi una morte elettrica”. La dottoressa Del Vecchio ha sottolineato, poi, che in assenza di lesività esterna “(De Grazia non aveva segni traumatici da arma da fuoco, armi bianche o colpi contusivi, non era politraumatizzato, non era caduto da una finestra)” il medico legale indaga sulle cause della morte (semplice ictus, attacco di cuore o qualsiasi altra cosa) cercando eventuali sostanze:

“In questo caso non avevamo neanche le urine, ma abbiamo attentamente indagato nel sangue, nella bile, nei visceri, come sempre facciamo per verificare se un soggetto abbia ingerito un farmaco, sia rimasto vittima di un’allergia o – non è il caso del capitano – abbia fatto uso di sostanze stupefacenti. Il caso dei veleni è più particolare, perché il pubblico ministero, il giudice che assegna l’incarico dovrebbe quantomeno indirizzare il perito verso una ricerca perché alla luce della gamma dei veleni possibili un’indagine del genere può avere per lo Stato un costo incredibile. Io sarei molto favorevole a effettuare un’indagine del genere su tutti i morti per morte naturale“. La dottoressa Del Vecchio ha, quindi, ribadito le sue conclusioni, dopo aver descritto gli effetti delle sostanze velenose: “Una delle sostanze con cui le persone vengono anche curate e che si possono assumere anche a piccole dosi fino a intossicazione è proprio l’arsenico, che infatti era negativo, perché alle altre sostanze si diventa assuefatti. Con il potassio, che deve essere iniettato, si muore immediatamente. (…) Con «immediatamente» s’intende che non si riesce a rientrare in macchina. Altre sostanze come la stricnina provocano convulsioni, particolari che qualcuno avrebbe dovuto riferire”. Allo stesso modo il dottor Asmundo ha confermato il suo giudizio, affermando: “Il reperto tossicologico non è mai lontano dal reperto anatomopatologico. Se infatti una sostanza altera l’organismo in modo tale da ucciderlo, evidentemente a livello polmonare, epatico e renale, organi deputati alla detossificazione dell’organismo, si rileva un’alterazione. Noi non abbiamo un reperto anatomopatologico che ci possa consentire tecnicamente di affermare una cosa simile. A fronte di un reperto patologico cardiaco di una consistenza più che discreta, l’orientamento nel senso dell’epicrisi non può che essere quello”. Riguardo alla prima autopsia effettuata, la dottoressa ha chiarito di aver eseguito alcuni esami tossicologici (“avevamo il sangue, i visceri, la bile, che sono indagini istologiche di tessuti. Abbiamo utilizzato il metodo RYE, metodica che si usa per analizzare questi reperti, abbiamo visto l’alcol (l’etanolo) che era negativo, tutti i derivati della morfina e degli oppiacei, della cocaina, codeina e quant’altro”), ma di non aver indagato sui veleni, affermando che ciascun veleno richiede uno studio a parte, per cui l’indagine in tal senso sarebbe stata eseguita se vi fosse stato il sospetto della presenza di un veleno. Alle richieste di chiarimenti avanzate dei componenti della Commissione, l’audita ha risposto, così come riportato nel resoconto stenografico:

“ALESSANDRO BRATTI. Si può escludere categoricamente che non sia stato avvelenato o, dato che per tutta una serie di motivi non si è ipotizzata la presenza di determinati veleni, si fa fatica ad andarli a cercare? Questa è una domanda importante, perché si può escludere totalmente qualsiasi tipo di veleno oppure ammettere questa eventualità.

SIMONA DEL VECCHIO. In base alla mia esperienza ritengo che l’unico veleno che potesse uccidere una persona così giovane e sana potesse essere appunto l’arsenico, che infatti dopo siamo andati a ricercare e non c’era. È l’unico che si può cercare e trovare anche dopo tranquillamente perché è l’unico che non senti: o viene iniettato, ma non c’erano segni di agopuntura.

ALESSANDRO BRATTI. Avendo bevuto e mangiato magari poteva anche sentire un sapore strano. Chiaramente, voi siete esperti e lo sapete.

SIMONA DEL VECCHIO. Le assicuro che le quantità dovrebbero essere minime, non in grado di far morire una persona.

PRESIDENTE. Per chiarire fino in fondo il nostro problema, noi abbiamo una serie di indizi esterni quali il fatto che sia stato completamente disfatto tutto il gruppo che stava svolgendo un’indagine particolarmente importante sulla presenza di sostanze tossiche (noi abbiamo anche accertato ulteriori elementi di particolare importanza di quello specifico viaggio). Se quindi voi ci dite che al cento per cento era assolutamente impossibile che nel momento in cui è morto ci fosse una causa o una concausa diversa dal fatto che il cuore non ha più funzionato perché non sono arrivati gli impulsi elettrici e ha avuto quello che comunemente si definisce un infarto, interpretiamo quegli indizi in un senso. È invece diverso se ci dite che a voi risulta questo, però ad esempio avete fatto un’indagine accuratissima sulla presenza di una possibile puntura.

SIMONA DEL VECCHIO. Posso assicurare che quello lo effettuo su tutti, anche su chi non fa il lavoro del capitano De Grazia, per cui glielo assicuro personalmente anche se non c’è nella relazione. Il collega era presente, abbiamo fatto le foto del corpo e addirittura, riscontrando un’escoriazione sul lato sinistro, ho prelevato quel pezzetto di cute perché preferivo analizzare anche questo tessuto. Non era nulla, perché evidentemente hanno tentato di rianimarlo e si trattava dei segni della rianimazione.

ALESSANDRO BRATTI. Escludete comunque l’avvelenamento per ingestione a meno che non sia quella sostanza.

SIMONA DEL VECCHIO. Sì, perché dovrebbe essere troppa la sostanza somministrata a una persona per ottenere quell’effetto.

PRESIDENTE. Vorrei sapere se sia stato analizzato il cibo che aveva ingerito, per sapere che tipo di cibo fosse e a che livello di digestione fosse.

SIMONA DEL VECCHIO. No, perché il cibo era già a uno stadio avanzato come l’alcol prima, perché non è morto subito: aveva già cominciato la sua digestione, c’era del liquame.

ALESSANDRO BRATTI. Nonostante avesse già cominciato la digestione, le tracce di alcol.

SIMONA DEL VECCHIO. Perché l’alcol si assorbe prima, ecco perché si raccomanda di aspettare mezz’ora dopo mangiato per evitare l’eventuale ritiro della patente, qualora si sia fermati. Il capitano non è morto subito, per cui oltre il liquame non potevamo vedere più nulla. Occorrono tre ore per svuotare uno stomaco.

PRESIDENTE. Quanto tempo occorre perché il cibo si trasformi in liquame?

SIMONA DEL VECCHIO. Al massimo tre ore, ma anche di meno: dipende da cosa e quanto abbiamo mangiato.

ALESSANDRO BRATTI. Uno shock anafilattico si vedrebbe chiaramente dall’autopsia?

SIMONA DEL VECCHIO. Sì, come diceva il collega prima il fegato e la milza, organi in cui passa tutto il circolo refluo, avrebbero subìto effetti allucinanti. Tutti i veleni che provocano l’atrofia giallo-acuta avrebbero dato quadri epatici disastrosi, mentre mi pare che il fegato fosse l’organo in assoluto più tranquillo perché si trattava di una persona giovane, attenta a quanto mangiava e beveva.

PRESIDENTE. Avrei ancora alcune cose da chiarire per arrivare sino in fondo. Per quanto riguarda i polmoni, qui si dichiara che «è presente intensissima congestione con abbondanti travasi emorragici endoalveolari». Vorrei sapere quale origine possa avere la congestione.

SIMONA DEL VECCHIO. La morte di tipo asfittico e cioè tutte le morti che avvengono per mancanza d’aria, quindi la morte cardiaca o per strangolamento.

PRESIDENTE. La morte cardiaca è contemporanea, cioè nel momento in cui il cuore si ferma.

SIMONA DEL VECCHIO. No, non è detto che si fermi subito: si può avere un malore che può avere un suo decorso.

PRESIDENTE. Se invece fosse una morte per asfissia?

SIMONA DEL VECCHIO. Ci sarebbero stati segni di asfissia, che in questo caso mancano. È il meccanismo della morte: in questo caso parlo della mancanza di aria negli organi interni, non della morte per asfissia.

Prima ho precisato che non c’erano segni di lesività traumatica di alcun genere.

PRESIDENTE. Parliamo dei polmoni.

SIMONA DEL VECCHIO. La congestione è tipica di una morte cardiaca.

PRESIDENTE. Ma può essere anche tipica di un soffocamento?

SIMONA DEL VECCHIO. Di tantissime altre morti, anche di un soffocamento, ma un uomo di 39 anni come il capitano De Grazia non si sarebbe fatto soffocare senza reagire. Questo è doveroso dirlo”.

3.4 – La consulenza del professor Giovanni Arcudi. Come già evidenziato, la Commissione ha ritenuto di voler approfondire l’aspetto medico legale legato alla morte del capitano De Grazia. A tal fine, dopo avere audito i consulenti medico legali che effettuarono le operazioni peritali nel corso dell’indagine condotta dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore, ha affidato, in data 16 maggio 2012, al professor dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, nonchè consulente della Commissione) l’incarico di esaminare gli atti acquisiti e le consulenze tecniche medico legali effettuate dalla dottoressa Del Vecchio e dal dottor Asmundo nonché di eseguire gli esami di natura ripetibile, ritenuti utili, sui preparati istologici e le relative inclusioni in paraffina eventualmente ancora custoditi presso il laboratorio di istologia dell’Istituto di medicina legale – Università La Sapienza di Roma. In data 10 dicembre 2012, il professor Arcudi ha depositato una relazione nella quale sono esposti i risultati della sua consulenza. Si ritiene di riportare integralmente il testo della relazione depositata in ragione del tecnicismo della materia e delle conclusioni, non coincidenti per diversi aspetti ripetto a quelle cui pervennero la dottoressa Del Vecchio e il dottor Asmundo: «Gli accertamenti medico legali sono stati effettuati da una parte sulla base della documentazione acquisita agli atti e, dall’altra, sulla revisione dei preparati istologici a suo tempo allestiti su frammenti di visceri prelevati in occasione della autopsia effettuata sul cadavere del De Grazia e della successiva esumazione. «Nulla è stato possibile fare sul versante delle indagini tossicologiche forensi poiché non risulta che siano state conservate parte dei prelievi di liquidi biologici e di visceri che sembrerebbe siano stati fatti nel corso degli accertamenti necroscopici e utilizzati, all’epoca, per esami chimico tossicologici forensi. «Quindi sulla scorta del predetto materiale che avevo a disposizione ho svolto gli accertamenti medico legali all’esito dei quali posso proporre le seguenti considerazioni. «Preliminarmente è opportuna una osservazione sugli accertamenti effettuati all’epoca della morte del capitano De Grazia, disposti dapprima dalla procura della Repubblica di Reggio Calabria in data 19 Dicembre 1995 e quindi dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore in data 23 Aprile 1997. «Come ho avuto modo di anticipare nella mia relazione preliminare (sostanzialmente ripresa in questa relazione definitiva, ndr), non posso che ribadire, ora, come gli accertamenti di natura medico legale, allora disposti, risultino condotti in maniera piuttosto superficiale con incomprensibili carenze e contraddizioni che rendono i risultati tutti incerti, poco affidabili e quindi non concretamente utilizzabili per gli scopi per i quali erano stati disposti. Scopi che erano stati indicati nella serie di quesiti posti al perito, sempre lo stesso nel primo e nel secondo accertamento, e che erano tutti finalizzati a chiarire, anche con l’ausilio della indagine tossicologica, la causa della morte del De Grazia. «Più in particolare deve essere evidenziata la piuttosto evidente difformità tra il verbale di autopsia del CT del PM e quello del consulente della parte: nel primo il contenuto gastrico è riferito come costituito da alcuni cc di liquame blunerastro mentre il CT della parte parla di un abbondante quantità di materiale alimentare parzialmente digerito, ed è evidente che sia più veritiera quest’ultima versione, essendo inconcludente l’affermazione della dottoressa Del Vecchio che lo stomaco era vuoto perché il Cap. De Grazia aveva vomitato poco prima della morte.; la CT del PM dice di un cuore con coronarie serpinginose, specillabili, con intima interessata da diffuse deposizioni ateromasiche intimali, mentre il CT della parte dice che nulla c’è alle coronarie, e probabilmente ha ragione lui visti gli esami istologici. «E poi c’è, nella descrizione della seconda autopsia su cadavere esumato, la non attendibilità di un dato relativo ai prelievi di parti di visceri che verosimilmente dovevano essere putrefatti e, più sorprendentemente, di sangue che non poteva più esserci dopo una prima autopsia e dopo che erano trascorsi circa sedici mesi da quest’ultima. E tante altre cose ancora. «Insomma si trae quasi l’impressione che in questa indagine medico legale si sia badato più alla forma di particolari processuali privi di valore che invece alla sostanza della indagine in patologia forense che sembra del tutto trascurata nel rigorismo obiettivo e nella valutazione del significato patologico dei quadri autoptici. «E questo per quanto riguarda gli accertamenti autoptici ed istologici. Altro capitolo è quello degli accertamenti tossicologici per i quali non posso che riproporre le stesse considerazioni, condivise dal tossicologo forense della medicina legale di “Tor Vergata”, già fatte pervenire con la relazione preliminare che ora possono essere ritenute definitive. «Sono state prese in esame le indagini chimico tossicologiche che, secondo l’allora CT del PM, dottoressa Del Vecchio, sono state eseguite in due riprese: una in occasione della prima autopsia eseguita in data 19.12.1995 con contestuali prelievi; un’altra quando è stata fatta la esumazione del cadavere del Di Grazia in data 23.04.1997. «Prima ancora di entrare nel merito, appare opportuno segnalare una macroscopica contraddizione tra quanto riportato nelle tre relazioni di consulenza, riguardo al contenuto dello stomaco.Nella prima relazione della dottoressa Del Vecchio, relativa all’esame autoptico da lei eseguito in data 19 dicembre 1995, si legge: “…Stomaco contenente alcuni cc di liquame brunastro…”, mentre nella relazione di consulenza di parte, il dottor Asmundo, presente all’esame autoptico, scrive: “….Nello stomaco abbondante quantità di materiale alimentare parzialmente digerito, d’aspetto cremoso e colorito giallastro-roseo nel quale sono riconoscibili frammenti di formaggio biancastro e carnei rosei-scuri…”. Nella seconda relazione, infine, relativa all’autopsia del 19 giugno 1997 (30 mesi dopo la prima !) la dottoressa Del Vecchio riporta che “, si poteva procedere al prelievo di quota parte di visceri (fegato, reni, polmoni, cuore milza, stomaco) di muscolo, di osso (vertebra, osso del bacino e costa) e di sangue per gli ulteriori esami di laboratorio”.

«Anche se le quantità di materiale biologico prelevato non vengono mai riportate, si deve ragionevolmente ritenere che il contenuto dello stomaco rinvenuto all’autopsia del 1997 non dovesse essere costituito solo da alcuni cc di liquame, come affermato nella relazione del 1995, perché su tale materiale sono state effettuati una serie di accertamenti chimico-tossicologici – ricerca dell’alcool etilico, ricerca dei cianuri, ricerca di altre sostanze ad azione farmacologica (barbiturici, benzodiazepine, antidepressivi, ipnotici e tranquillanti) – che necessitano di quantitativi di materiale non esigui.

«Anche se solo parzialmente compreso nelle competenze tossicologico-forensi appare doveroso ricordare qui l’importanza del dato della presenza di cibo nello stomaco, in funzione, non solo delle valutazioni tanato-cronologiche, ma anche nell’identificazione del materiale ingerito, per un possibile riscontro con quanto dichiarato da eventuali testimoni.

«In quest’ottica, purtroppo, nessun prelievo e nessun accertamento è stato effettuato nel corso della prima autopsia e quelli relativi alla seconda hanno sicuramente scarso rilievo tossicologico in quanto, dato il tempo trascorso (30 mesi) sicuramente il materiale era interessato da profonde trasformazioni putrefattive.

«Entrando nello specifico delle problematiche tossicologico-forensi, sul contenuto dello stomaco sono state effettuate analisi per la ricerca dell’alcol etilico, che, come è noto, è una sostanza particolarmente volatile. Appare pertanto sorprendente che, in un campione prelevato 30 mesi dopo il decesso, in uno stomaco che era stato aperto dopo la prima autopsia (il medico legale aveva visto pochi cc di liquame brunastro!) vi sia ancora la presenza, seppur in quantità esigua ma significativa (0,3 g/litro), di alcool etilico.

«E tale dato è ancora più sorprendente se viene paragonato all’esito dello stesso accertamento effettuato sul sangue, sia quello prelevato nel corso dell’autopsia del 1995, sia quello (!!) prelevato nel 1997: in entrambi i campioni l’analisi da esito negativo (anche se nel campione del 1997 viene utilizzata la dicitura “non dosabile”).

«Alla luce di tali risultati è verosimile che il consulente abbia confuso per alcol etilico il picco cromatografico di sostanze volatili di origine putrefattiva ovvero che l’alcol riscontrato sia esso stesso di origine putrefattiva. In questa seconda ipotesi, tuttavia, tracce di alcol sarebbero dovute essere presenti anche nel sangue.

«Nel contenuto dello stomaco è stato effettuato anche un saggio colorimetrico per la ricerca della eventuale presenza di cianuri. Anche per questa sostanza vale quanto già detto per l’alcol etilico. «Nello stomaco, in presenza di acido cloridrico, i cianuri si trasformano in acido cianidrico, sostanza particolarmente volatile e, come ricavabile dalla letteratura, se le analisi non vengono eseguite tempestivamente, è molto improbabile che possano essere rilevati.

«Focalizzando l’attenzione sulle indagini chimico-tossicologiche relative ai prelievi effettuati nel corso dell’autopsia del 1995, così come desunte dalla relazione si può osservare quanto segue.

«Le analisi descritte, ad eccezione della determinazione dell’alcol etilico, appaiono molto generiche e non in grado di determinare la presenza di eventuali sostanze tossiche, soprattutto se presenti in concentrazione non particolarmente elevate. L’unica tecnica impiegata dotata di qualche validità scientifica e quella RIA (radio immuno assay) impiegata per la ricerca di oppiacei e cocaina. «Avendo fornito esito negativo è possibile escludere la presenza nel sangue e nella bile di oppiacei (particolarmente morfina) e cocaina.

«Tutte le altre tecniche descritte – la spettrofotometria U.V., cromatografia su strato sottile (TLC), l’estrazione secondo la tecnica di Stass-Otto, il metodo di Felby per la ricerca degli oppiacei – sono (e lo erano anche nel 1995) tecniche obsolete, dotate di scarsa o nulla specificità e/o sensibilità e che nessun tossicologo applicherebbe per l’accertamento di una eventuale intossicazione o avvelenamento.

«Sui liquidi biologici prelevati nel corso della prima autopsia non sono stati effettuati accertamenti per la ricerca dei principali veleni metallici (arsenico, tallio, ecc.) né di altre possibili sostanze tossiche, soprattutto quelle che possano agire a piccole dosi (cianuri, esteri fosforici, digitale, ecc.).

«Sulla base di quanto sopra detto appare di tutta evidenza come le indagine sono state del tutto inappropriate dovendosi, per questo, concludere che, ai fini di chiarire se nel caso in discussione si è trattato di una intossicazione o un avvelenamento, le analisi allora effettuate sono del tutto inutilizzabili, restando insoluto l’interrogativo circa l’influenza di fatto tossico nel determinismo della morte.

«Per quanto concerne le analisi effettuate sui liquidi biologici prelevati nel corso della seconda autopsia (1997), preliminarmente è doveroso evidenziare che, a causa del tempo trascorso dal decesso, il materiale era sicuramente interessato da gravi fenomeni trasformativi dovuti allo stato di putrefazione. In tali condizioni, qualsiasi accertamento risulta sicuramente compromesso dallo stato del materiale biologico che rende assai difficile l’identificazione di eventuali sostanze tossiche esogene.

«Entrando nello specifico delle analisi eseguite, nonostante il quesito del Magistrato richiedesse “ulteriori” accertamenti chimico-tossicologici, in pratica i consulenti si sono limitati a ripetere analisi già effettuate, e non si comprende se sui prelievi della prima autopsia o su quelli, del tutto improbabili, della esumazione.

«Ancora una volta sono state utilizzate tecniche obsolete e generiche (spettrofotometria U.V., cromatografia su strato sottile, saggi colorimetrici); la gascromatografia con rivelatore di massa, indispensabile in un laboratorio di tossicologia forense, è stata utilizzata solo per l’analisi del contenuto dello stomaco e di un omogeneizzato di visceri, trascurando gli altri campioni biologici. I tracciati relativi alle analisi mediante gascromatografia con rivelatore di massa non sono stati allegati alle relazioni peritali e, pertanto, non possono essere commentati.

«In queste analisi, inoltre, le perplessità maggiori sono fornite dalle tecniche utilizzate per estrarre le eventuali sostanze tossiche dal materiale biologico: la tecnica è specifica e sensibile ma se l’estrazione non lo è altrettanto, l’analisi diventa inutile. Infine, l’abitudine ad analizzare omogenati di organi mescolati tra loro è assolutamente da censurare: un tossico presente in un solo organo viene “diluito” nella massa complessiva e può essere non più rilevabile (concentrazione inferiore al limite di rilevabilità del metodo).

«Anche sul materiale prelevato (?) dal cadavere esumato sono state eseguite indagini mediante tecniche immunochimiche (RIA) focalizzate sulle due principali sostanze stupefacenti (oppiacei e cocaina). Ma se i liquidi biologici sono stati prelevati in tempi diversi ma dallo stesso cadavere, perché ripetere le stesse analisi che avevano già dato esito negativo?

«L’analisi del materiale pilifero è superflua in quanto, nel caso in cui si fosse trattato di una intossicazione acuta (ad es. un avvelenamento), la morte sopravvenuta rapidamente avrebbe comunque impedito al tossico di raggiungere la matrice cheratinica. Affinché una sostanza dal sangue raggiunga il bulbo pilifero, venga inglobata nel capello nel momento in cui si sta formando, il capello fuoriesca dal cuoio capelluto e cresca quel tanto che basta per consentirne il taglio con forbici (in genere non si usa, se non per esperimenti scientifici, di rasare i capelli), è necessario un periodo temporale che può essere calcolato tra 15 e 30 giorni, periodo temporale incompatibile con l’ipotesi di una intossicazione acuta.

«Nelle analisi su materiale pilifero, l’identificazione delle sostanze è possibile solo in caso di assunzioni ripetute, abituali o croniche quando le quantità presenti sono compatibili con la sensibilità della strumentazione utilizzata.

«Anche per quanto attiene a questo secondo gruppo di analisi si deve ripetere quanto sopra detto a proposito delle prime, e cioè che sono del tutto inutilizzabili.

«Premesso quanto sopra, e preso atto della scarsa affidabilità degli accertamenti a suo tempo esperiti, ho ritenuto utile in questa sede un tentativo di approfondimento in ambito istopatologico essendo le inclusioni in paraffina e gli allestimenti dei vetrini l’unico reperto che è pervenuto utilizzabile dai precedenti accertamenti medico legali.

«Ho provveduto, pertanto, con l’assistenza della Anatomia ed Istologia Patologica dell’Università di Roma “Tor Vergata, alla revisione dei preparati istologici che ho acquisito nella sezione di Istologia dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Roma “Sapienza” e ad un ulteriore allestimento di vetrini anche con nuove e più specifiche tecniche di colorazione.

«La lettura dei preparati così ottenuti ha permesso di obiettivare quanto segue:

«Cuore.

«Presenza di aspetti isolati in cui i miocardiociti assumono aspetto ondulato ed allungato (“a dune di sabbia”), talora con ipereosinofilia del citoplasma (miocitolisi coagulativa) come da processo coagulativo microfocale delle proteine e con quadri morfologici compatibili con bande da ipercontrazione, peraltro molto limitati e ristretti a piccoli segmenti.

«Presenza di aspetti non conclusivi ma suggestivi per edema interstiziale.

«Presenza di congestione acuta vascolare.

«Presenza di modificazioni morfologiche dei miocardiociti riconducibili a fenomeni postmortali.

«La valutazione immunofenotipica (LCA, CD3) non ha evidenziato un aumento dell’infiltrato infiammatorio intramiocardico, come segnalato in letteratura nelle condizioni di morte improvvisa di tipo cardiaco, nella maggior parte dei pazienti.

«Assenza di alterazioni significative dei vasi presenti nei vetrini esaminati.

«NON si osservano, nei vetrini in esame: frammentazione terminale delle miocellule, anomalie nucleari riconducibili ad un danno ischemico, fibrosi interstiziale significativa, miocardioagiosclerosi, (”evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro”…), aumento del grasso periviscerale (che appare nella norma laddove valutabile in maniera adeguata) significativo per patologia cardiaca congenita.

«Si concorda con la valutazione istologica per gli altri organi, in particolare per l’intenso e diffuso edema polmonare e per l’altrettanto marcata congestione vascolare. La maggior parte delle alterazioni a livello dei vari organi sono peraltro di verosimile natura putrefattiva, fatta eccezione per la congestione vascolare.

«Dalla lettura di questi preparati istologici, in confronto con gli esami istologici fatti dal CT dottoressa Del Vecchio si possono trarre queste conclusioni: «Il quadro macroscopico descritto a livello del cuore esclude l’ipotesi di displasia aritmogena, tipica del ventricolo destro del cuore, non del sinistro.

«NON è presente fibrosi interstiziale nel cuore.

«NON è documentata in maniera certa una significativa coronarosclerosi che potrebbe giustificare una morte cardiaca improvvisa su base ischemica.

«La descrizione macroscopica del cuore sembra indicare una degenerazione bruna del miocardio di tipo terminale, la cui genesi è riconducibile a svariate cause, non ultima il cuore polmonare acuto.

«Conclusioni.

«Al termine delle indagine di consulenza tecnica che mi era stata affidata da Cotesta Commissione posso rilevare quanto segue.

«Innanzitutto i limiti della presente indagine sono apparsi subito evidenti al momento in cui ci si è resi conto che, ad eccezione del materiale istologico, nessun reperto dei precedenti accertamenti era più disponibile per poter ripetere le analisi e magari per approfondirle in un’ ottica più indirizzata ad individuare con sufficiente certezza la causa della morte del capitano Natale De Grazia.

«Allo stato non è possibile reperire nuovi reperti da utilizzare con profitto dovendosi escludere che una eventuale, rinnovata esumazione della salma possa dare la possibilità di indagare sui temi che qui interessano e cioè quelli della causa della morte con particolare riferimento alla presenza di sostanze tossiche.

«Non rimane che fare delle deduzioni sostenute dai pochi elementi di certa obiettività desunti dagli atti, tenendo anche conto di quanto acquisito nel corso delle audizioni delle persone che in qualche modo ebbero ad assistere nella circostanza della morte del capitano De Grazia.

«Bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco che sembra essersi creato nel percorso investigativo sulle cause della morte.

«L’indagine medico legale condotta dalla dottoressa Del Vecchio si è conclusa con una diagnosi di morte improvvisa dell’adulto, facendo intendere che vi fossero in quel quadro anatomo ed istopatologico elementi concreti che potevano ben sostenere detta diagnosi. Questo non corrisponde alla verità scientifica.

«Ho poco sopra evidenziato come la lettura dei preparati istologici effettuata in questa sede smentisca quella della dottoressa Del Vecchio, la quale ha ritenuto di cogliere, nella sua indagine anatomo ed istopatologica, elementi deponenti per un preesistente danno miocardico di cui sarebbe stato portatore il capitano De Grazia; danno che poi è stato utilizzato per sostenere la morte improvvisa dell’adulto.

«Questo significa che, allo stato, non c’è nell’intera indagine alcun dato certo che possa supportare la morte improvvisa dell’adulto; diagnosi causale di morte, questa, che deve essere ritenuta non provata e nemmeno connotata da apprezzabili probabilità.

«Se noi qui dobbiamo fare una conclusione al termine di questa indagine dobbiamo dire che il capitano De Grazia non è morto di morte improvvisa mancando qualsivoglia elemento che possa in qualche modo rappresentare fattore di rischio per il verificarsi di tale evento. Si trattava infatti di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici. E per altri versi l’esame necroscopico, al contrario di quanto è stato prospettato attraverso una analisi non attenta e piuttosto superficiale dei reperti anatomo ed istopatologici, non ha evidenziato nessuna situazione organo funzionale che potesse costituire potenziale elemento di rischio di morte improvvisa.

«E nemmeno quanto riferito dalle persone che erano presenti alla morte e che ne seguirono le fasi immediatamente precedenti, si accorda con una ipotesi di morte cardiaca improvvisa.

«Si sa infatti che il capitano De Grazia, subito dopo aver mangiato e messosi in macchina ha cominciato a dormire e quindi a russare in modo strano; ad un certo punto reclina la testa sulla spalla e per questo viene scosso dall’occupante il sedile posteriore dell’autovettura; a questa sollecitazione egli reagisce sollevando il capo ma non svegliandosi e senza dire alcunchè se non emettendo un suono indefinito; quindi poco dopo reclina definitivamente la testa e non risponde più alle sollecitazioni.

«Bene, mi risulta difficile avvalorare l’ipotesi di una morte cardiaca da ischemia miocardica su base aterosclerotica senza manifestazioni anginose, senza dolore che si sarebbe dovuto manifestare specie in quel momento in cui il capitano De Grazia è stato scosso ed ha avuto in momento di reazione seppure, come è stato riferito, in una specie di dormiveglia.

«Piuttosto, se si volesse proporre una ipotesi di causa di morte diversa da quella sopradetta, sembrerebbe più trattarsi di morte cardiaca secondaria a insufficienza respiratoria da depressione del sistema nervoso centrale, come suggestivamente depone il quadro di edema polmonare così massivo, incompatibile quasi con un arresto cardiaco improvviso del tutto asintomatico; come suggestivamente depongono le manifestazioni sintomatologiche riferite da chi ha potuto osservare il sonno precoce, il russare rumoroso, quasi un brontolo, la risposta allo stimolo come in dormiveglia, il vomito; tutte manifestazioni queste che, anche se non patognomoniche, ben si accordano con una progressiva depressione delle funzioni del sistema nervoso centrale.

«Quest’ultima, in carenza di incidenti cerebrovascolari, esclusi dall’autopsia, può riconoscere solo la causa tossica. Quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà più accertare.

«Purtroppo è stata irreversibilmente dispersa la possibilità di indagare seriamente sul versante tossicologico, da una parte per superficialità e forse inesperienza di chi aveva posto i quesiti con scarsa puntualità e poco finalizzati; dall’altra per l’insipienza della indagine medico legale che ha ritenuto trovarsi di fronte ad una banale morte naturale ed inopinatamente si è subito indirizzata, trascurando l’indagine globale, alla esclusiva ricerca di droghe di abuso in un caso nel quale, se c’era una ipotesi se non da scartare subito almeno da considerare per ultima, era proprio quella di una morte per abuso di sostanze stupefacenti; e pervicacemente ha insistito sulla stessa linea anche nella seconda indagine necroscopica.

«Oramai l’indagine tossicologica non è più ripetibile, neppure, come sopra accennato, con l’esumazione del cadavere, e quindi il caso, dal punto di vista medico legale deve essere, ad avviso del sottoscritto, considerato chiuso».

La Commissione, non avendo avuto la possibilità di audire nuovamente la dott.ssa Del Vecchio in ragione della cessazione delle attività d’inchiesta dovuta allo scioglimento anticipato delle Camere, ha comunque ritenuto opportuno inviare alla stessa una copia delle consulenza depositata dal professor Arcudi. La dott.ssa Del Vecchio ha fatto pervenire alla Commissione una nota di cui si ritiene doveroso dar conto perché in essa sono in qualche modo contenute le sue controdeduzioni rispetto ai rilievi effettuati dal Prof. Arcudi: Conclusioni. Le conclusioni della consulenza medico-legale del professor Arcudi impongono di valutare le risultanze dell’inchiesta precedentemente svolta in una chiave nuova e non poco allarmante. E’ vero che, come si ricorderà tra poco, già emergevano elementi di sospetto in relazione alla morte del capitano De Grazia, per tutto ciò che l’ha preceduta, e che non appare trasparente, e per ciò che è accaduto dopo la sua scomparsa. La consulenza del professor Arcudi, che appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile, arriva ad una conclusione inequivoca: escluse le altre cause, per l’assenza di elementi di riconoscimento, la morte è la conseguenza di una “causa tossica”. Aggiunge il professor Arcudi: “quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà accertare”. Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo un dolce: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni. Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta. Il capitano De Grazia, come risulta dalla ricostruzione dei fatti, stava conducendo indagini su tutte le vicende più oscure riguardanti il traffico illecito di rifiuti pericolosi e aveva costituito un gruppo di lavoro assai efficiente. Ciò nonostante, come ha riferito il maresciallo Moschitta “quando le indagini arrivarono a picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche i livelli della sicurezza nazionale”, “De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perchè il suo comandante lo aveva bloccato”. Elementi di poca chiarezza sono stati riscontrati altresì in relazione alle ragioni del viaggio a La Spezia, essendo state fornite alla Commissione versioni del tutto diverse, tra le quali anche un contatto con un confidente. Fatto non meno significativo è che risulta violato il fascicolo giudiziario che conteneva la documentazione relativa alle indagini che aveva svolto il capitano De Grazia e che era stato esaminato dalla procura di Reggio Calabria alla ricerca vana del certificato di morte di Ilaria Alpi, che lo stesso capitano De Grazia aveva sequestrato a Comerio: stando alle dichiarazioni del dottor Neri, infatti, “delle 21 carpette numerate rinvenute, 11 erano prive di documenti”. Ma ciò che è parso inquietante alla Commissione è stato l’improvviso smembramento del gruppo investigativo che faveva capo a De Grazia, subito prima e subito dopo il suo decesso. Pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia il colonnello Martini, che aveva avuto un ruolo di primo piano nell’attività investigativa, lasciò l’incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo della società municipalizzata di Milano impegnata nell’emergenza rifiuti. Le perplessità, in ordine alle ragioni di questa scelta, sono già state illustrate. Dopo la morte del capitano De Grazia il maresciallo Moschitta andò in pensione all’età di quarantaquattro anni. Il carabiniere Francaviglia chiese il trasferimento a Catania. L’ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi, dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia, non si occupò più dell’indagine: a suo dire, non per sua iniziativa. Lo smembramento del nucleo investigativo, che stava operando in profondità sul riciclo illegale dei rifiuti, se si unisce alla causa della morte, identificata in un evento tossico, getta una luce inquietante sull’intera vicenda. Non è compito di questa Commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell’autorità giudiziaria: tuttavia, non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese.

Ecco il testo in cui Giorgio Comerio racconta la "sua" verità sul sistema per mandare in fondo al mare siluri pieni di rifiuti tossici. "Su di me dette e scritte solo fantasie". Il memoriale dell'affondatore di veleni, riportato da Anna Maria De Luca e Paolo Griseri su “La Repubblica”. Ecco il memoriale di Giorgio Comerio, l'uomo al centro delle inchieste delle procure italiane sul traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in Parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito "noto trafficante". Comerio ci ha inviato il testo per posta elettronica. Si tratta delle tesi difensive che lo stesso Comerio intende sostenere per replicare a quelle che lui definisce "fantasie" e che sono state invece oggetto delle inchieste dei pm. Il memoriale. Nel memoriale Comerio dà le sue spiegazioni sui punti più controversi della sua attività dalla Somalia connection alla scoperta del certificato di morte di Ilaria Alpi ritrovato tra le sue carte. E poi ancora: l'agenda con la scritta "lost ship" annotata proprio il giorno in cui affondò la "Rigel", al largo di Reggio Calabria, una delle presunte navi dei veleni. Comerio inizia spiegando i suoi progetti di affondamento dei rifiuti tossi sotto i fondali marini, portati avanti con i governi di mezzo mondo: "La tecnologia Free Fall penetror's - scrive - è stata sviluppata dagli Stati Membri della Comunità europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, Svizzera e Canada per un investimento totale di circa 300.000.000 dollari USA. La tecnologia è una libera proprietà comune di tutti i cittadini delle nazioni che hanno investito su questo. I risultati sono pubblici e disponibili. E' possibile acquistare numerosi volumi a Parigi, in una libreria specializzata in tecnologia, che mostrano tutti gli studi e le analisi effettuate nell'Oceano Atlantico e dove si possono trovare anche le immagini delle testate penetratrici. Ma gli studi non sono stati continuati a causa della indisponibilità di fondi".  In realtà il sistema di affondamento dei rifiuti con siluri sarebbe stato bloccato perché una convenzione internazionale vieta questa pratica. Comerio contesta questa versione spiegando che la rinuncia a utilizzare il sistema "non ha niente a che fare con la London Dumping Convention che in quel periodo non era in vigore e non era stata firmata da diverse nazioni come Stati Uniti, Australia, Russia, ecc". Addirittura, aggiunge, "la Federazione Russa per diversi anni (ma anche ora?) ha disperso rifiuti radioattivi incapsulati in elementi di cemento nel mare di Barents e Kara, vicino all'isola Novaja Zemija. Nessuno poteva fermare quella attività". Infatti, sostiene Comerio, "la London Dumping Convention riguardava solo lo smaltimento illegale dei rifiuti in mare e non un sistema ben realizzato e sicuro per depositare penetratori sotto il letto del mare in zone sicure, con una precisa mappatura subacquea e test di prova per la procedura". Comerio iniziò quindi in quegli anni la sua attività "ma solo dopo aver ricevuto una risposta positiva circa l'uso dei Free Fall Penetrators". La risposta veniva "da un consulente di diritto internazionale con sede a Locarno (Svizzera). Solo a quel punto iniziai l'attività di marketing offrendo la tecnologia (e non i servizi di dumping) agli enti governativi interessati". Comerio definisce l'uso della Free Fall Penetrators "un modo per risolvere il livello medio dello smaltimento dei rifiuti radioattivi (composto da elementi radiologici ospedalieri, tute di lavoro ecc ma non da elementi ad alta energia). Una soluzione capace di ridurre la dipendenza dall'uso del petrolio e dai signori del petrolio". E racconta come "la tecnologia sia stata presentata ufficialmente dall'European Joint Research Centre in numerosi eventi pubblici dedicati alla tecnologia, mostrando i modelli, immagini, video, diagrammi, per vendere l'uso di un certo numero di elementi hardware che compongono il sistema, sia ai privati che alle società". Niente di illegale quindi, secondo l'autore del memoriale, perché "è stata una strategia finanziaria della Comunità europea per provare a recuperare un minimo degli investimenti fatti, incassando royalties dallo sviluppo dei diversi elementi di tecnologia che compongono il sistema di smaltimento. Con nessun risultato.. Uno dei team leader di quel periodo, il prof. Dr. Avogadro, potrebbe confermarlo". In questo quadro Comerio si definisce "uno dei diversi fornitori di elementi che compongono il sistema: "Ho venduto al Jrc la boa in grado di raccogliere dati sott'acqua e di trasmettere tutte le informazioni da un satellite ad una stazione centrale di controllo che si trova in Germania". Anni dopo Giorgio Comerio fonda Odm, "come un provider che offre la sua tecnologia solo a organi di Governo o a società governative. Odm non è mai stato in contatto con soggetti privati, ma solo con le istituzioni nazionali tramite le ambasciate. Odm non è mai stato coinvolto in alcuna attività illegale. L'attività iniziale di marketing è stata fatta presso l'Ufficio del Lugano, illegalmente attaccato dagli attivisti di Greenpeace. Ogni tipo di documento è stato analizzato dalla polizia svizzera e dal Procuratore di Lugano e, dopo due settimane di dettagliate analisi, la Corte svizzera ha riconosciuto che l'attività Odm era solo un legal marketing preliminare senza connessioni con qualsiasi tipo di attività illegale o criminale. In seguito gli attivisti di Greenpeace tedeschi sono stati condannati dalla Corte di Lugano. L'attività di marketing è stata realizzata contattando solo le ambasciate delle possibili nazioni interessate. Senza alcun risultato (testualmente with no result at all). Dopo questi eventi l'ufficio Odm è stato chiuso e l'attività di marketing è stata stoppata". Questa versione dei fatti contrasta con il fatto che Comerio è stato accusato dalla magistratura italiana di aver partecipato, in realtà, a un vasto traffico di armi e veleni. Ecco le risposte che l'accusato ha voluto fornirci. Comerio inizia dicendo che "la fantasia italiana è uno sport nazionale" e che "copie dei documenti di Comerio sono stati presi in consegna, come 'corpo del reatò da parte della procura di Catanzaro e delle copie sono state "diffuse" da attivisti di Greenpeace su testate "specializzate" come "Cuore", "Il Manifesto", "L'Espresso", ecc ecc. Risultato: una serie di fantastiche "connessioni" riportate dalla stampa italiana". E le affronta una per una. Somalia connection. Comerio dice che la tecnologia Odm era pubblica e totalmente disponibile sul web in diverse lingue. Senza segreti, nessun modo di agire "sotto il tavolo". E spiega: "Odm è stato avvicinato da un gran numero di studenti, ricercatori e anche uomini d'affari. Uno di loro ha proposto di prendere contatto con il Governo somalo. Ma prima di prendere qualsiasi contatto con l'ambasciata somala, Odm ha chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera) un chiarimento sul governo della Somalia. La risposta è stata negativa. Al momento sembrava non ci fossero ufficiali in ricognizione per conto del Governo. Così Odm non ha proceduto in ulteriori contatti con l'uomo d'affari privato". Ilaria Alpi connection. Scrive Comerio: "Si tratta di una pura falsità. Sembra che in casa mia sia stato trovato un inesistente certificato di morte della signorina Alpi. L'unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera". "Jolly Rosso". "Sulla stampa è stata pubblicata una storia divertente. A bordo della Jolly Rosso sarebbe stata trovata una mappa dei fondali del mare realizzata da Odm con possibili sedi di dumping nel mare Mediterraneo. Ma nessuna delle autorità ha mai mostrato questa mappa. Del tutto normale. Odm ha iniziato la sua attività anni dopo lo spiaggiamento della Jolly Rosso, e non sono stati individuati luoghi valutati da Odm come aree di smaltimento nel mare Mediterraneo". La connessione "Rigel" e la differenza tra "Lost" e "affondato". "Per Greenpeace e la Procura di Palermo c'è una connessione tra Comerio e una nave "Rigel" scomparsa presso l'isola di Ustica. Il motivo? Dentro una delle agende del signor Comerio è stata scritta la frase 'perso la navè nella settimana nella quale sembra scomparsa una nave nei pressi di Ustica .. In effetti il signor Comerio a quel tempo perso il traghetto dalla Gran Bretagna alla Francia. (Vela da St. Peter Port - Guernsey - a St. Malo - Francia). Era abbastanza difficile da spiegare che "perso" non significa "sommerso" .. Dopo mesi di indagini la connessione con Comerio è stata abbandonata". Affondamenti illegali nel Mediterraneo. È il capitolo più scottante nelle vicende che lo riguardano. Comerio risponde in modo articolato e parlando in terza persona. "Per un certo numero di giornalisti - scrive - lo scarico dei rifiuti illegali nel Mediterraneo era legato ai piani di ODM". Ma questo, dice, è falso per diverse ragioni: "Prima di tutto nelle mappe del ODM tra le possibili aree di smaltimento non c'era nessuno punto nel Mar Mediterraneo. Tutti i settori considerati erano solo in oceano aperto. In secondo luogo: il signor Comerio non è mai stato in contatto con elementi criminali: non vi è alcuna prova di un contatto del genere in tutta la sua vita. In terzo luogo, per un lungo periodo il signor Comerio ha lavorato con la sua società Georadar proprio per smascherare le discariche di rifiuti chimici pericolosi. Georarad ha goduto di importanti citazioni in letteratura scientifica. È stata citata su riviste e nei servizi della Rai3 Lombardia. La tecnologia Georadar è stata presentata dal dottor Comerio al Collegio degli ingegneri di Milano con positivi riscontri. Quella stessa tecnologia è stata utilizzata dalle Ferrovie, da Enel, Sirti, Agip e da importanti società in Italia, Svizzera e Germania. Le attività di Georadar sono iniziate nel 1988-89". Grazie a quella tecnologia (un sistema di indagine sotterranea), Comerio sostiene di "essere stato incaricato di collaborare con i giudici di Milano Antonio Di Pietro e Francesco Greco. Con il primo per scoprire alcuni fusti nascosti in diverse località del Nord Italia, con il secondo durante le indagini su un rapimento". Nel memoriale si aggiunge che "Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e ha collaborato alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All'epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano". Ecco dunque la conclusione: "La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell'ambiente e mai contro".

LA SPEZIA MAFIOSA.

Da tempo, in Italia, le mafie hanno perso la loro dimensione territoriale, essenzialmente circoscritta alle Regioni meridionali, per essere presenti e attive a livello nazionale (e internazionale), scrive Paola Picollo su “Oltre Gomorra”. Atti giudiziari, acquisizioni investigative, le relazioni della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) e della DIA (Direzione Investigativa Antimafia), i rapporti della Commissione parlamentare antimafia parlano chiaro: la mafia non può più essere considerata un “affare del Sud”. Tuttavia, persiste un sistema culturale che continua a relegare la criminalità organizzata ad una “questione meridionale” rendendo, così, estremamente difficile, in territori lontani dalle Regioni a tradizionale concentrazione mafiosa, fare attività e informazione antimafia: attività e informazione che, però, sono quanto mai necessarie per acquisire maggiore consapevolezza della realtà che ci sta attorno. Non c’è territorio, in Italia, che possa dirsi completamente “immune” dal virus mafioso, neppure al Nord, da cui proviene circa il 59,49% delle segnalazioni giunte alla DIA. Prendiamo in considerazione una Regione del Nord. Parliamo, per esempio, della Liguria. L’ultima relazione pubblicata dalla DIA dedica diverse pagine alle evidenti infiltrazioni delle associazioni mafiose in Liguria. Ma il rapporto della DIA non è certamente un caso isolato: da anni, gli investigatori e gli inquirenti impegnati nella lotta alla mafia (prima fra tutte il pm Anna Canepa, a lungo impegnata nell’Antimafia, prima in Sicilia e, poi, in Liguria) lanciano l’allarme sulla piaga criminale che sta affliggendo la Regione. Ne emerge una realtà delinquenziale caratterizzata dalla presenza di organizzazioni mafiose di origine calabrese, siciliana, campana e pugliese. Eccole qui, tutte presenti, non ne manca neppure una: Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra Corona Unita. In Liguria, queste organizzazioni mafiose sono più orientate ad ottenere la conquista dei mercati e dei riferimenti logico-strategici per la gestione dei traffici illeciti, piuttosto che ad ottenere un diretto ed immediato controllo del territorio. La mafia siciliana di Cosa Nostra è presente e attiva soprattutto a Genova e Imperia. I siciliani fanno riferimento alla famiglia di Caltanissetta facente capo a Giuseppe, “Piddu”, Madonia e alle famiglie Emmanuello e Monachello. Uno degli esponenti “di spicco” della mafia siciliana, a Genova, è Rosario Caci, 52 anni, appartenente alla “decina” dei Fiandaca-Emmanuello del clan Madonia, condannato a 17 anni di carcere per traffico di stupefacenti (ma coinvolto anche in diverse inchieste sulla prostituzione) che, fino a pochi mesi fa, risiedeva indisturbato nell’appartamento al civico 4 di Vico Mele, in pieno centro storico, malgrado la Corte di Assise di Appello di Caltanissetta avesse decretato, con ordinanza del 2005, la confisca dell’appartamento e dei suoi beni. Pare che, finalmente, si sia trasferito, dopo le proteste delle associazioni per la legalità e le ripetute denunce ma, in realtà, si sente dire in giro che le chiavi di casa le ha ancora in mano lui, così come il controllo sulla zona. L’esistenza del sodalizio armato nel territorio genovese è principalmente finalizzato alla commissione di omicidi e al controllo (con metodi di intimidazione e violenza) dei mercati locali di stupefacenti e del gioco d’azzardo: narcotraffico e totonero sono gli affari principali gestiti da Costa Nostra in Liguria. La ‘ndrangheta (che viene definita nel rapporto annuale della Commissione parlamentare antimafia “una grande holding economico-criminale, che mantiene come un tratto costante il controllo maniacale, quasi ossessivo, del territorio e delle strutture sociali ed economiche”) ha il controllo del Ponente Ligure, dove è presente sin dagli anni ’70, quando si inserì prepotentemente nella “guerra” per la floricoltura e i cantieri stradali. Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana e Busalla sono i cinque “locali” (le unità territoriali minime di riferimento) attraverso i quali la ‘ndrangheta agisce in Liguria e, grazie alla posizione geografica favorevole, coordina anche l’attività con i locali di Mentone, Marsiglia, Nizza e Tolosa in Francia. Inoltre, è stata accertata, con varie indagini, la presenza di un organismo detto “camera di controllo” avente il compito di coordinare le presenze, gli arrivi e i transiti: in Liguria, questo compito lo svolge il locale di Ventimiglia. Si tratta di una sorta di struttura di collegamento in grado di assicurare stabilità di rapporti, sinergie logistiche ed operative integrate e il sostegno ad attività di vario tipo (traffico di droga, usura, riciclaggio ecc…). Infatti, attraverso le sue strutture rigidamente organizzate, la ‘ndrangheta svolge soprattutto attività di supporto logistico (per latitanti, investimenti, riciclaggio) alla “casa madre” del Sud. Ma la ‘ndrangheta non si limita solo al supporto logistico per le attività illecite (benché pare sia quella l’attività prevalente nel Ponente Ligure): infatti, ricordiamo come essa abbia, ormai da decenni, conquistato la leadership incontrastata nel settore del traffico internazionale di stupefacenti. Genova è il porto principale, punto di collegamento tra Nord e Sud, in cui arrivano i carichi di cocaina dall’Europa e dal Sudamerica (nel 1994, è stata porto di introduzione del più grosso carico di cocaina: 5mila kg, arrivati dal Sudamerica per conto di un cartello colombiano-siculo-calabrese). La ‘ndrangheta ha, poi, il controllo del gioco d’azzardo, dello sfruttamento della prostituzione, dello smaltimento dei rifiuti, partecipa in società ed imprese anche commerciali e pratica regolarmente l’estorsione. Ma è il mattone il suo investimento preferito. Sempre maggiore risulta essere la sua penetrazione nell’economia legale e nel mercato edile attraverso il riciclaggio di denaro e lo strumento dell’appalto. Gli investigatori e gli inquirenti impegnati nella lotta alla mafia sottolineano un punto: “la mafia si radica in profondità quando comincia a reinvestire sul territorio i proventi dei reati”.E’ il caso della Liguria dove, soprattutto tra Savona e Imperia, sono stati registrati diversi casi di imprese vicine ad ambienti mafiosi che hanno realizzato importanti progetti. La ditta di costruzioni Co.For. srl dei fratelli Giovanni ed Antonino Guarnaccia, di Reggio Calabria, protagonista della risistemazione del pennello a mare a Celle Ligure, in località Punta Bouffou (ma che vanta importanti interventi anche a Varazze, Cogoleto, Campo Ligure e nell’Imperiese) è stata oggetto di denunce su presunti legami con la criminalità organizzata, a causa del gran numero di appalti vinti e del fatto che operasse liberamente anche in mancanza di un certificato antimafia. Nel 2007, la Co.For. srl è stata posta sotto sequestro e sono state arrestate 15 persone. Sotto sequestro è stata messa anche un’altra ditta riconducibile ai fratelli Guarnaccia, la Icem srl. Sigilli anche alla Edil-Moviter, alla Costruzioni Generali srl e alla Facere, riconducibili a Salvatore Domenico Tassone, imprenditore di Polistena (RC) ritenuto in contatto con alcune cosche della ‘ndrangheta. Beni rurali e palazzine in costruzione su tre piani sulle colline del Tigullio sono state confiscate dalle Fiamme Gialle, che hanno così incastrato Carmine Griffo, originario di Patronà, in provincia di Catanzaro ed esponente della cosca locale, arrivato in Liguria nel 1992 e da allora gestore di alberghi e night. Colpire i patrimoni è una delle strade fondamentali per poter rendere davvero efficace la lotta alla mafia. Gli investigatori starebbero vagliando l’effettiva esistenza di permeabilità con alcune aree del mondo imprenditoriale e politico. E, poi, c’è la camorra, radicata soprattutto a La Spezia e Massa, dove gestisce il gioco d’azzardo all’interno di bische clandestine e la proprietà delle apparecchiature video-poker da installare negli esercizi pubblici: una strategia affaristica, questa, che muove miliardi. La gente ignora che perde il 90% del proprio denaro, dando così un apporto sostanzioso alle organizzazioni criminali. I capi delegano a gruppi criminali le attività più rischiose, come lo spaccio di stupefacenti, investendo, poi, i profitti nel gioco d’azzardo, che permette una grossa resa economica e il minimo rischio sotto il profilo penale. A Sanremo, la camorra si occupa di contraffazione (attività portata avanti attraverso lo sfruttamento della manodopera extracomunitaria, principalmente senegalese) e detiene il monopolio dei mercati, così come a Ventimiglia. Forte è la sua presenza soprattutto nella zona portuale di Genova dove è stata registrata una intensa attività di contrabbando internazionale: un grande profitto è ricavato, infatti, dal traffico di auto verso i Paesi extracomunitari attraverso gli snodi portuali liguri. Importante e sostanziosa è anche l’attività di riciclaggio e reinvestimento di denaro svolta nella Riviera di Ponente e in Costa Azzurra. Insomma, la presenza mafiosa sul territorio ligure è viva, comprovata, non può essere negata e rappresenta un allarme che non si può sottovalutare, tanto più che aumentano i casi di delitti di sangue. Eppure, in Liguria, la maggioranza delle persone ritiene che il fenomeno mafioso non la riguardi, che sia un “affare del Sud”. La cultura dell’antimafia, in Liguria, non c’è o è molto poca, complice anche una informazione che relega le notizie al riguardo in poche righe sulle pagine di cronaca locale. Tuttavia c’è chi, come magistrati, alcuni giornalisti ed esponenti politici e le associazioni per la legalità, si batte quotidianamente affinché cresca la sensibilità su quanto il fenomeno mafioso sia radicato sul territorio. Averne consapevolezza è condizione essenziale per poterlo sconfiggere. Appalti e cantieri, la mafia inquina i porti del Nord, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Marghera, Monfalcone, La Spezia e Ancona. I prestanome. Le famiglie palermitane che vanno verso Nord. La famiglia Galatolo e i cantieri navali hanno sempre avuto ottimi rapporti. Mai ufficiali, perché i Galatolo sono tra le più importanti dinastie mafiose dell’Acquasanta di Palermo, ma continui e proficui, almeno dal secondo Dopoguerra. Gaetano Galatolo, detto “Tanu Alati”, già nei primi anni Cinquanta era noto per essere il maggiore fornitore di manodopera ai cantieri navali di Palermo. Nessuno dei dirigenti del porto però sapeva chi fosse, si diceva. Eppure quel Gaetano Galatolo per la Polizia è già un osservato speciale, e il suo nome esce con prepotenza in una delle prime faide interne alla mafia siciliana, cioè lo scontro tra la “mafia dei cantieri”, rappresentata proprio da Galatolo, e la “mafia dei giardini”, che teneva sotto scacco i sistemi di irrigazione e il mercato ortofrutticolo di via Guglielmo il Buono e le concessioni per gli spazi del mercato stesso. Tanu Alati viene ucciso nel 1955, ma la dinastia dei Galatolo continua a fare affari nella cantieristica navale, rimane fedele a Totò Riina, e nonostante gli arresti i capitali e i patrimoni dei padrini rimangono in circolazione e si trasferiscono anche nei porti del Nord Italia. Avvalendosi negli anni di insospettabili prestanome. Ultimo in ordine di tempo, venuto alla luce nelle scorse settimane dopo un’operazione della Direzione Investigativa Antimafia, sarebbe Giuseppe Corradengo, palermitano, originario proprio dell’Acquasanta e nome noto nel settore della cantieristica navale, riconosciuto come il “re delle coibentazioni". A lui la procura di Palermo contesta il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Corradengo, da vent’anni, ottiene diverse commesse sia nei cantieri navali di Palermo, sia nel resto d’Italia, su tutti Monfalcone, Marghera, Ancona e La Spezia. Una spartizione di lavori e appalti che sarebbe emersa in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Fontana, nipote prediletto dei Galatolo: «Alla fine degli anni ’90 – ha messo a verbale Fontana – quando le indagini si erano fatte più stringenti, i Fontana e i Galatolo decisero di spostare i loro interessi lontano dalla Sicilia». Così i lavori delle due famiglie sarebbero entrati anche «nei cantieri del Nord». Basti pensare, che in appena tre anni, dal 2003 al 2005, le società navali che fanno capo a Giuseppe Corradengo erano riuscite ad aggiudicarsi lavori per 7,3 milioni nei cantieri della Spezia, Marghera, Ancona e Riva Trigoso. Così, ha spiegato il collaboratore di giustizia Angelo Fontana agli inquirenti. I Fontana si sarebbero affidati all’imprenditore Rosario Viola, mentre i Galatolo si sarebbero affidati proprio a Corradengo, grazie al suo pregresso rapporto con Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, accusato di alcuni grandi delitti compiuti a Palermo come quelli del generale Dalla Chiesa, del giudice Rocco Chinnici e del capo della mobile Ninni Cassarà. Una carriera fulminante quella di Corradengo, che da operaio dei Cantieri navali di Palermo si “trasforma” in imprenditore e dominus di imprese come “Nuova Navalcoibent” ed “Euro Coibenti” su cui sarebbero confluiti i capitali mafiosi. Tanto che l’indagine ha portato allo scoperto che interi settori delle lavorazioni navali erano gestiti in regime di quasi monopolio, da imprese che sarebbero riuscite a riciclare ingenti capitali di origine illecita. Un sistema che da Palermo si è poi propagato nei cantieri navali liguri e veneti. Alcuni dei lavori fra i bacini di Marghera, Monfalcone, La Spezia e Ancona nelle mani delle imprese di Corradengo, e degli altri tre presunti prestanome coinvolti, Domenico Passarello, Vincenzo Procida e Rosario Viola, sono stati eseguiti anche per conto di Fincantieri. Fincantieri che alla notizia degli arresti ha tenuto subito a precisare che l’ente è parte lesa. Un sistema “classico” quello che sarebbe stato messo in atto per ottenere i lavori: oltre alle intimidazioni nei confronti dei concorrenti, «si davano bustarelle – afferma ancora il collaboratore di giustizia Fontana – di 10mila, 16mila euro per prendere lavori di 800mila, tutte in nero». Un filone d’indagine, quello che potrebbe configurare un sistema corruttivo diffuso, ancora coperto dal riserbo. Tredici anni fa a Palermo si chiuse un processo con numerose condanne riguardo gli stessi metodi. «Ora siamo alla seconda puntata» ha dichiarato il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, commentando l’operazione della scorsa settimana che ha portato al sequestro delle tre aziende (due di Palermo, Eurocoibeti e Savemar, e una con sede a La Spezia, la Nuova Navalcoibent). Eppure tra le imprese coinvolte nell’operazione dell’antimafia, la stessa Fincantieri e il porto di Marghera una spia d’allarme si era già accesa attorno al tema lavoro: Eurocoibenti, aggiudicataria degli appalti per la coibentazione in lana di vetro delle cabine delle navi, aveva lavorato nel porto fino a febbraio 2012, quando era stata messa in liquidazione. Dopo un anno di cassa integrazione straordinaria, i 106 dipendenti dell'azienda sono stati licenziati poco più di un mese fa. Ma già nel 2011 si contavano i primi esposti dei sindacati e le prime proteste dei lavoratori per alcuni appalti aggiudicati dalle imprese al massimo ribasso e conseguente scarsa osservanza delle leggi sulla sicurezza sul lavoro. Un settore, quello della cantieristica navale, che ha sempre attirato su di sé le attenzioni delle cosche. Se infatti già negli anni Cinquanta i Galatolo erano noti dalle parti dei cantieri palermitani, gli affari di Cosa Nostra nei porti e nei cantieri navali italiani sono andati progressivamente espandendosi. «Se, dunque, l'interesse dell'associazione mafiosa per la cantieristica navale palermitana poteva essere considerato un dato acquisito – hanno scritto nella richiesta i pm Vittorio Teresi e Pierangelo Padova – la presente indagine, per converso, ha consentito di scandagliare, in concreto e forse per la prima volta, la proteiforme capacità dell'associazione medesima di estendere il proprio ambito di influenza ben al di là dei confini regionali siciliani e di infiltrarsi, in particolare grazie all'opera di soggetti in apparenza “puliti”, nella cantieristica navale di molte regioni del Centro-Nord Italia». Soggetti insospettabili e “puliti” che continuano a inquinare la vita economica del Paese.

LA SPEZIA MASSONE.

La Spezia, crocevia radioattivo e di veleni, tra Servizi, mafie e massoni. A La Spezia vi sono due record, anzi tre. Il primo è nella zona intorno al Porto Militare dove vi è la più alta percentuale di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Il secondo è zona intorno alla Discarica di Pitelli dove vi è la più alta percentuale di tumori infantili. Il terzo è generale, per tutta la provincia, e vede il record mondiale per malati per amianto di mesotelioma in rapporto alla popolazione. Davanti a tutto questo la Procura non nota nulla, figuriamoci la politica ed i funzionari pubblici...scrive “La Casa Della Legalità”. Qui, come nella Lunigiana, il peso della Massoneria è ancora forte, anzi è determinante. Quindi certe cose non le si deve guardare, anzi bisogna starci ben alla larga. Alcuni magistrati ci avevano provato ed alla fine se traffici & affari sporchi sono rimasti saldi in quella terra spezzina, sono i magistrati che se ne sono dovuti andare. Ed è da qui che occorre partire, da quella rete di Potere che, trasversale, veramente come vi fosse a giostrare il tutto un abile Architetto dell'Universo, vede una commistione tra lecito e illecito, tra decenza ed indecenza, con protagonisti imprenditori, amministratori pubblici, funzionari, mafiosi e Servizi. Certo c'è un porto, ci sono i cantieri navali... c'è l'Arsenale e l'area militare... Vero, ma vi è di più a La Spezia. Vi è un crocevia tra terra e mare, vi sono aree e spazi da riempire, con cosa poco importa, a quale costo (ambientale e sociale) nemmeno. Qui la 'ndrangheta, con la copertura dei Servizi, aveva uno degli snodi per i traffici dei veleni e soprattutto per le navi dei veleni, quelle verso l'Africa e quelle a perdere, destinate agli affondamenti. La Spezia era un nodo centrale per i servizi a basso costo offerti dalla 'ndrangheta alle grandi industrie del nord per far sparire quei rifiuti tossici che per essere smaltiti regolarmente avrebbero comportato costi assai più elevati. E poi ci sono i servizi, sempre a basso costo, che la 'ndrangheta poteva fornire per far sparire i rifiuti radioattivi... ed i Militari di questi ne hanno tanti! Così a La Spezia dove prima dell'esplodere degli scandali facevano base anche i Messina con le loro flotte di navi, è il porto della Zanobia e della Rigel... è il porto dove una banchina era "a disposizione" e dove i Servizi permettevano di accedere con i camion pieni di veleni da far sparire interrati altrove, affondati nei loro fusti o container quando non con le stesse navi su cui venivano stipati... o condotti in Africa con quel viaggio di rifiuti ed armi coperto dalla nota "cooperazione internazionale". Qui avevano snodo rifiuti tossici delle grandi imprese del nord, a partire da quelle chimiche, i rifiuti dell'Acna di Cengio avevano un lascia-passare. Qui una parte finiva in Porto su quella banchina fantasma, altri, insieme alle ceneri delle Centrali Enel, finivano nella Discarica di Pitelli. Ed è di lì che iniziarono ad indagare i magistrati spezzini che poi dovettero spostasi altrove. In quella Discarica dove per fermarli, per non farli arrivare in quell'angolo dove interrati non vi erano solo i rifiuti tossici ma anche quelli radioattivi, fu posto il Segreto di Stato. Tra la Discarica ed il Porto, con quella banchina fantasma, dove certi carichi venivano lasciati passare senza controllo alcuno, vi era un imprenditore che con i suoi camion era il signore dei rifiuti: Orazio Duvia. E nei traffici di Duvia si individuarono non solo gli illeciti ambientali ma anche le compiacenze dei politici e dei funzionari pubblici. Compiacenze pagate con tangenti. Quasi tutto ormai è prescritto, i reati dei colletti bianchi, dei politici e funzionari, praticamente tutti! Altri stralciati e archiviati, pur davanti alle prove... troppo tempo ci hanno messo i magistrati in quella corsa ad ostacoli infiniti posti davanti al loro lavoro da ogni dove per garantire l'impunità. Basti pensare che uno dei funzionari della Provincia coinvolti, su cui sono stati accertati dal Corpo Forestale dello Stato e dalla Procura molteplici reati e per cui è scattato il rinvio a giudizio, è stato chiamato all'Arpal. Ma qui a La Spezia, la terra dove ancora oggi le bonifiche non si è ancora capito bene come vengano compiute (e controllate), come dimostra l'ex area IP - dove a lavorare vi era inizialmente l'Eco.Ge dei Mamone che però poi venne beccata dalle Procure per quei viaggi nel sud Piemonte a scaricare -, e dove per coprire le emissioni dal terreno "bonificato" si usava acqua e profumo di gelsomino... perché anche se l'aria continua ad essere irrespirabile qui deve sorgere al più presto un bel centro commerciale! Quando la Discarica di Pitelli venne posta sotto sequestro dalla Procura, si mescolano la questione bonifiche con quella dei viaggi dei veleni. Infatti non vi era più quel posto sicuro, sulla collina di Pitelli o nel Porto, per far "scomparire" le terre della bonifica di Seveso. Così quei camion, si racconta, siano stati dirottati altrove. Verso il Tigullio, una terra già protagonista per la Rifiuti Connection Ligure dei primi anni Novanta gestita dalla 'ndrangheta, tra miriadi di vecchie Cave e le miniere di Libiola con i fiumi gialli che escono dalle gallerie, insieme ad odori nauseabondi (ma su questo torneremo a breve). Altri carichi provenienti da Seveso sarebbero ancora stipati nei vecchi depositi militari del porto... si dice finirono a Garlasco. Ed è proprio a Garlasco che, indagando sulle navi dei veleni, arriva il Capitano De Grazia. Va a perquisire la villa dell'ing. Giorgio Comerio. Qui vengono trovati e sequestrati materiali scottanti. Si trovano i documenti, divisi in cartelline, una per ogni Paese meta dei viaggi delle navi dei veleni. Sono i paesi dell'Africa dove le navi portavano rifiuti tossici e armi. Sono documenti sulle famose navi "a perdere"... in una delle cartelline viene anche trovato il certificato di morte di Ilaria Alpi! Tra i materiali sequestrati in quella casa di Garlasco, di Comerio, c'è anche una videocassetta "promozionale" di uno dei progetti di Comerio & C: i missili "penetrator". Sono quei missili che si proponeva di sparare sui fondali marini per smaltire le scorie nucleari. Un progetto della Odm (Oceanic disposal management), promosso presso i governi e persino via internet... per chiunque voglia smaltire le scorie in fondo al mare. Un progetto le cui carte verranno ritrovate anche a bordo della Jolly Rosso, perché per rendere efficiente quel progetto serve una grande nave che possa predisporre i singoli siluri e poi spararli da fuori bordo. Un progetto folle che per fortuna verrà fermato... Un progetto le cui prove generali partirono proprio da La Spezia, da quel porto...  Oggi i progetti dei signori dei rifiuti tossici e delle scorie nucleari sono cambiati in parte. La Liguria resta sempre la base logistica per le rotte illecite, come anche resta terra di interramento. Gli stessi protagonisti di allora sono sempre qui e se le Cave di allora gli sono state sequestrate ne hanno di nuove, con regolari concessioni rilasciate dai funzionari pubblici a partire dalla Direzione Ambiente della Regione Liguria... come per il caso dei Fazzari-Gullace. Le rotte lungo i mari invece sono cambiate. Buona parte dei rifiuti che le grandi ditte del nord vogliono smaltire senza pagare i costi di trattamenti regolari per tutelare salute e ambiente, ora viaggiano verso la Cina e di lì tornano indietro sotto forma di giocattoli, materiali vari e abbigliamenti tossici. Altri vengono gettati in fondo al mare, ancora. Ma non più sulle grandi navi... troppi controlli, meglio i porticcioli turistici, dove - grazie alle Leggi promosse da Burlando durante il Governo Prodi - è il titolare della concessione che effettua i controlli, detiene e compila i registri delle imbarcazioni che entrano, si fermano o partono. E se per caso una barca affonda, da un lato il proprietario potrà rifarsi tranquillamente con l'assicurazione mentre altri avranno affondato ciò di cui dovevano sbarazzarsi. Ma questa è un'altra storia su cui torneremo, come torneremo sul nuovo grande progetto, che ancora parte da vecchie conoscenze, come il Comerio, e sempre da società svizzere, magari legate a colossi come la Duferco, che stanno programmando di costruire degli inceneritori speciali, per bruciare le scorie nucleari, nei balcani, al di là dell'Atriatico, nella terra di origine di Jack Rock Mazreku, già legato a Comerio, ieri in Somalia, poi dal Jolly Rosso ed oggi alla testa della società che gestisce il Porto di Lavagna, che pur se non ha permesso di soggiorno si sposta tranquillo, con la sua limousine targata Corpo Diplomatico! Questo intanto è uno spaccato di quanto sia importante La Spezia per certi traffici. Questo per capire che in quel porto, dove è ancora forte la presenza nei cantieri navali di Cosa Nostra, e dove continua ad esserci una impenetrabile nebbia ad avvolgere le banchine, i depositi e l'area militare, si nascondono molti dei misteri e degli affari indicibili di questo Paese, così come su quelle colline, in quella Discarica di Pitelli e nelle altre sparse nel territorio che continuano ad emettere nell'aria (e nell'acqua?!?) di tutto e di più, mentre i controlli non vedono! Ma d'altro canto siamo in Liguria, la base logistica, l'approdo al mare e dal mare, la terra di colline cosparse di Cave da riempire, crocevia perfetto per i traffici di morte, tra armi, scorie e rifiuti tossici. La salute non conta, la bellezza e qualità ambientale nemmeno, già devastata e piegate dalle colate di cemento... e perché sia così e nessuno osi discutere è bastato porre sotto il completo controllo politico l'Azienda Regionale della Sanità e l'Agenzia Regionale per l'Ambiente, così tutto può procedere senza ostacoli... come quei fiumi gialli fosforescenti che scendono dalla vecchia miniera sulle alture sino al mare di Sestri Levante.  

MAGISTROPOLI.

LA SPEZIA, MAGISTRATO INDAGATO HA BUCATO LE GOMME A UNA COLLEGA.

Un giudice del tribunale di La Spezia è stato indagato per aver tagliato le gomme dell'auto di una collega. Il procedimento aperto dalla procura di Torino, competente per i reati che riguardano i magistrati della Liguria. L'episodio quando nel parcheggio sotterraneo del tribunale spezzino la donna scoprì il danneggiamento all'auto. Da lì partirono le indagini, con tanto di telecamere poste dalla polizia giudiziaria. Passò un altro mese e nuovamente la donna trovò le gomme bucate. Ma a questo punto le telecamere hanno inchiodato il giudice che stava danneggiando l'auto della collega. Ora dovrà rispondere di danneggiamento aggravato. Si tratterebbe, di un vecchio rancore risalente ad alcuni anni fa: il magistrato rischia una condanna penale, ma anche un provvedimento cautelare di sospensione. Tutti i processi che lo vedono coinvolto potrebbero ricominciare daccapo. Si rischia così anche la prescrizione di alcuni reati.

Giulio Cesare Cipolletta, il giudice indagato per aver tagliato le gomme dell’automobile di una collega, ha chiesto il trasferimento. Il magistrato avrebbe formalizzato la richiesta di applicazione extradistrettuale e cioè di essere destinato per un certo periodo di tempo ad altro tribunale. Un apprezzabile beau geste che servirà anche a rasserenare il clima a palazzo di giustizia dove si vive con malcelato imbarazzo il conflitto tra i due giudici sfociato nell’episodio di danneggiamento all’interno del garage dove le telecamere hanno immortalato il magistrato mentre con un punteruolo forava le gomme dell’auto della collega. La richiesta che avrebbe formulato il giudice Cipolletta riguarda l’assegnazione pro tempore ad un diverso tribunale. Quello dell’applicazione extradistrettuale è un istituto al quale si fa spesso ricorso per rimpinguare palazzi di giustizia sotto organico in particolare nel sud con assegnazione di magistrati esperti per un periodo di solito di sei mesi che in alcuni casi vengono anche prorogati. Inutile cercare conferme sulla richiesta di trasferimento avanzata pare lunedì. Il presidente facente funzione del tribunale, Vincenzo Faravino, non conferma né smentisce la notizia che gira nei corridoi del palazzo di giustizia. Certo è molto probabile che il Consiglio Superiore della Magistratura apra un procedimento nei confronti di Giulio Cesare Cipolletta e sarà compito dell’organo di autogoverno della magistratura stabilire se, ed eventualmente quando, adottare dei provvedimenti disciplinari nei suoi confronti. Intanto l’inchiesta promossa dal Procuratore aggiunto di Torino, Francesco Saluzzo, va avanti e lì’indagato, interrogato nei giorni scorsi, si è presentato nel capoluogo piemontese e davanti al magistrato che lo interrogava si è avvalso della facoltà di non rispondere mentre da parte sua la collega, che lavora al tribunale civile, avrebbe raccontato i vari danneggiamenti subiti dalla sua vettura. In quattro occasioni il giudice avrebbe riportato danni all’auto lasciata parcheggiata all’interno del posteggio riservato ai magistrati nel seminterrato del palazzo di giustizia.. La prima volta ha forse pensato ad una foratura subita in strada, la seconda si è insospettita ed ha presentato denuncia e a quel punto si è deciso di installare le telecamere che però non erano ancora attivate quando ci fu un terzo episodio di danneggiamento. La quarta volta, e solo di questa dovrà rispondere il giudice Giulio Cesare Cipolletta, invece le telecamere erano in funzione e nella registrazione ci sarebbe immortalato il magistrato mentre con un punteruolo buca le gomme della collega.

Ironia della sorte: indagato per danneggiamenti all’auto di una collega, in tribunale a Sarzana il giudice Giulio Cesare Cipolletta avrebbe dovuto decidere su una causa riguardante un reato simile, commesso da un viados brasiliano a Marinella che due anni fa ha scagliato un sasso contro il fanale di una macchina, distruggendolo, scrive “La Nazione”. Di fatto però l’udienza è finita ancora prima di cominciare: l’imputato è infatti nel frattempo deceduto e quindi il reato estinto. Paradossalmente però ieri mattina il giudice non ha potuto mettere la parola fine al procedimento che è stato rinviato a ottobre, in attesa di acquisire il certificato di morte dell’imputato. Superato indenne quello che poteva essere lo «scoglio» della giornata, il giudice Cipolletta ha affrontato gli altri processi con la fermezza che l’ha sempre contraddistinto. La sua giornata sarzanese è terminata nel tardo pomeriggio per lo slittamento di una causa relativa a un incidente sul lavoro. Intanto prosegue l’inchiesta della procura della Repubblica di Torino per una ricostruzione puntuale degli eventi e anche del movente. Ci sono le riprese della telecamera attivata dalla polizia giudiziaria, nel parcheggio-bunker del palazzo di giustizia, a costituire l’elemento portante della contestazione di danneggiamento aggravato. Immortalano il giudice all’atto di forare due gomme dell’auto di piccola cilindrata della collega. Lo fa con un punteruolo. E questa circostanza apre le porte ad una contestazione di reato parallelo: quella dell’articolo 4 della legge 110 dl 75, relativa alla detenzione di oggetti atti ad offendere. Ma perchè quel gesto? Cosa ci sta dietro? Le domande continuano a rincorrersi in città e, in particolare, al palazzo di giustizia. Trapela così che nel novembre del 2004 avvenne una vivacissima discussione fra il giudice e la collega. A generarla fu il disagio della seconda a trovarsi a far parte, per effetto della fissazione dell’udienza da parte del giudice Cipolletta e l’opzione di quest’ultimo a partecipazione invece ad un dibattimento, del collegio di un tribunale del riesame particolarmente delicato, uno di quelli che hanno scandito la querelle dell’amianto e dei sequestri e dissequestri della cava di serpentino di Rocchetta Vara e dell’impianto di frantumazione del Senato, su cui si innestarono le altre vicende che fecero salire la tensione al palazzo di giustizia: la clamorosa denuncia per falso da parte del pm Rodolfo Attinà della collega gip poi prosciolta a Torino e il sollevamento di tutti i magistrati nei confronti del pm, poi sottoposto così al procedimento disciplinare davanti al Csm. Ebbene nelle memoria difensive presentate al Csm, Attinà (che poi, in parallelo ai ricoveri per i gravi problemi di salute patiti, preferì andare in pensione) sostenne che nella composizione del tribunale del riesame in questione non vennero rispettate le cosiddette tabelle e le procedure per disciplinano la sostituzione dei giudici titolati a partecipare alle udienze.

PARLIAMO DI SAVONA

CONCORSI TRUCCATI.

Il concorso truccato alla Asl, risposte pronte per il quiz, scrive il 19 settembre 2015 Alberto Parodi su “Il Secolo XIX”. «Leggi e dimentica, io faccio un giro, sono le domande, c’è una per una, diverse». «Grazie spero di non farti fare una brutta figura». È il dialogo intercettato, l’incontro è anche filmato, tra Claudia Agosti (all’epoca direttore sanitario Asl e presidente di commissione, ora in pensione) ed E. C., che risulterà poi la vincitrice per il posto da direttore di distretto. E di nuovo stessa scena con L. G., mandato poi a dirigere un presidio ospedaliero, convocato nell’ufficio: «Io intanto vado a fare un giro». L. G.: «Ma devo farlo?». E la Agosti risponde: «Eh se lo vuoi fare almeno leggiti qualcosa, quelle cose lì». Le risposte erano state mostrate prima del concorso o colloquio decisivo. Concorsi, colloqui e nomine interne all’Asl nel giugno - luglio 2014 sarebbero stati truccati, fatti su misura, disegnati e preparati ad hoc, in base al curriculum di chi doveva vincere. I vincitori già designati insomma. In un caso addirittura il prescelto - secondo la tesi della Procura e della Finanza che era “entrata” negli uffici Asl tramite microspie e telecamere - aveva a disposizione due posti. Bastava scegliere. I presunti maneggi sono stati filmati e sono finiti nel faldone del nucleo di polizia tributaria che si è concentrata con il pm Pelosi sull’ipotesi di reato dell’abuso d’ufficio e rivelazione e utilizzo di segreti d’ufficio attribuito a vario titolo ai dirigenti Asl Neirotti, Baldinotti, Agosti e Damonte, nel filone d’indagine che ha preso spunto da quello principale della turbativa d’asta su Gsl. Claudia Agosti avrebbe consentito secondo la denuncia dei finanzieri “la copiatura di domande relative ai concorsi di imminente svolgimento”. E addirittura un indagato “poteva arbitrariamente decidere quale concorso vincere” è la constatazione contenuta nell’informativa finita nell’ “operazione Ippocrate” i cui atti sono stati consegnati ai legali dei vertici Asl e Gsl chiamati il 9 ottobre in Tribunale per discutere la richiesta di sospensione. Nel dossier consegnato alla Procura c’è anche la selezione per la struttura complessa dei sistemi informativi. Selezione vinta dall’ingegner E.S. «Non voglio farlo proprio ritagliato su S.» è la frase del direttore amministrativo Baldinotti, trascritta negli allegati. Poi la procedura di selezione per addetto alla documentazione con l’assunzione di M. M., al centro di un’altra indagine della Procura.

Eppoi. Concorsi truccati all’azienda sanitaria pubblica che, per fare un bando di gara, chiede la consulenza all’Unione Industriali non tenendo in considerazione il conflitto d’interessi. È quanto emerge a margine dell’inchiesta della Guardia di Finanza su Gsl ad Albenga. Asl 2 savonese nella bufera. «Di ’sta roba non ne so niente. E nei confronti di chi mi accusasse di avere fatto la sperimentazione di ortopedia privata all’ospedale di Albenga con l’obiettivo di assegnarla al gruppo Gsl di Albani, sono pronto alla denuncia per calunnia. Non sono mai stato sentito dagli inquirenti, non ho atti a disposizione». L’ex presidente della Regione Claudio Burlando è indagato dalla Procura di Savona, nell’inchiesta portata avanti dalla Guardia di Finanza, per concorso in turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Secondo i pm, proprio la Regione avrebbe favorito i privati chiudendo una convenzione del valore complessivo teorico sino al 2020 di 165 milioni di euro a partire dal 2011. Un trasferimento di risorse pubbliche al privato, per evitare la fuga dei pazienti fuori Liguria, su cui aveva messo gli occhi anche la Corte dei Conti che aveva attivato le Fiamme Gialle. Un lavoro seguito dal sostituto procuratore Ubaldo Pelosi, che ha portato ad indagare quindici persone tra Gsl (Gruppo Sanitario Ligure), medici e dirigenti, vertici di Asl e Regione. Oltre a Burlando sono nei guai il suo ex vice e assessore alla salute Claudio Montaldo e Franco Bonanni, direttore generale del dipartimento sanità. Solo per i manager pubblici dell’Asl e per l’imprenditore Gsl Alessio Albani (consigliere Carisa e leader ligure dei giovani di Confindustria) il pm ha chiesto al giudice per le indagini preliminari la sospensione dagli incarichi. Burlando non fa parte del gruppo d’indagati per cui sono state chieste misure cautelari, ma nelle informative della Guardia di Finanza finite nel fascicolo della Procura è accusato, da presidente, di aver esercitato pressioni psicologiche («coazione morale») capaci d’indurre i funzionari Asl a «condotte collusive» con le quali sarebbe stata influenzata la regolare procedura di gara a favore di Albani. Una tesi tutta ancora da dimostrare. Burlando, dal suo punto di vista, spiega così l’operazione Albenga: «Un’idea della Regione. La giunta ha condiviso la proposta dell’assessorato competente per evitare le fughe dei pazienti lontano dalla Liguria e risparmiare. L’ospedale di Albenga era una scatola parzialmente vuota. E il progetto non ci è stato proposto da Albani, che neppure conoscevo prima di questa operazione. Non ho mai avuto il suo numero di telefono. In merito alla favola del voto di scambio, alle primarie sosteneva Cofferati. Non era certo vicino alle mie posizioni».

MORIRE D'INQUINAMENTO...A VADO LIGURE.

11 marzo 2014. Vado Ligure: sequestrata la centrale a carbone. Il gip di Savona ha accolto la richiesta della procura: "C'è un nesso tra le emissioni delle centrale e i morti", Scrive “Panorama”. Il caso fu sollevato da Panorama.“Nesso di causalità tra le emissioni, le morti e le patologie. E la prova del disastro ambientale doloso con conseguenza sulla salute dei cittadini starebbe nella rarefazione dei licheni e nell'aumento delle malattie”. Con questa motivazione la procura di Savona, che da tempo indaga sulle emissioni della centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure, ha chiesto il sequestro dell' impianto al gip Fiorenza Giorgi che ha accolto la richiesta. La richiesta è stata decisa in seguito alle verifiche che sono state effettuate dai consulenti del Ministero dell'Ambiente e della Procura. Dagli accertamenti svolti sarebbe emerso, in particolare, il mancato rispetto di alcuni limiti imposti dall'Autorizzazione integrata ambientale. Sull'attività di Tirreno Power sono aperti due filoni d'inchiesta, una per disastro ambientale e una per omicidio colposo. Risultano indagati per disastro ambientale Giovanni Gosio ex direttore generale, dimessosi alcune settimane fa, e il direttore dello stabilimento Pasquale D'Elia. Ci sarebbe anche un terzo indagato di cui non si conosce il nome. Secondo la procura di Savona, i fumi della centrale hanno causato 442 morti tra il 2000 e il 2007. Per il procuratore Francatonio Granero la centrale avrebbe causato anche "tra i 1700 e i 2000 ricoveri di adulti per malattie respiratorie e cardiovascolari e 450 bambini sarebbero stati ricoverati per patologie respiratorie e attacchi d'asma tra il 2005 e il 2012". Tre settimane fa la procura aveva acquisito un verbale dell'Ispra, l'Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale del ministero dell'Ambiente, redatto durante una visita di routine. L'azienda si è sempre difesa sostenendo che gli studi dei consulenti di parte hanno delle "criticità". "Non sono mai state sottoposte a un contraddittorio, non si comprende quale sia stato il metodo di valutazione di esposizione agli inquinanti. Tale mancanza di chiarezza è accompagnata dall'assenza della doverosa analisi di robustezza, di sensitività e quindi di affidabilità globale del metodo adottato. Anche per questo motivo non si può affermare in concreto alcun nesso di causalità tra morti, malattie ed emissioni. Secondo l'azienda, nelle perizie dei consulenti della procura mancherebbe anche lo studio della ricaduta a terra delle particelle inquinanti. Tirreno Power ha però avviato lo spegnimento delle due unità a carbone della centrale di Vado Ligure a seguito dell'ok al sequestro. La magistratura ha dato alla società 24 ore per procedere all'operazione. Le due unità a carbone hanno ciascuno una potenza di 330 MW; resta operativa l'unità a gas della centrale di Vado, con una potenza installata di 800 MW circa. La decisione del Gip di porre sotto sequestro due impianti a carbone della centrale energetica Tirreno Power di Vado Ligure non riguarda solo le violazioni dell'Aia, ma anche il mancato adeguamento degli impianti con l'uso delle moderne tecnologie disponibili sul mercato che consentono di abbattere le emissioni nocive per la popolazione. E' quanto trapela da fonti della Procura che aveva chiesto il sequestro concesso oggi dal Gip. “Premesso che "c'è un'indagine in corso della Magistratura, e ho il massimo rispetto per il loro lavoro, il Ministero ha sempre svolto l'attività che si svolge in tutti i casi in cui ci sia un'Aia, quindi anche in questo caso, come in tanti altri; sono state fatte delle osservazioni, ma così come in tutti gli altri 150 casi di Aia che sono in piedi". Così il ministro del'Ambiente, Gian Luca Galletti, ha dichiarato a margine di una conferenza stampa sulla Terra dei fuochi a palazzo Chigi, risponde a una domanda sullo spegnimento della centrale di Vado Ligure di Tirreno Power. "In più - ha aggiunto - in 40 di questi casi", compreso Tirreno Power, "sono stati chiesti degli adempimenti all'azienda".

Tirreno Power, "nesso tra decessi ed emissioni". "Produzione riparte se interventi adeguati".  Secondo l'ordinanza, non sono stati fatti che interventi minimi e non sarebbero stati rispettati limiti imposti dall'autorizzazione integrata ambientale sulle emissioni. L'azienda: "Avere il diritto di fare impresa rispettando le leggi". Le preoccupazioni dei sindacati, scrive “La Repubblica”. La procura di Savona, che da tempo indaga sulle emissioni della centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure, ha chiesto ed ottenuto il sequestro dell' impianto. I carabinieri del Noe hanno infatti notificato ai dirigenti dell'impianto il sequestro, e si sono avviate le operazioni di spegnimento dei due gruppi a carbone che alimentano la centrale. Ci vorranno dalle 22 alle 26 ore perchè la centrale si fermi. Il giudice per le indagini preliminari Fiorenza Giorgi ha deciso il sì alla richiesta della Procura. La richiesta è stata decisa in seguito alle verifiche che sono state effettuate dai consulenti del Ministero dell'Ambiente e della Procura. Dagli accertamenti svolti sarebbe emerso, in particolare, il mancato rispetto di alcuni limiti imposti dall'Autorizzazione integrata ambientale. Oltre al superamento di alcuni limiti imposti dall'Aia, il sequestro sarebbe scattato anche per l'assenza del "sistema di monitoraggio a camino", che avrebbe dovuto essere realizzato entro il 14 settembre dell'anno scorso. Il gip Fiorenza Giorgi spiega nell'ordinanza che la centrale potrà ripartire dopo che si sarà messa in regola introducendo tecnologie adeguate. L'ordinanza con cui il gip ha disposto il sequestro della centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure parla di nesso di causalità tra le emissioni, le morti e le patologie. E la prova del disastro ambientale doloso con conseguenza sulla salute dei cittadini starebbe nella rarefazione dei licheni e nell'aumento delle malattie. Nell'ordinanza di sequestro viene spiegato che gli impianti sono sempre stati usati al massimo, senza prendere i dovuti accorgimenti contro le emissioni, nonostante la vetustà dei gruppi. Il giudice sottolinea che negli anni la società ha manifestato l'intenzione di mettersi in regola, ma ciò non è stato fatto. Ma nell'ordinanza si evidenzia anche che considerato l'impatto sociale dell'impianto, i gruppi potranno tornare a produrre energia "se si ricorrerà alle migliori tecnologie in grado di limitare le emissioni e di stare nei limiti delle prescrizioni". Finora si dice al palazzo di giustizia di Savona qualcosa è stato fatto "ma è come se fossero stati usati specchietti per attirare le allodole". "Tirreno Power intende continuare ad operare nel pieno rispetto della legge, difendendo il suo diritto a fare impresa in modo responsabile, così come ha sempre fatto". Lo ha dichiarato l'azienda, commentando in una nota il sequestro della centrale elettrica di Vado Ligure. "Lo spegnimento dell'unità alimentata a carbone - ha annunciato Tirreno Power - terminerà questa notte. L'altra unità era già ferma per manutenzione ordinaria. Il sequestro -si legge ancora nella nota- non coinvolge il gruppo a ciclo combinato che rimane pertanto disponibile all'esercizio". "Il provvedimento di sequestro -ha sottolineato l'azienda- è complesso, è allo studio dei tecnici e dei legali che lo stanno valutando in tutte le sue implicazioni. Potremo esprimerci sui contenuti solo nelle prossime ore quando -conclude la nota- sarà stato esaminato con la necessaria attenzione". Sull'attività di Tirreno Power - nella cui proprietà è presente anche il Gruppo Sorgenia - sono aperti due filoni d'inchiesta, una per disastro ambientale e una per omicidio colposo. Risultano indagati per disastro ambientale Giovanni Gosio ex direttore generale, dimessosi alcune settimane fa, e il direttore dello stabilimento Pasquale D'Elia. Ci sarebbe anche un terzo indagato di cui non si conosce il nome. Secondo la procura di Savona, i fumi della centrale hanno causato 442 morti tra il 2000 e il 2007. Per il procuratore Granero la centrale avrebbe causato anche "tra i 1700 e i 2000 ricoveri di adulti per malattie respiratorie e cardiovascolari e 450 bambini sarebbero stati ricoverati per patologie respiratorie e attacchi d'asma tra il 2005 e il 2012". Tre settimane fa la procura aveva acquisito un verbale dell'Ispra, l'Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale del ministero dell'Ambiente, redatto durante una visita di routine. "Abbiamo chiesto al Prefetto di convocare al più presto un incontro con l'azienda, la Regione, i due Comuni di Vado Ligure e Quiliano per capire meglio i contorni di questa vicenda e trovare una soluzione che consenta sia il mantenimento dei posti di lavoro sia il rispetto e la tutela dell'ambiente". Così Fulvia Veirana, segretaria della Camera del Lavoro della Cgil di Savona, a seguito del sequestro della centrale di Vado Ligure. "Tutte le aziende, compresa Tirreno Power - aggiunge Veirana - devono attenersi alle prescrizioni di legge. In caso contrario è giusto che vengano sanzionate. Il punto è come costringere l'azienda a rispettare i limiti di emissioni imposti dalla legge, garantendo l'occupazione. Per questo chiediamo che azienda e istituzioni provino a costruire percorso condiviso per la tutela dell'ambiente e dei posti di lavoro. La centrale di Vado occupa 200 lavoratori diretti che, con l'indotto, arrivano a circa 700 unità. Non accettiamo il ricatto occupazionale perchè in tutto il mondo ci sono centrali a carbone che funzionano senza rischi per l'ambiente o per la salute dei cittadini". Pino Congiu, segretario della Uiltec savonese, aggiunge che "abbiamo sollecitato l'azienda a fornire spiegazioni dettagliate sulle ragioni del sequestro. La situazione è complessa. Il vecchio piano industriale, che prevedeva un investimento di 1,3 miliardi di euro sugli impianti e per la copertura del parco a carbone, non è mai stato realizzato e poche settimane fa il nuovo direttore generale ha annunciato un nuovo piano entro giugno. Non vorremmo - conclude Congiu - che ci fosse una strategia di disimpegno degli azionisti sulla centrale". "Le inottemperanze e le inosservanze alle prescrizioni dell'Aia (l'autorizzazione ambientale integrata) che hanno motivato il provvedimento sono contenute in un verbale di Ispra dopo una visita fatta insieme con i tecnici di Arpal alla centrale. Il dipartimento Ambiente della Regione Liguria aveva già precedentemente inviato, fra l'altro, una serie di lettere al ministero dell'Ambiente, in cui si chiedeva di verificare l'esistenza di inadempienze ambientali sull'Aia stessa". Lo ha dichiarato l'assessore all'Ambiente della Regione Liguria Renata Briano, commentando la notizia della richiesta  di sequestro dell'impianto Tirreno Power da parte della Procura di Savona. “Il sequestro dell’impianto della Tirreno Power di Vado Ligure rappresenta un importante passo avanti nella lotta all’inquinamento ambientale e sanitario da anni denunciato in Liguria. Ora ci aspettiamo che la centrale a carbone di Vado Ligure venga riconvertita con progetti utili e sostenibili e che possa così diventare un esempio da seguire anche per gli altri impianti industriali vecchi e inquinanti presenti ancora in Italia, che arrecano solo danni all’ambiente e alla salute dei cittadini. Dall’altra parte è però necessario che ci sia un cambio di rotta nella politica energetica di questo Paese. È ora di dire basta ai sussidi per le fonte fossili e alle politiche a favore del carbone, bisogna invece optare per una politica energetica che guardi alle fonti rinnovabili e alla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio italiano”, così Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente commenta il sequestro dell’impianto a carbone di Vado Ligure.

"Senza la centrale di Vado non ci sarebbero stati 400 morti". È una dichiarazione dura quella del procuratore capo di Savona, Francantonio Granero, e ripresa da “La Repubblica”, sull'attività di Tirreno Power, proprietaria della centrale a carbone di Vado Ligure. Accuse a cui l'azienda ha risposto con una nota, che definisce "di parte" le consulenze che "non sono mai state sottoposte a contraddittorio". Sull'attività di Tirreno Power sono aperte da tempo due filoni d'inchiesta da parte della Procura, una per disastro ambientale e una per omicidio colposo. Secondo il procuratore ci sarebbero stati anche "tra i 1700 e i 2000 ricoveri di adulti per malattie respiratorie e cardiovascolari e 450 bambini ricoverati per patologie respiratorie e attacchi d'asma tra il 2005 e il 2012". I consulenti hanno mappato una 'zona di ricaduta delle emissioni' ed hanno escluso come causa delle patologie il traffico automobilistico, altre aziende della zona e i fumi delle navi in porto. Il perimetro della mappa riguarda quasi tutta Savona, Vado, Quliano e Bergeggi e in parte Albisola e Varazze. La nota di Tirreno Power critica i dati riportati: "Non si comprende quale sia stato il metodo di valutazione di esposizione agli inquinanti" considerati dai consulenti. "Tale mancanza di chiarezza è accompagnata dall'assenza della doverosa analisi di robustezza, di sensitività e quindi di affidabilità globale del metodo adottato. Anche per questo motivo non si può affermare in concreto alcun nesso di causalità". L'azienda - continua la nota - "invita ad una maggiore prudenza considerando la forte rilevanza anche emotiva che i temi trattati rivestono e che dovrebbero essere tuttavia sempre suffragati da fatti comprovati anzichè da ipotesi di parte le cui fondamenta sono tutte da verificare". Tirreno Power è una società partecipata al 50% da Gdf Suez, al 39% da Sorgenia - società del gruppo Cir che controlla anche il Gruppo Editoriale L'Espresso - e al 5,5% da Hera e Iren.

Una grana per Carlo De Bendetti. Sorgenia potrebbe finire nelle mani delle banche, scrive “Libero Quotidiano”. E' questa l’ipotesi che prende corpo di giorno in giorno, con l’aggravarsi dello “stallo” del gruppo elettrico controllato dalla Cir della famiglia De Benedetti. A fronte della magrissima offerta di 100 milioni di euro avanzata dai De Benedetti, le banche creditrici – un “plotone” guidato dal Monte dei Paschi di Siena, che ha da solo 600 milioni di esposizione verso l’azienda – potrebbero convertire in capitale una gran parte del loro credito e marginalizzare totalmente la Cir. A raccontare l'indiscrezione è Affaritaliani.it. La mossa potrebbe arginare le perdite ai soldi già spesi finora. La chiusura della partecipata savonese di Sorgenia, la Tirreno Power, disposta oggi dalla Procura ligure, aggrava la situazione del gruppo. In capo a Tirreno Power pesa infatti un altro colossale indebitamento, circa 900 milioni di euro, e l’attività è paralizzata. Le banche quindI devono rassegnarsi a trasformare parte del credito in capitale della Sorgenia. E, pur non essendoci il pieno accordo, come racconta ilFoglio, hanno proposto questo: Cir fa un aumento di capitale da 150 milioni, noi ne convertiamo 300 in azioni (e in pratica diventiamo proprietarie del gruppo), per i restanti 150 faremo un prestito convertendo di media-lunga durata. Il tempo risolvere la situazione è di due settimane...

Avvelenati. L’inchiesta che imbarazza De Benedetti. I pm di Savona indagano su migliaia di morti dal 2000 al 2008 nelle vicinanze della centrale a carbone di Vado Ligure. Azionista dell’impianto è la famiglia del padrone di «Repubblica». Che gli ambientalisti accusano: pensa solo ai profitti, scrive Antonio Rossitto su “Panorama”. La monumentale consulenza tecnica è stata consegnata tre mesi fa al procuratore di Savona, Francantonio Granero. Per due anni tre periti hanno esaminato migliaia di dismissioni ospedaliere e certificati di morte risalenti agli anni compresi tra il 2000 e il 2008. Il risultato è stato un complesso studio epidemiologico che ha rilevato un allarmante aumento di morti e di malattie respiratorie e cardiovascolari attorno alla centrale a carbone di Vado Ligure, un paesino sdraiato sulla costa di Ponente e incollato a Savona. Contestualmente venivano ricostruite le «mappe di ricaduta ambientale» dell’impianto. Infine, l’incrocio tra migliaia di dati. I reati ipotizzati dai magistrati sono disastro ambientale e omicidio colposo. Il fascicolo è a carico di ignoti, ma presto potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati manager, azionisti e amministratori pubblici. Il 19 settembre 2013 è il Secolo XIX a rivelare per primo gli esiti della consulenza tecnica, affidati a un pool di tre esperti tra cui Paolo Crosignani, ex direttore dell’unità di epidemiologia ambientale dell’Istituto dei tumori di Milano. Le emissioni, scrive il quotidiano, avrebbero provocato 1.000 morti di tumore. Numeri mai negati dai magistrati. Anche il procuratore Granero, seduto nella sua grande stanza con vista sui tetti di Savona, chiarisce al cronista di Panorama: «L’ho fatta entrare solo per cortesia». Ascolta con attenzione, senza proferire verbo. E alla domanda sulle indiscrezioni sui 1.000 decessi si trincera dietro un impenetrabile silenzio. Poi si alza, tendendo la mano: «Grazie della visita. Ora lasciateci lavorare». Le ciminiere, da queste parti, sono state ribattezzate «cimitiere»: svettano per chilometri da più di 40 anni, imponenti e sinistre. Le due unità, costruite nel lontano 1971, producono 660 megawatt: insieme, sono l’impianto a carbone più grande del Nord Italia. Appartengono alla Tirreno Power: metà della società oggi è in mano alla Gdf Suez, colosso pubblico francese, il resto è della Energia Italiana, per il 78 per cento della Sorgenia, l’azienda di energie rinnovabili controllata dalla Cir della famiglia di Carlo De Benedetti. Fino al 2011, però, la Sorgenia è stata azionista di maggioranza della Tirreno Power. Tutto comincia nel 2002: la società, all’epoca Interpower, viene venduta dall’Enel. Il 9 novembre di quell’anno La Repubblica, il quotidiano di De Benedetti, titola: «Interpower alla cordata Cir». Il Corriere della sera intervista il figlio dell’Ingegnere, Rodolfo, che allora è amministratore delegato della Cir. Promette: «In due o tre anni l’energia diventerà forse il nostro business principale, perché questo è un settore con tassi di crescita molto importanti». Sarà profetico: tra il 2004 e il 2011 la Tirreno Power macina 561 milioni di utili netti. Un risultato migliore di quelli della controllante Sorgenia, che si vanta di offrire «energia efficiente e sostenibile». Un investimento in cui la Cir ha creduto molto. Nel settembre 2007 la Sorgenia sale al 39 per cento del capitale della Tirreno Power, diventando fino al 2011 l’azionista di maggior peso. Mossa apprezzata dal mercato, che fa balzare il titolo Cir del 6,37 per cento. Oggi nel consiglio della società siedono ancora due manager espressione della Sorgenia e Giovanni Chiura, direttore finanziario della Cir, la holding che un anno fa l’Ingegnere ha ceduto ai figli. Riavvolgiamo però la pellicola al novembre del 2002, quando i De Benedetti acquistano l’impianto di Vado Ligure. Agostino Torcello, pneumologo savonese, da più di trent’anni denuncia i rischi di «una centrale a carbone costruita in mezzo a una città»: «Quando l’Enel decide di vendere» racconta Torcello «c’erano già studi approfonditi, firmati da scienziati come Massimo Scalia e Gianni Mattioli, poi parlamentari, che valutavano gravissimo l’impatto ambientale». Torcello, assieme al biologo Virginio Fadda, ha creato il movimento ambientalista Moda. «Nel 1998 la Provincia di Savona vota addirittura per la metanizzazione della centrale» rievoca Fadda. «Inspiegabilmente però non si dà seguito alle delibere. Fu solo l’inizio di una serie di clamorose mancanze e di coperture politiche». Nella centrale oggi lavorano più di 200 persone, che raddoppiano con l’indotto. E anche a Vado Ligure, come nella Taranto dell’Ilva, i partiti sono accusati di aver barattato il pane con la salute. A Savona, in piazza Sisto, di fronte alla libreria Ubik, si incontrano periodicamente gli arcigni promotori della rete «Fermiamo il carbone». L’inchiesta della Procura di Savona è partita nel gennaio del 2010 proprio da un esposto del comitato. Negli anni scorsi, al loro fianco, si sono schierati intellettuali e artisti, quasi sempre di centrosinistra. Fra di loro anche il premio Nobel Dario Fo e il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. La comunanza politica con l’Ingegnere non lo ha esentato da aspre critiche. Nell’agosto 2010, sull’esempio di quelle rivolte a Silvio Berlusconi da Repubblica, vengono pubblicate sui giornali locali e nazionali «10 domande a De Benedetti». L’editore viene attaccato dagli ambientalisti per la sua presunta doppia morale: «Perché lei, che si dichiara il primo tesserato del Pd, calpesta buona parte dei principi e dei valori propri del centrosinistra?». E poi: «Non conviene con noi che il rispetto per la vita e l’ambiente non può e non deve far parte di un mero gioco di interessi politici ed economici, ma deve invece far parte dei valori primari e inalienabili di ogni popolo civile?». In calce all’appello decine di firme: l’attrice Lella Costa, la scrittrice Lidia Ravera, il fumettista Sergio Staino, il giornalista Oliviero Beha e il futuro sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. E poi l’astrofisica Margherita Hack e il prete degli ultimi Andrea Gallo, entrambi da poco deceduti. A quelle accuse l’Ingegnere non ha mai risposto. Mentre la Tirreno Power ha replicato: «Non è corretto presentare il progetto di Vado come un’iniziativa dell’ingegner De Benedetti, che non ha alcun ruolo in Tirreno Power. La società non è di proprietà della famiglia De Benedetti e non fa parte del gruppo Cir. Sorgenia, del gruppo Cir, è uno degli azionisti di Tirreno Power con una quota di circa il 38 per cento». Traduzione: la Sorgenia, il cui consiglio d’amministrazione in quel momento è guidato da Rodolfo De Benedetti, è «solo» il nostro primo azionista. L’attacco all’Ingegnere viene reiterato nel 2012 da Beppe Grillo: «Stiamo facendo una battaglia per il no al carbone, contro poteri incredibili, come De Benedetti, cittadino svizzero» attaccava il comico poi fattosi leader politico. «Il suo giornale, La Repubblica, a Civitavecchia è contro il carbone perché è dell’Enel. Ma a Savona non dice assolutamente nulla, perché la centrale è sua. Questi sono i veri killer seriali della nostra epoca. Siamo ancora nell’Ottocento, e queste persone si propongono ancora come i paladini dell’informazione e del progresso». L’argomento è stato appena rilanciato da Grillo con un post sul suo blog: «Tirreno Power indagata. De Benedetti rispondi!». L’altro obiettivo è la politica. In particolare il Pd, che attorno alle ciminiere di Vado governa comuni, provincia e regione. Il 20 novembre 2013 il comitato «Fermiamo il carbone» lancia un comunicato: «La produzione doveva essere fermata da tempo, invece è stata prorogata in modo ottuso, interessato e arrogante, per i decenni a venire, con l’avallo di ministeri, regione, provincia e comuni». In particolare, gli attivisti si riferiscono all’ampliamento della centrale, autorizzato dal ministero dell’Ambiente nel marzo 2012, con il parere decisivo della Regione Liguria guidata da Claudio Burlando. «La precedente giunta, sempre retta da lui, aveva espresso un no chiaro e motivato al potenziamento. Perché ha cambiato idea?» attacca Stefano Milano, pasionario no carbone, barbetta sale e pepe, parlantina sciolta. «Eppure da anni era consapevole delle tante criticità ambientali e sanitarie, tutte documentate: non poteva non sapere». Accuse e allarmi sono cresciuti negli ultimi giorni. È intervenuto anche Andrea Orlando, ministro dell’Ambiente: «Mi sono promesso di andare alla Procura di Savona per capire» ha annunciato. «Emergono elementi che, se fossero consolidati, rimanderebbero un po’ alla vicenda dell’amianto all’Eternit». Il primo a correlare i decessi all’inquinamento è stato l’Ordine dei medici della provincia di Savona, nel dicembre 2010: «Ci sono comuni in cui la mortalità per tumore è maggiore rispetto alla media regionale». E le zone più inquinate «corrispondono alle aree circostanti alla centrale elettrica». L’Ordine sottolineava pure l’aumento delle malattie cardiovascolari, spesso causate dalle polveri sottili: in aumento fra i maschi rispetto alla media regionale, del 45,6 per cento a Vado e del 49,1 a Quiliano, l’altro paese all’ombra delle ciminiere. Il documento concludeva: «Il funzionamento degli obsoleti ed eccessivamente inquinanti gruppi a carbone costituisce una minaccia reale e consistente per la salute e la vita dei cittadini». Oggi, tre anni dopo, il presidente dell’Ordine Ugo Trucco sintetizza: «La centrale concorre all’inquinamento, e l’inquinamento alla mortalità. Quanto e come, lo accerterà la procura». Maria Ida Rebella, dal 1989 direttrice della farmacia comunale di Quiliano, una sua idea precisa ce l’ha: «Con gli anni c’è stato un aumento costante delle neoplasie» riferisce. Abbassa gli occhi e scuote la testa. Parla di una «processione»: i clienti che ogni giorno arrivano tenendo in mano ricette marchiate con il «codice 048». Quello che identifica le neoplasie: i tumori. «Ormai saranno quasi la metà» rivela. «Prima erano solo anziani, adesso vedo tanti cinquantenni. E bambini…». La farmacista ha il volto scavato e i capelli castani raccolti in una coda. «Ragazzini che hanno malformazioni genetiche e leucemie» ammette scorata, mentre confessa il peso di sentirsi inerme. «Per non parlare delle malattie respiratorie» continua. «Ho quattro nipoti che vivono sotto la centrale: uno ha l’asma, uno la bronchite, uno vive sotto cortisone, il più piccolo le allergie». Adesso la farmacista Rebella ha una speranza: i magistrati. La Tirreno Power, alla notizia dei risultati della consulenza della procura, ha reagito: «Quanto emerso non è coerente con i dati disponibili, che sono numerosi e pubblici, ed evidenziano una buona qualità dell’aria nel territorio». La società ha chiarito come vengono misurate le emissioni: «La rete di rilevamento è stata realizzata in accordo con le prescrizioni delle autorità». Controllore e controllato sono quindi lo stesso: la Tirreno Power. Che poi rende pubblici i dati. Solo se si sforano i limiti intervengono le autorità sanitarie. Così non avviene nell’ottobre del 2007, quando al ministero dell’Ambiente, guidato dall’ex leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio, arriva uno studio sul biomonitoraggio della zona, commissionato dalla stessa centrale. «Ha rivelato valori di inquinanti eccezionalmente elevati» ricorda Gianfranco Gervino, del comitato Unitiperlasalute, che vive a Quiliano. «In molti casi risultano i più alti mai riscontrati in Italia». Cadmio: 15 volte più alto dei valori normali. Arsenico: 12 volte maggiore. Mercurio: 64 volte superiore. Cromo: cresciuto di 82 volte. «Ma nessuno fece niente» denuncia Gervino. «I dati dello studio vennero nascosti fino a quando, per caso, non sono stati trovati sul sito del ministero». Nel gennaio 2010 sono le risultanze dell’Arpa Liguria ad allarmare gli ambientalisti: i dati di un monitoraggio delle coste liguri, tra l’estate del 2008 e del 2009. I prelievi sono eseguiti alla foce del Quiliano, il torrente in cui scaricano le enormi pompe di raffreddamento della centrale. Nelle conclusioni l’Arpa scrive: «A Vado Ligure le alte concentrazioni di metalli quali mercurio, cadmio e piombo, trovano molto probabilmente la loro origine negli scarichi industriali degli insediamenti produttivi che gravano sulla zona di indagine». Conclusioni che concordano con i campionamenti 2012 di Greenpeace sulle triglie del Mar Ligure: solo a Vado i pesci avevano valori di mercurio e piombo fuori norma. «Attacchi preordinati che non hanno alcun fondamento né logico né di fatto: la centrale ha emissioni di mercurio fino a 1.000 volte inferiori ai limiti di legge» replica la Tirreno Power.

Un muro contro muro. «Fanatici movimentisti» contro «spregiudicati capitalisti». Una tenzone ambientale in cui, suo malgrado, è finito anche De Benedetti, abile imprenditore e gran moralizzatore. Adesso a Savona e dintorni si attendono grandi sviluppi.

I politici e le istituzioni ci hanno lasciati soli a lottare”, scrive Marco Raffa su “La Stampa”. «Meno male che c’è la magistratura». Gli ambientalisti del Savonese ripetono le considerazioni già fatte qualche giorno fa, quando erano filtrati, ancora senza la conferma ufficiale del procuratore Granero, i primi dati relativi alla consulenza commissionata dalla Procura. Per la «Rete savonese contro il carbone» che raggruppa numerose associazioni, comitati e movimenti locali, e che spesso nelle sue iniziative ha trovato al suo fianco Wwf, Legambiente, Greenpeace e Arci, scoprire che ci sono sono centinaia di morti e migliaia di malati come conseguenze delle emissioni della centrale elettrica non è una grossa sorpresa. «Sono anni che lo diciamo in esposti, ricorsi al Tar, convegni e manifestazioni di protesta. Così come sono anni che pungoliamo le amministrazioni pubbliche perché facciano quello che ora stanno facendo i magistrati: ossia le indagini epidemiologiche necessarie a stabilire il nesso di causalità fra l’inquinamento e le malattie e i decessi». Ha dichiarato ieri il presidente dell’Arci di Savona, Giovanni Durante: «Sapere oggi la verità per cui ci siamo battuti in questi anni, spesso isolati dalla politica e non solo, fa piacere. Rimarchiamo le responsabilità morali, etiche e politiche delle istituzioni che avrebbero dovuto salvaguardare la salute e la vita delle persone e non lo hanno fatto. Dov’erano?» Rincara la dose una nota della «Rete» savonese: «Dov’erano la Asl e l’assessorato regionale alla sanità e all’ambiente? E l’Arpal? Dov’era il Ministero della Salute? Dove erano gli amministratori a tutti i livelli, specialmente quelli che per istituto hanno il compito di tutelare la salute?».

DIVISE ZOZZE.

Savona, arrestati un poliziotto e due funzionari per corruzione. Avrebbero accettato denaro e regali, anche prosciutti, per agevolare pratiche di permesso di soggiorno e ridurre sanzioni, uno è il viceprefetto Santonastaso. L'ispettore Tesio già coinvolto nell'indagine sui Fotia, scrive Giuseppe Filetto il 6 febbraio 2017 su "La Repubblica". Arrestati un poliziotto e due funzionari a Savona Non disdegnavano nulla: dai prosciutti alla frutta secca, dagli abiti alle riparazioni dell'auto gratis, fino alle poche decine di euro. In cambio rilasciavano permessi di soggiorno, patenti facili, porto d'armi: talvolta si limitavano ad accorciare i tempi di rilascio.  Tutti i santi giorni il vice prefetto (nonché commissario straordinario al Comune di Borghetto Santo Spirito), il funzionario della Prefettura di Savona e il poliziotto passavano all'incasso, si vendevano per un "piatto di lenticchie". Questo raccontano le 319 pagine di ordinanza con la quale il GIP Fiorenza Giorgi ha posto agli arresti domiciliari il vice prefetto Andrea Santonastaso, il funzionario prefettizio Carlo Della Vecchia, e in carcere l'ispettore Roberto Tesi. In galera è finito pure un albanese, l'uomo che intercettato per traffico o di droga ha permesso di far saltare il coperchio di quello che i magistrati di Savona definiscono "il malaffare diffuso per pochi euro ". Altre due persone coinvolte nell'inchiesta del PM Venturi sono finite agli arresti domiciliari, e nel fascicolo aperto per corruzione, peculato, sfruttamento della prostituzione e dell'immigrazione clandestina, sono iscritte in tutto 25 persone. Il poliziotto, accusato anche di concorso in favoreggiamento della prostituzione, e il marocchino sono stati sottoposti a custodia cautelare in carcere, mentre i due funzionari del Ministero dell'Interno sono agli arresti domiciliari, come l'italiana, accusata di sfruttamento della prostituzione, e l'albanese. L'indagine è iniziata nel dicembre 2015, quando nell'ambito di un'altra inchiesta sono emersi contatti sospetti tra alcuni indagati ed il poliziotto. Secondo gli investigatori, "il poliziotto e i due funzionari del ministero avrebbero sistematicamente abusato delle loro funzioni agevolando pratiche in cambio di denaro, ma anche di regalie come vestiti, schede telefoniche, cene, assunzioni di amici, visite mediche, spese gratis nei negozi".

Uno dei due funzionari del ministero dell'Interno arrestati è Andrea Santonastaso, attuale commissario prefettizio al Comune di Borghetto Santo Spirito. Santonastaso, 64 anni, viceprefetto, ha ricoperto varie volte l'incarico di commissario prefettizio nei Comuni: nel 1993 a Rosta (Torino), nel 1994 a Celle Ligure, dal 1997 al 1999 ad Albenga, dal 2012 al 2013 a Carcare, nel 2016 a Spotorno, tutti Comuni del Savonese. Nelle passate settimane, secondo indiscrezioni, il viceprefetto avrebbe sondato alcuni politici di Borghetto per conoscere il gradimento su una sua eventuale candidatura a sindaco in una lista civica.

Carlo Della Vecchia è in servizio nello Staff del Referente responsabile per la trasparenza e l'integrità della Prefettura savonese come Funzionario economico finanziario.

Roberto Tesio: ex ispettore della squadra mobile, presidente del Quiliano Calcio, era stato coinvolto nel 2011 nell'inchiesta Dumper incentrata su un giro di mazzette nel Comune di Vado Ligure (Savona). Gli era stato contestato il reato di rivelazioni di segreti d'ufficio, ed era stato interrogato dalla Procura di Savona per una telefonata con uno degli arrestati, Mario Taricco, nella quale chiedeva di incontrare l'imprenditore Pietro Fotia. E' stato segretario del Siulp a Savona.

Sono accusati di corruzione, traffico di influenze illecite, peculato, truffa aggravata ai danni dello Stato, rivelazione di segreti d'ufficio, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, falso. Il poliziotto è accusato anche di concorso in favoreggiamento della prostituzione.

Telecamere e microfoni. Tutto intercettato e trascritto sul fascicolo aperto dal pm Daniela Pischetola. Il comandante della polizia municipale di Spotorno, Andrea Saroldi, 57 anni, e un vigile urbano di Podenzana, in provincia di Massa Carrara Claudio Ghizzoni di 60, sono stati arrestati (e ora sono ai domiciliari) dalla polizia nell’ambito di un’inchiesta denominata “Hot Velox” su una presunta concussione legata alla viabilità e agli autovelox. Denunciato a piede libero anche un vigile urbano del comando di Saroldi, Gabriele Ingrassia. Le accuse per Saroldi sono di concussione, corruzione in atto contrario al proprio dovere (in concorso con Ghizzoni), calunnia e truffa aggravata ai danni dello Stato (in concorso con Ingrassia) e rivelazione di segreti d’ufficio. Saranno tutti sospesi dal servizio. Saroldi, difeso dall’avvocato Tiziano Gandolfo, come anticipato da Rsvn.it, sarà ascoltato nei prossimi giorni per l’interrogatorio di garanzia. Con l’arresto di Saroldi e la denuncia a piede libero di un agente il Comando di Spotorno rischia di restare quasi sguarnito. L’organico prevede otto agenti, ma in realtà in servizio in questi mesi ne sono rimasti sei compreso il comandante. "Siamo di fronte a una vicenda che sconvolge la nostra cittadina - dice il sindaco Gian Paolo Calvi -  Il Comune è a completa disposizione degli inquirenti per far luce su quanto accaduto. Ci auguriamo che l’inchiesta abbia sviluppi rapidi. Colgo l’occasione per dire che la lotta alla corruzione e agli sprechi sono per noi temi di primaria importanza, tanto che poco tempo fa abbiamo approvato in giunta il Piano triennale anticorruzione con allegato il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Strumenti con cui abbiamo individuato misure idonee a prevenire il rischio di corruzione. Stiamo già valutando gli eventuali provvedimenti a tutela dell’ente".

Appalti autovelox, arrestato comandante vigili di Spotorno. E' accusato di concussione: avrebbe preteso denaro per affittare le apparecchiature elettroniche. Incassati 24 mila euro. Si faceva pure accompagnare in una casa d'appuntamenti sull'auto di servizio. Spotorno, così il comandante dei vigili incassava mazzette, scrive “La Repubblica”.  Vigili urbani nel mirino della magistratura. Mentre a Roma è finito agli arresti domiciliari l'ex capo dei vigili urbani Angelo Giuliani con l'accusa di corruzione e di falso ideologico in atto pubblico, a Spotorno, in provincia di Savona, è stato arrestato il comandante della polizia municipale della cittadina ligure, Andrea Saroldi. Ora ai domiciliari è accusato di avere intascato denaro in cambio dell'affitto di autovelox. E' accusato di concussione e corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio. Saroldi avrebbe preteso, secondo la squadra mobile di Savona, da Claudio Ghizzoni, titolare dell'Igea di La Spezia e a sua volta comandante della polizia municipale di Podenzana (Massa Carrara) denaro per affittare gli autovelox. Anche Ghizzoni è ai domiciliari. Ma l'inchiesta sul comandante della municipale di Spotorno ha anche un altro filone, in cui è accusato di concussione per induzione. Secondo la polizia più volte avrebbe chiesto denaro al titolare di una ditta che si occupa di segnaletica orizzontale e verticale per le commesse ricevute dal Comune di Spotorno. Secondo gli investigatori, sarebbe arrivato ad ottenere un totale di 24 mila euro, di cui 7 mila come prestito, mai restituito, che avrebbe preteso per coprire presunti debiti di gioco. La polizia racconta che per intimidire l'imprenditore spesso Saroldi giocherelleva con la pistola d'ordinanza. L'uomo, stanco di subire le richieste dell'ufficiale, nel luglio 2013 scorso ha denunciato tutto alla polizia. Dall'indagine emerge anche un altro particolare: Saroldi si faceva accompagnare con l'auto di servizio da un suo agente, a sua volta denunciato per truffa ai danni dello Stato e corruzione, a case a luci rosse. La truffa è stata loro contestata perchè si allontanavano dal lavoro in orario d'ufficio. La polizia ha scoperto che l'ufficiale si faceva passare il badge da altri colleghi facendo risultare che era stato in servizio.

La bomba è scoppiata in mattinata del 26 febbraio 2014 a Spotorno, con l’arresto del comandante dei vigili Andrea Saroldi. L’accusa resa nota in mattinata è quella di concussione e truffa: il comandante, in carica dal 1996, avrebbe incassato denaro dalla società Igea, che ha installato gli autovelox sul territorio spotornese. Per questa ipotesi di reato è finito in manette con lui anche il comandante di Podenzana (in provincia di Massa Carrara), Claudio Ghizzoni. Ma a destare davvero scalpore nel savonese è un’altra accusa che sarebbe stata rivolta a Saroldi: secondo gli inquirenti avrebbe utilizzato l’auto di servizio per frequentare abitazioni di prostitute. Il tutto sarebbe scritto nero su bianco nell’ordinanza di custodia cautelare, che spiegherebbe come il comandante sarebbe stato visto scendere dalla propria auto con le insegne della Municipale per salire in appartamenti utilizzati per incontri a luci rosse: un fatto, questo, che sarebbe provato anche da intercettazioni e fotografie.

Uno scandalo nello scandalo, che se confermato aggraverebbe non di poco, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica, la posizione del comandante. Il comandante della polizia municipale di Spotorno, Andrea Saroldi, e un vigile urbano di Podenzana (Massa Carrara) Claudio Ghizzoni sono stati arrestati (e ora sono ai domiciliari) questa mattina dalla polizia nell’ambito di un’inchiesta denominata “Hot Velox” su una presunta concussione legata alla viabilità e agli autovelox. Denunciato a piede libero anche un vigile urbano del comando di Saroldi, scrive “La Stampa” del 26 febbraio 2014.  Le accuse legate a viabilità e autovelox ma anche a incontri a luci rosse. La polizia ha spiegato i dettagli dell’operazione in una conferenza stampa. Le accuse per Saroldi sono di concussione, corruzione in atto contrario al proprio dovere, calunnia, truffa e rivelazione di segreti d’ufficio. L’inchiesta è stata coordinata dal sostituto procuratore di Savona Daniela Pischetola che ha chiesto e ottenuto dal gip Emilio Fois l’ordinanza di custodia cautelare dopo un’indagine curata dalla polizia. L’accusa di corruzione per Saroldi nasce dal fatto che avrebbe intascato mazzette pagate da esponenti di una ditta di La Spezia, la Igea, come “compenso” per aver fatto installare gli autovelox nel suo comune. Proprietario dell’Igea è Claudio Ghizzoni, anche lui arrestato e ai domiciliari. Ghizzoni, è anche vigile urbano a Podenzana (MC). Ma a Saroldi, che avrebbe avuto secondo i primi accertamenti anche debiti di gioco, questo denaro non bastava e ne avrebbe chiesto altro al titolare dell’Arcadia, l’azienda che si occupa della segnaletica stradale di Spotorno. L’imprenditore nel mirino, G.D., sarebbe stato “convinto” a pagare per non perdere l’incarico con modi decisi e spicci. Duranti alcuni colloqui nel suo ufficio Saroldi avrebbe anche giocherellato con la pistola per intimidire l’imprenditore. L’accusa in questo caso è di concussione per induzione. G.D., stanco di pagare Saroldi, alla fine si è deciso a denunciare quanto stava accadendo, dopo aver sborsato - secondo gli inquirenti - circa 24 mila euro. Grazie alla sua collaborazione è stato possibile raccogliere importanti elementi probatori. Ha invece un risvolto a luci rosse l’ultima delle accuse che vengono contestate a Saroldi che, durante l’orario di lavoro e con un’auto della polizia municipale, si sarebbe fatto accompagnare a incontri che, stando alle intercettazioni, non sarebbero certo stati attinenti al servizio. Gli incontri sono stati documentati con immagini e – appunto – intercettazioni. Nei guai è finito (rimediando una denuncia) anche il vigile che lo accompagnava e lo attendeva in auto. 

Prostituzione e tangenti da 24mila euro per assegnare appalti a Spotorno: comandante della Polizia Municipale agli arresti domiciliari. Le accuse contestate sarebbero di concussione, truffa aggravata, calunnia ed altri reati contro la pubblica amministrazione, scrive “Savona News”. Tangenti da ventiquattro mila euro per assegnare l'appalto relativo alla segnaletica di Spotorno e pagati dalla ditta Arcadia: questa la cifra richiesta alle ditte dal comandante della Polizia Municipale Andrea Saroldi, che da questa mattina si trova agli arresti domiciliari con l'accusa di concussione, truffa aggravata, calunnia ed uso improprio di auto di servizio. Ad emettere l'ordinanza il G.I.P. Emilio Fois. Ma le accuse a suo carico non finiscono qui: l'uomo è infatti accusato di aver incassato ulteriori somme dalla ditta Igea di La Spezia per l'appalto relativo agli autovelox della ditta di proprietà di Claudio Ghizzoni, comandante della Municipale di Podenzana (MC), anche lui finito in manette. L'indagine condotta dalla Polizia di Stato, che ha portato appunto all'arresto di Saroldi, di Ghizzoni,nasce da una denuncia presentata alla Procura nel luglio 2013 da una delle parti offese, un dipendente della cooperativa Arcadia, che si occupa, appunto, di gestire spiagge attrezzate e segnaletica stradale. I fatti risalerebbero ad ogni modo già al 2011 quando il dipendente della ditta sarebbe stato costretto ad azioni indebite per ottenere contratti d'appalto per i servizi di segnaletica e a cui sarebbero stati chiesti 24 mila euro per l'aggiudicazione. "Le indagini  vanno avanti da mesi, commenta il Questore Santoro nel corso della conferenza stampa. Le attività investigative ci hanno permesso di acquisire delle prove che documentato chiaramente i reati contro la pubblica amministrazione, che vanno dalla concussione alla truffa aggravata. Abbiamo avuto una grande collaborazione con il comune di Spotorno". Numerose le accuse contestate a Saroldi:concussione, abuso e diffusione di segreti d'ufficio, truffa aggravata l'allontanamento del posto di lavoro, corruzione, calunnia, truffa aggravata questi i reati contestati al comandante. Anche per l'agente polizia municipale le accuse formulate sono pesanti, sembra infatti che lo stesso non si sia sottratto alle richieste di Saroldi e che quindi sia stato accusato  per atti contrari, ai doveri d'ufficio e diffusione segreto d'ufficio. Saroldi sarebbe inoltre accusato di essersi recato in orario di lavoro e con la macchina di servizio sotto la casa di alcune prostitute, anche in questo caso le investigazioni hanno portato gli inquirenti a formulare l'accusa anche attraverso le numerose intercettazioni foto e fonografiche ottenute nel corso delle indagini.

SAVONA MAFIOSA

Un’interessante tavola rotonda ha affrontato l’imminente esigenza, anche qui in Liguria di una legge di contrasto e prevenzione alla mafia, scrive Antonio Briuglia su “Trucioli Savonesi”. Il titolo ” Liguria ora si vede la mafia in casa” faceva già intendere come, non solo in Liguria ma anche nella nostra città, Savona, con gli ultimi arresti e le vicende legate a inchieste che partono anche da lontano, l’emergenza sia ormai sotto gli occhi di tutti, anche di coloro che sino ad ora negavano l’emergenza di una criminalità organizzata di casa nostra, anche quando qualche incendio colpiva mezzi o attrezzature di qualche impresa. L’incontro ha avuto relatori come Marco Piombo, presidente del WWF, che ha esposto il duro lavoro svolto dall’associazione che in questo momento sta esaminando ben 40 progetti in tutta la Provincia. Progetti che contrastano spudoratamente leggi urbanistiche con l’avvallo delle stesse amministrazioni e che sempre più frequentemente diventano occasioni di riciclaggio di finanziamenti poco leciti. Relatori come Mario Molinari, direttore di Savona New, che ha ribadito come a Savona si continui , nonostante l’evidenza , a registrare l’atteggiamento di chi sostiene che tutto sia tranquillo. Di come le amministrazioni siano ancora troppo latitanti, anche in manifestazioni pubbliche come il Convegno del Priamar sullo stesso tema, dove presenti erano solo Zunino di Rifondazione e la Debenedetti della Lista Cinque Stelle, come se agli altri la cosa non toccasse. Di come, a Savona, nomi illustri legati alle famiglie di mafia compaiano su cartelli di cantieri savonesi molto conosciuti tra i quali quelli di Arte. Di come le inchieste di quei pochi giornalisti, che con dedizione e con impegno si adoperano per rendere pubblico ciò che tutti sanno ma che tacciono con atteggiamento omertoso, siano frutto di fatica ma anche causa di conseguenze personali. Relatori come Christian Abbondanza della Casa della Legalità, che fino a poco tempo fa fu etichettato, proprio per le sue denuncie circa l’esistenza della mafia in Liguria, come “visionario”. Ha raccontato, con precisione di dettagli, come la mafia di nuova generazione abbia sorpassato quella dei colletti bianchi, di come possa essersi insinuata nel sistema, sostenuta da una classe politica che sempre più gli apre la porta, lasciando che condizioni il voto e che il territorio sia non solo depredato ma gestito da coloro che ormai sfuggono ad ogni controllo. Ha riferito alla folta e interessata platea come non solo il centro destra faccia notoriamente affari con le mafie ma anche il centro sinistra con le sue cooperative edili, come tutti scendano a patti, sostenendo di fatto un economia nera, quella delle speculazioni finanziarie, dei project- financing, o dell’alienazione dei beni pubblici che le mafie preferiscono acquistare al posto di quelli già confiscati. Ha spiegato come i circuiti degli affari delle mafie passino, anche in Liguria, dai Comuni alle banche e alle imprese, ma prima decisi altrove. Con non poco imbarazzo il moderatore, giornalista del Secolo XIX, Bruno Lugaro ha dovuto ammettere il suo rincrescimento per l’assenza dell’ospite d’onore: l’onorevole Andrea Orlando, responsabile Giustizia del PD e membro della Commissione Antimafia. Sicuramente impegni più importanti sopraggiunti all’ultimo momento, saranno arrivati a giustificazione dell’assenza, ma la cosa più evidente e inquietante è che anche il PD savonese non c’era.

Arriva da inquirenti ed esperti la mappa delle famiglie, ventuno in particolare, che operano nell’ambito della criminalità di stampo mafioso in Liguria, scrive “Il Vostro Giornale”. Quasi tutte della ‘ndrangheta e qualcuna della nuova camorra e della mafia siciliana che con la criminalità organizzata calabrese hanno stretto buoni rapporti di affari. In provincia di Savona, sono due le ‘ndrine al lavoro: la famiglia Gullace, specializzata nelle estorsioni che ha radici a Cittanova (Reggio Calabria) e la famiglia Stefanelli, proveniente da Oppido Mamertina e Africo, imprenditori. In provincia di Imperia sono le famiglie del Reggino, della Piana, di S. Luca, Seminara e Palmi a fare la parte del leone: i Palamara impegnati nel traffico di stupefacenti, i Pellegrino-Barilaro, imprenditori nel settore del movimento terra e edile, i Maffodda di Palmi che hanno base ad Arma di Taggia e gli Sgrò di Palmi, imprenditori edili fanno affari con i Tagliamento (Napoli), imprenditori immobiliari. Tra l’altro, proprio a Seminara (Reggio Calabria), terra della sanguinosa faida tra i Pellegrino e i Gioffré, nel 2007 i carabinieri avviarono un’indagine sui condizionamenti che la cosca Gioffré operava sull’amministrazione comunale. A Genova lavora nel commercio il gruppo Gangemi, il cui capobastone presiede il locale di ‘ndrangheta mentre il gruppo Nucera-Rodà controlla il locale di Lavagna ed è impegnato nel settore alberghiero. A questi due locali fanno riferimento i Monachella-Morso (gioco d’azzardo), i siciliani Fiandaca (ex fedelissimi dei Madonia, ristoratori in Liguria), i Macrì di Mammola (Reggio Calabria), i Caci (prostituzione e riciclaggio), i siciliani Lo Iacono (lavori stradali e edilizia), i campani Agiollieri legati al clan camorrista Gionta, impegnati nel commercio ma anche i Facchineri e i potenti Canfarotta di Palermo che tanto denaro investono nel campo immobiliare. Alla Spezia il locale di ‘ndrangheta di Sarzana è guidato dai Romeo, provenienti da Roghudi (Reggio Calabria), imprenditori immobiliari come i De Masi di Sinopoli. Al locale fanno riferimento i campani Di Donna, che si occupano di videopoker e estorsioni.

La mafia in Liguria non esiste! Scrive sarcasticamente “Bevera e dintorni”. Parola di Alberto Landolfi sostituto procuratore a Savona, altre braccia strappate all'agricoltura! Le discoteche, gli escavatori, gli stabilimenti balneari che bruciano sono un fatto irrilevante. La commissione parlamentare antimafia? Una realtà scomoda da ignorare! Quando ci si imbatte in una dichiarazione di questo tipo, fatta da un personaggio che ricopre un ruolo del genere, verrebbe da abbassare le braccia, di darsi definitivamente per vinti. E' esattamente quello che vogliono. Bisogna al contrario reagire. Bisogna informarsi ed informare. Nelle giornate libere bisogna occuparsi di personaggi come il p.m. Landolfi. Portarlo in giro per la Liguria. Fargli vedere un po' di quella realtà, che dal buio del Suo ufficio....stenta a scorgere!

Nota dell'Ufficio di presidenza della Casa della Legalità di Genova:"Nel savonese, ma in tutta la Liguria non abbiamo problemi legati alla criminalità organizzata. Esistono forse solo dei rigurgiti legati ai vincoli esistenti tra qualche famiglia ancora residente qui con nuclei malavitosi, ma senza conseguenze. L'humus caratteriale dei liguri non ha permesso a quel tipo di cultura di attecchire in queste zone"...

Non c'è niente da dire, Landolfi ci sta benissimo in quella Procura perennemente "in sonno". Anzi ci è sempre stato benissimo, perché al di là di uscite spettacolari, anche con tanto di elicottero, il suo lavoro di contrasto alla cosche mafiose si è sempre caratterizzato per calendarizzazioni propedeutiche alle salvifiche prescrizioni. Siamo in quella Procura che cercò di ostacolare in ogni modo il giudice Del Gaudio nell'inchiesta sul clan di Alberto Teardo, il potente piduista craxiano, ex Presidente della Regione Liguria, come anche ostacolò il Procuratore Acquarone nell'inchiesta sul "Fallimento Perfetto" dell'Ilva di Savona che spianò la strada alla grande speculazione immobiliare dei nostri giorni nel cuore della città della torretta. D'altronde se nella Provincia di Savona non è ancora stato individuato il "locale" della ‘ndrangheta, punto centrale degli interessi non solo regionali delle cosche calabresi, una ragione ci sarà pure! Ma già dai tempi della Rifiuti Connection in Liguria il buon Landolfi si caratterizzo per non andare in fondo a quanto scoperto sulle Cave dei veleni gestite dalla ‘ndrangheta. Così come rispose in modo al quanto sgarbato alla Commissione d'Inchiesta. Così anche come non si accorge dei traffici ed affari del potente clan Gullace-Raso-Albanese. Così non si è accorto che i beni sequestrati ai Fazzari (imparentati e legati al Carmelo Gullace), in parte gli sono stati restituiti ed in parte gli sono stati lasciati nella totale disponibilità (come la villetta che doveva essere demolita già nei primi anni Novanta). Così non si è accorto dell'infiltrazione nell'economia locale dei Fameli come dei Nucera. Non si è accorto delle attività della famiglia Fotia con i movimenti terra, così come non si è accorto nemmeno che a vincere appalti (anche irregolari!) nel savonese vi era una società dei fratelli Guarnaccia, la Co.For. tanto che per sequestrarla ha provveduto la DDA di Reggio Calabria. E così via... lui non si è accorto e quando si è accorto di qualcosa tutto è arrivato alla prescrizione. Anche sull'humus culturale il Landolfi dimostra di non conoscere la realtà. La Liguria è divenuta una regione tra le più omertose dell'intero Paese. Questo non solo perché vi sono interi paesi o quartieri delle città in cui le mafie, sfruttando la grande migrazione, hanno trapiantato intere comunità, riproducendo qui quelle dinamiche sociali ad esse favorevoli, ma anche perché vi è un blocco di potere, trasversalmente protetto e animato, che si fonda sulla clientela ed il ricatto, così da ridurre a sudditi silenti e fedeli quegli individui non più cittadini. Il fatto che ad esempio vi siano porzioni di territorio, come nell'imperiese dove gli incendi dolosi sono più frequenti e numerosi che in Calabria ed in Sicilia (dato nascosto tenacemente delle Autorità!), e le vittime non denunciano... non significa che va tutto bene, ma che vi è la paura di denunciare perché non si sa da che parte stanno coloro a cui si denuncia, in un sistema di commistioni e collusioni devastante ed in certi contesti palpabile. E così è per il pizzo e l'usura, per esempio, piaghe presenti ma che le persone non hanno il coraggio di denunciare, anche perché spesso, si sentono ripetere da coloro i quali dovrebbero perseguire i "carnefici" che questi "carnefici" non esistono. Il negare la presenza ed il potere di infiltrazione delle mafie è il primo esempio, dovrebbe saperlo Landolfi, di quella cultura prediletta proprio dalle mafie. In conclusione potremmo dire che Landolfi ama l'ambiente "scolastico" probabilmente... e che è anche certo che con un lavoro così non rischia nemmeno procedimenti disciplinari. Peccato che ci siano atti dei reparti investigativi e delle Commissioni d'Inchiesta, nonché atti giudiziari di altre Procure che dicono e provano l'esatto opposto di quanto lui va dicendo nelle scuole savonesi. Non solo: la supponenza con la quale viene dichiaro che il problema non esiste, rappresenta una mancanza di rispetto disdicevole verso quei colleghi magistrati e quegli agenti dei reparti investigativi, che ogni giorno lavorano, con fatica, per sconfiggere quelle ramificazioni delle mafie che in Liguria riciclano il denaro sporco, inquinano l'economia, gli appalti, le pubbliche amministrazioni e promuovono, molto spesso, quelle ondate speculative che stanno devastando il territorio. Quindi, se scherzando possiamo fare delle battute, parlando sul serio dobbiamo dire che è davvero stata una brutta lezione ed un pessimo esempio per quei ragazzi che sono la speranza di domani e che, come diceva nonno Nino, possono essere le "sentinelle della Legalità"! Come abbiamo sempre detto l'autonomia e indipendenza della Magistratura è come la libertà, se uno non vuole esercitarla e preferisce chinare la schiena ed il capo, voltarsi dall'altra parte, è come se non ci fosse. Ed ecco che il panorama di questa realtà ci offre un esempio davvero emblematico. Il Secolo XIX - Savona - 02.10.2008, dibattito al liceo Della Rovere. Mafia e camorra: il pm fa lezione agli studenti. Il sostituto procuratore Alberto Landolfi incontrerà oggi i ragazzi: «Ma qui da noi non esistono problemi». «NEL SAVONESE, ma in tutta la Liguria non abbiamo problemi legati alla criminalità organizzata. Esistono forse solo dei rigurgiti legati ai vincoli esistenti tra qualche famiglia ancora residente qui con nuclei malavitosi, ma senza conseguenze. L'humus caratteriale dei liguri non ha permesso a quel tipo di cultura di attecchire in queste zone».Alberto Landolfi, sostituto procuratore alla procura di Savona, localizza in maniera estremamente precisa e attenta il fenomeno della criminalità organizzata (mafia e camorra) sui quali oggi interverrà al liceo statale "Della Rovere". L'appuntamento con gli studenti del liceo è per le ore 10, alunni ai quali il magistrato ha accettato di parlare di mafia e camorra in maniera generale, con particolare attenzione alle differenze tra i due sistemi criminali «che sono estremamente diversi»sia per quanto concerne le caratteristiche e le peculiarità. Si annuncia quindi un dibattito particolarmente acceso sull'argomento di attualità in Italia e sul quale da qualche anno le giovani generazioni sono interessate e pronte a schierarsi sul piano delle idee e delle posizioni. In Sicilia, Calabria e Campania sono sempre più frequenti le manifestazioni di protesta dei giovani nei confronti di mafia e camorra, «anche se bisogna evitare il rischio di innamoramenti sbagliati» aggiunge il pm Landolfi «visto che spesso possono essere attratti da un mondo alternativo al loro». Mafia e camorra, ma non solo, saranno i temi cardini dell'intervento di Landolfi che però non può mancare nei riferimenti anche alla situazione locale. E se il pm ribadisce di non essersi imbattuto in questi ultimi anni in fenomeni del genere nel savonese («qualcosa c'era stato, ma verso la fine degli anni ‘80 e gli inizi del ‘90»), individua anche nella «predisposizione culturale dei liguri» la ragione principale dell'essiccamento sul nascere del fenomeno:«La gente di questa terra è litigiosa, si arrabbia, ma non accetta la cultura della violenza. Anzi la rifugge e sa reagire». Al Della Rovere,oggi,l'argomento però sarà di grande attualità e interesse e forse in grado di regalare al pubblico ministero e agli insegnati uno spaccato del pensiero giovanile savonese sul problema.

Ma il fulcro della mafia ligure è nel Savonese, scrive Christian Abbondanza - Casa della Legalità – Onlus su “Il Secolo XIX”. Con le ultime operazioni antimafia in Liguria chi sosteneva che questo territorio fosse “indenne” da certe presenze è stato smentito. Vi è però il rischio che le mafie riescano a “deviare” le attenzioni su alcuni sacrificabili per tutelare quello che per loro conta: gli affari. Ecco cosa potrebbe celarsi dietro agli episodi eclatanti del ponente ligure che hanno fatto uscire dall’invisibilità tanto perseguita le cosche calabresi. Per evitarlo non basta l’azione dei giudici, ma serve l’attenzione sociale e mediatica, capace di far emergere quanto è avvolto dal silenzio, non solo per aiutare le indagini ma anche per far sentire un rigetto sociale verso le mafie e le loro indicibili alleanze e coperture. Il negazionismo che per lunghi anni ha avvolto la presenza e l’attività delle mafie in Liguria sembra finalmente andato in soffitta, o quanto meno chi persevera nel negare è ormai smentito categoricamente da fatti eclatanti che si susseguono. Negli ultimi due anni si sono resi evidenti infatti, anche i Liguria, i due volti delle mafie. Quello più prettamente criminale e quello invece degli “affari”. Oggi, quanto per anni scritto dalla DIA (Direzione Investigativa Antimafia), dai Rapporti della Guardia di Finanza e persino riportato nelle Relazioni dalla Commissione Parlamentare Antimafia, viene giorno dopo giorno confermato da inchieste e fatti. Quei nomi come i Fogliani, i Fameli, i Gullace e Raso, i Fazzari, i Mamone, i Tagliamento, i Nucera, i Maurici, i Calvo ed i Fiandaca con tutta la banda dei “gelesi”, così come i Morabito, i Pellegrino, i Macrì, gli Stefanelli-Giovinazzo e altri ancora, non sono più fantasmi o “ectoplasmi”, ma sono sempre più oggetto di attenzioni investigative, inchieste, procedimenti e/o provvedimenti giudiziari. Da ponente a levante, le famiglie della ‘Ndrangheta, come quelle di Cosa Nostra, della Camorra, della Sacra Corona Unita e delle mafie straniere, sono da lungo tempo note. Così come sono noti i rapporti e le collaborazioni tra la criminalità straniera e le cosche italiane e la straordinaria capacità di coordinamento tra loro delle diverse organizzazioni mafiose italiane, atta a spartirsi territori, traffici e affari, garantendo una “pax” capace di evitare scontri (come quelli conosciuti nei primi anni Novanta) che provocherebbero allarme sociale e quindi attenzione giudiziaria, oltre che mediatica. Ed in questa terra le mafie hanno sempre avuto un doppio volto, quello prettamente criminale (capace di attrarre maggiori attenzioni) e quello di infiltrazione nell’economia legale e negli appalti, per il grande riciclaggio e l’accumulazione di ricchezza “pulita” grazie al soffocamento della concorrenza (per via della disponibilità costante di risorse, oltre che attraverso corruzione o, al bisogno, delle intimidazioni e della violenza). E’ così che la Liguria è divenuta terra di conquista nei decenni passati e di radicamento e presenza conclamata della cosche mafiose, con le nuove generazioni dalla fedina penale linda e reti di prestanome senza macchia. Un radicamento che ha portato le cosche ad avere anche il controllo del territorio in alcune zone delle diverse province, anche se in modo non eclatante come in altre zone del Paese. Lo sfruttamento della prostituzione, il traffico ed il controllo del mercato della droga, il racket e l’usura, il contrabbando, la contraffazione, il gioco d’azzardo ed i traffici di armi da un lato, le false bonifiche ambientali ed i traffici illeciti di rifiuti tossici, il caporalato, le forniture di calcestruzzo depotenziato e l’infiltrazione negli appalti pubblici dall’altro lato, facevano e fanno da contraltare alle grandi operazioni di riciclaggio che ha visto grandi settori di conquista nell’edilizia, nel settore commerciale e della ristorazione, per citarne i principali e conclamati. Tutto questo avveniva in un crescendo di omertà e insabbiamento sociale che non è mai stato tanto simile a quello delle loro terre di origine. Il perché è semplice: così come è avvenuto nelle altre regioni del centro nord qualcuno ha aperto la porta di ingresso alle mafie anche in Liguria. Questo è avvenuto per avere servizi e manodopera a basso costo (utili ad imprese e pubbliche amministrazioni) e perché portavano e portano “soldi” del cui odore non importava e non importa nulla. La spregiudicatezza sociale, economica e politica è stata la principale alleata delle organizzazioni mafiose. Tanto è vero che le denunce per usura ed estorsione, così come le segnalazioni di movimenti sospetti da parte di notai, commercialisti e banche, sono chimere in questa terra. Tanto è vero che le Pubbliche Amministrazioni, così come grandi imprese - a partire dai colossi della Lega delle Cooperative – non hanno mai disdegnato fare affari con quelli che definivano (e definiscono ancora) come “noti imprenditori” pur essendo da anni citati dai reparti investigativi dello Stato come soggetti legati o appartenenti alle organizzazioni mafiose. Da due anni le inchieste stanno stringendo il cerchio, soprattutto l’attività svolta dalla DIA e della Guardia di Finanza ha prodotto materiale, per gli inquirenti delle Procure e per le sezioni di prevenzione dei Tribunali, che sta producendo l’apertura di molteplici procedimenti ed in molti casi ha già fatto scattare provvedimenti di confisca, di sequestri e sorveglianza speciale, oltre che anche ad arresti. Ciò è avvenuto sia per il contrasto e la prevenzione del settore prettamente “criminale” sia puntando le attenzioni e gli approfondimenti sui cosiddetti “imprenditori” espressione delle diverse famiglie mafiose. Ma attenzione: le mafie sanno reagire e le strategie per evitare che il recinto gli si chiuda intorno sono ben collaudate. Infatti le mafie non vivono per compiere atti prettamente “criminali”... la loro principale vocazione è quella degli “affari” e, per questo, le mafie hanno rapporti, di convivenza, contiguità e complicità con pezzi del Potere politico (trasversalmente) ed economico, per questa prima di tutto corrompono, comprano, acquisiscono e fanno valere il controllo di importanti “pacchetti” di voti. Per coprire il grande riciclaggio e le grandi speculazioni, che gli garantiscono di farsi sempre più “impresa”, hanno necessità di coperture e sono pronti, per tutelare questi affari ed i loro referenti ed amici della politica, delle pubbliche amministrazioni, del tessuto economico e finanziario ed anche dei settori di controllo, ad usare uomini-cerniera e collettori insospettabili, ma anche di sacrificare pezzi della loro organizzazione - quelli più prettamente “criminali” -. Questa strategia è quella che ha sempre permesso alle organizzazioni mafiose di sopravvivere all’azione repressiva dello Stato. E questa strategia sembra proprio quella adottata in Liguria. Vediamo alcuni elementi ed alcune coincidenze che ci portano a mettere in guardia su questo punto. Dal 2005 la nostra organizzazione punta i riflettori su alcuni dei soggetti, a partire da quelli legati e appartenenti a Cosa Nostra ed alla ‘Ndrangheta, attivi in Liguria, ed in particolare su quelle famiglie (Mamone, Gullace-Fazzari, Fameli, Fogliani, Fotia, Calvo, Nucera, Pellegrino, Maurici ed i “gelesi”, per citare i principali) che hanno rapporti con le Pubbliche Amministrazioni, le società partecipate ed importanti imprese. Abbiamo documentato ampiamente le attività ed i rapporti di detti soggetti con la Pubblica Amministrazione, la politica ed i soggetti economici e finanziari, fornendo una mappatura completa che si affiancava a quella sulle attività più prettamente “criminali”. Buona parte di quanto da noi segnalato alle autorità competenti e di quanto pubblicato con le inchieste sul nostro sito internet www.casadellalegalita.org (e con quello della sezione di Imperia www.beveraedintorni.com) trovato conferma dalle attività dei reparti investigativi, nei riscontri, ed in procedimenti avviati dalle Procure, di cui alcuni già arrivati a confisca e sequestro. Dal 2008, in particolare, si sono palesate le attività di inchiesta della Procura di Genova, ma anche quelle della Procura di Sanremo e poi Savona, oltre che di Milano, Lodi, Caltanissetta, Palermo e Reggio Calabria in merito ad alcuni soggetti ed affari posti in essere dai medesimi soggetti operanti in Liguria anche nelle regioni meridionali ed in Lombardia. Queste inchieste oltre che colpire soggetti e attività prettamente criminali hanno puntato alla cosiddetta “mafia pulita”, quella delle imprese ben inserite nell’economia “legale” e nei lavori, nelle forniture ed appalti pubblici, sino anche a svelare i rapporti che vi sono stati per condizionare il voto a Genova in occasione delle ultime elezioni amministrative. In parallelo a tutto questo è stato ampio lo spazio dato dalla stampa locale e nazionale (a partire proprio dal giornalismo di inchiesta de Il Secolo XIX), oltre che dalla pubblicazione del libro-inchiesta di Ferruccio Sansa e Marco Preve, “Il Partito del Cemento”, che indicava proprio, per “voce” di uno dei giudici della DDA di Genova (ora alla Procura Nazionale Antimafia), la dott.ssa Anna Canepa, che la mafia non è solo quella che spara, che incendia ed usa violenza ma è anche, e soprattutto al nord, una mafia di “colletti bianchi”, ben mimetizzata, che opera per riciclare l’enorme ricchezza “nera” in quelle grandi e piccole speculazioni, a partire da quelle del cemento, verso cui le pubbliche amministrazioni si sono viste, trasversalmente, chine. Ed è mentre questa attenzione sociale, mediatica e giudiziaria si faceva sempre più pressante che vi è stato un fuoriuscire dall’invisibilità di alcune delle famiglie di mafia nell’estremo ponente Ligure. Un fatto anomalo perché irrazionale ed illogico: dopo aver conquistato una mimetizzazione quasi perfetta, che gli garantiva non solo affari - dai movimenti terra ai traffici rifiuti, dal Casinò alla rete di racket e infiltrazione nel settore commerciale -, le organizzazioni mafiose decidono di rendersi visibili con attentati incendiari, spari e minacce... In altre parole: la ‘ndrangheta ha mostrato il volto cruento, fatto di atti eclatanti che hanno attirato l’attenzione, in una particolare zona... Lo fanno proprio in quel territorio che storicamente è stato indicato come la sede della “camera di compensazione” della ‘ndrangheta in Liguria – dove conta su “locali” (sedi di coordinamento delle ‘ndrine attive sul territorio) seminati in tutte le province della regione -. La ‘ndrangheta si è resa evidente, quasi come a dire: siamo qui, colpiteci. Ed allora viene da riflettere e rimettere in fila alcuni dei principali (e noti) elementi, partendo da un presupposto che ci venne insegnato da Antonino Caponnetto: le mafie sopportano molto meno l’attenzione che si punta su di loro ed i loro affari, rispetto ai provvedimenti restrittivi. E vediamo ora il dettaglio. I Mamone a Genova sono sotto scacco delle inchieste, tanto da essersi spinti nel tentativo di corrompere un pubblico ministero ed aver spostato buona parte dei loro lavori in Emilia Romagna. I Gullace-Fazzari sono sotto attenzione per le attività che impunemente hanno potuto portare avanti dopo la stagione dei sequestri, dei grandi traffici di droga e di rifiuti. I Fameli in una zona, così come i Nucera in altro territorio, famiglie di ‘ndrangheta, sono divenuti soggetti economici di primo piano nei rispettivi ambiti di azione, ma nonostante questo restano attenzionati. I Fotia così come anche i Fogliani hanno visto puntati su di loro riflettori che mai avevano visto prima. Anche nello spezzino si stanno battendo al tappeto cantieri e intrecci. In contemporanea la Procura di Savona usciva dalla stagione del “lungo sonno” in cui le inchieste eccellenti e quelle che riguardavano determinati soggetti e affari restavano immobili e finivano nel nulla se non in prescrizione. E questi fatti cosa ci dicono? Che il vero fulcro della presenza della ‘ndrangheta in Liguria non è più Ventimiglia e più in generale l’imperiese (se non per il ruolo di collettore con quel territorio ed i soggetti di oltre confine, della Costa Azzurra). Il fulcro appare essersi ormai consolidato nel savonese, dove non è un caso che quelle famiglie mafiose con i loro affari - che poi si diramavano e si diramano ben oltre al solo territorio della provincia di Savona, per raggiungere l’imperiese e Genova - godevano e godono di contatti ed amicizie eccellenti, frequentazioni di insospettabili e dove hanno mantenuto sempre un bassissimo profilo “criminale”, ovvero senza particolari episodi capaci di generare allarme sociale. Il fatto che il clan dei Pellegrino sia stato fermato (in buona parte) con la recente Operazione della Procura di Sanremo è certamente un segnale importante, ma ci pare, per le dinamiche di evoluzione degli episodi criminali che hanno caratterizzato in questi 2 anni quel territorio tra Bordighera, Sanremo e Ventimiglia, un “consegnare” parte del braccio dell’organizzazione per salvaguardare la parte “pesante” e influente. Insomma, una sorta di “dazio” che la ‘ndrangheta ha voluto pagare per consolidare quell’immagine per cui la mafia è prettamente quella che incendia e spara, che usa violenza e non invece, quindi, quella delle “imprese” in rapporti costanti, consolidati, con il potere politico, amministrativo, economico e finanziario. Occorre senz’altro colpire il “braccio” che esegue le attività più prettamente “criminali”, ma senza perdere di vista, con azioni di denuncia e repressione, quelle famiglie che operano negli altri territori della Liguria in stretto rapporto con le Amministrazioni Pubbliche, le banche e le grandi imprese, condizionando – come si è dimostrato ampiamente – non solo l’economia pulita (che viene soffocata) ma anche le stesse scelte democratiche, con cosche che sono sempre più impegnate, anche qui, come nelle terre di origine, per condizionare il voto e quindi la gestione della cosa pubblica. D’altronde la Liguria è quella regione dove, non dimentichiamolo, il potere massonico è ben consolidato e capace di condizionare economia, politica ed anche i settori di controllo, sino nell’ambito all’autorità giudiziaria. Ed è proprio attraverso lo spazio all’interno della massoneria - e garantito dalla massoneria - che le diverse famiglie mafiose hanno avuto che si sono tessuti quei rapporti e quelle coperture indicibili - su cui noi, alcuni elementi li abbiamo raccolti e riferiti a chi di dovere -. Si può comprendere, quindi, non solo perché questo legame con gli ambienti massonici sia protetto da assoluta riservatezza ma anche il fatto che per coprire questo sia imposto, a chi lo ha stretto, di tutelare il silenzio e l’omertà più assoluta, anche quindi sacrificando qualcuno, pur di proteggere gli alti livelli. La risposta dei reparti investigativi, comunque, non si è fatta attendere, visto che proprio l’altro giorno la DIA è andata a colpire il patrimonio di un noto “imprenditore” spezzino, impegnato in asse con le organizzazioni mafiose, tra Emilia Romagna e l’Est europeo. Ma il rischio è che sia l’attenzione sociale a finire vittima di questa azione di “distrazione”, ed allora occorre ribadire la necessità di segnalare e denunciare gli episodi e gli elementi sospetti che si evidenziano nei cantieri, così come nelle forniture, nel rilascio di licenze e concessioni, nei contributi e finanziamenti così come nelle varianti urbanistiche ed approvazioni di progetti milionari. Perché se viene meno l’attenzione sociale vi è il conseguente rischio che venga meno anche quella giudiziaria, non perché i magistrati si facciano condizionare, ma perché, qui, come più in generale nel centro-nord Italia, qualcuno potrebbe cogliere al volo questa “distrazione” perché, pur consci della forte presenza delle mafie, alcuni considerino (o, per meglio dire, preferiscono considerare per non avere problemi) non possibile procedere su quei filoni che colpendo le organizzazioni mafiose andrebbero anche a mettere in discussione equilibri politici, economici ed istituzionali, mentre altri potrebbero addirittura cedere alla vecchia “immagine” per cui”è mafia” quando vi sono episodi violenti ed eclatanti e non sia invece mafia quella fatta attraverso società, imprese ed affari. Se il tentativo della ‘ndrangheta è veramente quello di “deviare” l’attenzione, sperando che ci si accontenti di qualche elemento di basso livello dell’organizzazione criminale, la risposta deve essere quindi prima di tutto sociale e deve vedere sia i cittadini impegnati nel rompere definitivamente la cappa di omertà. Questo significa che occorre farsi, da cittadini, “sentinelle” sui territori capaci di segnalare quanto necessario ed utile alle indagini, così come significa che il mondo dell’informazione deve continuare a puntare le attenzioni su quei soggetti e quegli affari apparentemente “puliti” ma in realtà sporchi o quanto meno non trasparenti e corretti. E’ infatti nell’assenza di trasparenza della gestione della cosa pubblica, così come del territorio e dell’economia, che le mafie sono favorite nella loro attività di infiltrazione, radicamento e consolidamento, ed in Liguria, grande parte delle società partecipate sono enormi “buchi neri” dove la trasparenza e correttezza della gestione è pressoché cancellata totalmente. Se oggi sappiamo che le mafie, anche in quegli elementi più “violenti”, possono essere colpite, non vi è più scusante per cedere alla paura, così come se oggi sappiamo dagli Atti ufficiali che boss e uomini delle cosche, da Genova sino all’imperiese, hanno goduto di amicizie nelle Pubbliche Amministrazioni (funzionari, tecnici e politici), non occorre che si attendano sanzioni penali (difficili da raggiungere in questi casi, come ci diceva già Paolo Borsellino), ma serve una chiara e inequivocabile azione di rigetto verso qui politici e quelle pubbliche amministrazioni in quanto cittadini, perché sul piano della “responsabilità politica” - che è quella che ci interessa e compete - non vi sono attenuanti per amicizie, protezioni ed aiuti a uomini delle cosche. Se invece ci si accontenterà dell’azione repressiva verso il “braccio” delle mafie, verso gli elementi che si rendono evidenti con atti eclatanti - ovvero verso quegli elementi che le mafie stesse sono pronte a “consegnare” (e consegnano) per salvare i propri grandi affari, tutelando le alleanze e coperture -, allora si renderà sempre più forte e consolidata la presenza mafiosa. La responsabilità, quindi, non è solo dei giudici, ma, soprattutto adesso, dei cittadini, delle comunità e del mondo dell’informazione che può e deve trovare il coraggio di indicare chi é da indicare, senza reticenze ed a 360 gradi. Così come grande responsabilità è riposta nelle imprese che devono, una volta per tutte, rigettare i “lavori” e “servizi” a basso costo offerti in subappalto e come forniture dalle società di famiglie di mafia, indicate come tali da anni ed anni nei rapporti investigativi. E, attenzione, significa anche che una responsabilità prima è nei partiti, tutti i partiti, che devono ripulirsi e non limitarsi a vedere le convivenze, contiguità e complicità degli altri, ma anche quelle del proprio partito, perché in Liguria, come altrove, le mafie non hanno rapporti solo con una parte, bensì li hanno trasversalmente, con le Amministrazioni di centrodestra e con quelle di centrosinistra, indistintamente!

SAVONA MASSONE

Massoneria, giudici e politica l'inchiesta che fa tremare Savona, scrive “La Repubblica”. MASSONERIA, 'ndrangheta, forze dell'ordine, magistratura, politica, professionisti. L'arresto del 73enne Antonio Fameli (imprenditore calabrese di Loano considerato dalla Dia un personaggio molto vicino al clan dei Piromalli) da parte della procura di Savona apre una faglia giudiziaria nella provincia che potrebbe preludere a un vero e proprio terremoto. L'inchiesta del pm Danilo Ceccarelli presenta comunque un' insidia. La prima è riuscire a districarsi tra le millanterie e le verità di Fameli che si è sempre mosso con disinvoltura tra arresti, denunce e amicizie con questori e alti ufficiali dei carabinieri. Proprio per questa ragione è stato trasmesso a Torino, per competenza territoriale, un fascicolo con intercettazioni e attività investigative legate al nome di Vincenzo Scolastico, oggi procuratore aggiunto a Genova dove guida la direzione Distrettuale Antimafia, e fino a tre anni fa capo della procura di Savona. Confusamente, in un paio di occasioni Fameli, parlando con familiari e conoscenti cita il nome del magistrato, come se tra i due ci fosse un rapporto di conoscenza e confidenza. Non solo. Scrive il gip nella richiesta di misura cautelare: «Fameli si muove su una linea ambigua e pericolosa, contattando continuamente appartenenti all'arma dei carabinieri...della Finanza e tentando ripetutamente contatti e il coinvolgimento del procuratore Scolastico». Dal canto suo, l'aggiunto respinge ogni insinuazione: «Mai incontrato Fameli, quando ero a Savona lo indagai per due volte per truffa facendolo condannare e chiedendo per lui l'applicazione delle misure antimafia. Se lui si è proposto come confidente è questione che riguarda la polizia giudiziaria». I carabinieri citati nel passaggio non sono nomi da poco. Il primo è Pierluigi Stendardo, maresciallo dell'Arma a lungo nell'anticrimine e poi Angelo Piccolo, negli scorsi decenni braccio destro del colonnello Michele Riccio, capo dei Ros condannato per la sua gestione disinvolta del reparto. Tra gli indagati dell'inchiesta Fameli c'è anche l'avvocato di Varazze Claudia Marsala, difensore sia di Fameli che di Riccio e moglie di Stendardo. Altro elemento importante è la presenza, in qualità di difensore di un'altra indagata (la segretaria di Fameli), dell'avvocato Tiziana Parenti, ex parlamentare di Forza Italia, ma come pm a Savona protagonista di un duro scontro con l'allora procuratore capo Russo, vicenda in cui Riccio e Fameli furono coinvolti. Insomma, dietro ai reati di riciclaggio, evasione, esportazione di capitali per un ammontare di dieci milioni di euro (la procura ha ottenuto il sequestro di 44 unità immobiliari) c'è un sottobosco di legami, vecchi e nuovi, il cui disvelarsi può riservare sorprese. Ad esempio il coinvolgimento di Carlo Ciccione, commercialista finito in manette un anno fa a Genova per l'inchiesta sulla truffa alle banche attraverso i mutui assieme a Nicodemo e Cristiano La Rosa, padre e figlio di origine calabrese. Altro nome di peso tra gli indagati è quello del notaio di Alassio Elpidio Valentino, che avrebbe aiutato Fameli in maniera «fraudolenta» nelle sue attività finanziarie illegali. Il notaio (protagonista anche della vita mondana alassina, il Secolo XIX di Savona racconta delle feste da lui organizzate cui partecipavano, tra gli altri, l'ex sindaco Marco Melgrati e il pm Alberto Landolfi), a ottobre nel suo studio aveva ricevuto la visita della Digos alla ricerca di documenti di Andrea Nucera, imprenditore immobiliare di origine calabrese latitante da mesi perché inseguito da un ordine di cattura per bancarotta.

Massoneria, boom di nuove iscrizioni, scrive “Il Secolo XIX”.  I partiti convincono sempre meno, la religione ha poco “appeal” sui giovani più ambiziosi, l’associazionismo attira pochino, e in questo vuoto c’è una “fede” che sta facendo proseliti e conquista sempre più consenso specie tra neo laureati: la massoneria. È un dato che si registra a livello nazionale e che nel savonese sta suscitando curiosità e sorpresa. «È così, tanti giovani si stanno avvicinando, i motivi possono essere molteplici ma di sicuro c’entra il fatto che la politica e i partiti dei problemi della società se ne occupano sempre meno mentre per la nostra Istituzione i dogmi della società sono centrali e prioritari: la vita, gli obiettivi dell’umanità, il dialogo tra i popoli, verso dove andiamo - dice “Renzo” Brunetti, avvocato e storico massone savonese che ebbe il privilegio di ricoprire il ruolo di pubblico ministero nel processo massonico che giudicò Licio Gelli, il gran maestro che tra gli anni Settanta e Ottanta diede vita alla loggia “deviata” Propaganda Due (P2) - è per questo che a mio parere la massoneria funge da richiamo tra i giovani in cerca di risposte e questo aspetto sarà anche oggetto dell’intervento del nostro Gran Segretario nell’annuale convegno di Rimini che faremo a fine marzo come Grande Oriente d’Italia, l’Obbedienza a cui appartengo da sempre». Fare numeri è difficile perché la riservatezza, com’è noto, è una peculiarità massonica ma si stima che non sia esagerato parlare di decine e decine di giovani savonesi che nell’ultimo anno hanno mosso passi verso il Grande Oriente d’Italia, l’obbedienza maggioritaria che vanta 22 mila iscritti in Italia e ben 9 logge in provincia di Savona, o verso la Gran Loggia d’Italia che di iscritti ne annovera sugli 8 mila in Italia e di logge savonesi ne ha ben 6. Poi ci sarebbe il capitolo di gruppi e gruppuscoli minori, nati da scissioni e costole di altre logge, ma hanno numeri così esigui che sono difficili da seguire e conteggiare. Un po’ meno esiguo è poi il contingente savonese che frequenta logge francesi, considerato che nella sola Nizza ce ne sono decine e molto ben organizzate. Difficile dire quanti siano i massoni in provincia ma un dato è certo: il savonese, così come l’imperiese, è una delle aree dove storicamente “cappucci” e “grembiuli” raccolgono più adepti. Una stima verosimile parlava dello 0,2% della popolazione iscritta a una loggia, significa che nel savonese su 300 mila abitanti ci sarebbero circa 600-650 “fratelli muratori” con predominanza nel “Goi”, il Grande Oriente d’Italia (sui 300-330 iscritti), seguito dalla Gran Loggia d’Italia (230 circa), l’obbedienza che consente anche alle donne di partecipare (a differenza del Goi).

E di templi - luoghi dove un paio di volte al mese si tengono le “tornate” (incontri) - se ne contano almeno 7 in provincia, con alcuni storici come quello di via Quarda Superiore a Savona (mascherato, come si faceva un tempo, dalla targa di un’associazione culturale, la “Cornelli”) a quello del centro storico di Albenga, in via Oddo, a quello più recente di Coasco, frazione di Villanova d’Albenga, dove si raduna la loggia “George Washington” del Goi nata da una costola dell’ingauna “Mazzini”.

Massoni e logge savonesi. Pagine di “storia” del 1984. I primi due rapporti giudiziari dei carabinieri al giudice istruttore Granero, scrive “Trucioli Savonesi”. Lungo il percorso della Teardo story, che iniziò a ottobre 1981, con le prime indagini e deflagrò nel giugno 1983, ci siamo occupati della massoneria, dando soprattutto la “parola” al contenuto della motivazione delle sentenze. La sintesi era: massoneria e massoni non possono, non devono essere accomunati tutti, senza distinzione di ruoli, nel calderone dell’illegalità. Non si può fare di ogni erba un fascio, criminalizzare senza accertare responsabilità penali individuali. Fu soprattutto il giudice relatore del collegio giudicante, Vincenzo Ferro, che scrisse le parole più esplicite e chiare. Con un’analisi approfondita. Proseguendo il nostro viaggio storico, senza pretese, da questa puntata inizieremo a riportare i passi salienti dei rapporti giudiziari, allegati al processo, trasmessi al giudice istruttore capo, Francantonio Granero, dai carabinieri e dalla polizia. I verbali di interrogatorio di alcuni massoni. Documenti riguardanti il ruolo delle logge e della massoneria, savonese, imperiese e ligure. Con agganci nazionali, persino nell’entourage (allora) del Quirinale e della Camera dei Deputati. Oltre all’indagine originaria sulla massoneria, tra le prime in Italia, dell’allora pubblico ministero Filippo Maffeo. Con sequestri, verbali, interrogatori, perquisizioni in alcune sedi di logge, ad opera della polizia (Bianchi e Branda). In questo capitolo, la prima parte dei rapporti, che recano il numero 425/53 di protocollo 1983, trasmessi in data 15 febbraio 1984 e 12 marzo 1984 (ad arresti avvenuti) nel procedimento penale, si legge, contro Alberto Teardo ed altri. I due rapporti del Gruppo Carabinieri di Savona erano firmati dall’allora ten. Col. Nicolò Bozzo, comandante, già braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Trattandosi di “rapporti”, non di sentenze, avvertiamo il lettore che esso può contenere alcune piccole imprecisioni e comunque non vuole essere un giudizio di condanna nei confronti delle persone citate, a prescindere da quelli che saranno successivamente le sentenze passate in giudicato (per alcuni di essi, una netta minoranza). In questi giorni, tra l’altro, è stata annunciata un’iniziativa a livello nazionale per la pubblicazione di tutti gli elenchi dei massoni italiani, molti dei quali sono già contenuti in libri e pubblicazioni. Resta da vedere se si tratta di un documento aggiornato. E cosa si scriverà per quanto riguarda gli elenchi della Provincia di Savona e Imperia. Trucioli, nelle prossime puntate, pubblicherà gli elenchi allegati all’inchiesta. Ovvero solo documenti ufficiali. ECCO IL CONTENTUTO PIU’ SIGNIFICATIVO DEL RAPPORTO BOZZO. La massoneria in provincia di Savona ha radici e tradizioni profonde. Il penultimo Gran Maestro del “Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani”, generale Ennio Battelli, peraltro strenuo difensore di Licio Gelli, è residente in Andora. La loggia locale Sabazia, dodici anni fa, ha celebrato il centenario della sua fondazione alla presenza dell’allora Gran Maestro Venerabile, Lino Salvini, membro del Psi fiorentino e sotto la cui “Grande Maestranza” fu costituita la P 2. Tra Varazze, Andora, Cairo Montenotte, sono “operanti”, secondo gli elementi informativi acquisiti da questo comando, le seguenti logge “scoperte”, suddivise in “Obbedienze”, tutte comunque legate ad una struttura di vertice denominata “Rito” della quale possono far parte i maestri venerabili del 33° grado di entrambe le due confessioni…Grande Oriente e Gran Loggia d’Italia…che hanno avuto diatribe anche su proprietà immobiliari storiche….vedi dichiarazioni rese da Carlo Rondoni. Il Grande Oriente d’Italia, con sede a Roma, a Savona è presente con la “XX Settembre, piazza Saliferi 2, che ha avuto come “maestro venerabile”, Giuseppe Bolzoni, Mauro Testa sindaco di Albenga…;la “Aldo Scarfi” con Nicolò Aonzo “maestro venerabile”…;la “Sabazia”, in via Quarda Superiore che ha avuto tra i suoi affiliati più noti l’avvocato Renzo Brunetti, già segretario provinciale del Pri, il geometra Danilo Sandigliano consigliere comunale del Psi ad Albenga, Giampiero Mentil, avvocato, esponente del Pri e già assessore regionale, Aldo Ingaramo, già direttore a Savona del nuovo Banco Ambrosiano. La “Cheope”, Savona, piazza Saliferi 2 con Primo Renato Levo, maestro venerabile, Bonaventura Alessi consigliere comunale a Savona, Emilio Martinengo primario di cardiologia al San Paolo, Angelo Canepa, consigliere provinciale. La “Priamar”, Savona, via Quarda Superiore, con Arnaldo Menato, architetto, maestro venerabile. La “Giuseppe Mazzini”, a Villanova d’Albenga, col medico Giuseppe Giuliano, maestro venerabile. La “Luigi Pirandello”, a Villanova d’Albenga, con Franco Puricelli, titolare dell’Ops (Organizzazione pubblicitaria stradale), maestro venerabile. La “Cesare Abba” di Cairo Montenotte, piazza Abba, con l’imprenditore Alessandro Stanislao Sambin, maestro venerabile. La “Canalicum” di Cairo Montenotte, per la quale sono in corso aggiornamenti. La Gran Loggia d’Italia, con sede a Roma, in piazza del Gesù, che ha tra i propri affiliati anche donne, ha un Ispettorato per la provincia di Savona in via Pia 9. Lelio Pedaggi è ispettore provinciale. Nella loggia “Anton Gino Domenichini”, di via Pia 9, Delfino Molino è maestro venerabile, con Gianfranco Sangalli, assessore provinciale del Psi, l’avvocato Umberto Ramella, segretario provinciale del Psdi, con Federico Bertone, ingegnere; con Giovanni Daga, impiegato del Comune di Savona, con Paolo Caviglia, con Dina Garzoglio, vedova dell’avvocato Enzo Mazza, già presidente della Carisa e maestro venerabile della loggia “Mistral” di Savona. La Loggia “Figli della Vittoria Italica”, Savona, via Pia 9 con Renata De Nicolai maestro venerabile ed esponente del Pli, Stelvio Imassi, consigliere del Psi a Savona, Ivaldo Lorenzo, vice presidente della Carisa; Massimo De Domenicis che faceva parte anche della loggia XX Settembre; Ettore Ghilardi che era iscritto anche alla “Silentium ed Opus”, Angelo Nari, ex sindaco Dc di Calizzano, già consigliere regionale e presidente della Carisa. Della loggia “Silentium ed Opus” era maestro venerabile Lelio Pedaggi, con Pier Guido Vivani, avvocato e con Umberto Ramella difensore di Gianfranco Sangalli. Con Domenico Abrate, già presidente Dc della provincia, con il farmacista di Spotorno Nicolò Citriniti, pure esponente Dc, con Ettore Ghilardi già iscritti a “Figli della Vittoria Italica”. Loggia “Mistral”, con sede a Savona, in via Famagosta, poi trasferita a Genova, Raffaele Giuffrè, maestro venerabile ed esponente Dc, Alberto Teardo fino al 1975, Lino Truffelli consigliere comunale Dc a Savona; Giandomenico Bianco, funzionario dell’Unione Industriali; Augusto Accinelli, consigliere comunale del Pli a Varazze; Carlo Rondoni, della direzione Provinciale delle Poste; Stefano Clematis, funzionario della Provincia; Mario Vagnola, console onorario di Malta e operatore marittimo. Loggia “Eleuteria”, già le “Agavi”, Giorgio Finocchio, avvocato e maestro venerabile; Paolo Caviglia, Lorenzo Bottino (sindaco di Finale), Federico Casanova, petroliere, Gaetano Brancatelli, direttore di Finauto a Finale; Pietro De Rossi, già direttore della Motorizzazione civile; Renzo Ghiringhelli, direttore della Carisa a Ceriale. Loggia “Spartos”, già “Le Ginestre”, di Borghetto S. Spirito, con Gianfranco Moreno; Ubaldo Pastorino, consigliere del Psi; Roberto Roveraro, assessore del Psi iscritto solo alle “Ginestre”, come pure Osvaldo Pignocca, assessore a Loano del Psi, lo stesso dicasi per Brosito Bugliolo. Loggia “Ligustica”, già le “Acacie” di Albenga. Giuseppe Rondoni maestro venerabile, Angelo Mosso, sindaco di Villanova, Piero Rebagliati, geometra di Antonio Fameli, Vincenzo Papalia, già capo del personale del Santa Corona Augusto Guglieri dipendente del comm Carlo Pallavicini, di Andora, suocero del questore Arrigo Molinari; Giancarlo Jeri, già segretario del Comune di Albenga e poi di Taggia; Gianfranco Sasso, ex assessore del Psi, già iscritto solo alle ”Acacie”, come pure Antonio Fameli, agente immobiliare. Loggia “Phoenix”, già “Le Palme” di Loano, Mario Condorelli maestro Venerabile. Loggia “Keramos”, di Albisola Marina, che fa capo al notaio Enzo Motta e a Giuseppe Maria Rosso, dissidente del Grande Oriente d’Italia. Per la cronaca ricordiamo di aver già dato ampio risalto all’intervista all’avvocato Renzo Brunetti, la sera che ha tenuto una conferenza ai giovani di “Libera” e “Rete Lilliput”, a Savona. Intervista che aveva registrato un “record” di lettori-navigatori.

IL DIAVOLO A SAVONA. SCANDALI ECCLESIASTICI

L’inchiesta di Elena Affinito, Giorgio Ragnoli e Marco Preve su “La Repubblica”. Pedofilia, soldi, potere e omissioni. La tragedia della diocesi di Savona. Superando dolore e vergogna Francesco Zanardi, molestato da ragazzo, ha portato allo scoperto una catena di scandali. Denunciandoli sul suo blog e anche con volantini distribuiti in piazza. Per la magistratura i vertici della Curia non hanno pensato a tutelare i minori ma solo a "salvaguardare l'immagine della diocesi". Quella lettera a Ratzinger, prima che diventasse Papa. Per raccontare il trauma inferto a un'intera comunità da alcuni casi disvelati di pedofilia commessi da sacerdoti e da almeno altri cento che resteranno per sempre sepolti nel cuore di giovani vittime oggi adulte, è giusto partire da quattro righe scritte dal giudice Fiorenza Giorgi in un'ordinanza di archiviazione che, moralmente, è impietosa come una ghigliottina. "È triste dire come la sola preoccupazione dei vertici della curia fosse quella di salvaguardare l'immagine della Diocesi, piuttosto che la salute fisica e psichica dei minori che erano affidati ai sacerdoti della medesima". La diocesi è quella di Savona. Uno degli uomini di quella curia, è oggi uno dei cardinali più potenti della Chiesa, monsignor Domenico Calcagno, già responsabile degli affari economici della Cei, poi ai vertici dell'Apsa, l'amministrazione che cura il patrimonio immobiliare del Vaticano e oggi nella Commissione di controllo dello Ior. In politica qualcuno avrebbe potuto ritenerlo un impresentabile per le elezioni. Ed è così che lo definisce l'associazione l'Abuso, che ha lanciato un appello perché non faccia parte del conclave. Se questa storia dove gli abusi si mescolano agli affari, ai soldi e al potere, si può oggi raccontare, il merito va riconosciuto in primis a Francesco Zanardi, 43 anni, molestato quando era ragazzo dal suo parroco, don Nello Giraudo. Francesco riesce a superare la vergogna, il dolore, il rischio di essere additato come un folle, e a molti anni di distanza dalle violenze subite, le denuncia. È un fiume in piena che conosce molti segreti della curia savonese. E li racconta: sui blog, sui volantini distribuiti in piazza, ma anche a palazzo di giustizia. Il procuratore Francantonio Granero e il pm Giovanni Battista Ferro per tre anni affronteranno una prova umana, ancor prima che professionale, pesante, insana. Dentro l'inchiesta, ma non necessariamente dentro le carte, ci sono 32 anni di una vicenda sconvolgente per una città di provincia come Savona, 60 mila abitanti, un porto, tante ex industrie, il commercio, buona qualità della vita, un elettorato da sempre schierato a sinistra. Alcuni sacerdoti pedofili hanno approfittato del loro ruolo all'interno di gruppi scout, ma anche di case di accoglienza e centri in cui i minori avrebbero dovuto essere ancor più tutelati, per abusare ripetutamente di bambini e adolescenti. Persone che oggi sono padri di famiglia, liberi professionisti, operai, impiegati, uomini delle istituzioni. E nessuno ha dimenticato. Fin dall'inizio la devianza di quei sacerdoti malati è nota agli altri preti della diocesi e alle gerarchie. Ma ognuno di loro, però, sembra avere a sua volta qualcosa da nascondere o proteggere, chi l'omosessualità (anche se non pedofila), chi la scalata al potere. Don Carlo Rebagliati è uno di loro. Pochi mesi fa, prima della sua morte, in un'intervista a Repubblica raccontava la sua vita da omosessuale, i suoi tanti amori sempre ipocritamente "non visti" dai vescovi, la sieropositività. Ed è lui che dopo tanti anni fornisce con la sua testimonianza il supporto di cui hanno bisogno gli investigatori per trovare conferma alle accuse di Zanardi. Oltre a don Rebagliati, che verrà poi emarginato dalla sua chiesa anche perché, lui che ne fu a lungo economo, racconterà situazioni poco chiare riguardanti la gestione finanziaria della diocesi (sulle quali c'è un altro filone d'inchiesta ancora aperto), decidono di parlare anche altri religiosi come don Bof e don Lupino. Ognuno con la propria sofferenza, con il proprio disagio. Emergono così le coperture date a don Barbacini, insegnante al liceo classico Chiabrera, già condannato una decina di anni fa per episodi analoghi, ma arrivano anche nuove testimonianze. E alla fine anche don Nello Giraudo, nel frattempo ridotto allo stato laicale ma accolto in un convento in qualità di cuoco e factotum, verrà condannato. Lui che abusò di Zanardi quando era poco più che bambino, patteggia un anno per l'unico episodio che la Procura riesce a salvare dalla prescrizione. Tre vescovi finiscono nel mirino, i monsignori Sanguineti, Lafranconi e Calcagno che si sono succeduti a cavallo tra la fine degli anni 90 e il decennio successivo. Lafranconi finisce indagato ma, causa prescrizione, il gip Giorgi lo archivia pur definendo il suo comportamento "assolutamente omissivo". Quasi tutti, ai vertici della curia savonese, sapevano delle violenze di don Giraudo, ma quasi tutti si giravano dall'altra parte. E anche chi fece qualcosa si mosse, secondo il gip Giorgi, solo per convenienza. È il caso di monsignor Calcagno: "Le prime iniziative dirette a tutelare la comunità dei fedeli furono assunte, sia pure a malincuore come dimostra la corrispondenza con la congregazione per la dottrina della fede, soltanto dal suo (di Lafranconi, ndr) successore monsignor Calcagno che impose a Giraudo la chiusura della comunità e, nel trasferirlo ad altro incarico, dispose che non avesse contatti con i minori". La corrispondenza cui si riferisce il giudice è il retroscena forse più destabilizzante per il Vaticano. L'8 settembre del 2003 il vescovo Calcagno scrive al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinal Joseph Ratzinger per informarlo con una lettera accompagnata da un voluminoso fascicolo del caso di don Giraudo, dello spostamento che ha deciso per ragioni di opportunità e del desiderio del prete pedofilo di continuare "un impegno pastorale". Calcagno aggiunge che "Per quanto possibile intendo evitare che abbia comunque responsabilità che lo mettano a contatto di bambini o adolescenti". Per quanto possibile. Come dire, facciamo quel che possiamo. Non si conosce l'eventuale risposta del futuro Papa. I prelati che successivamente confermeranno di aver saputo delle tendenze di Giraudo spiegheranno di essere stati essi a conoscenza durante la confessione e quindi di essere tenuti al segreto. Nel fascicolo inviato a Ratzinger c'era anche una relazione del 22 agosto, siglata dal vicario generale della diocesi monsignor Andrea Giusto nella quale, dopo aver spiegato che don Giraudo si era affidato alle cure "di un religioso psicologo nel tentativo di ritrovare un migliore equilibrio" specificava come "nulla è trapelato sui giornali e non ci sono denunce in corso". La Diocesi e il Vaticano potevano stare tranquilli. "In dieci ore di interrogatorio ho parlato tre minuti della pedofilia, loro volevano sapere cose amministrative. C'è lo Ior dietro. Ho perso tutto, sinceramente adesso ho anche paura'' Don Carlo Rebalgliati parlando con Francesco Zanardi, vittima e fondatore di Rete Abuso, fa trapelare tutte le sue preoccupazioni. Il sacerdote aveva testimoniato sui casi di pedofilia alla magistratura ed è stato poi screditato ed emarginato. Francesco Zanardi, vittima di un prete pedofilo negli anni ottanta e fondatore di "Rete Abuso", racconta il suo vissuto di abusi, e il modo in cui sono stati coperti i casi di pedofilia avvenuti nella diocesi di Savona. "In tutte le lettere dei vescovi scritte al Vaticano, nelle risposte, non c'è mai un solo accenno di come aiutare le vittime".

Nel 2004, mentre Domenico Calcagno è vescovo della diocesi di Savona - Noli, un reporter del Dallas News fotografa in una parrochia di Albissola Marina Yusaf Dominic, un prete di origine pachistana ricercato per abusi sessuali su minori, mentre celebra la messa domenicale.Dominic era stato arrestato nel 1996 a Londra per pedofilia e successivamente rilasciato su cauzione. Una volta libero il prete scappa e dopo otto anni di latitanza viene pizzicato in Liguria. Successivamente il prete viene trasferito dal vescovo nell’abbazia benedettina di Finalpia, complesso monastico che si trova di fronte alla scuola elementare di Finale Ligure, dove rimane fino al 6 dicembre 2009, giorno della sua presunta morte. Una nuova vicenda di abusi su giovani riporta ai tempi del seminario. E mette sotto accusa don Piero Pinetto colpevole di aver rovinato la vita di un giovane seminarista poi morto di Hiv a 39 anni. Il parroco di Lavagnola accusa i vertici della diocesi: "Hanno sempre scelto di mettere a tacere tutto senza curarsi delle vittime. L'hanno fatto per salvarsi. Ora è tempo che chi è ancora vivo parli e chieda scusa". Mentre esplode la vicenda dei preti pedofili e dei misteri della diocesi di Savona, nel capoluogo ligure si sparge la notizia che un'altra vittima ha denunciato un prete pedofilo consegnando una lettera a don Giovanni Lupino, parroco di San Dalmazio in Lavagnola. Nella lettera la vittima racconta le violenze subite in seminario quarant'anni fa da un prete, l'allora vice rettore don Pietro Pinetto, già segnalato come molestatore al vescovo nel 2010 per reati ormai prescritti. Al telefono Don Lupino è un fiume in piena, le nuove accuse a don Pinetto squarciano il velo con cui le gerarchie ecclesiastiche hanno coperto decenni di abusi. La famiglia della vittima all'epoca aveva avvisato il rettore del seminario don Giusto e il vescovo Sibilla che promisero provvedimenti mai presi. Don Pinetto, ci racconta don Lupino, non è un prete qualsiasi, appartiene all'ala forte che occupava posizioni di spicco nel clero savonese, i preti eletti delle prime file che concelebravano i pontificali del vescovo. A loro venivano affidati i giovani parroci che manifestavano le prime devianze pedofile per essere redenti, come don Nello che, in crisi, fu affidato a don Pinetto. E don Lupino va anche oltre, descrivendo gli intrecci di potere della diocesi di Savona e delineando un quadro che vede un gruppo di potenti prelati che nasconde crimini gravissimi per coprire i propri membri, mentre intere generazioni di vittime vengono condannate all'emarginazione. Alessandro Nicolich è stato una di queste vittime: entrò giovanissimo in seminario, i familiari erano ammirati dalla sua vocazione. Una notte Alessandro scappa dalla finestra e disperato si presenta dai genitori. Negli anni il dramma delle violenze verrà fuori, ma Alessandro è ormai un'anima persa. Incontrerà la droga, finirà in carcere, contrarrà l'Hiv e morirà a soli 39 anni. Il fratello Roberto racconta: " Per noi è stata una sciagura dalla quale non ci siamo mai ripresi".

Don Lupino, cosa avveniva in seminario negli anni '70? "In quegli anni nel seminario di Savona insegnava Don Giampiero Bof, professore di teologia dogmatica, un sacerdote molto aperto che, insieme a un gruppo di studenti, tra cui c'ero anch'io, cercava di portare aria nuova nella Chiesa mettendo in discussione questioni come il celibato e la sessualità, la formazione teologica e quella spirituale. Don Bof si scontrò con il rettore e con i professori più conservatori. Ricordo che il vescovo di allora, monsignor Sibilla, mi convocava per chiedermi cosa pensavo dell'autorità dei vescovi e del Papa, dell'obbedienza e della legge del celibato; mi vietava di avvicinarmi ai seminaristi più giovani per non contaminarli. Mi torchiava e ora scopro che intanto tracannava questi rosponi della pedofilia, è allucinante questa cosa. Esattamente come nel film "L'attimo fuggente", il professor Boff perse l'insegnamento. Io, che ero il più giovane, mi trasferii a Fossano in Piemonte. Ero fuori da quei contesti e non sono mai stato circuito dai miei educatori".

Oggi la vittima di don Pinetto dichiara di aver denunciato all'epoca il fatto a don Giusto e al vescovo. "Qui non abbiamo un prete qualunque che commette il crimine ma un vice rettore, mentre il rettore, il vescovo e i professori del seminario lo coprono; insomma è l'istituzione nel suo vertice che si macchia di questo delitto".

Cosa avrebbero dovuto fare? "Era stato violentato un giovane ragazzo, i vertici avrebbero dovuto denunciare don Pinetto alla magistratura e all'autorità ecclesiastica, quell'uomo doveva essere scomunicato e finire in galera per abuso su minore. Un pedofilo pentito un giorno mi ha detto questo: 'Abbiamo bisogno di essere fermati anche con la galera perché noi da soli non ci fermiamo'".

Qual è il suo giudizio su questi fatti? "Monsignor Sibilla ha commesso due reati, uno nei confronti del diritto penale italiano l'altro nei confronti del diritto canonico, ma ora è morto. Don Giusto invece deve rendere conto alla diocesi di quello che ha fatto. Come se non bastasse, anni dopo le nefandezze commesse da Pinetto e coperte dai vertici, è scoppiato a Savona la vicenda di Don Giorgio Barbacini, guarda caso amico di don Pinetto, di don Giusto, dei professori ai vertici del seminario e guarda caso insegnante anche lui in seminario, alle medie. Guarda caso anche lui pedofilo accertato e condannato. E' tempo di fare i conti con questa gente e di andare al cuore del problema altrimenti i veri responsabili ci scappano. Quando ci fu il caso dell'economo di Como accusato di molestie su minori, fu il vescovo a denunciarlo, poi disse: 'Ora che l'ho denunciato posso aiutarlo come figlio'. La Chiesa non può proseguire su questa strada, con questo gran carnevale di cardinali e stampa al seguito. E questa sarebbe la fede cristiana? il carnevale di Rio è meno allegro. Vorrei fare un appello pubblico a don Giusto e a don Pinetto perché dicano la verità, la Chiesa di Savona ha dritto alla verità".

La denuncia ai pedofili e l'isolamento.La storia di don Carlo Rebagliati. "Sono un essere umano, non ritengo estraneo a me nulla di umano". Don Carlo è un prete diverso dagli altri: non ha mai nascosto la sua omosessualità, ma è sempre stato rispettato dai suoi parrocchiani che non hanno mai dubitato della sua correttezza con bambini e adulti. Entrato in seminario per "stare dalla parte degli ultimi" si trova dentro una Chiesa diversa da quella che immaginava. La diocesi di Savona viene scossa dai casi di pedofilia, lui denuncia al vescovo, ma non subito alla magistratura. Nominato Vicario Economo scopre che nei conti della Curia non tutto è pulito. Sieropositivo, muore nel gennaio del 2013, in circostanze che gli amici definiscono "poco chiare". Quando nei primi anni ottanta l'allora trentenne Don Carlo Rebagliati arriva a Spotorno, porta nuova vitalità nella parrocchia. Riapre il cinema e il teatro, l'oratorio raccoglie bambini e giovani ragazzi, diventando un centro di aggregazione fondamentale per la comunità. È uno strano prete: molti capiscono che è gay, ma nessuno può sollevare dubbi sulla sua correttezza con bambini e adulti. È un prete che sta dalla parte degli ultimi e questo basta ai suoi parrocchiani. L'inferno però è dietro l'angolo. Nell'84 dalla parrocchia della vicina Valleggia viene trasferito Don Nello Giraudo in seguito ad alcune segnalazioni per molestie su bambini. Rebagliati, accortosi della morbosità di don Nello segnala il problema al vescovo, ma non alla magistratura. Per anni Giraudo continuerà a violentare bambini e adolescenti. Di questo errore, in seguito, don Carlo si pentirà amaramente: allora credeva ancora nella sua chiesa ed è convinto che il vescovo (allora era don Lanfranconi) agisse nell'interesse supremo della Diocesi. Il compromesso con la sua coscienza sembra fruttargli un buon giudizio da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1993 a Rebagliati, infatti, viene proposto per ricoprire il ruolo di Vicario Economo della Diocesi di Savona. Rebagliati non è convinto, teme "di dover fare solo il burocrate e sacrificare le ragioni principali sulle quali poggiava il mio impegno di prete", ma alla fine accetta. Don Carlo racconterà che quasi subito si era trovato a dover risolvere la questione della sede della Curia ospitata in locali abusivi, costruiti negli anni '50 sopra un chiostro francescano di fianco della cattedrale. Nel 2002, annota Rebagliati, il comune condona i locali a patto che la Diocesi ripristini il chiostro destinandolo a sede del Museo Diocesano. Nello stesso anno subentra come vescovo Domenico Calcagno, già economo della Cei. Di lui Rebagliati scriverà: "A parole apertissimo, nei fatti impulsivo e inconcludente". Calcagno e la Diocesi raccolgono fondi per la costruzione del Museo, secondo quanto scrive Rebagliati i fondi arrivano dall'8 per mille e da varie fondazioni: la fondazione De Mari, con presidente il dott. Luciano Pasquale, Cariplo, Carige e "testamento Delle Piane". In totale verranno raccolti, sempre secondo Rebagliati, oltre tre milioni e mezzo di euro. Ma il museo non verrà mai aperto. Durante gli anni di Calcagno a Savona, i rapporti tra lui e Rebagliati sono sempre più tesi tanto che nel 2004 Rebagliati rassegna le sue dimissioni da tutti gli incarichi diocesani. Il vescovo risponde: "Non posso accettare la tua richiesta e ti prego, a nome della Chiesa savonese, di continuare nel tuo servizio, con l'amicizia di sempre, don Domenico". Ma Rebagliati si dimetterà definitivamente da economo nel 2010. Nel febbraio 1994 don Carlo Rebagliati (dichiaratamente omosessuale, ma non pedofilo) scopre di essere sieropositivo; ai medici che gli propongono di curarsi fuori Savona dove non è conosciuto risponde di no. Frequenta regolarmente il day hospital del reparto malattie infettive dell'ospedale del suo paese mettendosi in coda nelle sale d'aspetto. "Homo sum, humani nihil a me alienum puto" (sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano), un suo amico racconta come don Carlo citasse spesso questa frase per raccontare la sua difficoltà di far convivere la vocazione spirituale con l'essere carnale. Cercava risposte che la Chiesa non riusciva a dargli, e mentre i suoi superiori gli consigliavano di reprimere la sua stessa natura di uomo dall'altra gli imponevano l'ambiguità della menzogna, del sotterfugio, del ricatto. Non aveva fatto mistero della sua omosessualità con i suoi confessori e con i vertici della Diocesi. Negli anni successivi, più volte, gli verrà il sospetto (mai nascosto ad altri sacerdoti amici) che questa sua trasparenza sia stata usata contro di lui. Scriveva don Carlo al suo vescovo Calcagno nel 2004: "Una Chiesa muta di fronte agli scandali, non trasparente nel suo agire, che non ritenga importante anche la legge degli uomini, che non ama le cose belle, che non consola chi piange e non sostiene la vita non è il mio ideale Chiesa". Sempre nel 1994 Rebagliati incontra Francesco Zanardi, conosciuto bambino a Spotorno, lo ritrova tossicodipendente e ossessionato da suoi fantasmi, orfano di una madre suicida dalla quale scoprirà, poche ore dopo il funerale, di essere stato adottato. Don Carlo viene presto a sapere che "Franco" è stato per anni violentato del suo collega pedofilo Don Nello Giraudo; allora decide di aiutarlo, lo accoglie nella sua casa e gli offre un impiego nella cooperativa che ha fondato per i lavori della Diocesi. Nei casi di pedofilia si parla sempre dei carnefici, di rado delle vittime, vite rovinate in cui le responsabilità della Chiesa rimbombano nel vuoto delle solitudini che hanno creato; innocenti in attesa che una legge sancisca il loro riscatto, nonostante la prescrizione. Lavorando all'interno della Diocesi Francesco rivede il suo aguzzino. Don Nello Giraudo continua a molestare bambini, coperto dalla Curia. Nel 2010 Rebagliati decide di testimoniare nel processo istruito contro Don Nello, ma in Procura lo interrogano soprattutto sui conti della Diocesi. Questo è l'inizio della fine per don Carlo, che verrà dipinto come il grande accusatore della Chiesa. Nella Diocesi di Savona scoppia lo scandalo pedofilia, la cui onda lunga a tutt'oggi incoraggia le vittime a uscire allo scoperto per denunciare i preti molestatori. Pochi mesi dopo la sua testimonianza, Rebagliati viene denunciato da un giovane tossico suo conoscente, per induzione alla prostituzione e lesioni colpose. I suoi parrocchiani lo sostengono, ma il vescovo Lupi vuole le sue dimissioni. La Diocesi basa la sua richiesta su queste accuse che più tardi si riveleranno infondate. Soprattutto si vuole evitare il processo canonico nel quale Rebagliati potrebbe decidere di aprire il libro e raccontare quello che ha visto e dovuto fare negli anni dell'economato. Ma l'uomo è distrutto e il sacerdote umiliato. Agli amici intimi Rebagliati dirà: "Sono un uomo finito, uno straccio, non conto più niente" nel giugno 2011 le dimissioni arrivano. Nel 2012 in agosto arriva l'archiviazione delle accuse a carico di Rebagliati che vuole collaborare con la Procura nell'inchiesta sui conti della Diocesi, ma non fa in tempo: ricoverato per setticemia dovuta al malfunzionamento della macchina portatile con la quale si praticava autonomamente la dialisi, rimane in ospedale molti mesi peggiorando progressivamente e, secondo gli amici, in circostanze poco chiare. Rebagliati muore il 13 gennaio del 2013. Il CD con il backup del suo computer viene consegnato in Procura. Durante i suoi funerali a Stella, suo paese natale, mentre il Vescovo Lupi officia la messa protetto da quattro uomini della Digos, una folla oceanica riempie la chiesa per salutare Don Carlo: è la sua rivincita. Disprezzato dalla Chiesa e amato dalla sua comunità nonostante le debolezze, forse anche per quelle. Don Carlo amava citare Paolo di di Tarso che nella prima lettera ai Corinzi dice: "Il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero: perché passa la scena di questo mondo!".

MAGISTROPOLI. ACCANIMENTO O SE LA CERCA?

Studio Aperto su Mediaset delle ore 12.25 del 2 settembre 2012 fa un servizio su Alberto Landolfi. “Imbarazzo su un PM di Genova. Una sua foto su Facebook mentre imbraccia un mitra gli sta costando il nomignolo di PM "Rambo". Magistrato di punta della procura di Savona, poi distaccato in Bosnia Erzegovina per oltre un anno come esperto di criminalità. Ora il Pubblico Ministero Alberto Landolfi finisce al centro di una polemica proprio alla vigilia del suo rientro in ruolo in Italia alla Procura Antimafia di Genova a causa di alcune foto pubblicate su face book. A rivelarlo è il quotidiano il Secolo XIX che lo definisce il PM Rambo, spiegando che alcune fotografie, nelle quali il magistrato imbraccia fucili e mostra il saluto a tre dita tipico degli ultrà nazionalisti serbi, sono oggetto di un accertamento da parte della Procura generale. Secondo il quotidiano la polemica riguarda l’opportunità per un rappresentante dello stato, un magistrato, di riprodurre sia pure per scherzo come specificato nella didascalia della foto un gesto simbolo delle milizie che seminarono il terrore fra gli albanesi in Kossovo e che ancora oggi viene interpretato come segno di riconoscimento di gruppi violenti come ad esempio gli ultrà serbi che proprio a Genova bloccarono la partita della nazionale. Alberto Landolfi raggiunto in vacanza dal Secolo XIX spiega che la vicenda si risolverà in un nulla di fatto, perché il gesto a tre dita è un gesto mutuato dalla religione ortodossa e che la foto col fucile risale a 10 anni fa durante un safari nel quale, tra l’altro, non venne sparato neppure un colpo. Inoltre gli accertamenti non riguarderebbero proprio quelle foto, ma altre scattate in un locale e finite in un collage pubblicitario per le quali, sostiene il magistrato, è stata già riconosciuta la violazione della sua stessa privacy".

Questo signore è un magistrato scrive Mario Molinari su “Savona News”. Si chiama Alberto Landolfi, è stato a lungo Pm a Savona dove girava con una robusta scorta armata. Il 2 settembre 2012 il Secolo XIX lo ritrae in prima pagina mentre imbraccia sorridente un fucile d’assalto e nelle pagine interne mentre prende la mira con un’altro fucile - di precisione e grosso calibro, con tanto di gambe d’appoggio come una mitragliatrice pesante - mentre a torso nudo prende la mira contro un imprecisato bersaglio, visto che si trova al chiuso di una stanza sotto un paio di macabri trofei di caccia. Questo signore dopo una lunga e remunerata trasferta in Bosnia - dove si è prodotto in ulteriori foto mentre esegue un saluto cetnico - è Magistrato di Cassazione Ognuno è ancora libero di farsi poi la propria opinione.

Posta su Facebook il saluto cetnico. E' un giudice italiano in missione in Bosnia. Si tratta di Alberto Landolfi, ex pm antimafia a Savona, ora a Mostar, la città di genocidi e pulizie etniche. E' in missione come esperto criminale della polizia europea, ma sul social network posta la foto in cui fa il gesto simbolo degli ultranazionalisti serbi. Questo è quanto scrive  Ferruccio Sansa su Il Fatto Quotidiano del 24 gennaio 2012. Il magistrato fa il saluto. Cetnico. Peccato che il pm presti servizio a Mostar, la città di genocidi e pulizie etniche. E che abbia messo l’immagine nella sua bacheca Facebook accessibile su internet. Appena comparsa la fotografia aveva suscitato polemiche. Si vedono due signori aitanti in costume da bagno che mostrano le tre dita. Il saluto cetnico, però, non è un gesto da compagnoni, ma ha un (pesante) significato: è uno dei simboli degli ultranazionalisti serbi. Il gesto minaccioso mostrato da ‘Ivan il Terribile’, il tifoso serbo che scatenò i disordini durante la partita tra Italia e Serbia (annullata a Genova nel 2010). Pollice, indice e medio, come gli amici della Tigre Arkan, protagonista di alcune delle più terribili pagine della guerra Jugoslava. Così qualcuno ha scavato per capire chi è il signore fotografato. E la sorpresa è stata grande: Alberto Landolfi per anni è stato pm dell’Antimafia a Savona, poi a Genova. Prima di andare in missione in Bosnia Erzegovina, a Mostar, presso la European Police Mission nella sua veste di Criminal Justice Expert. Ma com’è possibile che un magistrato impegnato in una città dove l’odio etnico cova ancora sotto le macerie esponga un’immagine in cui compie il saluto dei cetnici? Giorni dopo aver pubblicato la sua foto su internet, il magistrato ha aggiunto un commento: “Un po’ serbi … ma scherzavamo”. Una spiegazione che a Mostar potrebbe risultare ancora più scomoda della fotografia. Ma nella galleria di Landolfi ecco anche immagini del magistrato a torso nudo che mostra muscoli e tatuaggi e imbraccia un fucile da guerra. Poi informazioni sulle grandi passioni di Landolfi, come le Porsche. Non è la prima volta che Landolfi è oggetto di polemiche per le sue immagini in libera circolazione. Due anni fa il pm dell’Antimafia si era fatto ritrarre in un manifesto pubblicitario della Ruinart, casa produttrice di champagne, e della discoteca “La Suerte” di Laigueglia. Foto (finite su Repubblica) che ritraevano un contesto non esattamente istituzionale: nelle serate tutte divertimento e bollicine accanto a Landolfi con maglietta attillata appaiono rappresentanti locali dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Capitaneria di Porto. Poi politici, come Silvano Montaldo, all’epoca vicesindaco di Laigueglia. Uno degli uomini di fiducia di Claudio Scajola che lo volle in Finmeccanica così come nella Carige (la Cassa di Risparmio di Genova e Imperia dove siedono diversi membri della famiglia dell’ex ministro). Insieme con tanti esponenti istituzionali le foto mostravano statuarie e biondissime bellezze dell’Est, le ragazze immagine del privé della discoteca. Landolfi si difese a suon di querele, sostenendo anche di non aver autorizzato l’uso della sua immagine per motivi pubblicitari. Insomma, sarebbe tutto avvenuto a sua insaputa. Le foto di Landolfi emergono proprio nei giorni in cui altre immagini scomode suscitano un terremoto. È una storia diversa, certo, parliamo del filmato di Mario Vattani mentre canta canzoni fascio-rock a Casa Pound. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi aveva annunciato l’apertura di un’indagine interna e ieri sera il console è tornato in Italia da Osaka, Giappone. Le sanzioni contro di lui, a parte quelle pecunarie, potrebbero arrivare a un sospensione di diversi mesi dall’incarico.

Ma anche “La Repubblica” si è interessata a Alberto Landolfi. Antimafia e foto spot per lo champagne. Fanno discutere le notti rivierasche alla discoteca la Suerte del pm Landolfi. Le feste nel privè con esponenti delle forze dell'ordine, politici e ragazze immagine è il resoconto di Marco Preve. Pochi marchi possono vantare come "testimonial" un pm dell'antimafia attualmente impegnato in missione nella ex Jugoslavia. Chi può permetterselo è, invece, la Ruinart, prestigiosa casa francese produttrice di un altrettanto esclusivo champagne. Capita, infatti, che sulle pagine del sito Philarmonica, società che promuove vini di classe, compaia anche il sostituto procuratore Alberto Landolfi, una carriera quasi ventennale nella procura di Savona, nel 2010 per poche settimane in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Genova prima partire per Mostar, in Bosnia, per ricoprire il ruolo di "justice criminal expert". Landolfi, riccioli brizzolati, maglietta bianca attillata e abbronzatura invidiabile, appare a sorpresa in un collage fotografico che reclamizza la Ruinart, e lo si vede brindare sorridente con in mano un calice pieno del prezioso rosè (70 euro per 0,75 lt). E' probabile che il magistrato non sapesse che la sua immagine sarebbe stata utilizzata a scopi pubblicitari, e la spiegazione dell'equivoco è semplice. La pagina on line in questione è, infatti, legata a una particolare promozione dello champagne. La scorsa estate, come recita la didascalia dello spot "Ogni sabato alla discoteca La Suerte, di Laigueglia, una bottiglia di Ruinart accoglierà gli ospiti del privé". Infatti, accanto a Landolfi nella foto compare anche Arcangelo Pisella, il titolare della Suerte, la discoteca più nota della riviera di ponente. La foto delle bollicine è, tra l'altro, solo l'ennesima di una serie di immagini e video girati negli ultimi due anni nelle effervescenti notti estive della Suerte. Il pm dell'antimafia così come rappresentanti locali dei carabinieri, della guardia di finanza e della Capitaneria sono stati immortalati in compagnia di Pisella, di statuarie e biondissime ragazze immagine provenienti dall'est Europa e di politici. Ospite d'onore ad alcune delle serate più trendy nell'ormai celebre privè era anche Silvano Montaldo, commercialista di professione, che oltreché essere vicesindaco di Laigueglia è uno degli uomini di fiducia di Claudio Scajola che lo volle in Finmeccanica così come in Carige e commissario o liquidatore in aziende di mezza Italia. Le calde notti della Suerte e soprattutto le ultime fotografie (alcune già rese note dagli attivisti del sito della Casa della Legalità querelata da Landolfi per i commenti che accompagnavano le immagini) stanno comunque suscitando scalpore negli ambienti istituzionali savonesi e non solo. Colpisce, infatti, il concentrato di poteri raccolti, anzi abbracciati come dimostrano le foto, al vulcanico patron della Suerte oppure al fianco delle attraenti ragazze in minigonna. Specie considerando il fatto che i locali notturni, al pari di altre imprese commerciali sono comunque soggette a controlli e verifiche di varia natura sia per quanto riguarda gli aspetti amministrativi, che quelli fiscali, che l'ordine pubblico. Così come capita che l'operato di enti ed amministrazioni diventi oggetto di indagine per la polizia giudiziaria o la magistratura. Pare che il fotoservizio sia stato anche segnalato alla procura di Savona che, però, coinvolgendo la questione un magistrato fino a poco tempo prima in servizio negli stessi uffici, non potrebbe far altro che dirottare il tutto alla competente procura di Torino (dove già pende la querela di Landolfi a Christian Abbondanza della Casa della Legalità) oppure al Csm per eventuali aspetti disciplinari e deontologici.

Per questo, come racconta IVG  La procura Generale di Genova ha aperto un fascicolo interno sulle notti in discoteca del pm savonese Alberto Landolfi. La notizia arriva dalle pagine di Repubblica che, con tanto di foto e video, pone l’accento sulle serate allegre del pm dell’antimafia attualmente impegnato in missione nella ex Jugoslavia. Scatti di Landolfi sorridente e abbronzatissimo con tanto di champagne Ruinart in mano, utilizzati on line a scopi pubblicitari e che vedono il pm nelle vesti di testimonial probabilmente inconsapevole del prestigioso champagne, sorseggiato all’interno della discoteca La Suerte di Laigueglia, di cui sembra essere un cliente abituale. Questa foto, tra l’altro, sarebbe solo l’ennesima di una serie di immagini e video girati negli ultimi due anni nelle effervescenti notti estive del locale laiguegliese. “Il pm dell’antimafia – si legge su Repubblica – così come rappresentanti locali dei carabinieri, della guardia di finanza e della Capitaneria sono stati immortalati in compagnia del titolare de La Suerte Pisella, di statuarie e biondissime ragazze immagine provenienti dall’est Europa e di politici. Ospite d’onore ad alcune delle serate più trendy nell’ormai celebre privè era anche Silvano Montaldo, vicesindaco di Laigueglia e uno degli uomini di fiducia di Claudio Scajola”. Tutte immagini che stanno creando scalpore negli ambienti istituzionali savonesi e non solo. Alberto Landolfi ha alle spalle una carriera quasi ventennale nella procura di Savona, nel 2010 per poche settimane in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Genova per poi partire per Mostar, in Bosnia, per ricoprire il ruolo di “justice criminal expert”. Pochi marchi possono vantare come "testimonial" un pm dell'antimafia attualmente impegnato in missione nella ex Jugoslavia. Chi può permetterselo è, invece, la Ruinart, prestigiosa casa francese produttrice di un altrettanto esclusivo champagne. Capita, infatti, che sulle pagine del sito Philarmonica, società che promuove vini di classe, compaia anche il sostituto procuratore Alberto Landolfi, una carriera quasi ventennale nella procura di Savona, nel 2010 per poche settimane in forza alla Direzione distrettuale antimafia di Genova prima partire per Mostar, in Bosnia, per ricoprire il ruolo di "justice criminal expert". Landolfi, riccioli brizzolati, maglietta bianca attillata e abbronzatura invidiabile, appare a sorpresa in un collage fotografico che reclamizza la Ruinart, e lo si vede brindare sorridente con in mano un calice pieno del prezioso rosè (70 euro per 0,75 lt). E' probabile che il magistrato non sapesse che la sua immagine sarebbe stata utilizzata a scopi pubblicitari, e la spiegazione dell'equivoco è semplice. La pagina on line in questione è, infatti, legata a una particolare promozione dello champagne. La scorsa estate, come recita la didascalia dello spot "Ogni sabato alla discoteca La Suerte, di Laigueglia, una bottiglia di Ruinart accoglierà gli ospiti del privé". Infatti, accanto a Landolfi nella foto compare anche Arcangelo Pisella, il titolare della Suerte, la discoteca più nota della riviera di ponente. La foto delle bollicine è, tra l'altro, solo l'ennesima di una serie di immagini e video girati negli ultimi due anni nelle effervescenti notti estive della Suerte. Il pm dell'antimafia così come rappresentanti locali dei carabinieri, della guardia di finanza e della Capitaneria sono stati immortalati in compagnia di Pisella, di statuarie e biondissime ragazze immagine provenienti dall'est Europa e di politici. Ospite d'onore ad alcune delle serate più trendy nell'ormai celebre privè era anche Silvano Montaldo, commercialista di professione, che oltreché essere vicesindaco di Laigueglia è uno degli uomini di fiducia di Claudio Scajola che lo volle in Finmeccanica così come in Carige e commissario o liquidatore in aziende di mezza Italia. Le calde notti della Suerte e soprattutto le ultime fotografie (alcune già rese note dagli attivisti del sito della Casa della Legalità querelata da Landolfi per i commenti che accompagnavano le immagini) stanno comunque suscitando scalpore negli ambienti istituzionali savonesi e non solo. Colpisce, infatti, il concentrato di poteri raccolti, anzi abbracciati come dimostrano le foto, al vulcanico patron della Suerte oppure al fianco delle attraenti ragazze in minigonna. Specie considerando il fatto che i locali notturni, al pari di altre imprese commerciali sono comunque soggette a controlli e verifiche di varia natura sia per quanto riguarda gli aspetti amministrativi, che quelli fiscali, che l'ordine pubblico. Così come capita che l'operato di enti ed amministrazioni diventi oggetto di indagine per la polizia giudiziaria o la magistratura. Pare che il fotoservizio sia stato anche segnalato alla procura di Savona che, però, coinvolgendo la questione un magistrato fino a poco tempo prima in servizio negli stessi uffici, non potrebbe far altro che dirottare il tutto alla competente procura di Torino (dove già pende la querela di Landolfi a Christian Abbondanza della Casa della Legalità) oppure al Csm per eventuali aspetti disciplinari e deontologici. 

AMMAZZATE PURE, TANTO C'È LA GIUSTIZIA ITALIANA - UNO STALKER ARRESTATO E SUBITO SCARCERATO UCCIDE L'EX MOGLIE DAVANTI ALLA FIGLIA - AZIZ AVEVA GIA' TENTATO DI STRANGOLARLA, MA CON DUE ANNI DI CONDANNA È USCITO SUBITO. Il 2 giugno 2015 Aziz el Mountassir ha ucciso Loredana Colucci con decine di coltellate, prima di suicidarsi anche lui con la stessa lama - Condannato per stalking, non è andato in galera e i giudici avevano anche revocato il divieto di avvicinarsi alla casa e ai luoghi che frequentava con la moglie. Forse è stata la figlia a farlo entrare in casa..., scrive Giuseppe Filetto per “la Repubblica”. Era stato scarcerato a marzo, dopo avere patteggiato due anni di galera. La moglie lo aveva denunciato a dicembre, dopo mesi di stalking, maltrattamenti e violenze, addirittura un tentativo di strangolamento. Era seguito l’arresto. Ma Aziz El Mountassir, 51 anni, incensurato, era tornato libero, addirittura con la revoca del divieto di avvicinarsi all’abitazione di Loredana Colucci, 41 anni, e dei luoghi frequentati da lei. Così, ieri, alle 12,45 ha raggiunto il quarto piano di via Corridoni, dove fino a cinque mesi fa viveva con la moglie e le due figlie, ha impugnato un coltello da cucina e l’ha ammazzata. Poi, per 10 volte si è conficcato la stessa arma nel ventre, suicidandosi. Alla tragedia pare che abbia assistito la più piccola delle ragazze, studentessa di 13 anni. L’altra, di 20, era al lavoro. La figlia un quarto d’ora prima è stata vista in giro per Albenga, con il papà. Non è chiaro se sia salita in casa con lui, se abbia visto l’uomo impugnare il coltello e sia scappata in strada a chiedere aiuto; oppure, se sia rimasta giù ad attendere il genitore. Certo è che i vicini di casa prima hanno sentito discutere animatamente. E Loredana che ripeteva: «Una storia finita, è finita...». Poi le urla disperate. Sono stati loro a chiamare il 112 e quando i carabinieri sono giunti davanti alla porta, hanno trovato le chiavi appese alla serratura, dalla parte esterna. Attorno, un silenzio surreale. Gli uomini dell’Arma si sono trovati davanti a una mattanza: due corpi, uno vicino all’altro, sul pavimento del soggiorno-cucina. Loredana era già morta, l’ex marito respirava ancora, ma a nulla sono serviti i tentativi di rianimazione da parte di medici e infermieri mandati dal 118. Il suo cuore si è fermato alle 14,45. Secondo quanto ricostruito dal medico legale Marco Canepa, arrivato sul posto insieme al pm di turno, Vincenzo Carusi, la donna sarebbe stata colpita dal primo fendente di sorpresa, alle spalle, vicino al collo. Il marocchino, durante la lite, avrebbe preso un coltello dal ceppo appoggiato in cucina: una lama sottile e seghettata, lunga 25 centimetri. Dopo il primo colpo, Loredana avrebbe cercato di difendersi, riportando ferite alle braccia, poi le sono arrivate le coltellate mortali, ben cinque tutte al torace. Con la stessa lama, El Mountassir si è trafitto dieci volte, sei di questi al ventre, una al fianco. L’uomo ha cercato di colpirsi negli organi vitali. Molti altri particolari dovranno essere chiariti dall’autopsia sui due corpi, che il medico legale effettuerà nella giornata di oggi all’obitorio del cimitero di Zinola. La definitiva ricostruzione di quanto accaduto sarà fatta dai carabinieri della compagnia di Albenga, guidati dal maggiore Sandro Colongo: dovranno sentire la figlia, l’unica testimone che potrebbe raccontare di più, ma che fino alla tarda serata di ieri non ha potuto parlare, perché scossa dall’accaduto. Quella di Loredana Colucci è la cronaca di una morte annunciata, dell’ennesimo femminicidio che gli abitanti di via Corridoni, nel centro storico della cittadina savonese, dicono che si poteva evitare. Aziz non si era rassegnato alla separazione di fatto, avvenuta cinque mesi fa, in attesa di quella giudiziale. E per capire si scava nel passato della coppia. Loredana, originaria di Bari, dipendente del supermercato “Tuo” di Cisano sul Neva, ed Aziz, giardiniere, sarebbero andati a vivere ad Albenga dopo il matrimonio. Qui hanno avuto due figlie. I problemi sarebbero iniziati subito, fino alle liti ed ai maltrattamenti denunciati lo scorso anno. Poi l’arresto e la scarcerazione. La donna aveva paura e talvolta si faceva accompagnare a casa dai colleghi di lavoro. L’ex marito sospettava che avesse una relazione con un altro uomo.

Potrebbero arrivare gli ispettori del ministero della Giustizia nel tribunale di Savona, dopo le polemiche divampate in queste ore per l’omicidio suicidio di Albenga, scrive “L’Ansa”. Secondo quanto anticipato da La Stampa e dal Secolo XIX, infatti, la richiesta del pm di arrestare Mohamed El Mountassir, il marito di origini marocchine che ha ucciso Loredana Colucci e poi si è tolto la vita, sarebbe stata ignorata per tre volte dal gip nonostante le nuove denunce presentate dalla vittima. Loredana Colucci, secondo quanto ricostruito dai due quotidiani, lascia il marito nel dicembre 2014. A gennaio, l’ex marito afferra per il collo la ex davanti al supermercato dove lavorava e lei lo denuncia, e per questo El Mountassir finisce in carcere. A marzo, il legale dell’uomo ottiene gli arresti domiciliari e il divieto di avvicinamento alla donna, ma dopo venti giorni anche l’obbligo domiciliare viene meno e il marocchino deve solo tenersi a distanza dalla ex. Contemporaneamente nell’ufficio gip si insedia il magistrato Filippo Maffeo e sarà proprio lui a respingere per tre volte la richiesta del pm di arrestare El Mountassir per le nuove denunce e atti di violenza nei confronti della vittima. Era pendente presso il tribunale civile una richiesta di protezione contro gli abusi familiari presentata dall’avvocato di Loredana Colucci.

Uccisa dall’ex, il giudice ignorò tre richieste di arresto. Scatta l’inchiesta, scrivono Matteo Indice e Graziano Cetara su "Il Secolo XIX”. «È necessario guardare dentro questa storia. Perché il dolore e il senso d’impotenza che si respirano oggi nel palazzo di giustizia di Savona, non possono farci dimenticare che il sistema ha palesato molte falle e dobbiamo interrogarci per colmarle il più possibile. Ricordando tuttavia che errare, purtroppo, è umano». L’investigatore ripete a sera parole pesanti, mentre il senso dell’inchiesta che sta conducendo insieme a un pool di colleghi si dipana sempre più chiaro: nella morte di Loredana Colucci , la quarantunenne trucidata martedì ad Albenga dall’ex marito marocchino Mohamed El Mountassir, che non si rassegnava alla fine della loro storia ed era stato da poco scarcerato dopo averla già aggredita, i buchi sono stati troppi. Uno su tutti, rivelato dall’inchiesta interna che la Procura savonese sta portando avanti da alcuni giorni, con l’aiuto dei poliziotti e dei carabinieri che del caso si sono nel tempo occupati. Per tre volte, nel periodo in cui El Mountassir è stato in libertà, un giudice ha ignorato la richiesta di arrestarlo che gli era stata avanzata da un pubblico ministero, allarmato per le nuove minacce del nordafricano all’ex coniuge. Non solo: oggi si scopre che la nomina di quel magistrato era stata osteggiata dai suoi stessi colleghi, per presunte carenze «attitudinali». In precedenza era stato a sua volta denunciato per stalking, il giudice, e c’era chi non lo riteneva «idoneo». Per orientarsi in un caso su cui nei prossimi giorni potrebbe decidere di far luce con un’ispezione il ministero della Giustizia, non si può fare altro che ripercorrerlo da cima a fondo.

Un giudice punito per stalking ha liberato lo stalker assassino. Il magistrato che non ha fermato il killer in passato era stato trasferito per molestie a una collega Dice: la giustizia mi ha maltrattato. Come poteva essere sereno nel giudicare un caso simile al suo? Albenga, il giudice punito per stalking ha liberato lo stalker assassino, scrive Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Ma che razza di storia è questa? Proviamo a raccontarvela dall’inizio. Ad Albenga c’era una donna che si chiamava Loredana. Aveva sposato un marocchino, con lui aveva pure avuto una figlia, oggi 14enne. Poi ha deciso di lasciarlo. E quello, come purtroppo accade spesso, è diventato uno stalker. Ha cominciato a importunarla. A minacciarla. Ad aggredirla. Loredana si è rivolta allo Stato. Ha chiesto aiuto, ha chiesto protezione. Lo dicono tutti, no? Donne, dovete denunciare. Telefoni Rosa, campagne di sensibilizzazione, spot alla Tv: lo ripetono in continuazione. Loredana l’ha fatto: l’ha denunciato. Allora hanno ordinato all’uomo di non avvicinarsi più a lei. Ma lui, per tutta risposta, non solo s’è avvicinato: ha pure tentato di strangolarla. Loredana si è salvata per miracolo, l’ex marito è stato arrestato. Solo che dopo poche settimane è andato davanti al giudice, ha patteggiato la pena, solo 2 anni, condizionale e libertà immediata. E sapete che cosa ha fatto per prima cosa, appena uscito di cella? Ecco, avete indovinato: è tornato da Loredana e l’ha ammazzata senza pietà, sotto gli occhi della figlia di 14 anni. Poi si è ucciso. L’altro giorno sotto casa, c’era la mamma di Loredana, una signora dignitosissima seppur distrutta dal dolore. Si chiedeva: «A che serve denunciare le violenze se poi nessuno ti protegge?». Ce l’aveva in particolare con il giudice che aveva liberato l’assassino. «Perché l’ha fatto?». In effetti: il medesimo assassino aveva dato ampie dimostrazioni delle sue intenzioni. Aveva violato gli ordini. Aveva aggredito la donna che non doveva avvicinare. Diceva quella mamma, piena di amarezza: «Il magistrato diceva che per tenerlo in carcere voleva più prove. Ecco: ora la prova l’ha avuta». La prova sarebbe il cadavere di sua figlia. Che strano Paese questo: bisogna farsi ammazzare per dare la prova che si è in pericolo. Lo Stato non dà protezione ai vivi perbene: al massimo benedice le loro casse da morto. Ma questo è solo l’inizio di questa storia assurda. Il bello arriva ora. Perché dobbiamo dirvi due cose sul giudice che ha preso quella sfortunata decisione di lasciare libero l’assassino. Il giudice, infatti, si chiama Filippo Maffeo, ha 65 anni, lavora al tribunale di Savona ed è piuttosto noto alle cronache locali perché in passato era stato sanzionato dal Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati. E sapete qual era il reato che gli veniva imputato? Stalking. Proprio così. Aveva molestato una collega. L’aveva molestata a tal punto che era stato ordinato il suo trasferimento dalla sede di allora (Imperia) a Firenze. È stato allontanato dalla Liguria qualche anno. Purtroppo ci è tornato il 23 marzo 2015. Il 28 aprile 2015 ha tenuto l’udienza in cui ha liberato l’assassino. Forse è solo sfortuna, si capisce. L’applicazione della legge sarà stata sicuramente puntuale e rigorosa, come sostiene il medesimo Maffeo in un’intervista a La Stampa che sa tanto di excusatio non petita. Ma non ci si può fare a meno di chiedere quanto possa essere sereno nel giudicare un caso di stalking un giudice che è stato accusato di stalking. Quel che è certo è l’effetto di questa decisione: devastante. C’è una ragazzina di 14 anni che non ha più la mamma: l’ha visto uccidere a coltellate, sotto i suoi occhi. Se fosse stato un altro giudice avrebbe agito nello stesso modo? Magari sì, non possiamo escluderlo. Ma, ecco, noi ci sentiremmo più tranquilli se un molestatore di donne fosse giudicato da qualcuno che non è mai stato bollato (dal Csm) come molestatore di donne. E non possiamo fare a meno di sentire risuonare nelle nostre orecchie la voce di quella mamma: «Quel magistrato voleva più prove...». Perché voleva più prove? Perché quelle che aveva non bastavano? O perché non voleva infierire con uomo definito stalker proprio come era stato definito lui? Non ci permettiamo di mettere in relazione i due casi, ovviamente. Però è un fatto che nell’intervista a La Stampa, il medesimo Maffeo si dica piuttosto scettico sul funzionamento della giustizia: «La giustizia mi ha maltrattato...», dice. Ora: può amministrare con serenità la giustizia nei confronti di uomo accusato di stalking colui che pensa che la giustizia maltratti gli uomini accusati di stalking? Fa male vedere una toga che si arrampica sui vetri: «Il giudice dell’udienza preliminare si trova ad affrontare un caso di cui sa i dettagli quella mattina», dice per esempio. E ancora: «Una pena di due anni con il patteggiamento è una pena alta». Fino alla conclusione: «Ho fatto quello che un giudice poteva fare». Affermazioni da considerare attentamente. Dire che «il gup sa i dettagli del caso soltanto la mattina dell’udienza», che significa? È una specie di giustificazione? Un’ammissione? In altre parole sta dicendo: «Non sapevo»? «Non avevo letto fino in fondo»? «Ho deciso ma senza aver approfondito bene la questione»? Questo pensa Maffeo? Davvero? E davvero ritiene che due anni con la condizionale e la libertà immediata siano una «pena alta» per uno che ha tentato di strangolare una donna, e che potrebbe rifarlo subito dopo? Forse un giudice dovrebbe avere un po’ più di attenzione quando parla davanti ai cadaveri provocati dalle sue decisioni. Realmente ritiene di aver «fatto tutto quello che un giudice poteva fare»? Ci pensi bene, perché se è così smettiamola di dire alle donne che devono denunciare i loro molestatori. Perché lo Stato, di fatto, ammette di non saperle proteggere. «Non sono Frate Indovino», ripete ancora il magistrato. Nessuno, in effetti, chiede ai magistrati di essere Frati Indovini. Ma, ecco, magari si chiede loro di non liberare uno che ha appena tentato di strangolare la ex moglie. Poi si chiede loro anche di non importunare le colleghe in ufficio. Poi si chiede loro, quando sono chiamati a giudicare qualcuno, di essere equilibrati. Soprattutto si chiede loro di essere equilibrati a tal punto di non pensare di essere stati maltrattati dalla giustizia. E si chiede loro di non rilasciare interviste sgradevoli, in cui si cerca affannosamente di difendersi, dimostrando di avere una coda di paglia grande come un tribunale. Infine si chiede loro di non offendere le persone che, in seguito alla loro sentenza, hanno perso la vita, o la mamma, o la figlia. «Diciamo la verità», sostiene il magistrato, «nemmeno ora si conosce con esattezza cos’è accaduto in quella casa». Qualcuno glielo spieghi, per favore: una donna è morta, una figlia di 14 anni l’ha vista uccidere. Forse lei non se n’è ancora accorto, caro giudice, ma in quella casa c’è stata una tragedia. Colpa di uno stalker. Anzi, di due.

Delitto di Albenga, il giudice che ha rimesso in libertà il killer suicida: «Non ho sbagliato», scrive Marco Menduni su “Il Secolo XIX. «Come vuole che ci si senta, quando ci sono stati due morti? Uno ci pensa tutta la notte, si chiede se ha sbagliato qualcosa. Però non ho sbagliato, ho fatto il massimo che la legge mi permettesse». Filippo Maffeo, 65 anni, è giudice del tribunale di Savona. È il magistrato che, il 28 aprile, ha accettato il patteggiamento a due anni di Mohamed Aziz el Mountassir, il marocchino che ad Albenga ha ucciso a coltellate la moglie Loredana Colucci davanti agli occhi della figlia di 13 anni, per poi togliersi la vita. Dopo il patteggiamento per maltrattamenti in famiglia Mohamed, incensurato, è tornato in libertà per la condizionale. Era finito sotto processo, dopo poco meno di due mesi di carcere, per aver aggredito e messo le mani al collo alla moglie, dopo che quest’ultima aveva deciso di andarsene di casa. Prima del processo gli era stato ordinato di non avvicinarsi a meno di 100 metri da Loredana. Dopo, nemmeno più quel vincolo.

Dottor Maffeo, non poteva almeno decidere qualche limitazione in più, rispetto a una totale libertà di movimento per quell’uomo?

«Non potevo. Bisogna conoscere le cose, prima di parlare. Il giudice applica la legge e la legge, stavolta, è chiara» . Sfoglia, Maffeo, il codice di procedura penale, articolo 300: “Le misure perdono efficacia se la pena irrogata è condizionalmente sospesa”.

Vuol dire che, anche in questa situazione, la giustizia aveva le mani legate?

«Dico che il giudice dell’udienza preliminare si trova ad affrontare un caso di cui sa i dettagli quella mattina stessa. Era un caso singolo, il reato applicato, quello di maltrattamenti in famiglia, è un reato grave. E una pena di due anni con il patteggiamento è una pena alta, se si tiene conto dello sconto».

Pensa che la legge non tuteli abbastanza le vittime?

«In generale, temo che contro la follia umana anche la giustizia possa far poco. Ragionassi da “sbirro”, potrei dire: lo arresto e lo metto dentro comunque. Ma poi? Per quanto? Per tutta la vita? E sulla base di quale legge? E poi, siamo sicuri che un divieto di avvicinamento possa davvero servire a qualcosa?».

Il rammarico?

«Il rammarico è umano. Ma io sono un uomo di legge e di giustizia e queste sono le armi che ho e che rispetto. Anche se la giustizia mi ha maltrattato».

E qui il discorso prende un’altra piega

Stalking nei confronti della collega l'ex pm d'Imperia Filippo Maffeo punito anche dalla Corte di Cassazione, scrive Maurizio Vezzaro su “La Stampa”. Due mesi di anzianità perduti e il trasferimento in Toscana che è diventato definitivo. E' il provvedimento discplinare adottato contro l'ex magistrato della Procura di Imperia Filippo Maffeo, provvedimento che è stato confermato dalla sezione Unite Civili della Cassazione a cui si era rivolto Maffeo con un ricorso, e che fotocopia dunque il primo verdetto punitivo della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che aveva incolpato Maffeo di stalking nei confronti della collega Paola Marrali, ora in servizio alla Procura di Sanremo dopo esserci andata su sua richiesta. All'epoca dei fatti, si parla di più di due anni fa ormai, la dottoressa Marrali si era rivolta ai propri superiori segnalando una serie di comportamenti, da parte del collega Maffeo, sconfinati in veri e propri atti persecutori: Maffeo le avrebbe mandato sms dal contenuto ambiguo, si sarebbe fiondato nel suo ufficio senza che ci fossero motivi di carattere professionale, avrebbe chiesto continuamente di incontrarla anche fuori dall'ambito lavorativo. Alla fine il Csm, dopo una lunga e delicata indagine interna, aveva deciso di trasferire Maffeo togliendogli due mesi di anzianità per tutta una serie di incolpazioni rientranti in una sospetta condotta assillante e molesta. Alcune contestazioni sono state fatte cadere dalla Cassazione ma non l'accusa più grave, quella di stalking che, stando alle parole dei giudici della Cassazione, "ha causato profondo turbamento alla vita personale e familiare della dottoressa Marrali, con lesione del prestigio della magistratura in considerazione della notorietà che detta condotta aveva ricevuto". Con riferimento al secondo illecito, prosegue il provvedimento della Cassazione nel motivare il verdetto, conta "il fatto di avere, con la condotta ossessiva di cui al primo, creato pregiudizio allo svolgimento del lavoro della collega Marrali, entrando continuamente nel suo ufficio per sollecitare incontri, trattenendovisi ogni volta a lungo nonostante le chiare manifestazioni di insofferenza oppostegli, nonché di avere inviato alla collega, a seguito del netto rifiuto dalla stessa oppostogli, una lettera con la quale segnalava la situazione di incompatibilità in cui la medesima collega si sarebbe trovata a causa dell'esercizio della professione legale da parte della sorella, e di avere poi segnalato la detta incompatibilità al Consiglio superiore della magistratura". La Sezione disciplinare dopo avere riportato il contenuto delle dichiarazioni rese dalla donna 'vittima' delle attenzioni e quelle dell'ufficio difensivo del sostituto procuratore, ha preso in esame le risultanze dell'indagine disciplinare e delle asserzioni esposte nel corso dell'udienza disciplinare, giungendo alla conclusione che le condotte riferite dalla collega "avevano trovato riscontro nelle risultanze istruttorie". La stessa Sezione ha dunque valutato  le condotte contestate pienamente integranti il reato di cui all'art. 612-bis del Codice Penale,"essendosi una parte della condotta e il momento finale della consumazione del reato, di natura abituale, verificatisi dopo l'entrata in vigore del D.L. n. 11 del 2009 (25 febbraio 2009), con conseguente assoggettamento delle condotte stesse alla nuova fattispecie di reato". Con attinenza agli elementi costitutivi del reato, la Sezione ha ritenuto comprovato che la condotta dell'uomo avesse procurato nella collega "una forma ansiosa evidente". La Sezione disciplinare ha reputato provato anche il secondo degli illeciti contestati, attestato che il comportamento sotto accusa, oltre ad integrare la fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen., veniva a costituire un "comportamento abitualmente e gravemente scorretto nei confronti di un altro magistrato", condotta, questa, prevista dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d). Quanto alla determinazione della sanzione, la Sezione, tenendo in considerazione le caratteristiche dei fatti contestati, la situazione di disagio complessivo provocato nell'ufficio di appartenenza nonché la grave lesione al prestigio dell'ordine giudiziario e dell'immagine del magistrato incolpato, ha optato per l'inflizione della "sanzione della perdita di anzianità di mesi due, con applicazione della sanzione accessoria del trasferimento d'ufficio, confermando la destinazione dell'incriminato alla funzione di magistrato distrettuale requirente presso la Corte d'appello di Firenze".